Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
NOTA BENE
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ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI
(pagine) GIANGRANDE LIBRI
WEB TV: TELE WEB ITALIA
NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
LECCE
DI ANTONIO GIANGRANDE
TUTTO SU LECCE
I LECCESI SONO DIVERSI DAGLI ALTRI?!?!
Quello che i Leccesi non avrebbero mai potuto scrivere.
Quello che i Leccesi non avrebbero mai voluto leggere.
di Antonio Giangrande
SOMMARIO
INTRODUZIONE
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
MAI DIRE ANTIMAFIA. QUELLI CHE SONO ANTIMAFIOSI. QUELLI CHE SONO PER LA LEGALITA'.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
MARITATI FAMILY.
LOREDANA CAPONE & FRIENDS.
NOEMI DURINI. IL DELITTO DI SPECCHIA.
PARLIAMO DI LECCE.
LEGULEI COPIONI.
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.
ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
STATO DI DIRITTO?
CHI E’ IL POLITICO?
CHI E’ L’AVVOCATO?
DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
ITALIA DA VERGOGNA.
ITALIA BARONALE.
CASA ITALIA.
ITALIA. SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
ITALIA: PAESE ZOPPO.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.
FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.
ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.
LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.
LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.
LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.
L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
NON VI REGGO PIU’.
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
SE NASCI IN ITALIA…
DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.
GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.
L’ANTIMAFIA DEI RECORD.
LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.
IL SUD TARTASSATO.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
LECCE E LE SUE UTOPIE: CULTURALI, SPORTIVE, GIUDIZIARIE.
AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO.
ANGELA PETRACHI. IL DELITTO DI MELENDUGNO. LA CONDANNA DI GIOVANNI CAMASSA E’ UN ERRORE GIUDIZIARIO?
LECCE E CAGLIARI: AVVOCATI CON LE PALLE.
ANCHE QUESTA E’ MAFIA. IL PIZZO DEGLI OMBRELLONI.
MAI DIRE ANTIMAFIA.
IL SEGRETO DI PULCINELLA. LA MAFIA E’ LO STATO.
IL CASO DEL FINANZIERE GIUSEPPE FABIO ZECCA E LA GUERRA CON LA PROCURA DELLA REPUBBLICA DI LECCE.
CASO YLENIA ATTANASIO. I MAGISTRATI FAVORIRONO L'IMPUTATO?
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE, MA NON PER TUTTI.
A PROPOSITO DEI COPIONI ALL’ESAME DI AVVOCATO A LECCE.
AVVOCATI, MA ANCHE NOTAI E MAGISTRATI….COSI’ FAN TUTTI. COPIARE.
ITALIA, TARANTO, AVETRANA: IL CORTOCIRCUITO GIUSTIZIA-INFORMAZIONE. TUTTO QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.
LETTERA AL DEPUTATO MAI ELETTO.
DENUNCIA CONTRO UN MAGISTRATO.
SPECIALE PAOLO PAGLIARO E TELERAMA.
SPECIALE CANALE 8 TV.
SPECIALE ANTENNA SUD.
MAGISTRATI SOTTO INCHIESTA.
MAGISTRATI INDIPENDENTI?
GIUSTIZIA AD OROLOGERIA? CONDANNATO RAFFAELE FITTO.
POLITICA ED INFORMAZIONE: CORRUTTELA MEDIATICA E FAZIOSITA’ O GIUSTIZIA AD OROLOGERIA?
ACCORPAMENTO. BRINDISI E MOLTA PARTE DELLA SUA PROVINCIA SCEGLIE LECCE.
GIUDICI CONTRO GIUDICI.
FIDARSI DI CHI? CONCORSI TRUCCATI O INSABBIAMENTI?
MAI DIRE MAFIA, MAFIOSO E MAFIOSITA’. MAGISTRATI INDAGATI: TANTI; ARRESTATI: ZERO.
UNA UNIVERSITA': UNA CITTA'.
A PROPOSITO DI MAGISTRATI POLITICIZZATI:
I CONTRIBUTI ALLE TV LOCALI: DENUNCIATE IRREGOLARITA’.
SALENTO MASSONE.
SALENTO MAFIOSO.
COMUNE, IL VASO DI PANDORA.
CONCORSOPOLI A LECCE. ACCESSO ALL'AVVOCATURA.
ACCESSO ALL'ACCADEMIA BELLE ARTI.
MALAGIUSTIZIOPOLI.
AVETRANA, DELITTO DI SARAH SCAZZI E DINTORNI.
COPERTINO. IL FATTACCIO ALLA SCUOLA MORVILLO-FALCONE.
GALATINA E LE SNIFFATE IN OSPEDALE.
GALLIPOLI, MAFIOPOLI.
GALLIPOLI E L'ASSENTEISMO.
GALLIPOLI. BANCOPOLI E INGIUSTIZIOPOLI.
MAGLIE. AMBIENTE E GIUSTIZIA: CHI COPRE CHI?
MORCIANO DI LEUCA E LA POLITICA.
NARDO'. BANCOPOLI E INGIUSTIZIOPOLI.
PARABITA E LA MAFIA.
PORTO CESAREO E GLI ABUSI EDILIZI.
RUFFANO E LA POLITICA.
SANARICA E LA POLITICA.
SAN DONATO E LA PUBBLICA DECENZA.
SPECCHIA E LA POLITICA.
LOTTE DI POLTRONE. CHI COMANDA A LECCE? ADRIANA POLI BORTONE "POLI POLTRONE" O RAFFAELE FITTO "IL PETTINATO, FIGLIO DI UN VECCHIO DEMOCRISTIANO"?
XILELLA FASTIDIOSA: RESPONSABILITA' DI STATO.
LA PAROLA CAZZO NEL DIALETTO SALENTINO.
INTRODUZIONE
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.
Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.
La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868)
Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.
27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia.
11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta".
15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura.
27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia.
30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani.
31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare.
2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo.
17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio.
10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.
21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore".
1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”.
1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.
8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia.
15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)
1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera.
1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta.
1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi.
1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc.
4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola.
Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6: “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.
Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.
MAI DIRE ANTIMAFIA. QUELLI CHE SONO ANTIMAFIOSI. QUELLI CHE SONO PER LA LEGALITA'.
Lecce, arrestato pm: favori e prestazioni sessuali per aggiustare indagini su medici e dirigenti Asl. Emilio Arnesano in carcere come il dirigente dell'azienda sanitaria Carlo Siciliano, ai domiciliari il dg Narracci e un'avvocata che avrebbe offerto prestazioni sessuali per far pilotare al magistrato i procedimenti da lei seguiti, scrive Chiara Spagnolo il 6 dicembre 2018 su "La Repubblica". Una piscina abusiva dissequestrata e un'inchiesta nei confronti di un dirigente dell'Asl di Lecce archiviata: è iniziata così l'inchiesta che ha portato in carcere Il sostituto procuratore di Lecce Emilio Arnesano, accusato di corruzione e abuso d'ufficio dalla Procura di Potenza. Il magistrato avrebbe anche chiesto e ottenuto favori sessuali da giovani avvocate, in cambio di aiuto nei procedimenti a loro assegnati e negli esami di abilitazione. In carcere è finito anche Carlo Siciliano, dirigente dell'azienda sanitaria, mentre gli arresti domiciliari sono stati disposti per Ottavio Narracci, direttore generale Asl, Giorgio Trianni e Giuseppe Rollo, dirigenti Asl, Benedetta Martina, avvocato di Lecce. Per Antonio Salvatore Ciardo è stato disposto il divieto di dimora a Lecce. È stata inoltre sequestrata una piscina in casa di Trianni e la barca di Arnesano, del valore di 18.400 euro che sarebbe il profitto della corruzione. L'inchiesta, condotta della guardia di finanza di Lecce, riguarda numerosi episodi di corruzione, di cui il magistrato si sarebbe macchiato per indirizzare procedimenti giudiziari e lui assegnati in maniera favorevole rispetto a quegli indagati che gli promettevano regalie. Nella richiesta di custodia cautelare, il pm potentino Francesco Curcio parla di "un collaudato sistema di vendita delle funzioni giudiziarie, in cui garantiva favori a dirigenti e medici della Asl". In merito alle contestazioni che riguardano i dirigenti Asl, il pm Francesco Curcio parla invece di "Un collaudato sistema di vendita delle funzioni giudiziarie, in cui Arnesano garantiva reiteratamente favori a dirigenti e medici dell'Asl, a partire dagli amici di Carlo Siciliano". Per quanto riguarda Narracci (che fino al 2015 era stato direttore sanitario dell'azienda salentina e da gennaio scorso ne è diventato direttore generale), per esempio, è stato certificato l'intervento di Arnesano per indirizzare favorevolmente un processo per peculato di cui era protagonista e nell'ambito del quale fu effettivamente assolto. Storia simile per Giorgio Trianni, dirigente dell'azienda, protagonista di un'indagine per la costruzione di una piscina abusiva, marchiavi alta con tanto di dissequestro della struttura da parte del magistrato finito in carcere. In cambio di tale favore, Arnesano avrebbe ricevuto da Trianni un soggiorno con battute di caccia. Altri favori li avrebbe ottenuti dagli altri dirigenti dell'Asl e anche da molti medici. Da Siciliano, per esempio, avrebbe avuto un'imbarcazione di dodici metri a un prezzo di gran lunga inferiore a quello di mercato nonché "mazzette" in contanti su cui sono ancora in corso le indagini. Da medici in servizio nelle strutture sanitarie salentine, invece, avrebbe avuto trattamenti di favore nelle prenotazioni di visite mediche, nella prenotazione di interventi non solo per se ma anche per familiari e amiche. "Ho preso atto dell'ordinanza e voglio specificare che nessuno dei capi di imputazione ha a che fare con le attività dell'Asl di Lecce". Lo ha sostenuto il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano che adesso dovrà nominare un commissario per sostituire il numero uno dell'azienda sanitaria locale.
Barca, soldi e sesso per «aggiustare» indagini: arrestato un pm a Lecce. Domiciliari anche per dirigenti Asl. Il magistrato Emilio Arnesano in carcere: avrebbe favorito le cause di una avvocatessa e «venduto» indagini relative ai manager sanitari, scrive La Gazzetta del Mezzogiorno il 6 Dicembre 2018. Emilio Arnesano, pubblico ministero a Lecce, è stato arrestato stamani su ordine del gip di Potenza, nell’ambito di un’inchiesta della Procura della Repubblica del capoluogo lucano su favori e prestazioni sessuali ottenuti dal magistrato. È stato disposto anche il sequestro di un’imbarcazione e di oltre 18 mila euro nei confronti dello stesso magistrato, «in quanto profitto del reato di corruzione». Il gip di Potenza ha posto agli arresti domiciliari altre quattro persone nella stessa inchiesta che ha portato all’arresto del pm di Lecce, Emilio Arnesano. Sono tre dirigenti dell’Asl di Lecce - Ottavio Naracci, direttore generale, e due dirigenti, Giorgio Trianni e Giuseppe Rollo, e dell’avvocato Benedetta Martina. Inoltre, è stato ordinato il divieto di dimora a Lecce dell’avvocato Salvatore Antonio Ciardo. Arnesano è accusato di «delitti commessi con abuso e vendita delle proprie funzioni» di magistrato. Durante indagini durate circa quattro mesi, sono emersi, a carico del pm di Lecce, «episodi di corruzione in atti giudiziari, di induzione a dare o promettere utilità e di abuso di ufficio». Arnesano avrebbe «venduto, in più procedimenti, l'esercizio della sua funzione giudiziaria in cambio di incontri sessuali ed altri favori». In particolare è finito sotto la lente investigativa della Procura della Repubblica di Potenza il «rapporto corruttivo, consolidato e duraturo», con l’avvocato Benedetta Martina (agli arresti domiciliari): il pm «pilotava procedimenti in cui gli indagati erano assistiti dall’avvocato Martina, ottenendo in cambio prestazioni sessuali» dal legale.
LE ARCHIVIAZIONI PER I VERTICI ASL - In relazione agli arresti domiciliari decisi dal gip per i tre dirigenti della Asl di Lecce, Arnesano avrebbe garantito loro «l'esito positivo di procedimenti giudiziari a carico», ottenendo in cambio una barca di 12 metri a piccolo prezzo, soggiorni gratuiti e interventi medici agevolati. Il pm è accusato di aver chiesto (e poi ottenuto dal Tribunale di Lecce) l’assoluzione di Narracci dall’accusa di peculato e abuso d’ufficio, indagine nata a seguito di una denuncia anonima recapitata all’allora governatore Nichi Vendola e relativa all’uso personale, da parte di Narracci (all’epoca direttore sanitario della Asl di Lecce), di un’auto aziendale che avrebbe utilizzato per gli spostamenti personali dalla residenza di Fasano alla sede della Asl di Lecce.
AVEVA ANCHE AGEVOLATO L'ESAME DI UN AVVOCATO - Emilio Arnesano, il pm di Lecce arrestato stamani su ordine del gip di Potenza (la Procura del capoluogo lucano è competente per i reati commessi dai magistrati del distretto della Corte di Appello di Lecce), agevolò anche l’esame orale di avvocato di una «giovane collega" dell’avvocato Martina. Arnesano contattò l’avvocato Ciardo, componente della commissione d’esame, e l’avvocato Federica Nestola superò la prova. Nell’ufficio del pm ci fu un incontro (fra Arnesano, Ciardo e Nestola) in cui furono «definite le domande» da porre alla candidata. Il pm, inoltre, intervenne presso il presidente del collegio di disciplina dell’Ordine degli avvocati di Lecce, Augusto Conte, su richiesta dell’avvocato Manuela Carbone. Anche in tal caso ci fu un incontro fra Arnesano e Conte, durante il quale "la richiesta veniva avanzata e accettata": il pm, poi, chiese all’avvocato Carbone, «in cambio del suo intervento, delle prestazioni sessuali». Le indagini che hanno portato all’arresto, stamani, del pm di Lecce, Emilio Arnesano, sono cominciati con una «singola e specifica notizia di reato» a carico del magistrato da parte della Procura salentina, inviata alla Procura della Repubblica di Potenza. La segnalazione riguardava un provvedimento di dissequestro di una piscina di Giorgio Trianni, dirigente dell’Asl di Lecce, "con successiva richiesta di archiviazione della notizia di reato». Arnesano, in cambio, ottenne da Triani «un soggiorno con annesse battute di caccia». Oggi il gip ha disposto il sequestro della piscina «risultata oggetto di mercimonio» fra Arnesano e Trianni, di una barca e di 18.400 euro del magistrato, «in quanto profitto del reato di corruzione».
EMILIANO: «FATTI NON LEGATI ALL'ATTIVITA' DELLA ASL» - «Ho preso atto dell’ordinanza e voglio specificare che nessuno dei capi di imputazione ha a che fare con le attività dell’Asl di Lecce». Lo ha sostenuto il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, parlando oggi a Bari con i giornalisti dei tre dirigenti dell’Asl di Lecce - Ottavio Naracci, direttore generale, e due dirigenti, Giorgio Trianni e Giuseppe Rollo - posti agli arresti domiciliari su ordine del gip di Potenza nell’ambito dell’inchiesta che ha portato all’arresto del pm di Lecce, Emilio Arnesano. «Nessuna delle imputazioni ha a che fare quindi con le attività dell’Asl di Lecce e men che mai della Regione Puglia. Sono relazioni personali, per quel che ho capito ed ammesso che - ha spiegato Emiliano - siano provate dagli uffici giudiziari, tra singole persone effettivamente dipendenti Asl con un singolo magistrato. Si tratta di fatti privati che la magistratura esaminerà e giudicherà ma che nulla hanno a che vedere con nostra attività. Ora dovrò nominare - ha concluso Emiliano - un commissario che sostituisca il direttore generale in questo momento agli arresti domiciliari».
Lecce, favori e prestazioni sessuali: arrestato il pm Emilio Arnesano. Ai domiciliari il direttore generale dell’Asl. Secondo l'accusa, il sostituto procuratore ha "venduto, in più procedimenti, l'esercizio della sua funzione giudiziaria in cambio di incontri sessuali ed altri favori". Per quanto riguarda il coinvolgimento di tre dirigenti dell'azienda sanitaria salentina, il magistrato ha garantito loro "l'esito positivo di processi giudiziari a carico" ricevendo benefit e trattamenti di riguardo, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 6 dicembre 2018. Corruzione in atti giudiziari, induzione a dare o promettere utilità a pubblico ufficiale e abuso di ufficio. Con queste accuse, sono state arrestate sei persone a Lecce in un’inchiesta della Procura di Potenza, competente sui magistrati del distretto della Corte d’Appello del capoluogo salentino. Perché tra gli arrestati c’è anche Emilio Arnesano, sostituto procuratore della procura leccese. Due persone, il pm Arnesano e il dirigente della Asl di Lecce Carlo Siciliano, sono finiti in carcere; altre quattro ai domiciliari: sono il direttore generale della Asl di Lecce, Ottavio Narracci, due dirigenti dell’Asl (Giorgio Trianni e Giuseppe Rollo) e l’avvocato Benedetta Martina. Disposto anche un divieto di dimora nei confronti dell’avvocato Salvatore Antonio Ciardo. Le misure cautelari sono state firmate dal gip del tribunale di Potenza e le indagini sono state effettuate dalla Guardia di Finanza di Lecce. Sotto sequestro una piscina, oggetto di un procedimento penale, e un’imbarcazione ritenuta profitto del reato del delitto di corruzione. L’inchiesta della Procura lucana verte anche su favori e prestazioni sessuali ottenuti dal magistrato. Arnesano è accusato di “delitti commessi con abuso e vendita delle proprie funzioni” di magistrato. Durante indagini durate circa quattro mesi sono emersi, a carico del pm di Lecce, “episodi di corruzione in atti giudiziari, di induzione a dare o promettere utilità e di abuso di ufficio”. Arnesano avrebbe “venduto, in più procedimenti, l’esercizio della sua funzione giudiziaria in cambio di incontri sessuali ed altri favori”. Tre gli episodi contestati. In particolare è finito sotto la lente investigativa della Procura della Repubblica di Potenza il “rapporto corruttivo, consolidato e duraturo”, con l’avvocato Benedetta Martina (agli arresti domiciliari): il pm “pilotava procedimenti in cui gli indagati erano assistiti dall’avvocato Martina, ottenendo in cambio prestazioni sessuali” dal legale. In uno dei casi contestati dall’accusa, il pm intervenne presso il presidente del collegio di disciplina dell’Ordine degli avvocati di Lecce, Augusto Conte, su richiesta dell’avvocato Manuela Carbone. Anche in tal caso ci fu un incontro fra Arnesano e Conte, durante il quale “la richiesta veniva avanzata e accettata”: il pm, poi, chiese all’avvocato Carbone, “in cambio del suo intervento, delle prestazioni sessuali”. Secondo l’accusa, Emilio Arnesano agevolò anche l’esame orale di avvocato di una “giovane collega” dell’avvocato Martina. Arnesano contattò l’avvocato Ciardo, componente della commissione d’esame, e l’avvocato Federica Nestola superò la prova. Nell’ufficio del pm ci fu un incontro (fra Arnesano, Ciardo e Nestola) in cui furono “definite le domande” da porre alla candidata. Infine, sempre stando alle indagini, il pm avrebbe chiesto prestazioni sessuali ad un’altra avvocata che gli aveva chiesto di intervenire in suo favore con il presidente del collegio di disciplina costituito presso l’Ordine degli avvocati di Lecce. Per quanto riguarda gli arresti domiciliari decisi dal gip per i tre dirigenti della Asl di Lecce, Arnesano avrebbe garantito loro “l’esito positivo di procedimenti giudiziari a carico”, ottenendo in cambio una barca di 12 metri (sequestrata) pagata in contanti ad un prezzo ritenuto dagli inquirenti di gran lunga inferiore al prezzo di mercato. Oltre all’imbarcazione, per l’accusa il pm ha ottenuto soggiorni gratuiti e interventi medici agevolati, nella prenotazione di visite mediche, nella prenotazione di interventi per familiari, nelle visite a persone di sua conoscenza. Sotto la lente degli investigatori è finito il dissequestro di una piscina di un altro dirigente Asl (Giorgio Trianni, pure arrestato) da parte del pm Arnesano, titolare del procedimento penale di cui lo stesso ha poi chiesto l’archiviazione, che sarebbe avvenuto in cambio di un soggiorno con annesse battute di caccia. Le indagini che hanno portato all’arresto di Emilio Arnesano sono cominciate con una “singola e specifica notizia di reato” a carico del magistrato da parte della Procura salentina, inviata alla Procura della Repubblica di Potenza. La segnalazione riguardava proprio il dissequestro della piscina del dirigente Asl Giorgio Trianni, “con successiva richiesta di archiviazione della notizia di reato”. Oggi il gip ha disposto il sequestro della piscina “risultata oggetto di mercimonio” fra Arnesano e Trianni, di una barca e di 18.400 euro del magistrato, “in quanto profitto del reato di corruzione”.
Favori sessuali in cambio di provvedimenti giudiziari: arrestato il pm Arnesano. Ai domiciliari il direttore Asl Narracci e due primari, scrive Alessandro Cellini Giovedì 6 Dicembre 2018 su Il Quotidiano di Puglia. Terremoto giudiziario nella Procura e nella Asl di Lecce: in manette è finito il pubblico ministero Emilio Arnesano, arresti domiciliari per il direttore generale Ottavio Narracci. In carcere anche Carlo Siciliano, dirigente Asl. Arresti domiciliari per Giorgio Trianni e Giuseppe Rollo, primari rispettivamente dei reparti di Neurologia e Ortopedia dell'ospedale "Vito Fazzi" di Lecce, e Benedetta Martina, avvocato del Foro di Lecce. L'accusa è di corruzione in atti giudiziari, induzione a dare o promettere utilità a pubblico ufficiale e abuso di ufficio. I provvedimenti sono stati eseguiti questa mattina dai militari del Nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di finanza di Lecce.
I favori sessuali. L'inchiesta, condotta dalla Procura di Potenza (cui è passata, per competenza, visto il coinvolgimento di un magistrato salentino), è durata quattro mesi ed è partita da un'indagine a carico del pm Arnesano e di altre persone avviata dalla Procura di Lecce. Al centro dell'inchiesta, un provvedimento di dissequestro di una piscina disposto dal pm Arnesano, con relativa richiesta di archiviazione del fascicolo a carico di Trianni. Quest'ultimo, poi, avrebbe offerto dei soggiorni con battute di caccia al magistrato leccese. Nel corso degli approfondimenti svolti dalla Procura potentina, poi, sarebbero emersi ulteriori episodi corruttivi a carico di Arnesano. Gli investigatori sostengono che il pm avesse «venduto, in più procedimenti, l'esercizio della sua funzione giudiziaria in cambio di incontri sessuali e di altri favori». Il magistrato avrebbe stretto un «rapporto corruttivo» con l'avvocato Benedetta Martina: «In numerose occasioni il sostituto procuratore pilotava procedimenti in cui gli indagati erano assistiti dall'avvocato Martina ottenendo in cambio prestazioni sessuali dalla medesima». E sempre finalizzato a ottenere prestazioni sessuali sarebbe stato l'interessamento per una praticante avvocato, affinché potesse superare l'esame di abilitazione. In questo contesto, Arnesano avrebbe contattato un avvocato componente della commissione d'esame, con il quale si sarebbe incontrato (alla presenza dell'avvocato Martina e della praticante) per concordare le domande all'esame.
Il fronte Asl. «Ulteriore e collaudato sistema di vendita delle funzioni giudiziarie». Così la Procura di Potenza definisce il capitolo relativo ai favori ottenuti dai dirigenti Asl. Avrebbe garantito in favore dei dirigenti indagati l'esito positivo dei procedimenti giudiziari che li riguardavano. In cambio, Arnesano avrebbe ottenuto diverse utilità. Tra queste: una imbarcacazione di dodici metri a un prezzo di gran lunga inferiore a quello di mercato, peraltro pagato in nero. Grazie a questo, Arnesano si sarebbe impegnato a far assolvere Narracci (come poi è accaduto) in un procedimento per peculato. Il pm, secondo gli inquirenti, «otteneva non solo, come si è visto, soggiorni gratuiti e imbarcazioni a prezzi di saldo, ma anche trattamenti di favore da parte dei medesimi dirigenti della Asl nella prenotazione di visite mediche, nella prenotazione di interventi per familiari, nelle visite a proprie amiche e così via».
L'intermediazione. Un altro aspetto dell'inchiesta, sempre nell'ambito del filone sullo scambio di favori e prestazioni sessuali, avrebbe visto coinvolta un'altra avvocatessa del Foro di Lecce, che aveva chiesto ad Arnesano di intervenire in suo favore con il presidente del Collegio di disciplina costituito presso l'Ordine degli avvocati di Lecce, l'avvocato Augusto Conte. Questi contatti, effettivamente, avvenivano e avevano esito positivo, secondo la Procura di Potenza. Anche in questo caso Arnesano avrebbe chiesto all'avvocatessa prestazioni sessuali in cambio del suo intervento.
I sequestri. La Guardia di finanza, su disposizione del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Potenza, ha sequestrato la piscina di pertinenza di Trianni (che dalle indagini è risultata oggetto di mercimonio tra il pm Arnesano, titolare del procedimento penale nel quale la piscina era sottoposta a sequestro, e Trianni); l'imbarcazione oggetto della corruzione contestata ad Arnesano, e la somma di 18.400 euro, entrambe al pm leccese.
«Mai dire antimafia» scrive Antonio Giangrande, il noto autore di saggi sociologici che raccontano di una Italia alla rovescia, profondo conoscitore ed esperto del tema e presidente nazionale di una associazione antimafia.
«Il mio intento è dimostrare che la mafia siamo noi: i politici che colludono, i media che tacciono, i cittadini che emulano e le istituzioni che abusano ed omettono – spiega Antonio Giangrande – Quando Luigi Vitali, noto avvocato brindisino, era sottosegretario alla Giustizia col Governo Berlusconi ed Alfredo Mantovano, noto magistrato leccese, era sottosegretario agli Interni, a loro espressi il mio disappunto su come mal funzionava la giustizia nei tribunali e sull’accesso criminoso alle professioni togate e sulla censura e le ritorsioni operate dai magistrati nei confronti delle notizie a loro scomode e come tante associazioni pseudo antimafia erano sostenute in modo amicale finanziariamente, mediaticamente e politicamente a danno di altre. Addirittura alla regione Puglia è impedita l’iscrizione al registro generale alla Associazione Contro Tutte le Mafie, di cui sono presidente, per poter tranquillamente finanziare le loro associazioni amiche. Mantovano non mi ha mai risposto, Vitali ad un mia telefonata in diretta su TBM, una televisione privata di Taranto, in cui gli chiedevo cosa intendesse per Mafia, mi rispose che certamente non la intendeva come la intendevo io. Questo in modo da crearmi grande imbarazzo ed a palese tutela del sistema di potere di cui egli in quel preciso momento ne faceva parte, salvo cambiar opinione quando vittima ne diventa egli stesso. Da allora ho aspettato di sapere come effettivamente loro intendessero la lotta alla mafia ed essere degno come loro di essere dalla parte dell’antimafia. Dai fatti succeduti ed acclarati, però, penso che io avessi e continuo ad aver ragione».
"Personalmente abolirei l’udienza preliminare che è diventata, col tempo, tutt'altro di quello che aveva immaginato il legislatore. Da filtro rigoroso dei presupposti per un giudizio si è trasformata in una tappa di smistamento per il dibattimento". Così l’ex deputato del Pdl ed ex sottosegretario alla Giustizia Luigi Vitali commenta in una nota, pubblicata su "La Gazzetta del Mezzogiorno, il rinvio a giudizio deciso dal gup di Brindisi nei confronti dello stesso ex parlamentare e di quasi tutta la maggioranza del consiglio comunale del 2012 di Francavilla Fontana (Brindisi) per presunti vantaggi ottenuti attraverso il piano locale delle farmacie. All’epoca dei fatti anche Vitali era consigliere comunale. "Sono più che sicuro – aggiunge Vitali – che non vi potrà essere nessun giudice che possa condannare i consiglieri comunali per aver esercitato, in piena autonomia e libertà, le loro prerogative. Sarebbe un colpo mortale alla democrazia. Dal fascicolo, infatti, non risulta, nonostante le puntuali, prolungate ed articolate indagini, nessun rapporto e/o contatto tra alcun consigliere comunale ed il presunto favorito dott. Rampino nè con altri farmacisti". "Nutro massima fiducia nella giustizia e, pertanto, attendo con assoluta serenità il processo" commenta da parte sua il senatore di Forza Italia Pietro Iurlaro, anch’egli rinviato a giudizio per la stessa vicenda. "Sempre nel pieno rispetto del lavoro della magistratura - prosegue Iurlaro – trovo comunque discutibile che si possa contestare ad un consigliere comunale qualsiasi responsabilità di natura penale per aver contribuito, con un voto di natura politica, all’approvazione di una delibera dell’esecutivo che si sostiene. Almeno quando, come poi sembrerebbe che le stesse indagini abbiano appurato, non emergono in alcun modo rapporti tra gli stessi consiglieri e i farmacisti coinvolti nella vicenda". Iurlaro si dice quindi "ottimista", confidando che "l'intera procedura possa svolgersi in maniera serena per concludersi, infine, nel più breve tempo possibile".
Torna la polemica sui professionisti dell’antimafia, scrive Mario Portanova su “Il Fatto Quotidiano”. Non a Palermo, ma – specchio dei tempi – a Milano. La celebre invettiva di Leonardo Sciascia contro Paolo Borsellino, ospitata in prima pagina dal Corriere della Sera il 10 gennaio 1987 è risuonata oggi nell’aula bunker del carcere di San Vittore a Milano, nella terza udienza del “maxiprocesso” alla ‘ndrangheta lombarda scaturito dall’operazione Infinito del 13 luglio scorso. A riesumarla ci ha pensato Roberto Rallo, il legale di Giuseppe “Pino” Neri, il consulente tributario accusato di essere un uomo di vertice della criminalità calabrese trapiantata al Nord. I nuovi “professionisti dell’antimafia”, secondo l’avvocato Rallo, sono le associazioni antiracket che si costituiscono parte civile “di processo in processo”, da Reggio Calabria a Milano, “anche se nessuno dei loro iscritti è stato materialmente danneggiato dagli imputati”. E così facendo “realizzano soltanto l’autoreferenzialità delle loro associazioni, spendendo tra l’altro soldi pubblici”, visto che in genere ricevono finanziamenti. Sono due le sigle attive contro il “pizzo” che si sono costituite al processo milanese: Sos Impresa di Confesercenti e la Federazione della associazioni antiracket e antiusura italiane, di cui è presidente onorario Tano Grasso.
Un nuovo scandalo investe i professionisti dell’Antimafia, scrive Angela Camuso su “Il Corriere della Sera”. Dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole, arriva la notizia che la Corte dei Conti di Napoli sta indagando su un corposo trasferimento di fondi pubblici a favore di un pugno di associazioni antiracket le quali, secondo i giudici contabili, sarebbero state privilegiate a discapito di altre, in violazione della legge sugli appalti. La posta in gioco è alta: 13 milioni e 433 mila euro stanziati da Bruxelles che fanno parte del cosiddetto Pon-Sicurezza, ovvero il Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea con la finalità di contrastare gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. I soldi sono arrivati da Bruxelles solo agli inizi del 2012, ma registi dell’operazione, concepita a partire dal 2008 con l’approvazione dei singoli progetti poi finanziati dal Pon, furono l’allora sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano; l’allora commissario antiracket Giosuè Marino, diventato in seguito assessore in Sicilia della giunta dell’ex Governatore Lombardo indagato per mafia; nonché l’allora presidente dell’autorità di gestione del Pon-Sicurezza e al contempo vicecapo della polizia Nicola Izzo, il prefetto travolto dallo scandalo sugli appalti pilotati del Viminale. Da quanto ad oggi ricostruito dal sostituto procuratore generale della Corte dei Conti della Campania Marco Catalano, fu questo l’asse che selezionò i pochi partners a cui destinare i fondi secondo quelli che sembrano essere criteri arbitrari, visto che molte altre associazioni analoghe – tra cui ad esempio la nota “Libera” - risulterebbero avere i medesimi requisiti di quelle prescelte e dunque avrebbero potuto anch’esse ricevere i finanziamenti su presentazione di progetti, se solo ci fosse stato un bando pubblico di cui invece non c’è traccia. Nell’albo prefettizio, per il solo Mezzogiorno, risultano attive oltre cento associazioni antiracket. Tuttavia i fondi del Pon sono stati destinati soltanto a: “Comitato Addio Pizzo” (1.469.977 euro); Associazione Antiracket Salento (1.862.103 euro) e F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che pur raggruppando una cinquantina di associazioni ha ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro in qualità di soggetto giuridicamente autonomo. Altri 3.101.124 euro sono infine andati a Confindustria Caserta e Confindustria Caltanissetta. La F.A.I., il cui presidente è il popolare Tano Grasso, ha sede a Napoli ed è per questo, essendo competente in quel territorio, che il fascicolo di indagine è finito sul tavolo della Corte dei Conti della Campania. L’istruttoria infatti è partita la scorsa estate a seguito di un esposto in cui si evidenziavano le presunte violazioni. Così il sostituto procuratore Catalano ha iniziato a lavorare, prima acquisendo una serie di documenti, presso il ministero dell’Interno e presso la prefettura di Napoli. Successivamente, sono stati escussi a sommarie informazioni diversi funzionari della stessa prefettura a vario titolo responsabili dell’erogazione dei fondi e dei presunti mancati controlli. Alla Corte dei Conti questi funzionari, secondo quanto trapelato, avrebbero confermato di aver agito su indicazione del Ministero e ora l’indagine è nella sua fase conclusiva e cruciale. Si prospetta l’esistenza di un illecito amministrativo che potrebbe aver prodotto un danno erariale sia in termini di disservizi sia in termini di sprechi visto che, paradossalmente, molte delle associazioni escluse dai finanziamenti continuano a svolgere, supportate dal solo volontariato, attività identiche, per qualità e quantità, a quelle messe in pratica da chi ora può contare su contributi pubblici erogati in deroga a ogni principio di trasparenza. Per questi motivi, già a marzo del 2012, le associazioni “La Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” avevano inviato una lettera al ministro Cancellieri, denunciando la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. “Prendiamo il caso di Maria Antonietta Gualtieri, presidentessa dell’Antiracket Salento e già candidata a Lecce sei anni fa nella lista civica di Mantovano…” insinua Lino Busà, presidente di S.O. S Impresa. La lettera al Ministro e le successive polemiche furono oggetto l’anno scorso di pochi articoli comparsi sulla stampa locale ma poi sulla vicenda calò il silenzio. Ora l’indagine della Corte dei Conti sembra dimostrare che la questione va al di là di una lotta fratricida. Le decisioni che presto prenderanno i giudici contabili preludono infatti a nuovi inquietanti sviluppi. Una volta chiusa questa prima istruttoria, gli atti potrebbero essere trasferiti in procura. Se ciò avverrà, sarà il tribunale penale a dover accertare se il presunto illecito amministrativo sia stato commesso per errore o se, invece, nella peggiore delle ipotesi, la violazione della legge sugli appalti sia stata dolosa e dunque funzionale a un drenaggio sottobanco di soldi pubblici, negli interessi di qualcuno.
Antiracket, i conti non tornano, scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. Progetti teleguidati. Bandi sartoriali. Contratti di lavoro per gli amici. Incarichi solo su segnalazione. Consulenze a compagni di merenda. Assegnazione di fondi e finanziamenti pubblici su preciso mandato. Creazione di scatole vuote per l’affidamento e poi il propedeutico assegnazione dei beni confiscati. Centri studi che non si sa cosa studino. Strani consorzi. Associazioni di associazioni. Federazioni di associazioni. Cooperative di associazioni. E’ proprio un vero e proprio guazzabuglio il variegato mondo dei professionisti dell’anticamorra. Per non parlare di sportelli e sportellini, vacue campagne di sensibilizzazione come sagre di paese e poi i dibattiti a chili, le iniziative, gli anniversari con lacrime incorporate, l’editoria di promozione, le segreterie organizzative, gli uffici e le tante sedi distaccate. E’ chiaro che la trasparenza è un termine sconosciuto nel mondo dei professionisti della legalità. Mai e dico mai troverete in questa giungla uno straccio di bilancio, di nota spese, di un computo analitico sulle entrate e uscite, un rendiconto dei contributi pubblici. Impossibile trovarne traccia. Non si conoscono i criteri di come si utilizzino i denari dell’anticamorra. Tutto è nascosto, tutto è segreto, tutto è gestito nell’ombra. Accade a Napoli ma è come dire Italia. Non è la prima volta e non sarà l’ultima che la Corte dei Conti di Napoli, ovvero i giudici contabili, stigmatizzano questo modus operandi o quanto meno una pratica alquanto disinvolta nell’affollato mondo dei professionisti della legalità. I giudici – a più riprese- vagliando corpose documentazioni con atti formali chiedono, interrogano, dispongono approfondimenti, delucidazioni alle pubbliche amministrazioni quali erogatori: dalla Ue, ai Ministeri, alla Regione, alla Provincia, ai Comuni. Capita spesso che i giudici della Corte dei Conti debbano smascherare consulenze ad personam accordate a Tizio, Caio e Sempronio accreditati come esperti di “Camorrologia” come puro scambio di favori. Gli importi sono fissati da un prezzario segretamente in vigore, i zeri sono svariati. Prendo spunto dall’ultimo accertamento della Corte dei Conti di Napoli, di cui ha dato notizia solo Corriere.it. Nel mirino dei giudici partenopei è finito il mondo dell’antiracket e dell’usura. Mi sembra che dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole mi sembra – a naso – davvero di trovarci di fronte ad un’altra storiaccia. Al centro delle indagini sono finiti i Pon-Sicurezza cioè il Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea per contrastare gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. Pare che il F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che raggruppa una cinquantina di associazioni antiracket e facente capo a Tano Grasso abbia ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro. Una cifra – secondo le indagini – sproporzionata in considerazione delle tante realtà operanti in Italia e che si occupano da anni di lotta al racket e all’usura. Il sospetto è che l’iter per l’assegnazione di questa pioggia di denaro pubblico non sia stata molto trasparente. La Corte dei Conti di Napoli insomma sospetta un illecito amministrativo che avrebbe provocato un danno erariale. Gli accertamenti sono stati avviati grazie all’esposto della “Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” dove in una lettera denunciavano la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. C’è un ampio spazio dove Tano Grasso saprà documentare e chiarire la posizione del Fai. Ma desta qualche perplessità – sinceramente – la nascita di una newsletter quindicinale “Lineadiretta” dove il Fai ha stanziato per la copertura di dodici mesi di pubblicazione la somma di centomila euro. L’unica certezza è che i giudici della Corte dei Conti di Napoli sapranno scrivere una parola di verità a tutela dei tanti che lottano in silenzio la camorra.
Lecce, truffa sui fondi per le vittime: presa la presidente di un'associazione antiracket Maria Antonietta Gualtieri. Arrestati due funzionari comunali. Trentadue le persone indagate: fra loro c'è anche l'assessore comunale al Bilancio, Attilio Monosi. Al setaccio una convenzione del 2012 con il Viminale, scrive Chiara Spagnolo il 12 maggio 2017 su "La Repubblica". Con 2 milioni di euro di finanziamenti pubblici avrebbe dovuto aprire tre sportelli a Lecce, Brindisi e Taranto per assistere le vittime dell'usura e del racket. Quei soldi invece, attraverso assunzioni fittizie, false missioni, fatture e rendiconti creati ad arte sono finiti - secondo l'accusa - nella tasche della presidente dell'associazione antiracket Salento, Maria Antonietta Gualtieri, leccese di 62 anni. Un video girato dalla guardia di finanza di Lecce documenta quanto accadeva nell'ufficio della presidente antiracket: c'era un viavai di persone, ritenute complici del raggiro, che portavano alla donna buste piene di contanti che Gualtieri apriva, contava e metteva in borsa. Dalla disinvoltura con la quale tutti agivano si capisce che era un'operazione di routine. La bufera giudiziaria si è abbattuta sull'amministrazione comunale salentina nel giorno in cui si avvia la presentazione delle liste elettorali per le elezioni dell'11 giugno. L'inchiesta sui presunti illeciti ha portato in carcere una stretta collaboratrice della presidente, Serena Politi, e due funzionari del Comune di Lecce: Pasquale Gorgoni dell'ufficio Patrimonio (già coinvolto nell'inchiesta sulle assegnazioni delle case popolari) e Giuseppe Naccarelli dell'ufficio Ragioneria. Gli sportelli aperti solo sulla carta. Gualtieri, secondo gli investigatori, avrebbe promosso a Lecce, Brindisi e Taranto l'apertura degli Sportelli antiracket, ma soltanto sulla carta. In realtà gli sportelli, secondo quanto emerge dall'indagine, sarebbero fittizi: attraverso una falsa rendicontazione di spese sostenute per il personale, acquisizione di beni e servizi o di trasferte mai sostenute, attestavano falsamente la loro operatività relativa al servizio di assistenza fornito alle vittime e al numero di denunce raccolte, alterando anche il raggiungimento degli obiettivi richiesti dal progetto.
Le somme restituite in contanti. L'associazione antiracket gestita da Gualtieri, secondo l'accusa, con l'appoggio di professionisti compiacenti - avvocati, commercialisti, esperti del settore bancario - avrebbe anche stipulato contratti di collaborazione fasulli con dipendenti esistenti soltanto sulla carta, emettendo buste paga fasulle per prestazioni mai effettuate. Le somme indebitamente percepite dai fittizi collaboratori grazie alle false rendicontazioni presentate all'ufficio del commissario Antiracket - secondo quanto accertato dagli investigatori - venivano successivamente restituite in contanti alla stessa presidente dell'associazione.
Gli altri indagati. Politi è agli arresti domiciliari. Gli altri tre sono stati condotti in carcere dopo aver assistito alle perquisizioni nei rispettivi uffici e abitazioni. Le ipotesi di reato - contestate nell'ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Giovanni Gallo su richiesta dei sostituti procuratori Massimiliano Carducci e Roberta Licci - sono corruzione e truffa e riguardano le azioni di un presunto sodalizio criminale che sarebbe capeggiato proprio da Gualtieri. Un provvedimento di interdizione dai pubblici uffici è stato emesso nei confronti dell'assessore comunale al Bilancio, Attilio Monosi (anch'egli coinvolto nell'inchiesta sugli alloggi popolari), candidato al consiglio comunale in una delle liste che sostengono il candidato sindaco del centrodestra Mauro Giliberti: Monosi si è dimesso, ma correrà comunque per le comunali.
Sequestrati 2 milioni di euro. Proprio nelle ore in cui la guardia di finanza stava notificando le ordinanze del gip, a Palazzo Carafa era in programma la presentazione ufficiale dei candidati. In totale sono quattro le ordinanze di custodia cautelare (tre in carcere e una ai domiciliari) disposte dal gip, sette le misure interdittive dai pubblici uffici e 32 sono le persone indagate. Sequestrato anche l'equivalente di somme indebitamente percepite dal ministero dell'Interno, pari a 2 milioni di euro.
Il coinvolgimento del Comune. Un altro capitolo dell'inchiesta ha riguardato le presunte collusioni con pezzi dell'amministrazione comunale di Lecce. A partire da un funzionario pubblico che avrebbe fatto carte false per far sì che alcuni lavori di ristrutturazione dell'ufficio dello Sportello antiracket venissero pagati dal Comune anziché dal commissario Antiracket. L'obiettivo - secondo la tesi investigativa - era agevolare il costruttore che ha effettuato i lavori e che avrebbe poi avuto un occhio di riguardo per il funzionario pubblico per altri interventi eseguiti nella sua abitazione.
I lavori mai ultimati. Anche le ristrutturazioni eseguite all'ufficio dello Sportello antiracket di Brindisi sarebbero state viziate da anomalie, relative a false certificazioni di interventi mai ultimati da parte di dipendenti comunali. Ad aggravare ulteriormente la situazione di Gualtieri c'è il fatto che avendo appreso che alcuni suoi collaboratori erano stati convocati dalla finanza per gli interrogatori, li avrebbe istruiti sulle versioni da fornire al fine di cercare di nascondere i numerosi illeciti commessi al fine di ottenere indebitamente i soldi del Fondo antiracket, sottraendoli al loro legittimo utilizzo.
Antiracket Lecce, da anni polemiche accuse e sospetti sulla presidente dell’associazione arrestata. “In un momento come quello attuale, particolarmente critico per l’economia del Paese, cancri sociali come il racket e l’usura insidiano il sistema produttivo, mettendo radici”. Così parlava Maria Antonietta Gualtieri ad aprile 2013 nel presentare un convegno dell’Antiracket Salento a Brindisi e oggi arrestata per truffa aggravata, scrive Luisiana Gaita il 12 maggio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". “In un momento come quello attuale, particolarmente critico per l’economia del Paese, cancri sociali come il racket e l’usura insidiano il sistema produttivo, mettendo radici”. Così parlava Maria Antonietta Gualtieri ad aprile 2013 nel presentare un convegno dell’Antiracket Salento a Brindisi. Eppure, secondo la procura di Lecce, che ha lavorato all’indagine sulla presunta truffa finalizzata a ottenere un finanziamento da due milioni di euro destinato alle vittime del racket e dell’usura, molto era già accaduto. Tanto che già in passato si era gettata qualche ombra sull’operato dell’associazione, ben prima dell’operazione della Guardia di Finanza scattata oggi nel Salento. Ma negli ultimi anni l’Antiracket Salento è stata al centro di polemiche, accuse, sospetti e anche inchieste che, in un modo o nell’altro, l’hanno coinvolta.
LA POLEMICA – A giugno 2013 a fare andare su tutte le furie Maria Antonietta Gualtieri furono le parole del presidente della Camera di Commercio di Brindisi Alfredo Malcarne che annunciava l’apertura presso l’ente di uno sportello antiracket. “Solo noi siamo l’unico sportello riconosciuto dal ministero dell’Interno finanziato con i fondi Pon sicurezza” si affrettò a chiarire la presidente, ricordando che l’associazione era l’unica ad aver firmato un protocollo con la Procura della Repubblica. “Vorrà pur dir qualcosa – aggiunse – ci sono associazioni che sono cattive imitazioni”. Poi le accuse ad altre realtà del territorio: “Ce ne sono alcune dalle quali ho subito pressioni – disse – perché non vogliono che cambino le cose. Con il loro atteggiamento favoriscono il consenso sociale alla criminalità, non aiutano le vittime di racket e usura. Tanto da pensare che ci possano essere delle infiltrazioni”. Inevitabili le reazioni. Come quella del presidente antiracket di Mesagne (Brindisi) Fabio Marini: “Una cosa è certa, noi siamo un’associazione non profit composta da vittime del racket e dell’usura che hanno deciso di lottare e aiutare gli altri, facciamo volontariato, mentre lo sportello antiracket Salento vive perché ha ottenuto un finanziamento di 2 milioni di euro”.
L’INDAGINE DELLA CORTE DEI CONTI DI NAPOLI – E a proposito di quel finanziamento, a gennaio 2014 si diffuse la notizia che la Corte dei Conti di Napoli stava indagando sul trasferimento di fondi pubblici a favore di alcune associazioni antiracket. Al centro i 13 milioni e 433mila euro stanziati dall’Unione Europea e arrivati agli inizi del 2012 che facevano parte del Pon-Sicurezza, il Programma Operativo Nazionale finanziato per lo sviluppo del Mezzogiorno. E al Sud nell’albo prefettizio risultavano attive oltre cento associazioni antiracket. I fondi, però, furono destinati solo a tre di esse, tra cui l’Antiracket Salento, che ha ottenuto qualcosa come un milione e 862mila euro. Già a marzo del 2012, in realtà, le associazioni ‘La Lega per la Legalità’ ed ’S.O.S. Impresa’ avevano inviato una lettera all’allora ministro Anna Maria Cancellieri, denunciando l’esistenza di una vera e propria “casta dell’antiracket”. Lino Busà, presidente di S.O.S Impresa, commentando l’indagine fece proprio il suo nome: “Prendiamo il caso di Maria Antonietta Gualtieri, presidentessa dell’Antiracket Salento e già candidata a Lecce sei anni fa nella lista civica di Alfredo Mantovano”. La presidente smentì di essere coinvolta nell’indagine della Corte dei Conti, sottolineando la correttezza dell’iter che aveva portato al finanziamento degli sportelli antiracket. Di fatto l’associazione non ha partecipato ad alcun bando pubblico. E Busà ricordava che sia le norme italiane che quelle europee prevedono, invece, “bandi ed avvisi pubblici”, arrivando a parlare di “una trattativa privata”.
LO SCANDALO DEI CONSULENTI CHE CHIEDEVANO SOLDI – Un anno dopo, nel luglio 2015, un’altra inchiesta della procura di Lecce ha coinvolto l’associazione. Un avvocato e un commercialista sono finiti nel registro degli indagati, accusati di avere estorto denaro durante la loro attività di consulenti allo sportello Antiracket di Lecce. Nel fascicolo del procuratore Cataldo Motta si parlava di parcelle che andavano dai 100 ai 900 euro per gli imprenditori che si rivolgevano all’associazione per chiedere pareri sui tassi di interesse dei mutui accesi con le banche. In quella occasione, però, le accuse partirono proprio dalle denunce presentate da un imprenditore, dalla presidente dell’associazione Maria Antonietta Gualtieri e da altre due persone. Il rapporto di collaborazione tra i due consulenti e lo sportello antiracket si interruppe, ma i consulenti depositarono una una querela per calunnia contro la presidente Gualtieri.
Ed ancora…
Taranto, minacce sessuali a giornalista: indagato il capo dello sportello antiracket. Michele Cagnazzo è accusato di aver inviato una lettera minatoria rivolta anche contro se stesso: secondo gli investigatori lo scopo era quello di accreditarsi come paladino antiusura, scrive l'8 settembre 2017 "La Repubblica". Era a capo dello Sportello antiracket Casartigiani di Taranto e in questa funzione aveva svolto diverse iniziative contro le estorsioni, invitando imprenditori e cittadini a ribellarsi e offrendo loro assistenza legale. Ora è accusato, ed è stato chiesto il rinvio a giudizio per aver simulato minacce e avvertimenti pur di essere sotto i riflettori della cronaca. Nel mirino anche una giornalista, collaboratrice del Quotidiano di Puglia. Dovrà affrontare un processo, perchè ritenuto responsabile di minaccia aggravata, Michele Cagnazzo, 50enne residente a Taranto con precedenti specifici e "da sempre autoreferenziatosi quale paladino di onestà e giustizia per le sue campagne antiracket e antiusura", dicono dalla questura di Taranto in una nota. "A tradirlo - secondo gli investigatori - è stata proprio la sua eccessiva e malcelata voglia di protagonismo attraverso una tanto inquietante quanto maldestra strategia". "Nello scorso marzo il quotidiano pubblicava un articolo a firma in cui veniva presentata l'istituzione dello sportello antiracket di Casartigiani Taranto, di cui Cagnazzo era responsabile. Pochi giorni dopo la pubblicazione, nella sede di Taranto della testata fu recapitato un plico al cui interno vi erano pesanti minacce di morte ai referenti dello sportello antiracket e di stupro alla redattrice dell'articolo se non avesse smesso di occuparsi di tali fenomeni criminosi". La denuncia delle minacce violente e sfondo sessuale, in particolare a ridosso della giornata dell'8 marzo, ha allarmato la Digos di Taranto, che, nel giro di pochi giorni è riuscita a individuare il presunto colpevole delle intimidazioni". E' stato così appurato che le minacce non provenivano da esponenti della malavita organizzata, ma da chi voleva costituirsi una posizione meritoria all'interno dello sportello antiracket. Secondo gli investigatori, la lettera avrebbe generato un tale clamore mediatico da cui poter trarre vantaggi "visto che conteneva anche minacce contro lo stesso Cagnazzo". Chiuse le indagini, il sostituto procuratore Enrico Bruschi ha avanzato la richiesta di rinvio a giudizio sulla base di "chiari e concreti elementi di colpevolezza". "Apprendo dalla stampa con sconcerto, ma con animo tranquillo, lo scempio e l'indecenza della notizia che mi riguarda e cercherò nei prossimi giorni non solo di capire ma di chiarire nelle sedi opportune la mia posizione, totalmente estranea nel merito dell'accaduto", replica Cagnazzo in una nota sostenendo che si sta cercando di delegittimarlo. "Quello che mi preme rimarcare da uomo, marito, padre e poi professionista, impegnato da circa vent'anni nella lotta alla criminalità organizzata e mi dispiace se qualcuno non lo abbia compreso - afferma ancora Cagnazzo - che l'obiettivo era fermarmi, fermarci. E' notoria l'azione che stavamo svolgendo sul territorio in ambito antiracket e antiusura, abbiamo subito attacchi e abbiamo risposto in maniera inequivocabile ed incontrovertibile. Abbiamo cercato di risvegliare coscienze ponendo sul campo strategie contro racket e usura, che qualcuno continua ad affermare che a Taranto questi fenomeni non esistono".
«Zitta o ti violentiamo», sotto inchiesta direttore antiracket. Le minacce a una giornalista di Quotidiano, scrive Alessandra LUPO su "Il Quotidiano di Puglia" Giovedì 7 Settembre 2017. Credeva di raccontare una cosa bella, Alessandra Macchitella, giornalista tarantina trentenne, collaboratrice del Nuovo Quotidiano di Puglia che dalle colonne del giornale aveva scritto dell’istituzione di un nuovo sportello antiracket nella città di Taranto, nato in seno a CassaArtigiani. Ma purtroppo quell’articolo le è costato caro: pesanti minacce anonime e mesi di ansia che l’hanno costretta a farsi accompagnare anche negli spostamenti più banali, condizionando pesantemente il suo lavoro. Fino alla svolta delle indagini, del tutto inattesa, arrivata ieri. Tutto era iniziato nel marzo scorso, infatti, dopo che la collega aveva scritto del nuovo ente, di cui era responsabile Michele Cagnazzo, intervistando il cinquantenne tarantino promotore di numerose campagne antiusura e antiracket. Pochi giorni dopo la pubblicazione degli articoli, però, nella sede tarantina del Quotidiano giunse una lettera contenente minacce di morte non solo contro i responsabili dello sportello ma anche rivolte alla giornalista. In un plico, infatti, le fotocopie di due articoli, uno sullo sportello e l'altro riguardante la diffusione di droga nel quartiere. In entrambi i volti e la firma cerchiati con mirini e frasi minacciose. Alla giornalista, però, è stato riservato anche un altro trattamento: quello della minaccia di violenza sessuale qualora si fosse occupata ancora di lotta all’usura e al racket delle estorsioni. “Ti stupriamo: lascia droga, racket e usura: sei avvisata”, si legge accanto al suo nome e in un’altra lettera una sua fotografia con una scritta a penna sul volto. Immediata la denuncia, con l’apertura di un’inchiesta da parte della Procura di Taranto e l’avvio delle indagini affidate alla Digos. Indagini condotte in maniera «eccellente», tanto dal punto di vista umano che professionale, ha spiegato la vittima. E che hanno portato alla svolta decisiva: secondo gli inquirenti a inviare la missiva non sarebbe stata affatto la malavita tarantina, come si credeva in un primo momento, bensì lo stesso Cagnazzo - allora responsabile dello sportello antiracket - evidentemente a caccia di visibilità per la sua attività. Nei suoi confronti la Procura tarantina, nella persona del sostituto procuratore Enrico Bruschi, ha chiesto il rinvio a giudizio con l’accusa di minaccia aggravata. I poliziotti sono arrivati a lui attraverso le immagini di videosorveglianza dell’ufficio postale, dove l’uomo si era recato a inviare la raccomandata. A confermare i sospetti è stata poi la perizia calligrafica sui fogli. Ora sarà il giudice delle indagini preliminari a decidere nell’udienza che si terrà a novembre. Ma intanto il caso fa riflettere per vari motivi: il primo, senza voler generalizzare, è che un reato come la minaccia di morte e stupro possa maturare in un’associazione antiracket. Il secondo, ancora più odioso, riguarda il sessismo strisciante nella maldestra vicenda: tutti sono minacciati di morte ma la giovane donna anche di stupro. Alessandra, che si occupa spesso di tematiche di genere, dev’essere sembrata la vittima ideale tanto più che la lettera è stata spedita alla vigilia della festa della donna. Un tempismo perfetto insomma, tra gli elementi di una miscela mediatica potenzialmente esplosiva che secondo chi indaga avrebbe voluto richiamare sullo sportello solidarietà e interesse. Il giornale, però, decise di non divulgare le lettere minatorie ma di sporgere invece denuncia. «Io venni contattata dalla redazione per il plico - racconta Alessandra - ma per tutelare le indagini non ne scrivemmo mantenendo il massino riserbo». Ora, se l’uomo sarà riconosciuto colpevole - lei potrà finalmente tirare un sospiro di sollievo e tornare alla vecchia vita. «La cosa più brutta è stato essere bloccata - racconta ancora -: per un po’ non ho potuto occuparmi per precauzione di alcune tematiche, ma quello che mi ha davvero ferita delle minacce è stato il riferimento alla violenza sessuale, un modo di colpirmi non solo come giornalista ma come donna».
Taranto. Una lettera di minaccia per tutti. Questa vicenda dovrebbe far riflettere un pò di più i cittadini di Taranto, le forze dell’Ordine, ma soprattutto i giornalisti locali, che hanno notoriamente. e non soltanto secondo il sottoscritto un brutto vizio: dare troppa visibilità alle persone, quando invece nel nostro lavoro si dovrebbe concentrare l’attenzione sui fatti, scrive Antonello de Gennaro l'8 settembre 2017 su "Il Corriere del Giorno". Alessandra Macchitella, è una giornalista tarantina trentenne, una persona molto educata che e soprattutto una collega che rispetta il prossimo, ed i suoi colleghi, ed è per questo che la stimiamo. Alessandra è una collaboratrice del Nuovo Quotidiano di Puglia e sulle pagine di questo giornale aveva scritto un articolo sull’apertura di un nuovo sportello antiracket nella città di Taranto, nato in seno a Confesercenti-Confartigianato, associazioni alle quali Michele Cagnazzo ha fatto causa per ottenere un assunzione a tempo indeterminato, per poi passare armi…e bagagli sotto le insegne di Casartigiani-Confcommercio insieme ai quali operava, come questi video dimostrano.
Cagnazzo con precedenti specifici e da sempre autoreferenziatosi quale paladino di onestà e giustizia per le sue campagne antiracket e antiusura, si è tradito proprio per la sua eccessiva e malcelata voglia di “protagonismo” attraverso una tanto inquietante quanto maldestra strategia. Nessuno meglio del sottoscritto può capirla avendo ricevuto per oltre un anno lo stesso trattamento, a mezzo di atti vandalici sulla macchina, lettere diffamatorie rigorosamente “anonime” diffuse in lungo e largo per la città, lettere di minacce, culminato con l’incendio della mia autovettura nello scorso marzo avvenuto lo scorso marzo a Taranto. Avvenimento questo, le cui indagini ancora sono in corso, che ha indotto il nuovo Prefetto di Taranto a disporre l’alzamento del livello di tutela sulla mia persona affidato alla Polizia di Stato che vigila sulla mia incolumità in occasione dei miei soggiorni nel capoluogo jonico. Anche la vicenda che ha coinvolto la giovane collega Macchitella era iniziata nel marzo scorso, a seguito di un articolo che la collega aveva scritto sul Quotidiano del nuovo sportello antiracket, di cui era responsabile il cinquantenne tarantino Michele Cagnazzo, promotore di numerose campagne anti-usura e antiracket intervistandolo. Articolo che è costato molto caro alla Macchitella. Infatti le sono subito arrivate pesanti minacce anonime ed ha dovuto vivere mesi di tensione e preoccupazione che l’hanno costretta ad essere sempre accompagnata anche negli spostamenti più brevi, condizionando pesantemente la sua vita personale ed il lavoro che ha sempre svolto diligentemente. Qualche giorno dopo la pubblicazione arrivò presso la redazione di Taranto del Nuovo Quotidiano di Puglia una lettera piena di minacce di morte non solo contro i responsabili dello sportello ma anche nei confronti della giornalista. All’interno della busta vi erano le fotocopie di due articoli, uno sulla la diffusione della droga e dei volti cerchiati con mirini e minacce esplicite. Alla collega Macchitella, invece, era stato scelto anche un altro “metodo”: quello della minaccia di violenza sessuale se si fosse occupata nuovamente di lotta all’usura e del racket delle estorsioni. Con delle pesanti minacce molto esplicite: “Ti stupriamo: lascia droga, racket e usura: sei avvisata” scritto accanto al suo nome, ed in un’altra lettera una sua fotografia con una scritta minacciosa a penna sul volto. Chiaramente venne presentata una querela, con l’apertura di un’inchiesta da parte e l’avvio delle indagini affidate alla Digos dalla Procura di Taranto.
Il capo della redazione di Taranto del Nuovo Quotidiano di Puglia, decise con saggezza ed intelligenza, di non divulgare le informazioni ma di sporgere invece denuncia. “Venni contattata dalla redazione per il plico – racconta la Macchitella – ma per tutelare le indagini non ne scrivemmo». Ora, se l’uomo sarà riconosciuto colpevole – lei potrà finalmente tirare un sospiro di sollievo e tornare alla vecchia vita. «La cosa più brutta è stato essere bloccata – racconta ancora – per un po’ non ho potuto occuparmi per precauzione di alcune tematiche, ma quello che mi ha davvero ferita delle minacce è stato il riferimento alla violenza sessuale, un modo di colpirmi non solo come giornalista ma come donna». Ma ieri vi è stata una svolta nelle indagini “condotte in maniera eccellente, tanto dal punto di vista umano che professionale”, ha commentato questa mattina la Macchitella sul Quotidiano, Infatti le indagini sono arrivate alla svolta decisiva: secondo gli investigatori ad inviare la lettera non sarebbe stata responsabile la malavita tarantina, ma lo stesso Cagnazzo – all’epoca dei fatti responsabile dello sportello antiracket – il quale evidentemente è una delle tante persone di Taranto a caccia di uno stipendio e di visibilità per la propria attività che sopravvive esclusivamente grazie a contributi e fondi “pubblici”. Secondo la Polizia di Stato la lettera, inviata il 7 marzo e che sarebbe dovuta pervenire alla destinataria proprio il giorno della “festa della donna”, avrebbe generato un tale clamore mediatico da cui poter trarre vantaggi, visto che conteneva anche minacce contro se stesso riconducibili all’asserita attività di contrasto ai fenomeni criminali estorsivi quale responsabile dello sportello Antiracket.
La procura di Taranto ha chiesto il rinvio a giudizio del Cagnazzo con l’accusa di “minaccia aggravata” sulla base quindi di chiari e concreti elementi di colpevolezza grazie all’ulteriore supporto di accertamenti tecnico-scientifici. Gli investigatori della Digos sono arrivati alla sua identificazione infatti attraverso le immagini filmate del sistema di videosorveglianza dell’ufficio postale, da cui era partita la raccomandata dalle quali si vede il Cagnazzo mentre spedisce la lettera di minacce. I sospetti sono stati confermati dalla perizia calligrafica disposta sui fogli scritti a mano. Adesso sarà quindi il giudice delle indagini preliminari a decidere per la fissazione nell’udienza che potrebbe tenersi a novembre. Questa vicenda dovrebbe far riflettere un pò di più i cittadini di Taranto, le forze dell’Ordine, ma soprattutto i giornalisti locali, che hanno notoriamente. E non soltanto secondo il sottoscritto un brutto vizio: dare troppa visibilità alle persone, quando invece nel nostro lavoro si dovrebbe concentrare l’attenzione sui fatti. E’ questo malvezzo che porta poi delle persone mitomani desiderose di uscire dal torpore del loro anonimato e spesso di un’esistenza insulsa e squallida, e fare qualsiasi cosa per apparire, di vedere il suo none e la sua fotografia pubblicata sulla carta stampata o online pur di “esserci”. Forse un pò di autocritica e di maggiore attenzione e riflessione servirebbe alla stampa locale a riprendersi dal torpore in cui vegeta ed a ritrovare la voglia di fare giornalismo, che non si fa solo con le interviste o le conferenze stampa, ma con la cronaca fatta per strada, con le inchieste che fanno scaturire indagini e provvedimenti della magistratura. Tutto ciò cari lettori è il “vero” giornalismo. Il resto è noia per chi legge e spesso anche per chi scrive ricevendo quando va bene… somme che oscillano fra i 5 ed i 10 euro netti ad articolo. Concludendo non possiamo che essere felici che questa amara vicenda sia finita, e che finalmente il sorriso possa ritornare sul viso della splendida collega Alessandra Macchitella, e complimentarci con la Polizia di Stato per l’efficienza dimostrata nel corso dell’indagine. Restiamo in attesa di poter scrivere qualcosa di simile sulla vicenda dell’incendio dell’autovettura. Chi ha scritto quelle volgari minacce ad Alessandra Macchitella ci auguriamo possa ricevere una pesante punizione dalla Giustizia, e non solo, ma anche dalla città, emarginando lui e chi ha avuto fiducia nello “strumentale” operato di quella specie di uomo che si chiama Michele Cagnazzo.
Ma di lui si è già parlato sul giornale di Antonello De Gennaro. Il 27 febbraio 2015. Aggredito da 3 uomini il responsabile dello sportello antiracket, scrive "Il Corriere di Taranto". Michele Cagnazzo, responsabile di uno sportello antiusura ed antiracket di Taranto, 48enne originario di Bari ha denunciato ai Carabinieri di essere stato avvicinato e spintonato mentre si trovava in viale Magna Grecia da dei malviventi subito dopo essere uscito da una banca, venendo aggredito da tre uomini. Cagnazzo a seguito dell’aggressione è caduto per terra, e quindi si è rialzato rifugiandosi all’interno della banca, per poi recarsi in ospedale e sottoporsi a degli accertamenti, a seguito delle quali sono state riscontrate lesioni all’omero giudicate guaribili in 30 giorni. I tre ignoti aggressori si sono immediatamente dileguati. I Carabinieri del Nucleo Operativo Radiomobile dopo aver raccolto la sua testimonianza, hanno quindi avviato le indagini per identificare i responsabili ed accertare se l’aggressione sia riconducibile all’attività professionale della vittima.
Caso della giornalista minacciata: interviene il responsabile dell'associazione antiracket. Michele Cagnazzo: «Sono estraneo a quanto mi è stato contestato», scrive "Manduria Oggi" l'8/09/2017. «Apprendo dalla stampa con sconcerto ma con animo tranquillo, lo scempio e l’indecenza della notizia che mi riguarda e cercherò nei prossimi giorni non solo di capire ma di chiarire nelle sedi opportune la mia posizione, totalmente estranea nel merito dell’accaduto». A parlare è Michele Cagnazzo. «Magari questa può sembrare un’autodifesa, ma non lo è se si va a guardare oltre la becera notizia, ovvero nel merito, che nulla ha d’interesse pubblico se non un unico obiettivo: delegittimarmi. Nel merito ci ritornerò più avanti. Quello che mi preme però sottolineare da uomo, marito, padre e poi professionista, impegnato da circa vent’anni nella lotta alla criminalità organizzata e mi dispiace se qualcuno non lo abbia compreso, che l’obiettivo era fermarmi, fermarci. E’ notoria l'azione che stavamo svolgendo sul territorio in ambito antiracket e antiusura, abbiamo subito attacchi e abbiamo risposto in maniera inequivocabile ed incontrovertibile. Abbiamo cercato di risvegliare coscienze ponendo sul campo strategie contro racket e usura che qualcuno continua ad affermare che a Taranto questi fenomeni non esistono. Ritornando nel merito, qualcuno dovrà spiegarmi quale interesse abbia avuto a disincentivare l’attività giornalistica in materia di mafia, usura ed estorsioni con squallide minacce che non mi sono mai appartenute? L’attività della stampa e dei giornalisti rappresenta l’essenza del nostro stesso lavoro? Poi chiunque volesse inviare una minaccia, credo che non lo farebbe entrando in una posta munita di videosorveglianza e per di più facendo una raccomandata con nome e cognome e manoscrivendola? Questo credo che equivalga a fare una rapina e lasciare il proprio documento d’identità. Credo che tutti dovremmo porci questi interrogativi, come credo che non avessi bisogno di tale ingiustificata e becera pubblicità. La mia storia di uomo è molto chiara, a torto o ragione. La mia storia è stata costellata di minacce di vario tipo e genere, ma ho sempre continuato mettendoci la faccia a rischio continuo della mia incolumità fisica (vedasi aggressione subita nel 2015). Questa ne è un’incancellabile ed eterna testimonianza. Come diceva il compianto G. Falcone: “Quando si entra in un gioco grande o ti ammazzano o ti delegittimano”».
Chi è Michele Cagnazzo? Lo scopriamo dal suo blog e da quello che lui scrive di se stesso.
MICHELE CAGNAZZO NOMINATO RESPONSABILE "UFFICIO ANTIRACKET-ANTIUSURA" A TARANTO. Lunedì 13 aprile 2015. Un ufficio antiracket-antiusura è l’iniziativa presentata questa mattina dalla Confesercenti e dalla Confartigianato di Taranto. Presenti all’incontro il Presidente di Confesercenti Taranto Vito Lobasso, Fabio Paolillo per Confartigianato, Michele Cagnazzo, criminalista ed esperto in Scienze criminologiche applicate, nominato coordinatore e responsabile dell’Ufficio. La promozione dell’apertura dell’Ufficio Antiracket–usura da parte delle due associazioni, con annesso Centro di ascolto, vuole offrire ai soggetti che denunciano usura ed estorsioni una completa assistenza per la soluzione dei problemi economici e finanziari, per affrontare le situazioni di crisi delle piccole e medie aziende associate. Il fenomeno dell’usura a Taranto e provincia è estremamente insidioso, anche alla luce dell’attuale crisi economica. Di conseguenza, le risposte al fenomeno sono affidate alla messa in atto di strumenti di contrasto e di repressione da un lato e di sostegno e di prevenzione dall’altro. Ed è proprio su questi aspetti che si concentrerà l’attività del nuovo Ufficio Antiracket – usura. L’obiettivo dello sportello è quello di assicurare una necessaria azione di sostegno nei confronti delle piccole e medie imprese che sono vittime del racket. “Avremmo preferito non aver bisogno di creare questa attività – afferma il Presidente di Confesercenti Vito Lobasso – purtroppo però il nostro territorio ha questa esigenza. Il messaggio che ci preme veicolare ai piccoli e medi commercianti è di fare sempre affidamento sulla nostra presenza, in quanto perseguiamo tutti lo stesso scopo: la tutela della legalità”. Lobasso mette in evidenza un’iniziativa presentata precedentemente che mira ad allontanare questi fenomeni, Operazione ripresa, un’intesa a quattro tra Interfidi, BCC di San Marzano, Confartigianato e Confesercenti per sostenere il rilancio dell’artigianato e del commercio sul territorio tarantino. Confesercenti e Confartigianato hanno stipulato una convenzione con il consorzio di garanzia collettiva fidi Interfidi con lo scopo di assistere le piccole e medie imprese nell’accesso al credito. “A Taranto la situazione non è allarmante ma preoccupante – specifica il criminalista Michele Cagnazzo – il 42% delle imprese sono sotto estorsione ed usura e circa 8.600 famiglie, per un giro d’affari complessivo di 300 milioni di EURO. Dobbiamo fare i conti con una tipologia di reati subdoli perché vivono di silenzio e omertà. L’ufficio si rivolgerà a tre categorie, in fase preventiva alle imprese che hanno un sovraindebitamento e difficoltà economiche, quindi a rischio usura; una seconda categoria a chi è già sotto usura e racket ma non ha ancora maturato la decisione di denunciare e una terza categoria per chi ha già fatto denuncia, a cui forniremo assistenza amministrativa e tutoraggio in fase di ripresa dell’azienda per portare ad accedere ai fondi di solidarietà. Vogliamo far recuperare la normalità alla vittima”. Oltre ai dati numerici che derivano dall’Osservatorio statistico nazionale Confesercenti, il messaggio di Cagnazzo si riassume in una frase: “Ci siamo, non siete più soli”. Il responsabile dell’ufficio Cagnazzo lancia anche una provocazione al sindaco di Taranto: “Perché il Comune attraverso un regolamento interno non propone sgravi fiscali per le imprese che denunciano fenomeni di racket ed usura?”. “Molti problemi non sono denunciati per paura – afferma Fabio Paolillo di Confartigianato – ma si può uscire da questi fenomeni mostrando fiducia allo Stato”. Presente all’evento anche il Questore di Taranto Giuseppe Mangini che dichiara: “Abbiamo il dovere di affiancarvi. Tutte le iniziative che servono ad aumentare la sensibilità verso questo problema trovano il nostro sostegno”.
Michele Cagnazzo ex IDV, l'Italia dei Valori di Di Pietro, il partito della sedicente legalità.
Si legge sempre dal blog di Michele Cagnazzo.
CAGNAZZO E ZAZZERA (IDV): “TUTTI CON UN’AGENDA ROSSA TRA LE MANI". Venerdì 17 luglio 2009. “Sarà un modo per ricordare Paolo Borsellino e la sua scorta, un modo migliore però per ricordarlo sarebbe anche trovare l’agenda rossa che Paolo aveva con sé nella strage di Via D’Amelio. Colui che ancora oggi possiede questa agenda si nasconde, ricattando mezza classe politica nei Palazzi della vecchia e cattiva politica”. A parlare sono Pierfelice Zazzera e Michele Cagnazzo, rispettivamente Segretario Coordinatore Regionale e Responsabile dell’Osservatorio Regionale sulla Legalità – Dipartimento Antimafia-Prevenzione-Sicurezza. Pertanto Lunedi 20 luglio invitiamo davanti alla Procura della Repubblica di Bari associazioni e cittadini che ancora oggi tengono alle sorti di questo Paese, per restituirgli un volto nuovo e credibile, e per chiedere semplicemente delle risposte allo Stato. Dove l’agenda rossa di Paolo Borsellino sottratta nella strage di Via D’Amelio rappresenta una probabile chiave di soluzione in riferimento alla famosa trattativa tra i nuovi referenti politici e Cosa Nostra. Continuano Zazzera e Cagnazzo “dopo 17 anni riteniamo che nulla sia cambiato. Anzi la mafia si è trasformata da associazione a delinquere in sistema democraticamente rappresentato. E questo riteniamo costituisca la prima ed autentica emergenza del nostro Paese, oltre all’impressione che, ai piani alti del potere, quelle verità indicibili le conoscano in tanti, ma siano tutti d’accordo nel tenerle coperte da una spessa coltre di omissis, per sempre. Tutto ciò concludono Zazzera e Cagnazzo “perché l’agenda rossa costituisce la scatola nera della seconda Repubblica”.
E poi...
Di Stanislao indagato nella rimborsopoli pugliese, scrive il 19 gennaio 2016 Barbara Orsini su "Rete 8". Secondo la procura di Bari l’ex parlamentare dell’Idv, Augusto Di Stanislao, avrebbe percepito indebitamente rimborsi per benzina e alberghi: è indagato insieme ad altre due persone. Guai giudiziari per l’ex parlamentare dell’Idv ed ex consigliere regionale Augusto Di Stanislao: il suo nome, insieme a quello di altre due persone, è finito nel registro degli indagati nell’ambito di un’inchiesta della procura della Repubblica di Bari su rimborsi indebitamente percepiti. Una sorta di rimborsopoli pugliese che vede Di Stanislao indagato nella veste di commissario regionale dell’Idv in Puglia: l’arco temporale passato al setaccio è quello che va da giugno 2011 a marzo 2013. Un’inchiesta innescata dalla denuncia di un dirigente del partito di Antonio Di Pietro, tal Michele Cagnazzo, che ha fatto finire nel ciclone giudiziario l’ex tesoriera regionale del partito in Puglia e un suo braccio destro. L’accusa per tutti, incluso Di Stanislao, è di appropriazione indebita: si parla, nello specifico, di rimborsi per oltre 8500 euro divisi tra spese di carburante, ristoranti e alberghi. Un caso in particolare è balzato agli occhi degli inquirenti: un rifornimento di benzina per un pieno alla ‘Maserati 3200′ di Di Stanislao a cui ci si domanda se l’ex dell’Idv avesse diritto oppure no. Accuse ancora tutte da provare in sede dibattimentale.
Idv, spunta il sex-gate. Prestazioni sessuali in cambio di una promessa di lavoro in Parlamento. A Bari una denuncia contro il senatore Pedica e l'onorevole Zazzera. La donna parla apertamente di ricatti, ovviamente tutti da dimostrare, scrive Riccardo Bocca su "L'Espresso" il 16 giugno 2011. Non bastavano le recenti amarezze elettorali, a guastare il trionfo dell'Italia dei Valori ai referendum. Adesso c'è anche la denuncia presentata il 14 giugno alla Procura di Bari da Michele Cagnazzo, esperto di criminalità organizzata ed ex responsabile per l'Idv dell'Osservatorio pugliese sulla legalità. La storia che emerge da queste pagine è un misto di sesso e politica, segreti e fragilità umane. Uno scenario tutto da dimostrare, naturalmente, al centro del quale si trova C. M., una donna di 31 anni che Cagnazzo incontra nell'aprile 2010 negli uffici baresi dell'Italia dei Valori. "Dopo alcune frequentazioni", scrive nella denuncia, "mi accorsi del fatto che versava in uno stato di non indifferente alterazione emotiva", tant'è che in seguito, acquisita maggiore familiarità, "mi confidava di essere stata vittima di insistenti avances e ricatti da parte del senatore della Repubblica Stefano Pedica e del deputato Pierfelice Zazzera, entrambi iscritti all'Idv". Personaggi non secondari. Zazzera, 43 anni, all'epoca dei fatti era parlamentare Idv e coordinatore regionale del partito in Puglia. Mentre il senatore Pedica, 53 anni, ha una storia che parte dalla Democrazia cristiana, continua nell'Udr di Francesco Cossiga, e sfocia dopo la fondazione del Movimento cristiano democratici europei nel partito dipietrista. "La stessa M.", scrive Cagnazzo, "mi riferiva che, avendo partecipato in qualità di simpatizzante a diversi dibattiti e conferenze, aveva conosciuto entrambi gli esponenti". E che tutti e due avrebbero iniziato, in tempi diversi, "a compulsarla con insistenti inviti e richieste di appuntamenti al di fuori dell'ordinaria attività politica". L'intenzione della donna ("Laureata in giurisprudenza e inoccupata") nell'accettare una serie di inviti, è a detta di Cagnazzo "comprendere se ci fossero opportunità di lavoro". Tant'è che Zazzera, "avendone carpito lo stato di necessità (...) continuò a tempestarla di telefonate e sms con ripetuti inviti a incontri clandestini", svoltisi all'hotel A. di Massafra (Taranto) "dal maggio 2009 all'ottobre 2009". Circostanze, recita la denuncia, che "si possono evincere benissimo dai registri presenze del suddetto albergo", e che comprenderebbero la promessa di Zazzera a M. "di farle ottenere un posto di lavoro presso l'ufficio legislativo del Parlamento ". In cambio, si legge, l'onorevole "chiedeva favori sessuali", e M., "per quanto mi ha riferito, proprio perché versava in gravi difficoltà (...) accettò di accondiscendere alle richieste". In questo contesto, dunque, va ambientata la seconda parte della vicenda. A un certo punto, Cagnazzo racconta che Zazzera avrebbe invitato "M. a Roma presso il proprio alloggio privato dicendole che era necessaria la presenza di lei, sia perché consegnasse il curriculum, sia per sottoscrivere (...) documenti finalizzati a perfezionare un rapporto di lavoro". L'onorevole, anche in quei giorni, avrebbe chiesto alla donna "insistentemente prestazioni sessuali, promettendole in cambio il proprio definitivo interessamento per la stipula di un contratto". Dopodiché, scrive Cagnazzo, "M., per quanto mi ha riferito, accettò di avere ancora un rapporto sessuale". Sentendosi però precisare da Zazzera che, "se avesse voluto guadagnare definitivamente il ruolo, avrebbe dovuto dedicare le medesime attenzioni sessuali al senatore Pedica"; il quale, "secondo quanto disse Zazzera, avrebbe anche lui messo la buona parola". Il resto è presto sintetizzato. Pedica, denuncia Cagnazzo, avrebbe raggiunto la donna all'hotel M. di Brindisi. Un incontro in cui "il senatore disse che per avere determinati benefici, avrebbe dovuto avere rapporti sessuali con lui". Da parte sua, si legge nella denuncia, "M. accettò ed ebbe, nel dicembre 2009, un rapporto sessuale con il senatore". E sarebbe stato il preludio di un ulteriore appuntamento, "sempre a fini sessuali, nel gennaio 2010". Finché, "constatando che nulla si muoveva sul fronte del lavoro, M. interruppe i rapporti anche telefonici con i due". Scoprendo in seguito, "con somma sorpresa, di risultare tra i candidati alle elezioni regionali 2010 per la Puglia, nella lista Idv, pur non avendo mai proposto né tantomeno accettato la propria candidatura". Per quest'ultimo aspetto, riferisce Cagnazzo assistito dall'avvocato Renato Bucci, la signora "mi disse di essersi rivolta a un legale". E sempre Cagnazzo, a seguito di questa vicenda, dichiara di essersi autosospeso da responsabile dell'Osservatorio Idv pugliese sulla legalità: "Cosa che avvenne nel maggio 2010". Ora tocca agli inquirenti il non facile compito di scoprire che cosa sia veritiero, e cosa eventualmente no, in questa brutta vicenda. Una verifica che, per evidenti ragioni, si spera avvenga al più presto.
Sempre dell’IDV.
Lecce, “shopping coi soldi di una vittima della strada”. Arrestato l’avvocato dello Sportello diritti. Francesco D'Agata, già coordinatore dell'Italia di valori in Salento e paladino dei consumatori in diverse trasmissioni tv nazionali, è accusato di aver truffato una donna senegalese, trattenendo 283mila euro su un risarcimento di oltre 600mila riconosciuto dal Fondo vittime della strada, scrive Tiziana Colluto il 12 ottobre 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Si è fidata. Perché lui da sempre è stato al fianco dei più deboli, dei consumatori, dei migranti. Lei, ambulante senegalese, il sospetto di poter essere truffata lo ha anche avuto, una volta, ma è stata rassicurata con tanto di sentenza, poi risultata falsificata. Nella bufera finisce Francesco D’Agata, avvocato leccese di 39 anni, noto in tutta Italia per essere attivo nello “Sportello dei diritti” fondato dal padre Gianni, oltre che per essere stato ospite non di rado di trasmissioni televisive sulle reti nazionali e già coordinatore provinciale dell’Italia dei Valori nel Salento. Per lui, il gip Cinzia Vergine ha disposto l’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Ai domiciliari l’ex collega di studio, l’avvocato Graziano Garrisi, 38 anni. Non è detto che il cerchio sia già chiuso, perché le indagini vanno avanti e molto potrebbe emergere dai documenti sequestrati nelle scorse ore durante le perquisizioni. “D’Agata ha potuto usare il suo background di assistenza nei confronti dei più deboli, approfittando della condizione di minorata difesa della vittima” è l’atto di accusa lanciato in mattinata dal procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta (nella foto). Un porto sicuro lo studio legale di Francesco D’Agata, nella stessa sede dello Sportello dei diritti, in città. La 34enne senegalese, residente nel Salento, non ci ha pensato due volte, anche perché a presentarglielo è stato un connazionale, cognato dell’avvocato. L’uomo giusto, insomma, a cui affidare il suo caso, decisamente serio: nell’aprile 2010, a San Cesario di Lecce, è stata travolta da un’auto, riportando lesioni gravissime. Il responsabile di quel terribile incidente non è mai stato scoperto. Ha intentato, dunque, la causa per il risarcimento danni: il 22 giugno 2015, il Tribunale Civile di Trieste ha imposto al Fondo vittime della Strada di versare a suo favore la somma di 636mila euro, comprensivi di spese. Allianz, la compagnia designata, lo ha fatto in due tranche, con bonifici su un conto corrente intestato alla donna, con domiciliazione presso lo studio legale e sul quale Francesco D’Agata, secondo gli inquirenti, ha operato “a insaputa della signora e senza informarla delle numerose operazioni e movimentazione di denaro”. Alla vera vittima è arrivata solo una parte di quei soldi: 353mila euro. Anche a lei dev’essere sembrato poco, a fronte dei danni patiti. “A richiesta della medesima e per comprovare la bontà del suo operato, D’Agata ha esibito copia conforme all’originale della sentenza falsificata, in quanto alterata negli importi”, è ricostruito nell’ordinanza di custodia cautelare. Nel provvedimento che sarebbe stato ritoccato, la cifra riportata è di 335.565 euro, oltre 22.800 di compensi e 3mila di spese. Stando alle indagini, condotte dalla sezione di polizia giudiziaria della Guardia di finanza, D’Agata ha taciuto “la effettiva liquidazione della somma di 636mila euro in favore dell’assistita trattenendo per sé la restante parte di 283mila euro”. Di questi, 160mila euro erano già stati incassati e 122mila euro “bloccati in extremis”, dopo che la vera titolare del conto corrente lo ha congelato in seguito ad un primo colloquio con la polizia giudiziaria. Al caso, infatti, si è giunti indagando su altro. A carico di D’Agata, come di altri due avvocati leccesi ora indagati, è arrivato un anno fa un esposto. Una donna torinese, la cui storia ha fatto il giro d’Italia per gli episodi di mobbing denunciati, lamentava l’infedele patrocinio: nonostante le rassicurazioni e 4mila euro già versati, il suo ricorso in Cassazione non è mai stato depositato. È stata lei a fornire il numero di conto corrente, che ha fatto da filo d’Arianna. “Abbiamo capito che c’era sotto qualcosa quando abbiamo visto che quel conto era intestato alla signora senegalese, che ha dichiarato di non saperne nulla”, ha spiegato il pm Massimiliano Carducci. I movimenti bancari ricostruiti dagli investigatori hanno consentito di tracciare il corso dei soldi: acquisti di mobili, viaggi, la cabina al mare. Ma a pesare non è questo shopping, bensì quello residuale, 43mila euro impiegati in spese professionali. È per questi che si contesta il reato più grave, quello di autoriciclaggio, che si affianca a quello di truffa aggravata continuata, falso in atto pubblico e infedele patrocinio aggravato dall’aver approfittato delle condizioni personali, di disagio culturale e sociale della vittima. “Francesco D’Agata è sereno”, ribadisce il suo legale Luigi Rella. Risponde di concorso negli stessi reati Graziano Garrisi, assistito dall’avvocato Giancarlo Dei Lazzaretti. Al primo sono stati sequestrati conti correnti e beni per il valore complessivo di 203mila euro; al secondo, invece, 15.500 euro, soldi che avrebbe speso utilizzando indebitamente la carta prepagata rilasciata alla donna senegalese, presentandosi al bancomat opportunamente incappucciato.
"A Lecce case popolari a elettori del centrodestra": indagati il sindaco Perrone e Poli Bortone. Inchiesta dei pm salentini sull'affidamento degli alloggi dopo l'esposto del Pd: tra i 46 avvisi di garanzia anche due assessori comunali, l'ex ministra del governo Berlusconi e il deputato di Marti (Cor), scrive Chiara Spagnolo il 28 febbraio 2017 su "La Repubblica". Indagati eccellenti nell'inchiesta della Procura di Lecce sull'assegnazione delle case popolari nel capoluogo salentino: la richiesta di proroga delle indagini formulata dai pm ha fatto venire fuori i nomi del sindaco uscente Paolo Perrone e dell'ex sindaca Adriana Poli Bortone, del deputato Roberto Marti (Cor, già assessore comunale) e degli attuali componenti della giunta Nunzia Brandi e Damiano D'Autilia. Il terremoto arriva in piena campagna elettorale, con Perrone che cerca di passare il testimone al giornalista Mauro Giliberti e si ricandida come consigliere comunale. Quarantasei, in totale, le persone su cui si concentrano le indagini dei finanzieri del Nucleo di polizia tributaria, coordinate dai sostituti procuratori Massimiliano Carducci e Roberta Licci, che stanno passando al setaccio gli atti relativi al periodo fra il 2006 e il 2016. L'ipotesi - ancora parzialmente da verificare - è che l'assegnazione degli alloggi popolari di Lecce sia stata improntata a criteri poco trasparenti. Dettata da favoritismi più che dal rispetto delle regole e da una serie di atti pilotati in favore di elettori del centrodestra, come dimostra il fatto che tra gli indagati figurano anche numerosi dirigenti del Comune. A fare scattare le indagini furono gli esposti presentati negli anni da diversi esponenti del Pd, a partire dall'assessora regionale alle Attività economiche, Loredana Capone, che nel 2012 fu candidata sindaco a Lecce. Fu lei a denunciare in Procura e al prefetto l'esistenza di "un contesto elettorale a rischio" e nella stessa direzione andarono qualche anno più tardi la viceministra Teresa Bellanova e il parlamentare pd Salvatore Capone, recapitando ai magistrati un articolato dossier sul meccanismo di assegnazione delle case popolari. Tra la documentazione al vaglio degli investigatori, le testimonianze di inquilini che lamentavano richieste di mazzette da parte di esponenti politici per il mantenimento dell'assegnazione, le visite nel corso delle campagne elettorali, le occupazioni abusive e molti altri presunti illeciti. I reati, contestati a vario titolo, vanno dall'associazione per delinquere alla corruzione, abuso d'ufficio, falso materiale e ideologico, truffa.
Lecce, favori nell’assegnazione di case popolari: indagati il sindaco Perrone, Adriana Poli Bortone e il deputato Marti. I reati ipotizzati dalla procura salentina sono falso, abuso d’ufficio, omissione di atti d’ufficio e invasione di edifici. 46 le persone sotto inchiesta, tra loro - oltre all'attuale primo cittadino e all'ex ministro del governo Berlusconi - anche due assessori comunali, i due ultimi segretari di palazzo di città. Secondo l'accusa, gli indagati avrebbero agevolato determinati inquilini a colpi di sanatorie di occupazioni abusive, semplici delibere, passaggi indebiti dalle case parcheggio agli alloggi. Tra questi ci sono anche persone ritenute vicine ai clan della Scu, scrive Tiziana Colluto il 28 febbraio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Nel bel mezzo della campagna elettorale per le amministrative, a Lecce deflagra la bomba alloggi popolari. Emergono nomi eccellenti dal vaso di Pandora della lunga inchiesta che tiene col fiato sospeso la politica cittadina. Il punto di partenza degli inquirenti è noto: presunti favori nell’assegnazione delle case in cambio di sostegno alle elezioni del 2012 e anche prima. Nel registro degli indagati finisce, ora, l’attuale sindaco Paolo Perrone, che ha annunciato che tornerà a correre in prima persona a sostegno del candidato del centrodestra Mauro Giliberti. Poi, ci sono l’ex primo cittadino Adriana Poli Bortone e il deputato fittiano Roberto Marti, già assessore alla Casa del Comune di Lecce. Si aggiungono gli attuali assessori alle Politiche giovanili e al Welfare, Damiano D’Autilia e Nunzia Brandi; i due ultimi segretari comunali Domenico Maresca e Vincenzo Specchia; il capo di Gabinetto Maria Luisa De Salvo; i dirigenti Luigi Maniglio, Nicola Elia e Raffaele Attisani; l’ex consigliere regionale di Azzurro Popolare Aldo Aloisi. I reati ipotizzati sono quelli di falso, abuso d’ufficio, omissione di atti d’ufficio e invasione di edifici. Sono 46 in totale i nomi che emergono dalla richiesta di proroga delle indagini preliminari notificata nella giornata di ieri dai militari del Nucleo di Polizia tributaria della Guardia di Finanza. Nell’atto presentato al gip Giovanni Gallo e a firma dei pm Roberta Licci e Massimiliano Carducci, compaiono anche altri dipendenti comunali e molti residenti delle case popolari della zona 167. Intere palazzine di via Potenza, via Pistoia, Piazzale Cuneo e Piazzale Genova sarebbero state assegnate con criteri poco trasparenti, tra il 2006 e il 2016. Per almeno 28 appartamenti, cioè, si sospettano attribuzioni senza requisiti, a colpi di sanatorie di occupazioni abusive, semplici delibere, passaggi indebiti dalle case parcheggio agli alloggi. Il tutto con la presunta influenza degli amministratori e commistione dei dipendenti di Palazzo Carafa, per agevolare precisi gruppi di inquilini. Tra questi ci sono anche persone ritenute vicine ai clan della Scu. La contiguità con ambienti della criminalità organizzata in questo settore è stata uno dei terreni su cui ha vigilato anche la commissione parlamentare antimafia, durante la sua visita a Lecce un anno fa. Ed è uno dei temi che ha visto impegnato il prefetto Claudio Palomba in prima persona, con la sorveglianza esterna del Settore casa del Comune. Le faglie di questo terremoto giudiziario vengono da lontano, dagli esposti che avvelenarono la precedente campagna elettorale per le amministrative. Due anni fa, si sentirono le prime scosse, quando vennero notificati i primi quattro avvisi di garanzia a due assessori della giunta Perrone, attualmente ancora in carica, Attilio Monosi e Luca Pasqualini, oltre che ad un consigliere comunale Pd e a un dirigente comunale. L’accusa, allora, fu di aver messo in piedi una vera e propria associazione a delinquere bipartisan, ritenuta la regia di “gravi e plurimi favoritismi” negli iter burocratici relativi all’assegnazione delle case popolari, “con grave evidente danno dei legittimi aspiranti all’assegnazione”. Stando ad una indagine di Nomisma Federcasa, Lecce resta, probabilmente non a caso, la capitale d’Italia delle occupazioni abusive, con la percentuale più alta in relazione al numero di abitanti: a vivere nelle case popolari senza requisiti è un inquilino su tre.
Inchiesta alloggi popolari, D’Autilia: “io estraneo ai fatti”. Perrone: “atto dovuto”. In merito all'inchiesta sugli alloggi popolari intervengono l'assessore comunale comunale Dmiano d'Autila, che si dice estraneo ai fatti, e il primo cittadino Paolo Perrone, fiducioso nell'operato nella Magistratura, scrive il 28 febbraio 2017 TrNews. L’assessore comunale Damiano D’Autilia interviene in merito all’inchiesta della Procura di Lecce sulle case popolari, definendosi “estraneo ai fatti”. “Sono rimasto amareggiato per essere stato raggiunto da un avviso di garanzia da parte della Procura di Lecce– afferma- durante la mia esperienza amministrativa non ho mai avuto ruoli o incarichi che potessero essere riconducibili alla vicenda relativa all’assegnazione degli alloggi di proprietà comunale”. Per il primo cittadino Paolo Perrone si tratta di un “un atto dovuto e, per certi versi– dice- sono sollevato da questa inchiesta, che dimostrerà in modo inequivocabile la nostra correttezza”. Sull’ipotesi che la vicenda possa gravare sulla campagna elettorale del candidato del centro destra precisa che la faccenda ha una duplice chiave di lettura: “se fossimo stati condannati -conclude- avrebbe potuto gravare. Laddove l’indagine dimostri la nostra lealtà, per noi potrebbe essere una spinta”.
"Mai interessata agli alloggi, se ne occupavano Marti e Perrone", scrive Paola Ancora su “Il Quotidiano di Puglia” l'1 Marzo 2017. «Mi sono chiesta che c’entro io. Non mi sono mai occupata di case. Se ne occupavano gli assessori: Marti, Perrone». Adriana Poli Bortone, ex ministro e parlamentare e sindaco della città dal 1999 i primi mesi del 2007, liquida con queste parole la notizia dei nuovi sviluppi nell’inchiesta sulla gestione delle case popolari che la vede indagata. Poche parole e l’indicazione di coloro che, all’epoca della sua amministrazione e a suo avviso e memoria, si occupavano di case quando lei sedeva sulla poltrona di sindaco: gli ex assessori, oggi rispettivamente parlamentare e sindaco, Roberto Marti e Paolo Perrone, indagati come lei.
Senatrice come ha reagito alla notizia di essere indagata?
«Veramente io ho saputo di questo fatto dai giornali. Non so nemmeno che dire. Mi sono chiesta che c’entro io».
Lei è stata sindaco fino all’inizio del 2007 e l’inchiesta copre un arco temporale dal 2006 al 2015.
«Sì, ma io non mi sono mai occupata di case. Gli assessori se ne occupavano: Marti, Perrone. Loro se ne occupavano. è la prima volta che vengo a conoscenza di certe cose. E mi ripropongo di andare a capire se posso almeno sapere e chiedere di che si tratta, di che parliamo».
Olimpiadi Concorso infermieri ASL LE: I tempi dei vincitori. ASL Lecce, si assumono gli infermieri che per primi fanno le domande e non per meriti, scrive il 17 gennaio 2017 Lucio Marengo direttore di Metropoli. “Se la Costituzione stabilisce che nella pubblica amministrazione si entra per concorso pubblico, la Asl di Lecce si supera e comunica che per l’avviso pubblico per personale infermieristico il criterio sia l’ordine di arrivo delle domande. Un’escalation di assurdità, proprio a ridosso dalle elezioni amministrative, che avvalora i dubbi sulla questione che abbiamo avanzato nei giorni scorsi: è venuto il momento di un intervento diretto e deciso del presidente Emiliano”. Così il presidente del Gruppo consiliare di Forza Italia, Andrea Caroppo. “Facciamo un passo indietro. Era già incomprensibile, come abbiamo denunciato insieme ai sindacati, -prosegue- la pubblicazione di un avviso per incarichi infermieristici della durata di 60 giorni, mentre si licenziavano gli infermieri precari già in servizio prima della scadenza dei contratti. Ma se non bastava già questa moltiplicazione di precari, ora arriva la grande beffa: molti interessati non sono riusciti a trasmettere le domande di partecipazione perché la casella Pec della Asl risulta piena. E ancora, il gran finale: la Asl comunica agli infermieri precari di non inoltrare più le domande perché il criterio di assunzione è quello –rullo di tamburi – dell’ordine di trasmissione della stessa domanda. In altre parole, non si assume chi ha più meriti, ma chi ha avuto la fortuna di venire a conoscenza prima dell’opportunità. Il che, chiaramente, ci fa pensare ancora più ad una manovra dal sapore elettorale, ledendo non solo i diritti di coloro che sono stati licenziati prima del tempo, ma anche di chi ha trasmesso la domanda e che magari, pur essendo più meritevole di altri, si vede superato da coloro che hanno appreso dell’avviso prima (magari grazie a qualche ‘uccellino’ che vuole accaparrarsi qualche voto in più)”. “Per questo – conclude Caroppo – chiedo formalmente l’intervento del presidente-assessore Emiliano per il ritiro immediato dell’avviso pubblico ed il ripristino dei principi di trasparenza e meritocrazia nella pubblica amministrazione”.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
Dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Il Potere ti impone: subisci e taci…e noi, coglioni, subiamo la divisione per non poterci ribellare.
Il limite del tempo e dell'uomo, scrive Vittorio Sgarbi, Giovedì 28/12/2017, su "Il Giornale". «Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l'una di non saper nulla, l'altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte». Un pensiero di Leopardi dallo Zibaldone. Inadatto al clima natalizio, ma terribilmente vero. Forse la forza di un pensiero così chiaro dissolve le nostre illusioni, ma ci impegna a dimenticarlo, per fingere che la nostra vita abbia un senso. Perché vivere altrimenti? L'insensatezza della nostra azione si misura con la brevità del tempo. Da tale pensiero è sfiorato anche Dante, che non dubitava di Dio, ma misurava il nostro limite rispetto al tempo: «Se tu riguardi Luni e Urbisaglia/come sono ite e come se ne vanno/di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,/udir come le schiatte si disfanno/non ti parrà nuova cosa né forte,/poscia che le cittadi termine hanno./Le vostre cose tutte hanno lor morte,/sì come voi; ma celasi in alcuna/che dura molto, e le vite son corte». Se tutto finisce, perché noi dovremmo sopravviverci? E se ci fosse qualcosa dopo la morte, che limite dovremmo porvi? I nati e i morti, prima di Cristo, gli egizi e i greci, con le loro religioni, che spazio dovrebbero avere, nell'aldilà che non potevano presumere? La vita dopo la morte toccherebbe anche agli inconsapevoli? Con Dante e Leopardi, all'inferno incontreremo anche Marziale e Catullo? O la vita oltre la morte non sono già, come per Leopardi, i loro versi?
Una locuzione latina, un motto degli antichi romani, è: dividi et impera! Espediente fatto proprio dal Potere contemporaneo, dispotico e numericamente modesto, per controllare un popolo, provocando rivalità e fomentando discordie.
Comunisti, e media a loro asserviti, istigano le rivalità.
Dove loro vedono donne o uomini, io vedo persone con lo stesso problema.
Dove loro vedono lgbti o eterosessuali, io vedo amanti con lo stesso problema.
Dove loro vedono bellezza o bruttezza, io vedo qualcosa che invecchierà con lo stesso problema.
Dove loro vedono madri o padri, io vedo genitori con lo stesso problema.
Dove loro vedono comunisti o fascisti, io vedo elettori con lo stesso problema.
Dove loro vedono settentrionali o meridionali, io vedo cittadini italiani con lo stesso problema.
Dove loro vedono interisti o napoletani, io vedo tifosi con lo stesso problema.
Dove loro vedono ricchi o poveri, io vedo contribuenti con lo stesso problema.
Dove loro vedono immigrati o indigeni, io vedo residenti con lo stesso problema.
Dove loro vedono pelli bianche o nere, io vedo individui con lo stesso problema.
Dove loro vedono cristiani o mussulmani, io vedo gente che nasce senza volerlo, muore senza volerlo e vive una vita di prese per il culo.
Dove loro vedono colti od analfabeti, io vedo discultura ed oscurantismo, ossia ignoranti con lo stesso problema.
Dove loro vedono grandi menti o grandi cazzi, io vedo geni o cazzoni con lo stesso problema.
L’astensione al voto non basta. Come la protesta non può essere delegata ad una accozzaglia improvvisata ed impreparata. Bisogna fare tabula rasa dei vecchi principi catto comunisti, filo massonici-mafiosi.
Noi siamo un unicum con i medesimi problemi, che noi stessi, conoscendoli, possiamo risolvere. In caso contrario un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.
Ed io non sarò tra quei coglioni che voteranno dei coglioni.
La legalità è un comportamento conforme alla legge. Legalità e legge sono facce della stessa medaglia.
Nei regimi liberali l’azione normativa per intervento statale, per regolare i rapporti tra Stato e cittadino ed i rapporti tra cittadini, è limitata. Si lascia spazio all’evolvere naturale delle cose. La devianza è un’eccezione, solo se dannosa per l'equilibrio sociale.
Nei regimi socialisti/comunisti/populisti l’intervento statale è inflazionato da miriadi di leggi, oscure e sconosciute, che regolano ogni minimo aspetto della vita dell’individuo, che non è più singolo, ma è massa. Il cittadino diventa numero di pratica amministrativa, di cartella medica, di fascicolo giudiziario. Laddove tutti si sentono onesti ed occupano i posti che stanno dalla parte della ragione, c’è sempre quello che si sente più onesto degli altri, e ne limita gli spazi. In nome di una presunta ragion di Stato si erogano miriadi di norme sanzionatrici limitatrici di libertà, spesso contrastati, tra loro e tra le loro interpretazioni giurisprudenziali. Nel coacervo marasma normativo è impossibile conformarsi, per ignoranza o per necessità. Ne è eccezione l'indole. Addirittura il legislatore è esso medesimo abusivo e dichiarato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale, ritenuto deviante dalla suprema Carta. Le leggi partorite da un Parlamento illegale, anch'esse illegali, producono legalità sanzionatoria. Gli operatori del diritto manifestano pillole di competenza e perizia pur essendo essi stessi cooptati con concorsi pubblici truccati. In questo modo aumentano i devianti e si è in pochi ad essere onesti, fino alla assoluta estinzione. In un mondo di totale illegalità, quindi, vi è assoluta impunità, salvo l'eccezione del capro espiatorio, che ne conferma la regola. Ergo: quando tutto è illegale, è come se tutto fosse legale.
L’eccesso di zelo e di criminalizzazione crea un’accozzaglia di organi di controllo, con abuso di burocrazia, il cui rimedio indotto per sveltirne l’iter è la corruzione.
Gli insani ruoli, politici e burocratici, per giustificare la loro esistenza, creano criminali dove non ne esistono, per legge e per induzione.
Ergo: criminalizzazione = burocratizzazione = tassazione-corruzione.
Allora, si può dire che è meglio il laissez-faire (il lasciare fare dalla natura delle cose e dell’animo umano) che essere presi per il culo e …ammanettati per i polsi ed espropriati dai propri beni da un manipolo di criminali demagoghi ed ignoranti con un’insana sete di potere.
Prendiamo per esempio il fenomeno cosiddetto dell'abusivismo edilizio, che è elemento prettamente di natura privata. I comunisti da sempre osteggiano la proprietà privata, ostentazione di ricchezza, e secondo loro, frutto di ladrocinio. Sì, perchè, per i sinistri, chi è ricco, lo è perchè ha rubato e non perchè se lo è guadagnato per merito e per lavoro.
Il perchè al sud Italia vi è più abusivismo edilizio (e per lo più tollerato)? E’ presto detto. Fino agli anni '50 l'Italia meridionale era fondata su piccoli borghi, con case di due stanze, di cui una adibita a stalla. Paesini da cui all’alba si partiva per lavorare nelle o presso le masserie dei padroni, per poi al tramonto farne ritorno. La masseria generalmente non era destinata ad alloggio per i braccianti.
Al nord Italia vi erano le Cascine a corte o Corti coloniche, che, a differenza delle Masserie, erano piccoli agglomerati che contenevano, oltre che gli edifici lavorativi e magazzini, anche le abitazioni dei contadini. Quei contadini del nord sono rimasti tali. Terroni erano e terroni son rimasti. Per questo al Nord non hanno avuto la necessità di evolversi urbanisticamente. Per quanto riguardava gli emigrati bastava dargli una tana puzzolente.
Al Sud, invece, quei braccianti sono emigrati per essere mai più terroni. Dopo l'ondata migratoria dal sud Italia, la nuova ricchezza prodotta dagli emigranti era destinata alla costruzione di una loro vera e bella casa in terra natia, così come l'avevano abitata in Francia, Germania, ecc.: non i vecchi tuguri dei borghi contadini, nè gli alveari delle case ringhiera o dei nuovi palazzoni del nord Italia. Inoltre quei braccianti avevano imparato un mestiere, che volevano svolgere nel loro paese di origine, quindi avevano bisogno di costruire un fabbricato per adibirlo a magazzino o ad officina. Ma la volontà di chi voleva un bel tetto sulla testa od un opificio, si scontrava e si scontra con la immensa burocrazia dei comunisti ed i loro vincoli annessi (urbanistici, storici, culturali, architettonici, archeologici, artistici, ambientali, idrogeologici, di rispetto, ecc.), che inibiscono ogni forma di soluzione privata. Ergo: per il diritto sacrosanto alla casa ed al lavoro si è costruito, secondo i canoni di sicurezza e di vincoli, ma al di fuori del piano regolatore generale (Piano Urbanistico) inesistente od antico, altrimenti non si potrebbe sanare con ulteriori costi sanzionatori che rende l’abuso antieconomico. Per questo motivo si pagano sì le tasse per una casa od un opificio, che la burocrazia intende abusivo, ma che la stessa burocrazia non sana, nè dota quelle costruzioni, in virtù delle tasse ricevute e a tal fine destinate, di infrastrutture primarie: luce, strade, acqua, gas, ecc.. Da qui, poi, nasce anche il problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Burocrazia su Burocrazia e gente indegna ed incapace ad amministrarla.
Per quanto riguarda, sempre al sud, l'abusivismo edilizio sulle coste, non è uno sfregio all'ambiente, perchè l'ambiente è una risorsa per l'economia, ma è un tentativo di valorizzare quell’ambiente per far sviluppare il turismo, come fonte di sviluppo sociale ed economico locale, così come in tutte le zone a vocazione turistica del mediterraneo, che, però, la sinistra fa fallire, perchè ci vuole tutti poveri e quindi, più servili e assoggettabili. L'ambientalismo è una scusa, altrimenti non si spiega come al nord Italia si possa permettere di costruire o tollerare costruzioni alle pendici dei monti, o nelle valli scoscese, con pericolo di frane ed alluvioni, ma per gli organi di informazione nazionale, prevalentemente nordisti e razzisti e prezzolati dalla sinistra, è un buon viatico, quello del tema dell'abusivismo e di conseguenza della criminalità che ne consegue, o di quella organizzata che la si vede anche se non c'è o che è sopravalutata, per buttare merda sulla reputazione dei meridionali.
Prima della rivoluzione francese “L’Ancien Régime” imponeva: ruba ai poveri per dare ai ricchi.
Erano dei Ladri!!!
Dopo, con l’avvento dei moti rivoluzionari del proletariato e la formazione ideologica/confessionale dei movimenti di sinistra e le formazioni settarie scissioniste del comunismo e del fascismo, si impose il regime contemporaneo dello stato sociale o anche detto stato assistenziale (dall'inglese welfare state). Lo stato sociale è una caratteristica dei moderni stati di diritto che si fondano sul presupposto e inesistente principio di uguaglianza, in quanto possiamo avere uguali diritti, ma non possiamo essere ritenuti tutti uguali: c’è il genio e l’incapace, c’è lo stakanovista e lo scansafatiche, l’onesto ed il deviante. Il capitale di per sé produce reddito, anche senza il fattore lavoro. Lavoro e capitale messi insieme, producono ricchezza per entrambi. Il lavoro senza capitale non produce ricchezza. Il ritenere tutti uguali è il fondamento di quasi tutte le Costituzioni figlie dell’influenza della rivoluzione francese: Libertà, Uguaglianza, Solidarietà. Senza questi principi ogni stato moderno non sarebbe possibile chiamarlo tale. Questi Stati non amano la meritocrazia, né meritevoli sono i loro organi istituzionali e burocratici. Il tutto si baratta con elezioni irregolari ed a larga astensione e con concorsi pubblici truccati di cooptazione. In questa specie di democrazia vige la tirannia delle minoranze. L’egualitarismo è una truffa. E’ un principio velleitario detto alla “Robin Hood”, ossia: ruba ai ricchi per dare ai poveri.
Sono dei ladri!!!
Tra l’antico regime e l’odierno sistema quale è la differenza?
Sempre di ladri si tratta. Anzi oggi è peggio. I criminali, oggi come allora, saranno coloro che sempre si arricchiranno sui beoti che li acclamano, ma oggi, per giunta, ti fanno intendere di fare gli interessi dei più deboli.
Non diritto al lavoro, che, come la manna, non cade dal cielo, ma diritto a creare lavoro. Diritto del subordinato a diventare titolare. Ma questo principio di libertà rende la gente libera nel produrre lavoro e ad accumulare capitale. La “Libertà” non è statuita nell’articolo 1 della nostra Costituzione catto comunista. Costituzioni che osannano il lavoro, senza crearne, ma foraggiano il capitale con i soldi dei lavoratori.
Le confessioni comuniste/fasciste e clericali ti insegnano: chiedi e ti sarà dato e comunque, subisci e taci!
Io non voglio chiedere niente a nessuno, specie ai ladri criminali e menzogneri, perché chi chiede si assoggetta e si schiavizza nella gratitudine e nella riconoscenza.
Una vita senza libertà è una vita di merda…
Cultura e cittadinanza attiva. Diamo voce alla piccola editoria indipendente.
Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Una lettura alternativa per l’estate, ma anche per tutto l’anno. L’autore Antonio Giangrande: “Conoscere per giudicare”.
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI.
La collana editoriale indipendente “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” racconta un’Italia inenarrabile ed inenarrata.
È così, piaccia o no ai maestrini, specie quelli di sinistra. Dio sa quanto gli fa torcere le budella all’approcciarsi del cittadino comune, ai cultori e praticanti dello snobismo politico, imprenditoriale ed intellettuale, all’élite che vivono giustificatamente separati e pensosi, perennemente con la puzza sotto il naso.
Il bello è che, i maestrini, se è contro i loro canoni, contestano anche l’ovvio.
Come si dice: chi sa, fa; chi non sa, insegna.
In Italia, purtroppo, vigono due leggi.
La prima è la «meritocrazia del contenuto». Secondo questa regola tutto quello che non è dichiaratamente impegnato politicamente è materia fecale. La conseguenza è che, per dimostrare «l'impegno», basta incentrare tutto su un contenuto e schierarsene ideologicamente a favore: mafia, migranti, omosessualità, ecc. Poi la forma non conta, tantomeno la realtà della vita quotidiana. Da ciò deriva che, se si scrive in modo neutro (e quindi senza farne una battaglia ideologica), si diventa non omologato, quindi osteggiato o emarginato o ignorato.
La seconda legge è collegata alla prima. La maggior parte degli scrittori nostrani si è fatta un nome in due modi. Primo: rompendo le balle fin dall'esordio con la superiorità intellettuale rispetto alle feci che sarebbero i «disimpegnati».
Secondo modo per farsi un nome: esordire nella medietà (cioè nel tanto odiato nazional-popolare), per poi tentare il salto verso la superiorità.
Il copione lo conosciamo: a ogni gaffe di cultura generale scatta la presa in giro. Il problema è che a perderci sono proprio loro, i maestrini col ditino alzato. Perché è meno grave essere vittime dello scadimento culturale del Paese che esserne responsabili. Perché, nonostante le gaffe conclamate e i vostri moti di sdegno e scherno col ditino alzato su congiuntivi, storia e geografia, gli errori confermano a pieno titolo come uomini di popolo, gente comune, siano vittime dello scadimento culturale del Paese e non siano responsabili di una sub cultura menzognera omologata e conforme. Forse alla gente comune rompe il cazzo il sentire le prediche e le ironie di chi - lungi dall’essere anche solo avvicinabile al concetto di élite - pensa di saperne un po’ di più. Forse perché ha avuto insegnanti migliori, o un contesto famigliare un po’ più acculturato, o il tempo di leggere qualche libro in più. O forse perchè ha maggior dose di presunzione ed arroganza, oppure occupa uno scranno immeritato, o gli si dà l’opportunità mediatica immeritata, che gli dà un posto in alto e l’opportunità di vaneggiare.
Non c'è nessun genio, nessun accademico tra i maestrini. Del resto, mai un vero intellettuale si permetterebbe di correggere una citazione errata, tantomeno di prenderne in giro l'autore. Solo gente normale con una cultura normale pure loro, con una alta dose di egocentrismo, cresciuti a pane, magari a videocassette dell’Unità di Veltroni e citazioni a sproposito di Pasolini. Maestrini che vedono la pagliuzza negli occhi altrui, pagliuzza che spesso non c'è neppure, e non hanno coscienza della trave nei loro occhi o su cui sono appoggiati.
Intervista all’autore, il dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
«Quando ero piccolo a scuola, come in famiglia, mi insegnavano ad adempiere ai miei doveri: studiare per me per sapere; lavorare per la famiglia; assolvere la leva militare per la difesa della patria; frequentare la chiesa ed assistere alla messa domenicale; ascoltare i saggi ed i sapienti per imparare, rispettare il prossimo in generale ed in particolare i più grandi, i piccoli e le donne, per essere rispettato. La visita giornaliera ai nonni ed agli zii era obbligatoria perché erano subgenitori. I cugini erano fratelli. Il saluto preventivo agli estranei era dovuto. Ero felice e considerato. L'elargizione dei diritti era un premio che puntuale arrivava. Contava molto di più essere onesti e solidali che non rivendicare o esigere qualcosa che per legge o per convenzione ti spettava. Oggi: si pretende (non si chiede) il rispetto del proprio (e non dell'altrui) diritto, anche se non dovuto; si parla sempre con imposizione della propria opinione; si fa a meno di studiare e lavorare o lo si impedisce di farlo, come se fosse un dovere, più che un diritto; la furbizia per fottere il prossimo è un dono, non un difetto. Non si ha rispetto per nessun'altro che non sia se stesso. Non esiste più alcun valore morale. Non c'è più Stato; nè Famiglia; nè religione; nè amicizia. Sui social network, il bar telematico, sguazzano orde di imbecilli. Quanto più amici asocial si hanno, più si è soli. Questa è l'involuzione della specie nella società moderna liberalcattocomunista».
Quindi, oggi, cosa bisogna sapere?
«Non bisogna sapere, ma è necessario saper sapere. Cosa voglio dire? Affermo che non basta studiare il sapere che gli altri od il Sistema ci propinano come verità e fermarci lì, perché in questo caso diveniamo quello che gli altri hanno voluto che diventassimo: delle marionette. E’ fondamentale cercare il retro della verità propinata, ossia saper sapere se quello che sistematicamente ci insegnano non sia una presa per il culo. Quindi se uno già non sa, non può effettuare la verifica con un ulteriore sapere di ricerca ed approfondimento. Un esempio per tutti. Quando si studia giurisprudenza non bisogna fermarsi alla conoscenza della norma ed eventualmente alla sua interpretazione. Bisogna sapere da chi e con quale maggioranza ideologica e perchè è stata promulgata o emanata e se, alla fine, sia realmente condivisa e rispettata. Bisogna conoscere il retro terra per capirne il significato: se è stata emessa contro qualcuno o a favore di qualcun'altro; se è pregna di ideologia o adottata per interesse di maggioranza di Governo; se è un'evoluzione storica distorsiva degli usi e dei costumi nazionali o influenzata da pregiudizi, o sia una conformità alla legislazione internazionale lontana dalla nostra cultura; se è stata emanata per odio...L’odio è un sentimento di rivalsa verso gli altri. Dove non si arriva a prendere qualcosa si dice che non vale. E come quel detto sulla volpe che non riuscendo a prendere l’uva disse che era acerba. Nel parlare di libertà la connessione va inevitabilmente ai liberali ed alla loro politica di deburocratizzazione e di delegificazione e di liberalizzazione nelle arti, professioni e nell’economia mirante all’apoteosi della meritocrazia e della responsabilità e non della inadeguatezza della classe dirigente. Lo statalismo è una stratificazione di leggi, sanzioni e relativi organi di controllo, non fini a se stessi, ma atti ad alimentare corruttela, ladrocinio, clientelismo e sopraffazione dei deboli e degli avversari politici. Per questo i liberali sono una razza in estinzione: non possono creare consenso in una massa abituata a pretendere diritti ed a non adempiere ai doveri. Fascisti, comunisti e clericali sono figli degeneri di una stessa madre: lo statalismo ed il centralismo. Si dicono diversi ma mirano tutti all’assistenzialismo ed alla corruzione culturale per influenzare le masse: Panem et circenses (letteralmente «pane e [giochi] circensi») è una locuzione latina piuttosto nota e spesso citata, usata nell'antica Roma e al giorno d'oggi per indicare in sintesi le aspirazioni della plebe (nella Roma di età imperiale) o della piccola borghesia, o d'altro canto in riferimento a metodi politici bassamente demagogici. Oggi la politica non ha più credibilità perchè non è scollegata dall’economia e dalle caste e dalle lobbies che occultamente la governano, così come non sono più credibili i loro portavoce, ossia i media di regime, che tanto odiano la "Rete". Internet, ormai, oggi, è l'unico strumento che permette di saper sapere, dando modo di scoprire cosa c'è dietro il fronte della medaglia, ossia cosa si nasconda dietro le fake news (bufale) di Stato o dietro la discultura e l'oscurantismo statalista».
Cosa racconta nei suoi libri?
«Sono un centinaio di saggi di inchiesta composti da centinaia di pagine, che raccontano di un popolo difettato che non sa imparare dagli errori commessi. Pronto a giudicare, ma non a giudicarsi. I miei libri raccontato l’indicibile. Scandali, inchieste censurate, storie di ordinaria ingiustizia, di regolari abusi e sopraffazioni e di consueta omertà. Raccontano, attraverso testimonianze e documenti, per argomento e per territorio, i tarli ed i nei di una società appiattita che aspetta il miracolo di un cambiamento che non verrà e che, paradosso, non verrà accettato. In più, come chicca editoriale, vi sono i saggi con aggiornamento temporale annuale, pluritematici e pluriterritoriali. Tipo “Selezione dal Reader’s Digest”, rivista mensile statunitense per famiglie, pubblicata in edizione italiana fino al 2007. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi nei saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali di distribuzione internazionale in forma Book o E-book. Canali di pubblicazione e di distribuzione come Amazon o Google libri. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche. I testi hanno una versione video sui miei canali youtube».
Qual è la reazione del pubblico?
«Migliaia sono gli accessi giornalieri alle letture gratuite di parti delle opere su Google libri e decine di migliaia sono le pagine lette ogni giorno. Accessi da tutto il mondo, nonostante il testo sia in lingua italiana e non sia un giornale quotidiano. Si troveranno, anche, delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato».
Perché è poco conosciuto al grande pubblico generalista?
«Perché sono diverso. Oggi le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili sono emarginati o ignorati. Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo. Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso. Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte. Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”».
Qual è la sua missione?
«“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente…Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili”. Citazioni di Bertolt Brecht. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Perché è orgoglioso di essere diverso?
«E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale».
Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso.
La massa ti considera solo se hai e ti votano solo se dai. Nulla vali se tu sai. Victor Hugo: "Gli uomini ti stimano in rapporto alla tua utilità, senza tener conto del tuo valore." Le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale, tangibile ed immediata, da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili da sempre, pur con altissimo valore, sono emarginati o ignorati, inibendone, ulteriormente, l’utilità.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
Fa quello che si sente di fare e crede in quello che si sente di credere.
La Democrazia non è la Libertà.
La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.
La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.
Cattolici e comunisti, le chiese imperanti, impongono la loro libertà, con la loro morale, il loro senso del pudore ed il loro politicamente corretto.
Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Facciamo sempre il solito errore: riponiamo grandi speranze ed enormi aspettative in piccoli uomini senza vergogna.
Un altro errore che commettiamo è dare molta importanza a chi non la merita.
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI
Le pecore hanno paura dei lupi, ma è il loro pastore che le porta al macello.
Da sociologo storico ho scritto dei saggi dedicati ad ogni partito o movimento politico italiano: sui comunisti e sui socialisti (Craxi), sui fascisti (Mussolini), sui cattolici (Moro) e sui moderati (Berlusconi), sui leghisti e sui pentastellati. Il sottotitolo è “Tutto quello che non si osa dire. Se li conosci li eviti.” Libri che un popolo di analfabeti mai leggerà.
Da queste opere si deduce che ogni partito o movimento politico ha un comico come leader di riferimento, perché si sa: agli italiani piace ridere ed essere presi per il culo. Pensate alle battute di Grillo, alle barzellette di Berlusconi, alle cazzate di Salvini, alle freddure della Meloni, alle storielle di Renzi, alle favole di D’Alema e Bersani, ecc. Partiti e movimenti aventi comici come leader e ladri come base.
Gli effetti di avere dei comici osannati dai media prezzolati nei tg o sui giornali, anziché vederli esibirsi negli spettacoli di cabaret, rincoglioniscono gli elettori. Da qui il detto: un popolo di coglioni sarà sempre amministrato o governato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Per questo non ci lamentiamo se in Italia mai nulla cambia. E se l’Italia ancora va, ringraziamo tutti coloro che anziché essere presi per il culo, i comici e la loro clack (claque) li mandano a fanculo.
Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.
Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.
Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?
"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)
«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.
Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!
Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.
Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.
Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...
Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa".
Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.
La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.
Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.
Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.
Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.
Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.
Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.
Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.
Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.
E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.
Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.
E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.
Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.
Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.
Ergo. Ai miei figli ho insegnato:
Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;
Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;
Le banche vi vogliono falliti;
La burocrazia vi vuole sottomessi;
La giustizia vi vuole prigionieri;
Siete nati originali…non morite fotocopia.
Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Lettera ad un amico che ha tentato la morte.
Le difficoltà rinforzano il carattere e certo quello che tu eri, oggi non lo sei.
Le difficoltà le affrontano tutti in modi diversi, come dire: in ogni casa c’è una croce. L’importante portarla con dignità. E la forza data per la soluzione è proporzionale all’intelligenza.
Per cui: x grado di difficoltà = x grado di intelligenza.
Pensa che io volevo studiare per emergere dalla mediocrità, ma la mia famiglia non poteva.
Per poter studiare dovevo lavorare. Ma lavoro sicuro non ne avevo.
Per avere un lavoro sicuro dovevo vincere un concorso pubblico, che lo vincono solo i raccomandati.
Ho partecipato a decine di concorsi pubblici: nulla di fatto.
Nel “mezzo del cammin della mia vita”, a trentadue anni, avevo una moglie e due figli ed una passione da soddisfare.
La mia vita era in declino e le sconfitte numerose: speranza per il futuro zero!
Ho pensato ai miei figli e si è acceso un fuoco. Non dovevano soffrire anche loro.
Le difficoltà si affrontano con intelligenza: se non ce l’hai, la sviluppi.
Mi diplomo in un anno presso la scuola pubblica da privatista: caso unico.
Mi laureo alla Statale di Milano in giurisprudenza in due anni: caso raro.
Sembrava fatta, invece 17 anni per abilitarmi all’avvocatura senza successo per ritorsione di chi non accetta i diversi. Condannato all’indigenza e al discredito, per ritorsione dei magistrati e dei media a causa del mio essere diverso.
Mio figlio ce l’ha fatta ad abilitarsi a 25 anni con due lauree, ma è impedito all’esercizio a causa del mio disonore.
Lui aiuta gli altri nello studio a superare le incapacità dei docenti ad insegnare.
Io aiuto gli altri, con i miei saggi, ad essere orgogliosi di essere diversi ed a capire la realtà che li circonda.
Dalla mia esperienza posso dire che Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi o valutazioni lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Quindi, caro amico, non guardare più indietro. Guarda avanti. Non pensare a quello che ti manca o alle difficoltà che incontri, ma concentrati su quello che vuoi ottenere. Se non lasci opere che restano, tutti di te si dimenticano, a prescindere da chi eri in vita.
Pensa che più difficoltà ci sono, più forte diventerai per superarle.
Volere è potere.
E sii orgoglioso di essere diverso, perché quello che tu hai fatto, tentare la morte, non è segno di debolezza. Ma di coraggio.
Le menti più eccelse hanno tentato o pensato alla morte. Quella è roba da diversi. Perché? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Per questo bisogna vivere, se lo hai capito: per ribellione e per rivalsa!
Non si deve riporre in me speranze mal riposte.
Io posso dare solidarietà o prestare i miei occhi per leggere o le mie orecchie per sentire, ma cosa posso fare per gli altri, che non son stato capace di fare per me stesso?
Nessuno ha il potere di cambiare il mondo, perché il mondo non vuol essere cambiato.
Ho solo il potere di scrivere, senza veli ideologici o religiosi, quel che vedo e sento intorno a me. E’ un esercizio assolutamente soggettivo, che, d’altronde, non mi basta nemmeno a darmi da vivere.
E’ un lavoro per i posteri, senza remunerazione immediata.
Essere diversi significa anche essere da soli: senza un gruppo di amici sinceri o una claque che ti sostenga.
Il fine dei diversi non combacia con la meta della massa. La storia dimostra che è tutto un déjà-vu.
Tante volte ho risposto no ai cercatori di biografie personali, o ai sostenitori di battaglie personali. Tante volte, portatori delle loro bandiere, volevano eserciti per lotte personali, elevandosi a grado di generali.
La mia missione non è dimostrare il mio talento o le mie virtù rispetto agli altri, ma documentare quanto questi altri siano niente in confronto a quello che loro considerano di se stessi.
Quindi ritienimi un amico che sa ascoltare e capire, ma che nulla può fare o dare ad altri, perché nulla può fare o dare per se stesso.
Sono solo un Uomo che scrive e viene letto, ma sono un uomo senza Potere.
Dell’uomo saggio e giusto si segue l’esempio, non i consigli.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo?
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.
Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.
Ho la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?
Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le magagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.
Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.
Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.
Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite.
Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....
All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.
Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.
E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.
Caso Bellomo, le forti parole di Filippo Facci dopo le testimonianze delle allieve, scrive robertogp il 28/12/2017 su "NewNotizie.it". Come redazione di ‘NewNotizie.it‘ abbiamo preferito non parlare della pietosa vicenda riguardante il consigliere di Stato Francesco Bellomo, il quale si trova adesso indagato dalla procura di Bari, Milano e Piacenza per estorsione, atti persecutori e lesioni gravi. In breve, Francesco Bellomo, consigliere di Stato nonché magistrato, conduceva dei corsi volti ad affrontare al meglio l’esame di accesso alla magistratura; l’accusa rivoltagli negli ultimi giorni si precisa in diverse testimonianze di allieve o ex allieve che accusano l’uomo di alcune clausole molto particolari presenti nel contratto d’iscrizione ai suoi corsi. Veniva ad esempio richiesto alle studentesse di recarsi al corso truccate, con tacchi alti, minigonna e altre peculiarità espresse nel dettaglio all’interno del contratto. Altre bizzarre clausole erano presenti nel foglio da firmare, quali ad esempio che il fidanzamento del o della borsista era consentito solo in seguito all’approvazione personale di Bellomo o addirittura la revoca della borsa di studio in caso di matrimonio. Filippo Facci, giornalista di ‘Libero Quotidiano‘ ha espresso il suo parere riguardo la vicenda sostenendo che le allieve che hanno sporto denuncia abbiano “una fisiologica propensione a essere zoccole (auguri per qualsiasi carriera) oppure siano troppo stordita per poter fare il mestiere del magistrato”. Seppur i toni siano decisamente sopra le righe, Facci spiega con tre motivazioni il perché di una frase così forte: “Il corso di Bellomo era un corso non obbligatorio per affrontare l’ esame per magistrato; i contratti di Bellomo erano palesemente nulli, perché nessun contratto può imporre pretese del genere, e per saperlo basta non essere scemi e infine, alcuni contratti venivano firmati da borsiste che avevano accettato una relazione sessuale con Bellomo, approccio che ci è difficile pensare spontaneo e slegato ai buoni esiti del corso”. Facci ricorda infine che “l’ingresso in magistratura non prevede esami psico-attitudinali”. Mario Barba
Filippo Facci per Libero Quotidiano il 28 dicembre 2017. I dettagli su quanto il consigliere Francesco Bellomo sia porco (copyright Enrico Mentana) li trovate in un altro articolo, e così pure gli aggiornamenti sui «contratti di schiavitù sessuale» (copyright Liana Milella, Repubblica) che imponeva a qualche allieva. Ciò posto, scusate: 1) il corso di Bellomo era un corso non obbligatorio per affrontare l'esame per magistrato; 2) i contratti di Bellomo erano palesemente nulli, perché nessun contratto può imporre pretese del genere, e per saperlo basta non essere scemi; 3) alcuni contratti venivano firmati da borsiste che avevano accettato una relazione sessuale con Bellomo, approccio che ci è difficile pensare spontaneo e slegato ai buoni esiti del corso. Detto questo, insomma: una che accetta di vestirsi in un certo modo, e così truccarsi, e i tacchi e le calze, una che accetta clausole che vietavano i matrimoni e condizionavano i fidanzamenti e autorizzavano a mettere in rete ogni dettaglio sessuale, una che crede che altrimenti avrebbe pagato 100mila euro di penale, beh, una così ha una fisiologica propensione a essere zoccola (auguri per qualsiasi carriera) oppure è troppo stordita per poter fare il mestiere del magistrato: troppo facile da circonvenire o corrompere, comunque sprovvista dell' equilibrio necessario a decidere della vita altrui. Lo diciamo non solo perché l'ingresso in magistratura non prevede esami psico-attitudinali, ma perché molte borsiste di Bellomo, magistrati, anzi magistrate, lo sono già diventate.
Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.
CUORI, TRUFFE E MAZZETTE: È LA FARSA “CONCORSONI”, scrive Virginia Della Sala su "Il Fatto Quotidiano" il 15 agosto 2016. Erano in 6mila per 340 posti. Luglio 2015, concorso in magistratura, prova scritta. Passano in 368. Come in tutti i concorsi, gli altri sono esclusi. Stavolta però qualcosa va diversamente. “Appena ci sono stati comunicati i risultati, a marzo di quest’anno, abbiamo deciso di fare la richiesta di accesso agli atti. Abbiamo preteso di poter visionare non solo i nostri compiti ma anche quelli di tutti i concorrenti risultati idonei allo scritto”, spiega uno dei concorrenti, Lugi R. Milleduecento elaborati, scansionati e inviati tramite mail in un mese. Per richiederli, i candidati hanno dovuto acquistare una marca da bollo da 600 euro. Hanno optato per la colletta: 230 persone hanno pagato circa 3 euro a testa per capire come mai non avessero passato quel concorso che credevano fosse andato bene. E, soprattutto, per verificare cosa avessero di diverso i loro compiti da quelli di chi il concorso lo aveva superato. “Ci siamo accorti che su diversi compiti compaiono segni di riconoscimento: sottolineature, cancellature, strani simboli, schemi”. Anche il Fatto ha potuto visionarli: asterischi, note a piè di pagina, cancellature, freccette. In uno si contano almeno due cuoricini. In un altro, il candidato ha disegnato una stellina. “Ora non c’è molto che possiamo fare per opporci a questi risultati – spiega Luigi – visto che sono scaduti i termini per ricorrere al Tar. Inoltre, molti di noi stanno tentando di nuovo il concorso quest’anno. Ecco perché preferiamo non esporci molto mediaticamente”.
IL RAPPORTO DI BANKITALIA. Eppure, decine di sentenze dimostrano come sia possibile richiedere l’annullamento anche per un solo puntino. “Cancellature, scarabocchi, codici alfanumerici. Decisamente un cuoricino è un segno distintivo per cui può essere sollecitata l’amministrazione – spiega l’avvocato Michele Bonetti –. Qui si parla di un concorso esteso. Ma mi è capitato di assistere persone che partecipavano a un concorso in cui, dei cinque candidati, c’era solo un uomo. Capirà che la grafia di un uomo è facilmente riconoscibile come tale”. Al di là delle scorrettezze, una ricerca della Banca d’Italia pubblicata qualche giorno fa ha dimostrato che in Italia, i concorsi pubblici non funzionano. O, per dirlo con le parole dei quattro economisti autori del dossier Incentivi e selezione nel pubblico impiego (Cristina Giorgiantonio, Tommaso Orlando, Giuliana Palumbo e Lucia Rizzica), “i concorsi non sembrano adeguatamente favorire l’ingresso dei candidati migliori e con il profilo più indicato”. Si parla di bandi frammentati a livello locale, di troppe differenze metodologiche tra le varie gare, di affanno nella gestione coordinata a livello nazionale. Tra il 2001 e il 2015, ad esempio, Regioni ed Enti locali hanno bandito quasi 19mila concorsi per assunzioni a tempo indeterminato, con una media di meno di due posizioni disponibili per concorso. Macchinoso anche il metodo: “Prove scritte e orali, prevalentemente volte a testare conoscenze teorico-nozionistiche” si legge nel paper. Ogni concorrente studia in media cinque mesi e oltre il 45 per cento dei partecipanti rinuncia a lavorare. Così, se si considera che solo nel 2014, 280mila individui hanno fatto domanda per partecipare a una selezione pubblica, si stima che il costo opportunità per il Paese è di circa 1,4 miliardi di euro l’anno. La conseguenza è che partecipa solo chi se lo può permettere e chi ha più tempo libero per studiare. Anche perché si preferisce la prevalenza di quesiti “nozionistici” che però rischiano di “inibire la capacità dei responsabili dell’organizzazione di valutare il possesso, da parte dei candidati, di caratteristiche pur rilevanti per le mansioni che saranno loro affidate, quali le ambizioni di carriera e la motivazione intrinseca”. A tutto questo si aggiungono l’eccesso delle liste degli idonei – il loro smaltimento determina “l’irregolarità della cadenza” dei concorsi e quindi l’incertezza e l’incostanza dell’uscita dei bandi, dice il dossier.
LA BEFFA SICILIANA. Palermo, concorsone scuola per la classe di sostegno nelle medie. Quest’anno, forse per garantire l’anonimato e l’efficienza, il concorso è stato computer based: domande e risposte al pc. Poi, tutto salvato su una penna usb con l’attribuzione di un codice a garanzia dell’anonimato. Eppure, la settimana scorsa i 32 candidati che hanno svolto la prova all’istituto Pio La Torre a fine maggio sono stati riconvocati nella sede. Dovevano indicare e ricordarsi dove fossero seduti il giorno dell’esame perché, a quanto pare, erano stati smarriti i documenti che avrebbero permesso di abbinare i loro compiti al loro nome. “È assurdo – commenta uno dei docenti – sembra una barzelletta: dovremmo fare ricorso tutti insieme, unirci e costringere una volta per tutte il Miur ad ammettere che forse non si era ancora pronti per questa svolta digitale”.
IL VOTO SUL COMPITO CHE NON È MAI STATO FATTO. Maria Teresa Muzzi è invece una docente che si era iscritta al concorso nel Lazio ma poi aveva deciso di non parteciparvi. Eppure, il 2 agosto, ha ricevuto la convocazione per la prova orale per la classe di concorso di lettere e, addirittura, un voto per uno scritto che però non ha mai fatto: 30,4. Avrebbe potuto andare a fare l’orale con la carta d’identità e ottenere una cattedra, mentre il legittimo concorrente avrebbe perso la sua chance di cambiare vita. Ha deciso di non farlo e ancora si attende la risposta dell’ufficio scolastico regionale che spieghi come sia stato possibile un errore del genere. In Liguria per la classe di concorso di sostegno nella scuola secondaria di I grado, l’ufficio scolastico regionale ha disposto la revoca della nomina della Commissione giudicatrice e l’annullamento di tutti i suoi atti perché sarebbero emersi “errori che possono influire sull’esito degli atti e delle operazioni concorsuali”. I candidati ancora attendono di avere nuovi esiti delle prove svolte. E, va ricordato, la correzione dei compiti a risposta aperta nei concorsi pubblici ha una forte componente discrezionale. “Ogni concorso pubblico ha margini di errore ed è perfettibile – spiega Bonetti –. In Italia, però, di lacune ce ne sono troppe e alcune sono strutturali al tipo di prova che si sceglie di far svolgere. L’irregolarità vera è propria, invece, riguarda le scelte politiche che, se arbitrarie e ingiuste, sono sindacabili”.
LE BUSTARELLE DI NAPOLI. Il problema è che si alza sempre più la soglia di accesso in nome della meritocrazia, ma si continuano a lasciare scoperti posti che invece servirebbe coprire. Favorendo così le chiamate dirette e i contratti precari. “Dalla scuola al ministero degli esteri all’autority delle telecomunicazioni – spiega Bonetti. La scelta politica è ancora più evidente nel settore della sanità: ci sono meccanismi di chiusura già nel mondo universitario. Oggi il corso di medicina è previsto per 10mila studenti in tutta Italia mentre le statistiche Crui dal 1990 hanno sempre registrato una media di 130mila immatricolati. Sono restrizioni con un’ideologia. Una volta entrati, ad esempio, c’è prima un altro concorso per la scuola di specializzazione e poi ancora un concorso pubblico che però è per 5mila persone. E gli altri? Attendono e alimentano il settore privato, che colma le lacune del sistema pubblico. O sono chiamati come collaboratori, con forme contrattuali che vanno dalla partita iva allo stage”. Nelle settimane scorse, il Fatto Quotidiano ha raccontato dell’algoritmo ritrovato dalla Guardia di Finanza di Napoli che avrebbe consentito ai partecipanti di rispondere in modo corretto ai quiz di accesso per un concorso. Ad averlo, uno degli indagati di un’inchiesta sui concorsi truccati per accedere all’Esercito. Nel corso delle perquisizioni la Finanza ha ritrovato 100mila euro in contanti, buste con elenchi di nomi (forse i clienti) e un tariffario: il prezzo per superare i concorsi diviso “a pacchetti”, a seconda dell’esame e del corpo al quale accedere (esercito, polizia, carabinieri). La tariffa di 50.000 euro sarebbe relativa al “pacchetto completo”: dai test fisici fino ai quiz e alle prove orali. Solo 20.000 euro, invece, per chi si affidava ai mediatori dopo aver superato le prove fisiche. Uno sconto consistente. Tutto è partito da una soffiata: un ragazzo al quale avevano fatto la proposta indecente, ha rifiutato e ha denunciato. Un altro pure ha detto no, ma senza denunciare. Virginia Della Sala, il Fatto Quotidiano 15/8/2016.
Concorsi truccati all’università, chi controlla il controllore? Scrive Alessio Liberati il 27 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Sta avendo una grande eco in questi giorni l’inchiesta sui concorsi truccati all’università, ove, come la scoperta dell’acqua calda verrebbe da dire, la procura di Firenze ha individuato una sorta di “cupola” che decideva carriere e futuro dei professori italiani. La cosiddetta “raccomandazione” o “spintarella” (una terminologia davvero impropria per un crimine tanto grave) è secondo me uno dei reati più gravi e meno puniti nel nostro ordinamento. Chi si fa raccomandare per vincere un concorso viene trattato meglio, nella considerazione sociale e giuridica (almeno di fatto) di chi ruba un portafogli. Ma chi ti soffia il posto di lavoro o una progressione in carriera è peggio di un ladro qualunque: è un ladro che il portafogli te lo ruba ogni mese, per sempre. Gli effetti di delitti come questo, in sostanza, sono permanenti.
Ma come si è arrivati a ciò? Va chiarito che il sistema giuridico italiano prevede due distinti piani su cui operare: quello amministrativo e quello penale. Di quest’ultimo ogni tanto si ha notizia, nei (rari) casi in cui si riesce a scoperchiare il marcio che si cela dietro ai concorsi pubblici italiani. Di quello relativo alla giustizia amministrativa si parla invece molto meno. Ma tale organo è davvero in grado di assicurare il rispetto delle regole quando si fa ricorso?
Personalmente, denuncio da anni le irregolarità che sono state commesse proprio nei concorsi per l’accesso al Consiglio di Stato, massimo organo di giustizia amministrativa, proprio quell’autorità, cioè, che ha l’ultima parola su tutti i ricorsi relativi ai concorsi pubblici truccati. Basti pensare che uno dei vincitori più giovani del concorso (e quindi automaticamente destinato a una carriera ai vertici) non aveva nemmeno i titoli per partecipare. E che dire dei tempi di correzione? A volte una media di tre pagine al minuto, per leggere, correggere e valutare. E la motivazione dei risultati attribuiti? Meramente numerica e impossibile da comprendere. Tutti comportamenti, si intende, che sono in linea con i principi giurisprudenziali sanciti proprio dalla giurisprudenza dei Tar e del Consiglio di Stato.
E allora il problema dei concorsi truccati in Italia non può che partire dall’alto: si prenda atto che la giustizia amministrativa non è in grado di assicurare nemmeno la regolarità dei concorsi al proprio interno e che, quindi, non può certo esserle affidato il compito istituzionale di decidere su altri concorsi: con un altro organo giurisdizionale che sia davvero efficace nel giudicare le irregolarità dei concorsi pubblici, al punto da costituire un effettivo deterrente, si avrebbe una riduzione della illegalità cui si assiste da troppo tempo nei concorsi pubblici italiani.
Se questa è antimafia…. In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale. Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.
Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposte a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate. L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.
A tal fine, per non aver adempito ai requisiti di delazione, calunnia e speculazione sociale, l’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, sodalizio nazionale di promozione sociale già iscritta al n. 3/2006 presso il registro prefettizio della Prefettura di Taranto Ufficio Territoriale del Governo, il 23 settembre 2017 è stata cancellata dal suddetto registro.
I magistrati favoriscono la mafia, scrive Barbara Di il 12 novembre 2017 su "Il Giornale".
(Quando diventano magistrati con un concorso truccato, spodestando i meritevoli, e per gli effetti sentendosi dio in terra, al di sopra della legge e della morale, ndr).
Quando lasciano indifesi i cittadini davanti ai soprusi.
Quando costringono un cittadino ad un processo eterno per vedersi dichiarare di aver ragione.
Quando non si studiano le carte di un processo e danno torto a chi ha ragione.
Quando per ignoranza applicano una legge nel modo sbagliato.
Quando ritardano anni una sentenza.
Quando un creditore con una sentenza esecutiva ci mette altri anni per avere una minima parte dei soldi spettanti.
Quando un creditore è costretto ad accettare pochi soldi, maledetti e subito per evitare un lungo e costoso processo.
Quando un proprietario di una casa occupata non riesce a riottenerla.
Quando non cacciano chi occupa abusivamente una casa popolare e chi ne avrebbe diritto dorme per strada.
Quando nei tribunali amministrativi devi attendere anni per vedere annullare provvedimenti assurdi della burocrazia o avere un’inutile autorizzazione ingiustamente negata.
Quando un cittadino è costretto a oliare la burocrazia con favori e bustarelle per non attendere anni quell’inutile autorizzazione o per non subire gli assurdi provvedimenti della burocrazia.
Quando un datore di lavoro si vede annullare il licenziamento di un ladro sindacalizzato.
Quando un lavoratore è costretto ad accettare una conciliazione e una buonuscita ridicola perché non ha soldi per un processo eterno.
Quando un cittadino vede impunito il ladro che lo ha derubato.
Quando lasciano impuniti i delinquenti perché non sono cittadini.
Quando incriminano i cittadini che tentano di difendersi da soli.
Quando danno pene ridicole e mai scontate a rapinatori e violentatori.
Quando danno pene esemplari solo ai violentatori che finiscono sui giornali.
Quando lasciano impuniti violenti devastatori che mettono a ferro e fuoco una città per ideologia.
Quando non indagano sui reati che non finiscono sui giornali.
Quando indagano sui reati solo per finire sui giornali.
Quando si inventano i reati per finire sui giornali.
Quando le assoluzioni per reati mediatici sono relegate in un trafiletto sui giornali.
Quando si inventano condanne assurde per reati mediatici che finiscono puntualmente riformate in appello.
Quando indagano sui politici per ideologia.
Quando arrestano i politici per ideologia e poi li assolvono a elezioni passate.
Quando fanno cadere i governi per impedire la riforma della giustizia.
Quando fanno carriera solo per ideologia o per i processi mediatici che si sono inventati.
Quando impediscono ai bravi magistrati di far carriera perché non appartengono alla corrente giusta o lavorano lontani dalle luci dei riflettori.
Quando non indagano sui colleghi che delinquono.
Quando non puniscono i colleghi per i loro clamorosi errori giudiziari.
Quando non applicano provvedimenti disciplinari ai colleghi che meriterebbero di essere cacciati.
Quando archiviano casi di scomparsa e li riaprono per trovare un cadavere in giardino solo dopo un servizio in televisione.
Quando invocano l’obbligatorietà dell’azione penale solo per i reati mediatici e politici anche se sono privi di riscontro.
Quando si dimenticano dell’obbligatorietà dell’azione penale quando i reati sono comuni e colpiscono i cittadini.
Quando si ricordano che un mafioso è mafioso solo quando dà una testata di stampo mafioso.
Quando un cittadino per avere ciò che gli spetta finisce per rivolgersi agli scagnozzi di un boss mafioso.
Quando gli unici territori dove i cittadini non subiscono furti, violenze e soprusi sono quelli controllati dalla mafia.
Quando i cittadini sono costretti a pagare il pizzo ai mafiosi per essere protetti.
Quando non fanno l’unica cosa che dovrebbero fare: dare giustizia per proteggere loro i cittadini.
Quando per colpa dei loro errori ed orrori in Italia ormai siamo tornati alla legge del più forte.
Quando i magistrati non fanno il loro mestiere, la mafia vince perché è il più forte.
A proposito di interdittive prefettizie.
Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. Inoltre l’antimafia preventiva diventata definitiva.
Infine, l’età adulta dell’informativa antimafia? Limiti e caratteri dell’istituto secondo una ricostruzione costituzionalmente orientata, scrive Fulvio Ingaglio La Vecchia. Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, sentenze 29 luglio 2016, n. 247 e 3 agosto 2016, n. 257.
Interdittive antimafia, una sentenza esemplare, scrive Maria Giovanna Cogliandro, Domenica 12/11/2017 su "La Riviera on line". Di recente il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana ha emesso una sentenza in cui vengono precisate le condizioni necessarie affinché l'interdittiva antimafia, figlia della cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore, non porti a un regime di polizia che metta a rischio diritti fondamentali. In questa continua corsa alla giustizia penale, figlia del populismo antimafia fatto di santoni e tromboni che, dai sottoscala di procure e prefetture, con le stimmate delle loro immacolate esistenze, sono sempre in cerca di un succoso cattivo da dare in pasto all’opinione pubblica, capita di imbattersi in una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, una sentenza di cui tutti dovrebbero avere una copia da conservare con cura nel proprio portafoglio, in mezzo ai santini e alla tessera sanitaria. La sentenza riguarda il ricorso presentato da un gruppo di imprese contro la Prefettura di Agrigento, l'Autorità nazionale Anticorruzione e il Comune di Agrigento. Le imprese in questione sono tutte state raggiunte da interdittiva antimafia. Ricordiamo che l’interdittiva antimafia permette all’amministrazione pubblica di interrompere qualsiasi rapporto contrattuale con imprese che presentano un pericolo di infiltrazione mafiosa, anche se non è stato commesso un illecito per cui titolari o dirigenti siano stati condannati. Per dichiarare l’inaffidabilità di un’impresa è sufficiente un’inchiesta in corso, una frequentazione sospetta, un socio “opaco”, una parentela pericolosa che potrebbe condizionarne le scelte, o anche solo la mera eventualità che l’impresa possa, per via indiretta, favorire la criminalità. La sentenza in questione rompe clamorosamente con questa cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore. "Benché un provvedimento interdittivo - argomentano i Giudici - possa basarsi anche su considerazioni induttive o deduttive diverse dagli “indici presuntivi”, è tuttavia necessario che le norme che conferiscono estesi poteri di accertamento ai Prefetti al fine di consentire loro di svolgere indagini efficaci e a vasto raggio, non vengano equiparate a un’autorizzazione a tralasciare di compiere indagini fondate su condotte o su elementi di fatto percepibili poiché, se con le norme in questione il Legislatore ha certamente esteso il potere prefettizio di accertamento della sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, non ha affatto conferito licenza di basare le comunicazioni interdittive su semplici sospetti, intuizioni o percezioni soggettive non assistite da alcuna evidenza indiziaria". Non è quindi permesso far patire all'azienda un danno di immagine, sulla base di un fumus che non trovi riscontro nei fatti. In mancanza di condotte che facciano presumere che il titolare o il dirigente di un'azienda sia in procinto di commettere un reato (o che stia determinando le condizioni favorevoli per delinquere o per “favoreggiare” chi lo compia), non è legittimo che questi sia considerato come "soggetto socialmente pericoloso" e che debba, pertanto, sottostare a "misure di prevenzione" che vanno a incidere su diritti fondamentali. Per giustificare l'invio di una interdittiva antimafia, "non è sufficiente - proseguono i Giudici - affermare che uno o più parenti o amici del soggetto richiedente la certificazione antimafia risultano mafiosi, o vicini a soggetti mafiosi; o vicini o affiliati a cosche mafiose e/o a famiglie mafiose". Occorrerà innanzitutto precisare la ragione per la quale un soggetto viene considerato mafioso. "La pericolosità sociale di un individuo - dichiarano i Giudici - non può essere ritenuta una sua inclinazione strutturale, congenita e genetico-costitutiva (alla stregua di una infermità o patologia che si presenti - sia consentita l’espressione - "lombrosanamente evidente" o comunque percepibile mediante indagini strumentali o analisi biologiche), né può essere presunta o desunta in via automatica ed esclusiva dalla sua posizione socio-ambientale e/o dal suo bagaglio culturale; né, dunque, dalla mera appartenenza a un determinato contesto sociale o a una determinata famiglia (semprecchè, beninteso, i soggetti che ne fanno parte non costituiscano un’associazione a delinquere)". Nel provvedimento interdittivo vanno, inoltre, specificate le circostanze di tempo e di luogo in cui imprenditore e soggetto "mafioso" sono stati notati insieme; le ragioni logico-giuridiche per le quali si ritiene che si tratti non di mero incontro occasionale (o di incontri sporadici), ma di “frequentazione effettivamente rilevante", ossia di relazione periodica, duratura e costante volta a incidere sulle decisioni imprenditoriali. In poche parole, prendere il caffè con un mafioso o presunto tale non è sufficiente. Inoltre, emerge dalla sentenza, qualificare un soggetto “mafioso” sulla scorta di meri sospetti e a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria comporterebbe un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità "simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole e imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni e infiltrazioni mafiose realmente inquinanti". L'interdittiva che inchioda per ipotesi non combatte la delinquenza e la criminalità ma diviene strumentale per sgomberare il campo da personaggi scomodi. "D’altro canto - concludono i giudici - se per attribuire a un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza a una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono". Amen. Ripeto: questa è una sentenza da conservare accanto ai santini. E plastificatela, per evitare che si sgualcisca col tempo.
La strada dell'inquisizione è lastricata dalla cattiva antimafia. Una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana mette in guardia dagli abissi in cui rischiamo di sprofondare perdendo di vista i capisaldi dello Stato di diritto, scrive Rocco Todero il 29 Settembre 2017 su "Il Foglio". Nell’Italia che si è presa il vizio di accusare a sproposito la giustizia amministrativa di essere la causa della propria arretratezza economica e sociale capita di leggere una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana (una sezione del Consiglio di Stato distaccata a Palermo) che dovrebbe essere mandata giù a memoria da quanti nel nostro Paese vivono facendo mostra di stellette meritocratiche (più o meno veritiere) negli uffici delle prefetture, nelle aule dei tribunali, nelle sedi delle università, nelle redazioni di molti giornali e, in ultimo, anche nelle aule del Parlamento. Da molti anni, oramai, si combatte in sede giudiziaria una battaglia sulle modalità di applicazione delle misure di prevenzione, le cosiddette informative antimafia, per mezzo delle quali l’eccessiva solerzia inquisitoria degli uffici periferici del Ministero dell’Interno cerca di realizzare quella che nel linguaggio giuridico si definisce una “tutela anticipata” del crimine, un’azione cioè volta a contrastare i tentativi di infiltrazione mafiosa nel tessuto economico - sociale senza che, tuttavia, si manifestino azioni delittuose vere e proprie da parte dei soggetti interdetti. Il risultato nel corso degli anni è stato abbastanza sconfortante, poiché decine di imprese individuali e società commerciali sono state colpite dall’informativa antimafia e poste, molto spesso, sotto amministrazione prefettizia sulla base di un semplice sospetto coltivato dalle forze dell’ordine. A molti, troppi, è capitato, così, di trovarsi sotto interdittiva antimafia (solo per fare alcuni esempi) a causa di un parente accusato di appartenere ad un’associazione mafiosa o per colpa di un’indagine penale per 416 bis poi sfociata nel proscioglimento o nell’assoluzione o perché una società con la quale s’intrattengono rapporti commerciali è stata a sua volta interdetta per avere stipulato contratti con altra impresa sospettata di subire infiltrazioni mafiose (si, è proprio cosi, si chiama informativa a cascata o di secondo o terzo grado: A viene interdetto perché intrattiene rapporti commerciali con B, il quale non è mafioso, ma coltiva contatti economici con C, il quale ultimo è sospettato di essere, forse, soggetto ad infiltrazioni mafiose. A pagarne le conseguenze è il soggetto A, perché l’infiltrazione mafiosa passerebbe per presunzione giudiziaria da C a B e da B ad A). Spesso i Tribunali amministrativi competenti a conoscere della legittimità delle informative antimafia emanate dalle Prefettura sono stati sin troppo indulgenti con l’Amministrazione pubblica, sacrificando l’effettività della tutela dei diritti fondamentali dei cittadini sull’altare di una lotta alle infiltrazioni mafiose che risente oramai troppo della pressione atmosferica di un clima allarmistico pompato ad arte per ben altri e meno nobili fini politici. Qualche settimana fa, invece, il Consiglio di Giustizia Amministrativa siciliano (composto dai magistrati Carlo Deodato, Carlo Modica de Mohac, Nicola Gaviano, Giuseppe Barone e Giuseppe Verde), dovendo decidere in sede d'appello dell’ennesima informativa antimafia emessa dalla Prefettura di Agrigento, ha sostanzialmente scritto un bellissimo e coraggioso saggio di cultura giuridica liberale, dimostrando che la lotta alla mafia si può ben coltivare salvaguardando i capisaldi di uno Stato di diritto liberal democratico moderno. Il Tribunale ha preso atto del fatto che per stroncare sul nascere la diffusione di alcune condotte criminose non si può fare altro che emettere “giudizi prognostici elaborati e fondati su valutazioni a contenuto probabilistico” che colpiscono soggetti in uno stadio “addirittura anteriore a quello del tentato delitto”. Ma alla pubblica amministrazione, argomentano i Giudici, non è permesso di scadere nell’arbitrio, cosicché non sarà mai sufficiente un mero “sospetto” per giustificare la limitazione delle libertà fondamentali dell’individuo. Si dovranno piuttosto documentare fatti concreti, condotte accertabili, indizi che dovranno essere allo stesso tempo gravi, precisi e concordanti. Non potranno mai essere sufficienti, continua il Tribunale, mere ipotesi e congetture e non potrà mai mancare un “fatto” concreto, materiale, da potere accertare nella sua esistenza, consistenza e rilevanza ai fini della verosimiglianza dell’infiltrazione mafiosa. Per potere affermare che l’impresa di Tizio è sospettata d'infiltrazioni mafiose, allora, non sarà sufficiente affermare che essa intrattiene rapporti con l’impresa di Caio (non mafiosa) che a sua volta, però, ha stipulato accordi con Mevio (lui si, sospettato di collusioni con la mafia), ma sarà necessario dimostrare che una qualche organizzazione mafiosa (ben individuata attraverso i soggetti che agiscono per essa, non la “mafia” genericamente intesa) stia tentando, in via diretta, d’infiltrarsi nell’azienda del primo soggetto. Il legame di parentela con un mafioso, chiariscono ancora i magistrati, non può avere alcuna rilevanza ai fini del giudizio sull’informativa antimafia se non si dimostrerà che chi è stato colpito dal provvedimento interdittivo, lui e non altri, abbia posto in essere comportamenti che possano destare allarme sociale per il loro potenziale offensivo dell’interesse pubblico, “non essendo giuridicamente e razionalmente sostenibile che il mero rapporto di parentela costituisca di per sé, indipendentemente dalla condotta, un indice sintomatico di pericolosità sociale ed un elemento prognosticamente rilevante”. La nostra non è l'epoca del medioevo, conclude il Consiglio di Giustizia Amministrativa, e l'ordinamento giuridico non può svestire i panni dello Stato di diritto: “Sicché, ove fosse possibile qualificare “mafioso” un soggetto sulla scorta di meri sospetti ed a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria si perverrebbe ad un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale (che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole ed imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni ed infiltrazioni mafiose realmente inquinanti). D’altro canto, se per attribuire ad un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza ad una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono.” Da mandare giù a memoria. Altro che il nuovo codice antimafia con il quale fare propaganda manettara a buon mercato.
A proposito di sequestri preventivi giudiziari.
Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.
"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.
Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi.
Interdittive: decine di aziende uccise dal reato di parentela mafiosa, scrive Simona Musco il 4 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Il fenomeno delle interdittive è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione del 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. Solo dalla Prefettura di Reggio Calabria, negli ultimi 14 mesi, sono partite 130 interdittive. Quasi dieci ogni 30 giorni, tutte frutto della gestione del Prefetto Michele Di Bari, approdato nella città dello Stretto ad agosto 2016. Un numero enorme che conferma una tendenza crescente, soprattutto in Calabria, dove in poco più di cinque anni le aziende hanno depositato quasi 500 ricorsi nelle cancellerie dei tribunali amministrativi di Catanzaro e Reggio Calabria. Ma il fenomeno – i cui dai sono ancora incerti – è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione della materia nel 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. I numeri non sono ancora chiari, dato che gli archivi informatici dello Stato non hanno tutti i dati. E così succede che mentre dai siti dei tribunali amministrativi risulta un numero enorme di ricorsi (circa 2000 in cinque anni) e annullamenti (tra i 40 e i 90 l’anno), le cifre fornite dalla Dia, la Direzione investigativa antimafia, parlano di 31 annullamenti dal 2011 fino a maggio 2015. Numeri snelliti dal vuoto di informazioni dalle Prefetture di Napoli, Reggio Calabria e Vibo Valentia. La parte più corposa, dunque. La ratio dello strumento è chiara: «contrastare le forme più subdole di aggressione all’ordine pubblico economico, alla libera concorrenza ed al buon andamento della pubblica amministrazione», sentenzia il Consiglio di Stato. Un provvedimento preventivo, che prescinde quindi dall’accertamento di singole responsabilità penali e anticipa la soglia di difesa. «Per questo – dice ancora il Consiglio di Stato – deve essere respinta l’idea che l’informativa debba avere un profilo probatorio di livello penalistico e debba essere agganciata a eventi concreti ed a responsabilità addebitabili». Se c’è un sospetto, dunque, la Prefettura ha il potere e il dovere di tranciare i rapporti tra aziende private e pubblica amministrazione, attraverso tutta una serie di accertamenti ai quali non si può replicare fino a quando non diventano di pubblico dominio. Ovvero quando l’azienda colpita viene esclusa dai bandi pubblici e marchiata come infetta. Un’etichetta che, a volte, è giustificata da elementi tangibili e concreti, consentendo quindi di sfilare dalle mani dei clan l’appalto, ma altre decisamente meno. Tant’è che sono centinaia i ricorsi vinti, di una vittoria che però è solo parziale: sempre più spesso, infatti, chi si è visto colpire da un’interdittiva, pur vincendo il proprio ricorso, non riesce più a reinserirsi nel mondo del lavoro. Partiamo dal modus operandi: la Prefettura punta gran parte della sua decisione sui legami di parentela e su frequentazioni poco raccomandabili. Nulla o quasi, invece, si dice su fatti concreti che possano far temere effettivamente un condizionamento mafioso. Ed è proprio questo che fa crollare i provvedimenti davanti ai giudici amministrativi, per i quali non basta basarsi su rapporti commerciali e di parentela, «da soli insufficienti», dice ancora il Consiglio di Stato. Occorrono perciò, aggiunge, «altri elementi indiziari a dimostrazione del “contagio”». E «non possono bastare i precedenti penali» riferiti «ad indagini in seguito archiviate e, in altra parte, a condanne molto risalenti nel tempo», in quanto servono elementi «concreti e riferiti all’attualità». Un’interpretazione confermata anche dalla Corte costituzionale, secondo cui è arbitrario «presumere che valutazioni comportamenti riferibili alla famiglia di appartenenza o a singoli membri della stessa diversi dall’interessato debbano essere automaticamente trasferiti all’interessato medesimo». Ma è proprio questo il meccanismo che genera un circolo vizioso capace di far risucchiare una parte rilevante dell’economia dal vortice del sospetto. E le conseguenze non sono solo per le ditte: le interdittive, infatti, colpiscono aziende impegnate in appalti pubblici che così rimangono bloccati, cantieri aperti che si richiuderanno magari dopo anni. Dell’ambiguità dello strumento, lo scorso anno, aveva parlato il senatore Pd e membro della Commissione parlamentare antimafia Stefano Esposito, che al convegno “Warning on crime” all’Università di Torino aveva dichiarato che «lo strumento non funziona e nel 60% dei casi le interdittive vengono respinte» dai giudici amministrativi. Chiedendo dunque una riforma, che anche Rosy Bindi, poco prima, aveva annunciato, nel 2015. «Le interdittive antimafia sono uno strumento statico, mentre la lotta alla mafia ha bisogno di film», ha spiegato. Un film che nel nuovo codice antimafia coincide col controllo giudiziario delle aziende sospette, i cui risultati sono ancora tutti da vedere.
Che affare certe volte l’antimafia! Scrive Piero Sansonetti il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio". I “paradossi” calabresi. Questa storia calabrese è molto istruttiva. La racconta nei dettagli, nell’articolo qui sopra, Simona Musco. La sintesi estrema è questa: un imprenditore incensurato, e senza neppure un grammo di carichi pendenti (che oltretutto è presidente di Confindustria), vince un appalto per costruire i parcheggi del palazzo di Giustizia a Reggio. Un lavoro grosso: più di 15 milioni. Al secondo posto, in graduatoria, una azienda amministrata da un deputato di Scelta Civica. L’azienda del deputato protesta per aver perso la gara e ricorre al Tar. Il Tar dà ragione all’imprenditore e torto all’azienda del deputato. Poi, all’improvviso, non si sa come, la Prefettura fa scattare l’interdittiva e cioè, per motivi cautelari, toglie l’appalto all’imprenditore e lo assegna all’azienda del deputato che aveva perso la gara. Come è possibile? Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. E allora io quell’appalto di 16 milioni di euro te lo levo e lo porgo all’azienda di un deputato. Il deputato in questione, peraltro, fa parte della commissione antimafia. E lo Stato di diritto? E la libera concorrenza? E l’articolo 3 del- la Costituzione? Beh, mettetevi il cuore in pace: esiste una parte del territorio nazionale, e in modo particolarissimo la Calabria, nel quale lo Stato di diritto non esiste, non esiste la libera concorrenza e l’Articolo 3 della Costituzione (quello che dice che tutti sono uguali davanti alla legge) non ha effetti. La ragione di questo Far West, in gran parte, è spiegabile con la presenza della mafia, che la fa da padrona, fuori da ogni regola. Ma anche lo Stato, che la fa da padrone, altrettanto al di fuori da ogni regola, e da ogni senso di giustizia, e mostrando sempre il suo volto prepotente, come questa storia racconta. Lo Stato, con la mafia, è responsabile del Far West. Allora il problema è molto semplice. È assolutamente impensabile che si possa condurre una battaglia seria contro la mafia e la sua grande estensione in alcune zone del Sud Italia, se non si ristabiliscono le regole e se non si riporta lo Stato alla sua funzione, che è quella di produrre equità e sicurezza sociale, e non di produrre prepotenza, incertezza e instabilità. La chiave di tutto è sempre la stessa: ristabilire lo Stato di diritto. E questo, naturalmente, vuol dire che bisogna impedire che i commercianti – ad esempio – siano taglieggiati dalla mafia, ma bisogna anche impedire che i diritti di tutti i cittadini – non solo quelli onesti – siano sistematicamente calpestati. La sospensione della legalità, gli strumenti dell’emergenza (come le interdittive, le commissioni d’accesso e simili) possono avere una loro utilità solo in casi rarissimi e in situazioni molto circoscritte. E solo se usati con rigore estremo e sempre con il terrore di commettere prevaricazioni e ingiustizie. Se invece diventano semplicemente – come succede molto spesso – strumenti di potere dell’autorità, magari frustrata dai suoi insuccessi nella battaglia contro la mafia, allora producono un effetto moltiplicatore, proprio loro, del potere mafioso. Perché la discrezionalità, l’arroganza, l’ingiustizia, creano una condizione sociale e psicologica di massa, nella quale la mafia sguazza. Naturalmente non ho proprio nessun elemento per immaginare che l’azienda che ha fatto le scarpe a quella dell’ex presidente di Confindustria (che si è dimesso dopo aver ricevuto questa interdittiva, che ha spezzato le gambe alla sua azienda e i nervi a lui), e cioè l’azienda del deputato dell’antimafia, abbia brigato per ottenere l’interdittiva contro il concorrente. Non ho mai sopportato la politica e il giornalismo che vivono di sospetti. Però il messaggio che è stato mandato alla popolazione di Reggio Calabria, oggettivamente, è questo: se non sei protetto dalla “compagnia dell’antimafia” qui non fai un passo. E se sei deputato, comunque, sei avvantaggiato. Capite che è un messaggio letale? P. S. Conosco molto bene l’imprenditore di cui sto parlando, e cioè Andrea Cuzzocrea, la cui azienda ora è al palo e rischia di fallire. Lo conosco perché insieme a un gruppo di giornalisti dei quali facevo parte, organizzò quattro anni fa la nascita di un giornale, che si chiamava “Il Garantista” e che durò poco perché dava fastidio a molti (personalmente, in quanto direttore di quel giornale, ho collezionato una trentina di querele) e non aveva una lira in cassa. “Il Garantista” era edito da una cooperativa, molto povera, della quale lui assunse per un periodo la presidenza. Non so quali telefonate ebbe con Teresa Munari. Però so per certo due cose. La prima è che Teresa Munari era una giornalista molto accreditata negli ambienti democratici di Reggio Calabria. L’ho conosciuta quattro o cinque anni fa, mi invitò a casa sua a una cena. C’erano anche il Procuratore generale di Reggio e una deputata molto famosa per il suo impegno “radicale” contro la mafia. La Munari collaborò a “Calabria Ora”, giornale regionale che al tempo dirigevo, e successivamente al “Garantista”. Non era raccomandata. E non fu mai, mai assunta. Non era in redazione, non partecipava alla vita del giornale, scriveva ogni tanto degli articoli, che siccome non avevamo il becco di un quattrino credo che non gli pagammo mai. Qualcuno è in grado di spiegarmi come si fa a dire che uno non può costruire un parcheggio perché una volta ha telefonato a Teresa Munari?
Levano l’appalto a un imprenditore incensurato e lo danno a un deputato dell’antimafia, scrive Simona Musco il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Reggio Calabria: un imprenditore incensurato si vede annullata l’assegnazione, e i lavori per 16 milioni sono affidati all’azienda di un deputato.
PARADOSSI CALABRESI. Una azienda di Reggio Calabria, guidata da imprenditori incensurati e senza carichi pendenti, vince un appalto molto ricco: la costruzione del parcheggio del palazzo di Giustizia. È un lavoro grosso, da 16 milioni. L’azienda che è arrivata seconda, nella gara d’appalto, fa ricorso. Il Tar gli dà torto. E conferma l’appalto all’azienda che si è classificata prima (su 19). Allora interviene il Prefetto e fa scattare l’interdittiva per l’azienda vincitrice. Che vuol dire? Che il prefetto ha questo potere discrezionale di interdire una azienda, temendo infiltrazioni mafiose, anche se questa azienda non è inquisita. E il prefetto di Reggio ha esercitato questo potere. E così il lavoro è passato al secondo classificato. Chi è? È un deputato. Un deputato della commissione antimafia.
Un appalto da 16 milioni di euro per la costruzione del parcheggio del nuovo Palazzo di Giustizia. Diciannove aziende che decidono di provarci e due che arrivano in cima alla graduatoria con pochissimi punti di distacco. E un’interdittiva antimafia che fa transitare l’appalto dalle mani della prima – la Aet srl – alla seconda, la Cosedil, fondata da un parlamentare della Commissione antimafia, Andrea Vecchio, e patrimonio della sua famiglia. È successo a Reggio Calabria, dove l’ex presidente di Confindustria Andrea Cuzzocrea ha visto sparire, in pochi mesi, un lavoro imponente, la poltrona di presidente degli industriali e la credibilità. Tutto a causa di uno strumento preventivo – l’interdittiva – che ora rischia di mandare a gambe all’aria l’azienda, da sempre attiva negli appalti pubblici, e i due imprenditori che la amministrano, Cuzzocrea e Antonino Martino, entrambi incensurati.
UN APPALTO DIFFICILE. Tutto comincia nel 2016, quando la Aet srl vince l’appalto per la costruzione dei parcheggi del tribunale di Reggio Calabria. Un lavoro che la città attendeva da tempo e che, finalmente, sembra potersi sbloccare. Ma i tempi per la firma del contratto vengono rallentati dai ricorsi. In prima fila c’è la Cosedil spa, azienda siciliana, che chiede al Tar la verifica dell’offerta presentata dalla Aet e dei requisiti dell’azienda e di conseguenza l’annullamento dei verbali di gara. I giudici amministrativi valutano il ricorso, bocciando tutte le obiezioni tranne una, quella relativa la giustificazione degli oneri aziendali della sicurezza, per i quali la Commissione giudicatrice dell’appalto avrebbe commesso «un macroscopico difetto d’istruttoria». Un errore, si legge nella sentenza, dal quale però non deriva «automaticamente l’obbligo di escludere la società prima classificata». Il Tar, a gennaio, interpella dunque la Stazione unica appaltante, alla quale chiede di effettuare una nuova verifica sull’offerta dell’Aet. Risultato: viene confermata «la regolarità e la correttezza» dell’aggiudicazione dell’appalto. La firma sul contratto per l’avvio dei lavori, dunque, sembrano avvicinarsi.
L’INTERDITTIVA. Ma l’iter per far partire i cantieri subisce un altro stop, quando ad aprile la Prefettura emette un’informativa interdittiva a carico dell’azienda, escludendola, di fatto, dai giochi. Cuzzocrea, che nel 2013 aveva chiesto alla Commissione parlamentare antimafia di «istituire le white list obbligatorie per gli appalti pubblici, rendendo così più trasparente un settore delicatissimo», si dimette da presidente di Confindustria. L’interdittiva riassume elementi già emersi in precedenza nella corposa relazione che ha portato allo scioglimento dell’amministrazione di Reggio Calabria, elementi già confutati, ai quali si aggiunge un nuovo dato, relativo alla parentesi da editore di Cuzzocrea. Ed è sulla base di quello che la Prefettura rivaluta tutto il passato, sebbene esente da risvolti giudiziari. Si tratta del contatto (finito nell’operazione “Reghion”) tra Cuzzocrea e l’ex deputato Paolo Romeo, già condannato definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa e ora in carcere in quanto considerato dalla Dda reggina a capo della cupola masso- mafiosa che governa Reggio Calabria. Nessun rapporto, almeno documentato, prima del 2014: i due si conoscono a gennaio di quell’anno, in Senato, dove sono stati entrambi invitati, in quanto rappresentanti delle associazioni, per discutere della costituenda città metropolitana. Dopo quella volta un unico contatto: Cuzzocrea, presidente della società editrice del quotidiano Cronache del Garantista, viene contattato da Romeo, che gli chiede di valutare l’assunzione di una giornalista, Teresa Munari, secondo la Dda strumento nelle mani di Romeo. Cuzzocrea propone la giornalista, nota in città e ormai in pensione, al direttore Sansonetti, che la inserisce tra i collaboratori, pur senza un contratto. Tra i pezzi scritti dalla Munari su quella testata ce n’è uno in particolare, considerato dalla Dda utile alla causa di Romeo. Che avrebbe perorato la causa dell’amica facendola passare come «un’opportunità per il giornale e non come un favore che richiedeva per sé stesso o per la giornalista», si legge nel ricorso presentato al Consiglio di Stato dalla Aet. La Prefettura non contesta nessun altro contatto tra Romeo e Cuzzocrea, che, scrivono i legali dell’azienda, «non poteva pensare, visto il modo in cui la cosa era stata richiesta, che vi fossero doppi fini nel suggerimento ricevuto. Romeo – si legge ancora – non ha mai avuto altri contatti con l’ingegnere Cuzzocrea ed è detenuto. Non si comprende, quindi, perché ci sarebbe il rischio che possa, iniziando oggi (perché in passato non è successo), condizionare l’attività della Aet». Gli elementi vecchi riguardano invece il socio Antonino Martino, socio al 50 per cento, e coinvolto, nel 2004, nell’operazione antimafia “Prius”, assieme ad alcuni suoi familiari. Un’indagine conclusa, per Martino, con l’archiviazione, chiesta dallo stesso pm, il 5 marzo 2009. Di lui un pentito aveva detto, per poi essere smentito, di essersi intestato, tra il 1992 e il 1993, un magazzino, in realtà riconducibile al temibile clan Condello di Reggio Calabria. Intestazione fittizia, dunque, ipotesi che si basava anche sulla convinzione – sbagliata – che il padre di Martino, Paolo, fosse parente di Domenico Condello. Tali elementi, nel 2013, non erano bastati alla Prefettura per interdire la Aet, tanto che l’azienda aveva ricevuto il nulla osta e l’inserimento nella “white list”, la lista di aziende pulite che possono lavorare con la pubblica amministrazione. E se anche fossero potenzialmente fonte di pericolo non sarebbero più attuali, considerato che, contestano i legali dell’azienda, Paolo Martino è morto e Condello si trova in carcere.
LA COSEDIL. La Aet, dopo la richiesta di sospensiva dell’interdittiva rigettata dal Tar, attende ora il giudizio del Consiglio di Stato. Nel frattempo, alle spalle dell’azienda reggina, rimane la Cosedil, fondata nel 1965 dal parlamentare del Gruppo Misto Andrea Vecchio. La Spa, secondo le visure camerali, è amministrata dai figli del parlamentare che rimane, come recita il suo profilo Linkedin, presidente onorario. Ma Vecchio, componente della Commissione antimafia, nelle dichiarazioni patrimoniali pubblicate sul sito della Camera si dichiara amministratore unico di una delle aziende che partecipano la Cosedil (la Andrea Vecchio partecipazioni) e consigliere della Cosedil stessa. Che rimane l’unica titolata a prendere, con un iter formalmente impeccabile, l’appalto.
Antimafia mafiosa. Come reagire, scrive il 27 settembre 2017 Telejato. C’È, È INUTILE RIPETERLO TROPPE VOLTE, UNA CERTA PRESA DI COSCIENZA DELLA TURPITUDINE DELLA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA, CHE MEGLIO SAREBBE DEFINIRE “LEGGE DEI SOSPETTI”. ANCHE I PIÙ COCCIUTI COMINCIANO AD AVVERTIRE CHE NON SI TRATTA DI “ABUSI”, DI DOTTORESSE SAGUTO, DI “CASI” COME QUELLO DEL “PALAZZO DELLA LEGALITÀ”, DI FRATELLANZE E CUGINANZE DI AMMINISTRATORI DEVASTANTI. È tutta l’Antimafia che è divenuta e si è rivelata mafiosa. Come si addice al fenomeno mafioso, questa presa di coscienza rimane soffocata dalla paura, dal timore reverenziale per le ritualità della dogmatica dell’antimafia devozionale, del komeinismo nostrano che se ne serve per “neutralizzare” la nostra libertà. Molti si chiedono e ci chiedono: che fare? È già qualcosa: se è vero, come diceva Manzoni, che il coraggio chi non c’è l’ha non se lo può dare, è vero pure che certi interrogativi sono un indizio di un coraggio che non manca o non manca del tutto. Non sono un profeta, né un “maestro” e nemmeno un “antimafiologo”, visto che tanti mafiologhi ci hanno deliziato e ci deliziano con le loro cavolate. Ma a queste cose ci penso da molto tempo, ci rifletto, colgo le riflessioni degli altri. E provo a dare un certo ordine, una certa sistemazione logica a constatazioni e valutazioni. E provo pure a dare a me stesso ed a quanti me ne chiedono, risposte a quell’interrogativo: che fare? Io credo che, in primo luogo, occorre riflettere e far riflettere sul fatto che il timore, la paura di “andare controcorrente” denunciando le sciagure dell’antimafia e la sua mafiosità, debbono essere messe da parte. Che se qualcuno non ha paura di parlar chiaro, tutti possono e debbono farlo. Secondo: occorre affermare alto e forte che il problema, i problemi non sono quelli dell’esistenza delle dott. Saguto. Che gli abusi, anche se sono tali sul metro stesso delle leggi sciagurate, sono la naturale conseguenza delle leggi stesse. Che si abusa di una legge che punisce i sospetti e permette di rovinare persone, patrimoni ed imprese per il sospetto che i titolari siano sospettati è cosa, in fondo, naturale. Sarebbe strano che, casi Saguto, scioglimenti di amministrazioni per pretesti scandalosi di mafiosità, provvedimenti prefettizi a favore di monopoli di certe imprese con “interdizione” di altre, non si verificassero. Terzo. Occorre che allo studio, alle analisi giuridiche e costituzionali delle leggi antimafia e delle loro assurdità, si aggiungano analisi, studi, divulgazioni degli uni e degli altri in relazione ai fenomeni economici disastrosi, alle ripercussioni sul credito, siano intrapresi, approfonditi e resi noti. Possibile che non vi siano economisti, commercialisti, capaci di farlo e di spendersi per affrontare seriamente questi aspetti fondamentali della questione? Cifre, statistiche, comparazioni tra le Regioni. Il quadro che ne deriverà è spaventoso. Quindi necessario. E’ questo l’aspetto della questione che più impressionerà l’opinione pubblica. E poi: non tenersi per sé notizie, idee, propositi al riguardo. Questo è il “movimento”. Il movimento di cui molti mi parlano. Articolo di Mauro Mellini. Avvocato e politico italiano. È stato parlamentare del Partito Radicale, di cui fu tra i fondatori.
Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione? E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile? E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?
Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.
Se la legalità è l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi? La legge va sempre rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali prettamente partigiani.
Va denunciato il fatto che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè: calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola sete di potere. La mafia esiste ed è solo quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…Allora niente è mafia. E se niente è mafia, alla fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.
Invece mafioso è ogni atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.
Non denunciare ciò rende complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se rimarranno da soli ed inascoltati.
Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.
"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.
La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la Saguto e per 15 suoi amici, scrive il 26 ottobre 2017 Telejato. DOPO MESI DI INDAGINI, INTERROGATORI, INTERCETTAZIONI, IL NODO È ARRIVATO AL PETTINE. La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la signora Silvana Saguto, già presidente dell’Ufficio Misure di prevenzione, accusata assieme ad altri 15 imputati, di corruzione, abuso d’ufficio, concussione, truffa aggravata, riciclaggio, dopo una requisitoria durata cinque ore. Saranno invece processati col rito abbreviato i magistrati Tommaso Virga, Fabio Licata e il cancelliere Elio Grimaldi. Tra coloro per cui è stato chiesto il rinvio figurano il padre, il figlio Emanuele e il marito della Saguto, il funzionario della DIA Rosolino Nasca, i docenti universitari Roberto Di Maria e Carmelo Provenzano, assieme ad altri suoi parenti, l’ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo. Posizione stralciata anche per l’altro ex giudice dell’ufficio misure di prevenzione Chiaramontee per il suo compagno Antonio Ticali, per il quale la procura ha chiesto l’archiviazione, e per l’altro professore universitario Luca Nivarra e rito abbreviato per Cappellano Seminara. Prossima udienza il 6 novembre, con la parola alle parti civili e al collegio di difesa. Inutile soffermarci ancora sull’allegro e criminoso modo, portato avanti dalla Saguto, di mettere sotto sequestro aziende alle quali, in qualche modo spesso solo indiziario, si attribuiva una patente di mafiosità per procedere alla loro requisizione e affidarne la gestione agli avvocati o economisti che facevano parte del cerchio magico. L’amministrazione giudiziaria di questi beni ha arrecato danni irreversibili all’economia siciliana, poiché le aziende sono state smantellate e non più restituite, anche quando i proprietari sono stati penalmente assolti da ogni imputazione. E proprio oggi arriva la notizia del dissequestro di due aziende finite nel mirino della Saguto, che nel febbraio 2014 ne aveva disposto il sequestro: si tratta della Fattoria Ferla e della Special Fruit, che hanno operato da anni all’interno del settore ortofrutticolo e che oggi, dopo la disamministrazione affidata a Nicola Santangelo, oggi anche lui sotto processo, sono finite in liquidazione, lasciando disoccupati una decina di lavoratori. Le due aziende erano state accusate di essere sotto la protezione del boss dell’Acquasanta Galatolo, nell’ambito di un sequestro di 250 milioni, ma dopo l’attenta valutazione condotta dai magistrati dell’ufficio misure di prevenzione, oggi affidato al nuovo presidente Malizia e ai giudici Luigi Petrucci e Giovanni Francolini, è stato disposto il dissequestro, in quanto non esiste “neanche il sospetto” di infiltrazioni mafiose. Restano ancora sotto sequestro altri beni ed è in corso il procedimento per il successivo dissequestro.
L’antimafia preventiva diventata definitiva, scrive il 13 ottobre 2017 Telejato.
LA PREVENZIONE. Il caso Saguto ha causato l’implosione di un sistema concepito in origine per aggredire i patrimoni mafiosi e colpire i mafiosi nelle loro ricchezze costruite con l’illegalità. Il sistema, giorno dopo giorno è diventato un metodo in virtù del grande potere attribuito ai giudici di poter sequestrare i beni, anche attraverso la semplice “legge del sospetto”, e di poterli tenere sotto sequestro anche quando i procedimenti penali hanno ufficialmente decretato l’infondatezza di questo sospetto e prosciolto i cosiddetti “preposti”, cioè soggetti a sequestro da ogni imputazione di associazione, contiguità, concorso con il malaffare mafioso. Ancora oggi restano sotto sequestro immensi patrimoni di soggetti che, in altri periodi si sono piegati alla legge del pizzo, in alcuni casi per continuare a lavorare, in altri casi, è giusto dirlo, anche per avere mano libera nel badare ai propri affari. Quello che per loro era un “piegarsi alla regola” della “messa a posto”, per sopravvivere, diventa accusa di collaborazione e concorso in associazione mafiosa, così che le vittime diventano complici. L’imprenditoria siciliana, soprattutto nei suoi risvolti commerciali e nell’edilizia, ha subito tremende battute d’arresto, poiché la mannaia della prevenzione si è abbattuta su aziende che davano lavoro a migliaia di siciliani oggi disoccupati, senza preoccuparsi di sorvegliare la gestione dei beni confiscati, affidati ad amministratori giudiziari, alcuni senza scrupoli, altri del tutto incapaci e incompetenti, che hanno prosciugato i beni dell’azienda loro affidata per foraggiare se stessi e i propri collaboratori. In tal modo quello che avrebbe dovuto essere un momento “preventivo”, al fine di evitare la reiterazione del reato, diventa un momento definitivo, dato il prolungamento all’infinito delle misure di prevenzione, anche ad assoluzione penale avvenuta.
LA NUOVA LEGGE ANTIMAFIA. Da parte di alcuni settori si è gridato alla vittoria e al passo in avanti dato dal nuovo codice antimafia, approvato nel settembre scorso, ma, come abbiamo più volte scritto, si tratta di una legge nata vecchia, con qualche ritocco alla vecchia legge del 2012, senza che siano indicate regole precise né sul periodo, cioè sulla durata in cui un bene deve essere tenuto sotto sequestro, né sulle prove e sulle condizioni che dovrebbero giustificare il sequestro, né sulle penalità da attribuire agli amministratori incompetenti o ai magistrati che hanno agito frettolosamente, senza che la loro azione sia stata giustificata da un minimo di sentenza. È rimasto il solco tra procedimento penale e procedimento di prevenzione, anzi il procedimento di prevenzione è stato esteso anche ai reati di corruzione, commessi in associazione, senza garanzie sulla possibile restituzione e sul risarcimento dei danni causati dalla disamministrazione. Insomma, come al solito non pagherà nessuno e i magistrati potranno continuare ad agire nel massimo della libertà che non è sempre garanzia di giustizia.
I RESPONSABILI. Dopo questa premessa citiamo, e ricordiamo i numerosi nomi di amministratori che, in un modo o in un altro hanno contribuito a creare sfiducia nella possibilità di potere portare avanti un’azione antimafia decisa e corretta, che avrebbe dovuto avere come finalità primaria la possibilità di non affossare l’economia siciliana, ma di salvaguardarla dalle infiltrazioni mafiose e di costruirla nel rispetto delle regole parallelamente alle condizioni di crisi, di cui ancora non si vede l’uscita, nonostante lo strombazzamento di miglioramenti dei quali in Sicilia non vediamo nemmeno l’ombra. La salvaguardia di quel poco esistente, spesso dovuto al coraggio di imprenditori che hanno rischiato tutto e si sono anche indebitati per costruire un’azienda, non è stata in alcun modo presa in considerazione, e ciò ha causato il crollo di strutture e aziende, come quelle dei Niceta, dei Cavallotti, di Calcedonio Di Giovanni, della catena di alberghi Ponte, della Motoroil, della Clinica Villa Teresa di Bagheria, (sia nel settore sanitario che in quello edilizio), della Meditour degli Impastato, dei supermercati Despar di Grigoli in provincia di Trapani e Agrigento, dell’impero televisivo e concessionario dei Rappa e così via. Responsabili i vari a Cappellano Seminara, Sanfilippo, Santangelo, Aulo Giganti, Ribolla, Scimeca, Benanti, Walter Virga, Rizzo, Modica de Moach e così via. Molti di questi sono ancora al loro posto, mentre altri sono stati sostituiti. Di questo lungo elenco faceva parte Luigi Miserendino che, ieri, si è dimesso da tutti gli incarichi, per avere lasciato al suo posto il re dei detersivi Ferdico, il quale è stato assolto da tutto, ma ricondotto in carcere, mentre il carcere è stato revocato a Miserendino, poiché, dimessosi, non potrà più reiterare il reato.
IL PROFESSORE. Oggi spunta la notizia, altrettanto grave dell’interrogatorio del prof. Carmelo Provenzano, il quale, dopo avere sistemato nelle varie amministrazioni moglie, fratello, cognata e altri amici, dopo avere rifornito di frutta fresca il frigorifero della Saguto e del prefetto di Palermo Cannizzo, dopo avere agevolato la laurea del figlio della Saguto, anche con l’aiuto del rettore dell’Università di Enna Di Maria, oggi dichiara candidamente al giudice Bonaccorso che lo sta interrogando, di avere fatto tutto questo perché rientrava nelle sue funzioni di docente aiutare gli alunni, tra i quali cita anche il figlio dell’ex procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari e si lamenta addirittura che le sue telefonate al figlio di Lari non sono agli atti del procedimento contro di lui. Va tenuto presente comunque che Lari è stato quello che ha dato il via all’inchiesta aperta dei giudici di Caltanissetta contro la Saguto e i suoi collaboratori, o, se vogliamo, complici. Secondo Provenzano tutto quello che è successo era “normale”, tutti facevano così, rientrava nel normale modo di gestire i beni sequestrati quello di aiutarsi e appoggiarsi reciprocamente tra i vari componenti del cerchio magico. Né più né meno come quando Craxi dichiarò in parlamento che il sistema delle tangenti ai partiti era normalità, che tutti facevano così, tutti mangiavano e non poteva essere lui solo a pagare per tutti. E se tutto è normale, non è successo niente, abbiamo scherzato, hanno scherzato i giudici di Caltanissetta ad aprire il procedimento, sono tutti innocenti e tutti dovrebbero essere assolti, Cappellano compreso, perché hanno fatto egregiamente il loro lavoro. Conclusione, ma non solo per Provenzano, è che tutto quello che dovrebbe essere anormale, anche il malaffare, è normale, mentre è anormale il corretto funzionamento della giustizia e l’applicazione di eventuali pene nei confronti di chi sbaglia. Ovvero fuori i mascalzoni e dentro chi si comporta onestamente o chi si permette di denunciare il disonesto modo di amministrare la cosa pubblica, i beni dello stato, il corretto funzionamento della giustizia. Come succede molto spesso in Italia, secondo un detto antichissimo cui ostinatamente non possiamo e non dobbiamo rassegnarci: “La furca è pi li poviri, la giustizia pi li fissa
L’Italia non è un paese per giovani (avvocati): elevare barriere castali e di censo non è una soluzione, scrive il 28 Aprile 2017 “L’Inkiesta”. Partiamo da due disfunzioni che affliggono il nostro Paese e che stanno facendo molto parlare di sé. Da una parte, la crisi delle libere professioni e, in generale, delle lauree, con importanti giornali nazionali che ci informano, per esempio, che i geometri guadagnano più degli architetti. Dall’altra, le inefficienze del sistema giudiziario. Queste, sono oggetto di dibattito da tempo immemorabile, ci rendono tra i Paesi peggiori dell’area OCSE e ci hanno fatti condannare da niente-popò-di-meno-che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Incrociate ora i due trend. Indovinate chi ci rimane incastrato in mezzo? Ovviamente i giovani laureati/laureandi in giurisprudenza, chiusi tra un percorso universitario sempre più debole e una politica incapace di portare a termine una riforma complessiva e decente dell’ordinamento forense. Come risolvere la questione? Con il numero chiuso a giurisprudenza? Liberalizzando la professione legale? Niente di tutto questo, ci mancherebbe. In un Paese dove gli avvocati rappresentano una fetta rilevante dei parlamentari, la risposta fornita dall’ennesima riforma è facile facile. Porre barriere di censo e di casta all’accesso alla professione. Da questa prospettiva tutte le recenti novità legislative acquistano un senso e rivelano una logica agghiacciante. I malcapitati che si laureeranno in Giurisprudenza a partire dall’anno 2016/2017 avranno una prima sorpresina: l’obbligo di frequentare una scuola di formazione per almeno 160 ore. Anche a pagamento se necessario, come da parere positivo del Consiglio Nazionale Forense.
La questione sarebbe da portare all’attenzione di un bravo psicanalista. Giusto qualche osservazione: (1) se la pratica deve insegnare il mestiere, perché aggiungere un’altra scuola obbligatoria?; (2) Se la Facoltà di Legge - che in Italia è lunghissima: 5 anni, contro i 3 di Stati Uniti e Regno Unito e i 4 della Francia, per esempio – serve a così poco, tanto da dover essere integrata anche dopo la laurea, perché non riformarla?; (3) perché fermare i ragazzi dopo la laurea, invece di farlo prima? Ci sarebbero anche altre questioni. Per esempio, 160 ore di formazione spalmate su 18 mesi, per i fortunati ammessi, non sono molte in teoria. Tuttavia, basta vedere le sempre maggiori proteste riportate dai giornali, e rigorosamente anonime, di praticanti-fotocopisti senza nome, sfruttati e non pagati, per accorgersi che la realtà è molto diversa dalla visione irenica (ipocrita è offensivo?) dei riformatori. E, in ogni caso, anche se il praticante fosse sufficientemente fortunato da avere qualche soldo in tasca, ciò non gli permetterebbe di godere del dono dell’ubiquità. Ma così si passerebbe dal settore della psicanalisi a quello della parapsicologia. Meglio evitare. Andiamo oltre.
Abbiamo superato la prima trincea. Coi soldi del nonno ci manteniamo nella nostra pratica non pagata o mal pagata. Magari siamo bravissimi ed accediamo ai corsi di formazione a gratis o con borsa. Arriva il momento dell’esame. Presto l’esame scritto sarà senza codice commentato. E fin qui, nessun problema. Meglio ragionare con la propria testa che affannarsi a cercare la “sentenza giusta”, magari senza capirla. Le prove verteranno sempre su diritto civile, diritto penale e un atto. Segue un esame orale con quattro materie obbligatorie: diritto civile, diritto penale, le due relative procedure, due materie a scelta e la deontologia forense. E qui il fine giurista si deve trasformare in una specie di Pico de La Mirandola, mandando a memoria tutto in poco tempo. Magari col capo che non ti concede più di un mese di assenza dalla tua scrivania. Ma il problema di questo esame è un altro. Poniamo che io sia un praticante in gamba e che abbia trovato lavoro in un grosso studio internazionale leader nel settore del diritto bancario. Plausibilmente, lavorerò con professionisti fantastici e avrò clienti prestigiosi. Serve a qualcosa per l’esame di stato? Risposta: no. Riformuliamo la questione. Se io mi occupo di diritto bancario o di diritto societario, cosa me ne frega di studiare diritto penale, materia che non mi interessa e che non praticherò mai? Mistero. L’esame di abilitazione fu regolato per la prima volta nel 1934 e la sua logica è rimasta ferma lì. Come se l’avvocato fosse ancora un piccolo professionista individuale che fa indifferentemente tutto. Pensateci la prossima volta che sentite qualcuno sciacquarsi la bocca con fregnacce sulla specializzazione degli avvocati e sulla dipartita dell’avvocato generico. Pensateci.
Passata anche la seconda trincea. Siete avvocati. Tutto bene? No. Tutto male. Finirete sotto il fuoco della Cassa Forense, obbligatoria, che vi mitraglierà. Non importa se siete potentissimi astri nascenti o piccoli professionisti. I risultati? Migliaia di giovani avvocati che si cancellano dall’albo ogni anno. Sgombriamo subito il campo da equivoci. Spesso quando si introduce questo tema ci si sente rispondere che in Italia ci sono troppi avvocati e se si sfoltiscono è meglio. Giusto. Ma ciò non può condurre ad affermare che dei giovani siano tagliati fuori da un sistema disfunzionale. La selezione dura va bene; il terno al lotto no. La competizione, anche spietata, va bene; le barriere all’accesso strutturate senza la minima logica no. Dietro le belle parole, si nasconde un sistema che, come avviene anche per altre professioni, cerca di tutelare se stesso sbattendo la porta in faccia ai giovani che vorrebbero entrare. Non tutti ovviamente. Senza troppa malizia vediamo che avrà meno crucci: (1) chi ha il padre, nonno, zio, fratello maggiore ecc… titolare di uno studio legale. Una mancetta arriverà sempre, con essa il tempo libero per frequentare la formazione obbligatoria e una study leave succulenta di un paio di mesi per preparare l’esame; (2) chi è ricco di famiglia e che, dunque, può godere dei vantaggi di cui sopra per vie traverse; (3) chi, date le condizioni di cui ai punti 1 e 2, può sostenere l’esame due, tre, quattro, cinque volte. E la meritocrazia? Naaaa, quello è uno slogan da sbandierare in campagna elettorale, cosa avete pensavate, sciocconi? In definitiva, il sistema come si sta concependo non fa altro che porre barriere all’ingresso che favoriscono il ceto e di casta. Una volta che si è entrati, invece, si fa in modo di cacciare fuori coloro che non arrivano a fine mese, tendenzialmente i più giovani o i più piccoli.
Ci sono alternative? Guardiamo un paese come la Francia. Lì, l’esame duro e temutissimo è quello per l’accesso all’école des Avocats, superato ogni anno da meno di un terzo dei candidati. Ma, (1) lo si sostiene appena terminata l’università, quando si è “freschi”; (2) è la precondizione per l’accesso al tirocinio, non un terno al lotto che viene al termine di 18/24 mesi di servaggio, spesso inutile ai fini del superamento dell’esame. Quindi, se si fallisce, al netto della delusione, si può subito andare a fare altro. Oppure si riprova (fino a tre volte). In ogni caso, però, non si buttano due anni di vita. La conclusione è sempre la stessa. L’Italia è un Paese che investe poco nei giovani. E che ci crede poco, a giudicare dalle frequenti sparate e rimbrotti di ministri vari. Sperando che non si cerchi, di fatto, di risolvere il problema con l’emigrazione, il messaggio deve essere chiaro. Non si faccia pagare ai giovani l’incapacità del sistema di riformarsi seriamente e organicamente. Le alternative ci sono.
Giornalisti? E’ meglio se andate a fare gli operai, scrive di Andrea Tortelli, Responsabile di "GiornalistiSocial.it". E’ meglio se andate a fare gli operai, credetemi. Lo dicono i numeri. Chiunque aspiri a fare il giornalista, in Italia, deve confrontarsi con un quadro di mercato ben più drammatico di quello di altri settori in crisi. Il giornalista rimane una professione molto (troppo) ambita, ma non conferisce più prestigio sociale a chi la pratica e soprattutto non è più remunerativa. Diverse classifiche, non solo italiche, inseriscono quello del reporter fra i lavori a maggiore rischio di indigenza. E chi pratica bazzica in questo mondo non può stupirsene.
Qualche numero sui media. Il mondo dei media è in crisi da tempo, ben prima che arrivassero i social a dare il colpo di grazia. In una provincia come Brescia, dove vivo, non c’è un solo giornale cartaceo o una televisione locale che nell’ultimo quinquennio non abbia ridotto il proprio organico e chiuso qualche bilancio in rosso. Tutto ciò mentre gli on line sopravvivono, ma non prosperano: generando numeri, ma recuperando ben poche delle risorse perse per strada dai media tradizionali. In Italia, va detto, i giornali non hanno mai goduto di troppa gloria. Da sempre siamo una delle popolazioni al mondo che legge meno. Meno di una persona su venti, oggi, compra un quotidiano in edicola e il calo è costante. Il Corriere della Sera, solo per fare un esempio, tra il 2004 e il 2014 ha dimezzato le proprie copie (l’on line, nello stesso periodo, è passato da 2 milioni di utenti al mese a 1,5 al giorno, Facebook da zero a 2 milioni di fan…). Nel 2016, ancora, i cinque giornali cartacei più venduti (Corsera, Repubblica, Sole 24 Ore, La Stampa e Gazzetta dello Sport) hanno perso un decimo esatto delle copie.
Non va meglio sul fronte dei fatturati. Dal 2004 al 2014 – permettetemi di riciclare un vecchio dato – il mercato pubblicitario italiano è passato da 8 miliardi 240milioni di euro a 5 miliardi e 739milioni (fonte DataMediaHub). La tv è scesa da 4 miliardi 451 milioni a 3.510 milioni, la stampa si è più che dimezzata da 2 miliardi 891 milioni a 1 miliardo 314 milioni, il web è cresciuto sì. Ma soltanto da 116 milioni a 474. Vuol dire che – dati alla mano – per ogni euro perso dalla carta stampata in questo decennio sono arrivati sul web soltanto 22 centesimi (del resto, agli attuali prezzi di mercato, mille clic vengono pagati oggi meno di due euro…). E gli altri 80 centesimi dove sono finiti? Un po’ si sono persi a causa della crisi. Ma una grossa fetta – non misurabile – è finita alle big del web, nel grande buco nero fiscale di Google e Facebook. Cioè è uscita dal circuito dell’informazione e dell’editoria.
I giornalisti che fanno? A una drastica riduzione delle copie e dei fatturati consegue ovviamente una drastica riduzione degli organici. Ma a questo dato si somma un aumento significativo dell’offerta (complici le scuole di giornalismo, ma non solo…) e un aumento esponenziale della concorrenza “impropria”, dovuta al fatto che Facebook è ormai la prima fonte di informazione degli italiani e sono molti a operare fuori dal circuito tradizionale (e spesso anche fuori dal circuito legale) dei media. In questo contesto, le possibilità di spuntare un contratto ex Articolo 1 (Cnlg) per un giovane sono praticamente nulle. Ma anche portare a casa almeno mille euro lordi al mese è un’impresa se ci sono quotidiani locali, anche di gruppi importanti, che pagano meno di 10 euro un articolo. E on line, a quotazioni di “mercato”, un pezzo viene pagato anche un euro. Lordo. Non è un caso che sempre più colleghi abbiano decisi di cambiare vita, e molto spesso sono i più validi. Ne conosco molti. C’è chi fa l’operaio part time a tempo indeterminato e arrotonda scrivendo (quasi per passione), chi ha mollato tutto per una cattedra da precario alle superiori, chi all’ennesima crisi aziendale ha deciso di andare a lavorare a tempo pieno in fabbrica per mantenere i figli e chi ancora era caporedattore di un noto giornale – oltre che penna di grandissimo talento – e ora si dedica alla botanica. Con risultati di eguale livello, pare. I dati dell’Osservatorio Job pricing, del resto, indicano che nel 2016 un operaio italiano guadagnava mediamente 1.349 euro. Il collaboratore di una televisione locale, a 25 euro lordi a servizio, dovrebbe fare più di 50 uscite (con montaggio annesso) per portare a casa la stessa cifra. Il collaboratore di un quotidiano locale dovrebbe firmare almeno 100 pezzi, tre al giorno. Senza ferie, tredicesima, malattia e possibilità di andare in banca a chiedere un mutuo se privo della firma di papi. Insomma: il vecchio adagio del “sempre meglio che lavorare” è ancora attuale, ma ha drammaticamente cambiato significato. Visto che il giornalismo è diventato per molti un hobby o una moderna forma di schiavitù, quasi al livello dei raccoglitori di pomodori pugliesi. Dunque?
La soluzione. Dunque… Quando qualcuno mi contatta per chiedermi come si fa a diventare giornalista (circostanza piuttosto frequente, visto che gestisco GiornalistiSocial.it) cerco sempre di fornirgli un quadro completo e oggettivo della situazione, per non illudere nessuno. Alcuni si incazzano e spariscono. Altri ringraziano delusi. I più ascoltano, ma non sentono. Una piccola parte comprende che il mestiere del giornalista, nel 2017, ha un senso solo se sussistono due elementi: una grande passione e la volontà di fare gli imprenditori di se stessi. Fare il giornalista, in Italia ma non solo, richiede oggi una grande capacità di adattamento al sistema della comunicazione e un sistema di competenze tecniche estese (fotografia, grafica, video, social, web, seo e anche marketing, parola che farebbe accapponare la pelle a quelli della vecchia scuola) per sopravvivere a un mercato sempre meno chiuso, in cui i concorrenti sono tanto i colleghi e gli aspiranti colleghi, quanto tutti i laureati privi di occupazione e i liberi professionisti dell’articolato mondo web. Ma questo è un altro capitolo. Nel frattempo, è meglio che andiate a fare gli operai. Oppure ribellatevi.
Mi sono laureata nonostante gli abusi dei professori. Mi chiamo Carolina, e sono una neolaureata all'Università Statale di Milano. Mi sono sentita moralmente obbligata a scrivere questa lettera, che spero potrà avere una sua risonanza. So che qualche anno fa i quotidiani si erano già occupati dell'incresciosa situazione logistica in alcune facoltà della Statale, una situazione che ha costretto me come centinaia di altri studenti a seguire per interi semestri le lezioni seduti sul pavimento, quando non addirittura in piedi fuori dalle porte e dalle finestre delle aule. Ma in questa sede vorrei invece parlare della condotta dei professori, della quale ingiustamente non si è mai fatto parola. Per natura tendo a non parlare mai di ciò che non conosco direttamente, quindi mi riferirò esclusivamente alle facoltà sotto la dicitura di Studi Umanistici della Statale. Volendo evitare di fare di tutta l'erba un fascio, ammetto volentieri il fatto di aver incontrato durante la mia carriera universitaria professori competenti e disponibili, e mi piacerebbe poter dire che sono la maggioranza. Ma ciò di cui non si parla mai sono gli altri, una vera e propria casta che segue solamente le proprie regole anche e spesso a dispetto degli studenti. Urge fare qualche esempio pratico. Ci sono professori che perdono esami di studenti e non solo non denunciano l'accaduto, ma bocciano gli studenti interessati sperando che loro non arrivino mai a scoprirlo, ma si limitino semplicemente a ripetere l'esame in questione. Ci sono professori che in una giornata di interrogazioni d'esame si prendono ben tre ore di pausa pranzo. Ce ne sono altri che con appelli programmati da mesi, fanno presentare tutti gli studenti iscritti e poi annunciano di dover partire per un viaggio, e che quelli non interrogati si devono ripresentare due settimane dopo. Alcuni si rifiutano, benché avvisati con anticipo, di interrogare gli studenti che hanno seguito il corso con un altro professore non disponibile per l'appello d'esame. E ultimi, ma certamente non per importanza, ci sono i professori che ogni anno mandano fuori corso decine di studenti che hanno finito per tempo gli esami, impedendogli di laurearsi nell'ultima sessione disponibile per loro e costringendoli a pagare un anno intero di retta universitaria perché "non hanno tempo di seguire questa tesi" oppure perché il candidato "è troppo indietro con la stesura, ci sarebbe troppo da fare". Tutti gli episodi sopra citati sono accaduti ad una sola persona, me. E per quanto io mi renda conto di essere stata particolarmente sfortunata, mi riesce difficile pensare di essere l'unica alla quale cose del genere sono successe. Questi veri e propri abusi di potere rendono quasi impossibile per gli studenti godere del generalmente buon livello di istruzione offerto dall'università. Mi includo nel gruppo quando mi chiedo come mai gli studenti non si siano mai fatti sentire, e mi vergogno quasi un po' a scrivere questa lettera con il mio bell'attestato di laurea appeso in stanza, ma la verità è che mi è costato fin troppa fatica, e non ero disposta a mettere a rischio la possibilità di ottenerlo, dal momento che non ero io ad avere il coltello dalla parte del manico. Ma non mi sembrava ad ogni modo corretto lasciare che tali comportamenti passassero sotto silenzio. L'istruzione pubblica dovrebbe essere un diritto, non un privilegio, ed insegnare dovrebbe essere una grande responsabilità, qualcosa di cui non abusare mai. Carolina Forin 14 ottobre 2017 “L’Espresso”
I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)
“L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.
La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).
"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)
Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.
Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito ed informato da coglioni.
È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt
Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.
"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta".
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?
Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.
Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."
Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.
Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.
I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.
Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontrate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.
L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.
Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.
La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati.
Cane non mangia cane. E questo a Taranto, come in tutta Italia, non si deve sapere.
Questo il commento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS che ha scritto un libro “Tutto su Taranto. Quello che non si osa dire”.
Un’inchiesta di cui nessuno quasi parla. Si scontrano due correnti di pensiero. Chi è amico dei magistrati, dai quali riceve la notizia segretata e la pubblica. Chi è amico degli avvocati che tace della notizia già pubblicata. "Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico", proverbio cinese. Qualcuno a me disse, avendo indagato sulle loro malefatte: “poi vediamo se diventi avvocato”...e così fu. Mai lo divenni e non per colpa mia.
Dei magistrati già sappiamo. C’è l’informazione, ma manca la sanzione. Non una condanna penale o civile. Questo è già chiedere troppo. Ma addirittura una sanzione disciplinare.
Canzio: caro Csm, quanto sei indulgente coi magistrati…, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 19 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Per il vertice della Suprema Corte questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona”. La dichiarazione che non ti aspetti. Soprattutto per il prestigio dell’autore e del luogo in cui è stata pronunciata. «Il 99% dei magistrati italiani ha una valutazione positiva. Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa». A dirlo è il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, intervenuto ieri mattina in Plenum a Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare questa “anomalia” che contraddistingue le toghe rispetto alle altre categorie professionali dello Stato. La valutazione di professionalità di un magistrato che era stato in precedenza oggetto di un procedimento disciplinare ha offerto lo spunto per approfondire il tema, particolarmente scottante, delle “note caratteristiche” delle toghe. «È un dato clamoroso – ha aggiunto il presidente Canzio che i magistrati abbiano tutti un giudizio positivo». Questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona” e che necessita di essere “rivisto” quanto prima. Anche perché fornisce l’immagine di una categoria particolarmente indulgente con se stessa. In effetti, leggendo i pareri delle toghe che pervengono al Consiglio superiore della magistratura, ad esempio nel momento dell’avanzamento di carriera o quando si tratta di dover scegliere un presidente di tribunale o un procuratore, si scopre che quasi tutti, il 99% appunto, sono caratterizzati da giudizi estremamente lusinghieri. Ciò stride con le cronache che quotidianamente, invece, descrivono episodi di mala giustizia. In un sistema “sulla carta” composto da personale estremamente qualificato, imparziale e scrupoloso non dovrebbero, di norma, verificarsi errori giudiziari se non in numeri fisiologici. La realtà, come è noto, è ben diversa. Qualche mese fa, parlando proprio delle vittime di errori giudiziari e degli indennizzi che ogni anno vengono liquidati, l’allora vice ministro della Giustizia Enrico Costa, parlò di «numeri che non possono essere considerati fisiologici ma patologici». Ma il problema è anche un altro. Nel caso, appunto, della scelta di un direttivo, è estremamente arduo effettuare una valutazione fra magistrati che presentato le medesime, ampiamente positive, valutazioni di professionalità. Si finisce per lasciare inevitabilmente spazio alla discrezionalità. Sul punto anche il vice presidente del Csm Giovanni Legnini è d’accordo, in particolar modo quando un magistrato è stato oggetto di una condanna disciplinare. «Propongo al Comitato di presidenza di aprire una pratica per approfondire i rapporti fra la sanzione disciplinare e il conferimento dell’incarico direttivo o la conferma dell’incarico». Alcuni consiglieri hanno, però, sottolineato che l’1% di giudizi negativi sono comunque tanti. Si tratta di 90 magistrati su 9000, tante sono le toghe, che annualmente incappano in disavventure disciplinari. Considerato, poi, che l’attuale sistema disciplinare è in vigore da dieci anni, teoricamente sarebbero 900 le toghe ad oggi finite dietro la lavagna. Un numero, in proporzione elevato, ma che merita una riflessione attenta. Il Csm è severo con i giudici che depositano in ritardo una sentenza ma è di “manica larga” con il pm si dimentica un fascicolo nell’armadio facendolo prescrivere.
Solo un rimbrotto per il pm che "scorda" l'imputato in galera, scrive Rocco Vazzana il 30 novembre 2016 su "Il Dubbio". Il Csm ha condannato 121 magistrati in due anni. Ma si tratta di sanzioni molto leggere. Centoventuno condanne in più di due anni. È il numero di sanzioni che la Sezione Disciplinare del Csm ha irrogato nei confronti di altrettanti magistrati. Il dato è contenuto in un file che in queste ore gira tra gli iscritti alla mailing list di Area, la corrente che racchiude Md e Movimenti. Su 346 procedimenti definiti - dal 25 settembre 2014 al 30 novembre 2016 - 121 si sono risolti con una condanna (quasi sempre di lieve entità), 113 sono le assoluzioni, 15 le «sentenze di non doversi procedere» e 124 le «ordinanze di non luogo a procedere». L'illecito disciplinare riguarda «il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga, in ufficio o fuori, una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario». Le eventuali condanne hanno una gradazione articolata in base alla gravità del fatto contestato. La più lieve è l'ammonimento, un semplice «richiamo all'osservanza dei doveri del magistrato», seguito dalla censura, una formale dichiarazione di biasimo. Poi le sanzioni si fanno più severe: «perdita dell'anzianità» professionale, che non può essere superiore ai due anni; «incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo»; «sospensione dalle funzioni», che consiste nell'allontanamento con congelamento dello stipendio e con il collocamento fuori organico; fino arrivare alla «rimozione» dal servizio. C'è poi una sanzione accessoria che riguarda il trasferimento d'ufficio. Per questo, la sezione Disciplinare può essere considerata il cuore dell'autogoverno. Perché se il Csm può promuovere può anche bloccare una carriera: ai fini interni non serve ricorrere alle pene estreme, basta decidere un trasferimento. E a scorrere il file con le statistiche sui procedimenti disciplinari salta immediatamente all'occhio un dato: su 121 condanne, la maggior parte (90) comminano una sanzione non grave (la censura) e 11 casi si tratta di semplice ammonimento. Le toghe non si accaniscono sulle toghe. La perdita d'anzianità, infatti, è stata inflitta solo a dieci magistrati (due sono stati anche trasferiti d'ufficio), mentre sette sono stati rimossi. Uno solo è stato trasferito d'ufficio senza ulteriori sanzioni, un altro è stato sospeso dalle funzioni con blocco dello stipendio, un altro ancora è stato sospeso dalle funzioni e messo fuori organico. Ma il dato più interessante riguarda le tipologie di illecito contestate. La maggior parte dei magistrati viene sanzionato per uno dei problemi tipici della macchina giudiziaria: il ritardo nel deposito delle sentenze, quasi il 40 per cento dei "condannati" è accusato di negligenze reiterate, gravi e ingiustificate. Alcuni, però, non si limitano al ritardo: il 4 per cento degli illeciti, infatti, riguarda «provvedimenti privi di motivazione», come se si trattasse di un disinteresse totale nei confronti degli attori interessati. Il 23 per cento delle condanne, invece, riguarda una questione che tocca direttamente la vita dei cittadini: la ritardata scarcerazione. E in un Paese in cui si ricorre facilmente allo strumento delle misure cautelari, questo tipo di comportamento determina spesso anche il peggioramento delle condizioni detentive. Quasi il 10 per cento dei giudici e dei pm è stato sanzionato poi per «illeciti conseguenti a reato». Solo il 6,6 per cento delle condanne, infine, è motivato da «comportamenti scorretti nei confronti delle parti, difensori, magistrati, ecc.. ».
Truccati anche i loro concorsi. I magistrati si autoriformino, scrive Sergio Luciano su “Italia Oggi”. Numero 196 pag. 2 del 19/08/2016. Il Fatto Quotidiano ha coraggiosamente documentato, in un'ampia inchiesta ferragostana, le gravissime anomalie di alcuni concorsi pubblici, tra cui quello in magistratura. Fogli segnati con simboli concordati per rendere identificabile il lavoro dai correttori compiacenti pronti a inquinare il verdetto per assecondare le raccomandazioni: ecco il (frequente) peccato mortale. Ma, più in generale, nell'impostazione delle prove risalta in molti casi – non solo agli occhi degli esperti – la lacunosità dell'impostazione qualitativa, meramente nozionistica, che soprattutto in alcune professioni socialmente delicatissime come quella giudiziaria, può al massimo – quando va bene – accertare la preparazione dottrinale dei candidati ma neanche si propone di misurarne l'attitudine e l'approccio mentale a un lavoro di tanta responsabilità. Questo genere di evidenze dovrebbe far riflettere. E dovrebbe essere incrociato con l'altra, e ancor più grave, evidenza della sostanziale impunità che la casta giudiziaria si attribuisce attraverso l'autogoverno benevolo e autoassolutorio che pratica (si legga, al riguardo, il definitivo I magistrati, l'ultracasta, di Stefano Livadiotti).
Ora parliamo degli avvocati. C’è il caso per il quale l’informazione abbonda, ma manca la sanzione.
Un "fiore" da 20mila euro al giudice e il processo si aggiusta. La proposta shock di un curatore fallimentare a un imprenditore. Che succede nei tribunali di Taranto e Potenza? Scrivono di Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24". L’audio che pubblichiamo, racconta in emblematica sintesi, le dinamiche, di quello che, da anni, sembrerebbe un “sistema” illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari. I fatti riguardano, in questo caso, il tribunale di Taranto. I protagonisti della conversazione nell’audio sono un imprenditore, Tonino Scarciglia, inciampato nei meccanismi del “sistema”, il suo avvocato e il curatore fallimentare nominato dal Giudice.
Aste e tangenti, studio legale De Laurentiis di Manduria nell’occhio del ciclone, scrive Nazareno Dinoi il 9 e 10 novembre 2016 su “La Voce di Manduria”. C’è il nome di un noto avvocato manduriano nell’inchiesta aperta dalla Procura della Repubblica di Taranto sulle aste giudiziarie truccate. Il professionista (che non risulta indagato), nominato dal tribunale come curatore fallimentare di un azienda in dissesto, avrebbe chiesto “un fiore” (una mazzetta) da ventimila euro ad un imprenditore di Oria interessato all’acquisto di un lotto che, secondo l’acquirente, sarebbero serviti al giudice titolare della pratica fallimentare. Questo imprenditore che è di Oria, rintracciato e intervistato ieri da Telenorba, ha registrato il dialogo avvenuto nello studio legale di Manduria in cui l’avvocato-curatore avrebbe avanzato la richiesta “del fiore” da 20mila euro. Tutto il materiale, compresi i servizi mandati in onda dal TgNorba, sono stati acquisiti ieri dalla Guardia di Finanza e dai carabinieri di Taranto.
I presunti brogli nella gestione dei fallimenti. «Infangata la giustizia per scopi elettorali». Il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Vincenzo Di Maggio, attacca il M5S: preferisce il sensazionalismo all’impegno per risolvere i problemi, scrive il 15 novembre 2016 Enzo Ferrari Direttore Responsabile di "Taranto Buona Sera". «Ma quale difesa di casta, noi come avvocati abbiamo soltanto voluto dire che il Tribunale non è un luogo dove si ammazza la Giustizia». Vincenzo Di Maggio, presidente dell’Ordine degli Avvocati, torna sulla polemica che ha infiammato gli operatori della giustizia negli ultimi giorni: l’interpellanza di un nutrito gruppo di senatori Cinquestelle su presunte nebulosità nella gestione delle procedure fallimentari ed esecutive al Tribunale di Taranto.
«Fallimenti ed esecuzioni, le procedure sono corrette». Documento delle Camere delle Procedure Esecutive e delle Procedure Concorsuali, scrive "Taranto Buona Sera” il 10 novembre 2016. Prima l’interrogazione parlamentare del M5S su presunte anomalie nella gestione delle procedure fallimentari, a scapito di chi è incappato nelle procedure come debitore; poi il video della registrazione di un incontro che sarebbe avvenuto tra un imprenditore, il suo avvocato e un curatore fallimentare. Un video dagli aspetti controversi e dai contenuti comunque tutti da verificare. Un’accoppiata di situazioni che ha destato clamore e che oggi fa registrare la netta presa di posizione della Camera delle Procedure Esecutive Immobiliari e della Camera delle Procedure Concorsuali. In un documento congiunto, i rispettivi presidenti, gli avvocati Fedele Moretti e Cosimo Buonfrate, fanno chiarezza a tutela della onorabilità dei professionisti impegnati come curatori e custodi giudiziari ed esprimendo piena fiducia nell’operato dei magistrati.
Taranto, rimborsi non dovuti. Procura indaga sugli avvocati. Riflettori accesi su 93mila euro spesi tra il 2014 e il 2015 dopo un esposto del Consiglio, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’11 aprile 2016. Finiscono all’attenzione della Procura della Repubblica i conti dell’Ordine degli avvocati di Taranto. A rivolgersi alla magistratura è stato lo stesso Consiglio, presieduto da Vincenzo Di Maggio, dopo che sarebbero emerse irregolarità contabili riguardanti le anticipazioni e i rimborsi alle cariche istituzionali nell’anno 2014, l’ultimo da presidente per Angelo Esposito, ora membro dal Consiglio nazionale forense. Il fascicolo è stato assegnato al sostituto procuratore Maurizio Carbone, l’ipotesi di reato è quella di peculato essendo l’Ordine degli avvocati ente di diritto pubblico (altrimenti si procederebbe per appropriazione indebita, ma il pm non sarebbe Carbone in quanto quest’ultimo fa parte del pool reati contro la pubblica amministrazione). Di questo se ne è parlato agli inizi, perché l’esposto era dello stesso Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, ma poi nulla si è più saputo: caduto nell’oblio. Il silenzio sarà rotto, forse, dalla inevitabile prescrizione, che rinverdirà l’illibatezza dei presunti responsabili.
E poi c’è il caso, segnalato da un mio lettore, di una eccezionale sanzione emessa dalla magistratura tarantina e taciuta inopinatamente da tutta la stampa.
La notizia ha tutti i crismi della verità, della continenza e dell’interesse pubblico e pure non è stata data alla pubblica opinione.
Il caso di cui trattasi si riferisce ad un esposto di un cittadino, presentato al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto contro un avvocato di quel foro per infedele patrocinio, di cui già pende giudizio civile.
Ma facciamo parlare gli atti pubblicabili.
L’11 maggio 2012 viene presentato l’esposto, il 3 aprile 2013 con provvedimento di archiviazione, pratica 2292, si emette un documento in cui si dichiara che il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto delibera la sua archiviazione in quanto “non risultano elementi a carico del professionista tali da configurare alcuna ipotesi di infrazione disciplinare”. L’atto è sottoscritto il 17 novembre 2014, nella sua copia conforme, dall’avv. Aldo Carlo Feola, Consigliere Segretario. Mansione che il Feola ricompre da decenni.
Fin qui ancora tutto legittimo e, forse, anche, opportuno.
E’ successo che, con procedimento penale 2154/2016 R.G.N.R. Mod. 21, il 3 ottobre 2016 (depositata il 6) il Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, dr Maurizio Carbone, chiede il Rinvio a Giudizio dell’avv. Aldo Carlo Feola, difeso d’ufficio, “imputato del delitto di cui all’art. 476 c.p. (falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici), perché, in qualità di Consigliere con funzione di Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, rilasciava copia conforme all’originale della delibera datata 3 aprile 2013 del Consiglio, con la quale si disponeva di non dare luogo ad apertura di procedimento disciplinare nei confronti dell’avv. Addolorata Renna, con conseguente archiviazione dell’esposto presentato nei suoi confronti da Blasi Giuseppe. Provvedimento di archiviazione risultato in realtà inesistente e mai sottoscritto dal Presidente del Consiglio dell’Ordine di Taranto. In Taranto il 17 novembre 2014.”
Il Giudice per le Indagini Preliminari, con proc. 6503/2016, il 21 novembre 2016 fissa l’Udienza Preliminare per il 12 dicembre 2016 e poi rinvia per il Rito Abbreviato per il 10 aprile 2017 con interrogatorio dell’imputato ed audizione del teste, con il seguito.
Il Giudice per l’Udienza Preliminare, dr. Pompeo Carriere, il 16 ottobre 2017 con sentenza n. 945/2017 “dichiara Feola Aldo Carlo colpevole del reato ascrittogli, e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, e applicata la diminuente per la scelta del rito abbreviato, lo condanna alla pena di cinque mesi e dieci giorni di reclusione, oltre al pagamento delle spese del procedimento. Pena sospesa per cinque anni, alle condizioni di legge, e non menzione. Visti gli artt. 538, 539, 541 c.p.p., condanna Feola Aldo Carlo al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separato giudizio, nonché alla rifusione delle spese processuali dalla medesima sostenute, che si liquidano in complessivi euro 3.115,00 (tremilacentoquindici) oltre iva e cap come per legge”.
Da quanto scritto è evidente che ci sia stata da parte della stampa una certa ritrosia dal dare la notizia. Gli stessi organi di informazione che sono molto solerti ad infangare la reputazione dei poveri cristi, sennonchè non ancora dichiarati colpevoli.
Travaglio: “I giornali a Taranto non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. “E’ vero, ma non per tutti…” Lettera aperta al direttore de IL FATTO QUOTIDIANO, dopo il suo intervento-show al Concerto del 1 maggio 2015 a Taranto, di Antonello de Gennaro del 2 maggio 2015 su "Il Corriere del Giorno". "Caro Travaglio, come non essere felice nel vedere Il Fatto Quotidiano, quotidiano libero ed indipendente da te diretto, occuparsi di Taranto? Lo sono anche io, ma nello stesso tempo, non sono molto soddisfatto della tua “performance” sul palco del Concerto del 1° maggio di Taranto. Capisco che non è facile leggere il solito “editoriale”, senza il solito libretto nero che usi in trasmissione da Michele Santoro, abitudine questa che deve averti indotto a dire delle inesattezze in mezzo alle tante cose giuste che hai detto e che condivido. Partiamo da quelle giuste. Hai centrato il problema dicendo: “A Taranto i giornali non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. E’ vero e lo provano le numerose intercettazioni telefoniche contenute all’interno degli atti del processo “Ambiente Svenduto” e per le quali il Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia tergiversa ancora oggi nel fare chiarezza sul comportamento dei giornalisti locali coinvolti, cercando evidentemente di avvicinarsi il più possibile alla prescrizione amministrativa dei procedimenti disciplinari e salvarli”.
Comunque, a parte i distinguo di rito dalla massa, di fatto, però, nessuno di questa sentenza ne ha parlato.
In conclusione, allora, va detto che si è fatto bene, allora, ad indicare la notizia della condanna del Consigliere Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, come un fatto tra quelli che a Taranto son si osa dire…
Chi dice Terrone è solo un coglione. La sperequazione inflazionata di un termine offensivo come nota caratteristica di un popolo fiero. L’approfondimento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che sul tema ha scritto “L’Italia Razzista” e “Legopoli”.
Sui media spopola il termine “Terrone”. Usato dai razzisti del centro Nord Italia in modo dispregiativo nei confronti degli italiani del Sud Italia ed usati dai deficienti meridionali come caratteristica di vanto.
«Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita»...., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016.
«Io litigioso? È vero, ma sono migliorato… Mi chiamavano terun, africa, baluba, altro che non incazzarsi…» Dice Teo Teocoli in un intervista a Gian Luigi Paracchini il 22 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera".
Gli opinionisti del centro Italia “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto, equivalente a “Terrone”, da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla terronialità. Cioè l’usare il termine “terrone” come una parola neutra. Come se fossero un po’ tutti leghisti.
Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania”, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.
Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque meridionale e non terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te.
Essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.
Ciononostante i nordisti, anziché essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.
Mutuiamo il titolo del libro di Lino Patruno “Alla riscossa Terroni” e “Terroni” di Pino Aprile per farne un motivo di orgoglio meridionale che deve portarci ad invertire una tendenza che data 150 anni. Non rivendichiamo un passato di benessere del Meridione, rivendichiamo un presente migliore per un Sud messo alle corde.
I terroni nascono anche a Gemonio e nelle valli bergamasche, scrive "L'Inkiesta" il 6 aprile 2012. Leggendo le cronache, ma, soprattutto, vedendo le immagini, relative al marciume che sta venendo a galla dai sottoscala leghisti, mi par che si possa dire una grande verità: l'aggettivo spregiativo "terrone" non si può appioppare solo ai meridionali, ma, con grande precisione, anche ai miei conterronei nordici. Devo dire la verità. Io - nordico e fieramente antileghista da molto tempo - che le storie di Roma ladrona, dell'uccello duro, del barbarossa, dell'ampolla sul diopò (che, a dire il vero, mi par più una saracca che un rito), di riti celtici, di fazzolettini verdi come il moccio, erano tutte una rozza e ignorante presa per il culo per ammansire i buoi e farsi in comodo i sollazzi propri, ne ero convinto da tempo. Da ben prima che si svegliassero i soliti magistrati (verrà il giorno, in questo paese dei matocchi, che qualche rivoluzione la farò il popolo?), bastava un po' di fiuto per capire che il sottobosco era questo. Ma le vedete le facce del cerchio magico? Ma avete presente la pacchianità della villa di Gemonio? E poi, la priorità alla "family", come la più bieca usanza del troppo noto familismo amorale, perchè parlare di "famigghia" era troppo terrone. Ma il dato è che questi sono - culturalmente, esteticamente e antropologicamente - terroni. Perchè terrone, per me, non è un epiteto riferibile a una provenienza geografica I.G.P.; è uno stile deteriore di rappresentarsi, chiuso, retrivo, in cui il dialetto non è cultura, ma rozzume esibito con orgoglio (e questo vale tanto per i napoletani, quanto per i veneti), in cui prevale la logica del clan su quella della civile società, in cui si deve fare sfoggio dell'ignoranza perchè questo è "popolare". Terrone è un ignorante retrogrado, cafone, ineducato. Con il risultato che il Bossi e la family sprofondano, il terronismo impera e un peloso, stantio e pietistico meridionalismo riprende fiato. Grazie Bossi, grazie leghisti: avete ucciso non solo la dignità del nord, ma anche la speranza vera che una riforma moderna di questo paese, tenuto insieme con una scatarrata, si potesse fare. Ah, dimenticavo. Se qualcuno mi dovesse dire "parla lui, di ignoranza presentata con orgoglio.
Da che pulpito vien il sermone!", dico: "Non perdete tempo in analisi: son diverso e me ne vanto. Si vuol che dica che sono ignorante e delinquente. Bene lo sono, in un mondo di saccenti ed onesti mafiosi, sono orgoglioso di esser diverso. Cosa concludere, di fronte a tali notizie di carattere storico? Questo: trovo triste che i nostri bravi leghisti rinneghino le proprie radici arabe, albanesi, meridionali, mediterranee. Da loro, così orgogliosi della Tradizione, non me lo aspettavo. Anzi dirò di più. Buon per loro avere origini meridionali, perchè ad essere POLENTONI si rischia di avere una considerazione minore che essere TERRONE.
Secondo Wikipedia Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale. Origine e significato. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo, e sta ad indicare una persona zotica un pò lenta di comprendonio (po' lentone). Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta e dai movimenti goffi e impacciati.
Analisi dei termini offensivi. Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato dagli abitanti dell'Italia meridionale per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale, scrive Wikipedia. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) purtroppo con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra, anche se li ha salvati da tante carestie alimentari. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo nell'Italia del Sud, e sta ad indicare una persona zotica. Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale, anche se spesso usate solo in modo bonario. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta di comprendonio (tonta) e dai movimenti goffi e impacciati.
La Padania o Patanìa (lett. Terra dei Patanari, coltivatori di patate) si estende in tutte le regioni del nord Italia: dalla Val d'Aosta alla Toscana fino al Friuli Venezia Giulia. È facile collocare geograficamente la Patanìa vera e pura: si traccia una retta che attraversa interamente il Po, passando rigorosamente al centro, perché solo la parte nord del Po è padana. La Padania si definisce anche Barbaria, cioè terra di barbari. Il mito di una terra popolata da eroi celtici, circondata da terribili barbari di matrice slava, è il concetto su cui si basa la Lega Nord. Trascurabile il dettaglio che un tempo la Padania fosse abitata da un'accozzaglia di popoli oltre ai Celti.
Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato dagli abitanti dell'Italia settentrionale e centrale come spregiativo per designare un abitante dell'Italia meridionale, talvolta anche in senso semplicemente scherzoso, scrive Wikipedia. In passato il termine era utilizzato con un altro significato e valenza; solo nel corso degli anni sessanta ha acquisito il senso attuale. Con il termine "terrone" (da teróne, derivazione di terra) si indicava nel XVII secolo un proprietario terriero, o meglio un latifondista. Già tra le Lettere al Magliabechi, l'erudito bibliotecario Antonio Magliabechi (1633-1714) il cui lascito, i cosiddetti Codici Magliabechiani costituiscono un prezioso fondo della Biblioteca Nazionale di Firenze, scriveva (CXXXIV -II - 1277): «Quattro settimane sono scrissi a Vostra Signoria illustrissima e l'informai del brutto tiro che ci fanno questi signori teroni di volerci scacciare dal partito delle galere, contro ogni equità e giustizia, già che ho lavorato tant'anni per terminarlo, e ora che vedano il negozio buono, lo vogliono per loro». Il termine in seguito fu utilizzato per denominare chi era originario dell'Italia meridionale e con particolare riferimento a chi emigrava dal Sud al Nord in cerca di lavoro, al pari dei nordici milanesi, etichettati come baggiani, che emigravano nelle valli del Bergamasco, come menzionato da Alessandro Manzoni. Il termine si diffuse dai grandi centri urbani dell'Italia settentrionale con connotazione spesso fortemente spregiativa e ingiuriosa e, come altri vocaboli della lingua italiana (quali villano, contadino, burino e cafone) stava per indicare "servo della gleba" e "bracciante agricolo" ed era riferita agli immigrati del meridione. Gli immigrati venivano quindi considerati, sia pure a livello di folklore, quasi dei contadini sottosviluppati. Il termine, che deriva evidentemente da "terra" con un suffisso con valore d'agente o di appartenenza (nel senso di persona appartenente strettamente alla terra) è stato variamente interpretato come frutto di incrocio fra terre (moto) e (meridi)one, come "mangiatore di terra" parallelamente a polentone, "mangiapolenta", cioè l'italiano del nord; come "persona dal colore scuro della pelle, simile alla terra" o anche come "originario di terre soggette a terremoti" ("terre matte", "terre ballerine"). Il suo maggiore utilizzo data comunque essenzialmente agli anni sessanta e settanta e limitatamente ad alcune zone del nord Italia, in seguito alla forte ondata di emigrazione di lavoratori e contadini del meridione d'Italia in cerca di lavoro verso le industrie del nord e in particolare del triangolo industriale (Genova – Milano – Torino). In tale ambito si spiega anche la diffusione del termine: storicamente, grossi movimenti di popolazioni hanno sempre portato con sé anche fenomeni di intolleranza o razzismo più o meno larvati. Successivamente, allo stesso modo è sorta la locuzione "terrone del nord", generalmente per indicare gli italiani del nord-est (principalmente i veneti, detti "boari"), che per ragioni simili cominciarono negli stessi anni ad emigrare verso il nord-ovest, venendo così accomunati agli emigranti meridionali. Il riconoscimento di terrone come insulto e non come termine folkloristico è un processo che storicamente ha subito molte battute d'arresto e incomprensioni, probabilmente dovute al fatto che solo una parte della popolazione italiana ne riconosceva pienamente la gravità e il suo carattere offensivo. La Corte di Cassazione ha ufficialmente riconosciuto che tale termine ha un'accezione offensiva, confermando una sentenza del Giudice di Pace di Savona e confermando che la persona che l'aveva pronunciata dovesse risarcire la persona offesa dei danni morali. Spesso vengono associati a questo epiteto caratteristiche personali negative, tra le quali ignoranza, scarsa voglia di lavorare, disprezzo di alcune norme igieniche e soprattutto civiche. Analogamente, soprattutto in alcune accezioni gergali, il termine ha sempre più assunto il significato di "persona rozza" ovvero priva di gusto nel vestire, inelegante e pacchiana, dai modi inurbani e maleducata, restando un insulto finalizzato a chiari intenti discriminatori. Inoltre vengono spesso associati al termine anche tratti somatici e fisici, come la carnagione scura, la bassa statura, le gote alte, caratteristiche fisiche storicamente preponderanti al Sud rispetto al Nord Italia.
In conclusione c’è da affermare che bisogna essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.
Chi proferisce ingiurie ad altri o a se stesso con il termine terrone non resta che rispondergli: SEI SOLO UN COGLIONE.
Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.
LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.
In Regione Lombardia non tornano 54 miliardi di tasse versate. (Lnews - Milano 06 settembre 2017). "La Lombardia è la regione che versa più tasse allo Stato ricevendo, in cambio, meno trasferimenti in termini di spesa pubblica. In questi anni, infatti, il residuo fiscale della Lombardia ha raggiunto la cifra record di 54 miliardi (fonte: Eupolis Lombardia). Si tratta del valore in assoluto più alto tra tutte le regioni italiane. Un'immensità anche a livello europeo se si pensa che due regioni tra le più industrializzate d'Europa come la Catalogna e la Baviera hanno rispettivamente un residuo fiscale di 8 miliardi e 1,5 miliardi". Lo scrive una Nota pubblicata oggi dal sito lombardiaspeciale.regione.lombardia.it.
RESIDUO FISCALE - "Con il termine residuo fiscale - spiega la Nota - s'intende la differenza tra quanto un territorio verso allo Stato sotto forma di imposte e quanto riceve sotto forma di spesa pubblica. Se il residuo fiscale abbia segno positivo, il territorio versa più di quanto riceve; se c'è un residuo negativo il territorio riceve più di quanto versa. Secondo James McGill Buchanan Jr, premio Nobel per l'Economia nel 1986, cui si attribuisce la paternità della definizione, il trattamento che lo Stato riserva ai cittadini può considerarsi equo se determina residui fiscali minimi in capo a individui, a prescindere dal territorio nel quale risiedono. Differenze marcate denotano una violazione dei principi di equità basilari".
I DATI PER REGIONE - "Dopo la Lombardia - appunta il teso - si colloca l'Emilia Romagna, con un residuo fiscale di 18.861 milioni di euro. Seguono Veneto (15.458 mln), Piemonte (8.606 mln), Toscana (5.422 mln), Lazio (3.775 mln), Marche (2.027 mln), Bolzano (1.100 mln), Liguria (610 mln), Friuli Venezia Giulia (526 mln), Valle d'Aosta (65 mln). In coda alla classifica: Umbria (-82 mln), Molise (-614 mln), Trento (-249 mln), Basilicata (-1.261 mln), Abruzzo (-1.301 mln), Sardegna (-5.262 mln), Campania (-5.705 mln), Calabria (-5.871 mln), Puglia (-6.419 mln) e Sicilia (-10.617 mln)".
IL DATO PRO CAPITE - Anche per quanto riguarda il residuo fiscale pro capite, la Lombardia presenta i valori più alti d'Italia, con 5.217 euro. Seguono Emilia Romagna (4.239), Veneto (3.141), Provincia Autonoma di Bolzano (2.117), Piemonte (1.950), Toscana (1.447), Marche (1.310), Lazio (641), Valle d'Aosta (508), Friuli Venezia Giulia (430), Liguria (386), Umbria (-92), Provincia Autonoma di Trento (-464), Campania (-974), Abruzzo (-979), Puglia (-1.572), Molise (-1.963), Sicilia (-2.089), Basilicata (-2.192), Calabria (-2.975) e Sardegna (-3.169)", spiega la Nota pubblicata.
Da sempre i giornali e le tv nordiste, spalleggiate dagli organi d’informazione stataliste, ce la menano sul fatto che ci sia un grande disavanzo finanziario tra le regioni del centro-nord ricco e le regioni povere del sud Italia. I conti, fatti in modo bizzarro, rilevano che il centro-nord paga molto di più di quanto riceva e che la differenza vada in solidarietà a quelle regioni che a loro volta sono votate allo spreco ed al ladrocinio. A fronte di ciò, i settentrionali, hanno deciso che è meglio tagliare quel cordone ombelicale e lasciar cadere quella zavorra che è il sud Italia. Ed il referendum secessionista è stato organizzato per questo, facendo leva sull’ignoranza della gente.
Ora facciamo degli esempi scolastici che si studiano negli istituti tecnici commerciali, per dimostrare di quanta malafede ed ignoranza sia propagandato questo referendum.
Una partita iva, persona o società, registra in contabilità la gestione e versa tasse, imposte e contributi nel luogo della sede legale presso cui redige i suoi bilanci semplici o consolidati (gruppi d’impreso con un capogruppo).
Il Centro-Nord Italia, con la Lombardia ed il Lazio in particolare, è territorio privilegiato per eleggere sede legale d’azienda, per la vicinanza con i mercati europei. Dove c’è sede legale vi è iscrizione al registro generale dell’imprese. Ergo: sede di versamento fiscale che alimenta quei numeri, oggetto di nota della Regione Lombardia. Quei dati, però, spesso, nascondono la ricchezza prodotta al sud (stabilimenti, appalti, manodopera, ecc.), ma contabilizzata al nord.
E’ risaputo che nel centro-nord Italia hanno stabilito le loro sedi legali le più grandi aziende economiche-finanziarie italiane e lì pagano le tasse. Il Sud Italia è di fatto una colonia di mercato. Di là si produce merce e lavoro (e disinformazione), di qua si consuma e si alimenta il mercato.
E’ risaputo che le aziende del centro nord appaltano i grandi lavori pubblici, specialmente se le aziende del sud Italia le fanno chiudere con accuse artefatte di mafiosità.
E’ risaputo che al nord il costo della vita è più caro e questo si trasforma proporzionalmente in reddito maggiorato rispetto ai cespiti collegati, come quelli immobiliari.
Il residuo fiscale era tollerato e l’assistenzialismo era alimentato, affinchè il mercato meridionale non cedesse e le aziende del nord potessero continuare a produrre beni e servizi e ad alimentare ricchezza nell’Italia settentrionale, condannando il sud ad un perenne sottosviluppo e terra di emigrazione.
Oggi lo Stato centralista assorbe tutta la ricchezza nazionale prodotta e l'assistenzialismo si è bloccato, ma il sud Italia continua ad essere un mercato da monopolizzare da parte delle aziende del Centro-Nord Italia. Una eventuale secessione a sfondo razzista-economica votata dai nordisti sarebbe un toccasana per i meridionali, che imporrebbero diversi rapporti commerciali, imponendo dei dazi od altre forme di limitazioni alle merci del nord. Il maggior costo di beni e servizi del nord Italia favorirebbe la nascita nel sud Italia di aziende, favorite economicamente dal minor costo della mano d’opera del posto e delle spese di trasporto e logistica locale. Inoltre quello che produce il centro nord è acquisibile su altri mercati. Quello che si produce al Sud Italia è peculiare e da quel mercato, per forza, bisogna attingere e comprare...
Quindi, viva il referendum…secessionista
A votare per questo referendum sono andati i mona. Questo l'ha detto lei, ma è vero". Risponde così il 24 ottobre 2017 all'intervistatore del programma Morning Showdi di Radio Padova il milanese Oliviero Toscani, il noto fotografo già protagonista, nel recente passato, di polemiche sui "veneti popolo di ubriaconi". "Sono andati a votare quattro contadini - rincara la dose - che non parlano neanche l'italiano". E ancora: "Nelle campagne la gente è isolata, incestuosa e vota queste cagate qua". Per lo stesso Toscani, invece, a non votare è stata "la minoranza intellettuale". Così il fotografo, maestro della provocazione, ritorna ad aprire una ferita solo apparentemente chiusa che aveva portato a querele all'epoca degli “imbriagoni”. Nell'intervista radiofonica sui referendum ha anche evidenziato un confronto con la Lombardia dove la percentuale di voto è stata minore. «Non a caso Milano - ha rilevato - è la prima città d'Italia per intellighenzia, e non a caso Milano è una città piena di immigrati. Milano è fatta così, è civile. Mentre i contadini là, che non parlano neanche italiano, cosa vuoi che votino?».
Un referendum da presa per il culo. Il 22 ottobre 2017 si chiede ai cittadini interessati. “Volete essere autonomi e tenere per voi tutto l’incasso?” E’ logico che tutti direbbero sì, senza distinzione di ideologia o natali. Ed i quorum raggiunti sono fallimentari tenuto conto dell’interesse intrinseco del quesito.
Specialmente, poi, se è stato enfatizzato tanto dai giornali e le tv del Nord, comprese quelle di Berlusconi.
“Al di là dell’enorme spreco di soldi pubblici per organizzare due referendum buoni solo a fare un po’ di propaganda elettorale a spese dei contribuenti, ha evidenziato il trionfo dell’egoismo di chi è più ricco e pensa di poter vivere meglio mantenendo sul territorio le risorse derivante dalle imposte dopo aver beneficiato per decenni di aiuti statali e del sostegno dello Stato”. Lo ha detto il consigliere regionale dei Verdi della Campania, Francesco Emilio Borrelli, per il quale “la Lega ha mostrato, ancora una volta, il suo vero volto che è fatto di odio verso il Sud e i meridionali”.
“Così come ha ricordato anche Prodi, chiedere ai cittadini se vogliono pagare meno tasse ancora una volta a danno dei meridionali è come un invito a nozze che non si può rifiutare, ma il problema è che, per chiederlo, in questo caso, Zaia e Maroni hanno speso milioni di euro di soldi pubblici per farlo” ha aggiunto Borrelli chiedendo ai cittadini lombardi e veneti: “Visto come sprecano i vostri soldi e come hanno speso, in passato, quelli, sempre pubblici, per il finanziamento ai partiti, siete proprio sicuri di volergliene affidare ancora di più?” “La Regione Campania viene privata ogni anno di 250 milioni di euro che vengono sottratti ai servizi sanitari e ai nostri concittadini perché considerata la regione più giovane d’Italia e grazie a una norma introdotta dai governatori leghisti e mai tolta” ha continuato Borrelli, sottolineando che “ogni anno la sola Campania viene depredata di centinaia di milioni di euro di fondi che invece vengono destinati al ricco Nord senza alcuna reale motivazione”. “La Rampa” 23 ottobre 2017.
In Italia conviene non fare nulla e non avere nulla, perché se hai o fai si fotte tutto lo Stato, per dare il tuo, non a chi è bisognoso, ma a chi non sa o non fa un cazzo. Cioè ai suoi amici o ai suoi scagnozzi professionisti corporativi.
L’Italia uccisa dai catto-comunisti, scrive Andrea Pasini il 30 ottobre 2017 su “Il Giornale”. Il comunismo ha ucciso l’Italia. “Max Horkheimer fornì d’altra parte, al termine della sua vita, con una sorprendete confessione, la spiegazione di questa incapacità di analisi da parte dei membri della scuola di Francoforte: riconobbe infatti con dolore che il marxismo aveva preparato il Sistema, che esso ne era responsabile allo stesso titolo dell’ideologia liberale borghese, in quanto la sua visione del mondo si fonda ugualmente su un progetto mondiale economicista e messianico”. Guillaume Faye, all’interno dello scritto "Il sistema per uccidere i popoli", recentemente ripubblicato dai tipi di Aga Editrice, ha fotografato l’evolversi delle idee forti provenienti dal diciannovesimo secolo. Loro ci odiano, odiano il nostro Paese, ma guardandosi allo specchio non possono fare a meno di odiarsi a loro volta. Una spirale senza fine, laddove astio, animosità ed acredini bruciano la base solida di questa nazione. Vittorio Feltri, in un animoso e vitale articolo apparso qualche anno fa sulle colonne di Libero, scrisse: “Gli stessi comunisti si vergognano di esserlo stati, ma la mentalità pauperistica è rimasta e non ha cessato di provocare danni. Risultato: in Italia è impossibile fare impresa o artigianato, aprire un’azienda, essere liberi professionisti senza essere considerati sfruttatori, evasori fiscali se non addirittura ladri”.
Proprio per questo motivo, ogni giorno, metto in campo tutte le mie energie al fine di stoppare, innanzitutto fisicamente, un oblio vertiginoso. Anche questo è il mio dovere in qualità di imprenditore. Lo Stato è in pericolo, la franata negli ultimi decenni è stata infausta. Ma davanti al fatalismo che attanaglia i popoli dobbiamo mettere in campo la nostra fede. Gli uomini di fede, uomini animati da un ardire che non conosce limiti, fanno paura ai catto-comunisti colpevoli di aver ridotto in cenere le speranze del domani. L’avvenire non sarà mai rosso di colore. Tornando ai piedi dello scrittore francese Faye leggiamo: “Gli intellettuali confessano, come Débray o Lévy, di fare oramai solamente della morale e non importa più che la loro verità si opponga alla realtà. La ragione ammette di non aver più ragione”. Il paradosso del marxismo 160 anni dopo. La ragione aveva torto scomodando, il sempre attuale, Massimo Fini. Ora conta credere, ciò che importa è come e quello che si fa per invertire la rotta, per non perdere il timone. Il Paese suona il corno e ci chiama a raccolta. Impossibile, a pochi giorni dal centenario di Caporetto, non rispondere, con tutto il proprio animo in tensione, presente.
In questo rimpallo, tra menti eccelse, contro il dominio sinistrato del presente e del futuro passiamo, nuovamente, la palla a Feltri: “E anche lo Stato, influenzato da alcuni partiti di ispirazione marxista, non aiuta con tutta una serie di vincoli burocratici, lacci e lacciuoli. E i sindacati hanno completato l’opera, contribuendo ad avvelenare i rapporti tra datore di lavoro e dipendenti, trasformando le fabbriche in luoghi d’odio e di lotta violenta, per umiliare i padroni e il personale non ideologizzato”. La storia non scorre più è tutto fermo nella mente dei retrogradi. Si avvinghiano alla legge Fiano i talebani di quest’epoca, per fare il verso a "Il Primato Nazionale", dimenticandosi dei problemi reali dell’Italia. Burocrati, sordidi e grigi, in doppio petto che accoltellano il ventre molle dello stivale, una carta bollata dopo l’altra. Alzare lo sguardo e tornare a cantare, davanti alle manette rosse della coscienza, non è facile, ma abbiamo il compito di tornare a farlo. Considerando il detto, “il lupo perde il pelo, ma non il vizio”, associandolo con le profetiche lezioni di Padre Tomas Tyn, scopriamo che il comunismo non è sparito, anzi si è rafforzato ed ha trovato gli alleati nei cattolici “non praticanti”. Potrà sembrare un’assurdità, invece è la mera realtà.
L’indiscutibile commistione di progressismo e comunismo, spesso umanitario ed accatto, ha creato con l’unione di un cattolicesimo snaturato una via collegata direttamente con i diritti civili, che non interseca, mai e poi mai, la sua strada con i diritti sociali. Aborto, divorzio, pacs, dico, unioni civili, matrimoni gay e chi più ne ha più ne metta. Fanno tutto ciò che non serve per gli italiani, fanno tutto ciò che non serve per difendere le fasce deboli della nazione. Tanti nostri connazionali hanno abbracciato il nemico, sono diventati uno di loro, per questo dobbiamo denunciare gli errori di chi sfida il tricolore e salvare la Patria. Il peccato, originale e capitale, è insito nell’ideologia marxista e rappresenta il male che sta distruggendo il nostro Paese, senza dimenticare il liberismo a tutti i costi della generazione Macron.
Milano, il paradosso: se la pena è la stessa per il giudice corrotto e per chi ha rubato una bottiglia di vino. Un noto avvocato, che ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro, grazie a vari sconti di pena ha concordato 4 anni in Appello. Quasi la stessa pena, 3 anni e 8 mesi, patteggiata in Tribunale per un reato da 8 euro, scrive Luigi Ferrarella il 30 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera”. Il problema è quando la combinazione dell’algebra giudiziaria, del tutto aderente alle regole, stride al momento di tirare la riga e, come risultato, fa patteggiare 3 anni e 8 mesi a chi ha rubato al supermercato una bottiglia di vino da 8 euro, mentre chi ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro esce dalla Corte d’Appello condannato a poco più: e cioè a pena concordata di 4 anni, ridotta rispetto ai 6 anni e 10 mesi del primo grado, che grazie allo sconto del rito abbreviato aveva già ridimensionato i teorici 10 anni iniziali. Luigi Vassallo è l’avvocato cassazionista che, nelle vesti di giudice tributario di secondo grado, alla vigilia di Natale 2015 fu fermato in flagranza di reato a Milano mentre intascava i primi 5.000 dei 30.000 euro chiesti ai legali di una multinazionale per intervenire su una collega di primo grado e «aggiustare» un contenzioso da milioni di euro. Due «corruzioni in atti giudiziari» nel giudizio immediato, e una «corruzione» e una «induzione indebita» nel successivo giudizio ordinario, lo avevano indotto ad accordarsi con il Fisco per 140.00 euro e a scegliere il rito abbreviato, il cui automatico sconto di un terzo gli aveva abbassato la prima sentenza a 4 anni e 8 mesi, e la seconda a 2 anni e 2 mesi. Per un totale, cioè un cumulo materiale, di 6 anni e 10 mesi. Ora in Appello arriva - come contemplato dalla recente legge in cambio del risparmio di tempo e risorse in teoria legato alla rinuncia difensiva a far celebrare il dibattimento di secondo grado - un altro sconto di un terzo, e si aggiunge già alla limatura di pena dovuta alla «continuazione» tra le 4 imputazioni delle due sentenze di primo grado riunite in secondo grado. Alla vigilia dell’udienza, dunque, l’avvocato Fabio Giarda rinuncia ai motivi d’appello diversi dal trattamento sanzionatorio, a fronte del sì del pg Massimo Gaballo all’accordo su una pena di 4 anni, ratificato dalla II Corte d’Appello presieduta da Giuseppe Ondei. Undici mesi Vassallo li fece in custodia cautelare (fra carcere e domiciliari), sicché non appare irrealistico l’agognato tetto dei 3 anni di pena da eseguire, sotto i quali potrà chiedere di scontarla in affidamento ai servizi sociali senza ripassare dal carcere. In Tribunale, invece, da detenuto arriva e da detenuto va via (senza sospensione condizionale della pena e senza attenuanti generiche) un altro imputato che nello stesso momento patteggia 3 anni e 8 mesi – quasi la stessa pena del giudice tributario – per aver rubato da un supermercato una bottiglia di vino da 8 euro e mezzo: il fatto però che avesse dato una spinta al vigilantes privato che all’uscita gli si era parato davanti, minacciandolo confusamente («non vedi i tuoi figli stasera») e agitando un taglierino, ha determinato il passaggio dell’accusa da «furto» a «rapina impropria», la cui pena-base è stata inasprita dai vari decreti-sicurezza, tanto più per chi come lui risulta «recidivo» a causa di due vecchi furti. Per ridurre i danni, il patteggiamento non scende a meno di 3 anni e 8 mesi. Quasi un anno di carcere per ogni 2 euro di vino.
“La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla”.
Intervista al sociologo storico Antonio Giangrande, autore di un centinaio di saggi che parlano di questa Italia contemporanea, analizzandone tutte le tematiche, divise per argomenti e per territorio.
Dr Antonio Giangrande di cosa si occupa con i suoi saggi e con la sua web tv?
«Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Perché dice che “La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla”.
«Libri, 6 italiani su dieci non leggono. In Italia poi si legge sempre meno. Siamo tornati ai livelli del 2001. Un dato resta costante da decenni: una famiglia su 10 non ha neppure un libro in casa. I dati pubblicati dall’Istat fotografano l’inesorabile diminuzione dei lettori, con punte drammatiche al Sud. Impietoso il confronto con l’estero, scrive il 27 dicembre 2017 Cristina Taglietti su "Il Corriere della Sera". La gente usa esclusivamente i social network per informarsi tramite lo smartphone od il cellulare. Non usa il personal computer perchè non ha la fibra in casa che ti permette di ampliare più comodamente e velocemente la ricerca e l'informazione. La gente, comunque, non va oltre alla lettura di un tweet o di un breve post, molto spesso un fake nato dall'odio o dall'invidia, e lo condivide con i suoi amici. Non verifica o approfondisce la notizia. Non siamo nell'era dell'informazione globale, ma del "passa parola" totale. Di maggiore impatto numerico, invece, è la ricerca sui motori di ricerca, non di un tema o di un argomento di cultura o di interesse generale, ma del proprio nome. Si digita il proprio nome e cognome, racchiuso tra virgolette, per protagonismo e voglia di notorietà e dalla ricerca risulta quanti siti web lo citano. Non si aprono quei siti web per verificare il contenuto. Si fermano sulla prima frase che appare sulla home page di Google o altri motori similari, estrapolata da un contesto complesso ed articolato. Senza sapere se la citazione è diffamatoria o meritoria o riconducibile all'autore da lì partono querele, richieste di rimozione per diritto all’oblio o addirittura indifferenza».
Ha un esempio da fare sull’impedimento ad informare?
«Esemplari sono le querele e le richieste di rimozione. Libertà di informazione, nel 2017 minacciati 423 giornalisti. I dati dell'osservatorio promosso da Fnsi e Ordine. La tipologia di attacco prevalente è l'avvertimento (37 per cento), scrive il 31 dicembre 2017 "La Repubblica". Ognuno di questi operatori dell'informazione è stato preso di mira per impedirgli di raccogliere e diffondere liberamente notizie di interesse pubblico. La tipologia di attacco prevalente è stata l'avvertimento (37 per cento) seguita dalle querele infondate e altre azioni legali pretestuose (32 per cento)».
E sull’indifferenza…
«Le faccio leggere un dialogo tra me e un tizio che mi ha contattato. Uno dei tanti italiani che non si informa, ma usa internet in modo distorto. Uno di quel popolo di cercatori del proprio nome sui motori di ricerca e che vive di tweet e post. Un giorno questo tizio mi chiede “Lei ha scritto quel libro?”
E' un saggio - rispondo io. - L'ho scritto e pubblicato io e lo aggiorno periodicamente. A tal proposito mi sono occupato di lei e di quello che ingiustamente le è capitato, parlandone pubblicamente, come ristoro delle sofferenze subite, pubblicando l'articolo del giornale in cui è stato pubblicato il pezzo. Inserendolo tra le altre testimonianze. Comunque ho scritto anche un libro sul territorio di riferimento. Come posso esserle utile?
“Volevo giusto capire, io mi sono imbattuto per caso nell'articolo, cercando il mio nome... E sotto l'articolo ho visto un link che mi collegava al suo saggio...Capire più che altro perché prendere articoli di giornale su altra gente e farne un saggio... Sono solo curiosità”.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte - spiego io. - I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale. In generale. Dico, in generale: io non esprimo mie opinioni. Prendo gli articoli dei giornali, citando doverosamente la fonte, affinchè non vi sia contestazione da parte dei coglioni citati, che siano essi vittime, o che siano essi carnefici. Perchè deve sapere che i primi a lamentarsi sono proprio le vittime che io difendo attraverso i miei saggi, raccontando tutto quello che si tace.
"Siccome io le ho detto mi sono solo imbattuto per "caso"... Io ho visto questa cosa e sinceramente l'ho letta perché ho visto il mio nome, ma se dovessi prendere il suo saggio e leggerlo non lo farei mai. Perché: Cerco di lavorare ogni giorno con le mie forze. I miei aggiornamenti sono tutt'altro. Faccio tutto il possibile per offrirmi un futuro migliore. Sono sempre impegnato e non riuscirei a fermarmi due minuti per leggere".
Rispetto la sua opinione - rispondo. - Era la mia fino ai trent'anni. Dopo ho deciso che è meglio sapere ed essere che avere. Quando sai, nessuno ti prende per il culo...
"Ma per le cose che mi possono interessare per il mio lavoro e il mio futuro nessuno mi può prendere per il culo ... Poi è normale che in ogni campo ci sia l'esperto…"»
Come commenta...
«Confermo che quando sai, nessuno ti prende per il culo. Quando sai, riconosci chi ti prende per il culo, compreso l’esperto che non sa che a sua volta è stato preso per il culo nella sua preparazione e, di conseguenza sai che l’esperto, consapevole o meno, ti potrà prendere per il culo».
Comunque rimane la soddisfazione di quei quattro italiani su dieci che leggono.
«Sì, ma leggono cosa? I più grandi gruppi editoriali generalisti, sovvenzionati da politica ed economia, non sono credibili, dato la loro partigianeria e faziosità. Basta confrontare i loro articoli antitetici su uno stesso fatto accaduto. Addirittura, spesso si assiste, sulle loro pagine, alla scomparsa dei fatti. Di contro troviamo le piccole testate nel mare del web, con giornalisti coraggiosi, ma che hanno una flebile voce, che nessuno può ascoltare. Ed allora, in queste condizioni, è come se non si avesse letto nulla».
Concludendo?
«La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla...e vota. Nel paese degli Acchiappacitrulli, più che chiedere voti in cambio di progetti, i nostri politici sono generatori automatici di promesse (non mantenute), osannati da giornalisti partigiani. Questa gente che non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla, voterà senza sapere che è stata presa per il culo, affidandosi ai cosiddetti esperti. I nostri politici gattopardi sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti».
L'informazione sulla politica? In Italia è troppo di parte (per 6 lettori su 10). I risultati di una ricerca del Pew Research Center di Washington in 38 Paesi: l'Italia è tra gli Stati dove la fiducia nell'imparzialità dell'informazione politica è più bassa. Per sette giovani su 10 è la Rete il luogo principale dove trovare notizie, scrive Giuseppe Sarcina, corrispondente da Washington, il 11 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Solo il 36% degli italiani pensa che giornali, televisioni e siti web riportino in modo accurato le diverse posizioni politiche. Tra i Paesi occidentali solo gli spagnoli, con il 33%, e i greci, con il 18%, sono più critici. (In fondo all'articolo, la classifica completa). È uno dei risultati emersi dallo studio del Pew Research Center di Washington, appena pubblicato. Una ricerca di grande impegno, condotta dal 16 febbraio al 8 maggio 2017, raccogliendo 41.953 risposte in 38 Paesi.
Precisione e attendibilità. In tempi di «fake news» (qui la guida di Milena Gabanelli e Martina Pennisi), gli analisti del Pew Center hanno chiesto quanto siano considerati precisi, attendibili i media sui temi della politica. Tra gli Stati occidentali spiccano le percentuali di chi approva il lavoro di stampa e tv nei Paesi Bassi (74%), in Canada (73%) e in Germania (72%). Segue il gruppo intermedio con Svezia (66%) Regno Unito (52%), Francia (47%). Italia, Spagna e Grecia sono in coda. Negli Stati Uniti, già provati da un anno di presidenza di Donald Trump, il 47% degli interpellati apprezza il modo in cui vengono trattate le notizie politiche.
Meglio sugli Esteri. I numeri cambiano, anche sensibilmente, su altri quesiti. In Italia, per esempio, il 46% considera accurata l’informazione che riguarda l’azione di governo; il 60% quella sui principali eventi mondiali. In generale, considerando tutti i Paesi, il 75% del campione non considera accettabile un’informazione apertamente schierata su una posizione politica e il 52% promuove i media.
Per 7 giovani su 10 l'informazione è in Rete. Interessante anche il capitolo sulle news online. Si parte da un esito scontato, (i giovani si informano su Internet), per arrivare a compilare una classifica sul gap tra le diverse fasce di età tra gli utenti del web. Al primo posto il Vietnam, dove l’84% dei giovani tra i 18 e i 29 anni consulta la rete almeno una volta al giorno, contro solo il 10% degli ultra cinquantenni (gap pari al 74%). L’Italia è al terzo posto: 70% di giovani e 25% di navigatori oltre i cinquant’anni (gap del 45%). Gli Stati Uniti sono il Paese dove le distanze generazionali sono più ridotte: il 48% del pubblico più anziano consulta Internet, contro il 69% dei più giovani.
DUE PESI E DUE MISURE. Nicola Porro: "Fake news? No: se le scrive Repubblica, il giornale progressista", scrive il 28 Novembre 2017 "Libero Quotidiano". "Le fake news sono tali solo se non riguardano un tema politicamente corretto e non sono scritte a titoli cubitali...", scrive Nicola Porro sul suo profilo Twitter. Repubblica, sottolinea il vicedirettore de Il Giornale, "a pagina 4 sparava con grande evidenza un numero impressionante: 6.788.000. E la didascalia recitava: Italiane tra i 16 e i 70 anni che hanno subito qualche forma di violenza pari al 31,6%". Peccato che questa notizia sia assolutamente "falsa, doppia come un gettone. Il tutto a corredo di un pezzo che chiede maggiori risorse contro il femminicidio: cioè maggiori tasse per far sì che una donna su tre (così spiega la didascalia) non debba più subire ignobili violenze". Quel numero, continua Porro, "è un macigno" e "il giornale antibufale per eccellenza, e cioè Repubblica", non ci dice "da dove esce". Bene, continua Porro, "nasce da un rapporto Istat del 2015 su dati del 2014", e "non si tratta di un dato puntuale, ma di un sondaggio. Cioè non ci sono 6,7 milioni di donne che hanno denunciato o lamentato o raccontato una violenza. C’è un sondaggio su un campione di 24.761 donne". Proprio così. Non solo, "si dice che il 31,6% delle donne italiane subisce violenza". Ma la maggior parte di loro subisce quella psicologica: il 22% della popolazione nazionale secondo l'Istat, e cioè 4,4 milioni su 6,7 milioni delle loro stime, si lamenta solo della violenza psicologica e non già di quella fisica. Grave comunque, ma ci sarà una differenza tra l’una e l’altra".
Firenze, le fake news dei giornali sugli stupri inventati. Diversi quotidiani nazionali hanno pubblicato la notizia: A Firenze nel 2016 false 90% delle denunce per violenza sessuale. Il questore smentisce, scrive Domenico Camodeca, Esperto di Cronaca l'11 settembre su "it.blastingnews.com". “Tutte le studentesse americane in Italia sono assicurate per lo stupro e a #Firenze su 150-200 denunce all’anno, il 90% risulta falso”. È questo il passaggio incriminato, privo di virgolette nella versione originale, di un articolo apparso il 9 settembre scorso sui quotidiani La Stampa e Il Secolo XIX, a margine di una intervista al ministro della Difesa, Roberta Pinotti, sui fatti legati all’ancora presunto stupro di Firenze. Anche altre testate, tra cui Il Messaggero, Il Gazzettino e Il Mattino (o, almeno, questa la ricostruzione fatta dalla giornalista del Fatto Quotidiano Luisiana Gaita) hanno poi rilanciato la notizia che, però, si è rivelata essere una #Fake News, una bufala insomma. A smentire i Media ci ha pensato il questore di Firenze Alberto Intini: “Secondo la banca dati della polizia solo 51 denunce per#violenza sessuale nel 2016 e, nei primi 9 mesi del 2017, solo 3 da parte di ragazze americane”. Di fronte alla presunta fake news smascherata, Stampa e Secolo decidono di non mollare, virgolettano la frase da loro pubblicata e la attribuiscono a una non meglio precisata “fonte istituzionale attendibile”, anche se coperta dal segreto professionale. Dunque, a Firenze, nel 2016, ci sono state tra le 150 e le 200 denunce per violenza sessuale (reato che va dal palpeggiamento al vero e proprio stupro), oppure solo 51?. E poi, è vero che le denunce presentate dalle donne americane sarebbero false per il 90%? Sostenitori della prima tesi sono, come detto, le redazioni di Stampa e Secolo le quali, nella nota apparsa successivamente in calce al pezzo contestato, spiegano che “i dati cui fa riferimento la fonte non sono nelle statistiche ufficiali perché non sono ancora confluiti nei database Istat”. Una pezza di appoggio abbastanza fumosa che, infatti, il procuratore di Firenze Intini contraddice fornendo i numeri provenienti dalla banca dati della polizia. Per non parlare dell’altra fake news che tutte le studentesse Usa in Italia sarebbero assicurate contro lo stupro Infatti, come ha spiegato anche Gabriele Zanobini, avvocato delle due ragazze protagoniste della vicenda, l’assicurazione stipulata dalle donne americane che si recano in Italia è generica e comprende ogni tipo di incidente o aggressione in cui si può incorrere.
«Denzel Washington sostiene Trump», la bufala su Facebook. Ennesimo caso di propaganda veicolata da American News, sito che posta contenuti falsi per orientare il dibattito. L’attore trasformato in un supporter del presidente eletto, scrive Marta Serafini su “Il Corriere della Sera” il 16 dicembre 2016. Tanto Denzel Washington risponde ad un giornalista che gli chiedeva un’opinione sulle fake news e sul ruolo dell’informazione moderna. Se non leggi i giornali sei disinformato, se invece li leggi sei informato male. Quindi cosa dovremo fare? chiede il giornalista, Washington replica: “Bella domanda. Quali sono gli effetti a lungo termine di troppa informazione? Una delle conseguenze è il bisogno di arrivare per primi, non importa più dire la verità. Quindi qual è la vostra responsabilità? Dire la verità, non solo arrivare per primi, ma dire la verità. Adesso viviamo in una società dove l’importante è arrivare primi. “Chi se ne frega? Pubblica subito” Non ci interessa a chi fa male, non ci interessa chi distrugge, non ci interessa che sia vero. Dillo e basta, vendi! Se ti alleni puoi diventare bravo a fare qualsiasi cosa. Anche a dire stronzate” tuona il celebre attore e regista.
I giornalisti professionisti si chiedono perché è in crisi la stampa. Le loro ovvie risposte sono:
Troppi giornalisti (litania pressa pari pari dalle lamentele degli avvocati a difesa dello status quo contro le nuove leve);
Troppi pubblicisti;
Troppa informazione web;
Troppi italiani non leggono.
La risposta invece è: troppo degrado intellettuale degli scribacchini e troppi “mondi di informazione”. Quando si parla di informazione contemporanea non si deve intendere in toto “Il Mondo dell’Informazione”, quindi informazione secondo verità, continenza-pertinenza ed interesse pubblico, ma “I Mondi delle Informazioni”, ossia notizie partigiane date secondo interessi ideologici (spesso di sinistra sindacalizzata) od economici. Insomma: quanto si scrive non sono notizie, ma opinioni! I lettori non hanno più l’anello al naso e quindi, diplomati e laureati, sanno percepire la disinformazione, la censura e l’omertà. In questo modo si rivolgono altrove per dissetare la curiosità e l’interesse di sapere. I pochi giornalisti degni di questo titolo sono perseguitati, perchè, pur abilitati (conformati), non sono omologati.
FAKE NEWS, GIORNALI E MORALISMI SENZA PIÙ NOTIZIE, scrive Alessandro Calvi il 22 dicembre 2017 su "Stati Generali". Certo, il problema sono le fake news; eppure, si dovrebbe dire anche dell’informazione di carta, di certe sue degenerazioni; o forse oramai è tardi, forse l’informazione è già morta e quello pubblicato dalla Stampa mercoledì 22 novembre – «La notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive» – ne è il perfetto necrologio. Quella frase l’ha scritta Mattia Feltri dopo aver chiesto scusa ai lettori per aver costruito un pezzo su una notizia poi rivelatasi falsa; e però quella chiusa – «La notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive» – sembra dirci che i giornali oramai ritengono di poter fare a meno di fatti e notizie, accontentandosi delle opinioni, anche di quelle costruite su notizie false; il necrologio del giornalismo, appunto. La storia è piuttosto semplice. Feltri aveva dedicato una puntata della sua rubrica «Buongiorno» alla notizia secondo cui una bimba di 9 anni sarebbe andata in sposa a un uomo di 45 anni e poi da questo sarebbe stata violentata; tutto si sarebbe svolto nella comunità musulmana di Padova. Ebbene, dopo aver spiegato che di questo genere di storie si conosce poco o nulla poiché «avvengono dentro comunità chiuse, regolate dalla connivenza, persuase di essere nel giusto per volere divino», Feltri ricordava la «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta, un po’ genericamente recriminatoria» contro «i Weinstein e i Brizzi di tutto il mondo» e concludeva: «Tanta agitazione per ragazze indotte o costrette a concedersi in cambio di una carriera nel cinema è comprensibile e condivisibile, ma tanto silenzio per donne e bambine sequestrate a vita, in cambio di niente, è spaventoso». Ecco: peccato che alla fine sia uscito fuori che la storia della sposa bambina era falsa. A Feltri non è restato che ammettere l’errore e chiedere scusa, non rinunciando però ad affermare che, sebbene la notizia fosse falsa, «la riflessione sopravvive». E invece no: ché, anzi, a sopravvivere è semmai tutto quell’apparato fatto di notazioni e coloriture – «tanta agitazione» o «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta» – il quale, al venir meno dei fatti, si rivela per quello che è: una semplice impalcatura ideologica, forse persino un po’ infastidita da quella «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta». Tuttavia, il problema non è certo Feltri al quale piuttosto si dovrebbe riconoscere d’essere un gran signore avendo fatto ciò che pochi fanno: ammettere l’errore e chiedere scusa. D’altra parte, capita a tutti di sbagliare, soprattutto se ogni giorno – ogni giorno! – si è costretti a trarre una morale dalle notizie, con metodo oramai quasi industriale; è capitato anche al più inossidabile, al più inarrestabile, tra i dispensatori di morali e opinioni, Massimo Gramellini; la ricostruzione che fornì Alessandro Gilioli sull’Espresso di uno di questi errori – e di mezzo c’è sempre una fake news presa per buona – vale la lettura. Ma, appunto, il problema non è l’errore in sé, poiché l’errore può capitare. Il problema, sta invece nell’essere oramai diventata accettabile – tanto che non s’è visto alzarsi neppure un sopracciglio – un’affermazione come quella secondo cui «la notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive». Il problema riguarda una idea di giornalismo che sembra prescindere dai fatti, per cui le opinioni oramai precedono la cronaca la quale spesso trova spazio soltanto se è in grado di confermare le opinioni, altrimenti se ne fa a meno, poiché comunque «la riflessione sopravvive». Il problema sta insomma nel fatto che l’informazione è stata da tempo ridotta a mero dispensario di opinioni, anche senza più fatti a sostegno. Di recente, sugli Stati Generali, è stato pubblicato un intervento – «Se noi giornalisti siamo sempre meno credibili, ci sarà un perché» – di Fabio Martini, anch’egli giornalista del quotidiano La Stampa, col quale non si può che concordare. E, peraltro, da queste parti si è ragionato spesso sulla crisi del giornalismo, e in particolare sulle conseguenze della marginalizzazione della cronaca. Lo si era fatto ad esempio prendendo spunto da fatti drammatici, come le stragi delle quali i quotidiani quasi non danno più notizia, e si era fatto lo stesso anche a partire da vicende più vicine, come il mancato racconto dell’agonia del lago di Bracciano. Di recente lo si è fatto a proposito di come l’informazione ha trattato le vicende di Ostia e del Virgilio. Comunque sia, il tema è sempre lo stesso: dai primi anni Novanta la cronaca inizia a essere massicciamente sostituita da altro, in particolare dai retroscena; e questo cambia tutto: cambia l’informazione e cambia anche il rapporto tra giornali e potere. «Sulle pagine dei giornali – si perdonerà l’autocitazione da quell’articolo che prendeva a pretesto la vicenda di Ostia per parlare di giornalismo – si affacciano sempre più massicciamente spifferi di Palazzo, brogliacci, verbali. Sembra che il lettore, attraverso la lettura di un verbale riportato pedissequamente dai giornali, possa essere immerso dentro la notizia senza più filtri né mediazioni. Sembra una rivoluzione. È invece l’esatto opposto. Per farsene una idea, basterebbe chiedersi chi dirige il traffico, chi sceglie quali verbali far uscire e quali spifferi lasciar trapelare. Ecco: per lo più, sono le fonti a stabilirlo, se non altro perché sono le fonti che conoscono a fondo il contesto. Insomma, sostituendo lo spazio della cronaca con il retroscena e rarefacendo sempre più il tradizionale lavoro di inchiesta giornalistica, i giornali si sono disarmati e consegnati alle fonti, quindi al potere». Il passaggio dalla cronaca al retroscena, e l’affermarsi progressivo delle opinioni sui fatti, finisce per trasformare anche la scrittura dei giornali. Il linguaggio della cronaca diventa sempre più simile a quello degli editoriali, intessuto di pedagogismi e di toni moralisticheggianti che non dovrebbero trovare spazio nel resoconto di un fatto. Anche questo contribuisce ad allentare il rapporto con la realtà, finendo per trasformare la cronaca – quando ancora trova spazio in pagina – in un racconto di maniera che non dice più molto del mondo. E non è ancora tutto. In questi giorni sono usciti in libreria due libri – non uno, due! – che Michele Serra ha dedicato alla rubrica che da anni cura per Repubblica, «L’amaca». In quello dei due che costituisce l’esegesi dell’altro, Serra scrive che gli anni nei quali iniziò a scrivere corsivi – «gli anni della post-ideologia», afferma – non erano più quelli di Fortebraccio e della sua ferrea faziosità. In realtà, rispetto all’epoca di Fortebraccio stava cambiando soprattutto il contenitore nel quale il corsivo veniva collocato: stavano cambiando i giornali e stava cambiando persino il giornalismo. Prima, informazione era per lo più il resoconto di un fatto e quindi aveva un senso l’esistenza di editoriali e corsivi; poi, con la marginalizzazione della cronaca e l’editorializzazione dell’intero giornale, i corsivi finiscono annegati in un mare di opinioni senza più cronaca, poiché, come s’è appena visto, la cronaca ha lasciato il posto al retroscena il quale ha a sua volta contribuito all’avvicinamento della informazione al potere attraverso il disarmo nei confronti delle fonti. In questo contesto, anche la funzione dei corsivi finisce per essere stravolta rispetto all’epoca di Fortebraccio: e il rischio permanente è che si passi dal graffio contro il potere al moralismo che accarezza lo stato delle cose e che massaggia il potere o la pancia dei lettori. Imboccata questa strada – sostituita la cronaca con il retroscena, scollegata l’informazione dai fatti, ridottala a ragionamento che può essere persino basato su una notizia falsa, stravolta infine la funzione dei corsivi – i giornali si sono ridotti a raccontare sempre meno le cose del mondo e per questo hanno sempre meno lettori e sono sempre più in crisi. A sentire chi i giornali li fa, però, il problema sarebbe soprattutto quello delle fake news o della rete che ruba lettori. E quindi si finisce per ritenere che la soluzione per recuperare lettori e credibilità sia quella di differenziarsi dalla rete, lasciando alla stessa rete il notiziario e concentrandosi ancor di più sulle opinioni. Lo ha spiegato piuttosto chiaramente il direttore di Repubblica Mario Calabresi presentando la nuova veste del giornale, scrivendo di aver addirittura «raddoppiato lo spazio per le analisi e i commenti». Bene. Ma davvero abbiamo bisogno di tutte queste opinioni? Possibile che si abbia tutta questa sfiducia nella capacità dei lettori – sempre che ai lettori si raccontino anche i fatti – di formarsi da sé una opinione? Non sarà, infine, che a forza d’andar dietro alle opinioni si stia rischiando di rendere ancor più flebile il rapporto tra giornali e fatti, oltre a quello oramai quasi evanescente tra giornali e lettori? Lo dirà il tempo. Tuttavia, proprio nel giorno in cui Calabresi annunciava il raddoppio delle analisi e dei commenti, la nuova Repubblica esordiva in edicola con una grande intervista al premier spagnolo Rajoy firmata dallo stesso Calabresi e posta in apertura di edizione. Quello stesso giorno, gli altri giornali raccontavano come Amsterdam avesse sfilato a Milano l’Agenzia europea del farmaco anche per il mancato accordo tra governo italiano e governo spagnolo. Ebbene, nella intervista uscita su Repubblica al capo di quel governo non c’era neppure una domanda su quel fatto. Sarà stata un scelta di opportunità, sarà stato perché l’intervista era stata chiusa prima, comunque si è rimasti con la sensazione che mancasse qualcosa. Quella scelta è stata legittima, certo; difficile però poi lamentarsi se i lettori quel qualcosa non lo cerchino più nei giornali.
Una Costituzione troppo elogiata. Commenti positivi si arrestano sistematicamente alla prima parte del testo, mentre la seconda è ampiamente discutibile e discussa, scrive Ernesto Galli della Loggia il 12 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Non si può proprio dire che abbia destato un grande interesse il settantesimo anniversario appena trascorso dell’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica. Alla fine dell’anno passato, l’evento è stato naturalmente e doverosamente commemorato da tutte le autorità del caso ma nella più completa distrazione della gente immersa nelle festività natalizie. E altrettanto doverosamente esso ha innescato l’ormai consueto ciclo di celebrazioni ufficiali. Che stavolta ha preso la forma di un «viaggio della Costituzione» – organizzato dalla Presidenza del Consiglio - attraverso dodici città italiane ognuna destinata a essere sede di una lezione su un tema centrale della Carta (tra i quali temi fanno bella mostra di sé Democrazia e Decentramento, Stato e Chiesa e Diritto d’asilo, Solidarietà e Lavoro, mentre manca, assai significativamente, il tema della Libertà). Come di prammatica è stata organizzata anche una mostra itinerante, ovviamente multimediale, nella quale ciascuno dei dodici articoli principali è commentato dalla voce di Roberto Benigni, confermato anche in questa occasione nel suo ruolo ormai ufficiale di aedo della Repubblica. Paradossalmente, tuttavia, proprio l’assenza d’interesse da parte del pubblico unita alla piattezza celebrativa condita dei soliti discorsi esaltanti il «testo vivo» della Carta, la sua «sintesi mirabile» e così via magnificando, sono serviti a sottolineare per contrasto qualcosa che è assolutamente peculiare della nostra scena pubblica. Vale a dire la centralità che in essa ha la Costituzione. Una centralità beninteso tutta verbale, fatta per l’appunto di un continuo discorrere sulla Costituzione in ogni circostanza plausibile e implausibile, di una sua incessante evocazione ed esaltazione, di una profusione di elogi per ogni suo aspetto: per la sua saggezza, per la sua lungimiranza, completezza, incisività, bellezza stilistica, e chi più ne ha più ne metta. Credo che in tutta Europa non esista una Carta costituzionale fatta oggetto di un altrettanto inarrestabile fiume di parole laudative, così come credo che non esista un’altra classe politica (ma ci si aggiungono volentieri anche preti e vescovi) che se ne riempia tanto la bocca come quella italiana. A cominciare da coloro che rappresentano le istituzioni, il cui discorso, appunto, è, per la massima parte e in qualsivoglia circostanza più o meno «nobile», una trama di richiami di volta in volta ammonitori o storico-encomiastici alla Costituzione. È una caratteristica così tipicamente italiana da richiedere una spiegazione. La quale credo stia nel fatto che l’ufficialità italiana, non riuscendo a immaginarsi depositaria di un qualunque destino collettivo né investita di una qualunque prospettiva nazionale, non considerandosi attrice credibile e tanto meno portavoce di un qualunque futuro significativo del Paese, sa di non poter fare altro che richiamarsi al passato. Quando in una qualunque circostanza celebrativa la suddetta ufficialità è chiamata a dire di sé e di ciò che rappresenta in modo «alto», essa sa di non essere in grado di spingere lo sguardo avanti, di non avere la statura per dar voce a un progetto o a un destino, e quindi è costretta inevitabilmente a volgere lo sguardo all’indietro, solo all’indietro: cioè per l’appunto alla Costituzione. Naturalmente uno sguardo essenzialmente contemplativo: infatti, lungi dall’essere una retorica in vista dell’azione, la retorica ufficiale della Repubblica è vocazionalmente una retorica della memoria. La dimensione dei foscoliani «Sepolcri», insomma, è ancora e sempre la nostra: anche se oggi priva degli «auspici» che a suo tempo secondo il poeta da essi avremmo dovuto trarre. C’è ancora una considerazione da fare circa il discorso sulla Costituzione tipico della ufficialità italiana. Ed è che esso, nella sua abituale, pomposa, glorificazione del testo, tende sistematicamente a nascondere due verità. La prima è che forse quel testo medesimo così compiuto e perfetto non è, visto che fino a oggi sono almeno 16 (per un totale di oltre venti articoli) le modificazioni che è stato ritenuto utile o necessario apportarvi: e quasi sempre su aspetti per nulla secondari. La seconda verità nascosta dalla magniloquenza celebrativa quando nei suoi elogi si arresta, come fa sistematicamente, alla prima parte della Carta, riguarda la natura viceversa ampiamente discutibile e discussa della seconda parte, quella che tratta dei modi in cui il Paese è quotidianamente e concretamente governato e amministrato. Non a caso il modo come in Italia funzionano l’esecutivo, la giustizia, le Regioni o la burocrazia, non è mai fatto oggetto di attenzione e tanto meno di elogi dal discorso sulla Costituzione. Accortamente i ditirambi sono riservati solo ai massimi principi: alla solidarietà, al ripudio della guerra o al diritto allo studio e via dicendo. Sul resto, silenzio. Con il risultato che modificare ciò che pure a giudizio di moltissimi andrebbe modificato di questa seconda parte si rivela da sempre di una difficoltà titanica, dal momento che la cosa può facilmente essere fatta passare per un subdolo attacco ai principi suddetti. Ma se la Costituzione è così massicciamente presente nel discorso pubblico italiano questo avviene per un’ultima ragione, pure questa patologica. E cioè perché essa viene continuamente adoperata come arma contundente nella lotta politica quotidiana, piegata a suo uso e consumo. In realtà è la Costituzione stessa che si presta a esser adoperata in tal modo. Infatti, il lungo elenco di articoli dal 29 al 47 — articoli astrattamente prescrittivi riguardanti i rapporti «etico sociali» ed economici (l’astrattezza sta nello stabilire come obbligatori per la Repubblica, nella forma perlopiù di altrettanti «diritti» dei cittadini, una lunga serie di costosissimi obiettivi di una vasta quanto assoluta genericità) — tali articoli, dicevo, si prestano molto bene a essere fatti valere a difesa polemica di qualsiasi esigenza contro qualsiasi politica di qualsiasi governo. Non a caso, un tale uso strumentalmente politico della Costituzione cominciò fin dalla sua entrata in vigore, e si può dire che da allora non ci sia stato esecutivo italiano di destra o di sinistra che nelle più svariate occasioni non sia stato accusato in un modo o nell’altro di violare la Costituzione. Inutile dire quanto anche una simile pratica abbia contribuito e contribuisca a impedire che intorno alla Costituzione stessa si formi quell’aura di «sacralità» che invano i suoi celebratori vorrebbero.
MARITATI FAMILY.
Sui corsi e ricorsi storici, inutile dirlo: la Rete ha buona memoria.
Correva l’anno 1994. Il pubblico ministero pugliese, Alberto Maritati, stava indagando su un finanziamento illecito erogato - tramite assegno - dal patron delle Cliniche Riunite di Bari a Massimo D'alema.
Nel giugno del 1995, quel processo fu archiviato per decorrenza dei termini di prescrizione, su richiesta dello stesso pm Maritati. Il gip Concetta Russi, con queste parole dispose l’archiviazione:
“Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti, e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci. Con riferimento all’episodio riguardante l’illecito finanziamento al Pci, l’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato”.
D’Alema, dunque, confessò di aver percepito un finanziamento illecito per il Partito comunista. E tuttavia, non venne condannato e non finì in gattabuia grazie alla prescrizione del reato da lui compiuto. Destino diverso toccò agli indagati di Di Pietro.
Va aggiunto, inoltre, che il pubblico ministero di questo processo, Alberto Maritati, fu candidato - per volontà di D’Alema - alle elezioni suppletive del giugno 1999 (si era liberato un seggio senatoriale, dopo la morte di Antonio Lisi). E divenne sottosegretario all’Interno del governo presieduto dallo stesso D’Alema. Ancora oggi, Maritati, siede al Senato nelle fila del Partito democratico.
Dalle mie parti si dice: una parola è poca, e due sono troppe.
Specialmente se è tutto un corso e ricorso storico. Il sostituto procuratore generale ha chiesto ai giudici della corte d’appello di Bari di confermare la condanna a 3 anni e 6 mesi inflitta in primo grado a Lucio Tarquinio, già consigliere regionale e vice presidente del Consiglio e Nicola Cardinale, ex direttore generale degli ospedali riuniti, accusati di turbativa d’asta per l’appalto per la vigilanza nella cittadella ospedaliera. L’accusa sostiene che il politico esercitò indebite pressioni sul manager per favorire una ditta; la difesa chiede l’assoluzione. Il pg Angela Tomasicchio ha chiesto la conferma delle nove condanne inflitte in primo grado per i due filoni dell’inchiesta Vigilantes.
Il presunto intreccio tra politica e affari nella sanità pugliese, sulla quale sta indagando la Procura di Bari, avrebbe un precedente che risale a 15 anni fa. Lo sostiene nel prossimo numero di Panorama, in edicola venerdì 14 agosto, Francesco Cavallari, ex re delle cliniche private baresi, arrestato nel 1994, che nel giugno 1995 patteggiò la pena di 22 mesi per associazione mafiosa e alcuni episodi di corruzione. "Dalle mie dichiarazioni - racconta Cavallari a Panorama - rimasero coinvolti una sessantina di politici. Tra loro c'era anche il socialista Alberto Tedesco (coinvolto nell'attuale inchiesta barese ed eletto senatore nel PD), ma non venne indagato. Io non mi spiego la decisione del pm".
Tra le dazioni di danaro a cui fa cenno Cavallari, ce n'è una di 20 milioni di lire che l'ex re delle cliniche private dice di aver fatto a Massimo D'Alema, ma i pm baresi chiesero e ottennero l'archiviazione dell'accusa per finanziamento illecito ai partiti. Cavallari ricorda: "Io consegnai personalmente a D'Alema 20 milioni in contanti in una busta bianca durante una cena a casa mia. Ma non finì lì. In altre due occasioni gli diedi due finanziamenti da 15 milioni che gli portai al consiglio regionale. Successivamente gli feci avere altre due tranche sempre da 15: in tutto 80 milioni di lire".
Ma nell'inchiesta si è sempre parlato solo di 20 milioni... Cavallari afferma: "Nell'agenda inizialmente annotai il nome "D'Alema" poi, vista la cresciuta confidenza, lo indicai come "Massimo". Il PM Alberto Maritati, poi eletto senatore nel PD, non mi ha creduto".
I rapporti fra Cavallari e l'ex premier iniziano a metà degli anni Ottanta e durano diversi mesi. "Fu Antonio Ricco, commercialista e direttore generale delle mie cliniche, oggi consulente personale del sindaco Emiliano (Ricco è indagato per corruzione in un'inchiesta sulla costruzione del centro direzionale San Paolo, ndr), a presentarmelo: andava in giro a chiedere soldi per conto del Partito comunista".
Cavallari incontrò il funzionario più volte: "Io, nel chiarire la mia posizione a Maritati, spiegai che D'Alema mi era stato molto utile nei rapporti con la Cgil. Dal momento in cui sono iniziate le dazioni di danaro io non sono più stato attaccato violentemente dal sindacato, il rapporto è diventato più collaborativo e garbato. Una volta, a Roma, D'Alema sottolineò questi progressi, ma mi raccomandò un atteggiamento più dialogante nei confronti del sindacato rosso e non solo verso Cisl e Uil".
Un discorso che per gli avvocati di Cavallari prefigurava altri reati oltre al finanziamento illecito. Maritati fu di diverso avviso. Quattro anni dopo, il 30 giugno 1999, il magistrato viene eletto senatore e il 4 agosto è nominato sottosegretario all'Interno del primo governo D'Alema.
Nel frattempo Cavallari venne condannato a 18 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa: "Non potevo reggere oltre, ero già stato operato al cuore: patteggiai". Fu l'unico condannato su un'ottantina di imputati.
Per l'ex re della sanità pugliese l'accusa di mafia resta indigesta: "Assumevo ex detenuti o i loro familiari per non saltare in aria. Che vantaggi avevo? La quiete". Per i magistrati, invece, i dipendenti «mafiosi» intimidivano il sindacato, anche se non ci sono state condanne. I carabinieri segnalarono episodi di tensione nell'azienda. «Macché minacce, mi sono salvato dalla Cgil grazie a D'Alema!" dice Cavallari.
Le coincidenze tra ieri e oggi non sono finite. Dalla memoria riemerge anche la figura di una affascinante ragazza bionda: "Io quella Patrizia D'Addario l'ho conosciuta. Me la presentò un giornalista con cui si accompagnava. Mi chiese di poter intrattenere i nostri ammalati con giochi di prestigio. Era una brava prestigiatrice, molto bella e di classe. Ma il direttore sanitario mi sconsigliò l'iniziativa".
Non finisce qui. E’ un pozzo senza fondo la Mele-story ricostruita dal superteste Francesco Cavallari. L' "amico Vittorio" viene dipinto, nei verbali di Milano e di Perugia, come un uomo che direttamente non chiede mai, ma che può contare su chi chiede per lui. Tra l'alto magistrato Vittorio Mele e il ras della sanità barese Cavallari c’è Antonio Ricco, il faccendiere amico di tutti i partiti della prima Repubblica. E Ricco, senza esitazioni, sollecita regali e soldi, promettendo e ottenendo in cambio favori giudiziari. Oggi Ricco conferma tutto quanto non gli nuoce - le feste, i viaggi, le frequentazioni -, nega quanto può danneggiarlo direttamente: un assegno, una busta con i soldi, i contributi in denaro. Ma Cavallari va avanti. Racconta di un costoso anello che fu portato alla signora Mele.
IL FATTO QUOTIDIANO – In apertura: “Lo scaricano tutti. Anche il maggiordomo”. Editoriale di Marco Travaglio: “La malavitola”. In basso: “Lampedusa, il Cpa in fiamme: la rabbia degli africani disperati”. Fotonotizia: “Bossi è fuori dalla storia”.
Tutta l'Italia ne parla, a secondo della fazione. Intanto il procuratore di Bari Antonio Laudati è indagato dalla Procura di Lecce.
La sua iscrizione era nell’aria. Ed è la conseguenza della trasmissione degli atti dell’inchiesta della Procura di Napoli sul presunto ricatto al premier, atti in cui si ipotizzano ritardi nell’indagine barese sulle escort utilizzate da Gianpaolo Tarantini per allacciare rapporti affaristici. Nei dialoghi intercettati dalla Procura partenopea il procuratore Laudati viene indicato come colui che avrebbe cercato di favorire Gianpi e, soprattutto, di evitare la divulgazione delle intercettazioni scomode di Silvio Berlusconi. Abuso d’ufficio e favoreggiamento personali sono le ipotesi per le quali è stato aperto il fascicolo che è sul tavolo del procuratore Cataldo Motta. Un fascicolo blindato, la cui titolarità il capo della Procura leccese (competente ad indagare sui fatti che coinvolgono i magistrati del distretto della Corte d’Appello di Bari) divide con il suo aggiunto Antonio De Donno.
L’inchiesta avviata a Lecce dovrà chiarire se Gianpaolo Tarantini, parlando al telefono con il direttore ed editore dell’Avanti Valter Lavitola, diceva il vero quando riferì che il procuratore capo Laudati avrebbe chiesto ai suoi legali di patteggiare la pena per evitare tanto una nuova esposizione pubblica al presidente Berlusconi, con l’avviso di conclusione delle indagini e la conseguente diffusione degli atti e delle intercettazioni, quanto anche un processo pubblico che avrebbe comportato l’interrogatorio dello stesso Tarantini.
«L’ha fatto apposta Laudati questo, perché, si sono messi d’accordo, nel momento in cui riaprono l’indagine e non mandano l’avviso di conclusione, non escono pubbl... non diventano pubbliche le intercettazioni». Sono le parole di Tarantini trascritte dagli investigatori napoletani ed inserite nell’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa nei confronti dello stesso Tarantini, della moglie Angela Devenuto e del direttore e editore dell’Avanti Valter Lavitola per la presunta estorsione ai danni del premier. Soldi pretesi per assicurare versioni concordate e di basso profilo sulla vicenda delle escort.
C’è, poi, un’altra intercettazione. La voce è sempre quella di Tarantini: «Quello a Nicola gli ha messo l’ansia... ha detto che è catastrofica... che il suo ruolo è fallito... perché lui era convinto, ti ricordi, di archiviarla». Nella conversazione, almeno secondo quanto ipotizzato dagli investigatori napoletani, il riferimento dovrebbe essere all’avvocato Nicola Quaranta, all’epoca difensore di Tarantini, e al procuratore Laudati (“quello”). L’intercettazione è del 5 luglio 2011.
Pochi giorni prima nella Procura di Bari si era consumato lo strappo fra Laudati e l’ex sostituto Giuseppe Scelsi, che per primo ha indagato sulla scuderia di escort di Tarantini e che ora è sostituto alla Procura generale di Bari. Alla base della frizione c’è l’iniziativa di Laudati che avrebbe ordinato alla Guardia di Finanza di consegnare a lui anziché a Scelsi l’informativa finale sull’indagine relativa al favoreggiamento e allo sfruttamento della prostituzione. Sul punto l’ex pm ha trasmesso un esposto al Csm e il contenuto è materia che interessa anche l’inchiesta della Procura di Lecce.
«Un procuratore se indagato non può continuare a svolgere il suo ruolo con la serenità e il dovuto prestigio che deve caratterizzare la sua funzione. Per questo mi dichiaro a completa disposizione delle Procure di Napoli e Lecce». Così si era espresso Laudati all’indomani della diffusione del contenuto delle intercettazioni di Tarantini sul suo conto, lasciando intendere che si sarebbe dimesso qualora fosse stato indagato. L’inchiesta, intanto, va avanti. Nel fine settimana i magistrati leccesi insieme con quelli napoletani hanno sentito i loro colleghi baresi: Giuseppe Scelsi e Eugenia Pontassuglia che ha ereditato il fascicolo. Sul contenuto il riserbo è massimo.
Il 19 settembre 2011 infine, c’è stata l’audizione durata quattro ore di Giuseppe Scelsi davanti alla Prima Commissione del Consiglio Superiore della Magistratura sull’esposto presentato dall’ex pm contro il procuratore Laudati. Laudati sarà ascoltato il giovedì successivo. Abuso d’ufficio, favoreggiamento, addirittura tentata violenza privata. Il procuratore capo di Bari, Antonio Laudati, si ritrova indagato dai colleghi di Lecce per il «caso Tarantini». Ben tre ipotesi di reato e con questo biglietto da visita giovedì è atteso davanti alla prima commissione del Csm, che potrebbe decidere un suo trasferimento d’ufficio. Per non parlare dell’eventuale azione disciplinare, che è proprio dietro l’angolo.
Che ha fatto Laudati per meritare tutti questi guai? L’accusa è pesante, infangante: quella di aver voluto controllare le indagini su Gianpaolo Tarantini, anche per rallentare la diffusione delle intercettazioni tra il faccendiere e le ragazze portate alle feste del premier. E questo per favorire, più che Tarantini, Silvio Berlusconi. La grande colpa di Laudati, insomma, sarebbe quella di non aver fatto abbastanza per inchiodare il Cavaliere. Il sospetto nasce da intercettazioni in cui Giampaolo Tarantini e il direttore de L’Avanti Valter Lavitola parlano di presunti accordi degli avvocati con lui. E lo sostiene il suo grande accusatore, l’ex pm Giuseppe Scelsi, oggi alla procura generale barese. La tentata violenza privata sarebbe proprio nei confronti dell’ex titolare dell’inchiesta, che a luglio 2011 ha inviato un esposto al Csm, poi ha ripetuto la sua versione dei fatti di fronte ai colleghi leccesi e napoletani e lunedì 19 settembre a Palazzo de’ Marescialli. Così, da inquisitore di Tarantini (lo ha fatto anche arrestare) Laudati diventa indagato.
Passa in ombra la pubblica autodifesa in cui il procuratore capo racconta della situazione trovata in Procura al suo arrivo a settembre 2009, con i sostituti che a suo dire lavoravano a ruota libera, senza coordinamento e, soprattutto, con le continue e clamorose fughe di notizie sui giornali. Quello che Laudati descrive come un necessario mettere ordine nell’ufficio, imporre regole ferree ai pm, maggiore controllo sulla Guardia di finanza per i compiti di polizia giudiziaria e assoluto riserbo verso i mass media, per Scelsi è imposizione verticistica, interferenza sospetta, come quella di avocare a sé, di fatto, la delicata inchiesta sulle escort.
Sembra che il primo titolare delle indagini si sia sentito sotto accusa per il sospetto che proprio dal suo computer siano fuggite le prime notizie a luci rosse sull’escort Patrizia D’Addario e le altre, pubblicate dal Corriere della Sera proprio il giorno dell’insediamento di Laudati. Il rapporto tra i due (il primo vicino alla corrente di Magistratura indipendente, l’altro militante in Magistratura democratica) comincia male e prosegue peggio. Al pm vengono affiancati due colleghi per l’inchiesta scottante, lo stress sale, gli attriti con il capo pure e Scelsi chiede il trasferimento alla Procura generale. Ma prima vuole a tutti i costi l’informativa finale delle Fiamme gialle. La sollecita. A tre giorni dalla sua uscita, salta l’ultima riunione per le ferie dei colleghi e non ci riesce. Scelsi lascia con l’amaro in bocca, si sente defraudato e, forse anche per pararsi da eventuali attacchi, scrive al Csm.
Lunedì 19 settembre 2011, alla prima commissione presieduta dal laico Nicolò Zanon, ripete la sua versione calcando la mano. Accusa Laudati di aver imposto alla Guardia di finanza di consegnare solo a lui la famosa informativa. Lo stabilisce una direttiva del Capo del dicembre 2009, ma lui la contesta. Contesta addirittura l’opportunità della riunione di coordinamento delle indagini indetta da Laudati, parla di ritardi voluti, di intromissione verticistica nelle inchieste, di suggerimenti a Tarantini, di uso personalistico delle Fiamme Gialle da parte del procuratore, con un «pool» che rispondeva solo a lui. Addirittura, di un’«indagine parallela» alla sua. E Laudati viene crocifisso.
Il senatore del Pd Alberto Maritati - dalemiano, sottosegretario alla Giustizia nel governo Prodi e amico di vecchia data dell’avvocato della D’Addario, Maria Pia Vigilante - nell’estate 2009 chiese informazioni all’ex pm barese Pino Scelsi sulle indagini che riguardavano Tarantini appena perquisito. E lo fece su incarico di Roberto De Santis, dalemiano di ferro. A riferirlo è proprio Scelsi, nel suo interrogatorio a Lecce su Laudati, procuratore di Bari indagato. «Laudati mi disse che a Roma si era sparsa la voce che la fuga delle notizie pubblicate sul Corriere della Sera, preceduta dalle dichiarazioni di D’Alema (quelle sulla «scossa nel governo», ndr) (...) era a me addebitabile, o che comunque io avrei contribuito (...). Risposi che non avrei avuto alcun interesse a danneggiare la mia indagine con improvvide rivelazioni, e che peraltro dalla stessa indagine risultava che Tarantini era legato ad ambienti vicini all’area politica di D’Alema (...). Feci presente a Laudati che io personalmente avevo avuto richieste di informazioni da parte di Alberto Maritati, vicino all’ambiente di D’Alema, e che avevo categoricamente rifiutato di dare notizie, come tra l’altro risultava da alcune conversazioni intercettate sull’utenza di De Santis, persona assai vicina a D’Alema e suo compagno di barca».
DALEMIANI PREOCCUPATI
Dalle intercettazioni, prosegue Scelsi, «risultava sia l’incarico dato da De Santis a Maritati di raccogliere informazioni (…), sia la risposta di Maritati che aveva riferito a De Santis l’impossibilità di avere alcuna informazione (…)». Un episodio che Scelsi avrebbe raccontato anche al predecessore di Laudati, Marzano, e all’ex coordinatore della Dda Marco Di Napoli. Interessante anche alla luce di una dichiarazione di Tarantini in un verbale di novembre 2009, di cui parla anche Scelsi nel suo interrogatorio: «Angelillis (uno dei due pm che Laudati affiancò a Scelsi, ndr) aveva chiesto al Tarantini di riferire sui suoi rapporti con De Santis e Tarantini aveva dichiarato di essersi rivolto, dopo le perquisizioni, a De Santis chiedendogli di attivarsi presso qualche politico presumibilmente vicino ai magistrati. A detta di Tarantini, De Santis non aveva mai dato risposta». Dunque, se non era nell’interesse di Tarantini, per conto di chi Maritati e De Santis avevano cercato informazioni?
«MI MANDA ALFANO»
Scelsi non risparmia stoccate a Laudati che prima dell’insediamento, a suo dire, tenne una riunione coi finanzieri Bardi, D’Alfonso e Paglino: «Laudati fece un discorso chiaro, che era molto amico del ministro della Giustizia, che “gli aveva concesso l’onore del tu”, e che in virtù di quest’amicizia aveva garantito per me, così impedendo l’avvio dell’attività ispettiva sul mio operato. Aggiunse che era stato mandato a Bari per conto del ministro della Giustizia».
IL COMPLOTTO «ROSSO»
Anche l’altra pm del caso escort, Eugenia Pontassuglia, ha riferito che tra i temi da sottoporre a Gianpi in uno degli interrogatori, «si era individuato quello dell’esigenza di comprendere (…) i rapporti tra De Santis, Tarantini e D’Alema (che da alcune intercettazioni risultava essere presente in Sardegna nello stesso periodo in cui c’era Tarantini, agosto 2008) e se vi fosse collegamento» tra questi e il rapporto «che la D’Addario aveva avuto con Berlusconi», per valutare «la possibilità che vi fosse stato un accordo tra i tre in virtù del quale Tarantini avesse messo in collegamento D’Addario con Berlusconi (ipotesi che la Pontassuglia alla luce degli atti dice «poter essere esclusa», ndr)». Tanti indizi, non fanno un complotto.
Dagli interrogatori di Scelsi, Pontassuglia e Paglino uno spaccato della procura barese divorata da guerre fra magistrati e polizia giudiziaria e attraversata da presunte omissioni e depistaggi.
Trenta pagine di verbali resi da due sostituti procuratori di Bari e da alte cariche della Guardia di Finanza. Le carte depositate dalla procura di Napoli e Lecce nell'ambito del processo Tarantini raccontano la rete assai ingarbugliata, tanto da risultare preoccupante, che si è sviluppata a Bari intorno all'inchiesta su Gianpi e le prostitute da portare al presidente del Consiglio. Una rete fatta di guerre tra magistrati e polizia giudiziaria e piena di presunte omissioni e depistaggi. Con dietro lo spettro di un complotto. In mezzo ci sono accuse molto dure mosse dal pm Scelsi e da alcuni finanzieri al lavoro di Laudati accusato di aver ritardato e controllato le indagini su Tarantini. Ma ci sono anche le parole sofferte di Eugenia Pontassuglia, il sostituto che più di tutti ha seguito l'indagine (ascoltando per esempio tutte i file audio delle intercettazioni telefoniche) e che si trova costretta a rispondere di accuse incrociate, a volte anche durissime e forse strumentalizzate, tra i colleghi al fianco dei quali ha lavorato in questi mesi. Ecco i sunti dei verbali di tutti i testimoni dell'indagine ascoltati in questi mesi dalla procura generale di Bari e dai magistrati di Lecce e Napoli.
GIUSEPPE SCELSI
"Confermo il contenuto dell'esposto indirizzato al Csm. (...) Quando fu pubblicata l'intervista di Patrizia d'Addario e fu pubblicata sui giornali la notizia dell'inchiesta, la collega Elisabetta Pugliese mi disse che Laudati, già nominato dal Csm procuratore di Bari, mi cercava e aveva bisogno di parlarmi. Mi misi in contatto con lui e mi disse che a Roma si era sparsa la voce che la fuga delle notizie preceduta dalle dichiarazioni dell'onorevole D'Alema era me addebitabile. Risposi a Laudati che non avrei avuto alcun interesse a danneggiare la mia indagine con improvvide rivelazioni e che peraltro dalla stessa indagine risultava che Tarantini era legato ad ambienti vicini all'area politica di D'Alema. In quella stessa occasione o forse successivamente feci presente al collega Laudati che io personalmente avevo avuto richieste di informazioni da parte dell'onorevole Alberto Maritati, vicino all'ambiente di D'Alema, e che avevo categoricamente rifiutato di dare notizie, come tra l'altro risultava da alcune conversazioni intercettate sull'utenza di Roberto De Santis, persona assai vicina a D'Alema e suo compagno di barca. Dalle conversazioni intercettate, infatti, risultava sia l'incarico dato da De Santis a Maritati di raccogliere informazioni sulla vicenda per la quale erano state disposte le perquisizioni, sia la risposta di Maritati che aveva riferito a De Santis della impossibilità di avere alcuna informazione stante la mia categorica chiusura.
Il testo integrale della lettera del 7 agosto 2009 di Niki Vendola, Presidente della giunta regionale, alla Digeronimo, P.M. antimafia di Bari.
Gent.ma Dott.ssa Digeronimo, l’amore per la verità non mi consente più di tacere.
Ho l’impressione di assistere ad un paradossale capovolgimento logico per il quale i briganti prendono il posto dei galantuomini e viceversa. Io ho la buona e piena coscienza non solo di non aver mai commesso alcun illecito nella mia vita, ma viceversa di aver dedicato tutte le mie energie a battaglie di giustizia e legalità. “Nichi il puro” titola “Panorama” per stigmatizzare le mie presunte relazioni con un imprenditore che non conosco e a cui ho chiuso, dopo trent’anni, una discarica considerata un autentico eco-mostro (stupefacente notare che “L’Espresso” pubblica un articolo fotocopia del rotocalco rivale: sarebbe carino indagare sul calco diffamatorio che origina questa singolare sintonia di scrittura!). In effetti mi considero un puro: e non rinuncio ad aver fiducia nel genere umano e a credere che la giustizia debba alla fine trionfare. In questi anni di governo ogni volta che ne ho ravvisato la necessità ho adottato provvedimenti tanto tempestivi quanto drastici a tutela delle istituzioni: sono fatti noti, che fanno la differenza tra il presente e il passato.
Ma la sua indagine, dott.ssa Degironimo, sta diventando, suo malgrado, lo strumento di una campagna politica e mediatica che mira a colpire la mia persona pur non essendo io accusato di nulla. Per antico rispetto verso la magistratura e verso di lei ho evitato, in queste settimane, di reagire alla girandola di anomalie con le quali si coltiva un’inchiesta la cui efficacia si può misurare esclusivamente sui Tg.
La prima anomalia è che lei non abbia sentito il dovere di astenersi, per la ovvia e nota considerazione che la sua rete di amici e parenti le impedisce di svolgere con obiettività questa specifica inchiesta.
La seconda anomalia riguarda l’aver trattenuto sotto la competenza della Procura Antimafia una mole di carte che hanno attinenza con eventuali profili di illiceità nella Pubblica Amministrazione.
La terza riguarda l’acquisizione di atti che costituiscono il processo di gestazione di alcune leggi, come se le leggi fossero sindacabili dall’autorità inquirente.
La quarta riguarda la incredibile e permanente spettacolarizzazione dell’inchiesta: che si svolge, in ogni suo momento, a microfoni aperti e sotto i riflettori. Così per la mia convocazione in Procura. Così per l’inaudita acquisizione dei bilanci di alcuni partiti e addirittura di alcune liste elettorali. Il polverone si è mangiato i fatti: quelli circostanziati legati al cosiddetto sistema Tarantini: e nella festosa scena abitata da questo imprenditore io, a differenza persino di alcuni magistrati, non ho mai messo piede.
Lei è così presa dalla sua inchiesta che forse non si è accorta di come essa clamorosamente precipita fuori dal recinto della giurisdizione: sono diventato io, la mia immagine, la mia storia, la posta in gioco di questa ignobile partita. Non dico altro. Il dolore lo può intuire. Qualcuno sta costruendo scientificamente la mia morte. Per me che amo disperatamente la vita è difficile non reagire. Le chiedo solo di riflettere su queste scarne parole.
Firmato: Nichi Vendola
Il Ministro per i Rapporti con le Regioni, Raffaele Fitto, replica sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 1 aprile 2009, contrattaccando, alla interrogazione al Ministro della Giustizia, Alfano, dei senatori Pd sul suo conto, segnalando la "coincidenza" con iniziative e decisioni del Csm.
Il Ministro Alfano ha disposto un’ispezione Ministeriale presso la Procura di Bari per verificare il suo modus operandi, mentre il CSM ha respinto un esposto di Fitto contro la stessa Procura. "In Spagna - scrive Fitto in una nota - un ministro della giustizia socialista si dimette per essere stato fotografato a caccia con un magistrato che indaga sul partito popolare. Da noi alla fine ci si mette anche una "casta" togata che siede "pro tempore" sui banchi del Senato a interrogare il Ministro Alfano. Sei pubblici ministeri su nove firme. Nomi celebri: Finocchiaro, Casson, D'Ambrosio, Della Monica ma anche: Gianrico Carofiglio, fino all'altro giorno pubblico ministero presso la Procura della Repubblica di Bari, dove la moglie, Francesca Romana Pirrelli esercita la stessa attività nel pool che indaga sui reati contro la Pubblica Amministrazione, competente quindi sul Comune di Bari del quale è sindaco l'ex collega magistrato e compagno di partito del marito, Michele Emiliano. Competente anche sulla Regione Puglia. Tra l'altro dello stesso magistrato e della moglie magistrata circolano nella Rete foto in atteggiamenti di grandi familiarità con parenti stretti del Presidente Vendola. Firmatario anche Alberto Maritati, già sostituto procuratore presso la Procura di Bari e successivamente applicato a Bari dalla Direzione Nazionale Antimafia. Celebre per avere suscitato un immenso clamore con la cosiddetta "Operazione Speranza", alla metà degli anni novanta, che vide decine di persone tra arrestate e variamente imputate in una serie di procedimenti che, dopo ben più di un decennio, si sono conclusi tutti con assoluzioni in tutti i gradi di giudizio. Ma ebbe di che consolarsi con un patteggiamento. Né va dimenticato che nella stessa indagine Maritati si imbatté in esponenti politici dai quali, senza difficoltà, in seguito ottenne la candidatura nel medesimo partito".
Secondo Fitto, poi, "non va dimenticato che è sindaco di Bari Michele Emiliano, magistrato presso la Procura della stessa città e che a lungo indagò sulla cosiddetta Missione Arcobaleno, ipotizzando reati gravissimi a carico di tutta una serie di alti esponenti di quello che, con nuova denominazione, è diventato il partito del quale è segretario regionale e che, a suo tempo lo candidò a sindaco del Comune di Bari". E "che sono stato definito "mafioso" in un`intervista al giornale La Repubblica da Marco Di Napoli, magistrato impegnato in un`indagine sulla mia persona. Segue in proposito una denuncia penale e un procedimento civile". Così come "un altro magistrato, Roberto Rossi, analogamente impegnato in un`indagine sulla mia persona si lasciava fotografare in ridente condivisione con una assessore comunale di Bari dei Verdi, nel corso del cosiddetto Vaffa Day in svolgimento nella stessa città nella quale esercita il suo delicato ufficio. Peraltro compiendo eloquente gesto".
Inoltre, "un altro firmatario non magistrato, Nicola Latorre ha sicuramente minuziosa conoscenza di tutte queste vicende". "Per il resto - prosegue il ministro- vale il criterio opinabilissimo dell'opportunità che una serie tanto nutrita di magistrati si impegni in politica e che alcuni lo facciano all'indomani di indagini delicatissime a carico di esponenti dello stesso partito che finisce con il candidarli? Va da sé: liberi tutti.... E mi si vuole negare la libertà di un esposto, più volte integrato in questi mesi con ulteriori elementi, peraltro nel più rigoroso rispetto delle regole e che riguardano per ciò che mi concerne intercettazioni ambientali tra avvocati e indagati in colloqui precedenti all'interrogatorio, iscrizione nel registro degli indagati e successiva autorizzazione alle intercettazioni distanza di 23 mesi dalla notizia di reato e senza che ci fossero fatti nuovi e in coincidenza con la mia campagna elettorale, indagini preliminari che durano 7 anni. Telefonate intercettate e riportate in brogliacci come "non inerenti" e il cui contenuto è invece totalmente riferibile alla, vicenda. Telefonate riportate con degli omissis, contenenti invece brani che attribuiscono diverso significato. Tentativo con diversi ostacoli durato 2 anni per poter esercitare il mio legittimo diritto, previsto dal Codice di ascoltare tutte le telefonate e non solo quelle scelte dai P.m. E potrei continuare".
"Peraltro - conclude Fitto- vedo che con una velocità del tutto inusitata, non solo si mobilitano le associazioni dei magistrati locale e nazionale, ma lo stesso CSM non archivia, come si è detto, ma eccepisce la sua non competenza, a tempo di record, sul mio esposto e, sempre a tempo di record, si dispone a intervenire sul caso dell'ispezione come ci informa, per agenzia, il Consigliere del CSM, Ciro Riviezzo, che appartiene alla stessa corrente di alcuni pubblici ministeri titolari delle indagini a mio carico. Sicuramente tutte strane coincidenze".
A questo si aggiunge che il palazzo di giustizia di via Nazariantz a Bari è "illegale, incapiente e insicuro". Ne è convinto il procuratore della Repubblica del capoluogo pugliese, Antonio Laudati, riferendosi alla struttura in cui sono ospitati da diversi anni gli uffici della procura della Repubblica, del gip-gup, del dibattimento penale di primo grado, il tribunale del Riesame e le sezioni di polizia giudiziaria.
“E' illegale perchè non rispetta la legge 626 (sulla sicurezza nei luoghi di lavoro) per cui tra poco – ha detto sorridendo – dovrò autodenunciarmi e trasmettere gli atti alla procura di Lecce. E’ incapiente perchè lo Stato paga 30 vice procuratori onorari che devono lavorare per l’ufficio ma, non avendo una sistemazione, lavorano a casa loro o portano fascicoli della procura nei loro studi legali. E’ insicuro anche perchè ieri è stato sequestrato un coltello a serramanico che veniva clandestinamente introdotto. Si tratta di un fatto serio perchè l’introduzione dell’arma era legata ad un’udienza che doveva essere tenuta”.
“Spero – ha concluso Laudati – che gli avvocati possano essere al mio fianco, anche perchè ho visto le aule di udienze e, onestamente, mi sembrano un caso unico in Italia in cui anche la figura dell’avvocato viene completamente svilita. Sono sicuro e convinto che le istituzioni locali vorranno collaborare per migliorare la situazione”.
I colloqui di Laudati: «A Bari una lobby di giudici e politici», scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Non solo il racconto di un’inchiesta su un presunto «complotto istituzionale», fascicolo reso noto da Panorama ma che, in realtà, non sarebbe mai esistito. Nelle frasi riferite dall’ex procuratore della Repubblica di Bari Antonio Laudati a un cronista del settimanale, che le avrebbe registrate di nascosto, emergono giudizi non lusinghieri sui colleghi magistrati in servizio a Bari. Le conversazioni, che sarebbero avvenute a Bari tra fine gennaio e inizio febbraio 2010, sono state depositate in un procedimento civile, a Milano, dove si discute in appello sul risarcimento danni che Patrizia D’Addario, reclutata da Gianpaolo Tarantini per partecipare a feste nelle residenze dell’allora premier Berlusconi, ha chiesto a Panorama. In primo grado la donna, assistita dall’avvocato Fabio Campese, ha ottenuto un risarcimento di 55mila euro. Sulla base delle trascrizioni di quei colloqui la D’Addario ha anche depositato una querela per diffamazione ai danni di Laudati che la definisce una «ricattatrice». E così si scopre che l’ex procuratore barese definisce, in quelle conversazioni, «disastrosa» la situazione nel suo ufficio. Basti pensare che, a suo giudizio, «c’era una guerra tra lobby politiche e giornalistiche, dalla Procura di Bari si fa carne da macello» perché era «diciamo permeabile». Il procuratore avrebbe illustrato al cronista, Giacomo Amadori una «questione inesplorata», ovvero «il rapporto che lui (Tarantini, ndr) aveva con l’ambiente giudiziario, a queste feste quanti magistrati ci andavano?». Riferendo una frase di tale Cosimo, Laudati dice: «Lì non dovevate mandare un procuratore, dovevate togliere cinquanta magistrati». È l’intero contesto a fare storcere il naso al magistrato oggi in servizio alla Dna, imputato a Lecce con l’accusa di avere favorito Berlusconi e Tarantini durante le indagini sulle escort. Laudati parla del presidente del Tribunale che è stato presidente della Regione, di Emiliano che «va a fare il sindaco», di Maritati che «fa le indagini su D’Alema e va a fare il sottosegretario, va a fare il parlamentare». Di conseguenza, dice senza sapere di essere registrato, «è ovvio che esiste un cordone ombelicale. Penso che dopo il Csm dovrà farsi una sessione speciale».
“Toghe... patate e cozze”. Emiliano, Carofiglio, Maritati e le storie di malagiustizia pugliese.
“Toghe…patate e cozze” di Tommaso Francavilla e Franco Metta, edito da Nuova Stampa. Un lavoro che parte dalla mini-tengentopoli pugliese fino all’operazione “Arcobaleno” passando per l’operazione “Speranza”.
"Toghe...patate e cozze" è il titolo del libro scritto dal giornalista castellanese Tommaso Francavilla, edito da nuova stampa Bari. Un lavoro certosino che parte dalla mini-tangentopoli pugliese all'operazione arcobaleno passando per l'operazione speranza. 141 pagine dove Francavilla, insieme all'opinionista di Puglia D'oggi Franco Metta, raccontano come dall'aula di un tribunale si approdi a quella di Montecitorio, chiamando in causa esempi come quelli di Carofiglio, Maritati, Emiliano. Ovvero: come avviare indagini eclatanti e guadagnarsi un posto in Parlamento, naturalmente tra i banchi della sinistra.
Da “Il Giornale” del 19 giugno 2009 a firma di Gian Marco Chiocci un dettagliato resoconto. "Per inquadrare la sibilla D’Alema può esser utile soffermarsi sui rapporti tra l’ex leader ds e la magistratura pugliese, barese in primo luogo. Per farlo occorre lavorare pazientemente d’archivio, compulsare avvocati, carabinieri e pm locali non schierati, leggere con attenzione atti processuali e (suoi) proscioglimenti contestati, sfogliare un recentissimo libro dal titolo curioso (Toghe, patate e cozze, scritto da Tommaso Francavilla e Franco Metta) ma dai contenuti devastanti per l’immagine del preveggente ex leader ds. Che si è preoccupato di far eleggere in Parlamento alcuni corregionali pm, mentre altri se li è portati al governo, e uno l’ha messo addirittura a fare il sindaco nonostante fosse il titolare dell’inchiesta sugli sperperi miliardari della missione Arcobaleno dove figurava pure il suo nome.
La storia è lunga. E ha natali lontani. Parte ovviamente dall’ondata giustizialista nazionale cavalcata dal Pci e portata avanti dai magistrati d’area, nei primi anni Novanta, tra avvisi di garanzia e carcerazioni preventive. Tra il 1990 e il 1995 cambiano cinque presidenti regionali, altrettanti sindaci baresi, non c’è giorno senza che più consiglieri comunali e funzionari di partito finiscano indagati o arrestati. Solo una parte (indovinate quale) è casualmente risparmiata dalle inchieste. Un’intera classe politica viene tolta di mezzo, e a nulla varrà la tardiva consolazione delle assoluzioni di massa degli indagati eccellenti e dei flop nelle aule di giustizia. Per l’ascesa in politica dei protagonisti pugliesi con la toga, gli esempi si sprecano. Il più eclatante riguarda la cosiddetta «Operazione Speranza», con riferimento al re delle cliniche private Francesco Cavallari e alle presunte tangenti elargite a destra come a sinistra. Tantissimi politici si ritirarono dalla politica attiva e bastò l’annuncio intimidatorio, poi rivelatosi inesatto, di una «seconda ondata», per bloccarne altri o per dirottarli all’improvviso altrove, come Pino Pisicchio pronto a candidare il fratello in Forza Italia, dopodiché riparò sotto Lamberto Dini (poi con Di Pietro). Si salvarono solo i comunisti, si salvò soprattutto D’Alema accusato d’aver intascato qualche soldarello pure lui quand’era ancora segretario del Pci pugliese e consigliere regionale. Il reato venne «derubricato» in «illecito finanziamento» datandolo prima dell’amnistia del 1989. Reato prescritto, pratica archiviata. Non tutti sanno che D’Alema, su quel finanziamento generosamente elargito dal boss della sanità, qualcosina aveva ammesso a verbale dopo che Cavallari al pm l’aveva tirato in ballo quale suo referente in Regione. Poi il re delle cliniche aggiunse: «Sa, signor magistrato. Non nascondo che in una circostanza particolare ho dato un contributo di 20 milioni al partito. D’Alema è venuto a cena a casa mia, e alla fine della cena io spontaneamente mi permisi di dire, poiché eravamo alla campagna elettorale 1985, che volevo dare un contributo al Pci». Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine «anticipata» proprio da D’Alema. Il quale è stato generoso anche con un altro suo inquisitore: Michele Emiliano, sindaco di Bari e segretario regionale del Pd, già titolare del procedimento sugli sperperi della missione Arcobaleno per aiutare i profughi kossovari che sfiorò proprio D’Alema e pezzi del suo governo, come il sottosegretario Barberi (rinviato a giudizio) e l’imputato sottosegretario diessino Giovanni Lolli, per il quale il gip, su sollecitazione del pm Di Napoli, ha dichiarato il non luogo a procedere insieme a un altro ex ds, Quarto Trabacchi. L’inchiesta che per bocca del pm Emiliano inizialmente prometteva sfracelli e di cui poi chiese a sorpresa l’archiviazione (contestata dal procuratore Di Bitonto), col tempo s’è lentamente arenata fino alla contestuale candidatura del pm Emiliano – benedetta da D’Alema - a sindaco di Bari. Prima di entrare in politica, Emiliano ha iniziato a lanciare invettive politiche contro il sindaco precedente sulla scarsa lotta alla criminalità da parte dell’amministrazione cittadina eppoi s’è scoperto garantista di se stesso quando il suo nome comparve in una intercettazione telefonica con cui una famiglia mafiosa gli faceva la campagna elettorale, in vista di una vittoria che per la prima volta spostò a sinistra i quartieri più «a rischio» di Bari: oggi, insieme a Maritati, fa a gara a straparlare di pericolo di voto di scambio con la criminalità.
Ma non c’è solo Bari nell’orbita di interesse della magistratura militante considerata vicina a D’Alema. C’è l’intera Puglia. C’è Taranto, dove la procura ha messo ripetutamente sott’inchiesta le ultime tre amministrazioni di centrodestra i cui rappresentanti sono stati «condannati a trascorrere decenni nelle aule di giustizia a discolparsi all’infinito da ogni genere di incriminazioni» – scrivono Metta e Francavilla –, senza riuscirci nel caso del povero Mimmo De Cosmo, ma solo perché morto anzitempo, stroncato dalle persecuzioni. In procura a Taranto, nel 2007, a ridosso delle amministrative, calò l’allora sottosegretario Maritati, insieme a esponenti locali dei Ds. Voleva perorare un’accelerazione delle inchieste a carico degli ex amministratori di centrodestra. L’unico a ribellarsi fu il procuratore capo che parlò di un assedio stalinista al suo ufficio, «volto a fargli aprire comunque inchieste anche in assenza di adeguati fondamenti». E c’è Brindisi, dove il potere dalemiano imperniato sul triangolo Bargone–La Torre-Di Pietrangelo «avrebbe fortissimi riferimenti nel palazzo di giustizia - si legge sempre nel libro-shock – e aveva scientificamente massacrato la vecchia guardia democristiana e socialista, con la quale pure aveva condiviso molte vicende, quali la gestione – tramite il vicepresidente dell’Enel Valerio Bitetto, che chiamò in causa D’Alema – dei succulentissimi appalti della centrale nucleare a costruirsi negli anni ’80...». L’inchiesta era quella sulle operazioni fatte intorno a un famoso rigassificatore inglese, inchiesta che si soffermò su alcune società off-shore in paradisi fiscali riconducibili a Bargone coinvolte nelle indagini che avevano inguaiato l’ex sindaco Antonino.
Intanto nella metà del 1995 inizia a far parlare di sé, anche per inchieste «politiche», un altro magistrato predestinato a sedere a Palazzo Madama col Partito democratico: Gianrico Carofiglio. Sul pm-giallista si è abbattuta l’ira del ministro pugliese Raffaele Fitto a causa della moglie del neoparlamentare che è nel pool sui reati contro la pubblica amministrazione, competente quindi a indagare «sul Comune di Bari guidato da un collega e amico del marito». Prima ancora la sinistra aveva puntato sul pm barese Nicola Magrone, oggi procuratore a Larino, autore di uno spettacolare arresto, «a ridosso delle elezioni politiche del 1994, con due imputazioni rivelatesi assolutamente fasulle, del Cda dell’Irccs “De Bellis” il cui presidente era stato designato quale possibile candidato del Polo. Fu il suo ultimo atto prima di mettersi in aspettativa in vista dell’elezione alla Camera». L’inchiesta poi abortì. Come sono abortiti tantissimi altri procedimenti nati nei confronti di esponenti del centrodestra a ridosso delle elezioni.
IL PROBLEMA GIUSTIZIA-POLITICA IN ITALIA, scrive il 20 agosto 2013 Michele Imperio su "Lanotteonline.com". “Le parole che arrivano dal Pdl – spiega Crosetto – non solo dalla Santanchè, ma anche da Cicchitto o da Schifani, non possono essere ignorate o sottovalutate. Possono essere condivise o meno, ma arrivano da uno dei principali partiti italiani che, sul punto, è granitico e compatto. La loro tesi è tanto semplice quanto devastante: un potere o un ordine dello Stato, la Magistratura, non assolve alla sua funzione in modo equilibrato, ma anzi la utilizza per colpire una persona o un gruppo di persone”. Per cui “non è comprensibile l’appoggio ad un governo che considera invece il lavoro dei giudici totalmente legittimo, rispettoso della democrazia e inattaccabile”. E’ quanto dichiara il coordinatore nazionale di Fratelli d’Italia, Guido Crosetto. Non ci sfugge il senso politico di queste parole. Però l’on.le Guido Crosetto ci sembra scettico sulla possibilità che la Magistratura non assolva alla sua funzione in modo equilibrato, ma anzi la utilizza per colpire una persona o un gruppo di persone”. Il problema non è nemmeno questo caro on.le Crosetto! Il problema vero è che ormai si è creata una totale compenetrazione fra alcuni Magistrati e alcune aree politiche (P.D. e ex area Fini ora area Monti) e che ormai ci sono alcuni Magistrati i quali considerano quelle aree politiche delle proprie esclusive pertinenze e in questo spirito aggrediscono non solo esponenti di altre aree politiche ma addirittura esponenti di quelle stesse aree politiche che non stanno ai loro giochi. Vogliamo spigarci con dei casi concreti per cui prendiamo come riferimento una regione a caso, la Puglia per esempio.
Tutti dicono che in Puglia il segretario regionale del P.D. sarebbe tale Sergio Blasi. Niente di più falso! Sergio Blasi è solo una testa di paglia perchè il vero segretario regionale del P.D. pugliese è un ex Magistrato che si chiama Alberto Maritati il quale agisce nell’ombra. Sarà perchè Alberto Maritati ha un figlio Alcide Maritati che fa anche lui il Magistrato (giudice delle indagini preliminari presso il Tribunale di Lecce) e quindi non vuole creargli imbarazzo, sarà che egli intende occultare questa compenetrazione fra magistratura e P.D., fatto sta che a detta di tutti Alberto Maritati cela il suo vero ruolo di segretario regionale del P.D. dietro quello apparente di Sergio Blasi. Tanto per dirne una, prima delle ultime elezioni politiche Alberto Maritati ha ammesso lui stesso di aver offerto personalmente un posto di senatore nel P.D. al Procuratore della Repubblica di Taranto Franco Sebastio (fui proprio io a………), iniziativa che – come tutti possono comprendere – è di mera competenza del segretario regionale. Naturalmente di Lecce, sua città di residenza, egli è anche il vero segretario provinciale. Sandro Frisullo ex-vicepresidente della regione Puglia arrestato processato e condannato dal Tribunale di Bari per lo scandalo della malasanità era suo uomo. La Procura della Repubblica di Bari non gli ha riservato alcun riguardo e questo spiega molte cose di cui diremo dopo. I veri segretari provinciali delle altre province pugliesi sono essi pure Magistrati o ex Magistrati o parenti di Magistrati. A Bari per esempio il P.D. è conteso da Michele Emiliano ex Magistrato e da Giuseppe Scelsi Magistrato in carica e ora sostituto procuratore generale della Corte di Appello di Bari (prima, fino al 2011, Sostituto procuratore presso il Tribunale di Bari con delega alle indagini anti-mafia). Michele Emiliano è una persona molto per bene ed è collegato a Niky Vendola, anch’egli persona moralmente regolare e a Massimo D’Alema. Però è una persona che parla a mezza bocca. Non dice tutto quello che dovrebbe dire nelle sedi opportune. Nelle intercettazioni depositate nel processo sulla malasanità pugliese ci sono alcune telefonate in cui il governatore Niky Vendola intercede presso l’allora assessore alla sanità Alberto Tedesco molto vicino al giudice Giuseppe Scelsi affinchè fosse nominato primario dell’Ospedale Miulli di Acquaviva delle Fonti un luminare barese Nicola Logroscino trasferitosi negli Stati Uniti d’America ove era arrivato addirittura ad essere professore universitario della celebre Università di Harvard e che per motivi personali voleva rientrare a Bari. In un paese normale questo professore avrebbe visto aprirsi davanti a lui tutte le porte. Invece nelle telefonate intercettate l’assessore alla sanità Alberto Tedesco il quale pare avere più potere di Vendola, mostra di essere contrario a questa nomina. Al che Vendola gli rinfaccia che è la massoneria che non vuole questa nomina e che lui Tedesco ne è asservito. In un paese normale il Magistrato che avesse ascoltato questa intercettazione avrebbe convocato Vendola e Tedesco nel suo ufficio e avrebbe detto loro: Sentite un po’ ma com’è ‘sta storia che la Massoneria gestisce le nomine dei primari ospedalieri? Invece niente! Non succede niente! Anzi per iniziativa del giudice Desirèe De Gironimo Vendola e non Tedesco viene messo sotto processo per concussione! Ha fatto pressioni indebite su Tedesco per sollecitare la nomina di un primario! In un successivo momento dell’indagine risulta, sempre dalle intercettazioni telefoniche, che Vendola seccato di questo atteggiamento di Tedesco, voleva sostituire l’assessore alla sanità Alberto Tedesco con Lea Cosentino all’epoca dirigente del’ASL barese. Michele Emiliano viene a saperlo e trafelato gli telefona dicendogli: Per carità! Non lo fare! Se lo fai il potere legale e il potere illegale ti massacreranno! Anche qui in un paese normale il Magistrato inquirente avrebbe convocato Emiliano nel suo ufficio e gli avrebbe detto: Senti! Non esci vivo di qui, se prima non mi dici da chi è composto questo Potere Legale e questo Potere Illegale che vogliono massacrare Vendola! Invece niente! Non è stato fatto niente! Nemmeno una domanda! Dalle stesse indagini è poi risultato che:
1. Il Magistrato Giuseppe Scelsi (antagonista di Vendola e di Emiliano) intercettava abusivamente il telefono di altri Magistrati;
2. Il Magistrato Giuseppe Scelsi faceva pervenire a suoi amici (tal Roberto De Santis) informazioni riservate su indagini in corso attraverso un suo indagato (Gianpaolo Tarantini)
3. Il Magistrato Giuseppe Scelsi convocava nel suo ufficio avvocati di testimoni di sue inchieste per concordare con essi le deposizioni dei testi medesimi;
4. Il Magistrato Giuseppe Scelsi ha lasciato morire negli armadi del suo ufficio alcune inchieste senza mai chiedere nè l’archiviazione, né il rinvio a giudizio;
5. Il Magistrato Giuseppe Scelsi aveva ottimi e frequenti rapporti con Alberto Tedesco il quale ha letteralmente coperto d’oro suo fratello medico Michele Scelsi con incarichi ultra-retribuiti di ogni tipo e specie.
Voi mi chiederete: ma quanti procedimenti disciplinari ha subito questo Magistrato? Nessuno! Assolutamente nessuno! Anzi è stato promosso sul campo da Sostituto Procuratore della Repubblica a Sostituto Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello sempre a Bari, sua città d’origine.
Sono stati invece sottoposti a procedimento penale e disciplinare e poi trasferiti i Magistrati non affiliati a congreghe politiche come Magistratura Democratica o Magistratura Indipendente che hanno cercato di contrastarlo e precisamente i Magistrati Antonio Laudati e Giuseppe De Benedictis.
Partiamo da quest’ultimo. La Regione Puglia affida stranamente la metà di tutti gli appalti sui rifiuti a un imprenditore di Altamura tal Dante Columella. A un certo punto una piccola emittente di Altamura di un tale Alessio De Palo comincia a criticarlo nelle sue trasmissioni radiofoniche. Columella si querela e nascono alcuni processi per diffamazione dinanzi al giudice monocratico del Tribunale di Bari che in genere vengono seguiti dal Procuratore onorario. Ma in questo caso tute le udienze di De Palo vengono stranamente seguite in udienza dal Procuratore Aggiunto del Tribunale di Bari il quale a quell’epoca era Marco Dinapoli (Magistratura Indipendente) ora Procuratore di Brindisi di cui ci toccherà parlare di nuovo in seguito per un altro caso increscioso. In un momento successivo Dante Columella si infastidisce, assolda due pregiudicati e fa picchiare a sangue Alessio De Palo. Di qui nascono le inchieste sui rifiuti che poi diventeranno anche inchieste sulla malasanità pugliese perchè business e illegalità della sanità e business e illegalità dei rifiuti risultano stranamente collegati. Il giudice delle indagini preliminari è tal Giuseppe De Benedictis, il quale – pare – si chiama in disparte questo De Palo e si fa raccontare tutto ciò che sa sui rapporti fra Alberto Tedesco e Dante Columella, riversando poi in parte queste confidenze nelle ordinanze con le quali dispone l’arresto di Alberto Tedesco. Apriti cielo! Riportiamo fedelmente da “Il Fatto quotidiano”: L’ordinanza che ieri ha disposto l’arresto del senatore Alberto Tedesco (Pd) va ben oltre la dimensione giudiziaria. Le 316 pagine firmate dal gip Giuseppe de Benedictis e i retroscena dell’indagine sono uno schiaffo in faccia all’intera classe politica pugliese. “Tedesco – scrive il gip – quale assessore della sanità della Regione Puglia ed esponente politico di spicco, organizzava e guidava l’intera struttura in modo da pilotare le nomine dei dirigenti delle Asl pugliesi, effettuate dalla giunta regionale, verso persone di propria fiducia e attraverso questi controllava la nomina dei direttori sanitari in modo da dirottare le gare di appalto e le forniture verso imprenditori a lui legati da vincoli familiari o da interessi economici ed elettorali”. Pensate voi che il Magistrato estensore di questa ordinanza di 316 pagine Giuseppe De Bendictis sia stato premiato o promosso? Assolutamente no! Forse non ci crederete! Ma il dott. De Benedictis, poco tempo dopo questa ordinanza, è stato arrestato, sospeso dal servizio e trasferito di sede! L’arresto poi è avvenuto attraverso un vero e autentico blitz! Da parte di un Magistrato di Caserta tal Corrado Lembo, con il quale il vero segretario del P.D. di Puglia Alberto Maritati ben si conosce. Approfittando di un convegno giuridico che si teneva a Bari il Magistrato Corrado Lembo Procuratore capo di Santa Maria Capua Vetere (il quale era negli anni 1992-93 Procuratore nazionale Antimafia aggiunto insieme ad Alberto Maritati si è portato con i suoi carabinieri di Caserta a Bari e ha arrestato Giuseppe De Bendictis. E sapete perché? Perché Giuseppe de Benedictis era un appassionato collezionista d’armi e a Caserta gli avevano rifilato come arma comune da sparo, un arma che in realtà era da guerra. Ovviamente senza che lui ne sapesse niente. Quindi quale sarebbe la sua responsabilità? Ma Vitaliano Esposito, fratello del noto Antonio Esposito, all’epoca Procuratore Generale della Cassazione lo aveva sospeso dal servizio e poi trasferito a Matera, la Procura di Lecce lo aveva messo sotto inchiesta per detenzione abusiva d’arma. Giuseppe De Benedictis in principio ha fatto resistenza (ricorsi al TAR e quant’altro) ma poi si è rassegnato al trasferimento perchè un Magistrato di Bari gli si è avvicinato e gli ha detto: Senti! Noi magistrati qui a Bari ci dobbiamo fare la guerra e tu è meglio che te ne vai perché tu sei l’origine del casino! De Benedictis esercita ora le sue funzioni nel Tribunale di Salerno. Negli anni bui 92-93 si dice ci fosse un trattativa fra pezzi dello Stato e Cosa Nostra. La signora Ada Siclari figlia di Bruno Siclari allora Procuratore nazionale antimafia, mi riferisce che il padre non ne poteva più delle interferenza dei Servizi Segreti nella sue inchieste. Maritati e Lembo hanno da fare la stessa lamentela?
Ma passiamo a Laudati. E’ il 2011. Nel Tribunale di Bari infuria la guerra fra le toghe. Non si contano più i Magistrati che si intercettano a vicenda, gli interrogatori che finiscono sulle prime pagine dei giornali. Qualche giorno prima di insediarsi ufficialmente come Procuratore della repubblica Antonio Laudati viene a Bari e indice una riunione dei Magistrati e dice: datevi una calmata! Perchè così non si può più andare avanti! Ma ecco la ritorsione e la disinformazione! Non lo poteva fare! E lo ha fatto invece per ostacolare già da allora l’inchiesta sull’imprenditore Gianpaolo Tarantini, che “forniva” escort per le feste di Silvio Berlusconi puntando a ottenerne in cambio favori per le sue attività economiche – questa la controreplica e il capo d’accusa della Procura della Repubblica di Lecce che lo ha incriminato e del CSM che prima lo ha incolpato, lo ha prosciolto poi lo ha incolpato di nuovo e lo ha trasferito! Altro capo d’accusa: sarebbe stato d’accordo con Vendola e Vendola gli avrebbe finanziato un convegno. Allora va completata la storia di Vendola. “Voci” riferiscono che Alberto Maritati il segretario regionale ombra del P.D. non può vedere Vendola. Tanto perchè Vendola, fa il riottoso non vuole stare nella stessa coalizione di Gianfranco Fini, non vuole appoggiare Mario Monti e quindi toglie voti alla coalizione che è cara ai magistrati (area Monti-P.D.). Se lo si elimina giudiziariamente – questo è il ragionamento – il partito si scioglie e quei voti torneranno a bomba.
Questa è la vera ragione per cui Niky Vandola ha subito due processi e ne stava per subire un terzo. Del primo (Logroscino) abbiamo parlato. Il secondo è assolutamente analogo al primo: pressioni perchè fosse nominato primario un luminare anche lui proveniente dagli Stati Uniti d’America (il prof. Paolo Sardelli). Naturalmente viene assolto. Ma qui succede un fatto strano! il P.M. requirente (sempre Desiré De Gironimo) fa un esposto e mette per iscritto (badate bene: per iscritto!) che Vendola non è stato assolto perchè la sua accusa era totalmente sballata e campata in aria ma perchè dieci anni prima aveva pranzato in una tavolata di trenta persona con il giudice che lo aveva giudicato (Susanna De Felice). Qui però il CSM ha funzionato. Susanna de Felice fa un controesposto al CSM e Desirè De Gironimo viene messa sotto processo disciplinare e viene sballata presso la Procura di Roma. Ma c’è un terzo caso in cui in cui Niky Vendola ha rischiato di essere messo – ancora una volta capoticamente – sotto processo. Avviene a Taranto dove nel processo per l’inquinamento dell’Ilva un g.i.p. Patrizia Todisco scriva un’ordinanza di 500 pagine (Badate! 500 pagine!) per sollecitare i P.M. a incriminare Vendola il quale – secondo lei – avrebbe fatto pressioni per allontanare dall’ARPA il presidente Giorgio Assennato. Falso! Giorgio Assennato era stato nominato e addirittura riconfermato proprio da Vendola in persona! Quando Clementina Forleo assunse la stessa iniziativa per sollecitare l’incriminazione di esponenti del P.D. successe il finimondo. A momenti veniva assassinata. Qui invece niente! Non è successo niente!
Ma la città pugliese in cui è più visibile l’evoluzione pro-magistrati del P.D. è Taranto. A Taranto fino a poco tempo fa la scena politica del P.D. era dominata da due figure, il presidente della Provincia Gianni Florido molto amico di un sacerdote (don Gino Romanazzi) ma non imparentato ad alcun Magistrato e l’on.le Michele Pelillo cognato di un Magistrato. Il principio ormai imperante è questo: se vuoi fare politica a certi livelli nel P.D. devi essere o un magistrato o un ex magistrato o un puparo di un magistrato o un parente di un magistrato. Michele Pelillo però non voleva fare il deputato bensì il sindaco di Taranto. Ma è stato ostacolato in questo suo progetto dai vertici della grande industria siderurgica (Emilio Riva) e dal suo compagno di partito Gianni Florido, i quali hanno appoggiato invece la ricandidatura dell’uscente Ippazio Stefano esponente politico vicino a Niky Vendola, che infatti è stato rieleltto sindaco. Ebbene Emilio Riva è stato arrestato, Nicola Riva figlio di Emilio è stato arrestato, Fabio Riva altro figlio di Emilio è tuttora latitante, Gianni Florido è stato arrestato e rimarrà recluso – stante l’annuncio dei Magistrati – per tutta la durata del processo sull’Ilva (cioè anni ed anni di carcerazione preventiva). Solo coincidenze? A Brindisi invece domina la Destra Estrema eversiva e quindi i magistrati della Procura sono quasi tutti di M.I. cioè di destra (area Monti-Fini). Dei piromani che più volte hanno incendiato le masserie di Clementina Forleo non se ne è saputo più niente. Non ha scoperto nulla Alberto Santacaterina (M.I.) prima, non ha scoperto nulla Nicolangelo Ghizzardi (M.I.) poi. I telefonisti muti che mandavano minacce? Nulla di nulla! La Forleo ci sta rompendo i c………..! disse una volta al suo avvocato il sostituto brindisino Alberto Santacaterina, processato, prosciolto e promosso di grado, oggi sostituto procuratore distrettuale antimafia a Lecce.
Brindisi – lo ricordiamo – è sede di quella celebre centrale eversiva dei Servizi segreti deviati specializzata in omicidi tramite falsi incidenti stradali (genitori di Clementina Forleo, Lorenzo Necci Ferdinando Esposito (tentato) e chissà quanti altri ancora) oppure in attentati dinamitardi a scopo omicidiario (omicidio della studentessa Melissa Bassi dinanzi la scuola Falcone-Morvillo di Brindisi il 19 maggio 2012 da parte dell’ordinovista Giovanni Vantaggiato). Per un certo tempo l’ufficio è stato anche diretto da Franco Freda trasferitosi appositamente da Verona a Brindisi per questa ragione. Ora Freda si è portato in altra sede. Ma a Brindisi ritroviamo come Procuratore capo quel famoso Marco Dinapoli quello che pur essendo Procuratore aggiunto del Tribunale di Bari seguiva personalmente tutti i processetti a carico di Alberto De Palo (del quale era parte lesa Dante Columella). Ebbene Marco Dinapoli è stato clamorosamente sottoposto a procedimento disciplinare di fronte al Consiglio superiore della magistratura per i contatti avuti con Franco Orlando, l’avvocato difensore di Giovanni Vantaggiato, killer reo confesso dell’attentato contro la scuola “Morvillo Falcone” in cui perse la vita Melissa Bassi il 19 maggio 2012. Secondo l’accusa, il procuratore avrebbe contattato e poi fornito al legale del killer alcune “sentenze e commenti di dottrina” utili a dimostrare l’insussistenza della aggravante della “finalità terroristica” contestata a Vantaggiato.
Che esito ha avuto il procedimento? Prosciolto! Ed allora chiediamo: è ancora scettico l’on. Guido Crosetto sul fatto che ci sia oggi un problema giustizia in Italia come denunciano da tempo da Silvio Berlusconi, Fabrizio Cicchitto o Renato Schifani. Non pare a lui come pare a noi che invece sia stata passata ogni misura? Michele Imperio
Politica, giustizia ed informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.
Da scrittore navigato, il cui sacco di 50 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in stampo elettorale.
In Italia dove non c’è libertà di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si indossa l’abito bianco.
I nuovi politici non si presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti virtù, come verginelle illibate.
Ci si atteggia a migliore dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.
L’Italietta è incurante del fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.
L’Italietta che non batte ciglio quando a Bari Massimo D’Alema in modo lecito esce pulito da un’inchiesta penale. Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine «anticipata» proprio da D’Alema.
In una effervescente intervista rilasciata in esclusiva alla Gazzetta del Mezzogiorno nel luglio 2013, Cavallari ammise: «Sì sono ancora innamorato di mia moglie. Le ho detto che finiremo la nostra storia insieme». Una boutade? Chissà...Francesco Cavallari, nel tempo, ha affinato le sue doti di comunicatore, che sono sempre state il suo punto di forza, fin dall’epoca dei giri faticosissimi che toccano a ogni informatore scientifico che si rispetti, epoca in cui - si narra - manteneva il sorriso anche dinanzi alle porte sbattute in faccia. Ma ora si è fatto più acuto, più sottile, più ironico. Nelle rarissime dichiarazioni pubbliche è stato chiaro a tutti quanti messaggi cifrati stesse inviando a personaggi di ogni genere, pesci grandi e piccoli, amici, ex amici, vecchi nemici, uomini e donne. E ai magistrati, ovvio. Dalla donna che per prima lo fece arrestare (l’attuale procuratore generale di Bari, Anna Maria Tosto) al suo più grande accusatore (Alberto Maritati, già procuratore nazionale antimafia aggiunto poi anche sottosegretario di un governo di centrosinistra), fino a uno dei giovani pubblici ministeri che firmò le richieste di arresto dell’«Operazione Speranza» (Michele Emiliano, l’attuale presidente della Regione Puglia). E adesso? Il 2016 potrebbe essere l’anno della cancellazione del reato di associazione mafiosa, della restituzione dei beni confiscati e del trionfale ritorno a Bari. E - chi può dirlo? - delle clamorose rivelazioni che, 22 anni dopo l’arresto, a 77 anni d’età, Cavallari potrebbe infine decidersi a fare. Raccontando davvero la storia che solo qualcuno conosce, che solo in pochi hanno intuito. I pochissimi amici che gli sono rimasti accanto in tutto questo tempo (tanti altri hanno preso il volo dopo il rovesciamento di fortune) parlando di «Cicci» amano citare una canzone di Francesco De Gregori, «Il panorama di Betlemme», quando il vecchio soldato sul campo di battaglia dice «... io non sono quel tipo di uomo che si arrende senza sparare». Ecco, questo era (forse è ancora) Francesco Cavallari, l’uomo in doppiopetto e cravatta che con la ventiquattrore di similpelle girava come una trottola dal lunedì e al sabato e la domenica andava a messa con le suore negli istituti religiosi, preparando in cuor suo la grande scalata alle vette del successo. Dei beni che forse un giorno lo Stato gli restituirà, anche la villa di Rosa Marina (attualmente occupata da un’associazione che di tanto in tanto porta i disabili al mare): «Qui passerò i miei prossimi 50 anni di vita», confidò fiducioso Cicci alla Gazzetta nel luglio 2013. Contento lui.
Sanità, Politica ed Affari. E’ già successo a Bari nei primi anni 90, dice Antonio Procacci in un suo servizio su Telenorba. Fu un vero terremoto. Un’ottantina le persone indagate e una trentina gli arrestati. Alla fine ha pagato solo uno: Francesco Cavallari. Il re delle cliniche private. Fu arrestato nel maggio ’94 e scarcerato a novembre, quando cominciò a svuotare il sacco. Fece i nomi, e che nomi: da i ministri Lattanzio e Formica al sottosegretario Lenoci; dall’ex presidente della giunta regionale Michele Bellomo all’ex senatore Alberto Tedesco, a cui, secondo il racconto fatto all’allora pm Alberto Maritati, oggi compagno di partito dell’ex assessore, diede un contributo di 40 milioni di lire per la campagna elettorale di Lenoci, pochi mesi prima del sui arresto. E poi parlò di magistrati, funzionari pubblici, direttori generali di ASL e persino di giornalisti. Partito come informatore scientifico, Cavallari ha costruito un impero. Il più grande della sanità italiana ed europea. Con 10 cliniche private e 4000 dipendenti: pagando mazzette finanziano campagne elettorali ed assumendo centinaia di dipendenti sponsorizzati dai politici e dalla malavita locale. Tutto annotato in agende e sul computer in un file denominato, non a caso, mala.doc. “Sono l’unico imprenditore che non si è potuto sottrarre ai ricatti dei politici, malavita organizzata, magistrati e forze dell’ordine” ha sempre sostenuto e dichiarato Cicci Cavallari, che era solito favorire l’acquisto di materiale sanitario da fornitori che li venivano segnalati dai politici. Nulla di nuovo nella successiva inchiesta “Tarantini”. All’epoca non c’era la droga e neanche le escort, anche se una giovanissima Patrizia D’Addario fu presentata pure a Cavallari, ma con l’intento di fargli eseguire giochi di prestigio in alcune serate nelle sue cliniche. C’erano già, invece, i viaggi regalati, però, non ai medici, bensì ad alcuni giudici e funzionari regionali. La grande differenza di ieri, rispetto ad oggi, la fanno, però, soprattutto i soldi. Davvero tanti: 4,5 miliardi di vecchie lire, secondo le ultime stime che l'ex re delle CCR avrebbe pagato a tutti: dal PCI, come ammesso da Massimo D’Alema, fino all’MSI. Chi più, chi meno, un po’ tutti confermarono di aver intascato mazzette da Cavallari, anche se alla fine, gogna mediatica a parte, nessuno, o quasi, ha pagato. Anzi, è la Regione Puglia che deve pagare a Cavallari 63 milioni di euro per TAC, risonanze magnetiche e ricoveri in esubero non saldati ai tempi dello scandalo. Fu proprio Tedesco, all’epoca assessore alla Sanità, a stoppare i pagamento alle CCR, come ha ricordato recentemente il re Mida della Sanità. Per non parlare delle parcelle degli avvocati, che hanno difeso molti di quei politici e rigorosamente a carico dello Stato. Alcuni di essi si sono ritirati dalla scena, altri invece, sono ancora sugli scudi.
Il giudice morto che turba un pm e un senatore Pd, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”, Lun, 26/09/2011 con Massimo Malpica. Le inchieste sulla sanità pugliese, le accuse tra magistrati, gli esposti al Csm, le denunce in Procura. I veleni tra le toghe baresi di questi giorni, che vedono l'ex pm Scelsi contrapposto al capo dell'ufficio giudiziario del capoluogo, Laudati, ricalcano una storia oscura di 15 anni fa. Nel 1994 la Procura di Bari indaga su un re della sanità pugliese, Francesco Cavallari, presidente delle Case di cura riunite. Al lavoro ci sono quattro pm. Alberto Maritati (l'attuale senatore Pd che a detta di Scelsi, nel 2009, gli chiese notizie sull'affaire Tarantini per conto del dalemiano De Santis) e Corrado Lembo della Direzione nazionale antimafia, Giuseppe Chieco e Pino Scelsi (lo stesso che oggi accusa Laudati) della Dda locale. Procuratore capo facente funzioni è Angelo Bassi.
Bassi non è una toga rossa. Non ha colori. A dicembre '94 difende Antonio Di Pietro: «Si sono disfatti di un magistrato scomodo facendo disperdere intorno a lui il senso della giustizia», detta alle agenzie. Quando però il mese prima Silvio Berlusconi era stato raggiunto da un avviso di garanzia alla conferenza Onu sulle mafie, Bassi aveva apertamente parlato di «scempio». Non sui giornali, ma in ufficio sì. Tanto era bastato, racconta oggi la moglie, Luigina, per inquadrarlo come «non allineato». Di certo, da quel momento la sua vita prende una piega drammatica. Bassi, come tanti a Bari, conosce Cavallari, che è sotto intercettazione. Viene registrato un colloquio tra l'aggiunto e l'indagato. I due si danno del tu, si chiamano per nome. E poi, un giorno, a dicembre del 1994, Bassi va a casa di Cavallari per interrogarlo. «Essere andato a interrogare Cavallari, che intendeva collaborare, a casa sua (...) bastò a far decretare la mia fine», racconta lui stesso, a luglio del 1997, a Carlo Vulpio del Corriere della Sera. I «colleghi» che indagano su Cavallari lo denunciano alla procura di Potenza (allora competente per i magistrati baresi, ora è Lecce, come Laudati sa bene) e al Csm. Bassi si ritrova indagato: abuso di potere e omissione di atti d'ufficio le ipotesi di reato. Il Csm a settembre del 1995 lo trasferisce a Napoli: incompatibilità ambientale. E l'otto novembre '96 viene rinviato a giudizio dalla procura di Potenza. Proprio due dei suoi «accusatori», Scelsi e Chieco, in udienza confermano che Bassi «li raggiunse nel loro ufficio per informarli dell'incontro con Cavallari», nel corso del quale Bassi aveva raccolto una confidenza, utile per un'indagine che vedeva Maritati parte lesa a Potenza, subito trasmessa dagli stessi pm alla procura lucana. Non sembra un comportamento da favoreggiatore. Infatti il 14 marzo '97 Bassi viene assolto perché il fatto non sussiste. La motivazione della sentenza è devastante per gli accusatori dell'ex procuratore, e stigmatizza in particolare Maritati. Che, pur in conflitto di interessi, come inquirente e come parte lesa di quelle dichiarazioni, secondo il giudice «non ha avvertito la necessità di astenersi dal prendere parte a qualsiasi iniziativa del suo ufficio in relazione ad un fatto che lo riguardava personalmente, ed abbia anzi redatto unitamente ai colleghi Chieco e Scelsi la relazione inviata in data 23-12-94 al procuratore della Repubblica di Potenza». Bassi, assolto in tribunale, il giorno dopo la sentenza viene condannato in ospedale, dove gli viene diagnosticata una malattia in fase terminale. Morirà un anno dopo, non prima di aver denunciato i suoi accusatori Maritati, Scelsi, Chieco e Lembo che si ritrovarono sotto indagine a Potenza in un fascicolo. Archiviato. Come archiviata finì la denuncia degli stessi pm da parte di Cavallari, che nella maxi-inchiesta barese che aveva coinvolto anche big della politica come Massimo D'Alema (percettore per sua stessa ammissione di un finanziamento da Cavallari, ma il reato era prescritto) era stato, alla fine, l'unico condannato, patteggiando 22 mesi. Decisivo per chiudere l'indagine potentina in cui Cavallari denunciava «gravi violazioni» dei pm, fu il nastro di un colloquio in procura a Bari di Maritati e Chieco con lo stesso Cavallari, in cui l'imprenditore rivelava ai suoi interlocutori una sorta di «complotto» della politica contro di loro. Deja-vu? Fatto sta che Cavallari, di fatto, li scagiona mentre, a Potenza, li accusa. Tutto normale? Insomma. Maritati, come rimarcava in un'interrogazione del '97 l'allora senatore di An Ettore Bucciero, era «al contempo indagato (...) e magistrato inquirente che raccoglie e registra le dichiarazioni confidenziali del suo accusatore». Un delirio. Ma non è la sola stranezza. Quel verbale viene chiuso con Maritati che fa presente come alle «11.50 del giorno 12 febbraio 1996, Cavallari è uscito dalla nostra stanza», a Bari. Eppure lo stesso Cavallari quel giorno, secondo gli atti del procedimento della procura lucana, venne convocato e interrogato dai pm Nicola Balice ed Erminio Rinaldi. Alle 12: dieci minuti dopo, a 140 chilometri di distanza. E i due magistrati, ascoltando il nastro barese dell'ubiquo imprenditore, invece di stupirsi della strana coincidenza di date, chiesero (e ottennero) l'archiviazione per il futuro senatore Maritati e per i suoi colleghi. Chi tocca certi fili muore, come Bassi.
Maritati & C.: “liberammo Bari”. Adesso chi ci libererà da loro? Si chiede Nicola Picenna su “Toghe Lucane”. L'inchiesta “Speranza” (31 imputati) e l'inchiesta “Toghe Lucane” (34 indagati) hanno molto in comune, oltre al numero degli indagati che quasi quasi coincide. Entrambe ipotizzano una vasta rete di corruttela fra imprenditori, politici, magistrati e delinquenza comune e non. Entrambe sembrano destinate a finire in un nulla di fatto. Tutti assolti in appello (tranne Francesco Cavallari che aveva scelto il patteggiamento) quelli di “Speranza”. Tutti in attesa che si pronunci il Gip sulla richiesta di archiviazione tombale, per “Toghe Lucane”. Uno dei PM che aveva condotto le indagini nell'inchiesta “Speranza”, Alberto Maritati, difende il suo operato: “può anche succedere che l'accusa venga rovesciata con una sentenza di assoluzione, ma non per questo si deve pensare che il pm sia stato un cieco persecutore”. Anche il Procuratore Capo, Giuseppe Chieco, difende l'operato della Procura di cui ha la responsabilità, criticando quello del dr Luigi de Magistris dopo che gli indagati da quest'ultimo – nel “filone” Marinagri, troncone rilevante del “Toghe Lucane, sono stati assolti. Nel processo “Speranza”, “non si deve pensare che il pm sia un cieco persecutore. I provvedimenti cautelari da noi richiesti sono passati al vaglio di tre giudici: il gip, il Tribunale del Riesame e la Cassazione”, così parla Alberto Maritati. Nel procedimento “Toghe Lucane-Marinagri” il provvedimento (cautelare) del sequestro del cantiere è stato confermato dal Gip, dal Riesame, dalla Cassazione e, per altre due volte, nuovamente dal Gip. Ma De Magistris viene dipinto come un “cattivo magistrato”. Nel procedimento penale “Toghe Lucane” il pensiero infamante è obbligatorio. “Di regola il pm che svolge le indagini è lo stesso che sostiene l'accusa anche nel dibattimento e, a certe condizioni, anche in appello. I pm non hanno seguito il procedimento fino alla conclusione... e il processo è stato spezzettato in tanti tronconi: questo secondo me ne ha decretato la fine”. Così parla Maritati del processo “Speranza” e non si sbaglia. Per “Toghe Lucane” è lo stesso. Il primo pm (Luigi de Magistris) viene sottratto all'inchiesta; gli subentra Vincenzo Capomolla che spezzetta “Toghe Lucane” in tanti tronconi. Nel momento topico del processo anche Capomolla evapora. Arriva Cianfrini che in pochi minuti valuta quintali di atti giudiziari e chiede l'assoluzione. Gabriella Reillo, Gup dalle indiscusse capacità valutative, assolve. “Quell'inchiesta ha liberato Bari da una cappa... Cavallari controllava la città. Così come ha detto egli stesso a noi e come ha detto a voi (Corriere del Mezzogiorno, ndr) nell'intervista conferma di aver distribuito 4 miliardi di lire ai politici e non solo”; sempre Maritati che parla apertis verbis. Anche per “Toghe Lucane” emergeva la “cappa” o, come scrisse De Magistris, “l'associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, alla truffa aggravata ai danni dello Stato ed al disastro doloso”. Che Bari si sia liberata da quella cappa, alla luce delle recenti inchieste sulla sanità pugliese, appare affatto certo. Come accade in Basilicata, dove gli indagati da De Magistris (in buona parte) occupano ancora i posti di comando e controllo. Se non che, a guardare tutto, si scopre che Giuseppe Chieco, oggi fra gli indagati in “Toghe Lucane” è stato fra i PM dell'inchiesta “Speranza” insieme con Maritati. Che Chieco e Maritati furono indagati per abuso d'ufficio in una inchiesta tenuta dalla Procura di Potenza da cui vennero prosciolti grazie alle improvvide dichiarazioni rese loro (che strano) proprio da Francesco Cavallari. Era il 12 febbraio 1996, in Procura a Bari, presenti Chieco, Maritati e Cavallari. Ma Cavallari nega e si scopre che in quello stesso giorno, a quella stessa ora, Cavallari Francesco veniva interrogato a Potenza. Carte false, Chieco e Maritati vennero salvati da carte false autoprodotte. “Liberammo Bari” dice Maritati, ma chi ci libererà da loro? p.s. Qualcuno chieda ad Alberto Maritati, perché la quota parte dei 4 miliardi finita nelle tasche di Massimo D'Alema finì con la prescrizione e come mai egli decise di candidarsi proprio nel partito di Max e come fu che, eletto alle suppletive, D'Alema lo volle immediatamente sottosegretario nel I e II governo di cui era Presidente del Consiglio. Qualcuno chieda a Maritati perché non indagò Alberto Tedesco, indicato fra i percettori di una quota consistente dei “soliti” 4 miliardi; come oggi risulta indagato per analoghe operazioni poste in essere da assessore della giunta “Vendola”. Qualcuno chieda a Maritati come fa a sostenere lo sguardo dei parenti di quel magistrato coperto da accuse infamanti ma poi assolto per non aver commesso il fatto. Qualcuno gli chieda perché, ancora oggi, non sente vergogna ogni qualvolta ne richiama la memoria, tradendolo anche da morto, come di un magistrato colpevole di inqualificabili (ma inesistenti) reati.
POLEMICHE. PAOLO PERRONE SMENTISCE ALLUSIONI POLITICHE’SU ALCIDE MARITATI, IL GIUDICE CHE DETTE IL PREMIO DI MAGGIORANZA AL SINDACO, scrive il 24 febbraio 2018 Lecce cronaca (g.p.). Paolo Perrone ha mandato questa mattina un comunicato ai giornali, per chiarire quanto detto in consiglio comunale giovedì. Prima di lasciargli la parola, pubblicandolo integralmente, a beneficio dei nostri lettori ricordiamo che le parole di Paolo Perrone furono da molti interpretate come un’allusione a presunte simpatie politiche di Alcide Maritati, figlio di Alberto, prima magistrato, poi a lungo esponente politico di spicco del Partito Democratico; e diamo conto di un comunicato dell’ Associazione Nazionale Magistrati, di poche ore fa, in cui i giudici dichiarano “inammissibile ogni subdola illazione e insinuazione sull’operato del giudice Maritati”. E ora la parola a Perrone. Sulla questione dell’assegnazione del premio di maggioranza l’ex sindaco Paolo Perrone interviene per chiarire nuovamente la posizione già espressa in aula, alla luce delle considerazioni di queste ore da parte dell’Anm leccese. “A causa della fuorviante interpretazione data sul momento dal sindaco Salvemini – spiega – sono costretto a fornire un ulteriore chiarimento rispetto a quanto dichiarato in Consiglio comunale sulla questione dell’assegnazione del premio di maggioranza e puntualizzato, invano, poco dopo nella stessa seduta. Ribadisco innanzitutto di aver espresso un giudizio tecnico sull’operato della commissione elettorale che ho dedotto, come tanti, dalla semplice interpretazione della legge che sul punto risulta essere molto chiara. Le ragioni per cui non ho condiviso il verdetto della commissione, peraltro, sono le stesse per le quali le sentenze del Tar e del Consiglio di Stato lo hanno poi bocciato. Rispetto invece al concetto che Salvemini “sapesse” dell’attribuzione al centrosinistra del premio di maggioranza prima dello stesso verdetto della commissione – puntualizza ancora Perrone – devo specificare che si tratta di una valutazione squisitamente politica. Valutazione non casuale, perché io, come tutti, abbiamo letto il post su facebook di Carlo Salvemini dello scorso primo luglio (abbondantemente ripreso dai mezzi di informazione) nel quale dice testualmente a proposito della volontà di offrire la presidenza del Consiglio a Mauro Giliberti “… è una scelta che annuncio prima della proclamazione degli eletti in consiglio comunale che lascia intatta – nonostante quel che tanti immaginano ed annunciano – l’assegnazione del premio di maggioranza alla mia coalizione”. Sulla base di queste parole, come ho fatto già nei mesi scorsi, ho stigmatizzato in Consiglio il fatto non che Salvemini conoscesse in anticipo il verdetto della commissione, ma che volesse far intendere alla città di avere comunque una maggioranza in virtù della già acquisita “convergenza” di qualche consigliere non eletto nel centrosinistra. Salvemini “sapeva” di avere una maggioranza, non il verdetto della commissione. Ciò grazie alle trame intessute da Salvemini e da Delli Noci in quelle convulse giornate i cui effetti evidentemente sono arrivati sino ai nostri giorni, come dimostra il fatto che il centrodestra non sia compatto e non sia riuscito a raccogliere le firme di tutti per le dimissioni e lo scioglimento del Consiglio. Rivendico il senso del mio intervento in aula – conclude – e mi rendo conto con profondo rammarico che le letture emerse in queste ore, anche autorevoli, sono figlie della interpretazione volutamente sbagliata data da Carlo Salvemini, che sa perfettamente di doversi togliere dall’imbarazzo che gli elettori leccesi scoprano a giorni il frutto degli accordi sottobanco stipulati per assicurarsi la permanenza a Palazzo Carafa”.
COME DA COPIONE
Salvato dagli amici il giudice a tavola con Vendola prima di assolverlo. Per prosciogliere la De Felice accolte come decisive le testimonianze della sorella del governatore e del pm vicino alla famiglia, scrive Giacomo Amadori il 24 Ottobre 2013 su "Libero Quotidiano. Tanto rumore per nulla. Dopo oltre dieci mesi dall’iscrizione sul registro degli indagati per abuso d’ufficio, il tribunale di Lecce ha deciso di archiviare la posizione del gup Susanna De Felice. Per chi non la ricordasse, il gup De Felice il 30 ottobre 2012 prosciolse il presidente della Regione Puglia Nichi Vendola da un’accusa di abuso d’ufficio per la riapertura dell’iscrizione a un concorso da primario. La decisione di De Felice, recentemente trasferita alla Corte d’appello di Taranto, fece infuriare i due pm, Francesco Bretone e Desireé Digeronimo, i quali scrissero (e per questo oggi sono indagati per calunnia) ai loro superiori lamentando i presunti rapporti amicali tra il giudice e la famiglia Vendola, in particolare Patrizia, sorella del governatore. Per quell’accusa il procuratore di Lecce Cataldo Motta iscrisse sul registro degli indagati De Felice. Due mesi dopo, nel febbraio 2013, il settimanale Panorama pubblicò un’intervista a Patrizia Vendola, in cui la stessa ammetteva una sessantina di incontri con il giudice, in occasioni conviviali. A testimonianza di uno di questi il settimanale pubblicò la foto della festa di compleanno di una cugina dei Vendola, Paola Memola, risalente all’aprile 2007. A quel pranzo parteciparono De Felice, il compagno (oggi marito) Achille Bianchi, all’epoca pubblico ministero a Trani, e altri quattro magistrati tra cui Francesca Romana Pirrelli e Gianrico Carofiglio, pm, scrittore ed ex senatore Pd. Proprio Carofiglio a settembre ha officiato le nozze dei suoi carissimi amici De Felice e Bianchi. Al tavolo erano seduti, davanti a una caprese di pomodori e mozzarella (un particolare importante), pure Nichi Vendola e il fidanzato Ed Testa. Per esplicitare ulteriormente i rapporti di amicizia tra Patrizia Vendola e questo gruppo di magistrati, Panorama pubblicò pure diverse immagini vacanziere della Vendola con Carofiglio e Pirrelli. Nonostante questi elementi, il gip Alcide Maritati (figlio dell’ex senatore Pd ed ex sottosegretario del governo D’Alema Alberto Maritati), ha deciso di prosciogliere De Felice, accogliendo la richiesta di archiviazione del procuratore Motta, firmata il 24 luglio scorso. Per Motta la De Felice non avrebbe dovuto astenersi nel processo Vendola. Il motivo? La donna in una nota del 17 settembre 2012 aveva avvertito il suo capo della frequentazione con Patrizia Vendola, specificando, però, che questa si sarebbe «limitata a sporadici incontri in locali pubblici per feste o cene per lo più organizzate da colleghi e che lei non era mai stata a casa della Vendola né quest’ultima a casa sua». Tranne che in occasione della morte del padre di Nichi e Patrizia Vendola, nel 2009, quando il giudice si recò nella casa avita dei Vendola per porgere le condoglianze. Una circostanza che Motta non ha ritenuto spia di un rapporto non solo formale. Il procuratore di Lecce nel ritenere il comportamento della De Felice ineccepibile fa proprie le dichiarazioni di due testimoni chiave, Francesca Pirrelli e la stessa Patrizia Vendola, le cui parole «contribuiscono ad una valutazione di assoluta legittimità del comportamento della dottoressa De Felice in quanto essere delineano con ricchezza di particolari una situazione di rapporti con la dottoressa De Felice analoga a quella descritta da quest’ultima al presidente aggiunto della sua sezione e tale da escludere che il loro rapporto potesse essere qualificato con il termine “frequentazione”». Motta non è scalfito nelle sue certezze neppure dalle immagini della festa: «Le fotografie pubblicate da Panorama non costituiscono affatto smentita delle dichiarazioni rese da Patrizia Vendola suoi suoi rapporti con De Felice, confermati da Francesca Romana Pirrelli» scrive. Al procuratore, per chiedere l’archiviazione, sembrano bastare le dichiarazioni della sorella dell’imputato prosciolto e dell’amica dell’indagata, quella Pirrelli che con De Felice ha condiviso diverse vacanze, comprese quella del 2011 a Santorini, in Grecia. Per Motta le immagini pubblicate da Panorama hanno scarso significato: «La fotografia che ritrae la giudice De Felice seduta allo stesso tavolo cui sedeva Nicola Vendola, in un contesto conviviale, non documenta alcuna frequentazione tra di due e non esclude l’occasionalità della partecipazione della partecipazione di De Felice a quell’incontro, per altro risalente, secondo le stesse indicazioni giornalistiche, a oltre sette anni fa, durante i quali evidentemente non è stata trovata alcun’altra fotografia che ritraesse Susanna De Felice “insieme” con una persona che sei anni dopo sarebbe stata da lei giudicata». In poche parole per il procuratore, visto che Panorama non le ha trovate, allora non esistono altre immagini che ritraggano il giudice insieme con il suo futuro imputato. Ma forse questa certezza avrebbe dovuto dargliela la sua polizia giudiziaria e non un’inchiesta giornalistica. In realtà per arrivare a tali conclusioni il magistrato non ha sentito l’esigenza di convocare come testimone sulla vicenda il cronista di Panorama autore degli articoli né di sequestrare i computer delle parti coinvolte. Lì forse avrebbe trovato altri scatti interessanti, come risulta a Libero. Infatti nel marzo scorso il compagno di Patrizia Vendola, Cosimo Ladogana si è presentato alla Digos di Bari per autodenunciarsi di furto: ha giurato di aver consegnato lui le foto della festa a Panorama e di averle sottratte dal computer della fidanzata. Nel suo pc gli specialisti della polizia postale hanno recuperato altre immagini riguardanti il gruppo in questione. Per esempio i provini di una visita a casa di Carofiglio e Pirrelli da parte del giudice De Felice, Patrizia Vendola e altri amici nel maggio del 2012. Il mese prima dell’inizio del processo al governatore. Di queste foto Panorama ha parlato in un articolo precedente alla richiesta di archiviazione. Tra i documenti rinvenuti nel computer di Ladogana c’è pure un’email di Carofiglio, in cui accusa Ladogana: «È inutile ribadire la gravità della situazione che hai generato, perché la conosci anche tu». L’ex cognato di Vendola risponde: «Ho preso delle decisioni e ho intrapreso delle iniziative solo ed esclusivamente con l’intento di colpire una precisa persona (il cronista ndr) e non certo tutti NOI». In quelle ore la compagnia è particolarmente agitata per la pubblicazione delle foto. Eppure Motta, nella richiesta di archiviazione, liquida in questo modo l’inchiesta giornalistica: «I commenti che negli articoli pubblicati accompagnano le foto sembrano più indirizzati ad alimentare una “caccia alle streghe”, che a indicare elementi per cui la dottoressa De Felice avrebbe dovuto astenersi dal giudicare Vendola». Per avvalorare la sua tesi il procuratore chiama di nuovo in causa Francesca Romana Pirrelli, moglie di quel Carofiglio che ha appena unito in matrimonio De Felice e Bianchi: «Pirrelli ha “delineato” la marginalità della partecipazione (alla festa ndr) della dottoressa De Felice e l’occasionalità della presenza del presidente Vendola sopraggiunto alla fine del pranzo per assistere al taglio della torta da parte della cugina della quale si festeggiava il compleanno». Anche in questo caso sarebbe bastato guardare le foto per rendersi conto che sul tavolo ci sono solo piatti di caprese e altre pietanze, ma della dolce nemmeno l’ombra. Adesso per Vendola resta in piedi solo un’accusa di diffamazione, per aver dichiarato di essere stato «perseguitato» dal pm Digeronimo. Questo, Motta, non glielo ha perdonato. Giacomo Amadori
Sessione d’esame d’avvocato 2000-2001. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. La percentuale di idonei si diversifica: 1998, 60 %, 1999, 25 %, 2000, 49 %, 2001, 36 %. Mi accorgo che paga essere candidato proveniente dalla sede di esame, perché, raffrontando i dati per le province del distretto della Corte D’Appello, si denota altra anomalia: Lecce, sede d’esame, 187 idonei; Taranto 140 idonei; Brindisi 59 idonei. Non basta, le percentuali di idonei per ogni Corte D’Appello nazionale variano dal 10% del Centro-Nord al 99% di Catanzaro. L’esistenza degli abusi è nel difetto e nell’eccesso della percentuale. Il TAR Lombardia, con ordinanza n.617/00, applicabile per i compiti corretti da tutte le Commissioni d’esame, rileva che i compiti non si correggono per mancanza di tempo. Dai verbali risultano corretti in 3 minuti. Con esperimento giudiziale si accerta che occorrono 6 minuti solo per leggere l’elaborato. Il TAR di Lecce, eccezionalmente contro i suoi precedenti, ma conforme a pronunzie di altri TAR, con ordinanza 1394/00, su ricorso n. 200001275 di Stefania Maritati, decreta la sospensiva e accerta che i compiti non si correggono, perché sono mancanti di glosse o correzioni, e le valutazioni sono nulle, perché non motivate. In sede di esame si disattende la Direttiva CEE 48/89, recepita con D.Lgs.115/92, che obbliga ad accertare le conoscenze deontologiche e di valutare le attitudini e le capacità di esercizio della professione del candidato, garantendo così l'interesse pubblico con equità e giustizia. Stante questo sistema di favoritismi, la Corte Costituzionale afferma, con sentenza n. 5 del 1999: "Il legislatore può stabilire che in taluni casi si prescinda dall'esame di Stato, quando vi sia stata in altro modo una verifica di idoneità tecnica e sussistano apprezzabili ragioni che giustifichino l'eccezione". In quella situazione, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame presso la Procura di Bari e alla Procura di Lecce, che la invia a Potenza. Inaspettatamente, pur con prove mastodontiche, le Procure di Potenza e Bari archiviano, senza perseguirmi per calunnia. Addirittura la Procura di Potenza non si è degnata di sentirmi.
Atto a cui si riferisce: C.5/05316 Ferrovie del Sud est e servizi automobilistici srl (FSE) è una società a responsabilità limitata con socio unico il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti. FSE esercisce i servizi di...
Interrogazione a risposta in commissione 5-05316 presentato da DE LORENZIS Diego testo di Lunedì 13 aprile 2015, seduta n. 407 DE LORENZIS, PETRAROLI e COZZOLINO. — Al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che:
Ferrovie del Sud est e servizi automobilistici srl (FSE) è una società a responsabilità limitata con socio unico il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti. FSE esercisce i servizi di trasporto pubblico di competenza regionale ai sensi dell'articolo 8 del decreto legislativo n. 422 del 1997; la proprietà della stessa società, in attuazione dell'accordo di programma stipulato dallo Stato con la regione Puglia in applicazione del citato articolo 8, doveva essere trasferita all'ente regionale che ne ha rifiutato più volte l'acquisizione, per cui la competenza in merito risulta della regione Puglia, ad eccezione di tutto ciò che attiene alla verifica tecnica dei presupposti di sicurezza per la messa in esercizio dei rotabili oggetto delle forniture stesse, verifica posta a carico dei competenti uffici tecnici del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti;
da diverse fonti stampa si apprende che la Corte dei Conti e diverse procure italiane stiano indagando sugli acquisti dei treni e dei vagoni da parte di FSE con l'ipotesi di «spese gonfiate» rispetto ai prezzi di mercato dei mezzi utilizzati;
da fonti stampa della Gazzetta del Mezzogiorno del 25 marzo 2015, si apprende che i ROS abbiano acquisito tutti gli elenchi delle consulenze di FSE in cui risulterebbe il ruolo dell'imprenditore salentino Roberto De Santis, considerato amico del sottosegretario Umberto del Basso De Caro. Lo stesso De Santis è rinviato a giudizio a Milano per illecito finanziamento ai partiti nella cosiddetta «inchiesta Penati». Sempre dallo stesso articolo si apprende che intorno alle FSE ci sia un giro di consulenze che avrebbero permesso che la stessa società sia stata utilizzata come una «camera di compensazione di reciproci favori che aveva come fine ultimo la conquista di appalti e incarichi milionari»;
dalle stesse fonti stampa, nella lista dei consulenti di FSE risulterebbero anche l'avvocato Stefania Maritati figlia dell'ex senatore del centro sinistra Alberto Maritati e la moglie dell'imprenditore Giampaolo Tarantini, quest'ultimo noto per altre vicende giudiziarie;
sempre dalla stessa fonte stampa, sembrerebbe che le FSE fossero agli ordini di Ettore Incalza, dal 2001 al 31 dicembre 2014 a capo della struttura tecnica di missione del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, recentemente coinvolto dalle inchieste giudiziarie e arrestato il 16 marzo 2015 nell'ambito dell'inchiesta «Sistema» della procura di Firenze e che i fondi in contanti che il GIP ha valorizzato per negare la scarcerazione di Incalza, siano stati trovati nella sede di GSF, società che ha ricevuto, dal 2008 al 2011 da FSE, incarichi per un importo di 2,5 milioni di euro. Secondo la prospettazione di accusa è il faccendiere Francesco Cavallo ad aver reso possibile che l'amministratore unico di FSE, Francesco Fiorillo, presentato a Cavallo da Roberto De Santis, affidasse un incarico al nipote del monsignor Francesco Gioia –:
se il Ministro interrogato abbia avviato una indagine interna per fare chiarezza sui rapporti di cui in premessa tra Ettore Incalza, anche tramite intermediari, le Ferrovie Sud est e i soggetti che hanno effettuato consulenze per FSE;
quale sia la spesa complessiva e la spesa per ogni anno, per consulenze delle Ferrovie Sud est dal 2001 ad oggi e quali siano i soggetti che hanno ricevuto incarichi di consulenza;
per quale motivo non vengano pubblicati sul sito del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e di FSE i bilanci della medesima società;
quali iniziative, per quanto di competenza, intenda adottare il Ministro interrogato per fare chiarezza sulle vicende legate alle Ferrovie Sud est. (5-05316)
Le carte dello scandalo, scrive Massimiliano Scagliarini il 20 Marzo 2016 su La Gazzetta del Mezzogiorno. In dieci anni le Ferrovie Sud-Est hanno sperperato 272 milioni di euro tra consulenze, spese legali e un’incredibile esternalizzazione di servizi. Hanno arricchito un manipolo di fortunati, ed in alcuni casi anche intere famiglie. E così hanno scavato un fossato profondo, i 310 milioni di debiti che oggi mantengono la società a un passo dal baratro. È il fulcro della relazione che ieri il commissario straordinario Andrea Viero ha depositato al ministero delle Infrastrutture (con 10 giorni di anticipo sul termine fissato dalla legge) per analizzare le cause del disastro. Cause «innumerevoli, stratificate e complesse», scrive Viero, tra cui figura l’«ingiustificato ricorso a consulenze ed esternalizzazioni di servizi», e l’«opacità» nella direzione investimenti. Gli ampi poteri dell’ex amministratore Luigi Fiorillo «non sono stati adeguatamente controbilanciati»: forse per questo dal 2004 al 2013 l’avvocato tarantino si è portato a casa 13,7 milioni di euro, comprese le 9 consulenze che si è auto-assegnato «in palese conflitto di interessi» e che gli hanno fruttato 4,9 milioni. Dal 2006 al 2015, dunque, Sud Est ha speso 83 milioni per l’esternalizzazione della contabilità, 116 per quella dei sistemi informativi, 73 per le consulenze e le spese legali. Una valanga di soldi, se si pensa che nello stesso periodo la manutenzione di treni e autobus è costata 42 milioni: praticamente consulenze e contratti si sono mangiate il 20% dei ricavi. Molti degli esempi erano già noti, vedi gli incarichi legali all’ex presidente della Provincia di Bari, Marcello Vernola. Ma la palma degli sperperi va ai 5 milioni per l’archivio. Nel 2005 Fiorillo incarica una archivista di Maglie, Rita Giannuzzi, per 8.900 euro al mese che poi diventeranno 9.500. Qualche mese dopo spunta un’altra consulenza (altri 6.650 euro al mese, poi saliti 7.500) per curare l’archivio storico: la ottiene il professor Franco Cezza, commercialista, marito della Giannuzzi. Siccome hanno famiglia, ecco pure il figlio Gianluca Cezza, avvocato: altri 9.000 al mese per dotare i documenti di codici a barre. Quando Viero chiama la Giannuzzi, al telefono risponde l’agenzia generale della Hdi assicurazioni. Coincidenza: è la società che da anni fornisce indisturbata le polizze alla Sud-Est per quasi 5 milioni l’anno (quando la procedura viene vinta da Sai, Fiorillo la annulla). Viero ha disdetto con Hdi e sta risparmiando il 25%, ed a gennaio ha disdetto anche le consulenze della famiglia Cezza che per l’archivio ha già incassato 2,9 milioni. In casa Cezza, comunque, c’è un altro avvocato, Giovanni Luca: tramite la Legalitax, di cui fa parte, ha preso 300mila euro. Non è l’unica famiglia che ha trovato casa in Sud-Est. Le società Bit (biglietti), Centro Calcolo (buste paga) e Eltel facevano capo ai fratelli romani Eugenio e Ferdinando Bitonte: dal 2006 al 2015 hanno fatturato 83 milioni, oggi i loro dipendenti (si veda articolo a destra) sono stati assorbiti in Sud-Est. Ma del resto l’ex direttore del personale, stipendio 220mila euro, residente a Roma, veniva a Bari con 98 euro l’ora di indennità di trasferta. E gli avvocati? Il romano Angelo Schiano dal 2001 ha maturato 27 milioni di compensi: si è scoperto che faceva parte dell’Organo di vigilanza dell’azienda, e che quando è stata sottoscritta una transazione per le parcelle non pagate Fse si fa rappresentare da un avvocato «che risulta aver avuto rapporti di collaborazione» con Schiano: per questo Viero ne chiederà l’annullamento. Ma ci sono anche i 7.500 euro al mese (dal 2001) all’avvocato Stefania Maritati, figlia dell’ex sottosegretario Alberto, inizialmente avvocato di Fiorillo nell’indagine sui treni d’oro. Domani Viero porterà le carte in Procura, a Bari. Sperando che serva a qualcosa.
Sud Est, ora si indaga a Roma sui Ministeri. La procura capitolina apre un fascicolo: presto sarà sentito il commissario Viero, scrive Massimiliano Scagliarini il 16 ottobre 2016 su La Gazzetta del Mezzogiorno. L’idea è probabilmente di verificare eventuali reati commessi da dipendenti ministeriali, e - forse - anche di esplorare i collegamenti con la politica. Anche la Procura di Roma ha infatti aperto un fascicolo sul saccheggio delle Ferrovie Sud-Est, su cui già lavorano da gennaio i magistrati di Bari. Ma l’obiettivo dell’inchiesta che il procuratore Giuseppe Pignatone ha affidato a uno dei suoi aggiunti potrebbe essere molto diverso: esplorare il secondo livello delle responsabilità, quello finora trascurato. L’apertura dell’inchiesta, al momento senza indagati, è definita un atto dovuto. A marzo la relazione del commissario Andrea Viero, consegnata alla Procura e ai giudici contabili di Bari, fu inviata dal ministro Graziano Delrio anche agli uffici giudiziari della Capitale. Gli accertamenti delegati alla sezione di Pg della Finanza sono in corso già da qualche settimana, e prevedono l’interrogatorio di alcuni testimoni: a fine mese verrà sentito lo stesso commissario Viero. Non è detto che Roma decida di portare avanti l’inchiesta, perché la competenza territoriale sui reati contro il patrimonio è pacificamente nelle mani dei colleghi baresi, peraltro già al lavoro da molti mesi con un pool di pm. La Capitale potrebbe, al più, indagare sugli omessi controlli da parte delle strutture ministeriali: il ministero delle Infrastrutture, proprietario delle Ferrovie Sud-Est, è infatti intervenuto soltanto dopo l’insediamento di Delrio nonostante i segnali della crisi fossero evidenti già da molti anni. L’ex amministratore unico Luigi Fiorillo, per 23 anni alla guida dell’azienda, venne confermato dai ministri Corrado Passera e Maurizio Lupi quando già i bilanci erano in profondo rosso. Nel frattempo, la Procura di Bari continua ad approfondire i contenuti della relazione di Viero per verificare le ipotesi di peculato, abuso d’ufficio e truffa a carico di Fiorillo e altre 13 persone tra ex consulenti e dirigenti dell’azienda. Un numero provvisorio che sembrerebbe destinato ad allungarsi. Il Nucleo di polizia tributaria della Finanza di Bari sta acquisendo documentazione su spese, collaborazioni e sulle società che negli anni della gestione Fiorillo hanno beneficiato degli appalti milionari, società che (come il caso di Filben e Sil) sono riconducibili agli stessi soggetti. La priorità dei pm Francesco Bretone e Luciana Silvestris, che si occupano del troncone relativo alle consulenze, riguarda poi la verifica della congruità delle parcelle. In cima alla lista ci sono l’avvocato romano Angelo Schiano, che risulta creditore delle Sud-Est per oltre 12 milioni, e l’ingegnere salentino Vito Antonio Prato, che in un decennio ha ottenuto (in proprio e attraverso il suo studio professionale) parcelle per 50 milioni. Sia Schiano che Prato figurano già nell’elenco degli indagati. La Procura ha affidato una consulenza per verificare se le cifre già liquidate, ma anche quelle richieste, siano in linea sia rispetto alle tariffe vigenti sia rispetto all’attività effettuata. Un approccio che riguarda molti altri consulenti, quasi tutti avvocati. La Procura di Bari ha ad esempio fatto acquisire, nella sede delle Sud-Est e nello studio professionale, la documentazione relativa agli incarichi svolti dall’avvocato leccese Stefania Maritati, figlia dell’ex sottosegretario ed ex magistrato Alberto. Il padre inizialmente era avvocato di Fiorillo, la figlia nel 2006 ha ottenuto un incarico di consulenza da 7.500 euro al mese rinnovato nel 2011 per altri 5 anni. I magistrati vogliono capire quale sia stata la controprestazione resa dall’avvocato Stefania Maritati (che al momento non risulta indagata): agli atti dell’azienda sono stati rinvenuti soltanto pochi fogli. Ma a prescindere dalle singole responsabilità, la Procura di Bari è convinta che le maxi-consulenze siano state determinanti nell’affondare le Sud-Est: e per questo mira a contestare agli indagati anche la bancarotta.
I 50 mln di consulenze d'oro che Sud-Est vuole bloccare. Cosa c'è nel piano di salvataggio. Tra i creditori anche gli uomini vicini a Fiorillo: sono indagati per bancarotta, scrive Massimiliano Scagliarini il 20 Maggio 2017 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Quasi 50 dei 310 milioni di debiti delle Ferrovie Sud-Est riguardano «fornitori contestati». È la definizione utilizzata dal piano di concordato per raggruppare appalti e consulenze d’oro: quelle stipulate dall’ex amministratore unico Luigi Fiorillo e oggetto dell’indagine per bancarotta della Procura di Bari. Sulla carta sono creditori come gli altri. Nei fatti, quelle spese potrebbero aver portato la società a un passo dal crac: tanto che molti dei nomi inseriti nella lista risultano oggi indagati. In pole position c’è l’avvocato romano Angelo Schiano, tra i primi a finire sul registro degli indagati, che vanta nei confronti di Sud-Est crediti per 14,9 milioni di euro dopo averne già incassati negli anni oltre 10: il suo collega di studio Pino Laurenzi è in credito di 917mila euro. Al secondo posto lo studio legale barese Riccardi, con 5,4 milioni. Poi le società dei romani Ferdinando e Eugenio Bitonte, padre e figlio, entrambi indagati: Bit (4,9 milioni), Centro Calcolo (3,5 milioni) ed Eltel (1 milione) si occupavano rispettivamente di informatica, buste paga e biglietti a costi che già il commissario Andrea Viero aveva ritenuto fuori mercato. Ancora: la misteriosa Eade, una società di informatica (4,3 milioni) su cui le indagini della Procura stanno facendo emergere ramificazioni strane. Poi i tanti professionisti: l’architetto barese Domenico Massimeo, che reclama 2 milioni di euro per la progettazione di un’opera peraltro mai realizzata; l’ingegnere romano Sandro Simoncini (1,8 milioni) che già era stato in parte pagato attraverso la cessione di un credito Iva. E poi la Filben (2,3 milioni) e la Sil (1,2 milioni) di Carlo Beltramelli, imprenditore bolognese pluri-indagato a Bari e a processo per i treni d’oro insieme a Fiorillo, e la Green Field System di Roma (1,1 milioni), quella spuntata nelle indagini di Firenze sulle grandi opere, ritenuta dalla Procura la «tasca» dell’ex grand commis ministeriale, il brindisino Ercole Incalza, non a caso primo commissario delle Sud-Est nel 2001. Il piano di concordato depositato in Tribunale (avvocati Andrea Zoppini, Vincenzo Chionna e Michele Lobuono), che Sud-Est non ha ritenuto di mettere a disposizione nonostante si tratti di un atto pubblico e che la «Gazzetta» ha comunque acquisito, sul punto è piuttosto chiaro. Per quelle consulenze e quegli appalti «sono sorti ragionevoli dubbi di fondatezza con riferimento al loro perfezionamento e/o alla loro esecuzione». Nelle ultime tre settimane Sud-Est ha dunque inviato contestazioni agli interessati, e annuncia azioni legali: «La società - è detto nel piano - sta perseguendo in sede civile tutte le azioni necessarie all’accertamento delle reali pretese delle controparti». È evidente lo stretto legame di questo passaggio con l’indagine per bancarotta. È stata la stessa Procura di Bari, del resto, a chiedere la presentazione di un concordato preventivo come condizione per rinunciare all’istanza di fallimento presentata la scorso anno. E, del resto, la società guidata dall’ad Andrea Mentasti non potrebbe mai pagare chi dovesse essere ritenuto responsabile di bancarotta. Nell’elenco figurano, tra gli altri, l’avvocato barese Marcello Vernola, ex presidente della Provincia di Bari, che aveva già agito nei confronti di Sud-Est con un decreto ingiuntivo (245mila euro). Ci sono tutti i componenti della famiglia Cezza di Maglie, gli archivisti d’oro di Fiorillo (sono costati 5 milioni): la moglie Rita Giannuzzi (103mila euro), il marito Franco Cezza (60mila), i figli Gianluigi (76mila) e Giovanni Luca (19mila). Ancora, la Svicat (carburanti) dell’ex assessore regionale Fabrizio Camilli che forniva il gasolio dei treni a prezzi superiori al mercato (200mila euro). E poi l’avvocato Stefania Maritati, figlia dell’ex sottosegretario Alberto (76mila euro) che è stato il primo avvocato di Fiorillo nella vicenda dei treni d’oro. Se l’azienda del gruppo Fs riuscirà a non pagare, tutto o parte di quei 50 milioni finiranno nelle tasche dei fornitori, cui al momento il concordato destina solo 59,9 milioni a fronte dei 124 di debito totale: per pagare consulenze e appalti d’oro, insomma, Fse deve falcidiare le aziende locali. Da questo meccanismo si salveranno invece le imprese che hanno effettuato lavori finanziati da fondi europei: 55,2 milioni spesi per elettrificazione, sicurezza e i nuovi elettrotreni. Verranno infatti pagati in prededuzione, cioè prima di tutti e integralmente, «in ragione del vincolo di destinazione impresso dalla normativa dell’Unione europea e nazionale sui fondi pubblici», di cui Sud-Est è «mero soggetto erogatore». È un caso destinato probabilmente a fare giurisprudenza.
I furbetti delle ferrovie, scrive Vittorio Bobba il 18 marzo 2018 su weeklymagazine.it. In questo nostro Bel Paese non passa giorno che non si scopra un episodio di corruzione, di malversazione, o di peculato. Sembra farlo apposta: gli amministratori – soprattutto pubblici – hanno lo strano vizietto di volersi arricchire ai danni dei contribuenti. E’ di questi giorno la notizia che l’ex pm Ingroia, fustigatore dei costumi soprattutto di chi è più a destra di lui (e sono tanti!) è sotto accusa per la sua gestione della società regionale di servizi informatici “Sicilia e-Servizi” nella quale la Guardia di Finanza ha scoperto sprechi per 150 mila euro ed ha pertanto sequestrato i beni dell’ex magistrato rosso. Questi fatti purtroppo non fanno quasi più notizia, tanto siamo abituati a pestare di queste deiezioni ad ogni passo, ma succede talvolta che un episodio sia così clamoroso da far arricciare i capelli in testa anche all’arbitro Collina. E’ il caso dell’ex commissario governativo, legale rappresentante e amministratore unico delle Ferrovie del Sud Est Luigi Fiorillo, 56 anni, avvocato originario di Taranto, la cui sfacciataggine nel fare man bassa dei denari pubblici è pressoché unica nel suo genere. Il fatto di cronaca è noto: undici persone tra cui Fiorillo sono da alcune settimane ai domiciliari dopo un blitz della polizia tributaria di Bari per vari reati, tra i quali bancarotta fraudolenta documentale, societaria e patrimoniale, peculato nonché dissipazione e distrazione di ingenti quantità di denaro. Le misure sono state disposte dal gip di Bari, Alessandra Susca, che ha disposto anche sequestri patrimoniali per 90 milioni di euro nei confronti di 15 indagati tra Bari, Lecce, Roma, Bologna e Maglie. Le indagini hanno accertato un crac da 230 milioni nella gestione della società partecipata dal ministero dei trasporti, concessionaria per la Regione Puglia del servizio ferroviario, acquistata un anno fa da Ferrovie dello Stato e attualmente sottoposta a procedura di concordato preventivo in continuità. L’ordinanza di custodia cautelare agli arresti domiciliari è stata notificata, oltre che all’ex amministratore Luigi Fiorillo, ad Angelo Schiano, presunto amministratore occulto e avvocato della società, a Fausto Vittucci, revisore e certificatore dei bilanci FSE, e agli imprenditori Ferdinando Bitonte, Carlo Beltramelli, Carolina e Gianluca Neri, Franco Cezza, a sua moglie Rita Giannuzzi e a suo figlio G.luigi C.zza, e all’ex assessore regionale ai Trasporti Fabrizio Romano Camilli in quota a Forza Italia. Il giudice ha anche ordinato la disattivazione delle linee telefoniche e internet delle abitazioni degli arrestati e le rispettive utenze mobili. Inoltre nei confronti del responsabile tecnico di FSE Nicola Alfonso, attualmente in pensione, il gip ha applicato la misura dell’interdizione temporanea dall’attività di consulenza per la gestione della logistica aziendale. I fatti contestati si riferiscono a un periodo di 15 anni, dal 2001 al 2015. L’indagine è partita nel marzo 2016 sulla base di una relazione del commissario straordinario di FSE, Andrea Viero, poi integrata da numerosi successivi esposti alla Procura. Nella relazione si individuavano già le cause del dissesto, “…una lunga serie di atti e decisioni – spiega il gip – che hanno progressivamente depauperato il patrimonio della società e compromesso gravemente il suo equilibrio economico-finanziario”. Già questa descrizione sommaria dei tanti reati commessi da Fiorillo e dai suoi accoliti lascia presagire un "fumus delinquentiae" anormalmente corposo, ma ciò che stiamo per raccontarvi (e, credete, è solo la punta dell’iceberg) è di un’enormità mai vista. I debiti accumulati in quindici anni da Fiorillo e dai suoi compagni di bagordi raggiungono la considerevole cifra di 300 milioni di euro e sarebbero stati causati dalla esternalizzazione – a costi sempre crescenti – di servizi informatici e contabilità, progettazione e direzione dei lavori, gestione dell’archivio, forniture di carburanti, compensi professionali e altri servizi. Personalmente l’avvocato tarantino dal 2004 al 2013 si è portato a casa 13,7 milioni di euro, comprese le 9 consulenze che si è auto-assegnato «in palese conflitto di interessi» e che gli hanno fruttato 4,9 milioni. I compensi ufficiali erano quasi modesti: 100 mila euro annui per l’incarico di Dirigente distaccato di Fse e 48 mila euro come amministratore unico. Fiorillo si era qui di sentito in dovere di integrare quello stipendio da fame, tanto che ha percepito una somma lorda di oltre 20 milioni di euro in undici anni, dei quali solo 338 mila come compensi riconosciuti dall’assemblea dei soci». Per arrivare a questa cifra record si era assegnato poco meno di 5 milioni di euro quali compensi per attività di supporto (leggi: consulenze), senza averne le competenze, in 39 appalti di lavori pubblici su tutto il territorio regionale, addebitandoli come spese per il personale. Ma aveva anche sottoscritto contratti Co.co.co a suo nome per oltre 7 milioni per attività – secondo il GIP – mai svolte. Alcuni dipendenti di FSE ascoltati durante le indagini hanno dichiarato che “nessun funzionario poteva realisticamente opporsi alle decisioni di Fiorillo dato che ciascuno di essi temeva di essere licenziato”. Infatti Fiorillo, come riportato negli atti, “approfittava sistematicamente dei suoi poteri stipulando contratti palesemente contrari all’interesse della società, sia per le modalità di scelta dei contraenti, sia per la sproporzione economica dei contratti pur consapevole del grave stato di crisi della società e del tutto insensibile ai moniti del collegio sindacale… Contraria all’interesse della società anche la moltiplicazione di contratti e incarichi con identico oggetto”. Ma il bello deve ancora venire: Fiorillo e gli allora vertici di FSE avrebbero anche affidato incarichi a prezzi assurdi, stipulando contratti senza gara e falsificando i bilanci. “L’esosità dei compensi – è scritto nelle imputazioni – determinava una spesa illogica, artefatta e assolutamente fuori mercato”. Il giro d’affari (ossia l’ammontare dei fondi pubblici confluiti nelle casse di FSE) stimato dai consulenti della Procura di Bari si aggira intorno ai 2 miliardi di euro fino al commissariamento del dicembre 2015, più del 10 per cento dei quali dissipati attraverso le spese più folli e ritenuti dagli inquirenti causa del crac. Altri 19 milioni euro (poi non ammessi a passivo e quindi non rimborsati dalla Regione Puglia) sarebbero stati spesi per studi geologici e coordinamento della sicurezza in cantieri sulla tratta Bari-Taranto e nell’Area Salentina. Non finisce qui: tra i fondi dissipati secondo i pm ci sono quasi 27 milioni di euro dati all’avvocato Schiano per attività di assistenza e consulenza legale. Dal 2006 al 2015, dunque, Sud Est ha speso 83 milioni per l’esternalizzazione della contabilità, 116 per quella dei sistemi informativi (ma secondo alcune fonti erano “solo” 53!), mentre 73 milioni sono stati bruciati per le consulenze e le spese legali. Una valanga di soldi, se si pensa che nello stesso periodo la manutenzione di treni e autobus è costata 42 milioni: praticamente consulenze e contratti si sono mangiate il 20% dei ricavi.
E gli avvocati? Il romano Angelo Schiano dal 2001 ha maturato 27 milioni di compensi: si è scoperto che faceva parte dell’Organo di vigilanza dell’azienda, e che quando è stata sottoscritta una transazione per le parcelle non pagate FSE si fa rappresentare da un avvocato «che risulta aver avuto rapporti di collaborazione» con Schiano: per questo Viero ne chiederà l’annullamento. Ma ci sono anche i 7.500 euro al mese (dal 2001) all’avvocato Stefania Maritati, figlia dell’ex sottosegretario Alberto, inizialmente avvocato di Fiorillo nell’indagine sui treni d’oro. Continuando la rassegna di questo museo degli orrori, ulteriori 53 milioni di euro sarebbe stati indebitamente erogati per la gestione di servizi informatici. Altre contestazioni riguardano poi l’acquisto e la manutenzione di treni dalla società dell’imprenditore Beltramelli della società Filben Srl (già imputato con Fiorillo per truffa in un altro processo sulla manutenzione dei convogli) con dissipazione di fondi per circa 9 milioni, spese di carburante per 14 milioni (40% oltre il prezzo di mercato), 16 milioni per la gestione di polizze assicurative e predisposizione dei bandi di gara e 1,3 milioni di euro per l’affitto e i servizi di pulizia di un appartamento nel centro di Roma. Già, perché nonostante avesse l’ufficio a Bari Fiorillo viveva a Roma, da dove dirigeva il suo piccolo ma ricchissimo regno facendosi non solo pagare l’affitto di un appartamento in centro, ma anche l’indennità di trasferta! Naturalmente per trasferirsi occorre un’automobile, pertanto Fiorillo si era dotato di un autista personale (nonostante la società ne avesse uno!) a cui rimborsava a spese dei contribuenti la modesta somma di 14000 euro al mese. Ovviamente in questo esilio, dorato finché si vuole ma pur sempre esilio, il poveretto cercava di consolarsi concedendosi qualche piccolo e innocente lusso, come ad esempio la bottiglia di vino acquistata il 1° giugno 2009 presso l’Enoteca Capranica per “soli” 2.600 euro, pagando un conto complessivo di 2.836 euro per una cena di tre persone, e la quasi quotidiana frequentazione della costosa sala da the “Babington’s”. All’azienda aveva anche addebitato 1 milione e 300 mila euro per l’affitto e i servizi di pulizia dell’appartamento nella capitale. Il giudizio formulato nell’ordinanza non lascia spazio a interpretazioni: “Se sono ammissibili in generale spese necessarie per la rappresentanza della società nella Capitale, lo sono solo se comprovate da effettive ragioni di rappresentanza. La quotidianità dell’acquisto di cioccolate calde, biscottini e vini costosissimi a spese dei contribuenti dimostra invece la non inerenza all’incarico”. E tra gli altri esempi viene citato il rimborso di 14 mila euro al mese per l’autista, pur essendo la società dotata dello stesso servizio. Stando al capo d’imputazione principale, Fiorillo, l’amministratore occulto Schiano e il revisore Vitucci “…tenevano i libri e le altre scritture contabili in modo tale da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari”. Inoltre, “…tenevano la contabilità confondendo in un unico conto corrente (il n. 13.000 presso BNL) gli importi provenienti dalla attività di concessione del servizio ferroviario (euro 135 milioni di contributi regionali + euro 16 milioni dalla vendita dei biglietti) con quelli relativi ai finanziamenti europei e regionali (danaro pubblico e vincolato al singolo progetto finanziato) che la società gestiva quale stazione appaltante (pari a euro 850 milioni nel corso degli anni), utilizzando fondi riferiti al contratto di servizio per gli investimenti e viceversa, non rendendo possibile, se non in modo parziale e solo attraverso il complicato esame di documentazione extra-contabile, la ricostruzione della contabilità”. Attraverso queste operazioni, essi “… incidevano sulla gestione finanziaria quanto ai debiti verso la banca e sul conto economico quanto ai costi degli oneri bancari, aggravando l’esposizione debitoria di FSE i cui gli interessi bancari passivi, dal 2007 al 2016, hanno inciso per euro 60 milioni (in parte causati dagli utilizzi per anticipazioni di investimenti)”. Non possiamo poi non accennare ai quasi 3 milioni di euro usati per la gestione dell’archivio storico, affidata al professor Cezza e ai suoi familiari. Questa è forse la nota più comica di tutta la pantomima: mai sazio, anzi famelico come non mai, nel 2005 Fiorillo si inventa la ristrutturazione dell’archivio storico delle Ferrovie Sud Est (che non crediamo essere proprio l’archivio Vaticano). Naturalmente tra i 1400 dipendenti di FSE non ne trova uno adatto al ruolo, quindi decide di affidare l’incarico attraverso una consulenza. La scelta cade su Rita Giannuzzi, un’archivista di Maglie. Il contratto di consulenza viene stipulato per complessivi anni 8 + 9 = 17 (sì, avete letto bene!). La consulenza ha un valore di 8900 euro al mese, poi diventati 9500. La cifra non deve spaventare: se considerate che Fiorillo ne erogava 14000 mensili all’autista capite bene quanto poco importante riteneva essere l’incarico di archivista! Ben presto però, la poveretta si accorge che si tratta di un lavoro immane, lo dice a Fiorillo il quale cerca un nuovo consulente come coadiutore della sfortunata donna. E chi ti pesca? Il marito, prof. Franco Cezza, ottantaduenne commercialista, al quale assegna un’altra consulenza di complessivi anni 8 + 9 = 17 ma a soli 6500 euro al mese poi saliti a 7.500. A questo punto facciamo due conti: 9500 + 7500 = 17000 euro mensili, che sulla distanza di 17 anni avrebbe portato nelle casse dell’allegra famigliola (potranno mica essere tristi, no?) la bellezza di 3.468.000 euro! Ma siccome i due tengono famiglia, ecco pure il figlio Gianluca Cezza, avvocato: a lui altri 9.000 euro al mese (per 17 anni, ça va sans dire) per dotare i documenti di codici a barre, più un forfait di 300 mila euro attraverso lo studio Legalitax di cui fa parte! Nel momento in cui questa immensa pentola di serpenti fu scoperchiata (correva l’anno 2016) il nuovo commissario straordinario Andrea Viero chiamò la Giannuzzi. Al telefono rispose l’agenzia generale della Hdi assicurazioni. Coincidenza: è la società che da anni forniva indisturbata le polizze alla Sud-Est per quasi 5 milioni l’anno (quando la procedura viene vinta da Sai, Fiorillo la annulla). Viero ha disdetto con Hdi e sta risparmiando il 25%, ed a gennaio 2017 ha disdetto anche le consulenze della famiglia Cezza che per i lavori dell’archivio ha già incassato 2,9 milioni. I Cezza non sono comunque l’unica famiglia che ha trovato casa in Ferrovie Sud-Est. Le società Bit (biglietti), Centro Calcolo (buste paga) e Eltel facevano capo ai fratelli romani Eugenio e Ferdinando Bitonte: dal 2006 al 2015 hanno fatturato a FSE 83 milioni e oggi i loro dipendenti sono stati assorbiti in Sud-Est. Del resto l’ex direttore del personale, stipendio 220mila euro, residente a Roma, veniva a Bari con 98 euro l’ora di indennità di trasferta. Dicevamo che la Guardia di Finanza ha effettuato sequestri patrimoniali per oltre 90 milioni, somma del tutto insufficiente visto che “… le somme irregolarmente erogate da Sud Est – ha detto il procuratore capo di Bari, Giuseppe Volpe – superano i 230 milioni di euro”. Ferrovie Sud Est è una società interamente partecipata dal Ministero dei Trasporti, concessionaria per la Regione Puglia del servizio ferroviario, acquistata circa un anno fa da Ferrovie dello Stato e attualmente sottoposta a procedura di concordato preventivo in continuità. Ci chiediamo (e cercheremo conferme in questo senso) se il Ministero dei Trasporti si costituirà parte civile nei confronti degli accusati. Nella vicenda è anche intervenuto il governatore pugliese Michele Emiliano, il quale ha dichiarato: “… in questi ultimi anni abbiamo assistito a una progressiva spoliazione e depauperamento dell’azienda, che fino all’intervento dei commissari straordinari prima e di Ferrovie dello Stato per la gestione poi non riusciva a garantire i servizi minimi in sicurezza. (…) La magistratura sta facendo chiarezza su quegli anni bui” nella gestione delle Ferrovie Sud Est, “durante i quali in pochi si sono arricchiti e in molti non sono riusciti ad andare a scuola, all’università, al lavoro o semplicemente nei luoghi di vacanza, forse anche perché gli amministratori pensavano a costituirsi cospicui e illeciti patrimoni personali invece di far funzionare treni e bus. Completeremo quindi la bonifica della società e consegneremo ai pugliesi linee rinnovate e sicure, contraddistinte dalla capillarità che è propria delle antiche Sud-Est”. C’è da chiedersi quanto siano da prendere sul serio le dichiarazioni di un governatore (ed ex-magistrato) che in tempi non lontani si è distinto quale fine conoscitore di cozze pelose e di appalti sui parcheggi, oltre alle sue estemporanee prese di posizione sugli ulivi, sui gasdotti e sull’ILVA di Taranto. La fase processuale di questo clamoroso scandalo non è ancora iniziata, dovendosi giustamente attendere la conclusione delle indagini investigative che – statene certi – porteranno alla luce ulteriori schifezze. Certo i fatti sono scandalosi, ma la loro enormità non toglie alla vicenda un aspetto umoristico, ancor più alimentato da un fatto assai curioso, che avrebbe forse potuto suonare di presagio: il professor Cezza è anche autore di un manuale tecnico, scritto con l’altro figlio, Gianluca, dal titolo “La liquidazione coatta amministrativa”. Non c’è che dire: un vero esperto che non trascura, dopo la teoria, la sperimentazione scientifica!
LOREDANA CAPONE & FRIENDS.
La "Associazione Contro Tutte le Mafie" - ONLUS è una associazione nazionale contro le ingiustizie e le illegalità, iscritta per obbligo di legge, ai fini dell'attività antiracket ed antiusura, solo presso la Prefettura - UTG di Taranto, competente sulla sede legale. Non ha sostegno politico perchè è apartitica e non nasconde gli abusi e le omissioni del sistema di potere, tra cui i magistrati, e la codardia della società civile. Per questo non riceve alcun finanziamento pubblico, o assegnazione da parte della magistratura dei beni confiscati. Il suo presidente è, spesso, perseguito per diffamazione, solo perchè riporta sui portali web associativi le interrogazioni parlamentari o gli articoli di stampa sugli insabbiamenti delle inchieste scomode. Le scuole non lo invitano, in quanto il motto "La mafia siamo noi" non è accettato dai professori di Diritto, che sono anche, spesso, avvocati e/o giudici di pace e/o amministratori pubblici, sentendosi così chiamati in causa per corresponsabilità del dissesto morale e culturale del paese. Pur affrontando questioni attinenti la camorra, la mafia, la 'ndrangheta, la sacra corona unita, la mafia russa, ecc; pur essendo stato ringraziato dal Commissario governativo per la collaborazione svolta ed invitato da questi a partecipare al forum tenuto a Napoli coi Prefetti del Sud Italia per parlare di Mafie e sicurezza, la Prefettura di Taranto, non solo non gli dà la scorta, ma gli diniega la richiesta del porto d'armi per difesa personale. La regione Puglia non iscrive la stessa associazione all'albo regionale, né il comune di Avetrana, città della sede legale, ha iscritto l'associazione presso l'albo comunale. Il sostegno mediatico è inesistente, tanto che vi è stata interrogazione parlamentare del sen. Russo Spena per chiedere perchè Rai 1 non ha trasmesso il servizio di 10 minuti dedicato all'associazione, autorizzato dall'apposita commissione parlamentare. L'editoria ha rifiutato le pubblicazione del saggio d'inchiesta "L'Italia del trucco, l'Italia che siamo", il sunto e l'elenco degli scandali e i misteri italiani, senza peli sulla lingua.
La associazione "Libera" è un coordinamento nazionale di tante associazioni e comitati locali. Queste, spesso hanno sede presso la CGIL, sindacato di sinistra, come a Taranto. I magistrati assegnano a loro i beni confiscati. Le scuole invitano i loro rappresentanti. Il sostegno mediatico è imponente, come se "Libera" fosse l'unico sodalizio antimafia esistente in Italia. La regione Puglia, con giunta di sinistra, riconosce a loro cospicui finanziamenti, pur non essendo iscritta all'Albo regionale.
200 mila euro. In favore della Cooperativa “Terre di Puglia – Libera Terra” (100 mila euro) e dell’Associazione Libera di don Luigi Ciotti (100 mila euro).
La cooperativa denominata «Terre di Puglia – Libera Terra» è formata da giovani pugliesi e si occupa della gestione dei terreni agricoli e degli altri beni confiscati alla Sacra Corona Unita. Attualmente, in partenariato con la Prefettura e la Provincia di Brindisi, con l’Associazione Libera ed Italia Lavoro Spa, gestisce un progetto che prevede l’impiego a fini agricoli dei terreni confiscati alle mafie nella provincia di Brindisi, nei comuni di Mesagne, Torchiarolo e San Pietro Vernotico.
L’Associazione Libera di don Luigi Ciotti in Puglia sosterrà il progetto MOMArt (Motore Meridiano delle Arti), che prevede la trasformazione di una ex discoteca di Adelfia (Ba), centrale di spaccio e illegalità, in un luogo generatore di sviluppo sociale e civile per i giovani pugliesi.
Per il raggiungimento di questo obiettivo la Giunta il 15 luglio 2008 ha approvato un protocollo d’intesa tra Regione Puglia, Tribunale di Bari, Commissario governativo per i beni confiscati e Associazione Libera.
Il dr. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie denuncia una palese ingiustizia e discriminazione politica che viene perpetrata da parte della Giunta della Regione Puglia guidata da Nicola Vendola e dal suo assessore competente Loredana Capone.
«Sin dal 27 settembre 2008, avendone titolo anche in virtù di una verifica della Guardia di Finanza che ne attesta la reale attività, il sodalizio nazionale riconosciuto dal Ministero dell’Interno ha chiesto l’iscrizione all’Albo Regionale delle associazioni antiracket ed antiusura – dice il dr Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie -. La risposta che è stata data è che l’Albo non è stato ancora costituito, nonostante in pompa magna si sia dato risalto della sua emanazione per legge. Intanto però la Giunta Vendola si prodiga a finanziare ed a promuovere “Libera” e le sue associate in ogni modo, pur non essendo iscritta all’albo non ancora costituito. Ciò che dico è confermato dalle varie determine di finanziamento delle varie convenzioni e così come appare su “Striscia La Notizia” del 18 novembre 2011. In occasione del servizio di Fabio e Mingo in tema di favoritismi e privilegi l’assessore alle risorse umane, Maria Campese, pur non essendo competente sulla materia della mafia, in bella vista presso i suoi uffici sfoggiava un muro tappezzato di manifesti di “Libera”, da cui si palesava la scritta “I beni confiscati sono Cosa Nostra”.
Spero che questa ipocrisia antimafia cessi e la Giunta Vendola sia meno partigiana, perché oltre a discriminarle, perché non sono comuniste, nuoce a quelle associazioni che si battono veramente contro le mafie. Spero che sia dato dovuto risalto alla denuncia, in quanto abbiamo bisogno del sostegno istituzionale per poter continuare a svolgere la nostra attività.»
Turismo e risorse ambientali.
“Ci vogliono brutti, sporchi e cattivi”
19 settembre 2016. Dibattito pubblico a Otranto, in Puglia, sul tema: "Prospettive a Mezzogiorno".
Il resoconto del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
Nel Salento: sole, mare e vento. Terra di emigrazione e di sotto sviluppo economico e sociale dei giovani locali. Salentini che emigrano per mancanza di lavoro…spesso con un diploma dell’istituto alberghiero. Salentini che perennemente si lamentano della mancanza di infrastrutture per uno sviluppo economico e che reiteratamente protestano per i consueti disservizi sulle coste e sui luoghi di cultura. Salentini con lo stipendio pubblico che si improvvisano ambientalisti affinchè si ritorni all’Era della pietra. Salentini con la sindrome di Nimby: sempre no ad ogni proposta di sviluppo sociale ed economico, sia mai che i giovani alzino la testa a danno delle strutture politiche padronali. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. Salentini che dalla nascita fin alla morte si accompagnano con le stesse facce di amministratori pubblici retrogradi che causano il sottosviluppo e che usano ancora il metro di misura dei loro albori politici: per decenni sempre gli stessi senza soluzione di continuità e di aggiornamento.
Presente al convegno Flavio Briatore, fine conoscitore del tema, boccia il modello turistico italiano, partendo proprio dalla Sardegna del suo Billionaire. Intanto per il caro trasporti: «Hanno un'isola e non lo sanno - dice Briatore alla platea del convegno - pensano che la gente arrivi per caso. La gente arriva o via mare o via aerea: sono due monopoli, per cui fanno i prezzi (che vogliono). Se tu vai da Barcellona a Maiorca, quattro persone sul traghetto spendono 600 euro. Da Genova ad Alghero ne spendono 1600. L'80 per cento degli amministratori - aggiunge ancora Briatore - non ha mai preso un aereo. Come si fa a parlare di turismo senza averlo mai visto?».
Briatore è poi passato alla Puglia, dove nell’estate 2017 aprirà il Twiga Beach di Otranto grazie a una cordata di imprenditori locali ed ha criticato l'offerta turistica del territorio, sottolineando in particolare la mancanza di servizi adeguati alle esigenze dei turisti più facoltosi, sorvolando sulla mancanza di infrastrutture primarie: «Se volete il turismo servono i grandi marchi e non la pensione Mariuccia, non bastano prati, né musei, il turismo di cultura prende una fascia bassa di ospiti, mentre il turismo degli yacht è quello che porta i soldi, perché una barca da 70 metri può spendere fino a 25mila euro al giorno. Masserie e casette, villaggi turistici, hotel a due e tre stelle, tutta roba che va bene per chi vuole spendere poco - ha affermato Briatore - ma non porterà qui chi ha molto denaro. Ci sono persone che spendono 10-20mila euro al giorno quando sono in vacanza, ma a questi turisti non bastano cascine e musei, prati e scogliere - ha continuato l'imprenditore - io so bene come ragiona chi ha molti soldi: vogliono hotel extralusso, porti per i loro yacht e tanto divertimento». Non poteva essere altrimenti: Briatore ha puntato il dito sulle mancanze di infrastrutture a sostegno di quelle strutture turistiche mancanti ad uso e consumo di un’utenza diversificata e non solo mirata ad un turismo di massa che non guarda alla qualità dei servizi ed alla mancanza di infrastrutture. Una semplice analisi di un esperto. Una banalità. Invece...
Sulle affermazioni di Briatore si è scatenato un acceso dibattito, in particolare sui social: centinaia i commenti, quasi tutti contro.
I contro, come prevedibile, sono coloro che sono stati punti nel nerbo, ossia gli amministratori incapaci di dare sviluppo economico e risposte ai ragazzi che emigrano e quei piccoli imprenditori che con dilettantismo muovono un giro di affari di turismo di massa a basso consumo con scarsa qualità di servizio.
L’assessore regionale Sardo Maninchedda: «A parole stupide preferisco non rispondere».
Francesco Caizzi, presidente di Federalberghi Puglia replica alle parole dell’imprenditore: «La Puglia non è Montecarlo, Briatore si rassegni. La Puglia ha hotel che vanno dai 2 stelle ai 5 stelle, dai bed & breakfast agli affittacamere. Sono strutture per tutte le tasche e le esigenze, ma con un unico denominatore comune: rispettano l’identità del luogo. Questo significa che non ci si può aspettare un’autostrada a 4 corsie per raggiungere una masseria. È probabile che si dovrà percorrere un tratto di sterrato, ma nessuno ha mai avuto da ridire su questo. Anzi, fa parte del fascino del luogo».
Loredana Capone, assessore imperituri (governo Vendola per 10 anni e con il Governo Emiliano), che ha concluso da poco un lavoro di diversi mesi sul piano strategico del turismo, ha illustrato il punto di vista di un eterno amministratore pubblico: «Dobbiamo partire da quello che abbiamo per puntare ai mercati internazionali. Come stiamo nei mercati? Prima di tutto evitando qualsiasi rischio di speculazione e abusivismo. È puntando sulla valorizzazione del patrimonio, residenze storiche, masserie, borghi, che saremo in grado di offrire un turismo di qualità, capace di portare ricchezza. Non i grandi alberghi uguali dappertutto, modelli omologati e omologanti. Anche gli investimenti internazionali puntano al recupero più che alla nuove costruzioni». Loredana Capone, assessore imperituri (governo Vendola per 10 anni e con il Governo Emiliano), che ha concluso da poco un lavoro di diversi mesi sul piano strategico del turismo, ha illustrato il punto di vista di un eterno amministratore pubblico: «Dobbiamo partire da quello che abbiamo per puntare ai mercati internazionali. Come stiamo nei mercati? Prima di tutto evitando qualsiasi rischio di speculazione e abusivismo. È puntando sulla valorizzazione del patrimonio, residenze storiche, masserie, borghi, che saremo in grado di offrire un turismo di qualità, capace di portare ricchezza. Non i grandi alberghi uguali dappertutto, modelli omologati e omologanti. Anche gli investimenti internazionali puntano al recupero più che alla nuove costruzioni».
Gianni Liviano presenta interrogazione su attività di Apulia Film Commission. Nell'interrogazione a risposta scritta il consigliere liviano chiede di fornire chiarimenti in merito alle eccezioni sollevate dall'Ordine di vigilanza di Apulia Film Commission, scrive il 25 settembre 2018 "Il Corriere di Taranto". È una lunga serie di rilievi quella mossa, all’indirizzo dell’operato di Apulia Film Commission, dal consigliere regionale del Gruppo Misto, Gianni Liviano, e tutti racchiusi in una interrogazione a risposta scritta indirizzata al presidente del Consiglio regionale, Mario Loizzo, e per conoscenza al presidente della Giunta regionale, Michele Emiliano, e alla Corte dei Conti. Si tratta di un lavoro minuzioso e certosino portato avanti dal consigliere regionale tarantino e che fa seguito a quello sull’affidamento al Teatro pubblico pugliese della somma di 1 milione di euro nell’ambito del “Polo territoriale delle Arti e della Cultura Fiera del Levante 2018“. E, allora, eccoli i rilievi: assenza puntuale nella trasmissione dei flussi informativi; assenza dell’autorizzazione da parte del consiglio di amministrazione di Apulia Film Commission per l’accordo di cooperazione per la realizzazione integrata di servizi pubblici finalizzati alla valorizzazione, promozione e comunicazione della puglia come destinazione turistica e come industria culturale cinematografica sottoscritta in data 20/10/2017 tra il presidente della Fondazione Apulia Film Commission e l’Agenzia Regionale PugliaPromozione con durata di tre anni a partire dall’accordo; assenza, all’interno del nuovo “regolamento per il reclutamento del personale dipendente e per l’instaurazione dei rapporti di collaborazione” ( approvato dal c.d.a. in data 24 aprile 2018), delle procedure di affidamento di incarichi professionali, e il non recepimento, all’interno del l’art. 7 di tale regolamento “commissioni esaminatrici”, di quanto suggerito dall’Organismo di vigilanza nel parere espresso in data 31 luglio 2017, e approvato dal c.d.a. il 1 agosto 2017, sui criteri di nomina delle commissioni; assenza di trasparenza nelle procedure finalizzate alla richiesta di sponsorizzazione della fondazione; abuso nell’utilizzo della procedura di affidamento diretto anche nelle more dell’assenza dei requisiti di unicità ed esclusività nei servizi offerti e la non chiarezza delle motivazioni che inducono all’individuazione di tale procedura di aggiudicazione; individuazione di soggetti affidatari direttamente da parte del direttore generale dell’Afc e non già da parte del rup; assenza, nelle determine di nomina, delle motivazioni che hanno condotto alla scelta dei commissari delle commissioni esaminatrici; assenza dei riferimenti alle dichiarazioni di assenza di conflitti di interessi e di cause di incompatibilità; assenza sul sito della Fondazione dei curricula dei commissari. “Si tratta – spiega ancora Liviano – di rilievi espressi dall’Organismo di vigilanza della stessa fondazione Apulia film commission (che fa riferimento all’assessorato all’Industria turistica e culturale presieduto dall’assessore Capone) nei verbali di maggio e del 13 e del 18 luglio del 2018. Ecco – conclude Liviano – di questi rilievi chiedo conto nella mia interrogazione (che si allega)”. Pubblichiamo, di seguito, il testo dell’interrogazione a risposta scritta indirizzata al presidente del Consiglio regionale, Mario Loizzo, e, per conoscenza, al presidente della Giunta regionale, Michele Emiliano, nonché alla Corte dei Conti.
«Premesso che
- l’Organismo di vigilanza (Odv) monocratico della fondazione Apulia film commission (Afc), istituito ai sensi dell’art. 6 del decreto legislativo 231 del 2001 e rappresentato dal dott. Ernesto De Vito il quale riveste anche la funzione di responsabile della prevenzione della corruzione e trasparenza giusta nomina del cda di Afc del 27 marzo 2017;
– lo stesso organismo si è recentemente riunito, tra l’altro, nelle date 21 maggio 2018, 13 luglio 2018 e 18 luglio 2018;
– in data 21/05/2018, nel verbale di riunione, l’Odv ha segnalato un’assenza nella trasmissione dei seguenti flussi informativi (con richiesta di invio immediato):
a) adempimenti presso le autorità pubbliche di vigilanza e presso gli enti pubblici per l’ottenimento delle autorizzazioni, abilitazioni, licenze, concessioni o provvedimenti simili attraverso un report delle richieste di autorizzazioni e licenze presentate. L’Odv indica, altresì, che il referente per l’invio di tali documenti è il direttore generale, che la periodicità di invio sarebbe semestrale e che allo stato all’Odv non era mai arrivato alcun flusso in merito;
b) rendicontazioni contributi, sovvenzioni e finanziamenti erogati dallo Stato, da altri enti pubblici o dall’unione europea attraverso un riepilogo delle rendicontazioni effettuate e segnalazioni di eventuali anomalie o altre criticità. L’Odv indica altresì che il referente per l’invio di tali documenti è l’ufficio gestione e rendicontazione progetti, che la periodicità di invio sarebbe trimestrale e che allo stato all’Odv l’ultimo flusso era pervenuto in data 05/05/2017;
c) sponsorizzazioni, partnership e rapporti commerciali con soggetti privati attraverso un report su sponsorizzazioni, partnership e rapporti commerciali con soggetti privati con indicazione degli importi e dell’oggetto. L’Odv indica altresì che il referente per l’invio di tali documenti è il direttore generale, che la periodicità di invio sarebbe semestrale e che allo stato all’Odv non era mai arrivato alcun flusso in merito;
– in data 13/07/2018 nel verbale di riunione l’Odv:
a) lamenta di non aver ancora ricevuto il flusso informativo sulle sponsorizzazioni e partnership effettuate dalla Fondazione;
b) esamina a campione l’accordo di cooperazione per la realizzazione integrata di servizi pubblici finalizzati alla valorizzazione, promozione e comunicazione della Puglia come destinazione turistica e come industria culturale cinematografica sottoscritta in data 20/10/2017 tra la Fondazione Apulia Film Commission e l’Agenzia Regionale Puglia Promozione con durata di tre anni a partire dall’accordo, esamina le schede riepilogative delle spese effettuate a valere su detto accordo, chiede copia delle determine del rup sulle spese di importo più rilevante con particolare riferimento agli affidamenti diretti, e segnala l’assenza della delibera del consiglio di amministrazione di autorizzazione alla realizzazione di tale attività, nonostante la firma dell’accordo stesso da parte del presidente consiglio di amministrazione;
c) prende atto che il nuovo “regolamento per il reclutamento del personale dipendente e per l’instaurazione dei rapporti di collaborazione”, approvato dal c.d.a. in data 24 aprile 2018, a differenza del precedente regolamento per il reclutamento del personale non disciplina le procedure di affidamento di incarichi professionali ma solo l’assunzione di personale dipendente e l’instaurazione di rapporti di collaborazione e che l’art. 7 di tale “commissioni esaminatrici”, non recepisce quanto suggerito dall’Odv nel parere espresso in data 31 luglio 2017 e approvato dal c.d.a. il 1 agosto 2017 sui criteri di nomina delle commissioni.
d) fa richiesta al c.d.a di chiarire se l’attuale regolamento per il reclutamento del personale ha abrogato quanto deliberato il 01 agosto 2017 sui criteri di nomina delle commissioni o se tali criteri sono ancora validi eventualmente integrando l’art. 7 e per quanto riguarda l’affidamento degli incarichi professionali di stabilire se sia da considerarsi ancora in vigore il precedente regolamento per la parte riferibile a tali conferimenti di incarichi ovvero si proceda alla predisposizione di un nuovo regolamento che vada a disciplinarli;
– in data 18/07/2018 nel verbale di riunione l’Odv:
a) raccomanda di prevedere una procedura di evidenza pubblica anche per le richieste di sponsorizzazione della Fondazione al fine di rendere più trasparente l’individuazione dello sponsor e permettere ad altri operatori economici di partecipare;
b) esamina a campione le modalità di affidamento del servizio di accoglienza e ospitalità per l’evento “BIFeST 2018” (per la quale è stato disposto l’avvio della procedura di affidamento diretto da assegnare con il criterio del minor prezzo attraverso un’indagine di mercato effettuata attingendo dall’elenco dei fornitori presente sulla piattaforma regionale Empulia a seguito della quale sono stati individuati cinque operatori idonei a soddisfare la domanda. Tra questi cinque operatori il servizio di accoglienza e ospitalità è stato affidato alla ditta PROTEM COMUNICAZIONE SRLS). Al fine di garantire l’integrità e la correttezza delle modalità di presentazione delle offerte, l’Odv suggerisce o di inserire una password che permetta l’apertura delle offerte dopo il termine di scadenza stabilito o che si proceda tramite invio delle offerte in busta chiusa;
c) esamina a campione gli affidamenti diretti di importo maggiormente rilevante assegnati all’interno dell’accordo di cooperazione per la realizzazione di servizi volti alla promozione della Puglia come destinazione turistica e come industria cinematografica tra Afc e PugliaPromozione (già sopra riportato). In particolare esamina la determina di affidamento diretto del 1/12/2017 all’associazione CHERLOVEKMAKAK per servizi di promozione e marketing nell’ambito della fiera internazionale di Mosca e la determina di affidamento diretto del 21/06/2018 alla stessa associazione per servizi di promozione, organizzazione e allestimento. L’Odv evidenzia che per tali affidamenti diretti la scelta dell’operatore è ricaduta sempre sullo stesso fornitore, (così come per un precedente affidamento diretto nell’ambito del progetto Riff 2017) e che dai servizi offerti non si evince l’esclusività e l’unicità degli stessi. Inoltre esamina la determina di affidamento diretto del 07/03/2018 alla SOCIETA’ COOP PASSO UNO PRODUZIONI, sempre nell’ambito dell’accordo succitato. Rispetto a questo affidamento diretto l’Odv rileva che, oltre a non rilevarsi dai servizi offerti l’esclusività e l’unicità degli stessi, le procedure sono state adottate con determinazioni del direttore generale e non con determinazione della responsabile unica del procedimento (rup). L’Odv esamina anche la determina di affidamento diretto dell’11/05/2018 al gruppo TERRAROSS e nella stessa data alla società LE BUL snc. L’odv osserva che in entrambi i casi non è stato adeguatamente motivato il ricorso all’affidamento diretto;
d) l’Odv esamina la nomina delle commissioni di valutazioni da parte del Direttore Generale a partire dal 1 agosto 2017 data in cui è stato ratificato il parere rilasciato dall’Odv. L’Odv rileva che nelle determine di nomina dei componenti delle commissioni non sono riportate le motivazioni che hanno condotto alla scelta dei commissari individuati da Apulia film commission, che non sono riportati i riferimenti alle dichiarazioni di assenza di conflitti di interessi e di cause di incompatibilità, che sul sito della Fondazione non vi è evidenza dei curricula dei commissari.
CONSIDERATO che Dai verbali dell’Odv si evince:
– l’assenza puntuale nella trasmissione dei flussi informativi sopra indicati;
– l’assenza dell’autorizzazione da parte del consiglio di amministrazione di Apulia Film Commission per l’accordo di cooperazione per la realizzazione integrata di servizi pubblici finalizzati alla valorizzazione, promozione e comunicazione della Puglia come destinazione turistica e come industria culturale cinematografica sottoscritta in data 20/10/2017 tra il presidente della Fondazione Apulia Film Commission e l’Agenzia Regionale PugliaPromozione con durata di tre anni a partire dall’accordo;
– l’assenza, all’interno del nuovo “regolamento per il reclutamento del personale dipendente e per l’instaurazione dei rapporti di collaborazione”, ( approvato dal c.d.a. in data 24 aprile 2018), delle procedure di affidamento di incarichi professionali, e il non recepimento, all’interno del l’art. 7 di tale regolamento “commissioni esaminatrici”, di quanto suggerito dall’Odv nel parere espresso in data 31 luglio 2017 e approvato dal c.d.a. il 1 agosto 2017 sui criteri di nomina delle commissioni;
– l’assenza di trasparenza nelle procedure finalizzate alla richiesta di sponsorizzazione della fondazione;
– la frequenza nell’utilizzo della procedura di affidamento diretto anche nelle more dell’assenza dei requisiti di unicità ed esclusività nei servizi offerti e la non chiarezza delle motivazioni che inducono all’individuazione di tale procedura di aggiudicazione;
– l’individuazione di soggetti affidatari direttamente da parte del direttore generale dell’Afc e non già da parte del rup;
– l’assenza nelle determine di nomina, delle motivazioni che hanno condotto alla scelta dei commissari delle commissioni esaminatrici, l’assenza dei riferimenti alle dichiarazioni di assenza di conflitti di interessi e di cause di incompatibilità, l’assenza sul sito della Fondazione dei curricula dei commissari;
Il sottoscritto Gianni Liviano nella sua qualità di consigliere regionale CHIEDE alle SS.VV di fornire chiarimenti in merito alle eccezioni sollevate dall’Odv e indicate nella presente interrogazione».
Dopo l’AFC anche Pugliapromozione nel ciclone per affidamenti diretti. Liviano: “Chi c’è dietro la Protem?”, scrive il 26 settembre 2018 Telerama News. Non c’è solo l’Apulia Film Commission a generare dubbi e sollevare polveroni per l’affidamento diretto di incarichi senza passare da procedure pubbliche. Nel mirino ora finisce anche Puglia Promozione, agenzia satellite della Regione Puglia. Nel primo caso a finire sotto la lente dell’Organismo di vigilanza interno di Apulia, e poi in una interrogazione e in una segnalazione alla Corte de Conti da parte del consigliere tarantino Gianni Liviano, sono stati gli incarichi per 37mila euro conferiti alla Protem Comunicazione per servizio accoglienza al Bi&Fest, e ripetuti affidamenti diretti alla Cherlovek makak, anch’essa di Lecce. Perché tanti e tutti diretti? Si chiede l’organismo di vigilanza. E la stessa domanda ora viene posta a Puglia Promozione. Con la specifica che dal 2016 al 2018 le cifre salgono e gli affidamenti diretti avrebbero superato anche l’ostacolo della soglia dei 40mila euro. A fare due conti sempre Liviano. E così, dai dati aggregati, risulterebbe che in due anni: l”88% di bandi si sarebbero chiusi con affidamenti diretti. Per la precisione 590 affidamenti per un valore di 11 milioni 110mila euro. Ma non solo: ci sarebbero anche 43 procedure negoziate previa pubblicazione del bando per un totale di euro 1 milione 648 mila euro, procedure senza bando per ulteriori 2 milioni di euro e altre varie procedure dello stesso tenore. In più alcune società come la Protem e la società Salento d’Amare che orbita sempre nel raggio della prima, risultano destinatarie di affidamenti. Di qui le nuove richieste di Liviano: “Considerato che in molti casi non sono indicati i nomi beneficiari degli affidamenti, che l’importo massimo consentito per questo tipo di procedura – 40mila euro – è stato superato spesso, che oltre alle due società già citate risultano essere stati assegnati fondi anche a associazioni datoriali come Confindustria e Confartigianato, perché si è agito così? E, chiude Liviano, “il rappresentante legale della Protem è vicino a personaggi impegnati nella politica?”. Intanto i vertici di Pugliapromozione difendono l’operato dell’agenzia spiegando che gli affidamenti diretti sono possibili. Che le scelte fatte hanno seguito le disposizioni normative, che la quasi totalità degli affidamenti diretti ha seguito procedure comparative. E che sarà tutelato il nome dell’agenzia.
Appalti, Pugliapromozione: affidamenti a società Protem senza gara. Dopo i rilievi su Apulia Film Commission. Ex assessore Gianni Liviano: «Nell'agenzia il 92% di contratti senza gara», scrive Massimiliano Scagliarini il 27 Settembre 2018 su "La Gazzetta del Mezzogiorno". Dal 2016 a oggi la società leccese Protem ha beneficiato da parte di Pugliapromozione di cinque affidamenti per un totale di 135mila euro, quattro dei quali senza gara. Un altro affidamento per 20mila euro (con gara) è andato alla Salento D’Amare, riconducibile a Massimiliano Torricelli, lo stesso amministratore della Protem. Dopo il caso degli appalti alla Apulia Film Commission, sollevato dall’Organo di vigilanza e amplificato da un esposto dell’ex assessore Gianni Liviano, la Protem spunta pure in un’altra delle agenzie regionali riconducibili al mondo della cultura. E la politica, specie quella salentina, rumoreggia. Torricelli è figlio dell’ex consigliere comunale del Pd di Lecce, Antonio, recentemente coinvolto nell’indagine sulle case popolari, uomo vicinissimo all’attuale assessore alla Cultura, Loredana Capone. In Protem ha lavorato come art director (non è un segreto: il suo curriculum è pubblicato su Linkedin) anche Antonio Martella, che tutti ricordano in Regione nella segreteria della Capone nell’assessorato allo Sviluppo economico, dove si occupava dei rapporti con le Camere di commercio pugliesi. Liviano, ex assessore alla Cultura, fatto fuori da Emiliano proprio per via di un affidamento diretto alla società di un suo amico, ieri ha presentato una seconda interrogazione incentrata proprio sugli affidamenti diretti in Pugliapromozione e sul ruolo di Protem. Ne emerge che dal 2016 a venerdì scorso l’agenzia regionale per il turismo ha effettuato 590 affidamenti diretti, pari all’88% degli affidamenti totali, per 11 milioni di euro, pari al 70% di quanto complessivamente speso. Se si aggiungono le 63 procedure negoziate, si sale al 92% della spesa totale effettuata senza procedura di gara. «L’importo massimo di 40.000 euro per l’affidamento diretto risulta essere superato in svariate circostanze - secondo Liviano - e alcune società, come Protem e Salento d’Amare, risultano essere destinatarie svariate volte di affidamenti diretti». «Il consigliere Liviano ha preso una cantonata - risponde il direttore generale Matteo Minchillo - anche le procedure sotto soglia hanno avuto contenuto comparativo, quegli affidamenti diretti con unico partecipante sono motivati dal fatto che si tratta di attività in continuazione rispetto ad altre attività affidate con procedura comparativa. Ma siamo comunque molto lontani dall’80% di cui parla Liviano».
"Affidamenti diretti". L' attacco di Liviano a PugliaPromozione finirà in Tribunale, scrive il 28 settembre 2018 "Il Corriere del Giorno". Puntuale ed immediata la replica di Matteo Minchillo direttore generale di PugliaPromozione: “Nessun caso appalti. Le affermazioni del consigliere regionale Giovanni Liviano che riguardano i bandi e gli affidamenti diretti di PugliaPromozione sono false, appaiono strumentali e sono fortemente lesive dell’immagine dell’Agenzia regionale PugliaPromozione. Per questo l’Agenzia intraprenderà ogni azione possibile per tutelare il proprio operato”. Nella sua interrogazione il consigliere regionale del Gruppo Misto (eletto nelle liste di Emiliano) , il tarantino Gianni Liviano si chiede “Perché PugliaPromozione ha fatto un uso diffuso dell’istituto dell’affidamento diretto anche per importi superiori ai 40mila euro? E quali sono le ragioni per le quali risultano ancora aperte procedure del 2017 oltre che del 2018 e quali le ragioni per cui spesso non sono indicati i nomi delle società aggiudicatarie dei bandi?”. Questi alcuni dei quesiti alla base dell’interrogazione che il consigliere regionale ha indirizzato al presidente del Consiglio regionale, Mario Loizzo, e per conoscenza al presidente della Giunta regionale, Michele Emiliano, ed all’ Anac l’ Autorità nazionale anticorruzione. Un’interrogazione molto dettagliata quella di Liviano che quanto riguarda l’attività di PugliaPromozione, l’agenzia regionale per la promozione turistica pugliese che punta a fare chiarezza su diversi punti. Tra le contestazioni evidenziate da Liviano nella sua interrogazione il fatto “che alcune società, a mero titolo esemplificativo si cita la società Protem srl e la società Salento d’amare, risultano essere svariate volte destinatarie di affidamenti diretti e che risultano essere destinatari di fondi alcune associazioni datoriali, Confindustria Lecce e Confartigianato Lecce”. Una nostra fonte interna alla società di promozione regionale, racconta che la rabbia di Livianosarebbe esplosa dopo i ripetuti rifiuti del vertice di Puglia Promozione ad assumere l’addetto stampa del consigliere regionale, sin dai tempi in cui era assessore al turismo, incarico da cui dovette dimettersi dopo aver assegnato un contratto ad un suo sostenitore elettorale. Puntuale ed immediata la replica di Matteo Minchillo direttore generale di PugliaPromozione : “Nessun caso appalti. Le affermazioni del consigliere regionale Giovanni Liviano che riguardano i bandi e gli affidamenti diretti di PugliaPromozione sono false, appaiono strumentali e sono fortemente lesive dell’immagine dell’Agenzia regionale PugliaPromozione. Per questo l’Agenzia intraprenderà ogni azione possibile per tutelare il proprio operato”. Minchillo evidenzia invece come “PugliaPromozione procede secondo la legge, con bandi e procedure ad evidenza pubblica» e precisa che “non è vero affatto che il 92 per cento delle attività dell’agenzia sono state assegnate con affidamento diretto; lo stesso Liviano parla di 670 bandi, il che vuol dire che a monte dell’affidamento esiste sempre una procedura ad evidenza pubblica. La polemica dunque del consigliere è finalizzata a generare l’idea, da lui affermata, che PugliaPromozione eroghi risorse a pioggia senza procedure comparative. È questo il dato falso che lede l’immagine di PugliaPromozione le cui procedure sono invece assistite da trasparenza e correttezza, oltre che nel rispetto delle norme del codice”. Il direttore dell’Agenzia Regionale del Turismo pugliese ricorda inoltre che il Collegio dei Revisori dei Conti “non ha mai mosso rilievi, così come gli organi di controllo europei, che hanno certificato la spesa, validando le procedure. Il consigliere Liviano riporta dati confusi e mischiati e definisce affidamenti diretti quelli che sono quasi sempre atti di conclusione di procedure di evidenza pubblica. Ora, come quando lui era Assessore al Turismo. I reali affidamenti diretti nel 2018, per esempio, sono solo due. Se il consigliere Liviano avesse richiesto all’Agenzia le informazioni di cui aveva bisogno, gli sarebbero state prontamente fornite”. Minchillo elenca alcuni numeri abbastanza significatici ed indicativi: “Ai bandi e alle procedure di evidenza pubblica hanno partecipato centinaia di imprese e di associazioni: dal 2016 al 2018 sono stati 909 i partecipanti a Inpuglia 365 fra imprese, associazioni e comuni per un totale di 3 milioni 627.541 euro. Dal 2017 ad oggi sono stati 216 i partecipanti al bando per gli infopoint per un totale di 2 milioni 407mila euro; persino sugli educational Pugliapromozione effettua avvisi pubblici, perché riteniamo che attraverso una sana competizione tra i territori si può ottenere una migliore promozione dell’intera Puglia. Perciò – conclude la nota – le accuse lanciate dal consigliere appaiono doppiamente lesive dell’immagine dell’Agenzia, della Regione e dell’intera Puglia con il suo comparto turistico”.
Liviano attacca, PugliaPromozione risponde. Il consigliere: "Si sta accontentando tutti". La replica: "Falso!" Scrive il 27 settembre 2018 "Il Corriere di Taranto". “Perché PugliaPromozione ha fatto un uso diffuso dell’istituto dell’affidamento diretto anche per importi superiori ai 40mila euro? E quali sono le ragioni per le quali risultano ancora aperte procedure del 2017 oltre che del 2018 e quali le ragioni per cui spesso non sono indicati i nomi delle società aggiudicatarie dei bandi?”. Sono solo alcuni dei quesiti alla base dell’interrogazione che il consigliere regionale del Gruppo Misto, Gianni Liviano, ha indirizzato al presidente del Consiglio regionale, Mario Loizzo, e per conoscenza al presidente della Giunta regionale, Michele Emiliano, nonché al responsabile dell’Anac. Questa volta è l’attività di PugliaPromozione, agenzia regionale per la promozione turistica, a finire sotto la lente di ingrandimento del consigliere Liviano. Un’interrogazione molto dettagliata per quanto riguarda l’attività di PugliaPromozione e che punta a fare chiarezza su diversi punti. “Al di là della dimensione etica dell’intera vicenda che segnalo nella mia interrogazione – spiega Liviano -, il ricorso agli affidamenti sotto soglia significa che, così, si sta accontentando un po’ tutti e che, quindi, alla base non c’è un vero progetto nè una programmazione degna di tal nome”. Altri punti evidenziati nell’interrogazione, il fatto che alcune società risultano essere svariate volte beneficiare di affidamenti diretti e che risultano essere destinatari di fondi anche associazioni datoriali. Di qui la risposta del Direttore generale di Pugliapromozione Matteo Minchillo: “Nessun ‘caso appalti’ in Pugliapromozione. Le affermazioni del consigliere regionale Giovanni Liviano che riguardano i bandi e gli affidamenti diretti di Pugliapromozione sono false, appaiono strumentali e sono fortemente lesive dell’immagine dell’Agenzia regionale Pugliapromozione. Per questo l’Agenzia intraprenderà ogni azione possibile per tutelare il proprio operato. Pugliapromozione procede secondo la legge, con bandi e procedure ad evidenza pubblica. Non è vero affatto che il 92 per cento delle attività dell’agenzia sono state assegnate con affidamento diretto; lo stesso Liviano parla di 670 bandi, il che vuol dire che a monte dell’affidamento esiste sempre una procedura ad evidenza pubblica. La polemica dunque del consigliere è finalizzata a generare l’idea, da lui affermata, che Pugliapromozione eroghi risorse a pioggia senza procedure comparative. E’ questo il dato falso che lede l’immagine di Pugliapromozione le cui procedure sono invece assistite da trasparenza e correttezza, oltre che nel rispetto delle norme del codice. Ciò emerge chiaramente dal sito di Pugliapromozione su cui sono pubblicate tutte le determine delle procedure ad evidenza pubblica, tra cui bandi ed avvisi. D’altronde il Collegio dei Revisori dei Conti non ha mai mosso rilievi, così come gli organi di controllo europei, che hanno certificato la spesa, validando le procedure. Il consigliere Liviano riporta dati confusi e mischiati e definisce affidamenti diretti quelli che sono quasi sempre atti di conclusione di procedure di evidenza pubblica. Ora, come quando lui era Assessore al Turismo. I reali affidamenti diretti nel 2018, per esempio, sono solo due. Se il consigliere Liviano avesse richiesto all’Agenzia le informazioni di cui aveva bisogno, gli sarebbero state prontamente fornite in modo completo e probabilmente non avrebbe inteso le definizioni associate ai Cig (codici identificativi di gara), presenti sul DMS, come reali “affidamenti diretti”, ma come atti conclusivi delle procedure selettive, come realmente sono. Del resto è noto, invece, anche a tutti agli organi di stampa che ne hanno dato ampia diffusione, che ai bandi e alle procedure di evidenza pubblica di Pugliapromozione – Inpuglia 365, infopoint, co-branding, educational, media Planning – hanno partecipato centinaia di imprese e di associazioni: dal 2016 al 2018 sono stati 909 i partecipanti a Inpuglia 365 fra imprese, associazioni e comuni per un totale di 3 milioni 627.541 euro. Dal 2017 ad oggi sono stati 216 i partecipanti al bando per gli infopoint per un totale di 2 milioni 407mila euro; persino sugli educational Pugliapromozione effettua avvisi pubblici, perché riteniamo che attraverso una sana competizione tra i territori si può ottenere una migliore promozione dell’intera Puglia. E questo solo per fare alcuni esempi. Per ottenere le risorse di Pugliapromozione, insomma, concorrono i comuni, le imprese, le agenzie perché più ampia é la partecipazione e più si va verso la qualità delle proposte selezionate. Questo è stato l’indirizzo dell’Assessorato al Turismo e questa la strategia contenuta nel Piano strategico del Turismo. Perciò le accuse lanciate dal consigliere appaiono doppiamente lesive dell’immagine dell’Agenzia, della Regione e dell’intera Puglia con il suo comparto turistico”.
Questo, invece, il testo dell’interrogazione di Gianni Liviano:
“PREMESSO
– che come si evince dal sito agenziapugliapromozione,it, nella pagina indicata come bandi di gara e contratti: informazioni sulle singole procedure in formato tabellare, l’agenzia regionale Pugliapromozione ha aggiudicato nel periodo dal 1/1/2016 al 21/9/2018 un numero pari a 670 bandi per un ammontare complessivo di euro 15.833.225,22;
– che tali bandi sono stati così ripartiti:
1. anno 2018 n. 182 per un ammontare complessivo di euro 5.550.873,11;
2. anno 2017 n. 362 per un ammontare complessivo di euro 8.191.098,00;
3. anno 2016 n. 126 per un ammontare complessivo di euro 2.141.254,11;
– che nell’anno 2018 i bandi sono stati aggiudicati secondo le seguenti procedure:
1. n. 159 AFFIDAMENTI IN ECONOMIA: AFFIDAMENTI DIRETTI per un totale di euro 2.598.452;
2. n. 1 PROCEDURA risultante ancora APERTA per un totale di euro 408.900,00;
3. n. 2 PROCEDURE NEGOZIATA PREVIA PUBBLICAZIONE DEL BANDO per un totale di euro 269.881,14;
4. n. 19 PROCEDURE NEGOZIATE SENZA PUBBLICAZIONE DEL BANDO per un totale di euro 2.003.639,63;
5. n 1 PROCEDURA NEGOZIATA DERIVANTE DA AVVISI CON CUI SI INDICE LA GARA per un totale di euro 220.000,00;
– che nell’anno 2017 i bandi sono stati aggiudicati secondo le seguenti procedure:
1. n. 321 AFFIDAMENTI IN ECONOMIA. AFFIDAMENTI DIRETTI per un totale di euro 6.902.811,00;
2. n.1 PROCEDURA risultante ancora APERTA per un totale di euro 9.049,00;
3. n. 38 PROCEDURE negoziate PREVIA pubbl. bandi per un totale di euro 1.054.147,11;
4. n. 2 PROCEDURE ristrette derivanti da AVVISI con cui si indice la gara per un totale di euro 228.722,00;
– che nell’anno 2016 i bandi sono stati aggiudicati secondo le seguenti procedure:
1. 110 AFFIDAMENTI IN ECONOMIA: AFFIDAMENTI DIRETTI per un totale di euro 1.606.119,95;
2. n. 2 AFFIDAMENTI IN ECONOMIA: COTTIMO FIDUCIARIO per un totale di euro 28.000;
3. n. 3 PROCEDURE NEGOZIATE PREVIA PUBBLICAZIONE BANDO per un totale di euro 324.197,00;
4. N. 10 PROCEDURE RISTRETTE per un totale di euro 171.063,16;
5. N. 1 PROCEDURE NEGOZIATE SENZ A pubblicazione di bando per un totale di euro 11.875;
che pertanto nel triennio considerato, i dati risultano così aggregati:
1. n. 590 AFFIDAMENTI DIRETTI (88,05% dei bandi complessivi) per un totale di euro 11.110.383,29 euro (pari al 70% dell’importo complessivo erogato);
2. n. 43 PROCEDURE NEGOZIATE PREVIA PUBBLICAZIONE BANDO (6,42% deibandi complessivi) per un totale di euro 1.648.225 (pari al 10,41%);
3. n. 20 PROCEDURE NEGOZIATE SENZA PUBBLICAZIONE BANDO (2,98%) per un totale di euro 2.015.514,63 (pari al 12,73%);
4. n. 3 PROCEDURE NEGOZIATE DERIVANTI DA AVVISI CON CUI SI INDICE LA GARA per un totale di euro 428.722,00;
5. n. 10 PROCEDURE RISTRETTE per un totale di euro 171.063,16;
6. n. 2 AFFIDAMENTI A COTTIMO FIDUCIARIO per un totale di euro 28.000;
7. n. 2 PROCEDURE NEGOZIATE DERIVANTI DA AVVISI CON CUI SI INDICE LA GARA per un totale di euro 428.722;
8. n. 2 PROCEDURE APERTE per un totale di euro 417.949,00.
CONSIDERATO:
– che in molti casi non sono indicati sul sito i nomi di soggetti di impresa beneficiari di affidamenti diretti o di procedure negoziate previa pubblicazione dei bandi;
– che l’importo massimo di 40.000 per l’affidamento diretto risulta essere superato in svariate circostanze;
– che alcune società (a mero titolo esemplificativo si cita la società Protem srl e la società Salento d’amare) risultano essere svariate volte destinatarie di affidamenti diretti;
– che risultano essere destinatari di fondi alcune associazioni datoriali (Confindustria Lecce e Confartigianato Lecce p.e.s);
CHIEDE ALLA S.V.
– di conoscere le ragioni per cui sono state adottate queste modalità nell’aggiudicazione dei bandi;
– in particolare le ragioni per cui si è fatto un utilizzo così diffuso dell’istituto dell’affidamento diretto anche per importi superiori a 40.000;
– se il rappresentante legale della società Protem è persona vicina a personaggi impegnati nel mondo della politica;
– quali sono le ragioni per cui risultano sul bando ancora aperte procedure nel 2017 (oltre che del 2018);
– quali sono le ragioni per cui nel sito non sono spesso indicati i nomi delle società aggiudicatarie dei bandi”.
Il capogruppo di FI in Consiglio regionale, Rocco Palese, ha rilasciato la seguente dichiarazione: "Il Sindacato lavoratori della Comunicazione (Slc) aderente alla Cgil concorda come noi sull'illegittimità ed inutilità del progetto “Puglia Night Parade” 2008, puntando il dito accusatore sui benefici e sui ritorni dell'iniziativa tanto decantati dall'accoppiata Ostillio-Vendola, mente e braccio del più colossale spreco di denaro pubblico che la storia regionale ricordi e rileva che dei 6 milioni di euro della spesa prevista, solo il 5% (300.000 euro) andrà agli artisti pugliesi, mentre la parte da leone la faranno artisti di fama nazionale ed internazionale, il cui “peso" nel cast individuato è pari all'88%.
"Per giorni ho resistito alla tentazione di chiamare giornali e tv per dire ciò che penso sulla questione Notti Bianche regionali; ma essendo venuto a conoscenza di troppi particolari, non posso che gridare Vergogna! - Questo dice Mauro Arnesano, della “Notte Bianca” di Lecce... quella vera! - Per due anni consecutivi ho organizzato a Lecce l’evento “Notte Bianca”, che ha coinvolto ogni volta circa 300.000 persone, consentendo a chiunque ha voluto aderire la possibilità di esserci, di farsi conoscere, di divertirsi. Il tutto è stato sempre organizzato CON IL SOLO CONTRIBUTO DI PRIVATI, SENZA RICEVERE UN SOLO EURO NE’ DALLA REGIONE PUGLIA, NE’ DAL COMUNE DI LECCE, NE’ DALLA PROVINCIA DI LECCE. Le richieste di contributo non hanno avuto neanche l'onore di una risposta, sarebbe costata al massimo 60 centesimi di francobollo".
Oggi la Regione Puglia spende circa 6 MILIONI di Euro, di danari di tutti, per organizzare un evento “Le Notti Bianche Regionali”, il corrispondente dell’intera somma prevista per la cultura regionale nel quinquennio 2007-2013.
Io, nell’organizzare la Notte Bianca a Lecce, ho scelto una strategia completamente diversa: ho preferito 57 eventi gratuiti dislocati in tutta la città, coinvolgendo anche le periferie fino alle più tarde ore possibili (mission dell'evento, far vivere i luoghi della città di notte); ho scelto di promuovere gli artisti locali (che rappresentavano il 90% dell’offerta culturale), anziché pagare solo quelli di fuori; ho coinvolto nell’apertura gli esercizi commerciali, ma anche musei, luoghi di interesse architettonico e culturale, Università, Fondazioni, Enti, Associazioni di volontariato, culturali etc etc. Ho scelto un periodo morto, quando “non gira una lira”, ed ho saputo offrire il tutto esaurito ad alberghi, Ristoranti, Bar, Pub, bed and breakfast ed anche alle Ferrovie dello Stato sulla tratta Roma-Lecce. Dopo tutto questo bel lavoro (che è stato possibile solo grazie alla collaborazione dei volontari, che non hanno preso un Euro ed hanno lavorato notte e giorno, con me per primo), qualcosa però abbiamo ricevuto dalla Regione, il patrocinio GRATUITO del Presidente della Regione Vendola e dell'assessore Godelli: come si direbbe volgarmente in gergo, “se è gratis, ungimi tutto”….
Regione Puglia. L' assessore Capone querela il consigliere regionale Gianni Liviano, scrive Il Corriere del Giorno il 24 ottobre 2018. Anche l’ agenzia Pugliapromozione si riserva di procedere con ogni azione possibile a tutela della sua immagine., nei confronti del consigliere regionale tarantino del Gruppo misto, Gianni Liviano. “Dietro un’agenzia come questa, ci sono persone che ogni giorno si impegnano con passione e responsabilità, gestiscono fondi pubblici per la promozione turistica del territorio, con risultati che sono sotto gli occhi di tutti, e sono profondamente colpite da affermazioni del tutto infondate che discreditano l’onorabilità personale e dell’ente”. Il consigliere regionale tarantino del Gruppo misto, Gianni Liviano, che è stato per un brevissimo periodo anche assessore della Giunta Emiliano, essendo stato eletto in una delle liste civiche a supporto della candidatura a Governatore di Michele Emiliano, non si dà pace e continua a generare sospetti sugli appalti dell’ agenzia regionale Pugliapromozione, attaccando l’assessore regionale alla Cultura e turismo, Loredana Capone (la quale ha sostituito proprio Liviano dopo le sue dimissioni alla guida dell’ assessorato) accusandola di aver favorito alcuni soggetti, nella gestione dei fondi pubblici sul turismo. Quegli stessi fondi per cui il consigliere regionale tarantino a suo tempo dovette dimettersi. Il consigliere regionale tarantino ieri mattina in una conferenza stampa ha sostenuto che le sue sei interrogazioni relativamente alle partecipate regionali Pugliapromozione, Apulia Film Commission e Teatro Pubblico Pugliese sarebbero tutte rimaste senza risposta . Nelle sue interrogazioni Liviano poneva tutta una serie di interrogativi in relazione ad assunzioni, nomine dei componenti esterni, bandi e finanziamenti rivolgendosi anche al presidente del consiglio regionale, Mario Loizzo, ed al presidente della Giunta regionale, Michele Emiliano, chiedendo se i bandi di gara contenessero requisiti ed elementi di valutazione obiettivi che garantiscano a chiunque partecipi pari opportunità e assenza di “valutazione privilegiata“. Liviano ha insistito ieri in particolare su un punto evidenziando “l’adozione con frequenza inaudita dell’affidamento diretto nella erogazione di fondi da parte delle partecipate regionali”. Livianoha chiesto inoltre “per quale ragione sono sempre frequenti i nominativi di alcune società e per quali ragioni alcune aziende risultano appartenenti sempre alle stesse persone, in una sorta di meccanismo a scatole cinesi. Vorrei anche sapere se è vero che alcune persone che hanno lavorato negli anni con l’assessore Capone sono dipendenti, hanno o hanno avuto delle prestazioni lavorative con alcune di queste società“. Non contento delle gravi accuse mosse al termine della conferenza stampa Liviano ha voluto anche polemizzare con il presidente Emiliano: “Ha parlato di sforzo da parte dell’Agenzie di superare le rigidità burocratiche e mi fa specie che un presidente della Regione, per di più magistrato, immagini che le leggi siano delle rigidità burocratiche, ma comprendo che a seconda dell’opportunità del momento valga tutto ed il contrario di tutto“. Con una nota l’assessore regionale alla Cultura e al Turismo Loredana Capone oltre ad annunciare delle azioni legali, ha replicato alle gravi affermazioni odierne del consigliere regionale Gianni Liviano: “Il consigliere Liviano ha varcato ogni limite di tolleranza e di pazienza. Sino a quando si esercitano le legittime prerogative del consigliere rispetto all’azione amministrativa della Giunta e degli Assessori è un discorso, ma quando la critica politica si trasforma, come in questo caso, in gravissime illazioni e si attaccano direttamente le persone, allora non può essere tollerata, specie da chi, come me, ha sempre improntato il proprio operato all’onestà, alla legittimità ed alla correttezza dei comportamenti. Sono costretta, pertanto, ad intraprendere ogni azione giudiziaria, civile e penale nei confronti del consigliere Liviano a tutela del mio buon nome, del mio operato e dell’immagine dell’Assessorato che rappresento“. L’ assessore Capone prosegue nella sua nota: “In merito alle 7 interrogazioni del consigliereGiovanni d’Arcangelo Liviano nonostante ne abbia appreso l’esistenza dai suoi comunicati stampa, ho chiesto subito alle agenzie regionali, Pugliapromozione, Apulia Film Commission eTeatro Pubblico Pugliese, di fornirmi una dettagliata relazione in merito alle richieste e alle osservazioni del consigliere, impegnando su ogni opportuna verifica anche il dirigente della sezione competente“. La Capone conclude la sua nota precisando inoltre che “Ho già inoltrato le risposte alle prime interrogazioni inerenti il Teatro Pubblico Pugliese ed Apulia Film Commission ed attendo il completamento dell’istruttoria di Pugliapromozione per inoltrare le altre“. A confutare le gravi accuse di Liviano, anche una nota di Matteo Minchillo Direttore Generale di Pugliapromozione: “Il Consigliere D’Arcangelo Liviano è confuso e dice cose incoerenti con la realtà. Oggi in conferenza stampa è tornato a parlare delle presunte irregolarità relative all’aggiudicazione dei bandi di Pugliapromozione. Sostiene, infatti, che dei 670 «bandi» di Pugliapromozione, 590 sarebbero affidamenti diretti. Ha detto bene: bandi. Il che vuol dire che il consigliere sa che a monte dell’affidamento esiste sempre una procedura ad evidenza pubblica. Perché le definizioni associate ai Cig (codici identificativi di gara), presenti sulla piattaforma DMS(Destination Management System), non sono sempre “affidamenti diretti», ma soprattutto atti conclusivi di procedure selettive“. “Le sue illazioni – prosegue la nota di Matteo Minchillo– sono sconfessate dai dati. Dal 2016 al 2018 gli affidamenti diretti sono stati solo il 7,6% del totale, le gare il 78,6% mentre il 13,8% affidamenti ad esclusivisti (Fiera di Rimini, Fiera di Milano Bit, ecc.). Per quanto riguarda l’avvicendamento delle imprese affidatarie, su cui Liviano mostra delle perplessità, un dato per tutti: dal 2012 la percentuale di rotazione è di oltre 70%. D’altra parte il consigliere Liviano afferma che negli affidamenti diretti «il più gettonato» sarebbe un gruppo di società; di fatto gli affidamenti alle società di tale gruppo incidono sul monte totale nell’ultimo triennio per lo 1,86%“. “Puntualmente l’Agenzia sta ultimando le relazioni richieste dall’Assessore in riscontro alle interrogazioni del Consigliere Liviano a cui sarà data risposta in sede di Consiglio regionale. – conclude la nota del Direttore Generale Minchillo. “Nel frattempo l’Agenzia Pugliapromozione si riserva di procedere con ogni azione possibile a tutela della sua immagine. Dietro un’agenzia come questa, ci sono persone che ogni giorno si impegnano con passione e responsabilità, gestiscono fondi pubblici per la promozione turistica del territorio, con risultati che sono sotto gli occhi di tutti, e sono profondamente colpite da affermazioni del tutto infondate che discreditano l’onorabilità personale e dell’ente”.
Striscia la Notizia 24 novembre 2018 il servizio di Pinuccio sull’appaltopoli pugliese. Pinuccio intervista l’Avv. Loredana Capone, Assessore Turismo e Cultura della Regione Puglia.
Pinuccio all’esterno sulla spiaggia: Carissimi amici ritorniamo a parlare di appalti in Puglia. Qualche tempo fa vi abbiamo fatto vedere alcune società con nomi di fantasia: Polpo, Pasticiotto, Riccio che erano tutte collegate alle stesse persone...ad una stessa società, che si chiama Protem. Abbiamo cominciato a fare questi servizi perché l’organo interno di valutazione della Regione aveva sollevato alcuni dubbi rispetto alla rotazione delle aziende che vincevano appalti, soprattutto in alcuni settori: quelli della Cultura e del Turismo. A questo punto andiamo a parlare con l’assessore che si occupa di turismo e cultura per avere dei chiarimenti. No Sabino?
Sabino: sono emozionato.
Capone: Gli affidamenti diretti sono una percentuale minima, mediamente il 7, 6% nel corso del triennio. Il resto sono procedure di gare o procedure negoziate.
Pinuccio: anche sulle procedure negoziate, diciamo, non è proprio trasparente il sito. Perché diciamo che nella procedura negoziata io vorrei sapere chi partecipa.
Capone: appunto è tutto qui guardi.
Pinuccio: E sì però non è online.
Pinuccio all’esterno: l’organo di valutazione interna dice un fatto, lei ne dice un altro.
Sabino: se la vedessero loro.
Pinuccio all’esterno: se la vedessero loro, però poi ci sono state anche delle interrogazioni che hanno sollevato alcuni dubbi all’interno dell’assegnazione dei bandi di “Puglia Promozione”, che è quest’ente che si occupa di turismo che dipende sempre dallo stesso assessorato. E si sono fatte, anche, in queste interrogazioni dei nomi. Dei nomi di persone che sono di Protem, questa società, e che però vengono accostate alla Capone. Ovvero: Conte e Martella. Li conosci Sabino?
Sabino: non li conosco.
Pinuccio all’esterno: però queste persone vengono taggate nelle foto della Capone in campagna elettorale. Sai che vuol dire?
Sabino: non conosco questo tago.
Pinuccio all’esterno: no, taggato vuol dire ti taggo, così poi magari vieni, vieni a vedere, così il fatto. Queste due persone l’assessore le conosce.
Pinuccio: è curioso, è una coincidenza vedere che alcuni dello staff elettorale che l’hanno appoggiata anche in campagna elettorale si trovano a lavorare in queste aziende.
Capone: una cosa sono le coincidenze, una cosa è la legalità. Per noi vale la legge. E non ci sono coincidenze che tengano.
Pinuccio: diciamo che è gente che lei può avere incontrato come ha incontrato migliaia di persone.
Pinuccio all’esterno: Sabino, allora sarà pure una coincidenza che ha fatto la testimone di nozze a Martella insieme a Conte.
Sabino: sicuro?
Pinuccio all’esterno: e che cosa ti devo dire.
Capone: quando lei ha fatto il servizio che io ho visto e di cui la ringrazio, ho chiesto subito chiarimenti a Puglia Promozione e devo dire anche all’ufficio, perchè potesse fornirmi, diciamo, delucidazioni, rispetto a queste aziende che sembrano collegate dal suo…
Pinuccio: parliamo del gruppo Protem. Sono collegate. Sono le stesse persone del gruppo di amministrazione.
Capone: ecco. Questi chiarimenti sono stati forniti con una nota che abbiamo depositato, proprio in risposta anche all’interrogazione, che poi il giorno dopo è stata fatta. Ed emerge come la procedura è stata fatta nella piena legalità. Se ci sono, come dire, delle elusioni della norma, di quello si tratterebbe. Ben venga che magari ci sia un regolamento ancora più intransigente. Ancora più, come dire, stringente, relativamente a questa opportunità. Però sempre rispettando il codice degli appalti, perché altrimenti avremmo il caso contrario. Avremmo il ricorso da parte delle imprese.
Pinuccio: qua si parla di opportunità.
Pinuccio all’esterno: Un’altra coincidenza è che del gruppo Protem, di queste società, uno dei soci che vediamo spesso è Gabriele Torricelli, che è il vice segretario cittadino di Lecce del PD. Sabino questo lo deve conoscere per forza.
Sabino: io non ti conosco…
Capone: io conosco Torricelli Gabriele senz’altro. Sta ne PD. Io sono del PD ed ovviamente sono assessore regionale che è eletta in quel collegio. Ma questo prescinde totalmente dal mio rapporto con le agenzie e con le gare.
Pinuccio all’esterno: Va bè. Questo lo conosce, però la legge. Tutto legale. Non centra niente con le società.
Sabino: conoscere non vuol dire amare.
Pinuccio all’esterno: va bè, però c’è una coincidenza strana. Quando la Capone diventa assessore allo sviluppo economico nasce la Protem, che si occupa di software e in qualche modo lavora con l’assessorato. Quando la Capone è diventata assessore al turismo nascono due società con le stesse persone, che si occupano di turismo ed ottengono finanziamenti da Puglia Promozione, ovvero dall’assessorato al turismo.
Sabino: io non ti conosco…
Pinuccio all’esterno. Adesso parliamo di altre due società riconducibili ad una stessa persona che si chiamano Password Ad e 365 giorni in Puglia. Anche queste lavorano con Puglia Promozione, ma queste, Sabino, le deve conoscere per forza.
Sabino: io non ti conosco…non so chi sei…
Pinuccio: La società Password Ad le dice qualcosa?
Capone: …no!
Pinuccio: è colei che ha comprato il dominio del sito “LoredanaCapone.it” e lavora con Puglia Promozione. Anche questa è una coincidenza che però….
Capone: Password Ad….
Pinuccio: Puglia 365….non le dice niente? Sono due società gemelle.
Capone: non conosco. Non lo gestisco neanche direttamente. Quindi…non conosco questa persona.
Pinuccio: lo gestisce una società, comunque…
Capone: nel senso che è il dominio...no, no…
Pinuccio: il sito lo gestisce un’altra società.
Capone: no! Nel senso che c’è una società che ha il dominio, di cui, oggettivamente, non ricordo neppure il nome, perché feci una cool ed ha vinto questa società.
Pinuccio fuori capo: sono titolari del suo sito personale, ma non li conosce. Quindi è un poco ingrata, Sabino…
Sabino: mi spiace ma non li conosco
Pinuccio all’esterno: Sabino, non si ricorda. Ora gli facciamo vedere un video, in cui si capisce che lei e il titolare di queste aziende si conoscono.
Sabino: io non li conosco…
Pinuccio all’esterno: vedete, qui a sinistra, c’è il titolare di Password AD e sentite la Capone cosa dice: “tre anni fa…no quattro anni fa andai a vedere…Diciamo, ho ricevuto Nevio che mi ha chiesto: ma perché la regione non si interessa alla nostra fiera?”
Pinuccio all’esterno: Adesso parliamo di una persona che conosce sicuramente: Alessandra Caiulo, che in queste foto di facebook di Loredana Capone faceva parte del suo staff in campagna elettorale. Questa persona ha delle consulenze al Teatro Pubblico Pugliese, che è un altro ente che dipende dall’Assessorato alla Cultura ed il Turismo e nel 2016 ha avuto una consulenza da Puglia Promozione per seguire un evento della Protem cofinanziato da Puglia Promozione. Pure l’evento, Sabino…
Sabino: questa neppure la conosco…
Pinuccio all’esterno: Tutto legale…
Capone: Alessandra Caiulo lavora con una attività in Teatro Pubblico Pugliese e segue tutte le attività culturali che noi facciamo con il Teatro Pubblico Pugliese. Quindi è frequentemente accanto a me perché si occupa proprio della comunicazione culturale proprio in virtù di questo ruolo che svolge.
Pinuccio all’esterno: Sabino, allora sono solo rapporti istituzionali con questa persona. Però nelle foto che adesso vediamo, insomma, sembrano un poco amiche. Sta pure questo video boomerang. Abbiamo trovato una intervista alla Caiulo, in cui lei stessa conferma di essere addetto stampa dell’assessore dal 2011. Ma è addetto stampa dell’assessore o è consulente del Teatro Pubblico Pugliese?
Sabino: boh…non ho capito!
Pinuccio all’esterno: Però noi ci poniamo una domanda: tutto legale, sì, però è una questione di opportunità. Ovvero: è opportuno che persone che hanno fatto parte dello staff elettorale di un politico, in questo caso di un assessore, poi si ritrovano ad orbitare nell’attività dell’assessorato? Sabino vuoi dire qualche cosa?
Sabino: io non ti conosco...non so chi sei?
NOEMI DURINI. IL DELITTO DI SPECCHIA.
Noemi una morte annunciata e le solite responsabilità.
Noemi, la madre in tribunale: «Sono fiduciosa», scrive Il Quotidiano di Puglia Giovedì 4 Ottobre 2018. «Ce la faremo a fare giustizia, ragazzi, ce la faremo. Oggi é il giorno della verità che tutti, specialmente io, stiamo aspettando da un anno». Lo ha detto Imma Rizzo, la madre di Noemi Durini, parlando con i giornalisti al suo arrivo al Tribunale dei Minorenni di Lecce dove é in corso l'ultima udienza del processo, con rito abbreviato, in cui é imputato Lucio Marzo, il 18enne di Montesardo salentino reo confesso dell'omicidio della sua fidanzata Noemi, uccisa il 3 settembre del 2017. Il corpo della ragazza fu scoperto solo dopo 10 giorni sotto un cumulo di pietre in una campagna di Castrignano del Capo. Imma Rizzo é arrivata accompagnata dalla figlia Benedetta e dal suo legale, l'avvocato Mario Blandolino. È tutta vestita di verde. «Come la speranza che non ho mai perso», ha risposto ai giornalisti che le facevano notare il significato del colore dei suoi vestiti. «Sono serena - ha aggiunto Rizzo - perché sono stata sempre fiduciosa, sin dal primo giorno. Vediamo se oggi cominceranno a funzionare un pò queste leggi». La madre di Noemi, nei due giorni precedenti il processo iniziato il 2 ottobre, aveva preferito non essere presente in aula. «Ho preferito restare in disparte e ascoltare - ha spiegato - ma oggi é il giorno della verità». In aula é presente anche il padre di Noemi, Umberto, e il nonno Vito. Non ci sono invece i genitori di Lucio, su sua espressa richiesta. Fuori dal tribunale ci sono anche le amiche del cuore di Noemi che indossano una maglietta con la stampa del volto di Noemi e la scritta «L'amore é un'altra cosa». Dopo la controreplica del pm Anna Carbonara, il gup Aristodemo Inguscio si ritirerà in Camera di consiglio per la sentenza
Omicidio Noemi Durini, il fidanzato Lucio Marzo condannato a 18 anni e 8 mesi. Il 18enne reoconfesso è stato condannato dal Tribunale dei Minorenni di Lecce dove il processo si è celebrato con rito abbreviato, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 4 ottobre 2018. Diciotto anni e 8 mesi di reclusione. È la condanna stabilita dal Tribunale dei minorenni di Lecce per Lucio Marzo, il 18enne reo confesso dell’omicidio della sua fidanzata sedicenne Noemi Durini, uccisa il 3 settembre del 2017 e il cui corpo fu ritrovato dieci giorni dopo in campagna. Il gup Aristodemo Ingusci mercoledì aveva respinto le istanze del difensore di Marzo e fissato per oggi la sentenza, arrivata poco dopo mezzogiorno. La pm Anna Carbonara aveva chiesto 19 anni e mezzo di carcere, cumulando l’omicidio e i reati connessi emersi nel corso del processo. Il procedimento per la morte della 16enne di Specchia, in provincia di Lecce, il cui cadavere venne ritrovato nelle campagne salentine di Castrignano de’ Greci sotto un cumulo di pietre, si è svolto con rito abbreviato, garantendo lo sconto di un terzo della pena all’imputato. La giovane, secondo il medico legale, morì “per insufficienza respiratoria acuta conseguente ad asfissia da seppellimento mediante compressione del torace e dell’addome”. Noemi era quindi in vita quando il suo assassino l’ha ricoperta con delle pietre di un muretto a secco ed è morta dopo una lenta agonia. L’esame autoptico aveva evidenziato che il fendente inferto con un coltello da cucina, la cui punta è stata rinvenuta conficcata nella nuca della vittima, non è stato letale, poiché la lama non è entrata nella scatola cranica. Secondo Vaglio, inoltre, la presenza di tagli sull’avambraccio sinistro della ragazza dimostrerebbero il tentativo della 16enne di difendersi mentre le percosse al capo potrebbero aver prodotto “una commozione cerebrale” che l’aveva resa incosciente anche a causa di “una lesione laringea”. L’assassino, quindi, stando al perito, l’ha picchiata, poi ferita e ne avrebbe quindi trascinato il corpo privo di coscienza nell’uliveto per circa 5 metri per poi seppellirlo. Il peso delle pietre avrebbe provocato quindi l’asfissia e l’insufficienza respiratoria.
Noemi Durini, fidanzato Lucio Marzo condannato a 18 anni. Omicidio Noemi Durini, oggi la sentenza per Lucio Marzo: condannato a 18 anni di carcere. La mamma della vittima, Imma Rizzo “no soddisfazione, lei non c'è più…”, scrive il 4 ottobre 2018 Niccolò Magnani su "Il Sussidiario". «Non c'è soddisfazione di nulla. Mia figlia non c'è più. Ora Lucio resterà in carcere per 18 anni e 8 mesi, spero che rifletta su quello che ha fatto», ha detto la mamma di Noemi Durini, Imma Rizzo, uscendo dal Tribunale di Lecce dopo la sentenza letta dal gup. Ha poi sottolineato, «Mi aspettavo anche 30 anni, non basta una vita per un gesto come questo». Secondo l’avvocato della difesa, Luigi Rella, la condanna è stata invece molto alta e non è stato riconosciuta la nuova richiesta di perizia psichiatrica sul ragazzo: «Vedremo le motivazioni e capiremo. Lucio sta male e ha bisogno di aiuto, la pena è troppo gravosa». Il Tribunale ha infatti accolto di fatto tutte le richieste del pm - 19 anni di carcere - non tenendo invece conto delle richiesta dei legali difensivi che volevano l'esclusione dell'aggravante della premeditazione nonché «la riqualificazione da soppressione del cadavere in semplice occultamento».
LUCIO CONDANNATO A 18 ANNI E 8 MESI DI CARCERE. Lucio Marzo è stato condannato a 18 anni e 8 mesi di reclusione per l’omicidio efferato della fidanzatina 16enne Noemi Durini, nell’orrendo delitto di Specchia dello scorso settembre: lo ha deciso il Tribunale dei Minorenni di Lecce dove il processo sia celebrato con rito abbreviato, con annessa garanzia di sconto di un terzo della pena. Viene così confermata in pieno la tesi della Procura e la superperizia portata come prova centrale del processo: Noemi Durini, secondo il medico legale, morì «per insufficienza respiratoria acuta conseguente ad asfissia da seppellimento mediante compressione del torace e dell’addome». Era ancora in vita quando è stata sepolta viva, il che rende ancora più tragica e drammatica la fine della sua esistenza per mano dell’ira furente dell’allora fidanzatino. È stato poi il peso delle pietre avrebbe provocato quindi l’asfissia e l’insufficienza respiratoria.
DELITTO NOEMI DURINI: L’ATTESA DELLA MAMMA. Per Lucio Marzo oggi sarà il “giorno della verità”: lo ha detto prima di entrare in tribunale a Lecce la mamma di Noemi Durini, la 16enne trucidata dal fidanzatino reo confesso lo scorso 3 settembre 2017. Mamma Imma Rizzo è arrivata per quella che è l’ultima giornata del processo con rito abbreviato nei confronti di quel ragazzino, oggi 18enne, che ha picchiato e sepolto viva la sua fidanzata per motivi ancora non del tutto chiari. In sede di inchiesta e processo, numerose versioni, depistaggi e “false piste” sono state “provate” da Lucio e dalla sua famiglia, ma oggi saranno i giudici a dover decidere se confermare la richiesta di pena a 18 anni avanzata dalla pubblica accusa. «Ce la faremo a fare giustizia, ragazzi, ce la faremo. Oggi é il giorno della verità che tutti, specialmente io, stiamo aspettando da un anno», ha aggiunto ancora la madre di Noemi, vestita di verde come la speranza che nutre «Sono serena perché sono stata sempre fiduciosa, sin dal primo giorno. Vediamo se oggi cominceranno a funzionare queste leggi».
COSA RISCHIA LUCIO MARZO: OGGI LA SENTENZA. Omicidio abbietto e con futili motivi, oltre all’occultamento di cadavere: Lucio Marzo rischia grosso, anche se vi sono diversi punti poco chiari specie sul fatto di aver utilizzato o meno dei complici, su tutti il padre Biagio. Alla sbarra per ora c’è solo il giovanissimo maggiorenne ma possibili “clamorose” novità potrebbero sorgere nei prossimi mesi; il difensore di Lucio Marzo ha chiesto una nuova perizia psichiatrica. Secondo il suo legale, il ragazzo all'epoca dei fatti non fosse in sé, quindi non stesse bene né seguendo le giuste cure. Lo ha confermato lo stesso papà di Lucio ieri a La Vita in Diretta, «mio figlio non stava bene, non stava seguendo le cure di cui aveva bisogno». Difficile pensare che oggi non si arrivi a sentenza dura per Lucio ma ipotesi di “attenuanti” o di nuovi elementi investigativi non sono da escludere, seppur in maniera assai poco “probabile”. Ad incastrare Lucio c’è la famosa “superperizia” della Procura secondo cui Noemi sarebbe stata picchiata a mani nude, poi accoltellata e seppellita mentre era ancora viva. Secondo quanto da lui raccontato, quella sera Noemi lo pressava per uccidere i suoi genitori che si opponevano alla loro relazione, simulando una rapina in casa: a quel punto la decisione di ucciderla.
Omicidio di Noemi Durini, il fidanzato condannato a 18 anni e 8 mesi. La giovane fu uccisa il 3 settembre 2017. Il 18enne reo confesso aveva nascosto il cadavere, che fu ritrovato dopo 10 giorni, scrive il 4 ottobre 2018 Quotidiano.net. Lucio Marzo, il 18enne reo confesso dell'omicidio della sua fidanzata sedicenne Noemi Durini, è stato condannato a 18 anni e 8 mesi di reclusione. Lo ha deciso il Tribunale dei Minorenni di Lecce dove il processo si è celebrato con rito abbreviato. Il pm Anna Carbonara aveva chiesto per il fidanzato di Noemi la condanna a 18 anni di carcere. La richiesta di una nuova perizia psichiatrica per il ragazzo, reo confesso, è stata rigettata. L'OMICIDIO - Il ragazzo di Montesardo Salentino, dopo l'omicidio avvenuto il 3 settembre del 2017, nascose il corpo della ragazza che abitava a Specchia, Lecce. Il cadavere fu scoperto solo dopo 10 giorni sotto un cumulo di pietre in una campagna di Castrignano del Capo. Noemi era stata malmenata e accoltellata a morte. I GENITORI DI NOEMI - "Non c'è soddisfazione, mia figlia non c'è più". Sono le prime parole di Imma Rizzo, la madre di Noemi, dopo la lettura della sentenza di condanna. "Ora resterà (Lucio Marzo, ndr) in carcere per 18 anni e 8 mesi, spero che rifletta su quello che ha fatto", aggiunge. "Mi aspettavo anche 30 anni, non basta una vita per un gesto come questo", dice lasciando l'aula. Parlando con i giornalisti al suo arrivo al Tribunale dei Minorenni di Lecce, dove era in corso l'ultima udienza del processo, la donna aveva detto: "Non potrò mai perdonarlo, bisogna dargli l'ergastolo". Nei giorni scorsi aveva parlato anche il padre della vittima, Umberto Durini. "Io non ho odio, lo dico col cuore - le sue parole a La Vita in Diretta, su Rai 1 -. Lui ha il diritto di rifarsi una vita, però 20 anni o 18 li deve fare in galera".
Omicidio Noemi: il fidanzato condannato a 18 anni e 8 mesi. La sentenza del Tribunale dei minori di Lecce per il 18enne Lucio Marzo reo confesso del delitto della sua fidanzata di 16 anni nel settembre 2017. La madre di Noemi Durini: "meritava l'ergastolo, non potrò mai perdonarlo", scrive Globalist il 4 ottobre 2018. E' stato condannato a 18 anni e 8 mesi di reclusione Lucio Marzo, il 18enne di Montesardo Salentino reo confesso dell'omicidio della sua fidanzata di 16 anni Noemi Durini, uccisa il 3 settembre del 2017. Lo ha deciso il Tribunale dei Minorenni di Lecce dove il processo si è celebrato con rito abbreviato. Il corpo della ragazza fu scoperto solo dopo 10 giorni sotto un cumulo di pietre in una campagna di Castrignano del Capo. Il Tribunale ha sostanzialmente accolto le richieste avanzate dal pm Anna Carbonara che aveva chiesto 18 anni per l'omicidio e un altro anno e mezzo per reati collaterali. L'avvocato difensore di Marzo, Luigi Rella, aveva giudicato alta la pena richiesta e aveva chiesto una nuova perizia psichiatrica, con la nomina di nuovi consulenti, il riconoscimento delle attenuanti generiche, l'esclusione dell'aggravante della premeditazione nonché la riqualificazione da soppressione del cadavere in semplice occultamento. Ma le sue richieste non sono state accolte. "Vedremo le motivazioni e capiremo", ha detto il legale ribadendo che "Lucio sta male e ha bisogno di aiuto". "Non c'è soddisfazione di nulla - ha detto dopo la sentenza Imma Rizzo, la madre di Noemi - mia figlia non c'è più. Ora Lucio resterà in carcere per 18 anni e 8 mesi, spero che rifletta su quello che ha fatto. Mi aspettavo anche 30 anni, non basta una vita per un gesto come questo". "Non potrò mai perdonarlo - ha aggiunto la madre di Noemi - meritava l'ergastolo. Con Lucio ci siamo guardati negli occhi e in quello sguardo c'era un anno intero di sofferenza. La parola perdono non esiste perché non potrò mai perdonarlo. Lui dovrà chiedere perdono a Noemi e alla sua coscienza". "Non ha mai chiesto perdono - ha aggiunto il padre di Noemi, Umberto Durini - non mi ha mai guardato in faccia. Era impassibile, lucido e cosciente di quello che ha fatto. Diciotto anni sono giusti, deve marcire in galera".
Colpo di scena nell’omicidio di Noemi Durini, Lucio scrive al padre della ragazza, scrive il 17 aprile 2018 Elisabetta Francinella su "Velvetnews.it". Si riaccendono i riflettori sull’omicidio di Noemi Durini, la 16enne di Specchia brutalmente uccisa il 3 settembre del 2017. Il fidanzato, inizialmente reo confesso del delitto, ha cambiato nuovamente versione dei fatti puntando il dito contro suo padre. Umberto Durini, papà della giovane, lancia un appello per sapere la verità. Il fidanzato di Noemi Durini, il 18enne accusato di aver ucciso brutalmente la studentessa di Specchia di soli 16 anni il 3 settembre del 2017, ha cambiato nuovamente versione dei fatti, ma questa volta ha puntato il dito contro suo padre. In una missiva il giovane di Montesardo, che al momento dell’omicidio aveva soltanto 17 anni, ha confessato una nuova verità su quel tragico giorno. Cosa abbia rivelato nello specifico nella lettera non è ancora stato reso noto per tutelare le indagini, ma stando quanto emerso si è soffermato sul ruolo del padre nell’omicidio di Noemi Durini, il quale avrebbe preso parte nella fase di seppellimento del corpo della studentessa. Il giovane Lucio è stato ascoltato il 30 marzo scorso dalla pm Anna Carbonara della Procura dei Minori, davanti al suo avvocato difensore Luigi Rella. Per il momento gli inquirenti stanno cercando di verificare se quanto sostenuto nell’ultima missiva sia attendibile. Ospite de La Vita in Diretta è intervenuto in merito il papà di Noemi, Umberto Durini. Il padre della povera vittima ha rivelato ai microfoni del programma di Rai 1, nella puntata andata in onda il 16 aprile, di aver ricevuto una lettera dal carcere in cui si trova il fidanzato della figlia. “Ho ricevuto una lettera da Lucio, non dico molto in merito a quello che dice il testo ma posso solo citare le ultime righe”, afferma Umberto Durini aggiungendo: “Mi ha detto che io sono un padre per lui, mi ha detto che mi ha voluto bene, mi ha detto che amava Noemi”. Rivolgendosi direttamente al 18enne lancia un appello: “Prendi una decisione, fai qualcosa dopo quello che mi hai detto nella lettera. Io ti aiuterò, racconta tutto. Tuo padre ti abbandonerà come ha fatto in altre occasioni. Se davvero credi di avermi voluto bene, fai qualcosa e racconta tutta la verità. Insieme io e te possiamo avere giustizia per Noemi”. Quest’ultima versione dei fatti del fidanzato di Noemi Durini sembra assai discordante con le precedenti, specialmente con la prima avvenuta pochi giorni dopo l’omicidio di Noemi Durini, dove Lucio si assunse la piena responsabilità dei fatti dichiarandosi il solo responsabile del delitto. Nei mesi scorsi il giovane aveva ritrattato tutto, puntando il dito contro il meccanico di Patù Fausto Nicolì, iscritto per atto dovuto nel registro degli indagati.
Omicidio Noemi Durini, il padre: “Lucio mi ha scritto dal carcere”, nuovo colpo di scena, scrive Michela Becciu il 17 aprile 2018 su Urban Post. Omicidio Noemi Durini ultime notizie: ieri a La vita in diretta è intervenuto in diretta da Specchia Umberto Durini, il papà della 16enne assassinata lo scorso 3 settembre e per il cui delitto è in carcere il suo fidanzato (minorenne all’epoca dei fatti), Lucio Marzo. Il caso è tornato alla ribalta della cronaca poiché il giovane, recluso nel carcere minorile di Quartucciu (Cagliari), dopo avere inizialmente confessato il delitto ha, in due tempi, ritrattato parzialmente la sua versione dei fatti. In una prima lettera fatta recapitare ai magistrati attraverso la polizia penitenziaria, accusò infatti Fausto Nicolì di avere materialmente commesso il delitto (il 50enne meccanico di Patù è infatti indagato a piede libero come atto dovuto), lo scorso 30 marzo, però, Lucio ha rivelato una sua nuova verità dei fatti, chiamando in causa anche suo padre Biagio. Lucio ha in sostanza rivelato che suo padre lo avrebbe aiutato a seppellire il corpo della povera Noemi che – stando alle indiscrezioni emerse dalla autopsia sarebbe morta per asfissia, e sarebbe stata sepolta viva – ancora agonizzava quando le furono gettati addosso i massi che l’assassino ha trovato a portata di mano sul luogo del delitto, una zona di campagna a Castrignano del Capo. La sua nuova versione dei fatti è al vaglio della magistratura che, sebbene non ne siano ancora emerse le prove oggettive, dalla prima ora aveva ipotizzato che il ragazzo non poteva aver fatto tutto da solo, anche perché il corpo di Noemi sarebbe stato trascinato per diversi metri prima di essere sepolto dai massi.
Lucio: «Papà mi aiutò a seppellire Noemi», scrive Erasmo Marinazzo su Il Quotidiano di Puglia Sabato 14 Aprile 2018. E ora tira fuori ancora un’altra verità sulla fine della fidanzata Noemi Durini, 15 anni, di Specchia. E sostiene che il padre lo aiutò a seppellirla sotto ad un cumulo di pietre. Una verità che come le altre - almeno sette quelle raccontate finora da L.M., di Alessano, 17 anni all’epoca dell’arresto del 13 settembre dell’anno scorso - viene valutata dagli inquirenti attendendo gli esiti della perizia di tipo biologico, genetico e molecolare su tutti i reperti sequestrati. E tenendo conto anche delle conclusioni della perizia psichiatrica: «L.M. proietta su altri intenzioni ed azioni nel concreto agite da lui». Ed ancora: «Ha compreso il disvalore e l’abnormità del gesto commesso. Proprio per tale ragione egli ha avuto la rapida e perseverante premura di allontanare da se’ ogni possibile sospetto. E, dopo la confessione, ha più volte disorientato gli interlocutori verso alterne versioni dei fatti che, per quanto goffe, sono state organizzate secondo rappresentazioni per lui giuridicamente più favorevoli». Dunque, tanti e fondati i dubbi sulla possibilità che L.M. racconti cosa sia effettivamente accaduto. Non raccolse credibilità già la penultima versione della morte di Noemi: ad uccidere la sua fidanzata fu l’amico in comune F.N., 49 anni, di Patù, scrisse in una lettera il 5 gennaio scorso. L’uomo fu iscritto nel registro degli indagati e poco dopo venne interrogato in Procura alla presenza dell’avvocato difensore Luca Puce. Come atto dovuto, senza altro seguito. Ha preso invece un’altra piega, al momento, l’inchiesta della Procura ordinaria e della Procura per i minorenni sull’ultima versione riferita da L.M., anche questa volta con una corrispondenza: il giovane in regime di custodia cautelare per le accuse di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione e dai futili motivi, nonché di occultamento di cadavere, è stato raggiunto a Bari per essere interrogato dai pubblici ministeri Donatina Buffelli Anna Carbonara, alla presenza degli avvocati difensori Luigi Rella e Paolo Pepe. Una procedura diversa da quella seguita per F.N., dunque. Perchè? Va ricordato che il padre di L.M. fu iscritto sul registro degli indagati per concorso in occultamento di cadavere (è difeso dagli avvocati Luigi Piccinni e Stefano De Francesco) quando il 13 settembre il ragazzo fece trovare il corpo di Noemi. Al netto di quello che ha detto la consulenza psichiatrica sulla tendenza di L.M. di cercare di allontanare da se’ il terribile peso di aver ucciso la ragazza per cui aveva perso la testa, l’inchiesta ha ancora la necessità di spazzare via alcune zone d’ombra. In particolare l’arma mai ritrovata, quel coltello di cui venne trovato un centimetro di punta nel cranio della ragazza. E cosa L.M. fece rientrando a casa dopo aver abbandonato il corpo di Noemi nelle campagne fra Santa Maria di Leuca e Castrignano del Capo. L.M. ha riferito che il padre lo avrebbe aiutato a ricoprire il corpo di Noemi di pietre. Il che - se fosse vero e la verità non è stata dimostrata ancora nemmeno a livello indiziario - renderebbe tutto più complicato per il genitore: la consulenza medico legale di Roberto Vaglio sostiene che Noemi fosse ancora viva quando finì sotto un cumulo di pietre. Respirava. Morì soffocata e non per le tante lesioni causate da colpi di pietra e pugni. Lo riferì lo stesso L.M. nel corso della perizia psichiatrica: «Quando sono andato via io, Noemi era viva. Lo so...diceva “che cogl...che cogl”, diceva. “Che mi hai fatto, che mi hai fatto”». Si cercano riscontri all’ultima variante di questa tragedia. Anche di tipo oggettivo: le analisi nel laboratorio dei carabinieri del Ris di Roma sui reperti. Fra i quali le unghie di Noemi, per verificare se nel tentativo di difendersi abbiano trattenuto brandelli di pelle e a chi, eventualmente, appartengano. Come pure sulle tracce di sangue trovate sulla Fiat 500 di L.M. e su tutto ciò che è stato sequestrato nella casa di famiglia.
Noemi Durini, il papà della 16enne di Specchia: “Lucio racconta la verità”. “Lucio, se davvero vuoi hai voluto bene a Noemi racconta la verità”: è questo l’appello che papà Umberto ha voluto lanciare ai microfoni della Vita in diretta. Il ragazzo gli avrebbe anche scritto una lettera dal carcere, scrive il 17 aprile 2018 "Lecce news 24". Rompe il silenzio in cui si era rifugiato in attesa di conoscere la verità, Umberto Durini che ai microfoni della trasmissione pomeridiana di Rai 1 “La Vita in diretta” ha voluto parlare della morte di Noemi e lanciare un appello a Lucio, rinchiuso nel carcere di Quartucciu: «Mia figlia forse era ancora viva quando è stata seppellita» ha dichiarato, ricordando gli ultimi dolorosi minuti di vita della 16enne di Specchia. Non più soltanto una paura: come ha confermato l’autopsia, la studentessa respirava ancora quando è stata ricoperta dalle pietre di un muretto a secco in quella campagna che per 10 giorni ha “nascosto” il corpo della 16enne agli occhi di chi la stava cercando. «Domenica sono stato nel luogo in cui hanno ritrovato mia figlia a Castrignano del Capo, nei massi ho visto tutta la crudeltà». «Se davvero hai voluto bene a mia figlia, come hai scritto nella lettera che mi hai inviato, racconta la verità e liberati da questo fardello» ha aggiunto papà Umberto che, fin da subito, ha puntato il dito contro il papà di Lucio, quel Biagio che su Facebook aveva definito “un cancro” il fidanzamento ufficiale dei due ragazzini condiviso sui social. In studio era presente anche il generale Luciano Garofano che, nel ruolo di consulente, ha assistito tutti gli accertamenti eseguiti dal maresciallo dei carabinieri del Ris di Roma, Vincenzo Verdoliva: «Sono emersi particolari scontati e altri sorprendenti, che potrebbero far luce sulla verità» ha dichiarato rispettando il segreto istruttorio. Le indagini vanno avanti, sul tavolo degli inquirenti c’è ora l’ultima versione fornita dal ragazzo di Montesardo che – questa volta – ha chiamato in causa il papà, lo ha accusato di averlo aiutato a seppellire il corpo di Noemi. Certo, il dubbio che il ragazzo non poteva aver fatto tutto da solo c’è stato da sempre. Il corpo della ragazzina è stato trascinato per diversi metri e ricoperto di pietre, ma al momento si tratta solo di parole, le ennesime di un ragazzo che fino a questo momento non ha mai saputo dire la verità.
Le verità di Lucio, un nuovo lungo interrogatorio per l’assassino di Noemi. L'ex fidanzato della 16enne di Specchia assassinata e abbandonata nelle campagne è stato sentito nel carcere minorile di Bari, scrive A.Mor. il 6 aprile 2018 su Lecce Prima. Un lungo interrogatorio alla presenza del suo legale, l’avvocato Luigi Rella, nel carcere minorile di Bari, per raccontare una nuova o più dettagliata versione sulla morte di Noemi Durini, la 16enne di Specchia assassinata e ritrovata nelle campagne di Castrignano del Capo a distanza di dieci giorni dalla scomparsa il 3 settembre scorso. Lucio, l’ex fidanzato della ragazza assassinata, è comparso nuovamente dinanzi agli inquirenti, ultimo capitolo di una lunga storia di morte e misteri. I due consulenti nominati dal gip del Tribunale per i minorenni hanno intanto stabilito che Lucio era capace di intendere e di volere al momento dei fatti e può sostenere il giudizio. Nel decreto di fermo il sostituto procuratore della Repubblica Anna Carbonara ha contestato l’omicidio premeditato, per aver provocato “la morte di Noemi prelevandola alle 4.51 dalla sua abitazione con la Fiat 500 di proprietà della sua famiglia e conducendola in aperta campagna colpendola con l’uso di corpi contundenti; con le aggravanti di aver commesso il fatto con premeditazione, per motivi abietti o futili e di aver agito con crudeltà”. Il 18enne ha dichiarato “di essersi immesso lungo uno strada che lo conduceva verso il centro abitato di Castrignano del Capo ma prima di arrivarvi, svoltava a sinistra lungo una strada sterrata. Qui dichiarava di essersi parcheggiato e, con la scusa che si sarebbero fumati una sigaretta, scendeva dall’auto insieme a Noemi con la quale si addentrava in un uliveto dove poi, approfittando di un momento propizio, colpendola con un coltello al collo, continuando a colpirla con delle pietre alla testa”. Poi si sarebbe allontanato “dal luogo dei fatti repentinamente con la propria autovettura disfacendosi del manico del coltello avvolto nella propria maglietta in un luogo che non ha saputo indicare”. L’autopsia ha stabilito che Noemi era ancora viva quando fu sepolta con dei sassi e abbandonata nelle campagne di Castrignano del Capo all’alba del 3 settembre. Il medico legale ha indicato come causa del decesso la morte per asfissia. Non furono dunque le lesioni al collo compatibili con delle ferite da arma da taglio, e alcune alla testa riconducibili all’utilizzo di un corpo contundente come una pietra, a uccidere Noemi, che fu lasciata agonizzante a morire nella terra.
NOEMI DURINI. La difesa di Lucio: "Voleva uccidere i miei genitori" (Quarto Grado). Noemi Durini, spunta un nuovo indagato, accusato dal fidanzato reo confesso: si tratta del 49enne Fausto Nicolì, amico di entrambi. Il padre di Lucio commenta la notizia, scrive il 19 gennaio 2018 Emanuela LOngo su Il Sussidiario. Durante la puntata di Quarto Grado in prima serata su Rete Quattro c'è stato ampio spazio per la retrospettiva sul caso dell'omicidio di Noemi Durini. E oltre alle accuse nei confronti di Fausto Nicolì, è stata ripercorsa anche la testimonianza di Lucio, il fidanzato della ragazza, che non ha mai fatto mistero del rapporto teso che c'era tra la sua famiglia e quella di Noemi. Tanto che a più riprese Lucio ha testimoniato riguardo al fatto che Noemi avesse voluto addirittura uccidere i suoi genitori. "L’ho uccisa perchè mi aveva chiesto di sterminare la mia famiglia, voleva che uccidessi i miei genitori." Questa d'altronde è sempre stata la versione di Lucio anche al momento dell'arresto, quando tutti i sospetti per l'assassinio di Noemi hanno finito per convergere su di lui. La testimonianza, trasmessa durante la puntata di venerdì sera di Quarto Grado, ha fatto emergere diverse incongruenze contestate anche dallo stesso Fausto Nicolì dopo le accuse ricevute a sua volta dalla famiglia di Lucio. (agg. di Fabio Belli)
"DEVO DIFENDERMI DA QUESTE BELVE". In attesa della nuova puntata di Quarto Grado, che oggi si occuperà del caso di Noemi Durini, la trasmissione Pomeriggio 5 ha trasmesso l'intervista a Fausto Nicolì, l'uomo indagato dopo le accuse rivolge dall'assassino reo confesso Lucio, fidanzatino della vittima. Quest'ultimo avrebbe accusato l'uomo non solo di aver ucciso Noemi ma anche di avere un giro di prostituzione. Fausto si è detto molto amareggiato ma allo stesso tempo "sollevato" in quanto i carabinieri ora potranno fare piena luce sulla sua posizione. Ai microfoni della trasmissione Mediaset, ha risposto anche alle accuse del padre di Lucio. Rispetto alle accuse di omicidio commenta: "Come tutte le sere, come sempre era a casa a dormire. Non c'è un granello di prova nei miei confronti né una motivazione per cui avrei dovuto farlo". C'è poi la seconda accusa, quella di favoreggiamento della prostituzione minorile: l'uomo ha ammesso di aver mandato solo pochi messaggi in un anno alla ragazza, in orari abbastanza accettabili, smentendo anche le parole del giovane secondo il quale era solito andare in casa sua. "Io mi devo difendere dalle accuse di queste belve", ha chiosato, riferendosi alla famiglia intera di Lucio. (Aggiornamento di Emanuela Longo)
FAUSTO NICOLI' REPLICA ALLE ACCUSE. Il giallo di Noemi Durini, la giovane salentina uccisa brutalmente lo scorso settembre potrebbe essere ancora molto lontano dalla sua soluzione. Nonostante la confessione del giovanissimo fidanzato, Lucio, il quale ha raccontato nel suo interrogatorio choc, passo dopo passo come avrebbe ucciso la ragazza e tentato poi di occultarne il cadavere, ora spunterebbe una novità incredibile. Potrebbe non essere stato da solo a commettere l'atroce delitto o, addirittura potrebbe essere stato qualcun'altro ad uccidere Noemi. Lucio ha infatti cambiato la sua versione accusando apertamente Fausto Nicolì, considerato "il responsabile morale" anche dal padre del 18enne in quanto sarebbe riuscito ad insinuarsi nella vita dei due ragazzi. Ora però, Fausto, anche alla luce delle nuove accuse, è stato iscritto nel registro degli indagati come atto dovuto, ma potrebbe esserci dell'altro. Secondo le novità emerse dal programma di Canale 5 condotto da Barbara d'Urso, l'uomo risulta essere oggi indagato per omicidio volontario e sfruttamento della prostituzione minorile. All'indomani dell'intervista ai genitori di Lucio, i quali hanno nuovamente parlato di Fausto dicendosi "assetati di verità", Fausto ha rilasciato una intervista al programma Pomeriggio 5 alla quale si è detto molto arrabbiato ed amareggiato. "Come rispondo alle accuse di omicidio? Come tutte le sere ero in casa a dormire", ha detto alle telecamere della trasmissione. (Aggiornamento di Emanuela Longo)
NOEMI DURINI, IL COLPO DI SCENA: NUOVO INDAGATO. Novità importanti nel caso di Noemi Durini, la sedicenne di Specchia, nel Salento, scomparsa misteriosamente il 3 settembre e rinvenuta 10 giorni dopo cadavere, massacrata e nascosta sotto un cumulo di pietre nelle campagne di Castrignano del Capo. Accusato del delitto, finora era stato il giovane Lucio M., fidanzatino all'epoca dei fatti ancora 17enne della vittima, secondo il quale avrebbe agito per impedire alla ragazza di uccidere i suoi genitori, come aveva promesso di fare. Ora però, ecco il colpo di scena: nonostante la precedente confessione, Lucio avrebbe tirato in ballo il nome di Fausto Nicolì, meccanico 49enne di Patù ed amico della coppia. Citato in una lettera inviata agli inquirenti, come spiega La Stampa, Lucio avrebbe accusato l'uomo di aver ucciso Noemi con un colpo di pistola. Per questo la procura di Lecce ha iscritto nel registro degli indagati come atto dovuto il nome del meccanico. A confermare la notizia all'AdnKronos nella giornata di ieri è stato l'avvocato difensore di Nicolì. A carico di quest'ultimo sarebbe già stata compiuta una perquisizione durante la quale sono stati prelevati soprattutto dei supporti informatici. Riparte da qui la nuova puntata della trasmissione Quarto Grado che, in attesa dell'interrogatorio a carico del meccanico seguirà da vicino la vicenda con gli ultimi importanti risvolti. Proprio Fausto Nicolì, in passato aveva già denunciato per calunnia Lucio in quanto durante un interrogatorio aveva accusato l'uomo di aver tentato di spingere Noemi ad uccidere i genitori del fidanzato, accuse confermate anche dal padre e dalla madre del ragazzo. L'avvocato Luca Puce, difensore di Nicolì, oltre a confermare che si tratti di un atto dovuto, ha spiegato che durante la perquisizione non sarebbe stato trovato nulla di rilevante. "Il mio assistito si è liberato, ora è più tranquillo e sollevato, come lo sono io. Ma è anche indignato per questa accusa infondata", ha aggiunto.
NOEMI DURINI: LE PAROLE DEL PADRE DI LUCIO (QUARTO GRADO). Nel frattempo, la trasmissione Pomeriggio 5 ha trasmesso nella puntata di ieri una doppia intervista al padre ed alla madre di Lucio, che hanno commentato le ultime novità sul delitto della povera Noemi Durini. Biagio, padre del giovane in carcere, è da sempre convinto che non tutta la verità su quanto accaduto sarebbe ancora emersa. "Ho avuto sempre dei dubbi che mio figlio avesse potuto fare tutto da solo", ha esordito il padre al programma di Canale 5. L'uomo ricorda di essere anche lui indagato in quanto gli inquirenti hanno sempre sostenuto che ci sia stato qualcuno insieme al figlio ed ora, alla luce della novità emersa, si è detto sollevato, confermando la sua estraneità rispetto alle accuse. Il padre in carcere avrebbe spronato Lucio a dire tutta la verità e di fronte alla possibilità che si sia autoaccusato del delitto di Noemi senza averlo commesso, Biagio ha commentato: "Può essere per svariati motivi, per paura della famiglia...”. "Il sospetto che ci fosse altro sotto l'ho sempre avuto ma non gli ho mai detto di fare dei nomi", ha aggiunto l'uomo intervistato. "Io ho sete vi verità io voglio sapere chi ha fatto cosa", ha aggiunto. Biagio ha poi svelato che suo figlio non starebbe affatto bene e che in dall'inizio Lucio lo avrebbe messo in guardia spronandolo a proteggere la sorella. "Ora riesco a spiegarmi quello che sta succedendo", ammette. "Lui mi ha detto che, una volta fuori dal carcere, la prima cosa che avrebbe fatto sarebbe stato uccidere Fausto. Io adesso ho capito per quale motivo", ha chiosato, riferendosi alle ultime novità in merito all'iscrizione nel registro degli indagati del 49enne.
Noemi, il fidanzato ritratta «L'ha uccisa il meccanico». L'assassino reo confesso ci ripensa e con una lettera del 3 gennaio consegnata alla Polizia penitenziaria accusa Fausto Nicolì, meccanico 48enne di Patù, coinvolto nella vicenda per fatti secondari, scrive il 14 Gennaio 2018 Francesco Oliva su La Gazzetta del Mezzogiorno. Una lettera per dichiarare la propria innocenza e accusare un amico di Noemi Durini dell’omicidio della fidanzata. L.M., assassino reo confesso della studentessa di Specchia, ci ripensa. Cambia le carte in tavola e in una missiva fornisce un’altra dinamica, un altro movente e, soprattutto, l’identità di un altro assassino. Ad uccidere la 16enne di Specchia sarebbe stato Fausto Nicolì, meccanico 48enne di Patù, già immischiato nella vicenda per fatti secondari. Ora, però, finisce al centro dell’indagine. L.M. ha consegnato la lettera ad un agente di polizia penitenziaria il 3 gennaio scorso nel carcere di Quartucciu dove si trova detenuto. La missiva è stata trasmessa alla Procura dei Minori di Lecce e allegata agli atti d’indagine. Nella lettera, il 18enne di Montesardo salentino racconta che quella sera (il 3 settembre, giorno della scomparsa della 16enne) si trovava con Noemi a Castrignano del Capo nel luogo in cui poi la giovane sarebbe stata uccisa. La coppia sarebbe stata raggiunta da una Seat Ibiza. Dall’auto sarebbe sceso Fausto Nicolì. L’uomo avrebbe consegnato alla ragazza una pistola, con la quale Noemi avrebbe voluto uccidere i genitori di L.M., secondo le dichiarazioni fornite dallo stesso giovane. A quel punto gli animi si sarebbe scaldati. Sarebbe nata una discussione culminata poi nella coltellata inferta da Nicolì al capo della vittima. Pronta la replica dell’avvocato di Nicolì, il legale Luca Puce: «Non avendo ancora una cognizione completa di quella che, a tutti gli effetti, appare come l’ennesima fantasiosa esternazione da parte di L.M., allo stato, qualsivoglia dichiarazione di intenti nell’interesse dell’assistito sarebbe prematura sebbene accuse così infamanti e impiantate sul nulla lascino basiti e, verosimilmente, non potranno non essere sottoposte, in chiave punitiva, all’autorità giudiziaria». Il contenuto della missiva ribalta le prove sinora acquisite dagli inquirenti che avevano raccolto la confessione dell’allora minorenne subito dopo il suo arresto quando L.M. raccontò di aver ucciso Noemi con un coltellata alla nuca. E di quel lungo interrogatorio, nella serata di venerdì, alcuni stralci sono stati mandati in onda dalla trasmissione televisiva «Quarto Grado». In un passaggio, L.M. si rivolge ai pm riferendo che la sua intenzione è quella di proseguire negli studi, diplomarsi, diventare elettrotecnico e trasferirsi con i suoi genitori a Milano. Dichiarazioni che non hanno comunque condizionato i periti della Procura e del Tribunale: nel loro elaborato, depositato di recente, il giovane è stato giudicato capace di intendere e di volere e in grado di affrontare un processo.
Noemi, il fidanzato prova a scaricare la colpa: "L'ho uccisa perché voleva sterminare la mia famiglia". Interrogatorio fiume nella notte: il 17enne sostiene che la vittima aveva con se un coltello e che lui avrebbe tentato di dissuaderla. Con quella stessa arma l'avrebbe uccisa. Trasferito in carcere, ha rischiato il linciaggio, scrive Chiara Spagnolo il 14 settembre 2017 su "La Repubblica". "L'ho ammazzata perché premeva per mettere in atto l'uccisione di tutta la mia famiglia": così avrebbe detto agli inquirenti, alla presenza del proprio legale, il 17enne sottoposto da mercoledì 13 settembre a fermo per l'omicidio volontario di Noemi Durini, la sedicenne di Specchia il cui cadavere è stato trovato, sepolto dalle pietre, a 11 giorni dalla sua scomparsa. Il ragazzo è stato ascoltato in un lungo interrogatorio terminato nella notte. Un interrogatorio in cui avrebbe cambiato versione più volte. Inizialmente sarebbe emersa la pista della gelosia: "Aveva troppi amici". Poi l'improvviso ribaltone. Il ragazzo avrebbe raggiunto alle 5 del mattino del 3 settembre scorso a casa della sedicenne: voleva cercare di dissuaderla a mettere in atto il piano che, forse, doveva essere attuato proprio in quella giornata. Il ragazzo ha anche detto che con sé Noemi, quando è uscita dalla sua abitazione, aveva un coltello, a dimostrazione - a suo avviso - della determinazione della giovane di portare avanti il progetto di eliminazione di chi ostacolava il loro amore. Con quello stesso coltello, lui l'avrebbe uccisa.
L'arresto. Il 17enne stato portato in carcere nella tarda serata di mercoledì 13 settembre L.M., il 17enne di Alessano che ha ucciso la fidanzata sedicenne Noemi Durini di Specchia - scomparsa da casa il 3 settembre - nascondendone il cadavere sotto un mucchio di sassi in una campagna vicino Santa Maria di Leuca. Quando è uscito dalla caserma di Specchia ha sfidato le decine di persone che lo attendevano con un ghigno e un gesto di saluto, rischiando che si trasformasse in realtà il linciaggio mediatico iniziato qualche ora prima su internet. Il ragazzo era in evidente stato di alterazione psichica, al termine dell'ennesimo interrogatorio, concluso con il fermo di polizia giudiziaria che dovrà essere convalidato dal gip nelle prossime ore. Le accuse contestate sono omicidio volontario e occultamento di cadavere, mentre il padre B.M. risponde di concorso in occultamento di cadavere. Secondo gli inquirenti avrebbe aiutato il figlio a nascondere il corpo o quantomeno le prove dell'avvenuto omicidio.
Il ritrovamento. E' stato proprio il diciassettenne a portare i carabinieri sul luogo in cui ha cercato di nascondere la fidanzata dopo averla uccisa: un fondo in località San Giuseppe di Castrignano del Capo, a una ventina di chilometri da Specchia. Il corpo era ricoperto da pietre scardinate da un muretto a secco... Noemi indossava i vestiti che aveva all'alba del 3 settembre: leggins neri, scarpe da ginnastica, una maglietta. Stando ai primi accertamenti, effettuati dai carabinieri delle investigazioni scientifiche, è plausibile che sia stata uccisa proprio nel luogo in cui è stato rinvenuto il cadavere. La zona mercoledì pomeriggio è diventata meta di un vero e proprio pellegrinaggio da parte dei familiari di Noemi, gli amici, tanti curiosi. Nella notte, vicino alla tomba improvvisata sono stati posti lumini e candele.
Le denunce della famiglia. I genitori di Noemi osteggiavano da tempo la relazione della figlia con L.M. Lui era considerato "un poco di buono" come ha riferito la nonna Vincenza Cacciatore, ma la ragazza non voleva ascoltare i consigli di chi le diceva di lasciarlo. Al contrario, più volte la sedicenne si era allontanata da casa insieme al fidanzato e su facebook continuava a pubblicare fotografie e dichiarazioni di amore. Di recente, però, sul social era comparso anche un post che lasciava intravedere un sottofondo di violenza in quella relazione che lei si sforzava di fare apparire normale. "Non è amore se ti picchia" recitava la poesia condivisa da una pagina molto frequentata dalle teen ager. A dimostrazione di una situazione difficile già da mesi ci sono anche le due denunce che la mamma di Noemi, Imma Rizzo, aveva presentato nei confronti del diciassettenne alla Procura dei minori di Lecce. Ne erano nati due procedimenti - uno penale per violenza privata, l'altro, civile, per verificare il contesto familiare in cui vive il giovane e se fossero in atto azioni o provvedimenti per porre fine alla sua indole violenta - ma nessuno dei due ha portato a provvedimenti cautelari. Una cautela che, alla luce di quello che è accaduto, viene letta come una sottovalutazione del problema da parte delle autorità preposte. Anche per questo motivo, il nonno materno Vito Rizzo ha puntato il dito contro chi avrebbe potuto fare qualcosa e non l'ha fatto. "Se fossero intervenuti per tempo non sarebbe successo - ha detto -. Ora ci aspettiamo che la legge faccia ciò che deve". A confermare la natura violenta del rapporto tra i due adolescenti, anche il cugino di Noemi, Davide, che ha raccontato di botte e lividi, spiegando che L.B. "non voleva che lei uscisse con nessuno e manifestava la sua gelosia anche in modo molto forte".
Il lutto. A Specchia, intanto, è stato proclamato il lutto cittadino. Il sindaco Rocco Pagliara ha manifestato la disponibilità dell'amministrazione a sostenere anche economicamente la famiglia Durini in questo momento particolare, mentre il parroco Don Tonino ha invitato la comunità a pregare affinché la famiglia possa trovare conforto nella fede. Mercoledì pomeriggio la casa di Noemi in via Madonna del Passo è stata meta cdi un continuo pellegrinaggio di parenti e amici, considerato che in un paese piccolo come Specchia tutti conoscevano la ragazzina o l'avevano frequentata. La mamma Imma, che ha appreso la notizia del ritrovamento del cadavere mentre stava per lanciare un appello per le ricerche in Prefettura a Lecce, si è sentita male ed è stata sottoposta a trattamenti sedativi. Poi si è rinchiusa in casa, da dove non è mai uscita per tutta la giornata di mercoledì. La sorella 22enne Benedetta, invece, ha fatto la spola con la casa dei parenti in cui è stata ospitata la sorellina di 9 anni, assistita da una psicologa, che ha cercato di evitare l'assalto mediatico, chiedendo rispetto per il dolore della famiglia. Benedetta - che il 28 ottobre dovrebbe laurearsi a Reggio Emilia - martedì ancora manifestava speranza: "Noemi tornerà e festeggeremo insieme", diceva. Ma, appresa la notizia della morte, si è lasciata andare alla rabbia: "Lo sapevate tutti e non avete fatto niente".
SVOLTA DOPO LA SCOMPARSA DELLA STUDENTESSA DI SPECCHIA. Scrive il 13 Settembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". Ha rischiato il linciaggio il 17enne reo confesso dell’omicidio della sedicenne Noemi Durini quando, poco fa, è uscito dalla sede della stazione carabinieri di Specchia dove è stato ascoltato per molte ore alla presenza del proprio difensore e del procuratore capo del tribunale dei minori Maria Cristina Rizzo. All’uscita il giovane si è reso protagonista di atteggiamenti irriguardosi e di sfida alzando la mano destra in segno di saluto alla gente che gli fischiava contro e lo apostrofava. «L'ho ammazzata perché premeva per mettere in atto l’uccisione di tutta la mia famiglia": così avrebbe detto agli inquirenti, alla presenza del proprio legale, il 17enne sottoposto da ieri sera a fermo per l’omicidio volontario di Noemi Durini, la sedicenne di Castrignano del Capo il cui cadavere è stato trovato ieri, sepolto dalle pietre, a 11 giorni dalla sua scomparsa. Il ragazzo è stato ascoltato in un lungo interrogatorio terminato nella notte. L’avrebbe uccisa - ha raccontato il 17enne - con lo stesso coltello che Noemi aveva portato con sé. "Ho reagito - questo il racconto di Lucio - di fronte all’ ostinazione di Noemi a voler portare a termine il progetto dello sterminio della mia famiglia». «Ero innamoratissimo di lei": è questa una delle frasi che Lucio, il 17enne omicida reo confesso dell’omicidio di Noemi Durini avrebbe detto durante l'interrogatorio che si è svolto nella notte, alla presenza del suo difensore, nella stazione dei carabinieri di Specchia. «Dopo lo sterminio della mia famiglia volevamo fuggire a Milano». E’ uno dei passaggi fatti dal 17enne di Alessano reo confesso dell’omicidio della sedicenne di Specchia, Noemi Durini. Nell’interrogatorio che si è concluso nella notte il ragazzo ha raccontato agli investigatori del progetto di sterminio della sua famiglia che Noemi premeva fosse messo in atto per vivere liberamente il loro amore. Subito dopo l’uccisione dei componenti della famiglia di lui, i due - sempre secondo il racconto dell’omicida reo confesso - avrebbero progettato di fuggire a Milano e a prova di quanto da lui detto, il giovane ha affermato agli investigatori che avrebbero potuto trovare sotto il suo letto una lista di numeri di telefono di Milano, numeri di telefono di luoghi dove era possibile poter dormire.
«Vigile e cosciente della sua posizione». Così il procuratore per i minori di Lecce Maria Cristina Rizzo, presente all’interrogatorio terminato nella notte, ha definito il 17enne reo confesso dell’omicidio di Noemi Durini.
Noemi Durini era scomparsa da casa il 3 settembre scorso: l’ultima sua immagine è stata catturata da una telecamera di sorveglianza e risale alle 5 del mattino di quel giorno. Si vede una Fiat 500 bianca sulla quale sale e alla cui guida si trova il fidanzato 17enne che oggi, a 11 giorni dalla scomparsa della ragazzina, ha confessato l’omicidio. Nell’immagine si vede l’utilitaria arrivare e fermarsi in via San Nicola, a Specchia, a poche centinaia di metri da casa della giovane. A bordo ci sono i due fidanzati, con il 17enne al volante della vettura intestata alla madre. Agli inquirenti, per giorni, il 17enne, di Alessano, ha raccontato di aver accompagnato la sedicenne nei pressi del campo sportivo di Alessano e di averla lasciata lì. Ma la versione del ragazzo, sin dal primo momento, non ha convinto gli investigatori che hanno concentrato l’attenzione sul 17enne, un ragazzo dalla personalità violenta. E c'è un breve filmato che descrive bene il suo carattere: il 17enne è stato ripreso mentre rompe a colpi di sedia i vetri di una vecchia Nissan Micra parcheggiata per strada ad Alessano. L’auto sarebbe di una persona con la quale il giovane avrebbe avuto un acceso litigio e risalirebbe alla scorsa settimana, pochi giorni dopo la scomparsa di Noemi e poco tempo dopo un alterco avuto con il padre della sedicenne che si era recato ad Alessano per avere informazioni sulla figlia. I famigliari di Noemi avevano un rapporto conflittuale con il 17enne: non volevano che la sedicenne avesse una relazione con lui. Qualche tempo fa la mamma di Noemi aveva segnalato alla magistratura minorile il ragazzo a causa del suo comportamento violento. Per questo motivo erano sorti accesi contrasti tra le due famiglie. A far temere il peggio è stato il fatto che Noemi aveva lasciato a casa il cellulare, i documenti e i soldi. Numerosi gli appelli dei famigliari, soprattutto della nonna e della sorella di Noemi, Benedetta, che il 28 settembre deve laurearsi e che proprio ieri aveva detto ai giornalisti di essere ottimista: 'alla mia laurea - aveva detto - ci sarà anche leì. Invece oggi la confessione del ragazzo.
Il cadavere della sedicenne è stato trovato sotto dei massi, adagiato per terra, in una campagna, a Castrignano del Capo, a 30 chilometri da Specchia, il paese dove viveva la ragazza. A condurre gli investigatori sul posto è stato lo stesso ragazzo che è indagato per omicidio volontario assieme al papà 41enne. Sul luogo del ritrovamento del cadavere ci sono i magistrati della procura ordinaria e di quella dei minorenni che si stanno occupando del caso. I genitori della 16enne hanno appreso della confessione del 17enne mentre erano in prefettura a Lecce dove doveva cominciare una conferenza stampa alla quale dovevano partecipare. La mamma di Noemi è stata colta da malore ed è stato richiesto l’intervento di un’ambulanza. La ragazzina, come confermano i primi esami medico legali, è stata uccisa con una pietra il giorno della sua scomparsa. Per le ricerche di Noemi erano stati utilizzati anche i cani molecolari. Gli investigatori hanno cercato nei casolari abbandonati, negli inghiottitoi, nei pozzi e nelle grotte tra la cittadina in cui viveva la ragazzina, Specchia, il paesino in cui risiede il suo fidanzato 17enne, Alessano, fino al Capo di Leuca. I vigili del fuoco del Saf ieri si sono calati con un’autoscala nelle Vore di Barbarano, una voragine profonda circa 40 metri. Ma della ragazzina nessuna traccia. Da qui la decisione, di accelerare gli accertamenti iscrivendo, stamani, i nomi del 17enne e del padre di quest’ultimo indagato per sequestro di persona e occultamento di cadavere (l'ìnformazione di garanzia è stata notificata nel corso di una perquisizione nella sua abitazione). Il diciassette reo confesso dell’omicidio di Noemi Durini è in una caserma dei carabinieri dopo aver fatto trovare oggi, nelle campagne di Castrignano del Capo, il cadavere della fidanzata 16enne scomparsa il 3 settembre. Nei suoi confronti sarà emesso un provvedimento cautelare. Sul luogo in cui è stato trovato il corpo sono al lavoro i carabinieri del Ris per i rilievi di rito e i magistrati. La strada che porta al luogo di ritrovamento del cadavere è delimitata da un nastro rosso e nessuno può avvicinarsi. Anche i giornalisti sono tenuti a distanza. Qualche settimana fa il fidanzato 17enne e presunto assassino di Noemi Durini era stato denunciato alla Procura per i minorenni dalla mamma di Noemi, Imma Rizzo, a causa del suo carattere violento. La donna, che temeva per la sorte della figlia che da un anno frequentava il giovane, chiedeva ai magistrati di intervenire per far cessare il comportamento violento del ragazzo e per allontanarlo dalla figlia. Ne erano nati due procedimenti: uno penale per violenza privata, l’altro, civile, per verificare il contesto familiare in cui vive il giovane e se fossero in atto azioni o provvedimenti per porre fine alla sua indole violenta. Procedimenti - a quanto è dato sapere - che non hanno portato ad alcun provvedimento cautelare, come il divieto di avvicinarsi alla sedicenne, ma che sono stati attualizzati dalla Procura per i minorenni solo dopo la denuncia di scomparsa di Noemi. L’unica conseguenza che ha prodotto la denuncia della mamma della 16enne è stato un inasprimento dei rapporti tra le famiglie dei due fidanzati. Il fidanzato e presunto assassino di Noemi «era possessivo e geloso, non voleva che mia cugina vedesse altre persone, la picchiava». Lo dice Davide, cugino di Noemi, la sedicenne scomparsa il 3 settembre da Specchia il cui cadavere è stato trovato oggi nelle campagne di Castrignano del Capo dopo la confessione del 17enne. "Noemi, assieme ai genitori, era andata anche in caserma per denunciare le aggressioni subite dal diciassettenne, e aveva ancora i segni della violenza sul volto - racconta il giovane -, ma non è stato fatto nulla».
L’abitazione a Specchia in cui viveva Noemi Durini, la ragazza di 16 anni scomparsa il 3 settembre scorso il cui cadavere è stato trovato oggi dopo che il fidanzato 17 enne ha confessato di averla uccisa, è presidiata a distanza dai carabinieri e da alcuni amici della famiglia. Nessuno dei parenti della ragazza ha voglia di parlare ed è stato chiesto alle forze dell’ordine di evitare riprese per tutelare la privacy. Dal portone di casa di Noemi entrano ed escono parenti e amici della ragazza in un clima di grande tristezza che traspare dai volti della gente. La strada - via Madonna del Passo - è stata parzialmente transennata proprio per rispettare il dolore dei famigliari della ragazza. «Sono sgomento. È una tragedia difficile da metabolizzare": lo ha detto il sindaco di Specchia, Rocco Pagliara, commentando il ritrovamento del cadavere della sedicenne Noemi Durini, il cui omicidio è stato confessato dal fidanzato 17enne. Il primo cittadino poco fa è entrato nell’abitazione in cui la sedicenne uccisa viveva con la sorella Benedetta e la madre, che è separata dal padre, per portare il cordoglio di tutta la comunità locale, ma non ha potuto parlare con la madre della ragazza perché la donna stava riposando, prostrata dal dolore. Il sindaco ha intanto proclamato da subito il lutto cittadino, che ovviamente si protrarrà sino al giorno dei funerali di Noemi. «Ci abbiamo creduto sino alla fine - ha detto ancora il sindaco - abbiamo lavorato dal primo momento sperando nella buona notizia, abbiamo chiesto ai media di tenere i riflettori accesi sulla vicenda. Poi stamani il prefetto ci ha dato la terribile notizia». Il sindaco ha riferito che domani alle 17 incontrerà il parroco di Specchia per concordare iniziative di sostegno alla famiglia di Noemi, mentre il Comune sta pensando di accollarsi le spese del funerale della sedicenne.
«L'ho vista per l’ultima volta il sabato precedente alla scomparsa - dice singhiozzando il nonno, Vito - era tranquilla». L'uomo piange quasi costantemente, cerca di darsi forza appoggiandosi al muro di un’abitazione, a pochi metri da quella della sua nipote, e fuma nervosamente un piccolo sigaro. A chi gli mette una mano sulla spalla per consolarlo, lui risponde: "La forza prima o poi se ne va». Scuote la testa quando gli si dice che la mamma di Noemi aveva denunciato per due volte per violenze il fidanzato di sua nipote. «L'ho visto solo una volta" ricorda, forse pensando se avrebbe mai potuto fermarlo. Un ragazzo che sarebbe stato tradito - contrariamente a quanto si era saputo inizialmente - anche da alcune tracce ematiche trovate nell’auto da lui guidata e lasciate probabilmente dopo il delitto, nonostante una presunta opera di pulizia delle stesse tracce.
Un ragazzo violento. A 17 anni era già in cura al Sert per uso di droghe leggere, aveva subito tre trattamenti sanitari obbligatori in un anno e aveva qualche guaio con la giustizia. Pur non avendo la patente, guidava regolarmente la Fiat 500 della mamma, fatto di cui si vantava con gli amici. Non riusciva a controllarsi, era irascibile con tutti, anche con la sua fidanzata, una studentessa ribelle e innamoratissima di lui, tanto da assecondarlo ogni volta, anche se il ragazzo la picchiava perché geloso e possessivo. E’ questo il ritratto che gli investigatori fanno sulla personalità del fidanzato di Noemi Durini, che oggi ha confessato il delitto della sedicenne scomparsa da Specchia all’alba del 3 settembre. Ciò che descrive meglio la personalità del giovane è un breve video, acquisito dai carabinieri, nel quale il 17enne, la scorsa settimana, è stato ripreso con un cellulare da un automobilista mentre rompe a colpi di sedia i vetri di una vecchia Nissan Micra parcheggiata per strada ad Alessano. L’auto sarebbe di una persona con la quale il giovane avrebbe avuto un acceso litigio pochi giorni dopo la scomparsa della minorenne e poco tempo dopo un alterco avuto con il padre di Noemi che si era recato ad Alessano, città in cui vive la famiglia del 17enne, per avere notizie sulla figlia. Ma c'è di più. Qualche settimana fa il ragazzo era stato denunciato alla Procura per i minorenni dalla mamma di Noemi, Imma Rizzo. La donna chiedeva ai magistrati di intervenire per far cessare il comportamento violento del ragazzo e per allontanarlo dalla figlia, che frequentava con qualche difficoltà l’istituto professionale 'Don Tonino Bellò di Alessano. Il fidanzato «era possessivo e geloso, non voleva che mia cugina vedesse altre persone, la picchiava», racconta Davide, cugino della vittima. L'unica conseguenza che ha prodotto la denuncia della mamma della 16enne è stato un inasprimento dei rapporti tra le famiglie dei due fidanzati. Forse a causa delle violenze subite la ragazzina, il 23 agosto, aveva condiviso di Facebook il post di Amor De Lejos, Amor De Pendejos in cui si vede il volto emaciato di una ragazza alla quale la mano di un giovane imbavaglia la bocca. Sul polso del ragazzo c'è un tatuaggio con la scritta 'Love?'. "Non è amore se ti fa male. Non è amore - è scritto - se ti controlla. Non è amore se ti fa paura di essere ciò che sei. Non è amore, se ti picchia. Non è amore se ti umilia (...). Il nome è abuso. E tu meriti l’amore. Molto amore. C'è vita fuori da una relazione abusiva. Fidati!». Ma Noemi non si è fidata, ha voluto rischiare. All’alba del 3 settembre è uscita da casa per incontrare il fidanzato, forse dopo una telefonata, ed è stata uccisa. E pensare che un mese fa, il 12 agosto, i due avevano festeggiato il loro primo anno di fidanzamento. Noemi aveva scritto su Fb: «E non stupitevi se siamo ancora qua, abbiamo detto per sempre e per sempre sarà!».
Noemi: dopo ore d’interrogatorio, il fidanzato “saluta” la folla e lascia la caserma. Esplode la rabbia, scrive TRNews il 14 settembre 2017. Pochi minuti dopo la mezzanotte, il fidanzato di Noemi ha lasciato la caserma dei carabinieri di Specchia. Fuori, ad attenderlo, diversi cittadini pieni di rabbia e rancore. Inutile commentare le urla e le parole di disprezzo contro il ragazzino, che proprio nella tarda mattinata di mercoledì 13 settembre ha confessato l’omicidio della 16enne, indicando agli inquirenti il luogo in cui si è verificata la tragedia e dove nelle scorse ore è stato recuperato il cadavere: all’interno di una campagna di Castrignano del Capo, in una fossa ricoperta da sassi, a ridosso di un muretto. I carabinieri hanno cercato di calmare i cittadini, chiamando anche alcuni rinforzi davanti all’ingresso. Poi, dieci minuti dopo la mezzanotte si è aperta la porta e lui, con una felpa bianca e cappuccio, “ha salutato”, ha sorriso alla folla e subito dopo è salito in fretta e furia sull’auto della pattuglia, tra le urla di disprezzo e rabbia di un’intera comunità che ora chiede solo giustizia.
La 16enne ammazzata a colpi di pietra. Il procuratore: “lui aveva problemi psichici”, scrive TrNews il 13 settembre 2017. Un cumulo di pietre, ai piedi di un muretto a secco, è stata la tomba di Noemi per dieci giorni. Il suo corpo è stato portato via da pochi minuti, intorno alle 17, dopo ore estenuanti per poter tirarlo via e ricomporlo degnamente, prima di trasferirlo nella camera mortuaria del Vito Fazzi per l’autopsia. Sul posto, in un oliveto a due passi dal mare di Leuca, resta lo sgomento. La Scientifica ha effettuato i rilievi, ma la calca è tanta e oltre ai giornalisti ci sono tanti, troppi curiosi. Quel che appare certo è che la 16enne di Specchia sia stata uccisa qui, a colpi di pietra, e trascinata sotto al muro, coperta da vari massi. Era visibile solo il suo piede. Lo stato in cui il cadavere è stato ritrovato è compatibile con un decesso avvenuto dieci giorni fa. Il luogo è stato indicato dallo stesso fidanzato, durante la confessione resa ai carabinieri. Non si conosce ancora il movente, probabilmente gelosia, non si sa se all’alba di quella domenica 3 settembre, dopo averla presa da casa con la 500 bianca, lui – che da minorenne non poteva neppure guidare – l’abbia portata qui per cercare un po’ di intimità o per provare ad avere un chiarimento o se fosse già nelle sue intenzioni scegliere questo luogo per arrivare al peggio. Se sia stato un delitto premeditato o d’impeto saranno le indagini a dirlo. Ma è sicuro che il fidanzato di Noemi dei problemi li aveva già. “Problemi psichici documentati”, come ribadito dal procuratore capo Leonardo Leone De Castris, sul posto assieme alla dottoressa Maria Cristina Rizzo della Procura dei Minori. Il dolore è tanto. Nei campi arriva anche il sindaco di Castrignano del Capo, Santo Papa, commosso ed esterefatto: “sono qui per portare la mia solidarietà alla famiglia e alla comunità di Specchia”, dice. Il cerchio si era stretto sin da subito attorno al 17enne di Montesardo. Il pressing di questi giorni lo ha portato a confessare un delitto in cui nessuno, inizialmente, pensava si potesse tramutare l’ipotesi di una fuitina tra fidanzati.
Noemi, il giorno più buio. Il fidanzato confessa: “L’ho uccisa io”, scrive il 13 settembre 2017 TRNews". “Mi dispiace comunicarvi una triste notizia: è stato trovato il corpo senza vita di Noemi”. Con queste parole ha inizio una terribile giornata, quella che nessuno avrebbe mai voluto vivere. A pochi minuti dalla notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati del fidanzato di Noemi, con l’accusa di omicidio volontario, ecco giungere la sua confessione del luogo in cui era stata uccisa e sepolta. Una confessione che ha fatto saltare anche la conferenza stampa con la famiglia e che ha fatto calare un triste sipario, dopo 10 giorni di ansia e attesa. Inutile commentare il malore della mamma di Noemi dopo aver appreso la notizia, che ha portato in una folle corsa sul luogo del ritrovamento: a Castrignano del Capo, in una campagna, in località San Giuseppe. Sul posto vigili del fuoco, 118, protezione civile, i Ris, i Saf, mentre a pochi passi tantissima gente, amici e parenti si sono radunati tra abbracci, lacrime e tanta rabbia. Alle 17.00 le nostre telecamere sono riuscite ad avvicinarsi sul posto dove Noemi è stata uccisa e poi sepolta in una fossa, coperta da pietre, a ridosso di un muretto a secco. La morte risalirebbe al giorno stesso in cui la ragazza è scomparsa da Specchia: domenica 3 settembre. Poco dopo, in un rispettoso silenzio, il corpo della 16enne è stato prelevato e portato via su un carro funebre a margine di una giornata ancora piena di punti interrogativi e con un’unica certezza: Noemi non c’è più.
Il 17enne in caserma per tutto il giorno, indagato anche il padre, scrive il 13 settembre 2017 "TrNews". Il fidanzato di Noemi è stato trattenuto in caserma, a Specchia, per tutto il giorno, dopo la confessione che ha permesso ai carabinieri della locale stazione di ritrovare il corpo. È indagato per omicidio volontario e occultamento di cadavere. E un avviso di garanzia per sequestro di persona e occultamento di cadavere è stato notificato anche al papà del 17enne assassino reo confesso. L’atto, dovuto, gli è stato notificato in occasione della perquisizione nell’abitazione di famiglia a Montesardo, frazione di Alessano. Stamattina, invece, si era invece appreso che il papà del 17enne era sottoposto ad indagini per omicidio volontario in concorso con il figlio. Qualche settimana fa, il 17enne era stato denunciato alla Procura per i minorenni dalla mamma della vittima, Imma Rizzo, a causa del suo carattere violento. La donna chiedeva ai magistrati di intervenire per far cessare il comportamento violento del ragazzo e per allontanarlo dalla figlia. Da lì sono scaturiti due procedimenti: uno penale per violenza privata, l’altro, civile, per verificare il contesto familiare in cui vive il giovane e se fossero in atto azioni o provvedimenti per porre fine alla sua indole violenta. Procedimenti – a quanto è dato sapere – che non hanno portato ad alcun provvedimento cautelare, come il divieto di avvicinarsi alla sedicenne, ma che sono stati attualizzati dalla Procura per i minorenni solo dopo la denuncia di scomparsa di Noemi. L’unica conseguenza che ha prodotto la denuncia della mamma della 16enne è stato un inasprimento dei rapporti tra le famiglie dei due fidanzati.
Lo strazio della mamma di Noemi, lapidata a 16 anni dal fidanzato. «Hanno portato via la mia pazzarella», scrive Francesco Sozzo, Giovedì 14 Settembre 2017, su “Il Mattino”. «Hanno ritrovato Noemi. Morta». Imma non regge. Grida e crolla in uno dei saloni della Prefettura di Lecce, mentre aspettava di partecipare ad una conferenza stampa convocata dalla famiglia e dal legale, Mario Blandolino per fare l'ennesimo appello alla figlia. Ma era morta. «Lo sapevate, lo sapevate tutti che lui l'aveva ammazzata». Non si dà pace mamma Imma Rizzo. Aveva provato in ogni modo a convincere sua figlia Noemi,16 anni, che era meglio lasciarlo perdere quel ragazzino che l'amava in maniera così morbosa. Che non voleva uscisse con altri, che frequentasse gli amici, soprattutto che la picchiava. Perché mamma Imma prima dell'estate aveva provato anche a denunciarlo L.M., il fidanzatino-assassino. Ma senza risultati. La pazzareddha de casa, la chiamava mamma Imma, ovvero la pazzerella di casa. Purtroppo non ha potuto mandare il messaggio alla sua figlia. In tarda mattinata la Procura ha avvisato il prefetto Claudio Palomba: il fidanzato della giovane ha confessato. L'ha uccisa lui. E ha fatto trovare il corpo. Era in Prefettura mamma Imma, insieme con la sorella maggiore di Noemi, Benedetta, quando ha saputo che non c'era più nulla da fare. Da lì a poco l'arrivo, a sirene spiegate, di un'ambulanza nel cortile della Prefettura. Imma non ha retto alla notizia. «Ha avuto una forte reazione emotiva», si è limitato a dire il prefetto di Lecce. Al riparo dei fotografi, in uno dei saloni della Prefettura, Imma si è disperata, ce l'aveva con tutto il mondo, con la famiglia del fidanzato, con lo stesso ragazzo. Non si dava pace, diceva che forse si sarebbe dovuti intervenire prima. «Se l'avessimo cercata prima...», continuava a dire. A gridare la rabbia, furibonda, incontenibile, invece è stata la cugina di Noemi, Alma Morciano. Arrivata sul posto, in mezzo a centinaia di curiosi che pian piano hanno intasato la provinciale, Alma ha urlato: «Lo sapevate tutti». A fermarla il padre, che l'ha abbracciata stretta, quasi per non farla muovere, per cercare di calmarla. Ma Alma non si è data pace: «Vi ammazzo tutti», ha gridato piangendo. Intanto a Specchia la protezione civile e i carabinieri hanno provveduto a limitare l'accesso alla gente in via Madonna del Passo dove vivono la mamma, la sorella e i nonni di Noemi. In strada, appoggiato ad un muro, jeans e camicia a quadri, c'è nonno Vito. Capelli bianchi, occhi azzurri, viso rigato dal sole e dalle lacrime: «Chi è stato a compiere tutto questo è un bastardo e un animale che non capisce niente». Imma non nascondeva la sua contrarietà alla relazione che Noemi aveva con il 17enne di Montesardo. In cuor suo sperava che la storia finisse. Da mamma sapeva che quello non poteva essere amore. Era una relazione malata dalla quale non è riuscita a difendere la figlia Immediato l'intervento dei medici del 118, arrivati in Prefettura per assisterla. Imma è in casa con il suo dolore e con quella speranza ormai infranta. Aveva lottato, era convinta di poter ritrovare Noemi sana e salva. Invece così non è stato. A portargliela via, quell'amore adolescenziale troppo malato.
Noemi poteva essere ancora viva, il ragazzo poteva essere fermato prima, scrive il 14 settembre 2017 "La voce di Venezia". Noemi potrebbe essere oggi ancora viva, se “Qualcuno avesse fatto qualcosa”. Questa la sensazione che trapela dal dolore il giorno dopo la scoperta della tragedia. La casa di Noemi, alla fine di un vicolo che porta al numero 73 di via Madonna del Passo, nel borgo antico di Specchia, è presidiata a distanza dai carabinieri. Niente telecamere, accesso consentito solo a parenti e amici della sedicenne uccisa dal fidanzato 17enne la cui relazione era mal vista dalla famiglia della ragazza, tanto che la madre di lei aveva denunciato per due volte il ragazzo accusandolo di picchiare la sedicenne. Noemi ha vissuto qui fino al 3 settembre scorso, giorno della sua scomparsa e probabilmente della sua morte, viveva con la madre, Imma Rizzo, con la sorella maggiore Benedetta, prossima laureanda, e la sorellina di 9 anni. “L’ho vista per l’ultima volta il sabato precedente alla scomparsa – dice singhiozzando il nonno, Vito – era tranquilla”. L’uomo piange quasi costantemente, cerca di darsi forza appoggiandosi al muro di un’abitazione, a pochi metri da quella della sua nipote, e fuma nervosamente un piccolo sigaro. A chi gli mette una mano sulla spalla per consolarlo, lui risponde: “La forza prima o poi se ne va”. Scuote la testa quando gli si dice che la mamma di Noemi aveva denunciato per due volte per violenze il fidanzato di sua nipote. “L’ho visto solo una volta” ricorda, forse pensando se avrebbe mai potuto fermarlo. Un ragazzo che sarebbe stato ‘tradito’ – contrariamente a quanto si era saputo inizialmente – anche da alcune tracce di sangue trovate nell’auto da lui guidata e lasciate probabilmente dopo il delitto, nonostante una presunta opera di ‘pulizia’ delle stesse tracce. In via Madonna del Passo, transennata per 200 metri per rispettare il dolore della famiglia di Noemi, oggi si parlava a bassa voce, si camminava a testa bassa e c’era chi, passando a piedi, rivolgeva uno sguardo furtivo a quel vicolo, ma probabilmente avrebbe voluto abbracciare chi sta vivendo momenti terribili dietro quelle mura. “Sono sgomento, è una tragedia difficile da metabolizzare” dice il sindaco di Specchia, Rocco Pagliara, pensando a come improvvisamente il suo paese di sole cinquemila anime sia finito sotto i riflettori. Pagliara è appena uscito da casa di Noemi, ma non ha potuto parlare con la madre della ragazza. In quei frangenti stava riposando, spiega, la donna è distrutta dal dolore. “Ci abbiamo creduto fino all’ultimo di trovarla viva – ripete – abbiamo cercato subito di far coordinare le ricerche e chiesto ai media di non spegnere mai i riflettori sulla scomparsa di Noemi. Poi stamani il prefetto ci ha dato la notizia che non avremmo mai voluto sentire ed è crollato tutto”. Il fidanzato e presunto assassino di Noemi “era possessivo e geloso, non voleva che mia cugina vedesse altre persone, la picchiava”, racconta Davide, cugino della sedicenne. “Noemi, assieme ai genitori, – continua il ragazzo – era andata anche in caserma per denunciare le aggressioni subite dal diciassettenne, e aveva ancora i segni della violenza sul volto – racconta il giovane -, ma non è stato fatto nulla”. A Specchia già da oggi è stato proclamato il lutto cittadino, che proseguirà fino al giorno dei funerali di Noemi, di cui il Comune dovrebbe accollarsi l’onere. Domani il sindaco incontrerà il parroco del paese per concordare iniziative concrete dell’intera comunità locale a sostegno della famiglia della ragazza. Specchia non vuole dimenticare, ma ripartire da una tragedia senza precedenti. Noemi Durini, ira dei familiari: autorità sapevano ma non hanno fatto niente.
Nonostante la denuncia per violenze della madre della 16enne uccisa, la Procura dei minori non ha mai emesso misure cautelari nei confronti del fidanzato reo confesso, scrive Tgcom il 14 settembre 2017. "Tutti sapevano e nessuno ha fatto niente". E' l'urlo lanciato, in prefettura a Lecce, dalla sorella maggiore di Noemi Durini dopo la confessione del fidanzato killer. E ora ci si chiede come mai le autorità non siano intervenute prima allontanando il 17enne quando era ancora possibile. Era risaputo che il giovane avesse comportamenti violenti nei confronti della ragazza. Le violenze erano state denunciate dalla madre di Noemi alla Procura dei minori. Ne erano nati due procedimenti: uno penale per violenza privata, l'altro, civile, per verificare il contesto familiare. Ma, nonostante questo, nessun divieto di avvicinamento era stato attivato dalla Procura dei minori che ha attualizzato il provvedimento cautelare solo dopo la denuncia della scomparsa. La rabbia della famiglia - "La picchiava. Era possessivo e geloso, non voleva che mia cugina vedesse altre persone, la picchiava", afferma il cugino della vittima. "Noemi, assieme ai genitori, era andata anche in caserma per denunciare le aggressioni subite e aveva ancora i segni della violenza sul volto – racconta il giovane – ma non è stato fatto nulla". "Bisognava intervenire, allontanarlo prima e affidarlo a una casa di cura ma la legge comanda, fa quello che vuole", ha detto da parte sua il nonno.
La tragedia di Noemi, le denunce nel vuoto e un ragazzo-uomo sbagliato, scrive il 13 Settembre 2017 "Piazza Salento". Il ragazzo era stato soggetto a diversi trattamenti sanitari obbligatori; era stato denunciato dalla madre di lei per gli atteggiamenti violenti e con la richiesta di allontanarlo; si erano avviati due procedimenti, uno penale per violenza privata, l’altro civile per vedere se ci fossero programmi o interventi per curare l’indole del 17enne L.M.. Niente. Non era accaduto niente, nessun provvedimento cautelare a difesa di Noemi Durini, visti anche i rapporti di carabinieri e servizi sociali sulla situazione. Solo alla notizia della scomparsa della ragazza, La Procura per i minori aveva preso in mano il fascicolo. L’unica conseguenza pratica alla denuncia di Emma Rizzo era stato un inasprimento dei rapporti, già molto tesi, tra le due famiglie. Quella del 17enne non vedeva di buon occhio quel rapporto con una 16enne giudicata troppo indipendente e libera; quella della 16enne messa in guardia tra l’altro dai segni delle violenze subite dalla propria congiunta. Come faceva un 17enne a guidare la macchina in un paese in cui tutti si conoscono e sanno che non aveva l’età? L’aveva presa di nascosto dalla madre, come nell’alba del 3 settembre, per l’ultimo definitivo viaggio con lei? Noemi esce di casa alla chiamata giunta al cellulare, esce senza portare niente con sé, evidentemente convinta di dover sostenere l’ennesimo litigio – forse perché non aveva voluto uscire in quel sabato – e poi di poter tornare in casa. Tra i due le grandini di foto da innamorati folli si susseguono ad abissi di divieti e scontri. Lei si va convincendo, sostenta dalle amiche del cuore, che non si può andare avanti così. Il 12 agosto su Facebook pubblica risvolti drammatici di questa relazione: “Non è amore se ti fa male, se ti controlla, se ti picchia, se ti umilia, se si fa paura, se ti proibisce di indossare i vestiti che ti piacciono, se ti impedisce di studiare o di lavorare, se ti tradisce, se ti fa sentire piccola, stupida, pazza…”. Se ne sta convincendo ma non è ancora pronta a troncare. I suoi familiari lo vorrebbero. Quando scoprono il letto vuoto la mattina di domenica sanno già cosa pensare. Quando il padre si reca ad Alessano per incontrare il giovane e chiedere notizie l’alterco è dietro l’angolo ed infatti scoppia. Uno dei tanti degli ultimi mesi. Ma ormai poco importa quanto poteva succedere – se magari ci fossero state risposte più tempestive da parte delle autorità chiamate in causa – e non è stato. “La legge…la legge fa quello che vuole, dice quello che vuole …” commenta amaro il nonno di Noemi in una dichiarazione a Telenorba. Certo non gli interessa che adesso siano arrivati tre magistrati (il Procuratore capo, il magistrato della Procura ordinaria e quello dei Minori). Però spera nella giustizia: “Il lavoro non lo ha fatto da solo”, ripete convinto. Il riferimento logico sembra essere al padre di lui, sotto inchiesta per il momento. Quel corpo trasportato in una stradina che collega Castrignano del Capo a Leuca e poi nascosto alla meglio sotto un cumulo di pietre potrebbe aver richiesto l’aiuto di qualcuno per arrivare lì dove lo hanno trovato. “C’è chi nasce e chi muore, io da morto sono rinato” ha scritto pochi giorni fa nella rete social il giovane. E ancora. “Ho smesso di affezionarmi alle persone, tanto o ti lasciano o ti tradiscono”. A seguire un grande adesivo al gruppo Truceklan, rapper romani particolarmente violenti. Non stava bene l’omicida e non da ora. E non solo perché pensava di essere il padrone di una donna. Omicidio volontario e occultamento di cadavere sono i reati di cui dovrà rispondere, lui che voleva entrare nel mondo dei grandi dalla parte più sbagliata. “Ora che so per certo che quello che ho visto e pensato è la causa di tutto questo – scrive una amica della vittima – non posso far altro che ricordare i momenti trascorsi con te… quando mi chiamavi e mi chiedevi aiuto, ti vedevo distrutta, ti dicevo di lasciarlo… ma non ne hai avuto modo”. Il luogo dove ha giaciuto per dieci giorni Noemi adesso ha qualche cero e mazzi di fiori. Una cosa normale, in questi casi, per una vita che ha preso alla fine un’altra strada.
Quell’amore controverso e i retroscena su fb. Il padre di lui: “un cancro”, scrive il 13 settembre 2017 Trnews. Se di amore si può parlare, quello tra Noemi Durini e Lucio di sano sembra proprio non aver avuto nulla. Un rapporto che non poteva certamente godere della benedizione della famiglia di lei, che più volte aveva visto rientrare a casa la figlia con segni di violenza sul corpo, stando alla denuncia sporta dalla madre. Ma i retroscena viaggiano in rete, e riguardano anche il padre di lui: lo scorso 11 agosto Noemi aggiorna lo stato sentimentale sul suo profilo fb da “single” in “fidanzata ufficialmente”. Il padre di Lucio è il primo a commentare: “un cancro” scrive. A tenere in vita in legame dunque, tra un tira e molla e l’altro, erano solo i due giovani protagonisti di una storia che è culminata in tragedia. Lo scorso 12 agosto Noemi pubblica sul suo profilo un photo collage di lei e Lucio insieme in più occasioni: si abbracciano, si baciano, sorridono all’obiettivo. “E non stupitevi se siamo ancora qui -scrive Noemi- abbiamo detto per sempre, e per sempre sarà”. Lei che il suo Lucio “non lo avrebbe dato neanche se lo avesse avuto doppio” così come scrive in uno dei tanti post dedicati a lui. Il “per sempre” però non manca neanche nei post di lui: “andiamo via” cita la sua immagine di copertina, e poi “ho bisogno di te” scrive. Ma in quelle stesse pagine tante ombre: Noemi, più volte, condivide post e citazioni sull’amore violento, “quello che lascia lividi e cicatrici e che in realtà amore non è”. Intanto lui racconta, sempre a mezzo post, di quella fiducia persa nelle persone: “ho smesso di affezionarmi -scrive lo scorso 9 agosto- tanto o ti abbandonano o ti tradiscono”. I due profili, poco dopo la confessione e il ritrovamento del cadavere di Noemi, si trasformano nuovamente: il sole e la luna. Sulla bacheca fb di lei tantissime le immagini e le dediche. Amici, compaesani, compagni di scuola: “ti ricorderemo così: felice spensierata -scrivono- un angelo strappato via troppo presto dalla violenza, rifugio degli incapaci”. Sulla bacheca di lui, invece, va in scena il linciaggio di chi ancora non si spiega come abbia potuto un 17enne uccidere e tacere tanto a lungo proprio lei, Noemi, che per lui la vita l’avrebbe data, ma certamente non così. E.Fio
Chi l’ha visto, i genitori del fidanzato di Noemi Durini scoprono in tv che il figlio ha confessato. Una delle scene più brutali della tv italiana: Chi l'ha visto? ha mandato in onda l'intervista in cui il padre di Lucio, Biagio Marzo, faceva pesanti insinuazioni nei confronti di Noemi Durini e la dipingeva come una poco di buono. Poi la notizia, scrive "Next Quotidiano" giovedì 14 settembre. Ieri a Chi l’ha visto è andata in onda una delle scene più brutali della storia della televisione italiana. I genitori del fidanzato di Noemi Durini, che ieri ha confessato di aver ucciso la fidanzata 16enne e di aver nascosto il cadavere, sono stati intervistati da Paola Grauso mentre il figlio si trovava alla stazione dei carabinieri di Specchia. I due erano ignari di quanto stesse succedendo e hanno appreso dalla giornalista che il figlio aveva confessato. Chi l’ha visto? ha mandato in onda l’intervista in cui il padre Biagio faceva pesanti insinuazioni nei confronti di Noemi Durini e la dipingeva come una poco di buono, seguita dalla reazione dei due alla notizia della confessione del figlio. Al padre del ragazzo ieri sera è stato consegnato un avviso di garanzia per sequestro di persona e occultamento di cadavere. L’atto è stato notificato all’indagato in occasione della perquisizione in corso nell’abitazione di famiglia a Montesardo, frazione di Alessano. Stamani si era invece appreso che il papà del 17enne era sottoposto ad indagini per omicidio volontario in concorso con il figlio. Ma è quello che si è visto e sentito nell’intervista di Chi l’ha visto ad aver shockato di più. Nell’intervista il padre Biagio ha infatti raccontato di un rapporto difficile tra i due ragazzi ma ha anche detto, tra l’altro in un italiano perfetto e senza usare nemmeno una parola di dialetto, che la ragazza era “esperta”, volendo alludere che lei ha in qualche modo circuito il figlio; ha anche raccontato un episodio – del quale non si era fatto parola prima – che riguardava Noemi, la quale si sarebbe nascosta in un armadio di casa loro per non farsi vedere dai genitori di notte per poi andare nella camera del figlio. Il padre ha anche offerto una spiegazione per il video, pubblicato ieri proprio da Chi l’ha visto?, in cui si vede il ragazzo ora accusato di omicidio mentre rompe i vetri di un’automobile parcheggiata con una sedia. Secondo Biagio il figlio sarebbe andato ad un appuntamento con il padre di Noemi e altri parenti della ragazza che lo avrebbero aggredito, poi ha chiamato i carabinieri per denunciare l’aggressione e ha spaccato i vetri dell’automobile per non consentire ai proprietari di andarsene con l’auto in attesa dei carabinieri. L’auto, ha sempre detto il padre del ragazzo, non era assicurata e per questo è stata sequestrata. Il padre ha anche detto che il figlio è stato sottoposto a tre trattamenti sanitari obbligatori a causa di Noemi (in realtà i TSO sono stati fatti per abuso di sostanze stupefacenti). E che la ragazza aveva sobillato il ragazzo ad uccidere i genitori, pagando anche un tossicodipendente per portare a termine un misterioso “accordo” per farli fuori. Proprio mentre raccontavano queste storie, Paola Grauso li ha informati che la ragazza era stata ritrovata, senza specificare se viva o morta. Quando lo ha detto, i due genitori si sono lasciati andare a grida d’esultanza: poi la giornalista ha aggiunto che la ragazza era morta e che il figlio ha confessato e i due genitori si sono lasciati andare a gesti e urla di disperazione. Il servizio si è concluso con la madre del ragazzo che ha urlato: “Siamo morti adesso. Morti”. Ieri intanto il giovane ha rischiato il linciaggio mentre usciva dalla sede della stazione carabinieri di Specchia dove è stato ascoltato per molte ore alla presenza del proprio difensore e del procuratore capo del tribunale dei minori Maria Cristina Rizzo. All’uscita, racconta l’ANSA, il giovane si è reso protagonista di atteggiamenti irriguardosi e di sfida alzando la mano destra in segno di saluto alla gente che gli fischiava contro e lo apostrofava. Ad attenderlo c’erano oltre un migliaio di persone, soprattutto giovani, che si erano radunate in via Giovanni XXIII, dove ha sede la stazione dei carabinieri. Il 17enne, nei confronti del quale da oggi c’è un provvedimento di fermo del pm con l’accusa di omicidio volontario, col cappuccio della felpa sulla testa, ha sorriso, sfidando la gente e provocando la reazione dei presenti che hanno tentato di raggiungerlo e di aggredirlo nonostante il cordone di sicurezza dei carabinieri. Il giovane è stato fatto salire a fatica su un mezzo dei carabinieri ed è stato poi condotto presso la compagnia dei carabinieri di Tricase in attesa di essere portato in carcere.
Omicidio Noemi: una veggente l'aveva ''vista'' in una casetta di pietre. La sconcertante storia rivelata alla giornalista del TgNorba, scrive il 13 settembre 2017 Telenorbaonline. Nella drammatica vicenda di Noemi Durini, la ragazza di 16 anni trovata uccisa stamani nelle campagne di Castrignano del Capo, c’è spazio anche per una storia inquietante che riguarda una medium di Casarano. Nei giorni scorsi, infatti, un’amica della famiglia Noemi che si era rivolta a una veggente per chiedere che l’aiutasse a ritrovare la ragazza di Specchia scomparsa dal 3 settembre scorso. Ecco cosa scrive la veggente in un sms: "Vedo Noemi, la vedo in una casetta di pietre, in campagna e io la vedo arrabbiata. La vedo con due persone". E poi in un successivo messaggio ha scritto: “Non la vedo più”. Il messaggio della veggente, con la data, è stato mostrato dalla donna che lo ha ricevuto alla giornalista del TgNorba Stefania Congedo. Il messaggio era stato consegnato anche ai carabinieri.
Omicidio di Noemi, chi è il "fidanzatino" killer. Ecco come si giustifica il diciassettenne che ha ucciso la ragazza: "L'ho ammazzata perché premeva per sterminare la mia famiglia", scrive il 14 settembre 2017 Panorama. A 17 anni un ragazzo dovrebbe guardare al futuro mosso da grandiosi progetti. Ma i progetti che aveva il "fidanzatino" killer che ha ucciso la sua ragazza sedicenne, Noemi Durini, erano progetti di violenza e morte. Reo confesso, nella notte tra il 13 e il 14 settembre è stato interrogato nella stazione dei carabinieri di Specchia (Lecce), alla presenza del difensore. Dopo aver cambiato versione più volte, ha sostenuto di aver ucciso Noemi perché la giovane voleva portar avanti il piano - ordito insieme - di uccidere la famiglia di lui, che avrebbe osteggiato il loro rapporto. Ecco i dettagli.
Come si giustifica il diciassettenne: "Ero innamoratissimo di lei", ha detto L., il 17enne omicida, originario di Alessano (Lc). "L'ho ammazzata perché premeva per mettere in atto l'uccisione di tutta la mia famiglia": così avrebbe spiegato agli inquirenti. Il minorenne è sottoposto a fermo per l'omicidio volontario di Noemi Durini, la sedicenne di Specchia il cui cadavere è stato trovato il 13 settembre, sepolto dalle pietre nella campagna di Castrignano del Capo, a 11 giorni dalla sua scomparsa, dopo che il giovane ha indicato agli investigatori il luogo dove cercare. "L'ho uccisa con un coltello che Noemi aveva con sé quando è uscita dalla sua abitazione", ha detto ancora, per cercare di avallare la sua versione dei fatti: un progetto di sterminio della famiglia di lui che Noemi premeva fosse messo in atto per vivere liberamente il loro amore. "Dopo lo sterminio della mia famiglia volevamo fuggire a Milano". Subito dopo l'uccisione dei componenti della famiglia di lui, i due - sempre secondo il racconto dell'omicida reo confesso - avrebbero progettato di fuggire a Milano e, a prova di quanto da lui detto, il giovane ha raccontato agli investigatori che avrebbero potuto trovare sotto il suo letto una lista di numeri di telefono di Milano, numeri di telefono di luoghi dove era possibile poter dormire. L. avrebbe quindi ucciso Noemi con lo stesso coltello che lei aveva portato con sé: "Ho reagito di fronte all'ostinazione di Noemi a voler portare a termine il progetto dello sterminio della mia famiglia". Il procuratore per i minori di Lecce Maria Cristina Rizzo, presente all'interrogatorio, ha definito il diciassettenne "vigile e cosciente della sua posizione". L. è stato trasferito in una casa protetta.
Ecco perché il "fidanzatino" ha confessato. Il "fidanzatino" di Noemi, scomparsa il 3 settembre scorso, è stato subito sospettato. A inchiodare il giovane una telecamera di sicurezza di Specchia che aveva inquadrato Noemi la mattina del 3 settembre, attorno alle 5, presumibilmente dopo essere uscita dalla sua abitazione: dopo aver percorso alcune decine di metri, era salita a bordo della Fiat 500 intestata alla madre del diciassettenne ma che proprio il minorenne guidava (pur non avendo la patente, la guidava regolarmente, fatto di cui si vantava con gli amici). Da quel momento di Noemi, che aveva lasciato a casa soldi, cellulare e documenti, si era persa ogni traccia. L. inizialmente ha a lungo sostenuto di aver accompagnato Noemi nei pressi del campo sportivo di Specchia e di averla lasciata lì. Sono state delle piccole tracce ematiche, trovate nell'auto utilizzata per allontanarsi da casa di Noemi, a far crollare il giovane. Si tratta di tracce molto piccole perché il ragazzo avrebbe pulito per bene tutto. Nella prima ispezione cadaverica, il medico legale Roberto Vaglio ha rilevato la presenza di alcune lesioni sul collo di Noemi. L'esame autoptico dovrà stabilire se quelle lesioni siano state provocate con un'arma da taglio oppure dall'azione di larve durante gli 11 giorni in cui il corpo della vittima è rimasto seppellito.
Un ragazzo dall'indole violenta. L. è descritto come un ragazzo dall'indole aggressiva. Proprio la mamma di Noemi Durini lo aveva denunciato alla Procura per i minorenni, a causa del suo carattere violento. La donna, che temeva per la sorte della figlia che da un anno frequentava il giovane, chiedeva ai magistrati di intervenire per far cessare il comportamento violento del ragazzo e per allontanarlo dalla figlia. Ne erano nati due procedimenti: uno penale per violenza privata, l'altro, civile, per verificare il contesto familiare in cui vive il giovane e se fossero in atto azioni o provvedimenti per porre fine alla sua indole violenta. L'unica conseguenza che ha prodotto la denuncia è stato un inasprimento dei rapporti tra le famiglie dei due fidanzati. "Era possessivo e geloso, non voleva che Noemi vedesse altre persone, la picchiava", racconta il cugino della vittima. Gli inquirenti lo ritraggono come un ragazzo che non riusciva a controllarsi, era irascibile con tutti, anche con la sua fidanzata, una studentessa ribelle e innamoratissima di lui, tanto da assecondarlo ogni volta, anche se il ragazzo la picchiava per gelosia. A conferma di questo ritratto c'è un breve video in cui L. è stato ripreso, la scorsa settimana, mentre rompe a colpi di sedia i vetri di una Nissan Micra parcheggiata per strada ad Alessano. L'auto apparterrebbe a una persona con la quale il giovane avrebbe avuto un acceso litigio proprio sulla sorte di Noemi.
Il sindaco di Specchia: ''Il fidanzato di Noemi già segnalato ai carabinieri". L'amministrazione comunale si farà carico delle spese del funerale, scrive il 13 settembre 2017 Telenorbaonline. "Nei giorni scorsi avevamo avuto notizie sul fatto che il fidanzato di Noemi fosse violento e su presunte percosse subite dalla ragazza, fatti che non sono normali, ma che evidentemente da parte dei genitori e anche delle istituzioni sono stati sottovalutati". E' duro il monito del sindaco di Specchia (Lecce), Rocco Pagliara, a poche ore dal ritrovamento del cadavere di Noemi Durini. La notizia della morte di Noemi ha provocato profonda commozione a Specchia, il piccolo centro del Capo di Leuca dove la ragazza viveva insieme alla madre. Il sindaco spiega che "c'era stata una denuncia da parte dei carabinieri di Alessano arrivata al Tribunale dei Minorenni". E aggiunge: "La mamma, o forse gli stessi carabinieri, d'ufficio, avevano attivato una procedura di segnalazione, come magari ce ne sono a centinaia. Non so se ciò abbia scatenato ancora di più questa violenza, ma fatto sta che, come la madre e la nonna di Noemi mi hanno raccontato, la ragazza era stata invitata a lasciare il fidanzato. Che io sappia la segnalazione stava facendo il percorso per arrivare a qualcosa di più, ma purtroppo non c'è stato il tempo di portare a termine il procedimento". Rocco Pagliara, che nel pomeriggio, ha riunito la sua giunta per dichiarare il lutto cittadino e per adottare misure di sostegno alla famiglia, aggiunge: "Pensiamo di accollarci le spese dei funerali e di coordinare tutti gli aiuti che, spontaneamente, i miei concittadini vogliono indirizzare ai familiari della ragazza".
Omicidio Noemi, il vescovo: ''Tragedia oltre la nostra comprensione'', scrive il 13 settembre 2017 Telenorbaonline. "Noemi era una ragazza che cercava di vivere in maniera solare, aperta alla vita e all'amore". Così Imma, la madre di Noemi Durini, ha descritto al vescovo di Ugento, don Vito Angiulli, la figlia uccisa dal fidanzatino. Il prelato ha fatto visita questa mattina ai familiari della ragazza chiusi nella loro abitazione di Specchia. "Questi avvenimenti così tragici - ha detto il prelato dopo l'incontro - vanno oltre la nostra capacità' di comprensione". Imma, la mamma di Noemi - ha riferito mons. Angiuli - è estremamente provata ma sta trovando conforto nella fede e nella preghiera”. "Ci sono due ragazzi coinvolti in una vicenda veramente triste, che affidiamo alla misericordia di Dio", ha aggiunto ribadendo di non voler esprimere giudizi e di non volere entrare in dinamiche che sarà la magistratura a dover appurare.
Noemi, Tribunale aveva deciso di affidarla ai servizi sociali. 17enne: meglio se mi uccidevo. Ha rischiato il linciaggio il 17enne reo confesso dell’omicidio della sedicenne Noemi Durini quando è uscito dalla sede della stazione carabinieri di Specchia, scrive il 14 Settembre 2017 “La Gazzetta del Mezzogiorno". «Voleva che ammazzassi la mia famiglia. L’ho uccisa per questo». Scarica le colpe su Noemi, il suo presunto assassino; tira in ballo chi non può più difendersi, il fidanzato diciassette, dopo averla uccisa e abbandonata sotto un mucchio di pietre al bordo della strada: «quello che ho fatto è stato per l’amore che provo per voi. Noemi voleva che io vi uccidessi per potere avermi con sé». Ci sono ancora tanti punti da chiarire nell’ennesima triste storia della provincia italiana più profonda, in cui la ragazzina sedicenne è la prima vittima ma non l’unica. Nodi che la confessione del ragazzo, che esce dalla caserma dei Carabinieri dopo l’arresto con lo sguardo di sfida e rischia di essere linciato dalla folla inferocita, non scioglie. Perché per capire davvero come è andata bisogna, prima, ricostruire il rapporto tra i due, le relazioni tra le famiglie, gli odi reciproci. E mettere ordine ai veleni del paese. Definire quello che gli investigatori e gli inquirenti chiamano il contesto. «Diciamo - racconta uno di loro - che la situazione socio familiare di entrambe le famiglie era di qualche disagio, per usare un eufemismo». Tre Tso negli ultimi sei mesi e la prescrizione di farmaci inibenti atti di ira e collera per il ragazzo, la segnalazione dei servizi sociali per un’assistenza al Sert per Noemi sono lì a confermarlo. Atti ufficiali come il provvedimento del tribunale dei minori che chiedeva sempre ai servizi sociali di farsi carico di Noemi. Peccato sia arrivato quando lei era già scomparsa e, probabilmente, morta. Quella mattina del 3 settembre, ha raccontato in sostanza il ragazzo, Noemi voleva trasformare lui e lei in novelli Erika e Omar. Quando alle 5 del mattino è andato a prenderla, lei si è presentata con un coltello. «L'ho uccisa con quello - ha raccontato - ho reagito di fronte alla sua ostinazione nel voler portare a termine il progetto di sterminare la mia famiglia». Parole che non potranno trovare alcuna conferma e dunque, dicono gli investigatori, vanno prese per quello che sono: dichiarazioni di un ragazzo confuso e malato, che ha però confessato l’omicidio. Tra l’altro, aggiungono, non c'è al momento alcuna traccia del coltello di cui parla il diciassettenne: fin quando non verrà eseguita l’autopsia non sarà possibile dunque stabilire se sul corpo di Noemi vi siano delle ferite compatibili con un’arma da taglio. Di certo c'è l’odio tra le due famiglie, culminati nelle denunce reciproche a distanza di venti giorni l’una dall’altra. Per lesioni quella dei familiari di Noemi; per atti persecutori quella presentata dai genitori del ragazzo. Stalking. «Lui non doveva guardarsi intorno se c'era qualche ragazza - sostiene la madre del giovane - subiva da lei e ultimamente ha reagito così. Reagiva, quando la vedeva. Lei gli ha fatto il lavaggio del cervello, l’ha fatto diventare un mostro». «Ma se era lui che era geloso marcio» replica Leila, la migliore amica di Noemi. «Me lo avrà detto centinaia di volte, che voleva lasciarlo. Ma aveva paura. E aveva ragione: una volta le ha riempito la faccia di lividi solo perché aveva guardato una moto. Una moto, capisci? Lui era convinto che avesse guardato il ragazzo che c'era sopra ma lei manco lo aveva visto quello». «Noemi era una ragazza che cercava di vivere in maniera solare, aperta alla vita e all’amore». Così Imma, la madre di Noemi, ha descritto al vescovo di Ugento, don Vito Angiulli, la figlia uccisa dal fidanzatino. L’interrogatorio di garanzia, che ancora non è stato fissato, forse servirà a fare un po' di chiarezza ulteriore. A partire dal ruolo del padre. L’uomo avrebbe detto che il figlio, la sera prima del ritrovamento del corpo, gli rivelò quel che aveva fatto e gli chiese di accompagnarlo dai carabinieri. «Se hai le palle ci vai da solo» gli ha risposto lui, a conferma che questa è innanzitutto una storia di degrado familiare e che il diciassettenne è l’altra vittima. Forse ha cominciato a capirlo anche lui, chiuso in una struttura protetta da ieri sera e sorvegliato a vista per evitare che tenti di uccidersi. «Ho sbagliato - continua a ripetere - se mi fossi ammazzato si sarebbe evitato questo casino».
L’accusa della mamma di Noemi Durini su presunte inerzie della Procura per i minori di Lecce non resterà inascoltata. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha chiesto all’ispettorato di verificare se ci sono state sottovalutazioni e se l’omicidio della sedicenne poteva essere evitato. Per questo gli ispettori svolgeranno accertamenti preliminari sull'operato dei pm minorili a cui era giunta la denuncia della mamma di Noemi contro il fidanzato 17enne della ragazza, che ieri ha confessato l’omicidio. Sulla vicenda anche la prima commissione del Csm ha chiesto al comitato di Presidenza l’apertura di una pratica. Ispettori e Csm dovranno verificare anche un altro particolare finora inedito: anche la famiglia del ragazzo, a 15-20 giorni di distanza dalla denuncia della famiglia Durini, aveva denunciato la ragazza per stalking. Le denunce incrociate risalirebbero al maggio scorso e proverebbero l’astio crescente tra le due famiglie, tanto che il padre del 17enne si era spinto a commentare su Facebook che il fidanzamento tra Lucio e Noemi era "un cancro». La commissione del Csm potrebbe ora acquisire le denunce e verificare che tipo di approfondimenti sono stati disposti dai magistrati che le hanno ricevute.
Omicidio Noemi, il Csm aprirà una pratica. Approfondire il perché le denunce della mamma non furono ascoltate, scrive il 14 settembre 2017 Telenorbaonline. Il Consiglio superiore della magistratura aprirà una pratica sul caso dell’omicidio di Noemi Durini. Non cade nel vuoto l'accusa della madre di Noemi Durini, la sedicenne uccisa dal fidanzato a Specchia, sulle inerzie che ci sarebbero state in relazione alle sue denunce e per comportamenti violenti del ragazzo. La prima commissione del Csm ha infatti chiesto al comitato di Presidenza l'apertura di una pratica sul caso. La donna, Imma Rizzo, avrebbe presentato queste denunce alla procura per i minorenni di Lecce.
Omicidio Noemi, il ministro Orlando dispone ispezione. Verificare perché le denunce della mamma siano rimaste inascoltate, scrive il 13 settembre 2017 Telenorbaonline. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha disposto accertamenti preliminari tramite gli ispettori del ministero sul caso dell'omicidio di Noemi Durini, su cui indaga la Procura dei minorenni di Lecce. L’ispezione servirà a verificare perché le ripetute segnalazioni da parte della mamma di Noemi non siano state recepite tempestivamente. La signora Imma, infatti, aveva denunciato più volte episodi di percosse nei confronti della ragazza. Perché quelle richieste di aiuto non sono state poi seguite da provvedimenti cautelari? Gli stessi familiari di Noemi si dicono convinti che si poteva fare di più per evitare questo efferato delitto. Gli investigatori, analizzando anche i social network, hanno appurato che il rapporto tra i due ragazzi ultimamente era complicato. L'ultimo post pubblicato da Noemi su Facebook è del 23 agosto. La ragazza aveva pubblicato una foto di una giovane con il viso pieno di lividi e la mano di un uomo che le chiude la bocca, accompagnata da queste parole: "Non è amore se ti fa male. Non è amore se ti controlla. Non è amore se ti fa paura di essere quello che sei. Non è amore, se ti picchia. Non è amore se ti umilia. Non è amore se ti proibisce di indossare i vestiti che ti piace. Non è more se dubiti della tua capacità intellettuale. Non è amore se non rispetta la tua volontà. Non è amore se fai sesso. Non è amore se dubiti costantemente della tua parola. Non è amore se non si confida con te. Non è amore se ti impedisce di studiare o di lavorare. Non è amore se ti tradisce. Non è amore, se ti chiama stupida e pazza. Non è amore se piangi più di quanto sorridi. Non è amore, se colpisce i tuoi figli. Non è amore, se colpisce i tuoi animali. Non è amore se mente costantemente. Non è amore se ti diminuisce, se ti confronta, se ti fa sentire piccola. Il nome è abuso. E tu meriti l'amore. Molto amore. C'è vita fuori da una relazione abusiva. Fidati!".
L'amica di Noemi: aveva paura di lasciarlo, scrive il 14 Settembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". «Me lo avrà detto centinaia di volte, che voleva lasciarlo. Ma aveva paura. E aveva ragione: una volta le ha riempito la faccia di lividi solo perché aveva guardato una moto. Una moto, capisci? Lei amava le moto, ma lui era convinto che avesse guardato il ragazzo che c'era sopra. Lei manco lo aveva visto quello». Leila continua a tormentarsi le mani, mentre continua a guardare verso il vicolo dove abitava Noemi Durini, come se la sua amica dovesse uscire da un momento all’altro. Leila è la migliore amica della sedicenne di Specchia uccisa dal fidanzato; con lei ha passato giornate intere a raccontarsi sogni e paure, amori e delusioni. «Stavamo sempre insieme - racconta - eravamo unitissime». Ma chi era Noemi, Leila? «Era una ragazza solare, piena di vita. Aveva sempre il sorriso e quando doveva sfogarsi veniva da me. Una volta, ero a casa, lei è arrivata senza dirmi nulla. E appena è entrata mi ha detto: Leila abbracciami». E perché, si sentiva sola? «No, non era sola - risponde la ragazzina toccandosi i capelli - ma aveva bisogno di affetto, tanto affetto. E poi Noemi era forte, tanto forte». Leila si ferma un attimo. Poi aggiunge: «solo con lui era debole». Secondo la ragazza, la storia tra i due era nata per caso. Una sera in cui si incontrano quattro ragazzi. «Noemi stava con il miglior amico» del suo assassino, racconta. «Quella sera una ragazza di Alessano si è baciata con lui e allora lei, per fargliela pagare, ha baciato» l’altro ragazzo. Che era, appunto, il diciassettenne che poi l’ha uccisa. «All’inizio il loro rapporto era sereno, Noemi andava anche a casa sua e aveva un buon rapporto con i genitori». E poi cosa è successo? Leila si chiude. «Quello che ti posso dire è che non è vero che tutto è cominciato quando lei si nascose nell’armadio a casa sua, come dice qualcuno. Ha litigato con il padre. E lo ha fatto per il suo ragazzo». Oltre la ragazza non va, anche perché su questo aspetto è già stata sentita dai carabinieri. Certo è che lui però la picchiava. «E pure più volte - dice Leila - Lei lo amava, cento volte mi ha detto che voleva lasciarlo ma non ci riusciva. Aveva paura e aveva questo sentimento che non la faceva ragionare». Ma quando l’hai vista l'ultima volta. «Dopo ferragosto, poco prima che sparisse. E' venuta da me. Vuoi sapere se abbiamo parlato di lui? No, forse è stata l’unica volta che non l’abbiamo fatto. Era serena e felice».
Noemi, la pm minorile: "Guerra tra le due famiglie". Il papà e la mamma del 17enne: "Meglio un morto che tre". Ministro e Csm inviano a Lecce gli ispettori per capire se ci sono stati ritardi nell'affrontare le segnalazioni arrivate al tribunale dei minorenni di Lecce. Il ragazzo guardato a vista nella casa protetta dove è rinchiuso, scrive Chiara Spagnolo il 15 settembre 2017 su "La Repubblica". “L’ho fatto per voi, per salvarvi”: il diciassettenne di Alessano, reo confesso dell’omicidio di Noemi Durini ha scritto ai genitori di avere assassinato la fidanzatina sedicenne di Specchia perché lei aveva ordito un piano per ucciderli ed essere libera di vivere la relazione d’amore. In un bigliettino che la madre del giovane ha tirato fuori davanti alle telecamere de “La Vita in diretta” c’è la conferma dell’ultima versione che il 17enne ha fornito ai carabinieri nell’interrogatorio del 13 settembre, finito il quale è stato arrestato. Non è chiaro se si tratti di un manoscritto originale (nonostante la firma in lettere maiuscole sul retro) e neppure il motivo per cui i genitori non l’hanno consegnato agli investigatori, che hanno perquisito più volte l’abitazione familiare di Alessano. Così come non è chiaro se corrispondano alla verità le dichiarazioni del padre del diciassettenne (indagato per concorso nell’occultamento di cadavere), secondo il quale il figlio - la sera prima della confessione - gli avrebbe raccontato di avere assassinato la fidanzata. Le ispezioni di ministero e Csm. Tali questioni complicano ulteriormente il quadro investigativo, sul quale si è abbattuto anche il ciclone degli accertamenti disposti dal ministero della Giustizia e dal Csm per verificare se il Tribunale dei minori di Lecce abbia vagliato tempestivamente la denuncia della mamma di Noemi, che chiedeva di allontanare quel ragazzo violento dalla sua bambina. La segnalazione è stata fatta prima dell’estate, a luglio il tribunale dei minorenni ha chiesto una relazione ai Servizi sociali del Comune di Specchia, che è stata inviata nello stesso mese. Il 31 agosto dal Tribunale è partito un provvedimento di affidamento di Noemi ai Servizi sociali e al Sert, che è giunto a destinazione il 5 settembre, quando la ragazzina era già morta. Tale provvedimento sarebbe servito a disporre un aiuto per la sedicenne e, forse, avrebbe potuto salvarla. Se avrebbe potuto essere più rapido lo disporranno gli ispettori romani, dopo la valutazione della documentazione sul caso che sarà acquisita negli uffici giudiziari salentini. Gli inquirenti di Lecce. Sulle denunce incrociate e il tempismo dei provvedimenti, a Lecce bocche cucite. Il procuratore generale della Repubblica, Antonio Maruccia, si trincera dietro un “no comment”, la procuratrice presso il Tribunale dei minori, Maria Cristina Rizzo, spiega che sono in corso le verifiche sui tempi delle denunce e i successivi provvedimenti nonché sul contenuto delle stesse, tenendo in considerazione il fatto che "alla base di tutto c'è una guerra tra famiglie". Meno criptico il sindaco di Specchia, Rocco Pagliara, che ha chiesto ai Servizi sociali il fascicolo su Noemi e chiarito che “la nostra assistente sociale ha ricevuto a luglio una richiesta di relazione sulla situazione della famiglia dal Tribunale dei minori e l’ha evasa nello stesso mese, dopo aver ascoltato la ragazza e anche la madre”. Il documento è poi arrivato al magistrato che il 31 agosto ha emesso un provvedimento di affidamento della sedicenne ai Servizi sociali e al Sert. Al vaglio degli inquirenti, però, ci sono anche le denunce che la famiglia del ragazzo ha presentato allo stesso Tribunale contro Noemi, accusata di atti persecutori. Le indagini. Intanto, proseguono le indagini sull’omicidio, nel tentativo di chiarire i numerosi punti oscuri rimasti. Innanzitutto quelli relativi alle complicità, a partire da quella presunta del padre ma anche di altri componenti della famiglia. L’automobile con cui il diciassettenne all’alba del 3 settembre è andato a prendere Noemi a casa della madre ed è stata sequestrata dopo il ritrovamento di tracce di sangue all’interno. Le modalità dell’omicidio invece potranno essere chiarite solo dopo l’autopsia, che sarà effettuata lunedì dal medico legale Roberto Vaglio. Sul corpo della ragazzina sono presenti segni di pietre (spiegabili anche con il fatto che era sepolto da pezzi di un muretto a secco) e tagli (che il giovane ha dichiarato di avere effettuato con un coltello ma potrebbero anche essere stati provocati da animali). Il fidanzato, dal canto suo, è stato trasferito in una località protetta, in considerazione del pericolo che potrebbe correre in carcere, visto che già all’uscita della caserma di Specchia - mercoledì sera - è stato sottratto al linciaggio da parte della folla. Nella struttura penitenziaria è controllato a vista per evitare che possa commettere atti autolesionistici. A questa intenzione farebbe pensare il biglietto in cui ha scritto: “Ho sbagliato, potevo uccidermi e avrei evitato questo casino”.
Omicidio di Noemi Durini: denunce, verifiche e provvedimento in ritardo. «Solo schiaffi non sembrava grave». I lividi sul volto, le fughe da casa, i problemi a scuola. Mamma Imma era molto preoccupata per Noemi e per la tormentata relazione con quel ragazzo che considerava la causa prima dei suoi mali, scrive il 14 settembre 2017 "Il Corriere della Sera”. I lividi sul volto, le fughe da casa, i problemi a scuola. Mamma Imma era molto preoccupata per Noemi e per la tormentata relazione con quel ragazzo che considerava la causa prima dei suoi mali. «È violento, sbandato e pericoloso, fate qualcosa per favore».
Era lo scorso maggio quando bussò alla porta del comandante dei carabinieri di Specchia, Giuseppe Borrello, chiedendo che venisse allontanato da Noemi. Lo fece formalmente, presentando una denuncia contro di lui e in qualche modo anche un po’ contro Noemi, visto che lei continuava a frequentarlo, prigioniera forse di un vortice dal quale non usciva. «E non stupitevi se siamo ancora qua, abbiamo detto per sempre e per sempre sarà», scriveva il 12 agosto per festeggiare il primo anno di fidanzamento. Contro tutto e contro tutti. Nonostante le botte, le furiose litigate e i tre Tso (trattamento sanitario obbligatorio) a cui è stato sottoposto il diciassettenne di Alessano negli ultimi sei mesi. La madre aveva però capito che Noemi era entrata in un tunnel pericoloso e con lei l’aveva capito anche la sorella di Noemi, Benedetta, entrambe unite nella condanna del ragazzo.
A luglio al tribunale dei minori. Oltre alla denuncia finita alla procura per i minorenni di Lecce, Imma Rizzo aveva chiesto anche l’intervento dei servizi sociali perché sentiva che la situazione poteva sfuggire al suo controllo. Il primo luglio è stata convocata da un assistente del Tribunale dei minori. «Se è un problema, se può essere d’aiuto a mia figlia, intervenite anche su di lei», aveva implorato quel giorno. E il tribunale ha chiesto al Comune di Specchia una relazione sulla situazione familiare di Noemi. «Sulla base di questo documento e di valutazioni autonome dei magistrati, il Tribunale ha emesso un provvedimento di presa in carico della ragazza da parte dei servizi sociali», ha spiegato il sindaco di Specchia, Rocco Pagliara. Il provvedimento sarebbe però giunto sul tavolo degli operatori sociali solo il 6 settembre. Troppo tardi. Noemi era già stata uccisa e sepolta sotto un cumulo di pietre nelle campagne di Castrignano del Capo.
«Di segnalazioni così ne arrivano a decine». Le domande sono naturalmente quelle: perché si è perso tanto tempo? Perché non si è fatto nulla per bloccare un giovane violento? Gli inquirenti rispondono in modo univoco: «Perché dalla denuncia non emergeva una situazione gravissima. Alla ragazza erano stati dati pochi giorni di prognosi per lesioni da schiaffeggiamento: di denunce come quella ne arrivano a decine». E i Tso? E il fatto che il ragazzo scorrazzasse in macchina senza patente? «Sui trattamenti stavamo facendo delle verifiche», rispondono alla Procura per i minorenni. «Quanto alla patente, se solo l’avessimo scoperto una volta…», conclude amaro il comandante dei carabinieri.
Dietro alla tragedia emerge un ambiente di forte degrado. Due famiglie che si odiavano: quella di lei e quella di lui, entrambi a rifiutare ferocemente i fidanzati dei loro figli. Dopo la denuncia della madre di Noemi è stata la volta dei genitori di lui, che hanno puntato il dito sulla ragazza presentando una controdenuncia. La madre del giovane ha caricato le parole con la polvere da sparo: «È stata lei a farlo diventare un mostro, hanno mandato gente da Taviano per ucciderlo». Senza pietà. «Follie», ha tagliato corto l’avvocato che assiste la famiglia di Noemi, Mario Blandolino. Con lui, mamma Imma ha indagato per prima sulla scomparsa della figlia. Sapeva che era sparita fra le 2 e le 7 del mattino del 3 settembre. Ha cercato una telecamera nella zona, l’ha trovata, ha visionato il filmato e ha scoperto che Noemi era uscita alle cinque di notte per incontrare il suo fidanzato diventato assassino.
I genitori del killer di Noemi: "Così ha rovinato nostro figlio". I genitori dell'assassino di Noemi Durini ai microfoni di "Chi l'ha visto": "Ha aggredito e graffiato nostro figlio", scrive Luca Romano, Giovedì 14/09/2017 su "Il Giornale". La vicenda dell'omicidio di Noemi Durini si arricchisce di nuovi retroscena. Per il delitto della 16enne di Specchia nel Leccese è stato arrestato il fidanzato. Ma in questa storia emerge sempre più la famiglia del killer. Il padre, anche lui finito nell'inchiesta, ai microfoni di Rai Tre a Chi l'ha visto, poco prima di apprendere della confessione del figlio e del ritrovamento del cadavere della ragazza, ha parlato del rapporto che Noemi aveva col ragazzo: "Questa ragazza è entrata in casa mia ben accetta come la fidanzatina di mio figlio, circa un anno fa. Dopo neanche un mese, invitata a una festa qua vicino con mio fratello, ha piazzato un casino della madonna contro una ragazza chiamata Rebecca. Per gelosia. Mi ha detto 'ti devo fare impazzire'. Mi ha detto di tutto 'drogato, coglione'. Ho tollerato tutto per amore di mio figlio. Una notte, al mio rifiuto di chiamare sua madre per dirle che rimaneva qui a dormire, lei due notti dopo è entrata dalla finestra, si è nascosta nell'armadio e nottetempo è andata a dormire con mio figlio. Era fine gennaio". Poi ha aggiunto: "Quella ragazza è cresciuta in mezzo alla strada da quando aveva 12 anni - continua -. Aveva un bagaglio d'esperienza molto più grande di mio figlio, era lei che comandava nel gruppo. Una volta mi chiamano dalla scuola: 'Guardi che li ho visti con i miei occhi, la ragazza ha assalito suo figlio e lui è tutto graffiato'. Era lei che picchiava lui. Addirittura gli diceva di scannarci. Aveva trovato i soldi da dare a un certo tipo per comprare una pistola per spararci. Era tutt'altro che una brava ragazza. Era una ragazza cresciuta allo stato brado". Il padre del ragazzo infine avrebbe raccontato che il figlio sarebbe stato sottoposto a tre trattamenti Tso puntando il dito contro la ragazza. Ma su questo punto altre fonti sostengono che il ragazzo sia stato sottoposto a questo tipo di trattamento per l'uso di droghe leggere.
Omicidio Noemi, il padre del fidanzato contro la vittima: “Cresciuta in strada, incitava mio figlio a scannarci”. In una intervista a Chi l’ha visto? Biagio Marzo, il padre del 17enne che ha ucciso la fidanzatina Noemi a Specchia, si scaglia contro la vittima: “Basta balle, era lei che picchiava mio figlio, lo incitava a ucciderci”. Pochi minuti dopo la scoperta della confessione di suo figlio. La moglie: “Dai Biagio, è finita”, scrive il 14 settembre 2017 Angela Marino su "Fan Page". "Incitava mio figlio a scannarci tutti e due, era gelosa, era lei che lo picchiava. Basta balle in Tv: era tutt'altro che una brava ragazza". Sono le parole che precedono un momento surreale, carico di tensione, quello in cui i genitori di Lucio, il diciassettenne di Specchia, accusato dell'omicidio della fidanzatina, apprendono in Tv che il proprio figlio ha confessato. L'intervista è stata trasmessa da Rai Tre, nella puntata del 13 settembre del programma Chi l'ha visto?. Le immagini mostrano l'inviata della trasmissione condotta da Federica Sciarelli, Paola Grauso, nella casa del diciassettenne. La signora Marzo, madre di Lucio e moglie di Biagio, a sua volta indagato per sequestro di persona e occultamento di cadavere, comincia a raccontare del periodo che ha preceduto la scomparsa di Noemi Durini, avvenuta lo scorso 3 settembre dalla cittadina di Specchia, nel Leccese.
"Mi vergognavo di quel fidanzamento". "Abbiamo passato un anno di inferno, stiamo prendendo gli ansiolitici", premette, poi interviene il marito Biagio, tratteggiando un ritratto duro della sedicenne: "È entrata in casa mia ben accetta come la fidanzatina di mio figlio, è cominciato un rapporto malato, era gelosa, mi ha chiamato con tutti gli epiteti, mi ha detto chiaramente che mi avrebbe fatto impazzire, mi ha chiamato drogato. Per la salute mentale di mio figlio ho tollerato il rapporto con questa ragazza purché lo facessero fuori dal paese, perché mi creava vergogna". "Mio figlio ha avuto tre trattamenti sanitari obbligatori, da quanto ha conosciuto questa ragazza". "È un po' strano, no?", chiede la giornalista: "Perché ha avuto tre TSO?". "Perché gli è dato di volta il cervello, da quando è ha incontrato questa ragazza – la prima ragazza della sua vita – è successo il finimondo. A un mio diniego di chiamare sua madre e di informarla che sarebbe rimasta a casa mia, la notte dopo si è infilata dalla finestra, si è chiusa nell'armadio e nottetempo è andata a dormire con mio figlio". "Si erano innamorati questi due ragazzi – fa notare Paola Grauso – "sembrava una cosa da ragazzini". "Pur avendo un anno meno di mio figlio aveva un ‘bagaglio' molto più grande, era lei che comandava tra i due".
Le accuse alla vittima. Sull'atteggiamento violento di suo figlio Lucio descritto da amici della coppia dice: "Mi ha chiamato un professore dalla scuola dicendo di aver visto Noemi che assaliva mio figlio, era tutto graffiato: era lei che picchiava mio figlio". "Però dicono anche il contrario" ribatte l'inviata. Ancora per giustificare quanto dicono amici e conoscenti dei ragazzi, Marzo aggiunge: "Dopo tre trattamenti sanitari", "Voleva togliersela da dosso!", si intromette la moglie, per poi lasciare la parola al marito, che racconta: "Alla festa del patrono del paese (pochi giorni prima della morte di Noemi, ndr) lei gli è andata incontro dicendo: "Ti voglio bene, ti amo" e lui per scollarsela le ha dato quattro schiaffoni". Al riferimento della giornalista al video circolato online che ha immortalato Lucio mentre distrugge l'auto del padre di Noemi, poco dopo la scomparsa della fidanzatina, Marzo risponde: "Il padre di Noemi gli ha dato un pugno, allora mio figlio con una sedia gli ha sfasciato tutti i vetri, in modo che no scappassero, per bloccarli, perché sapeva che non avevano i documenti dell'auto". "Non è questo il modo" fa notare ancora una volta la Grauso. Secondo quanto affermato da Marzo, il padre della ragazza avrebbe sferrato un pugno in volto a Lucio, provocandogli una ferita con sei punti di sutura all’arcata di un occhio. In reazione, il giovane gli ha sfagliato l’auto per non farlo andare via in attesa dell’arrivo delle forze dell’ordine. Secondo Marzo, Noemi avrebbe aizzato suo figlio contro di loro: "Incitava mio figlio a scannarci tutti e due, aveva trovato un somma di denaro da dare a un certo tipo per comprare una pistola per spararci. Sentito questo ho sporto querela perché fosse allontanata da mio figlio. Basta balle in televisione, era tutt'altro che una brava ragazza, era una cresciuta allo stato brado, in strada da quando aveva 12 anni". Quanto al proprio ruolo nella vicenda, a fronte delle accuse di sequestro e occultamento di cadavere, precisa: "Sono stato un genitore accorto e ho visto tutti i cambiamenti di mio figlio, sta ragazza usava una tecnica per obbligare mio figlio ai suoi voleri: ti lascio e mio figlio sbatteva la testa contro il muro, per terra, quando ho visto queste cose ho dovuto intervenire coi sanitari. Lui aveva bisogno della mia presenza per sentirsi più uomo davanti a lei".
L'ultima sera. Pochi minuti prima che arrivi la notizia della confessione di Lucio, suo padre ribadisce ancora una volta la sua versione dei fatti riguardo alla notte della scomparsa: "Si danno un appuntamento per il sabato notte, avendo mio figlio l'auto a disposizione. "‘Per favore, usciamo', gliel'ha chiesto piangendo lei!", interviene la moglie. "Mio figlio – riprende la parola Marzo – voleva prendersi un momento di intimità, molto probabilmente lei, però, era pronta a scendere dall'auto. Di fronte c'era una macchina scura parcheggiata, Noemi è scesa e si è incamminata verso la macchina, è salita e se ne sono andati". "A me Lucio ha detto: ‘Stai sereno, quando la troveranno capiranno che io non c'entro niente'".
La notizia choc della confessione. "Hanno trovato la ragazza", lo interrompe la giornalista. "Bene! Son contento!", commenta prima di essere interrotto: "È morta e Lucio ha confessato". Marzo si accascia con le braccia sul tavolo, urlando: "Hanno creato un mostro!". "Hanno esasperato mio figlio – grida la moglie – suo padre (riferito a Noemi, ndr) ha mandato gente di Taviano per ammazzarlo, un tossico. "Siamo morti!" gridano insieme, poi la madre di Lucio si rivolge al marito: "Biagio è finita, dai".
Dopo la messa in onda dell'intervista, la conduttrice di Chi l'ha visto?, Federica Sciarelli, ha preso le distanze da quanto detto dai genitori di Lucio sul conto di Noemi.
Pomeriggio 5, la madre dell'assassino di Noemi in tv: "Adesso sto meglio", scrive il 14 Settembre 2017 "Libero Quotidiano”. Sconcerto in diretta tv. A Pomeriggio 5, il programma di Barbara d'Urso su Canale 5, si parla del caso di Noemi Durini, la 16enne leccese uccisa dal fidanzato di 17 anni che ieri, mercoledì 13 settembre, ha confessato il delitto. Il ragazzo, ora, prova a scaricare la colpa dell'omicidio su di lei, accusandola di voler uccidere la sua famiglia. La mamma del killer, che ha appreso della confessione del figli ieri in tv a Chi l'ha visto?, lo difende: “Si è liberato, mio figlio. Siamo stati noi a denunciare l’allontanamento, non la famiglia della ragazza”, ha raccontato alla d’Urso. Che poi ha rivelato: “Ha subito tre TSO per colpa di questa ragazza, l’ha fatto diventare un mostro”. E non ha lesinato particolari inquietanti: “Lei col coltello in mano lo voleva far venire a casa nostra”. Un crescendo di violenza (verbale) quello della donna. Che alla fine pronuncia le parole più sconcertanti: "Mi sento meglio ora”.
Sciarelli, il delitto di Noemi e la pornografia dell'orrore. Che senso ha mandare in onda la reazione dei genitori dell'omicida della ragazza alla confessione del figlio? Non è giornalismo. Solo cibo per gli intestini già infiammati degli italiani, scrive Francesca Buonfiglioli il 14 settembre 2017 su "Lettera 43". Quale è il limite della pornografia televisiva? Fino a dove le ragioni dello share si possono spingere in un servizio che si dice pubblico? Se esistevano dei paletti la puntata di Chi l'ha visto? mandata in onda il 13 settembre non solo li ha superati: li ha sradicati.
PORNOGRAFIA DELL'ORRORE. Focus della trasmissione, e non poteva essere altrimenti, l'omicidio della 16enne di Lecce. Che tale è diventato quando il fidanzato di appena un anno più grande ha confessato di averla massacrata portando gli inquirenti nel luogo in cui aveva nascosto il cadavere. Fino ad allora, almeno nei familiari, era rimasta viva la speranza che la ragazza fosse scomparsa, fuggita da una relazione che definivano malata. Per questo, l'inviata di Federica Sciarelli aveva intervistato i genitori del 17enne. Mentre padre e madre difendono il figlio, gettando fango sulla ragazza scomparsa, la giornalista riceve via messaggio la notizia della confessione. «Hanno trovato Noemi», dice la giornalista in modo asettico interrompendo la filippica del padre, che ora risulta indagato perché sospettato di aver aiutato il figlio a nascondere il corpo.
LA REAZIONE DEI GENITORI SBATTUTA IN PRIMA SERATA. «È morta. Suo figlio dice di averla ammazzata». La scena che segue può essere lasciata all'immaginazione. Ma non per la trasmissione. Che decide di mandare in onda il servizio registrato nonostante tutto. Sì, registrato è bene sottolinearlo. «Immagini forti», «nemmeno noi lo sapevamo», balbetta Sciarelli da studio lanciano il "contributo". No, non sono immagini forti. La reazione scomposta di due genitori sbattuta in prima serata è pornografia del dolore. Non c'è altra definizione possibile. Non c'è notizia. Non c'è "servizio". Ci sono solo disperazione, rabbia, urla, visi che si sciolgono in smorfie, pugni sbattuti sul tavolo dati in pasto a un pubblico che già sa. Sa che il ragazzo ha confessato, che quei genitori stanno in realtà offendendo una vittima. Senza saperlo, loro (su questo punto le indagini sono in corso). Una scena rilanciata come scoop pure sui social della trasmissione, con tanto di fotogramma dell'attimo della rivelazione. E che ha solo un effetto: accendere l'odio nello spettatore, come se ce ne fosse bisogno. Su Twitter in tempo reale qualche account di satira rilancia addirittura un meme della madre dell'omicida che grida: «La Gif per voi era d'obbligo: Siamo morti», è il commento. E cinguetta: «Si è ripartiti col botto». Non c'è molta differenza con la cronaca morbosa dei dettagli dello stupro di Rimini pubblicata e rivendicata da Libero e altri quotidiani. Pornografia e voyeurismo che lontani dal tutelare le vittime, le usano come arma per una battaglia ideologica. Politica. Di share e copie vendute.
IL PRECEDENTE DI AVETRANA. Chi l'ha visto? non è nuovo a porcherie di questo genere. Nel 2010 mentre Concetta Serrano, mamma di Sarah Scazzi, era in collegamento da Avetrana in studio arrivò la notizia del possibile ritrovamento del corpo. «Ha capito cosa sta succedendo?», chiese Sciarelli alla donna. «Se vuole interrompere il collegamento lo può fare in ogni momento». «Chiami i carabinieri, si metta in contatto con gli investigatori». Serrano era ormai ridotta a una statua senza reazioni, mentre le telecamere indugiavano sul suo volto-non volto. «È una notizia terribile, di grande imbarazzo, che non vorremmo mai dover confermare», andò avanti Sciarelli. Dimenticando che l'unico dovere che aveva in realtà era interrompere quell'obbrobrio in diretta per tutelare una vittima.
TRASH DELL'ORRORE. Questo non è giornalismo. Non è servizio né tantomeno è pubblico. È trash dell'orrore e del dolore, della disperazione, cibo per gli intestini infiammati dei telespettatori. Sono forconi virtuali dati in mano a una folla inferocita che ogni giorno, sui social e davanti ad altri schermi, invoca la pena di morte, la giustizia fai-da-te, la tortura. Nella "migliore" (sic) delle ipotesi, la tragedia e l'orrore diventano una gif, una presa in giro, un meme. O un costume di carnevale come accadde con «zio Michè».
Assassinio di Noemi Durini: “Chi l’ha visto?”, interrogazione parlamentare di Dario Stefàno. Il senatore salentino parla di "inaccettabile voyeurismo giornalistico". Attacco anche dal direttore del tgnorba: come il caso Scazzi, si è risolto di mercoledì, scrive "Noi Notizie" il 14 settembre 2017. Il direttore del tgnorba fa questo ragionamento. Il ritrovamento del cadavere di Sarah Scazzi avvenne di mercoledì sera, nella sera della diretta tv di “Chi l’ha visto?”. Il ritrovamento del corpo di Noemi Durini, con indagine nei confronti del fidanzato che ha confessato, di mercoledì. Il giorno di “Chi l’ha visto?”. Coincidenza, dice Enzo Magistà che però fa un richiamo ad autorità della sicurezza e autorità della comunicazione. L’attacco alla trasmissione di Raitre è frontale. Una trasmissione che, si osserva da qua, ha comunque contribuito a risolvere un sacco di casi di scomparsa, con il ritorno a casa di tanta gente. Stavolta, peraltro, quella trasmissione è nell’occhio del ciclone, per il caso di Noemi Durini. Vicenda che finisce anche in parlamento. Di seguito un comunicato diffuso dal senatore Dario Stefàno: “Questo metodo, se da un lato non rispetta la dignità e la privacy dei soggetti coinvolti da questi terribili episodi, dall’altro interpreta con modalità inopportune e incoerenti la necessità di trasferire notizie ai telespettatori. E’ una testimonianza allarmante della deriva che talvolta può assumere un certo modo di concepire il servizio televisivo, in particolar modo di una rete pubblica”. Sono le parole che si leggono in una interrogazione presentata nel pomeriggio dal senatore Dario Stefàno, Presidente de La Puglia in Più, indirizzata al Ministro dello Sviluppo Economico, a seguito del servizio andato in onda su Rai 3 durante la trasmissione “Chi l’ha Visto?” sul caso Noemi Durini. “Tale approccio – continua Stefàno – tende a porsi in piena sintonia con la diffusa e censurabile tendenza alla rincorsa senza scrupoli degli ascolti, nella cui prospettiva la spettacolarizzazione delle sventure più intime e raccapriccianti viene usata come una delle leve più efficaci e a portata di mano. Queste modalità sviliscono e mercificano ciò che nella vita vi è di più alto, drammatico e riservato, come per esempio il dolore e la sofferenza delle persone”. “Il Garante per la protezione dei dati personali si è già pronunciato più volte, in senso critico, a proposito del principio di essenzialità dell’informazione e a proposito della diffusione di dati, soprattutto in presenza di minori coinvolti”. “La giornalista inviata – conclude Stefàno – non era certo la figura deputata e competente per dare comunicazione di tale terribile notizia e degli esiti delle indagini agli interessati, soprattutto se quella notizia riguardava un soggetto di minore età, e credo che la scelta di mandare in onda questo servizio necessitasse di ben altra valutazione rispetto a quella operata”.
IL FATTO 14/09/2017 TGNorbaonline. Editoriale a cura del direttore Enzo Magistà di giovedì 14 settembre 2017. Tema del giorno: l'omicidio della sedicenne Noemi Durini compiuto dal reo confesso Lucio Marzo. C’è chi trova paralleli tra il delitto di ieri, di Specchia e quello di 7 anni fa di Avetrana. Sforzo inutile. Si tratta di delitti diversi. Maturati in ambienti diversi. Ispirati da follie diverse. Realizzati da personaggi diversi. C’è una sola concomitanza fra i due delitti: lo spettacolo finale. O meglio, la spettacolarizzazione televisiva che se n’è fatta. Ai più, forse, sarà sfuggita. Non a noi. Sarah Scazzi venne ritrovata un mercoledì sera in diretta televisiva. Mentre un troupe di “Chi la visto?” si trovava in casa della vittima ad intervistare sua madre. E propria alla madre in diretta televisiva venne detto, venne comunicata la notizia che il corpo della figlia era stato ritrovato grazie alla confessione di Michele Misseri. Il corpo di Noemi Durini, la ragazza di Specchia, è stato ritrovato sempre di mercoledì. Mentre una troupe della stessa trasmissione televisiva si trovava in casa dell’assassino ad intervistare i suoi genitori, ai quali è stata data in diretta la notizia del ritrovamento e dell’arresto del figlio. Che coincidenza! E queste sono le uniche che si possono fare tra i due casi: la presenza delle telecamere di “Chi la visto”. Bravissimi i nostri colleghi, ma è tutto merito loro? Un sospetto, consentitecelo, è legittimo. Anche se, attenzione, due indizi non fanno una prova. Valgono, però, una denuncia e la facciamo, perché non vorremmo trovarci ad un terzo caso. Perché allora lo Stato, lo Stato e chi lo rappresenta a livello di informazione e di controllo del territorio, allora sì che dovrebbe farsi un profondo esame di coscienza. Perché non si può giocare con queste tragedie tenendole in sospeso per settimane, per giorni, in attesa che arrivi un mercoledì sera.
Di seguito si riportano i commenti idioti pubblicati su giornali che dovrebbero essere capitani di credibilità. Invece riportano scarabocchi di chi fa della volgarità e dell’ignoranza il suo stile di vita.
Diffamando gratuitamente un padre, che per il momento è solo indagato. Poi, i più meschini e diffamatori, di chi non è ancora sazio nell’oltraggiare il Salento ed Avetrana in particolare che nella vicenda non ha nulla a che fare.
Se questi son giornalisti… “Ma nessuno si fa troppe domande, giù nel Basso Salentino, tra Specchia e Alessano, belle ville di vacanza della swinging Puglia e terre riarse dei poveracci, masserie rifatte a bed and breakfast e pozzi sperduti nel buio. Come ad Avetrana, del resto, l’omertoso paese di Sarah Scazzi, che dista un’ora di strada da qui, ma meno d’un sospiro di silenzio da questa trama mostruosa, quest’altra, quasi in fotocopia, di un’altra ragazzina sepolta nei campi, di altre famiglie disfunzionali o malate, di familismi amorali che diventano delitto e complicità, perché la legge non varca l’orto di casa”. Goffredo Buccini 13 settembre 2017 Corriere della Sera.
Non aspettatevi, però, tutela della comunità da parte degli amministratori locali.
Noemi, le denunce inutili e quel padre complice. Nel silenzio agghiacciante le grida disperate dei parenti, lacrime come pioggia acida, amarissima, conclusione di undici giorni che racchiudevano ancora la speranza di rivedere Noemi, viva, scrive Tony Damascelli, Giovedì 14/09/2017, su "Il Giornale". Non c'è soltanto il nonno eroe che perde la vita cercando di salvare la propria famiglia, con lui morta nel fango buio dell'alluvione. Non c'è soltanto un padre che tenta invano di salvare il proprio figlio e la propria moglie dai fumi della solfatara. Livorno e Pozzuoli sono nuvole bianche, pagine stracciate da un'altra cronaca nera. C'è anche un padre bastardo che aiuta il proprio figlio assassino a nascondere il cadavere di una ragazza di sedici anni, uccisa per amore violento e miserabile esistenza. L'uliveto, uno dei mille, nella campagna di Castrignano del Capo, mostra alberi antichi, malati di xylella; sotto i rami bruciati dalla maledetta, giaceva il corpo straziato di Noemi, appena e vilmente coperto da alcune pietre staccate dal muretto a secco davanti al quale era stato lasciato dai due delinquenti, dopo averla finita, a colpi di pietra, qualche metro più in là, dove la terra è diventata più rossa, di sangue, poi coperta e bonificata dalla calce viva. Nel silenzio agghiacciante le grida disperate dei parenti, lacrime come pioggia acida, amarissima, conclusione di undici giorni che racchiudevano ancora la speranza di rivedere Noemi, viva. Undici giorni nei quali tutti sapevano, molti supponevano, alcuni mormoravano, nessuno interveniva. Il Salento scopre l'orrore dopo un'estate di follia turistica, le masserie e le spiagge ritrovano il silenzio di settembre, la bara bianca si è portata via Noemi mentre attorno è incominciata la sagra del macabro, la processione dei pellegrini non verso il santuario di Santa Maria di Leuca, là dove si uniscono i due mari, le acque dell'Adriatico e quelle dello Ionio, ma sono curiosi ignoranti che vogliono vedere, quasi toccare, il luogo del misfatto, scattare fotografie, portare via un ricordo maligno, larve e insetti umani come sono larve e insetti quelli che ammorbavano l'aria intorno al luogo del delitto. Padre e figlio, il complice e l'assassino, sono un'altra immagine, l'ultima in ordine di tempo, di una terra che ha già offerto la storia miserabile di Avetrana, un altro padre che decise di nascondere il cadavere di una nipote, una ragazza bambina, uccisa da altre mani di famiglia, una follia mafiosa, una complicità schifosa che denuncia una miseria sociale ed esistenziale che si aggrappa alla droga, al furto, alla violenza domestica, alle minacce, ai ricatti. Sarah Scazzi e Noemi Durini sono vittime di realtà fintamente felici, di giovinezze falsamente libere e indipendenti. Sono segnali di fumo nero e acre di una società tossica che fugge alle proprie responsabilità, che non affronta e, soprattutto, non comprende il pericolo, non risolve le denunce, dieci, cento, mille, di violenze, di soprusi, di aggressioni, perché ormai fanno parte del quotidiano, di una movida che conduce all'immobilità di menti e di corpi. Adolescenti alla ricerca della libertà e famiglie sfatte, disgraziate, disperate, senza grazia, senza speranza. L'omicidio di Noemi Durini non è un semplice fatto di cronaca nera. È la sirena di allarme che continua a suonare mentre pensiamo che si tratti di un cattivo funzionamento, di una finestra socchiusa, di una porta lasciata aperta per caso. Invece è la gioventù che si spegne nel degrado, nella polvere di sogni facili, è la storia di famiglie che non sono più tali, di padri che non sono eroi ma assassini e complici, di madri silenziose, vittime codarde. Il Salento è la terra bellissima de «lu sule, lu mare e lu ientu». Nell'uliveto di Castrignano del Capo, il sole è calato, il mare è appena oltre il muretto a secco e il vento puzza di morte.
NOEMI SI POTEVA SALVARE. Violenze e soprusi per la 16enne uccisa: tutti sapevano. Ma indifferenza e omertà hanno prevalso Il fidanzato confessa: massacrata con le pietre. Padre indagato per occultamento di cadavere, scrive "Il Quotidiano di Puglia" (Taranto) il 14 Settembre 2017. La tensione era palpabile ieri mattina nelle Procure ed al comando provinciale dei carabinieri. Era attesa una giornata decisiva per l’inchiesta sulla scomparsa di Noemi Durini. La svolta tuttavia, l’ha data il fidanzato quando si è presentato dai carabinieri per confessare. Una decisione presa spontaneamente? In realtà il ragazzo ha sentito addosso tutta la pressione degli indizi raccolti in questi giorni dagli inquirenti e confluiti inequivocabilmente verso di lui. A cominciare dalle due tracce di sangue trovate nella Fiat 500 con cui è andato a prendere Noemi verso le quattro di domenica mattina 3 settembre e portata all’autolavaggio subito dopo. Peraltro che fossero insieme lo dimostra anche il filmato di un impianto di videosorveglianza: la pressione quel ragazzo l’ha sentita anche grazie al giro nelle campagne fatto martedì pomeriggio con i carabinieri e deve essersi sentito con le spalle al muro quando ieri mattina gli è stato notificato l’avviso di garanzia sotto forma di decreto di perquisizione della casa. Il caso è stato preso particolarmente a cuore dagli inquirenti. Da Roma, su richiesta della Procura, sono arrivati gli specialisti delle ricerche degli indizi invisibili ad occhio nudo: i carabinieri del Ris. Ed anche il Ros con la sezione specializzata in crimini violenti. Le ricerche per le campagne hanno visto l’impiego della protezione civile, dei volontari e dei reparti speciali dei vigili del fuoco. Ieri c’era anche un elicottero che sorvolava sul Basso Salento. E poco dopo mezzogiorno e mezzo è atterrato a Castrignano del Capo, in contrada San Giuseppe. Nello spiazzo libero da alberi, più vicino a quella campagna di muretti a secco ed ulivi dove poco prima L.M. 17 anni, di Montesardo, ha accompagnato i carabinieri. Il dispositivo delle ricerche e delle indagini ha chiuso un caso che ha destato preoccupazione con il passare dei giorni: la ragazza è scomparsa domenica 3 settembre, il martedì successivo la madre ha sporto denuncia. Ha preso un po’ di tempo perché la ragazza altre volte si era allontanata da casa senza dire nulla, per fare ritorno non più tardi di un giorno, un giorno e mezzo. Resta da capire, e se ne occuperanno la Procura ed il Tribunale per i minorenni, come sia possibile che una ragazza di 16 anni venga ammazzata dal fidanzatino, nonostante due “Trattamenti sanitari obbligatori” ne abbiano dimostrato la pericolosità.
Il tormento di Noemi, la paura e le fughe tra le braccia del suo assassino, scrive Goffredo Buccini il 13 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Come tutte le sedicenni, Noemi aveva un confidente: Facebook. Così, forse, sarebbe bastato porsi qualche domanda in più, leggendo quella poesia rilanciata sul suo profilo in un post del 23 agosto, appena undici giorni prima d’essere lapidata in mezzo agli ulivi e i muri a secco della campagna leccese: «Non è amore se ti fa male/ non è amore se ti controlla/ non è amore se ti picchia/ non è amore se ti umilia...», un grido di dolore di tutte le donne violate e abusate dai loro uomini infami.
Ma nessuno si fa troppe domande, giù nel Basso Salentino, tra Specchia e Alessano, belle ville di vacanza della swinging Puglia e terre riarse dei poveracci, masserie rifatte a bed and breakfast e pozzi sperduti nel buio. Come ad Avetrana, del resto, l’omertoso paese di Sarah Scazzi, che dista un’ora di strada da qui, ma meno d’un sospiro di silenzio da questa trama mostruosa, quest’altra, quasi in fotocopia, di un’altra ragazzina sepolta nei campi, di altre famiglie disfunzionali o malate, di familismi amorali che diventano delitto e complicità, perché la legge non varca l’orto di casa.
Quello che ha confessato d’averla uccisa ha un anno più di lei, 17: dunque ha diritto all’anonimato e dovremmo chiamarlo «fidanzatino», se appellativo e diminutivo non suonassero come una bestemmia. Uno sbandato, dicono di lui, «che ha già fatto tre Tso», terapie obbligatorie, sussurrano. «Uno che viveva in paranoia», tanto da sfasciare a seggiolate, in un allucinante video girato e rigirato su Whats App, l’utilitaria del papà di Noemi venuto a chiedergli notizie della figlia sparita da giorni. Uno «con problemi psichici» ha ammesso perfino il Procuratore che indaga assieme ai carabinieri. Già. Tra queste case basse e candide a ridosso della Provinciale per Leuca, tra questi vicoli lastricati di nulla, la vita si spreca nella noia, la giovinezza sfuma così, uno spinello, due, il rap sparato nello stereo, la luna sopra la testa che sballa, le notti che non muoiono all’alba, la voglia di qualcosa di più forte. Noemi da più d’un anno si stava perdendo appresso a quel suo ragazzo balengo, era già stata bocciata a scuola, era presa di lui e al tempo stesso da lui terrorizzata. Le amiche dicono: «La picchiava». Lo ha detto, inutilmente, anche la mamma di Noemi, Imma, che aveva fatto denuncia al Tribunale dei minori contro il ragazzo quando la figlia le era tornata con la faccia gonfia; ma si sa come sono le indagini in certi casi. Il sindaco di Specchia, Rocco Pagliara, dice che «le cose sono state sottovalutate» e che «le istituzioni non sono senza colpa». Nessuno è senza colpa e tuttavia occorre pietà per ciascuno. Prima di tutto per la famiglia di lei, adesso arroccata nella piccola casa di Specchia, in via Madonna del Passo: con mamma Imma è rimasta solo la figlia più grande, Benedetta; il papà se n’è andato ma vive a cinquecento metri; i nonni poco lontano. Il 28 settembre Benedetta si laurea e nei giorni in cui la sorella era sparita e tutti la cercavano perfino con gli immancabili veggenti e coi cani molecolari (sì, quelli diventati famosi al tempo di Sarah) le aveva lanciato un tenero appello: «Non puoi perderti la mia festa, torna». Pensavano all’ennesima fuga, in quei giorni d’attesa e speranza. Era complicato da un pezzo stare dietro a quella ragazzina smarrita e innamorata che su Facebook postava pure le acconciature da mezzo matto di lui, scrivendo orgogliosa «anche se ne potessero fare due non ve lo darei comunque». Come al solito, paura e malìa. Solita trappola: «Mi pesta perché tiene tanto a me». Cinque volte in tre mesi era scappata Noemi. E quando non scappava tornava alle sei di mattina. Un cugino la portava spesso a Montesardo, la frazione di Alessano, dove abitava lui. E lui stava lì ad aspettarla, ormai sempre più sospettoso, geloso, «vuoi lasciarmi, vuoi tradirmi...». Colpa di lei, certo, si sa, è sempre colpa di una lei, no?, quando un lui la riempie di botte per amore...Vito, il nonno materno, lo dice senza girarci attorno: «Bisognava intervenire prima. Quello là andava rinchiuso in una casa di cura. E penso che il lavoro non l’abbia fatto da solo», aggiunge in un soffio. Quel soffio spalanca un incubo dentro l’incubo. Perché assieme al ragazzo è sotto accusa il padre, Biagio, uno che descrivono in lite perenne con la giustizia, senza un lavoro stabile, uno che s’arrangia. Uno che di Noemi diceva: «È un cancro per mio figlio». Chissà quanto c’è di vero; gli odi tra le due comunità, Specchia e Alessano, sono radicati come piante secolari. Si odiavano le famiglie, finché l’odio non è tracimato anche sull’amore di due poveri adolescenti già traballante di suo. Dicevano che l’accusa per il padre fosse «tecnica». Dovevano perquisire la 500 bianca su cui il ragazzo ha portato via Noemi la notte del 3 settembre. Lui, a 17 anni e in barba alla legge, guidava abitualmente. Ma la macchina è del papà, sarebbe stato un «atto dovuto». E tuttavia: qualcuno l’ha lavata la macchina, cancellando almeno le tracce più visibili. E tuttavia: i tabulati potrebbero raccontare di qualche telefonata alle cinque del mattino, le celle telefoniche potrebbero ricostruire qualche spostamento inspiegabile se non in un quadro di complicità. E il quadro s’è fatto più fosco, dunque. Ancora una volta viene in mente Avetrana: l’ombra di zia Cosima che cattura Sarah, quella di zio Michele, schiavo di famiglia e di masseria, che si china a nascondere Sarah nel pozzo. Un pozzo così simile alla tomba di pietre che ha sepolto gli incubi di Noemi e la mala coscienza di chi non li ha scacciati in tempo.
Ordine giornalisti: osservare doveri deontologia, scrive il 14 Settembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". Un invito «ad osservare i doveri deontologici nell’esercizio del diritto di cronaca, pur nel comprensibile coinvolgimento emotivo» viene rivolto con una nota a tutti gli iscritti dall’Ordine dei giornalisti della Puglia in relazione alla vicenda di Specchia (Lecce) dell’uccisione della sedicenne Noemi Durini da parte del fidanzato 17enne. «Cronache e immagini devono, in casi come questi - spiega l'Ordine dei giornalisti - richiedere un supplemento di professionalità, che impone pertanto di applicare i principi deontologici nell’uso di tutti gli strumenti di comunicazione, compresi i social network. Il diritto all’informazione, specie quando si tratta di vicende che riguardano i minori, impone di elaborare e diffondere con ogni accuratezza possibile ogni dato, ogni immagine, ogni notizia di pubblico interesse secondo la verità sostanziale dei fatti ed essenzialità dell’informazione».
Specchia. Noemi Durini e Lucio Marzo. Un film già visto, come Sarah Scazzi. Lucio Marzo, fidanzato di Noemi, ha confessato ed ha fatto trovare il corpo. Per il delitto di Sarah Scazzi, Michele Misseri, reo confesso, anch’egli ha fatto trovare il corpo, ma non è stato condannato per l’omicidio. Chi sarà condannato per il delitto di Noemi Durini?
Non aspettatevi, però, tutela della comunità da parte degli amministratori locali, se non fumo negli occhi.
Omicidio Noemi, Specchia non ci sta: “chi offende la nostra città ne risponderà in Tribunale”. Con una delibera di Giunta è stato deciso di dare mandato a un legale che avrà il compito di tutelare buon nome della città, scrive il 29 settembre 2017 Lecce news. Sono trascorse due settimane esatte da quel 13 settembre, quando, a seguito della confessione del fidanzato, è stato ritrovato, nascosto tra i sassi di un terreno agricolo di Castrignano del Capo, il corpo senza vita della giovane Noemi. L’omicidio della 16enne di Specchia ancora fa parlare e riempie le pagine di tutti, proprio tutti, gli organi di informazione locale e nazionale. Una vicenda triste, tristissima, quella della giovane studentessa che ha sconvolto moltissime persone ma, soprattutto, la comunità di Specchia che ancora piange la scomparsa della sua piccola concittadina. Naturalmente, non poteva essere diversamente, ripetiamo, questa storia ha avuto una eco mediatica importante e, per certi versi, sproporzionata. In questo contesto non sono mancati i riferimenti negativi nei confronti della piccola e bellissima cittadina del Salento, impegnata da sempre nel promuovere le proprie bellezze storico-artistiche-architettoniche e culturali del proprio entroterra. Con il trascorre degli anni, infatti, Specchia è divenuta un’eccellenza turistica della provincia di Lecce, si è affermata come uno dei borghi più belli d’Italia, dei comuni gioiello d’Italia ed è stata insignita della Bandiera arancione del Touring Club, oltre a ospitare ogni estate 10mila turisti provenienti da ogni dove. Non è, quindi, quel “Villaggio dal nome sconosciuto, che si è conosciuto a causa dell’omicidio di Noemi e che non ha futuro”, come è stato scritto in alcuni articoli. Per questo motivo l’Amministrazione comunale ha deciso di tutelare il buon nome della città e, nella giornata di oggi, con una Delibera di Giunta ha fornito atto di indirizzo per la nomina di un legale che ponga in essere ogni azione utile a tutelarne il nome, l’immagine e l’onorabilità. In questi ultimi tempi, è bene chiosarlo, si è un po’ tracimato e, senza dubbio, anche la comunità specchiese può essere definita una “vittima” di tutto ciò.
Specchia, il sindaco chiede i danni: «Lesa la nostra immagine», scrive Donato Nuzzaci su "Il Quotidiano di Puglia" Sabato 30 Settembre 2017. Sconvolta dal dolore per la tragica vicenda di Noemi Durini - la 16enne trovata morta nelle campagne di Castrignano del Capo dopo circa 10 giorni dalla notizia della scomparsa -, la comunità di Specchia cerca ora di rialzarsi, non senza togliersi qualche sassolino dalla scarpa. L’amministrazione comunale, guidata dal sindaco Rocco Pagliara, ha deciso di fare il punto sul racconto a livello mediatico di questo drammatico evento, arrivando ad una prima conclusione: mandato legale per difendere l’immagine di Specchia che in determinati servizi giornalistici «è stata denigrata nella maniera peggiore». Così ha deliberato l’altro giorno la giunta comunale prendendo atto che, a suo dire, in tanti «hanno provato a descrivere Specchia entrando in una realtà che non conoscevano e della quale si è parlato in modo spropositato, sbagliato e non consono rispetto a ciò che ogni giorno si vive in questa comunità». «Il paese ha un tessuto sociale e culturale sano ed è complessivamente un borgo vivo e sopra la media sia in termini qualitativi che quantitativi», spiega il sindaco Pagliara. «Qualche giornalista ha definito Specchia “un villaggio dal nome sconosciuto”, “villaggio senza età né futuro” e altre espressioni che a nostro avviso sono insinuazioni completamente infondate e diffamatorie», si legge nella delibera.
«TERRE DI NIENTE E DI NESSUNO…» Avetrana e Specchia come «le pietraie dell’Afganistan» è un articolo apparso il 21 settembre 2017 sui giornaletti locali a bassa tiratura. Si riferisce ad un testo del giornale on-line Lettera43 che pubblica un articolo a firma del giornalista Massimo del Papa con un titolo e contenuto che non è stato gradito al vice-sindaco di Avetrana Alessandro Scarciglia. Nell’articolo il giornalista paragona Avetrana e Specchia “alle pietraie dell’Afganistan,” e così Alessandro Scarciglia, a nome del Comune di Avetrana, ha segnalato l’autore del contenuto all’Ordine dei Giornalisti delle Marche chiedendo “di verificare l’eventuale presenza di violazioni etiche e morali del giornalista e di tenere informato il Comune di Avetrana sugli esiti di una eventuale azione che il Consiglio di Disciplina volesse intraprendere.” Qui di seguito la segnalazione integrale inviata All’OdG delle Marche dal vice sindaco: «Ill.mo Ordine, con la presente voglio segnalare un articolo pubblicato in data 18 settembre 2017 sul giornale on-line “LETTERA 43” a firma del giornalista sig. Massimo Del Papa, dal titolo “Avetrana, Specchia e le pietraie d’Italia figlie del Grande Fratello” e dal sottotitolo “Villaggi dai nomi sconosciuti, che un giorno tutti imparano per le ragioni più atroci. Villaggi senza età né futuro. Storditi davanti a un televisore, incantati da personaggi che non esistono”. Il giornalista Del Papa, nel paragonare il comune della giovane vittima di Specchia (LE) al Comune di Avetrana (TA), usa, a parere dello scrivente, termini alquanto offensivi nei confronti dell’intera comunità di cui mi onore di amministrare. Di seguito riporto alcuni passaggi del suddetto articolo che fanno riferimento ai comuni di Avetrana e Specchia:
• “terre di niente e di nessuno, senza speranze, che i telegiornali mostrano simili a pietraie dell’Afganistan”;
• “qui la gente si limita a sospettare altre forme di vita su altri pianeti mostrati dalla televisione, neanche internet, che serve a chattare la non-vita di ogni minuto”;
• “nelle pietraie del Sud d’Italia riparte la faida”;
• “la televisione è ancora l’unico antidoto alla noia della pietraia, insieme alle canne e, a volte, altra roba più forte”;
• “non si vuole dire che chi guarda il Grande Fratello poi diventa balordo e criminale, si vuole semplicemente dire che, nelle mille pietraie d’Italia, l’orizzonte culturale è quello, la speranza di vita è quella”.
Non starò certo qui ad annoiare l’ Ill.mo Ordine dei Giornalisti elencando le bellezze naturalistiche e storiche dei nostri luoghi o i diversi concittadini che si sono distinti (e continuano a farlo) per vari meriti in ambito nazionale ed internazionale; non starò qui a dire che negli ultimi anni il turismo cresce a livello esponenziale grazie all’impegno dei privati e delle pubbliche amministrazioni che quotidianamente, con umiltà, sacrifici e amore per la propria terra, si impegnano ad offrire servizi migliorativi. E non starò certo qui ad annoiare con una difesa di parte sull’onorabilità del comune di Avetrana e dei suoi cittadini. Sono qui solo ad esprimere la propria rabbia (e a rappresentare quella degli abitanti di Avetrana) per quanto scritto nell’articolo in questione. Si chiede al Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti delle Marche, che legge in copia, di verificare l’eventuale presenza di violazioni etiche e morali del giornalista e di tenere informato il Comune di Avetrana sugli esiti di una eventuale azione che il Consiglio di Disciplina volesse intraprendere. Per le eventuali contestazioni penali e/o civili ci stiamo consultando con i legali del Comune per verificare la fattibilità di un’azione giudiziaria che possa ridare dignità alla città di Avetrana, da troppo tempo martoriata ed infangata da certa stampa. Nell’esprimere la massima stima all’Ordine dei Giornalisti di tutta Italia, porgo sinceri saluti. Alessandro Scarciglia (Vicesindaco Comune di Avetrana)».
Sicuramente è il massimo che da questi amministratori locali ci si potesse aspettare.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Popolo di Avetrana, se avete un po’ di dignità ed orgoglio, indignatevi e condividete questo post su quanto ha scritto contro gli avetranesi Nazareno Dinoi, amico dei magistrati di Taranto (ma non dei magistrati di Bari, per cui è stato processato a Lecce per aver diffamato il Procuratore Laudati) e direttore de "La Voce di Manduria", un giornalino locale di un paese vicino ad Avetrana. Il "mandurese" diffama indistintamente tutti gli avetranesi, e non me ne spiego l'astio, e gli amministratori locali e la loro opposizione non sono capaci di difendere l’onore di Avetrana contro la gogna mediatica programmata sin dal 26 agosto 2010 e protratta da giornalisti da strapazzo sui giornali ed in tv.
“La triste fine di Sarah Scazzi ha dato improvvisa notorietà al piccolo paese di Avetrana altrimenti sconosciuto ai più. Ha portato luce su un paese in ombra infastidendo chi vi abita. Ed è anche sugli avetranesi che il caso Scazzi si è contraddistinto per un’altra peculiarità: l’omertà, il visto e non visto, il non ricordo, il forse, il lo so ma non ne sono sicuro, il meglio farsi gli affari propri. Un popolo onesto che di fronte alla richiesta di coraggio si è tirato indietro. Anche in questo caso parlano i numeri e i dati: gli investigatori hanno ascoltato poco più di duecento persone, per la maggioranza avetranesi, poche hanno detto di aver visto qualcosa, nessuno si è presentato spontaneamente per aiutare la giustizia con l’amaro risultato che resterà negli annali delle cronache giudiziarie: dodici di loro sono stati indagati per falsa testimonianza o addirittura per favoreggiamento. Un record in negativo con cui Avetrana e gli avetranesi dovranno fare i conti.”
Il giornalista, come lui si definisce, dovrebbe sapere che i conti si fanno alla fine. Per ora omette di contare i due imputati assolti dall'accusa di favoreggiamento...o questo per omertà o censura non si può dire?
Quarto Grado. Nuzzi, Longo ed Abbate, Avetrana vi dice: vergogna!
Per il resto ospite è Grazia Longo, cronista de “La Stampa”, che si imbarca in accuse diffamatorie, infondate e senza senso: «…e purtroppo tutto questo è maturato in seno ad una famiglia ed anche ad un paese dove mentono tutti…qui raccontano tutti bugie».
Vada per i condannati; vada per gli imputati, ma tutto il paese cosa c’entra?
Ospite fisso del programma è Carmelo Abbate, giornalista di Panorama, che anche lui ha guizzi di idiozia: «io penso che da tutto quello che ho sentito una cosa la posso dire con certezza: che se domani qualcuno volesse scrivere un testo sull’educazione civica, di certo non dovrebbe andare ad Avetrana, perché al di là della veridicità o meno della dichiarazione della ex compagna di Ivano, al di là della loro diatriba, è chiaro che qui c’è veramente quasi un capannello di ragazzi che nega, un’alleanza tra altri che si mettono d’accordo: mamma ha visto questo, mamma ha visto quest’altro. Ma ci rendiamo conto di quanto sia difficile scalfire, scavalcare questo muro, veramente posto tra chi deve fare le indagini e la verità dei fatti? E’ difficilissimo. Cioè, la sicurezza, la nostra sicurezza è nelle mani di noi.»
Complimenti ad Abbate ed alla sua consistenza culturale e professionale che dimostra nelle sue affermazioni sclerotiche. Cosa ne sa, lui, dell'educazione civica di Avetrana?
Fino, poi, nel prosieguo, ad arrivare in studio, ad incalzare lo stesso Claudio, come a ritenerlo egli stesso di essere omertoso e reticente. Grazia Longo: «…però Claudio anche tu devi parlare, anche tu, scusa se mi permetto, dici delle cose e non dici. Io non ho capito niente di quello che hai detto. Tu sai qualcosa e non lo vuoi dire!»
Accuse proferite al fratello della vittima…assurdo!
Eppure questi amministratori locali sono stati interpellati dal sottoscritto dr Antonio Giangrande:
Al Presidente del Consiglio Comunale di Avetrana
Per il sindaco di Avetrana e la Giunta Comunale
Per i consiglieri comunali
Avetrana lì 3 giugno 2015
Oggetto: Art. 47/49 Statuto di Avetrana. Richiesta di convocazione di un Consiglio Comunale monotematico attinente il Caso Sarah Scazzi per la ricerca di strumenti di tutela dell’immagine e della reputazione del paese e dei suoi cittadini di fronte alla gogna mediatica a cui è perennemente sottoposto.
Il sottoscritto Dr Antonio Giangrande, scrittore, nato ad Avetrana il 02/06/1963 ed ivi residente alla via Manzoni, 51, presidente nazionale della Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, direttore di Tele Web Italia e vice presidente della Associazione Pro Specchiarica, sodalizio di promozione del territorio, con sede legale in via Piave 127 ad Avetrana, tel 0999708396 cell. 3289163996,
premesso che sin dal 26 agosto 2010, dal momento della scomparsa di Sarah Scazzi in Avetrana, i cittadini del paese sono oggetto di una gogna mediatica senza soluzione di continuità che non trova pari in nessun altro caso di cronaca nazionale ed internazionale. Da allora ho scritto 3 libri sul delitto, rendicontando giorno per giorno eventi avvenuti e commenti elargiti in tutta Italia. Per gli effetti ho verificato che di Avetrana si è fatta carne da macello. Se da una parte, per quanto riguarda i protagonisti della vicenda, il diritto di cronaca è tutelato dalla Costituzione italiana, quantunque per esso non vi è giustificazione quando per loro questo si travalica. E’ criminale, però, quando si coinvolgono in questa matassa tutti gli altri cittadini di Avetrana che nulla centrano con la vicenda. Eppure dal 26 agosto 2010 tutti gli avetranesi sono stati dipinti come retrogradi, omertosi e mafiosi. Chi riesce ad andare oltre i confini della “Cinfarosa” si accorge che Avetrana è conosciuta in tutto il mondo e certo non in toni lusinghieri. Tanto da far mortificare i suoi cittadini e far pagare loro fio per colpe non commesse. Non basta il mio prodigarmi a favore di Avetrana attraverso la pubblicazione dei miei libri o di video o di note stampa sui miei o altrui blog per ristabilire la verità. Io sono sempre un semplice cittadino che non fa testo e questo è un limite, oltretutto, chi mi segue, per come mi conosce, non pensa che io sia di Avetrana e ciò rende meno efficace la posizione da me assunta. D’altra parte, però, a difesa dei diritti di Avetrana si è notato una certa mancanza di iniziativa adeguata da parte dell’Amministrazione Comunale, tanto meno la minoranza ha adottato misure opportune di pungolo o di critica. Il tutto per mancanza di coraggio o di impreparazione comunicazionale. E per questo nei libri non ho mancato di rilevare l’ignavia atavica degli amministratori. Poco si è fatto e quel poco è risultato al di più dannoso. Se da una parte può essere considerato opportuno, con oneri per la comunità, costituirsi parte civile nei confronti di chi si addita prematuramente come responsabile e comunque non ha nulla da risarcire, intollerabile è che Pasquale Corleto, avvocato per il Comune di Avetrana, che dovrebbe tutelare l’immagine degli avetranesi, dica in pubblica udienza inopinatamente: «Avetrana è una città di gente che lavora e vi preannunzio per andare sempre più in fretta LA GENTE DI AVETRANA E’ COME MICHELE MISSERI. Se ad Avetrana non ci fosse stata gente sana, non avremmo potuto parlare della contestazione d'accusa di sequestro di persona». Io non sono come Michele Misseri. Io non mi accuso di essere un assassino!
A Specchia il 29 settembre 2017 si è dato mandato ad un legale per presentare un atto contro i diffamatori che poteva essere fatto motu proprio senza spese con una semplice querela di parte. Ad Avetrana anziché presentare motu proprio la querela contro i giornalisti diffamatori, il 29 agosto 2017 il Consiglio Comunale ha approvato la spesa fuori bilancio di oltre 42 mila euro per un avvocato, non di Avetrana, per prendersela con i Misseri. Anzichè prendersela con i giornalisti, si sono spesi oltre 40 mila euro per un avvocato, Pasquale Corleto di Lecce e non di Avetrana, per prendersela con i Misseri e per dire “LA GENTE DI AVETRANA E’ COME MICHELE MISSERI”.
Comunque, l’inadeguato contrasto da parte del Comune di Avetrana ha portato all’apice dell’ignominia.
In occasione della notifica dei 12 gli avvisi di conclusione delle indagini preliminari fatti notificare a quanti, secondo l’accusa, erano a conoscenza di fatti e particolari riguardanti l’omicidio e hanno taciuto, o peggio detto il falso, dinanzi ai pubblici ministeri o alla corte d’assise, i media si sono sbragati.
Nel caso dell'omicidio di Sarah Scazzi, trattato molto spesso da “Quarto Grado” su “Rete 4” di Mediaset la redazione (guidata da Siria Magri) si è attestata su una linea prevalentemente conforme agli indirizzi investigativi della pubblica accusa, cioè della Procura della Repubblica di Taranto. Tanto che i suoi ospiti, quando sono lì a titolo di esperti (pseudo esperti di cosa?) o, addirittura, a rappresentare le parti civili, pare abbiano un feeling esclusivo con chi accusa, senza soluzione di continuità e senza paura di smentita. A confermare questo assioma è la puntata del 15 maggio 2015 di “Quarto Grado”, condotto da Gianluigi Nuzzi ed Alessandra Viero e curato da Siria Magri.
A riprova della linea giustizialista del programma, lo stesso conduttore è impegnato a far passare Ivano come bugiardo, mentre il parterre è stato composto da:
Alessandro Meluzzi, notoriamente critico nei confronti dei magistrati che si sono occupati del processo, ma che sul caso trattato è stato stranamente silente o volutamente non interpellato;
Claudio Scazzi, fratello di Sarah;
Nicodemo Gentile, legale di parte civile della Mamma Concetta Serrano Spagnolo Scazzi.
Solita tiritera dalle parti private nel loro interesse e cautela di Claudio nel parlare di omertà in presenza di cose che effettivamente non si sanno.
Per il resto ospite è Grazia Longo, cronista de “La Stampa”, che si imbarca in accuse diffamatorie, infondate e senza senso: «…e purtroppo tutto questo è maturato in seno ad una famiglia ed anche ad un paese dove mentono tutti…qui raccontano tutti bugie».
Vada per i condannati; vada per gli imputati; vada per gli indagati; ma tutto il paese cosa c’entra?
Ospite fisso del programma è Carmelo Abbate, giornalista di Panorama, che anche lui ha guizzi di idiozia: «Io penso che da tutto quello che ho sentito una cosa la posso dire con certezza: che se domani qualcuno volesse scrivere un testo sull’educazione civica, di certo non dovrebbe andare ad Avetrana, perché al di là della veridicità o meno della dichiarazione della ex compagna di Ivano, al di là della loro diatriba, è chiaro che qui c’è veramente quasi un capannello di ragazzi che nega, un’alleanza tra altri che si mettono d’accordo: mamma ha visto questo, mamma ha visto quest’altro. Ma ci rendiamo conto di quanto sia difficile scalfire, scavalcare questo muro, veramente posto tra chi deve fare le indagini e la verità dei fatti? E’ difficilissimo. Cioè, la sicurezza, la nostra sicurezza è nelle mani di noi.»
Complimenti ad Abbate ed alla sua consistenza culturale e professionale che dimostra nelle sue affermazioni sclerotiche. Cosa ne sa, lui, dell'educazione civica di Avetrana?
Fino, poi, nel prosieguo, ad arrivare in studio, ad incalzare lo stesso Claudio, come a ritenere egli stesso di essere omertoso e reticente. Grazia Longo: «...però Claudio anche tu devi parlare, anche tu, scusa se mi permetto, dici delle cose e non dici. Io non ho capito niente di quello che hai detto. Tu sai qualcosa e non lo vuoi dire!»
Accuse proferite al fratello della vittima…assurdo! Tutto ciò detto di fronte a milioni di spettatori creduloni.
Si noti bene: nessun ospite è stato invitato per rappresentare le esigenze della difesa delle persone accusate o condannate o addirittura estranee ai fatti contestati.
Per questi motivi
SI CHIEDE ALLA SV VOSTRA
Non essendoci fin qui, colpevolmente, nessun provvedimento adottato per motu proprio, ossia d’ufficio, nonostante le segnalazioni verbali al presente ufficio di presidenza, al sindaco, al vice sindaco ed ad esponenti della minoranza, di convocare ai sensi dello Statuto del Comune di Avetrana, come previsto dagli artt. 24 comma 3, 29, 37, attraverso la presente richiesta di pubblico interesse inoltrata in virtù del dettato dello Statuto del Comune di Avetrana, ex art. 47, in qualità di presidente di una associazione ed ex art. 49 da semplice cittadino, un consiglio comunale monotematico per le motivazioni in oggetto, opportunamente pubblicizzato e partecipato. In tale sede si ricerchino e si adottino, finalmente all’unanimità ed in unione, adeguati e netti strumenti di tutela dell’onorabilità di Avetrana e dei suoi cittadini, come per esempio una denuncia per diffamazione a mezzo stampa e relativa azione civile contro i giornalisti ed al direttore del programma televisivo citati. Altresì aggiungersi una campagna stampa istituzionale, affinchè, a tale delibera adottata, sia data ampia rilevanza nazionale in modo tale che la querela non sia fine a se stessa ma attivi un clamore mediatico. In questo modo, dal dì di approvazione in poi, sia di monito a tutti e, finalmente, tutti si possano lavare la bocca prima di pronunciare qualsivoglia considerazione malevola sul nostro paese.
Comunque qualcosa va fatto, in quanto la misura è abbondantemente colma e con vostra responsabilità.
Mi è stato consigliato di soprassedere alla mia proposta, ovvia e normale in altri luoghi, ma forse considerata estemporanea ad Avetrana. Io non dispero, considerando, nonostante tutto, Avetrana un paese normale.
Con ossequi. Dr Antonio Giangrande
“La triste fine di Sarah Scazzi ha dato improvvisa notorietà al piccolo paese di Avetrana altrimenti sconosciuto ai più. Ha portato luce su un paese in ombra infastidendo chi vi abita. Ed è anche sugli avetranesi che il caso Scazzi si è contraddistinto per un’altra peculiarità: l’omertà, il visto e non visto, il non ricordo, il forse, il lo so ma non ne sono sicuro, il meglio farsi gli affari propri. Un popolo onesto che di fronte alla richiesta di coraggio si è tirato indietro. Anche in questo caso parlano i numeri e i dati: gli investigatori hanno ascoltato poco più di duecento persone, per la maggioranza avetranesi, poche hanno detto di aver visto qualcosa, nessuno si è presentato spontaneamente per aiutare la giustizia con l’amaro risultato che resterà negli annali delle cronache giudiziarie: dodici di loro sono stati indagati per falsa testimonianza o addirittura per favoreggiamento. Un record in negativo con cui Avetrana e gli avetranesi dovranno fare i conti.” Così scriveva il 29 luglio 2015 Nazareno Dinoi sul Corriere del Mezzogiorno – Corriere della Sera e su “La Voce di Manduria”. Un giornalista che sicuramente i conti li deve fare con la sua coscienza e la sua professionalità, in quanto ha qualche problema nello scrivere con libertà e verità stante la sua propensione a favore della posizione dei magistrati, di cui è ampio megafono, e dedito alla menzogna, se parla di Avetrana come paese omertoso sol perché i suoi amici magistrati lo hanno fatto passare come tale, anche se in questo è in buona moltitudine compagnia con i suoi colleghi pseudo giornalisti. Altra sedicente giornalista, tal Annalisa Latartara, non nuova ad exploit del genere (si pensi viene dalla nordica Taranto), lo stesso giorno e sempre a proposito ha scritto su “Il Corriere del Giorno” di Taranto: «Ma l’opera di depistaggio della famiglia Misseri è stata agevolata dall’omertà di chi ha visto e non ha raccontato nulla, né di sua spontanea iniziativa, né dinanzi agli investigatori. Di chi chiamato a deporre in aula non ha detto tutto quello che sapeva.» Ma contro i pregiudizi non ci sono limiti. Da ultimo e non sarà l’ultima volta, un sedicente giornalista, tal Paolo Ojetti, il 7 marzo 2013 in riferimento al delitto di Sarah Scazzi ha scritto su “Il Fatto Quotidiano”: «Quello che alla fine lascia pensosi è il “contesto”, una alchimia di arcaico e ipermoderno, di barbarie da profondo sud e di spregiudicato uso dei media da parte di assassini e di comprimari…E il movente? Messaggini erotici da tenere segreti. Ricatti sessuali adolescenziali. Difesa della purezza familiare, valore dalla cintola in giù che giustifica tuttora violenza, stupro, incesto, femminicidio. Può anche darsi che la cronaca nera punti solo all’Auditel. Ma, almeno in questo caso, è stato uno schiaffo benefico che riporta con i piedi sulla terra di un paese arretrato». In riferimento al gruppo di Sarah Scazzi il sedicente giornale “padano” di Taranto, “Taranto Sera”, scrive «Un gruppo in cui non si sarebbe disdegnata qualche pratica parecchio ‘spinta’, inconfessabile, a maggior ragione in un contesto come quello di un piccolo paese del profondo Mezzogiorno, quale Avetrana.» Ed ancora altro sedicente giornalista, tal Pasquale Amoruso e sempre a riguardo su “Il Quotidiano Italiano” (padano anch’esso) di Bari ha scritto: «L’omertà è il vero strumento di contrasto alla Giustizia nel caso Scazzi. L’omertà di Giovanni Buccolieri, il fioraio di Avetrana che dichiarò di aver visto zia e cugina costringere Sara in lacrime salire in macchina, salvo poi ritrattare la sua versione, dicendo di non aver visto effettivamente la scena, ma piuttosto, di averla sognata, e l’omertà di tre suoi parenti, indagati per favoreggiamento personale e intralcio alla Giustizia. L’omertà dei nove testimoni le cui dichiarazioni contrastano con le prove in mano agli inquirenti e l’omertà di chi, pur sapendo come stanno le cose, perché qualcuno c’è, non parla per preservare, non so cosa sia peggio, un assassino o una rispettabilità ormai perduta. Insomma, quante persone occorrono per uccidere una ragazzina? Tutte quelle che non parlano.» Ed ancora. «Sullo sfondo di queste tesi difensive, però, il ficcante lavoro della procura che abbiamo visto nelle udienze passate ha scandagliato con accuratezza la grande mole di indizi, intercettazioni, testimonianze e confidenze, entrando anche e soprattutto, non dimentichiamolo questo, nell’humus sociale, culturale e familiare nel quale si è realizzato il terribile omicidio.» Dice a mo di lacchè dei magistrati Walter Baldacconi, direttore del TG di Studio 100 tv, emittente “Padana” con sede a Taranto, criticando le tesi difensive di Nicola Marseglia e le prese di posizione di Franco Coppi in merito al fuori onda che hanno dato l’imput all’astensione dal processo Scazzi della Trunfio e della Misserini.»
Ma Nazareno Dinoi quando le cose non le sa, perchè le scrive? Scrive Giovanni Caforio il 9 aprile 2017 su Viva Voce web. Informare è giusto. Diffamare è un altro conto. E su questo il direttore de La voce di Manduria dovrebbe preoccuparsi. Seriamente. Questa mattina il cellulare è impazzito: “Corri, ho una notizia incredibile per te!” Era questa la prima chiamata domenicale. Incontro al bar e sul bancone, assieme all’ottimo caffè dell’Elio bar, mi trovo la copia festiva del Quotidiano di Puglia. Titolone “Il racket delle sepolture dietro l’attentato al sindaco di Sava”. Addirittura. Il caffè viene sorseggiato in modo anomalo. E’ troppa la curiosità di leggere l’articolo che con il titolo copre tutta la prima pagina. E poi è scritto da Nazareno Dinoi, mica uno qualunque! Ma andiamo all’articolo e ai passi che hanno colto il nostro stupore e la nostra incredulità. “La sostituta procuratrice, Ida Perrone chiederà il rinvio a giudizio” e quindi, vuol dire che non lo ha ancora chiesto, pertanto non c’è nessuna richiesta sul tavolo di rinvio a giudizio ma solo indagini. Andiamo avanti, e qui viene la lode al sindaco pro tempore savese: “Del giovane ma coraggioso sindaco che da poco eletto cominciava ad interessarsi di cose evidentemente pericolose”. Stop su questo passo. Dinoi scorda, o fa finta di scordare, che il “giovane sindaco” aveva prolungato il contratto con la Global Work per un altro anno quando la stessa era stata bandita pochi mesi prima dalla DDA di Lecce per infiltrazioni camorristiche nella sua Manduria. Ma questo Dinoi lo ha scordato? Proseguiamo. Un dato importantissimo: l’attentato fu subito da IAIA nell’aprile del 2013. La gara d’appalto per i servizi cimiteriali fu espletata nel gennaio 2015. “Anche la gara d’appalto al cimitero era stata aggiudicata facendo ricorso alle minacce”. Falso. Doppiamente falsa questa affermazione. Ecco perché: fui invitato io a presiedere nell’ufficio del dirigente al Patrimonio, arch. Alessandro Fischietti, all’apertura delle buste delle ditte che concorrevano per la gara di aggiudicazione dei lavori all’interno dell’area cimiteriale. Furono 4 le ditte che parteciparono. Di queste 4 una fu esclusa in quanto mancava parte della documentazione richiesta. Delle restanti tre, due presentarono un ribasso del 21.50% e l’altra del 24,50%. La terza, quella della cooperativa di D’Ambrogio presentò un ribasso del 41%. E visto che la gara d’appalto parlava del massimo ribasso, l’architetto Alessandro Fischietti affidò in seduta stante alla Cooperativa Aurora, che vedeva Fernando D’Ambrogio presidente, la gestione dei lavori cimiteriali per due anni. Data questa stabilita dalla gara. Quindi, caro Dinoi, non ci sono state ne minacce ne tanto altro che lasci trasparire nel tuo articolo. Il Comune di Sava, in questo caso rappresentato dal dirigente al Patrimonio architetto Alessandro Fischietti attento e vigile sull’evolversi della seduta di aggiudicazione, non ha potuto far altro che legittimare la gara. E non ha obbligato l’ente savese ad affidare per forza la gara alla Cooperativa Aurora. Ed era tutto regolare!!! Ero testimone di tutta l’operazione, come si dice, oculare!!! Quanto all’attentato alla sorella del primo cittadino, mi devi spiegare caro luminare del giornalismo come fa un auto che parte da Torre ovo, e fare circa una dozzina di chilometri, e poi fermarsi e notare che i bulloni della sua ruota sono stati svitati? Me lo spieghi, per favore? Ma la dinamica sappiamo cos’è? La sappiamo bene? Non abbiamo il tuo curriculum giornalistico, e questo non ci cambia la vita, ma abbiamo la logica delle cose …Giovanni Caforio
Curriculum giornalistico? Ma non è infermiere?
Bavaglio all’informazione, ASL Taranto: Due procedimenti disciplinari in poco tempo a infermiere – giornalista, scrive il 28 settembre 2017 "La Voce di Maruggio". “Per me si tratta di un bavaglio”. Nazareno Dinoi dipendente ASL infermiere presso il 118 di Manduria, vive a Manduria e come giornalista ha curato gli articoli di cronaca nera sulla drammatica storia di Sarah Scazzi ad Avetrana. È il direttore de “La Voce di Manduria”, collabora con il Quotidiano di Puglia, ha collaborato per il “Corriere del Mezzogiorno è anche scrittore e autore di diversi libri tra cui “Dentro una vita” e “Sarah Scazzi, il pozzo in contrada Mosca”. Giornalista di cronaca nel tempo libero, finito nelle ultime ore dentro la notizia, per una vicenda che lo vede contrapposto all’ Asl di Taranto. “Ho sempre scritto senza mai avere problemi di alcun tipo – ci ha raccontato a telefono – fino a quando il consigliere regionale Giuseppe Turco, a gennaio, ha presentato un esposto contro di me, secondo cui le due attività di infermiere e giornalista sono incompatibili. Da lì è partito un procedimento disciplinare, a marzo ho avuto la sospensione senza stipendio per un mese. La motivazione addotta dalla Asl è che io non potevo avere la partita iva, necessaria per documentare gli introiti della mia attività giornalistica. Ovviamente ho fatto opposizione e ne discuteremo davanti al Giudice del lavoro a novembre”. “Adesso mi è arrivata un’altra contestazione. In sostanza -spiega – mi dicono che posso fare il giornalista, senza però trattare argomenti che riguardano la Asl, genericamente, senza entrare nello specifico; non mi dicono, per esempio, che non posso scrivere di malasanità. La cosa particolare, però, è che gli articoli oggetto della contestazione riguardano una vicenda di cronaca nota a tutti, l’omicidio di una signora al Pronto Soccorso dell’ospedale di Taranto commesso da uno squilibrato”. “Nel primo pezzo riporto fedelmente degli estratti dai comunicati stampa del Sindaco, dell’Onorevole Vico e del consigliere Borraccino; nel secondo riporto una delibera pubblicata sul sito della Asl, accessibile da chiunque, per cui l’Azienda Sanitaria Locale si costituirà parte civile quando inizierà processo per il delitto della signora. Il 3 ottobre si riunirà la commissione di disciplina e mi aspetto che ci andranno con la mano pesante, parliamo di due contestazioni in breve tempo. Lo stesso contratto prevede l’inasprimento della pena”. “Che tutto sia iniziato con l’esposto di Turco non lo dico io, lo scrive la stessa Asl nelle motivazioni del provvedimento di sospensione. Ora, non mi dicono che io non posso scrivere, cosa che tra l’altro non si può fare perché viola il diritto costituzionale della libertà d’espressione, però così passa il messaggio che non posso scrivere cose scomode a loro, ed è brutto”.
Va bene, ma gli amministratori locali e con essi l’opposizione consiliare cosa hanno fatto?
«Nonostante lo smacco giudiziario e l’offesa mediatica a tutta la popolazione avetranese il sindaco della ridente località, Mario De Marco, del Popolo delle Libertà, e la sua giunta cosa fanno? Anziché prendersela con chi ci sputtana, le loro ire si rivolgono alle parti più deboli, forse responsabili di delitti che, però, niente hanno a che fare con le insinuazioni o le vere e proprie accuse di omertà ed arretratezza sociale e culturale della comunità. «Avetrana - si legge nell'atto di parte civile - si è guadagnata la triste fama di cittadina quasi omertosa, simbolo di un profondo sud, vittima ancora oggi di troppi luoghi comuni. Sono note le spedizioni dei cosiddetti turisti dell'orrore - continua l'avvocato Corleto - che si sono avventurati nei luoghi simbolo della vicenda: le vie in cui si trovano le abitazioni della famiglia di Sarah e della famiglia Misseri, lo stesso cimitero che ospita la tomba di Sarah, nonché il pozzo di campagna nel quale è stato rinvenuto il cadavere della ragazzina sono stati meta di veri e propri pellegrinaggi. In questa dolorosa vicenda ci sono due vittime. La prima è certamente Sarah, l'altra è la città di Avetrana». «Gli Avetranesi hanno nel cuore Sarah e sono offesi dal comportamento della famiglia Misseri. Perché a prescindere dalle singole responsabilità che saranno accertate nel dibattimento, sono stati loro a innescare la morbosa attenzione dei media su questo caso e la conseguente ripercussione negativa per l'immagine della nostra comunità», rincara la dose il vicesindaco Alessandro Scarciglia. «In tutta questa situazione la popolazione di Avetrana è rimasta letteralmente disorientata, privata della propria serenità, impossibilitata ad osservare il dovuto silenzio e rispetto nei confronti della giovane vittima, nonché violentata in ogni aspetto della quotidianità, oltre che letteralmente assediata dai mezzi di informazione». Una «sete di giustizia», continua il documento della costituzione di parte civile, per «un’offesa enorme, una ferita profonda che merita di essere valutata e adeguatamente riparata in sede giudiziaria». Per gli amministratori che si dichiarano parte offesa, quindi, «il nome di Avetrana è ormai tristemente associato al crimine del quale sono chiamati a rispondere gli imputati» che dovrebbero così, se condannati, rifondere la somma «che sarà poi quantificata - ha spiegato il penalista Corleto - in un secondo tempo e in sede civilistica». Lo stesso avvocato che dovrebbe difendere la reputazione di Avetrana afferma inopinatamente: «Avetrana è una città di gente che lavora e vi preannunzio per andare sempre più in fretta LA GENTE DI AVETRANA E’ COME MICHELE MISSERI. Se ad Avetrana non ci fosse stata gente sana, non avremmo potuto parlare della contestazione d'accusa di sequestro di persona». E MENO MALE CHE DIFENDE L'ONORE DI AVETRANA, perchè gli Avetranesi non gettano i bambini nei pozzi!!!! L’avvocato Pasquale Corleto il quale, in rappresentanza del Comune di Avetrana, ha fatto un’esposizione giuridica che ha ricalcato, potenziandola, la tesi dei pubblici ministeri. Difendendo a suo parere subito la «parte sana» della comunità avetranese (e meno male se fosse stato il contrario?), per il cui danno all’immagine ha chiesto 300 mila euro di risarcimento danni, il penalista leccese ha esordito dicendo che «la popolazione di Avetrana non è omertosa, è fatta di persone buone», fatta eccezione, ha aggiunto diffamando gratuitamente, prima con un’intervista a Blustar TV e poi in aula, coloro che in giudizio non sono. «Il collegio dei Falsi, cioè Valentina (Misseri) e compagni, che buttando a mare tutti gli avvocati precedenti, hanno imposto questa linea della banda del falso che come Ivano Russo sono i giganti del turpiloquio e del depistaggio: una serpe. E’ il soggetto più turpe, più viscido. La serpe che entra nel processo. Che parla fuori, dentro le aule, le interviste, alle telecamere e tutto ciò che sapete, quando deve dire qualcosa di concreto, è questo il vangelo dettato dalla regia. Quando si sono visti con le mani al collo non potevano più dire chiacchiere a gente con la toga e dicono non ricordo». Avetrana: omertà e mafia, luoghi comuni che si rincorrono. «Un massacro gestito con metodi mafiosi. Sarah Scazzi è stata massacrata ed è un massacro peggiore per le condotte successive al delitto che denotano un metodo mafioso, da 416 bis. Sarah non doveva essere solo uccisa - ha spiegato Nicodemo Gentile, l’avvocato degli Scazzi - ma doveva sparire ed essere annientata. Non doveva esistere più. Doveva diventare uno di quei tanti volti che fanno parte dell'esercito di scomparsi.» Chi rappresentava Avetrana avrebbe fatto meglio a cercare e catalogare in questi anni ogni articolo di stampa ed avrebbe dovuto registrare ogni intervento delle miriadi trasmissioni tv per far rendere il conto delle loro denigrazioni ai rispettivi responsabili, siano essi ignoranti giornalisti o che siano pseudo esperti improvvisati. Come non dar ragione all’altra parte politica di Avetrana: «Sono Cinzia Fronda, cittadina del paese di Avetrana e segretaria sezionale del Partito Democratico. Scrivo da cittadina di un paese devastato, maltrattato, violentato da tanto orrore. Ovviamente mi riferisco al caso Scazzi che da qualche giorno è tornato prepotentemente alla ribalta. Ho sentito diversi giornalisti che con una facilità pericolosa e poco professionale, secondo la mia opinione, continuano a denigrare Avetrana e i suoi abitanti facendoci passare per quelli omertosi, ignoranti e, perché no? Cittadini di serie C2! Sono veramente stanca di questo continuo maltrattamento mediatico, vorrei fare presente che la maggior parte dei cittadini di Avetrana sono persone normali, con una cultura normale, con una vita normale e che non mi sembra assolutamente giusto che si faccia di tutta l'erba un fascio. Con tutto il rispetto per gli abitanti di Brembate, che hanno anche amministratori di rispetto che ben si sono guardati dall'esporsi in maniera esagerata, non cedendo al fascino mediatico, vorrei far presente che lì la famiglia di Yara ha chiesto il silenzio stampa e allora tutti a parlarne bene mentre per il caso di Avetrana si continua a dare addosso agli abitanti perchè molti continuano ad amare intrattenersi con i giornalisti, anche quando sarebbe il caso di smettere di parlare a vanvera e lasciare che gli inquirenti facciano serenamente il loro lavoro. Basta violenze mediatiche, Avetrana non è il paese dei mostri, è un paese che ha voglia di riprendere a vivere normalmente e serenamente». Peccato che anche lei si è limitata a dire parole, parole, parole...»
Giustizia, d’ora in avanti i processi facciamoli solo in tv, commenta Antonello Caporale su “Il Fatto Quotidiano”. Quanto costa un processo? Ma soprattutto quanto vale un omicidio? Uno a caso. Per Yara Gambirasio la Procura di Bergamo quanti soldi ha speso per raggiungere la sua verità? Mille, diecimila, centomila, un milione di euro? Di più? E cosi fa sempre? Si impegna fino allo spasimo per giungere a una giusta condanna, foss’anche l’ultimo derelitto a chiedere giustizia? E sempre a proposito di soldi: la famiglia accusata dell’efferato omicidio di Avetrana, per non parlare delle altre, a quali fondi occulti attinge per avvalersi di quella tribù di avvocati, criminologi, psichiatri, analisti tutti di eccellente e prezioso curriculum? Ma soprattutto: la severità dell’indagine, lo scrupolo col quale accusa e difesa avanzano indizi o li neutralizzano è amore per la verità o (anche) frutto dell’aspettativa del tempo di esposizione in televisione e dunque del fatturato che ne deriverà dalla notorietà acquisita? Voglio spiegarmi meglio: tutti questi bei processoni che producono faldoni zeppi di documenti e di consulenze, tonnellate di prove e controprove, sono il risultato di una sincera sete di giustizia o solo, e purtroppo, il magico saldo del bisogno ossessivo di tv? Perché, nel caso fosse vera la seconda ipotesi, varrebbe la pena saltare il tribunale e infilare l’imputato, i suoi accusatori e i suoi difensori, dopo averli fatti passare in sala trucco, direttamente in uno studio televisivo.
E' iniziato il 3 luglio 2015 il processo per l'omicidio di Yara Gambirasio. E subito si è attivato il circo mediatico, con dispiegamento di telecamere ed analisi chiamati a interpretare la psico-somatica dell'imputato. Sarebbe invece il caso di spegnere le luci dei riflettori: per una difesa garantista di chi è accusato e per il rispetto della povera vittima, scrive Gianluca Veneziani su “L’Intraprendente”. Eccolo là, l’imputato, arrivare abbronzatissimo, in jeans, maglietta e scarpe da ginnastica, nel tribunale di Bergamo per l’inizio del processo a suo carico. Ed eccolo là, il circo mediatico che si riattizza, pronto a scrutare ogni minimo gesto dell’uomo accusato dell’omicidio di Yara Gambirasio, a cogliere ogni suo segno di cedimento, a interpretare il “suo muovere continuamente i piedi” – scrivono le agenzie – “come un sintomo di nervosismo”. Ed eccole lì, le troupe televisive, munite di arnesi in grado di riprendere senza comprendere, e i curiosi assembrarsi davanti all’ingresso del Palazzo di giustizia e addirittura accamparsi dal giorno prima pur di assistere all’Evento, immortalare l’Evento, essere spettatori e al contempo protagonisti di quell’Evento. A prescindere da quale sarà l’esito della vicenda giudiziaria, l’esordio non è stato affatto buono, perché ha dato il segnale che il processo a Massimo Bossetti possa trasformarsi nella versione aggiornata, 2.0, del caso Avetrana. Con una spettacolarizzazione mediatica fuori luogo (magari con qualche tablet e smartphone in più rispetto ad alcuni anni fa), con la stessa attenzione morbosa, quasi voyeuristica, su dettagli insignificanti, con l’elevazione preventiva dei protagonisti del fattaccio di cronaca a icone del Male o viceversa del Bene (spietati carnefici o, al contrario, vittime della giustizia, perché così vuole la semplificazione giornalistica), e quindi con la riduzione di quello che è stato un dramma familiare abnorme (la morte di una ragazza di tredici anni) a pretesto di un ennesimo fenomeno di costume e malcostume italico. Sarebbe bene piuttosto che il processo rientrasse nei ranghi e nei canoni che più gli sono propri, cioè quelli giudiziari. E sarebbe opportuno in primo luogo per Bossetti, la cui immagine rischia di essere cannibalizzata da tv e giornali e associata, in modo indelebile, a quella del “mostro”. In un sistema garantista la difesa dell’imputato e la sua reputazione come innocente fino a sentenza definitiva dovrebbero passare anche dalla tutela della sua privacy e dalla sua non eccessiva esposizione mediatica. Ci vorrebbe pudore anche nel (non) mostrare il volto del (presunto) colpevole, una sobrietà nel non utilizzare il suo corpo come cavia sulla quale psicologi d’accatto possano esercitare le loro fasulle velleità ermeneutiche (vedi il tic della gamba). Ma il ridimensionamento del processo a un ambito meno prossimo all’avanspettacolo sarebbe soprattutto una forma di rispetto nei confronti della piccola vittima e della sua memoria. Sarebbe doloroso vedere Yara costretta alla sorte mediatica di Sarah Scazzi, ridotta a oggetto di assurdi sondaggi e ricostruzioni post-mortem (“Ma a chi stava più antipatica, secondo voi, a zio Michè o alla cugina Sabrina? Votate!”), a pedina di un gioco macabro funzionale allo share nonché a destinataria simbolica di indecenti pellegrinaggi dell’orrore. Ricordare così il nome di una persona significa offenderne la memoria, visitare così la sua tomba significa profanare il luogo in cui riposa. Lasciamo dunque che la giustizia faccia il suo corso, senza processi preventivi e complementari fuori dall’aula e nei salotti tv, e lasciamo che i morti seppelliscano i morti, custodendo le spoglie della piccola Yara, affinché il suo nome non venga ulteriormente violato dal chiacchiericcio e dai “si dice”. Prendiamo esempio dai genitori della ragazzina di Brembate di Sopra, che hanno deciso di non figurare in aula, di non farsi attirare dalle luci dei riflettori, imprigionati nel ruolo di “vittime da compiangere” che impone loro il copione, ma hanno preferito stare in disparte, preservare in silenzio il loro dolore, senza renderlo osceno, volgare, inautentico, magari con un pianto studiato durante un talk show. E prendiamo le distanze dalle parole dello stesso Bossetti, che ha chiesto a gran voce che le telecamere fossero presenti in aula, affinché «tutti possano vedere, in quanto non ho niente da temere o da nascondere», volendo diventare forse il protagonista dell’ennesima saga mediatico-giudiziaria all’italiana, in onda sui migliori schermi. Il Male si compie al buio, in una periferia abbandonata, lontani da occhi indiscreti. Ma poi la celebrazione del rito che dovrebbe giudicarlo e, in caso, punirlo, la si vuole necessariamente a porte aperte, a favore di telecamera, alla presenza del pubblico in aula e degli spettatori a casa. C’è una contraddizione palese: il marcio si occulta ma il suo lavacro (che può essere gogna o catarsi, comunque espiazione) deve essere guardato da tutti, senza vergogna. Quasi che la visibilità del giudizio e della pena possa ridurre la potenza del Male, alleviare i nostri animi e assolverci per non essere stati presenti e non aver voluto vedere, quando c’era da assistere e da non voltare lo sguardo altrove.
Intanto Avetrana non è più scenario di un efferato delitto, ma set del film “Belli di papà”, scrive “Manduria Oggi”. La comunità avetranese ha “adottato” la troupe, composta da circa 70 unità fra attori ed equipe tecnica, del film diretto da Guido Chiesa, che ha come protagonista uno dei pilastri del cinema e del teatro italiano contemporaneo: Diego Abatantuono. Non più scenario di un efferato delitto, trasformato in una sorta di romanzo noir ancora alla ricerca dell’ultimo capitolo che sveli trame e colpevoli e al centro di una smisurata attenzione mediatica. Da una decina di giorni, Avetrana è il set del film “Belli di papà”, che si propone come uno dei “cine panettoni” del prossimo Natale. Uno strumento efficace per offrire al grande pubblico un volto differente di questo centro. La comunità avetranese ha “adottato” la troupe, composta da circa 70 unità fra attori ed equipe tecnica, del film diretto da Guido Chiesa, che ha come protagonista uno dei pilastri del cinema e del teatro italiano contemporaneo: Diego Abatantuono. Con lui recitano anche Francesco Facchinetti (al debutto in un film), Matilde Gioli, Andrea Pisani, Francesco Di Raimondo e alcuni attori pugliesi (fra questi, Uccio De Santis e Umberto Sardella). Dopo alcune scene girate a Roma e a Taranto, attori e cineoperatori si sono stabiliti ad Avetrana. Hanno “invaso” alberghi, ristoranti e bed & breakfast, che registrano il “tutto esaurito”, soprattutto nei week end, quando i protagonisti del film vengono raggiunti da familiari o amici. Non solo un ritorno di immagine notevole dal grande schermo per questa cittadina, che si sforza di cancellare un neo che ne offusca qualità e pregi, ma anche un riscontro economico immediato più venale. «Siamo felicissimi e orgogliosi per questa scelta» sono le parole di Emanuele Micelli, operatore culturale del posto, che si è offerto di svolgere gratuitamente il ruolo di “location manager”, collaborando, gomito a gomito, con la troupe per l’organizzazione logistica. «I ritorni sono sotto gli occhi di tutti: non solo quelli diretti e immediati per le attività ricettive (che, a mio avviso, non si discostano dagli introiti prodotti da un paio di stagioni estive), ma soprattutto quelli di immagine. Tutta l’Italia potrà ammirare le bellezze di una cittadina purtroppo assurta alla notorietà per un delitto». Diverse scene sono già state girate nel centro storico della cittadina dell’estrema area orientale della provincia. Presto le telecamere si sposteranno all’interno dello storico palazzo Pignatelli e di un capannone della zona industriale. Anche Torre Colimena ha conquistato gli scenografi di “Belli di papà”: sono state effettuate tre giornate di registrazione nel ristorante “da Caterina” e, presto, una scena sarà ambientata nella pescheria “Mancini”.
Però Guido Chiesa bacchetta i giornalisti: “Giornalismo etico modello AVETRANA”...mi domando, perché (quasi) nessuna testata - nazionale e peggio ancora locale - cita il nome di AVETRANA. Giriamo “Belli di papà” per 1 settimana a Roma, 1 a Taranto (città di sorprendente fascino), e 4 settimane, dico Q-U-A-T-T-R-O a AVETRANA, paese in provincia di Taranto al confine con quella di Lecce, città semplice e ospitale, con una delle più belle spiagge d’Italia. La gente ci ha accolto con una disponibilità straordinaria. Ora, mi domando, perché (quasi) nessuna testata – nazionale e peggio ancora locale – cita il nome di AVETRANA, preferendo menzionare le pur belle e ospitali San Michele Marzano (dove faremo 3 giorni di riprese) e Manduria (1 giorno)? Forse perchè non vogliono insudiciare le loro testate con il nome di un paese in cui è accaduto un tragico fatto di cronaca? Ma allora smettiamo di parlare di Padova per via di Michele Profeta o Roma per la banda della Magliana. E basta parlare di Firenze come città di Dante, dei Medici o del Battistero, perché c’è stato Pacciani e la città è marchiata a vita. E via dalle mappe Novi Ligure, Cogne, Erba, ecc. Cari amici giornalisti, io vi adoro e rispetto, ma vi prego, non offendete con le vostre “dimenticanze” tanta brava gente che qui vive, lavora ed è giustamente orgogliosa del suo paese. Ve l’abbiamo detto e ripetuto, non potete far finta di non saperlo: noi giriamo a AVETRANA e ne siamo felici. Felici di far sì che per almeno un po’ – speriamo per tanto – questo paese sia ricordato per qualcosa di positivo, speriamo divertente. Con affetto. Post pubblicato sulla pagina di Fb di Guido Chiesa, regista, e sul suo blog, poi ripreso da “La voce di Maruggio”.
Come nessuno parla dei natali e del "tesoretto di Avetrana". Tesoretto che i locali sognano di trovare con la cosiddetta "Occhiatura", ossia non come se ne dà il significato ordinario come il rito contro il malocchio o i buchi del formaggio, ma un divenir in sogno di un buco (occhiatura), indicato da un parente morto, in cui scavare e trovare un piccolo anfratto che porta ad una antica tomba o la bocca di una grotta dove vi è custodito un antico tesoro. O il lascito nascosto dai "Scianari" o dai "Masciari" o addirittura dallo "Zù Lauru". Le Gatte masciare. Queste streghe si trovano a Bari e possono trasformarsi in gatti e girovagare per la città di notte, operando i loro malefici. Al tramonto, si dice, questa donne si ungono di olio masciaro, che permette loro di potersi gettare nel vuoto, dai tetti delle case, e volare. Ecco dunque che ritorna l'unguento come uno degli strumenti magici delle streghe. Il termine masciaro sembra derivi dal latino megaera, da cui appunto proviene il nostro megera, che significa strega, maga. C'è un piccolo collegamento fra le gatte masciare pugliesi e le cogas sarde: se un uomo era convinto che un gatto fosse in realtà una strega, poteva recitare una formula magica e il gatto si sarebbe immediatamente trasformato in una donna nuda. Erano inoltre chiamati masciari coloro che si erano venduti al demonio e potevano così entrare in possesso di poteri straordinari. Janare. Le janare sonno terribili streghe della Campania – nei pressi di Caserta esiste il monte Ianaro, che da loro ha preso il nome – brutte e con lunghe zanne di cinghiale. Vestono con un mantello nero macchiato di sangue. Poteva penetrare nelle fessure delle finestre diventando vento e si dice che rubasse asini e cavalli nelle stalle, riportandoli all'alba stremati. Il suo nome probabilmente deriva da Dianare, ossia le sacerdotesse di Diana. Laùru. Da piccolo ricordo che i vecchi mi raccontavano del "lauro". Nei racconti è un piccolo gnomo o folletto dispettoso con un cappello in testa. Si dice che Lu Laùru appare di notte, e seduto sulla pancia fa svegliare il malcapitato che dorme a causa della difficoltà nel respirare e togliendogli la forza di qualsiasi movimento. Se chi svegliandosi riesce a sottrargli il cappello, lui pur di riaverlo è pronto ad esaudire un desiderio. Si raccontava di questo folletto che di notte andava ad intrecciare la coda dei cavalli o i crini e guai a scioglierli: l'animale sarebbe morto. Nella realtà si tratta di ben 1915 monete, venute alla luce in contrada “Demani” nel 1936, scrive “Manduria Oggi”. Ben 1915 monete in argento della Repubblica Romana e, nello specifico, 1.669 denari e 241 quinari, coniate fra il 211-195 e il 38 avanti Cristo. E’ una parte del “tesoretto” di Avetrana, venuto alla luce nel 1936, in contrada “Lupara”, in una zona denominata “Demani”. Si narra, infatti, che attraverso questa straordinaria scoperta archeologica, in un orciolo di terracotta, furono recuperate quasi quattromila monete romane, ben conservate e non ancora poste in commercio. Quest’ultimo particolare lascia presagire la probabile esistenza in zona di un vero e proprio cono romano. La riproduzione fedele di queste monete, oggi custodite nel Museo di Taranto, sarà consegnata alla città di Avetrana dal Soprintendente ai Beni Culturali della Puglia, Luigi La Rocca, nel corso di una cerimonia che si terrà domani sera 9 giugno 2015, alle 18,30, nell’aula delle assemblee della Banca di Credito Cooperativo di Avetrana. Si tratta di uno dei ritrovamenti più significativi in materia di monetazione archeologica. Si narra che per il “tesoretto di Avetrana” al rinvenimento è seguito l’occultamento e, in un secondo tempo, il tentativo di alienazione. Questi tentativi il più delle volte si concludono con l’intervento delle forze dell’ordine e il sequestro del materiale. Anche il “tesoretto di Avetrana” non è sfuggito a questa infausta “prassi”. Infatti coloro che lo rinvennero cercarono di venderlo al Museo Provinciale di Lecce, ma la notizia venne diffusa, qualche tempo dopo, sulla stampa e, pertanto, la Guardia di Finanza si attivò per recuperare il gruzzolo. Fu poi Ciro Drago, all’epoca direttore del Reale Museo Nazionale di Taranto, a condurre in porto il recupero come si evince anche dalla una lettera del 26 agosto 1936, conservata nell’archivio storico della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Puglia. Il materiale venne sequestrato e poi confiscato ed infine assegnato al Museo di Taranto dove tuttora si trova. Il “tesoretto”, seppur in copia, ritornerà a partire da domani ad Avetrana, su iniziativa dell’Amministrazione Comunale e dell’associazione turistico-culturale “Terra della Vetrana”, grazie alla sponsorizzazione garantita dalla Banca di Credito Cooperativo di Avetrana e sotto la supervisione della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Puglia. «Potremo conoscere e apprezzare in tutta la sua bellezza il “tesoretto”» annuncia l’assessore al Marketing Territoriale, Enzo Tarantino. «Ovviamente si tratterà di una fedele riproduzione, mentre ai presenti verrà donato il catalogo illustrativo delle monete esposte, nella consapevolezza che esso possa costituire fonte di arricchimento e l’avvio di un percorso virtuoso che incrementi sempre più l’apporto di materiali provenienti dal passato, fosse anche solo in riproduzione, dimenticati dalla memoria comune, al fine di produrre alimento alla coscienza di quel sano spirito di appartenenza ad una comunità ed alla sua storia». Una prima parte del “tesoretto di Avetrana” è ritornata nel centro ionico. Si tratta delle prime cinquanta monete su un totale di 1915 della Repubblica Romana (211-38 a.C.), ritrovate nel maggio del 1936 in una campagna di Avetrana. Sono state riprodotte, in argento come le originali, dal restauratore, avetranese anch’egli, Cosimo De Rinaldis. Potranno essere inizialmente ammirare all’interno della Banca di Credito Cooperativo di Avetrana, che ha sostenuto finanziariamente l’iniziativa, per poi entrare a far parte della mostra archeologica già esistente, arricchendola, nella casamatta del torrione. «Questa operazione si inquadra nell’ottica della diversificazione dell’offerta turistica della nostra cittadina» hanno rimarcato sia il sindaco Mario De Marco, sia l’assessore al Marketing Territoriale, Enzo Tarantino. «Non solo mare e gastronomia, ma anche le testimonianze della nostra storia. Con la riproduzione delle prime cinquanta monete di quel “tesoretto”, intendiamo riappropriarci di una parte delle radici culturali della nostra cittadina, un patrimonio che vogliamo far scoprire anche alle nuove generazioni». La riproduzione eseguita dal tecnico restauratore della Soprintendenza, Cosimo De Rinaldis. La professionalità e il legame forte per la sua terra alla base della riproduzione in argento delle prime cinquanta monete del “tesoretto di Avetrana”. Tecnico restauratore della Soprintendenza, Cosimo De Rinaldis, avetranese, ha le “mani d’oro”. Nella sua ormai lunga carriera ha recuperato e restituito al loro originario splendore migliaia di preziosissimi reperti archeologici, venuti alla luce in diverse regioni del sud. Proprio per questa sua straordinaria abilità, fu inserito, ad esempio, nella squadra dei quattro restauratori cui fu affidato, qualche lustro fa, il delicato compito di ridar lustro agli “Ori di Taranto”. E’ stato lui a far da tramite fra Comune di Avetrana e associazione “Terra della Vetrana” con la Soprintendenza per i Beni Archeologici affinchè questo sogno potesse realizzarsi. «Ho impiegato pochi giorni per riprodurre le prime cinquanta monete» ci racconta Cosimo De Rinaldis, che poi ci spiega le tecniche e i materiali utilizzati. «Per i calchi, abbiamo scelto materiali che non potessero danneggiare in alcun modo le monete. Il calco è stato realizzato con gesso di fusione, mentre il metodo che ho seguito è stato quello denominato “a cera persa”». Per De Rinaldis la “sfida” continua. E’ stato proprio il Soprintendente La Rocca ad annunciare la prossimo operazione: la riproduzione delle due “pintadere” ritrovate nella grotta “Dell’Erba” di Avetrana. Si tratta degli antesignani degli attuali clichè, che venivano utilizzate come stampo o timbro per decorare il corpo, il pane o i tessuti.
Non aspettatevi, però, tutela della comunità da parte degli amministratori locali.
A Specchia, come ad Avetrana, si aspettavano i giornalisti con le palle, ma son arrivati solo…i coglioni.
Intervista, critiche a Chi l'ha visto. Iniziato «turismo del macabro». La rabbia del parenti: «È una vergogna, mancano solo le bancarelle per le noccioline», scrive il 14 Settembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". Critiche su Chi l’ha visto che ieri sera ha mandato in onda un’intervista ai genitori del ragazzo, presunto assassino della fidanzata, Noemi Durini, nel corso della quale è l’inviata a dare loro la notizia della confessione del figlio. A puntare l’indice contro la scelta sono i sindacati dei giornalisti; critiche anche dall’Aiart, l’associazione cattolica che si occupa di tv. «La decisione dell’inviata della trasmissione Rai Chi l’ha visto di comunicare ai genitori del presunto assassino di Noemi Durini la notizia della morte della ragazza e della confessione del ragazzo e la successiva messa in onda di immagini che ne mostravano lo strazio e la disperazione rappresentano una pagina di pessimo giornalismo e un tentativo crudele di spettacolarizzare una tragedia», affermano Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, segretario generale e presidente della Fnsi, e il segretario dell’Usigrai, Vittorio Di Trapani, augurandosi che la Rai e la conduttrice del programma, Federica Sciarelli, "con la sensibilità e la professionalità che la contraddistinguono, trovino il coraggio di chiedere scusa alle persone coinvolte e ai telespettatori». Parla di «brutta pagina della televisione» Massimiliano Padula, presidente dell’Aiart, che in un intervento per l'agenzia stampa della Cei sottolinea che si è scritta «un’altra pagina della storia della televisione annientando, non soltanto ogni regola deontologica (minori, famiglie, fascia protetta, segreto istruttorio, questi sconosciuti), ma dando un calcio in faccia a chi, suo malgrado, si ritrovava davanti al televisore, in un mercoledì sera qualunque, poco dopo l’orario di cena, magari insieme ai propri figli». Per Padula «non c'è diritto di cronaca che tenga di fronte alla tracotanza di una scelta irresponsabile che dimostra come l’informazione possa precipitare in baratri così profondi e irrespirabili». Nel corso dell’intervista, realizzata in un momento in cui ancora non c'era stata la svolta nelle indagini, comunicata alla giornalista con una notizia sul telefonino proprio in quel momento, i genitori del ragazzo presunto assassino (ma che ancora non era tale) non fanno altro che parlare male della ragazza attribuendo solo a lei ogni responsabilità del rapporto difficile tra i due giovani. Il padre, che sostanzialmente è l'unico a rispondere, anche a nome della moglie, dice anche come la presenza della giovane non fosse gradita nella loro casa. Quando ricevono la notizia mostrano prima contentezza per il ritrovamento, poi stupore alla notizia che è stata trovata morta, infine disperazione nel sapere che il figlio ha confessato. Una reazione che va vista, però, anche alla luce delle affermazioni dello stesso padre di oggi, secondo le quali era stato informato dell’omicidio dal figlio già martedì sera.
«Inizia il rito del turismo del macabro». Non ha usato mezze misure il filosofo Mario Carparelli per definire sui social l’enorme afflusso di curiosi che ieri pomeriggio si sono recati in via San Giuseppe alla notizia del ritrovamento del cadavere di Noemi Durini. «Leuca è già invasa dai turisti del macabro - ha scritto il Presidente del Presidio del libro del Capo di Leuca – abbiate pietà e rispetto». Una folla enorme, un via vai sostenuto di persone che si informavano su quanto accaduto e che commentavano frammenti di notizie che trapelavano sia attraverso i social che sui mass media. «Manca solo che mettano le bancarelle per le noccioline - ha commentato infastidito uno zio di Noemi che si è recato sul posto insieme ad alcuni familiari - e qui possono organizzare una fiera. Vergogna – ha aggiunto prima di invitare moglie e figlio a lasciare la piccola frazione di Castrignano del Capo – la piccola Noemi non ce la ridarà indietro nessuno». La campagna in cui è stato ritrovato il corpo della vittima si trova quasi ai margini (occorre seguire un tratto di strada sterrata che conduce all’interno) di una via di comunicazione molto trafficata in questo periodo, che collega Castrignano alla marina di Santa Maria di Leuca e sulla quale, poco distante, si innestano gli svincoli della statale 274 per Gallipoli. Raggiungere il posto è stato quindi facile per chi ha voluto osservare da vicino l’evolversi degli eventi (di cui riferiamo a parte) tanto che il cavalcavia della statale è stato trasformato in una sorta di balcone di osservazione privilegiato. Gran da fare anche per i vigili urbani di Castrignano, che hanno dovuto smistare il traffico verso Leuca e impedire l’avvicinamento dei veicoli non autorizzati, mentre un doppio cordone con nastri di sbarramento era stato disposto da carabinieri e protezione civile alcune centinaia di metri prima del sito in cui si trovava il cadavere. Lo stesso medico legale Roberto Vaglio ha avuto non poche difficoltà ad attraversare la folla con la sua auto prima di raggiungere gli investigatori.
La giustizia complice dell'assassino, scrive Manila Alfano, Venerdì 15/09/2017, su "Il Giornale". Il dopo fa sempre impressione. E rabbia. Donne che si scoprono essere state vittime due volte; del compagno violento prima e della giustizia, che troppo spesso non ce la fa ad arrivare in tempo. Denunce che cadono letteralmente nel vuoto. Donne offese due volte perché quando parlano e trovano il coraggio di raccontare, di stracciare il velo del pudore e dell'umiliazione nessuno le ascolta davvero. Secondo l'Istat solo il 12 per cento delle vittime denuncia il partner, ma di questa quota arriva a condanna una percentuale dello zero virgola. Perché non succede niente? Dove sono i pm, i giudici, qui che il tempo è tutto, che spesso fa la differenza tra la vita e la morte. Fascicoli accartocciati in uno straziante imbuto in cui scorrono le storie di sangue che ogni giorno riempiono l'Italia. Un imbuto regolato dalla magistratura. Troppe volte le denunce restano in un cassetto, troppe volte esaminate con superficialità, prese poco sul serio, troppe volte non si dà il giusto peso al grido di queste donne. Troppe volte i pubblici ministeri e i giudici trattano con burocratica distanza questioni che sono sangue e sofferenza. Nessuno certo ha la bacchetta magica, ma spesso la magistratura non è al passo con l'evolversi della situazione, e troppe volte le violenze sfociano in morti annunciate e che quindi si potevano evitare. E di chi è la colpa? Noemi aveva solo sedici anni e una mamma spaventata che era corsa a denunciare. Ma a cosa è servito? Giordana aveva vent'anni e una bambina piccola di quattro anni. Lei il passo lo aveva fatto; il coraggio lo aveva anche trovato. Era andata dai carabinieri per stanare l'uomo che la picchiava e la spaventava a morte. Uccisa dall'ex il giorno dell'udienza per stalking. Troppo tardi anche per Marianna, lei che aveva implorato e bussato alle porte di tutti collezionando dodici denunce. «Con questo coltello ti ucciderò». Lo aveva detto ai pm che sono stati condannati perché un giorno lui poi l'ha fatto davvero. In passato il problema era il silenzio, le vittime che non parlavano, preferivano subire e non dire. Nel 2010 i dati sulle violenze erano ancora nebulosissimi proprio per questa cappa che aleggiava sulla privacy delle case. Chi soffriva lo faceva in silenzio. Le vittime erano passate da 101 nel 2006 a 127 nel 2010 e la maggior parte delle donne erano rimaste sempre a tacere. Ancora oggi, 8 volte su 10 la donna non chiede aiuto. Ma se lo avessero fatto si sarebbero salvate? Purtroppo non è sempre così. Ora alcune cose stanno cambiando. Ma il problema spesso è anche dove si fanno le denunce perché l'Italia è a macchia di leopardo. C'è una legge del 2001 che permette l'allontanamento del partner violento. Ci sono zone - più spesso al nord - in cui si riesce ad ottenerlo dopo due giorni e altre in cui occorrono tre mesi. Un tempo assurdo. Giorni e notti dove può accadere di tutto. Dove lui ha tutto il tempo di mettere in pratica il suo piano omicida. E di farlo con calma.
Noemi, le richieste di aiuto che non sappiamo più ascoltare, scrive Rosario Tornesello su "Il Quotidiano di Puglia". Se ne è andato anche il sorriso. Il suo, per primo. Aveva scritto su Facebook che non glielo avrebbe portato via nessuno, mai. Sbagliava. Noemi aveva l’età in cui si credono vere alcune cose, false altre, errando spesso in entrambi i sensi: se ne sognano di immortali, come l’amore; se ne scoprono di laceranti, inattese e autentiche, come il dolore. Lei le ha vissute tutte, e velocemente. Non è bastato a proteggerla. L’adolescenza ha ritmi accelerati, fasi convulse, scarti improvvisi. Troppo per la mente umana degli altri, gli adulti, a volte lenta, spesso distratta, per poter valutare, capire, agire. Se ne è andata col suo sorriso. L’assassino - fidanzato no, risparmiamocelo, ché la parola rimanda ad altro e lui non era quest’altro - gliel’ha strappato a colpi di pietra, seppellendolo in campagna. «Ero esasperato», ha detto confessando l’orrore e ammettendo il delitto, come se le cose fossero allineate in sequenza logica. «Ero esasperato, l’ho uccisa». Non è questo l’epilogo scritto? Non si fa così nell’era certificata del femminicidio? In questa sciagurata stagione, infinita e perciò fuori dal tempo, di cui prima o poi capiremo le cause per trovare i rimedi che non siano nella spirale necessaria e inutile della pena e del carcere, non funziona così? «Ero esasperato». L’ha uccisa. Cos’altro resta? Qualcuno dirà che la forma in fondo è sostanza, e che perciò la cornice stretta e angusta, per forza di cose alienante, di un paesino del profondo sud sia il contesto in cui ritrovare - volendo - le chiavi di lettura di un delitto, l’ennesimo, seguendo le figure classiche della tragedia: l’amore, la gelosia, le famiglie contro, l’omertà, il nulla che aleggia fino al dramma finale. Morte e dolore, sangue e lacrime, tutto assieme. Ma buona parte di questa riflessione si porta appresso il dubbio che no, stavolta forse non c’entra. A partire dal sud, non così profondo, e dal paese, non così depresso. E quanto alla gelosia, da qualsiasi lato brandita, difficile inquadrarla come sentimento quando latitano equilibrio e senso di responsabilità. Qui sono mancati l’uno e l’altro. Ed è mancata, soprattutto, una generale capacità di ascolto. Disperati sono i casi umani, non i luoghi. Ci sono codici e canali comunicativi che sembrano ormai aver perso il ruolo salvifico dell’allarme. Evidente, concreto, palpabile. Il frastuono che rende possibile tutto e il contrario di tutto nell’epoca della “post-verità” dilagante e del “fake” imperante, dentro e fuori la Rete, annacqua gli elementi con cui il pericolo si fa presente in quanto fatto reale e visibile. La madre aveva denunciato in caserma le percosse subite da Noemi quattro mesi fa, un giorno che l’aveva vista rientrare piena di lividi e di lacrime. Non basta? La stessa ragazza aveva compilato un post, l’ultimo, sul suo profilo Facebook, il 23 agosto scorso. Ore 13.30, immagine eloquente: una donna picchiata e oltraggiata, una mano d’uomo a tapparle la bocca, sul polso un tatuaggio: Love? “Non è amore se ti fa male; non è amore se ti controlla; non è amore se ti fa paura di essere ciò che sei. Non è amore, se ti picchia; non è amore se ti umilia”. Neanche questo è bastato. E in paese tutti, o quasi, sapevano dei contrasti, delle accuse reciproche e dei tormenti. Tra le foto che abbiamo visto e ancora vedremo, sui giornali e in internet, ce n’è una di Noemi che colpisce per la sua radiosità: sguardo fiero, sorriso oltre il rossetto, sulla mano sinistra alcune lettere scritte a penna, una per ogni dito. Se ne scorgono quattro, la quinta si intuisce: “Happy”. Ma è durato poco. Così la tragedia si compie: non abbiamo saputo ascoltare le richieste di aiuto. Non siamo stati in grado di interpretare l’allarme, leggere l’emergenza, intuire il dramma. Non sono bastati la denuncia formale e il messaggio multimediale, le voci di piazza e i trattamenti sanitari. Il silenzio e l’omertà qui davvero c’entrano poco, anzi nulla. È sud, ma non così profondo; non così depresso. Tanto da poter, persino, non essere sud. Perché questo omicidio non è più disgrazia locale ma sciagura universale replicabile ovunque, nella nostra indifferenza, più volte testata e brevettata, qui e altrove. Eccoli i risultati. Noemi è sgusciata fuori dalla porta di casa nel buio della notte, poco prima che sorgesse il sole, il 3 settembre. Incontrando il suo assassino (fidanzato no, davvero no) è scivolata fuori dalla propria vita, ma non dalla nostra. Ritroveremo il suo sorriso solo quando ritroveremo noi stessi.
Noemi, oggi l'interrogatorio del 17enne sotto accusa per omicidio premeditato. Il ragazzo che ha confessato di aver ucciso la sedicenne di Specchia scomparsa il 3 settembre scorso e fatto ritrovare il corpo, sarà sentito per la convalida del fermo nella località protetta dove è ospitato dopo l'arresto, scrive Chiara Spagnolo il 16 settembre 2017 su "La Repubblica". L'omicidio di Noemi Durini - la sedicenne scomparsa da Specchia il 3 settembre - è stato premeditato dal fidanzato che non sopportava l'idea che lei potesse lasciarlo. Lo scrive la Procura dei minori di Lecce nel decreto di fermo con cui il 13 settembre ha imposto la custodia cautelare al diciassettenne di Alessano, che ha confessato il delitto e consentito il ritrovamento del corpo della ragazza, sepolta otto un cumulo di pietre in una campagna a pochi chilometri da Santa Maria di Leuca. Omicidio aggravato dalla premeditazione, nonché dai futili motivi e dalla crudeltà è l'accusa ipotizzata allo stato, anche sulla scorta della testimonianza di un amico, al quale il ragazzo avrebbe manifestato l'intenzione di uccidersi o di uccidere la compagna. Gli inquirenti, dunque, non credono alla versione fornita dal giovane, secondo il quale il delitto sarebbe scaturito d'impeto nel tentativo di fermare Noemi che, all'alba di quel 3 settembre, era uscita di casa armata di un coltello per andare a uccidere i genitori di lui. Così come, al momento, non ha riscontro l'accusa lanciata dal padre di Noemi, Umberto Durini, contro il papà del ragazzo: "Protegge suo padre, ha fatto tutto lui". Tali parole sono state pronunciate davanti alle telecamere nella mattinata di venerdì 15 settembre, dopo un tentativo di irruzione di Umberto nell'abitazione di Montesardo (frazione di Alessano) in cui vive la famiglia del 17enne. La tensione è salita alle stelle e per riportare la calma è stato necessario l'intervento dei carabinieri.
Umberto si è sfogato duramente: "Il ragazzo era stato cacciato di casa, dormiva nei casolari, io l'ho accolto da me, gli ho comprato i vestiti, mia figlia l'amava e per questo sono andato da suo padre e mi hanno aggredito e chiamato delinquente". La sua teoria - che vedrebbe l'altro padre in un ruolo attivo nell'omicidio - al momento non ha alcun riscontro investigativo. "Interrogheremo il papà di Noemi - dicono dal palazzo di giustizia di Lecce - se ha notizie circostanziate da fornire le ascolteremo". Intanto sul fronte investigativo si lavora nel tentativo di capire quale sia stata l'arma del delitto, considerato che la tac effettuata sul cadavere dal medico legale Roberto Vaglio ha mostrato l'assenza di fratture sul cranio e dunque escluso che la morte della sedicenne sia avvenuta a causa dei colpi di pietra. Possibile che l'arma utilizzata sia un coltello, così come ha raccontato il ragazzo, che ne attribuisce la proprietà a Noemi. I dubbi sul punto potrebbero essere sciolti nell'interrogatorio del diciassettenne che comparirà davanti alla gip del Tribunale dei minori di Lecce, Addolorata Colluto alla presenza della pm Anna Carbonara e degli avvocati difensori Luigi Rella (lo stesso che difese Cosima Serrano, la zia di Sarah Scazzi condannata all'ergastolo insieme alla figlia Sabrina Misseri) e Paolo Pepe. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando è a Lecce per partecipare alle Giornate del Lavoro della Cgil. Non si esclude che il ministro possa incontrare i vertici degli uffici giudiziari di Lecce, dopo l'avvio di un'ispezione sul caso Noemi. L'obiettivo delle verifiche è capire se provvedimenti più tempestivi da parte del Tribunale dei minori, a cui la mamma della sedicenne aveva chiesto l'allontanamento del fidanzato violento, avrebbero potuto salvare la ragazza. I primi documenti sarebbero già stati acquisiti dagli ispettori negli uffici giudiziari salentini. "Abbiamo ritenuto opportuno intervenire perché a una prima valutazione sono emerse delle condotte nell'attività dei magistrati che possono far supporre delle abnormità - ha detto il ministro -. Gli atti sono stati acquisiti da poco, non ci sono ancora novità". La verifica riguarderebbe la cosiddetta "abnormità funzionale", ovvero ipotetici comportamenti dei magistrati, che potrebbero aver determinato una stasi nel procedimento in atto, che riguardava la richiesta di allontanamento del fidanzato manesco. Allo stadio embrionale anche l'indagine del Csm, che martedì esaminerà il caso nella riunione del Comitato di Presidenza e deciderà se avviare un procedimento disciplinare.
Omicidio di Noemi Durini, il papà: «La colpa? È del padre del ragazzo». Le accuse del papà della 16enne davanti alla casa dell’assassino. La madre: dai servizi sociali solo promesse, scrive Andrea Pasqualetto il 15 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Maglietta nera, testa pelata, faccia scura e un incontenibile furore. Ieri mattina il padre di Noemi si è presentato così a casa dei genitori del ragazzo che ha confessato di aver ucciso sua figlia. Non sono state carezze: «Bastardo, vieni fuori!». E giù calci sul cancello, fortunatamente chiuso, peraltro ripreso dalle telecamere della trasmissione Quarto grado. Arriva un carabiniere che cerca di fermarlo: «Durini, stai calmo!». Umberto Durini decide di mollare la presa e, visibilmente alterato, prova a spiegare le ragioni di tanto odio: «Non potevano vedere mia figlia». Biascica, si dispera, racconta la sua versione dei fatti mentre guarda con ferocia la casa del presunto assassino: «Quella mattina mia figlia è uscita per chiarire. Subito dopo essere salita in macchina il ragazzo deve averla stordita con un pugno...». Secondo Durini il ragazzo l’avrebbe portarla a casa sua. «Il padre ha fatto tutto il resto, l’ha finita e buttato il cadavere. Io il ragazzo lo perdono, protegge suo padre ma non lo salverà». Parole pesanti come pietre. Una convinzione che non si capisce dove trovi fondamento, in quali prove se non in una sensazione radicata dentro se stesso, l’ennesima esplosione del grande odio maturato nell’ultimo anno fra queste due famiglie. Ma per gli inquirenti la verità, al momento, è un’altra: il fidanzato l’ha uccisa (una Tac eseguita ieri ha escluso che l’arma fosse una pietra) e il padre l’ha aiutato a nascondere il corpo sotto un cumulo di sassi. Durini ricorda quasi con comprensione quel «ragazzo pazzo. Il papà l’aveva cacciato e lui andava a dormire nelle case abbandonate. Noemi era commossa e mi diceva “aiutiamolo noi”. L’ho così ospitato per tre mesi a casa mia (è separato dalla moglie, ndr). Gli ho comprato sigarette, vestiti, medicine...». Ma la moglie, Imma, ha visto il pericolo in quel ragazzo e a maggio l’ha denunciato. «Dopo la denuncia sono venuto qui da loro, volevo parlare, volevo trovare un punto d’incontro — prosegue lui —. E loro mi hanno trattato da delinquente. “Non vogliamo drogati”, dicevano a me che non so nemmeno cosa sia la droga».
Imma lo sostiene: «Mia figlia era allegra, educata e rispettosa. È nata in una famiglia sana, ecco perché è morta. Se è morta è colpa di quell’uomo (intende il padre del ragazzo, ndr)...». Imma Rizzo è incredula di fronte ai genitori del diciassettenne che hanno usato parole di disprezzo per la figlia uccisa: «Con quale coraggio parlano ancora di Noemi?». Nel giorno in cui il ministro Orlando parla di «abnormità nell’attività dei magistrati», la madre di Noemi tira in ballo gli assistenti sociali: «Dal 19 luglio mi avevano promesso che sarebbero intervenuti per aiutarmi a fare un piano rieducativo per mia figlia... e invece non è successo. Vedevo che la situazione mi stava sfuggendo di mano, per questo mi sono rivolta a loro. Ma non volevo rinchiuderla in qualche istituto. Volevo soltanto che ci aiutassero». Nel frattempo Durini si calma e si allontana dall’odiata casa. Si affaccia la madre del ragazzo. Dice che il padre di Noemi ha sfasciato una macchina parcheggiata dall’altra parte dell’abitazione. Esce anche il padre e conferma. In effetti, dietro casa, c’è un’automobile con il lunotto in frantumi. Ma quella macchina non è loro, precisano i genitori del diciassettenne che oggi sarà interrogato dal gip dei minori. Pare sia del fratello di un vicino di casa, che vive Torino. Ma Durini, questo, non lo sapeva.
A «Studioaperto» del 15 settembre 2017 lo sfogo della donna nei confronti dei genitori del fidanzato-omicida intervistato da «Quarto Grado». A Studio Aperto, telegiornale di Italia1, è andata in onda un'intervista esclusiva, realizzata da «Quarto Grado», alla mamma di Noemi, la 16enne di Specchia, in Salento, che sarebbe stata uccisa dal fidanzato, come da lui stesso confessato. Nell’intervista prosegue la lotta a distanza tra le due famiglie, quella di lui e quella della vittima: «Queste persone hanno sempre calunniato mia figlia e gli inquirenti lo sanno».
Noemi, è scontro fra le due famiglie. La mamma della 16enne: sono tutti complici, lʼhanno minacciata. Il papà della vittima: "Ad ucciderla è stato il padre del ragazzo". La mamma del fermato: "Lei aveva comprato una pistola per ucciderci", scrive Tgcom il 15 settembre 2017. Non trova pace Noemi Durini. A 48 ore dalla svolta nelle indagini e dal ritrovamento del corpo nel Leccese, la sua famiglia accusa quella del fidanzato 17enne. A loro volta i genitori del reo confesso rispondono per le rime, accusando la vittima di aver addirittura comprato una pistola per ucciderli. La madre del fermato: "Noemi aveva la pistola"- Secondo la madre del presunto omicida, Noemi era una ragazza diabolica. Ai microfoni di Pomeriggio Cinque la donna ha raccontato di "averla vista con i miei occhi. E' stata espulsa dalla scuola perché aveva picchiato una ragazza". Affrontando la situazione psicologica del figlio, ha invece spiegato che lui "doveva fare la terapia, un po' la lasciava, un po' la riprendeva. Noemi? So che ha fatto la colletta per comprare una pistola e uccidere me, mio marito e mia figlia dodicenne. E' diabolica". La donna ha quindi definito "una persona pericolosa" il padre di Noemi. Le accuse del padre di Noemi - Davanti ai microfoni di Quarto grado era stato il padre di Noemi a dare il via alla battaglia a distanza. Umberto Durini si era presentato davanti all'abitazione di Alessano dove abitano i genitori del 17enne e ha accusato il padre del ragazzo. "Lui ha ucciso Noemi", ha attaccato. Il ragazzo "sta nascondendo suo padre, lo protegge, ma quello non si salverà, ha fatto tutto lui", ha sottolineato, sostenendo di voler perdonare il giovane per quello che ha fatto. La mamma di Noemi: "Hanno calunniato mia figlia, ci sono le minacce" - L'ultima, per ora, a prendere la parola è stata Imma Durini. Ai microfoni di Quarto Grado la donna ha difeso la figlia: "E' nata in una famiglia sana: mentre lei (riferito al padre del fermato, ndr) non la poteva vedere, perché suo figlio doveva diventare il secondo delinquente come lei". E ancora: "Hanno calunniato mia figlia, che invece voleva fare la crocerossina con quel ragazzo. Queste persone hanno sempre mandato calunnie nei confronti di mia figlia e gli inquirenti lo sanno: prenderanno i tabulati e ci saranno le minacce vocali, telefoniche, con messaggi di Whatsapp o altri messaggi normali". Un fiume in piena la donna in tv. "Noemi era sempre allegra, educata e rispettosa. Così la devono ricordare... come la ricordiamo noi, non la vedo più entrare in casa per colpa loro... la devono pagare tutti in questa famiglia, tutti! Sono tutti complici!" ha poi ribadito la mamma. "Gli assistenti sociali non sono intervenuti. Dal 19 luglio mi avevano promesso che sarebbero intervenuti per aiutarmi e fare un piano rieducativo per mia figlia... e invece non è successo", ha proseguito Imma Rizzo. "Perché - ha aggiunto la donna - vedendo la situazione con mia figlia che mi stava un po' sfuggendo, ho chiesto aiuto ai servizi sociali... ma non perché mia figlia dovesse essere rinchiusa, ma perché mia figlia doveva essere aiutata insieme alla mamma".
Noemi Durini, la rabbia della madre: “Su mia figlia solo calunnie”, scrive il 15 settembre 2017 "Diretta news". Continua a non darsi pace Imma Rizzo, la mamma di Noemi Durini, uccisa barbaramente dal fidanzato Lucio Marzo e trovata nelle campagne del Sud Salento due giorni fa. La donna più volte aveva denunciato le violenze perpetrate dal 17enne nei confronti della figlia. E’ stata proprio la donna disperata a ribadire questo aspetto appena si è diffusa la notizia della morte: “Lo sapevate, lo sapevate tutti che lui l’aveva ammazzata”, ha urlato. Proprio per questa ragione, il ministro della Giustizia Orlando ha avviato un’inchiesta sulla procura per i minorenni di Lecce. Gli ispettori dovranno accertare se realmente siano rimaste inevase le denuncia di Imma Rizzo. Intanto, il papà di Noemi è tornato ad accusare Biagio Marzo, padre di Lucio, sostenendo che a suo avviso sarebbe lui l’assassino della figlia. Imma Rizzo, in queste ore, ha voluto difendere la memoria della figlia barbaramente uccisa in un’intervista alla trasmissione televisiva Quarto Grado. Ha sottolineato la mamma di Noemi Durini: “Mia figlia è una ragazza solare, che parlava con tutti. Le piaceva avere amicizie con tutti, però queste persone cattive me l’hanno portata via”. La donna ha aggiunto: “Queste persone hanno sempre calunniato mia figlia e gli inquirenti lo sanno. Quando prenderanno i tabulati, emergeranno le minacce telefoniche, con messaggi Whatsapp e anche con messaggi normali”. Imma Rizzo poi guarda fisso la telecamera e si rivolge al padre dell’assassino reo confesso della figlia: “Quindi signor Marzo, lei può dire a me qualunque cosa, ma mia figlia non la deve toccare mai più”. La mamma di Noemi Durini respinge poi le accuse secondo le quali la 16enne avrebbe anche tentato di acquistare una pistola per poi uccidere i ‘suoceri’: “Mia figlia non si sarebbe mai permessa, anche perché mia figlia è nata in una famiglia sana, in una famiglia perfetta e proprio per questo si è ritrovata morta. Lei, signor Marzo, non la poteva vedere, perché suo figlio doveva diventare un delinquente come lei. E mi assumo la responsabilità di quello che sto dicendo”.
La mamma di Noemi Durini a Quarto Grado: “Sono tutti complici”, scrive Filomena il 16 settembre 2017 su "Ultime notizie flash". Per la prima volta in tv in una lunga intervista, la mamma di Noemi Durini, la signora Imma, parla alle telecamere di Quarto Grado, nella puntata in onda il 15 settembre 2017. Una intervista piena di rabbia, di dolore e di disperazione. Il racconto della vita di sua figlia, le difficoltà. “Io avevo chiesto aiuto, mi ero resa conto che mia figlia sfuggiva alla mia educazione. Per questo mi sono rivolta agli assistenti sociali. Non di certo perchè la rinchiudessero ma perchè mi dessero una mano, usando la loro competenza. E nessuno mi ha aiutato” queste le parole della signora Imma. Noemi era una ragazzina veramente speciale. Anzi… è tuttora una ragazzina speciale, perché ci guida da lassù. Lei sta con noi… è un pezzo di cuore che resterà sempre qua dentro. Noemi era solare e lo potete chiedere a tutti. Era sempre allegra, le piaceva dialogare e avere amicizie. Però queste persone cattive me l’hanno portata via. All’inizio hanno fatto finta di volerle bene. Ma quando hanno visto che mia figlia veniva da una famiglia di onesti, di persone che si guadagnano un pezzo di pane lavorando da mattino a sera per mantenere la famiglia… hanno visto che non potevano competere. Questa, forse, è la risposta più giusta. Con l’onestà e il lavoro delle persone che sudano dalla mattina alla sera, no, non ce la facevano… Sono persone disoneste: lo sanno tutti. Però, adesso, che purtroppo Noemi quelle brutte persone me l’hanno portata via… perché sono veramente delle brutte persone…, la devono smettere di infangare la memoria di mia figlia".
La mamma di Noemi parla di sua figlia ricordando come fosse amata e ben voluta da tutti. E anche la sorella di Noemi ha qualcosa da dire per descrivere quello che era il comportamento del fidanzato di Noemi. Quando ha capito che aveva usato violenza contro sua sorella gli ha proibito di entrare in casa e gli ha detto di non farsi vedere in paese, lui per tutta risposta, l’avrebbe minacciata. Le due donne sono convinte di una cosa: Noemi voleva fare la crocerossina e ha pagato per questo suo errore. La signora Imma invita i genitori di Lucio a lasciare da parte le sceneggiate. Crede nella giustizia e aspetta che sia faccia davvero luce su quanto accaduto: ci sono dei messaggi, delle mail, i tabulati. Le indagini dimostreranno come sono andate davvero le cose e Noemi potrà riposare in pace. "Mia figlia è nata in una famiglia sana, perfetta: ecco perché è morta. Mia figlia, grazie a lei, signor Biagio, a lei che non la poteva vedere, perché suo figlio doveva diventare il secondo delinquente come lei… Mi assumo tutte le mie responsabilità e con questo ho chiuso".
Il veto di mamma Imma sui funerali: “Niente banda o show, sennò urlo”. Il paese di Specchia preparava esequie solenni coi maxischermi. La madre della ragazza: “No, solo la bara a casa per l’ultimo saluto”, scrive Francesco Grignetti il 15/09/2017 su "La Stampa". Ora che Noemi non c’è più, il suo cadavere parla. Urla. Ma quella famiglia che era diventata invisibile agli occhi del paese, con i suoi drammi, la sua caduta nella povertà, dieci anni di vita agra che nessuno aveva voluto vedere, e ora pure il precipizio di un violento in casa, non ci sta a diventare icona di un dolore troppo ostentato per essere del tutto sincero. A caldo, a Specchia è nato un comitato spontaneo che aveva immaginato di fare le cose in grande: camera ardente in un locale comunale, feretro che sfila per la strada principale del paese, banda, contorno di motociclisti «perchè Noemi amava tanto le moto». E poi fiori da tutte le parti, gigantografia, messa solenne, forse pure gli altoparlanti e i maxi schermi in piazza. Invece no, mamma Imma rifiuta ogni pompa esteriore. La sua voce arriva ferma nella sala comunale dove ieri sera, attorno alle 19 si sono trovati in tanti, con assessori e parroco, a progettare l’ultimo saluto. «No a tutto - ha scandito la madre - non voglio fiori, non voglio sfilate e banda. Voglio solo che mi portino la bara a casa per un ultimo saluto, io e lei, con la nostra famiglia e basta. E poi dritti in chiesa. Dove nessuno deve neppure gridare, perché se no griderò io, con il dolore che provo, ci manca pure che qualcuno faccia lo show». Niente altoparlanti, allora. E se proprio ci devono essere le motociclette, «le voglio con il motore spento». Così parlò mamma Imma. Che palesemente rifugge tutti questi eccessi un po’ sospetti dell’ultima ora. Ha altro a cui pensare. Un cuore spezzato per non essere riuscita a impedire quel che aveva visto avvicinarsi. Si è sentita abbandonata da tutto e da tutti. Si capisce lo sfogo della cugina, Alma, che quando è accorsa, l’altra sera, ha preso a spintoni i troppi curiosi che affollavano la stradina dove Noemi abitava, urlando «Lo sapevate tutti!». Forse no, forse nessuno sapeva. Ma questo non assolve il paese. Nessuno sapeva perché nessuno voleva sapere. Una mamma che da dieci anni si spaccava la schiena per portare avanti la famiglia, dopo che il marito l’aveva mollata senza un perchè e soprattutto senza un soldo. Nella piazza del paese, dove si fa il punto della situazione come accade da tempi antichi, il signor Giuseppe, dalla soglia della sua bottega di ciabattino, ammette: «Lo sapeva tutto il paese che Imma faticava a tirare avanti, con le due figlie grandi del primo matrimonio e poi la terza figlia del nuovo compagno. Per un periodo ha fatto da badante ad alcuni vecchi. Da qualche tempo aveva trovato un lavoretto nel paese vicino, in un asilo, dove teneva i bambini». Anche il parroco, don Antonio, non sapeva. Si torce le mani per il dispiacere. «Imma è una donna di fede, partecipa alle attività parrocchiali, è nel coro. Ma con me non si è mai confidata. Io, che Noemi avesse un ragazzo, l’ho saputo solo ora. E pensare che quel ragazzo è del mio paese. Se Imma me ne avesse parlato, chissà, mi sarei attivato». Imma aveva preferito investire lo Stato. Due denunce ben particolareggiate alla magistratura. E nessuna risposta. Di questo ora i magistrati leccesi parleranno con gli ispettori inviati dal ministro Orlando. Qualcosa doveva avere detto anche ai carabinieri, tanto che il maresciallo del paese, Giuseppe Borrello, è andato quasi a colpo sicuro sul fidanzato violento. Conferma, il maresciallo, che la signora Imma «ci fece un paio di segnalazioni nei mesi scorsi, perché la figlia non era tornata a casa la notte». Piccole ragazzate, aveva pensato il maresciallo. Già, la famiglia invisibile si trovava a fronteggiare un tumore dilagante in casa, con il ragazzo manesco e quella adolescente ribelle che non aveva mai digerito sul serio la rottura tra i genitori e forse nemmeno l’entrata in scena di un padrino, ma nessuno ha alzato un dito. Una totale solitudine. Fatto sta che nell’ultimo anno Noemi viveva da una parte, la mamma da un’altra, il padre desaparecido nonostante vivesse nello stesso fazzoletto di case, la sorella all’università. E Lucio, il suo lui, era diventato qualcosa di importante. Un salvagente. Nonostante le mattane, la gelosia, le botte che ogni tanto partivano a casaccio. Una volta era tornata piena di lividi e lo zio Rocco non riusciva a darsi pace che quei due ancora filassero. Raccontano in tanti che dopo la separazione tra i genitori, fossero stati i nonni materni, Vito e Vincenza, a tirare su quella bambina in crisi. «Io - dice la giovane Paola, al bancone del bar nella strada principale del paese - quando vedo alla televisione certe storie, mi sembrano così lontane che non le sento reali. Poi capita qui accanto, a una che conoscevo e ha quasi la mia età, e non riesco a crederci. Posso toccare con mano la cattiveria». Il giorno dopo lo show di Lucio, intanto, Imma ha realizzato che il rischio è l’infermità mentale. «Quello se la cava facendo il pazzo». E il Comune ha deciso di stanziare dei soldi per un buon avvocato. Si costituirà parte civile. In fondo a Imma e a Noemi glielo devono.
Noemi, il genitore accusa il papà del fidanzato: ha fatto tutto lui. Sabato mattina l'interrogatorio di garanzia del 17enne. Gli ispettori del ministero hanno acquisito gli atti, scrive il 15 Settembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". «Ha fatto tutto lui». Umberto Durini non ha dubbi: a provocare la morte di sua figlia Noemi non è stato il fidanzato diciassettenne reo confesso ma suo padre, che provava nei confronti della ragazzina «un odio indescrivibile». Con il passare dei giorni, quello che era il dramma di una sedicenne che ha avuto l’unica colpa di innamorarsi del ragazzo sbagliato diventa sempre più una faida tra famiglie. Intrisa di veleni e rancori. Dove Umberto trovi tutte queste certezze, non è dato sapere: le indagini dei carabinieri e della procura di Lecce non hanno ancora chiarito il ruolo del padre di Lucio, che resta indagato per sequestro di persona e occultamento di cadavere. Una serie di accertamenti sono in corso e qualche risposta potrebbe arrivare dall’autopsia sul corpo della ragazza, che si terrà martedì, e dall’esame delle macchie di sangue rinvenute sulla 500 con cui alle 5 del mattino del 3 settembre il ragazzo è andato a prendere Noemi. Allo stato, dunque, l’ipotesi più probabile resta quella che il ragazzo abbia confessato al padre quello che aveva fatto e questi lo abbia aiutato a far sparire il corpo di Noemi. O, quantomeno, a pulire l’auto dopo che il giovane si era liberato del cadavere della fidanzata. Umberto Durini è convinto però che sia andata in tutt'altro modo e anche se non dice mai in maniera chiara che è stato il padre di Lucio ad uccidere sua figlia, la sua ricostruzione dei fatti è tutta in quella direzione. Tanto che di prima mattina si è presentato davanti a casa della famiglia di Lucio ad Alessano urlando e cercando di entrare. «Me l’ha uccisa, vieni fuori bastardo, vieni fuori» ha inveito più volte, con i carabinieri che a fatica sono riusciti a fermarlo. Poi l’uomo si è calmato e si è sfogato con i cronisti. Noemi «era la ragazza più brava del mondo. Non era perfetta, ma era brava e onesta». Una sedicenne che una settimana prima di sparire sembrava aver trovato finalmente la pace, stando a quello che dice il padre. «Stava finalmente bene, tornava a casa tutte le sere alle 20 e mi abbracciava. Era riuscita a lasciarlo, anche se lo amava e lo adorava». Ma era Lucio il problema? «No» risponde lui. E torna indietro nei mesi. «Lui con me era come un agnello. Quando l’hanno cacciato di casa, perché vedeva mia figlia, è venuto a dormire da me. Andava a dormire nelle baracche e io me lo sono portato a casa. Gli ho preso le medicine in farmacia, gli ho dato i vestiti e le sigarette. E lui si era calmato». Sono stati i suoi genitori, il padre in particolare, a far precipitare tutto. «Dopo le denunce di mia moglie avevo la verità davanti agli occhi e non volevo vederla - sostiene Umberto Durini - Però sono andato da loro, volevo parlare, io sono una persona che parla non un violento. Volevo trovare un punto d’incontro. E loro mi hanno aggredito. Mi hanno trattato come un delinquente, dicevano “noi non vogliamo avere a che fare con i drogati”. A me? Che non so neanche dove sta la droga». Quella famiglia, aggiunge, «provava un odio indescrivibile per mia figlia, un odio che non era comprensibile». Accuse condivise anche dalla mamma di Noemi, Imma. «Mia figlia era allegra, educata a rispettosa. E’ nata in una famiglia sana, ecco perché è morta» dice la donna, che poi si rivolge direttamente al padre del presunto assassino. «Mia figlia, grazie a lei, a lei che non la poteva vedere» è morta, «perché suo figlio doveva diventare il secondo delinquente come lei...Mi assumo tutte le mie responsabilità». L’odio secondo Umberto Durini è esploso definitivamente la mattina del 3 settembre. L’uomo si mette le mani sul viso, poi si volta verso la casa del padre del presunto assassino, e sibila. «Io Lucio lo perdono. Io voglio suo padre e basta, perché so tutto. Quella mattina mia figlia è uscita per chiarire. Subito dopo essere salita in macchina il ragazzo deve averla tramortita con un pugno». E poi? «E poi è venuto qua - Umberto indica la casa del padre di Lucio -. Il padre ha capito la situazione e ha detto “ci penso io”. E’ lui che ha fatto tutto il resto». L’uomo si ferma, poi riattacca. «Lucio sta nascondendo suo padre, lo protegge. Ma non lo salverà. Ha fatto tutto lui e ha fatto festa come un bambino a Disneyland».
LA TAC ESCLUDE LA MORTE PER LA PIETRA - Noemi non è stata uccisa con un colpo di pietra alla testa. Lo hanno escluso i risultati di una Tac eseguita, alla presenza del medico legale Roberto Vaglio, nella camera mortuaria dell’ospedale Vito Fazzi di Lecce sul corpo della ragazza, scomparsa da casa il 3 settembre scorso, presumibilmente ammazzata la stessa mattina e il cui corpo, nascosto sotto un cumulo di pietre, è stato trovato due giorni fa nelle campagne di Castrignano del Capo (Lecce) su indicazione del presunto omicida reo confesso, il fidanzato di 17 anni. Dall’esame non emergerebbero segni di fratture scheletriche sul cadavere, né tanto meno alla testa e questo fa escludere l'ipotesi iniziale che la ragazza sia stata uccisa a colpi di pietra. Domani alle 10,30, nella casa protetta dell’hinterland leccese in cui è rinchiuso in stato di fermo, ci sarà l'interrogatorio di garanzia del 17enne dinanzi al gip del tribunale per i minorenni di Lecce. Il ragazzo, quando ha confessato il delitto, disse di aver ucciso Noemi con un coltello che la ragazza avrebbe portato con sé uscendo da casa il 3 settembre. Della presunta arma del delitto non è stata trovata traccia, ma per sciogliere i dubbi su come la sedicenne di Specchia sia stata uccisa sarà decisiva l’autopsia che dovrebbe essere eseguita lunedì prossimo. Un primo esame esterno del cadavere, il giorno del ritrovamento, ha evidenziato la presenza di lesioni al collo: potrebbero essere state procurate da qualcuno con un’arma da taglio, ma potrebbero anche essere le conseguenze dell’azione di insetti e larve su un corpo in stato di decomposizione, quale era quello della sedicenne. L’interrogatorio di garanzia di domani potrebbe servire a chiarire, ad esempio, il movente del delitto. Il 17enne, accusato di omicidio volontario e occultamento di cadavere in concorso, quando ha confessato il delitto ha riferito di aver ucciso la fidanzata perché Noemi voleva che lui sterminasse la sua famiglia, che ostacolava la loro relazione sentimentale. Così come non è ancora chiaro il ruolo che, secondo l’accusa, potrebbe avere avuto nella vicenda il padre del ragazzo, indagato per sequestro di persona e concorso in occultamento di cadavere. Che tra le famiglie dei due adolescenti non corresse buon sangue lo si era capito dalla denuncia che la mamma di Noemi, Imma Rizzo, aveva sporto nel maggio scorso alla Procura per i minori per presunte violenze che la ragazza avrebbe subito dal fidanzato, e dalla contro-denuncia che la famiglia del 17enne aveva presentato un paio di settimane dopo nei confronti della ragazza, accusata di stalking. Da quel momento la situazione di astio reciproco si è andata trascinando fino all’epilogo tragico. E’ il motivo per cui ieri il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha chiesto all’ispettorato di verificare se ci siano state sottovalutazioni e se l’omicidio della sedicenne potesse essere evitato. «Abbiamo ritenuto opportuno intervenire - ha spiegato ancora oggi il ministro Orlando - perché a una prima valutazione sono emerse delle condotte nelle attività dei magistrati che possono far supporre delle abnormità. Gli ispettori hanno acquisito gli atti oggi. Naturalmente - ha aggiunto - questo non cancellerà il dolore dei famigliari».
Domani alle 10,30, nella casa protetta dell’hinterland leccese in cui è rinchiuso in stato di fermo, ci sarà l'interrogatorio di garanzia del 17enne dinanzi al gip del tribunale per i minorenni di Lecce. Il ragazzo, quando ha confessato il delitto, disse di aver ucciso Noemi con un coltello che la ragazza avrebbe portato con sé uscendo da casa il 3 settembre. Della presunta arma del delitto non è stata trovata traccia, ma per sciogliere i dubbi su come la sedicenne di Specchia sia stata uccisa sarà decisiva l’autopsia che dovrebbe essere eseguita lunedì prossimo. Un primo esame esterno del cadavere, il giorno del ritrovamento, ha evidenziato la presenza di lesioni al collo: potrebbero essere state procurate da qualcuno con un’arma da taglio, ma potrebbero anche essere le conseguenze dell’azione di insetti e larve su un corpo in stato di decomposizione, quale era quello della sedicenne.
L’interrogatorio di garanzia di domani potrebbe servire a chiarire, ad esempio, il movente del delitto. Il 17enne, accusato di omicidio volontario e occultamento di cadavere in concorso, quando ha confessato il delitto ha riferito di aver ucciso la fidanzata perché Noemi voleva che lui sterminasse la sua famiglia, che ostacolava la loro relazione sentimentale. Così come non è ancora chiaro il ruolo che, secondo l’accusa, potrebbe avere avuto nella vicenda il padre del ragazzo, indagato per sequestro di persona e concorso in occultamento di cadavere.
Lecce, 16enne scomparsa: trovato il corpo. Il fidanzato minorenne confessa l'omicidio. Le tappe della vicenda. Noemi Durini è stata vista l'ultima volta la mattina del 3 settembre: l'ansia dei genitori, le indagini degli inquirenti. Terminati i primi esami a bordo della Fiat 500 dove la giovane è stata vista per l'ultima volta, scrive Raffaella Cagnazzo il 13 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera".
La vicenda: Noemi scomparsa il 3 settembre. È stata la mamma la prima ad accorgersi che Noemi Durini non era nella sua stanza, la mattina di domenica 3 settembre. La giovane, 16 anni, vive a Specchia, in provincia di Lecce, dalla separazione dei genitori: è con la madre Imma Rizzo, il nuovo compagno di lei e la sorella Benedetta. Si era già allontanata da casa altre volte, ma solo per pochi giorni, due o tre - spiega la madre - ed era sempre rientrata. A destare sospetti è il fatto che Noemi abbia lasciato a casa i suoi effetti personali: il portafogli e il telefono cellulare. Dopo alcuni giorni di silenzio, martedì 5 settembre la donna presenta la denuncia e scattano le ricerche della Prefettura di Lecce che attiva il tavolo di coordinamento delle ricerche.
Le ricerche e l'attenzione alle amicizie «a rischio». La ricerche si fanno sempre più serrate e la segnalazione della ragazza scomparsa si allarga su tutto il territorio nazionale. Per cercarla, arrivano in Puglia anche i cani molecolari dell'unita cinofila in dotazione a carabinieri e vigili del fuoco. Le indagini si concentrano in particolare sulla cerchia di amicizie della ragazza, considerate «a rischio», e sul fidanzato di Noemi, un minorenne di Montesardo, frazione di Alessano.
Le ricerche e l'interrogatorio del fidanzato. Le ricerche si concentrano attorno a Macurano di Alessano, paese di origine del fidanzato di Noemi. È stato lui l'ultima persona ad aver visto viva la ragazza, all'alba del 3 settembre: una telecamera di sorveglianza li ha ripresi mentre transitano in via San Nicola di Specchia. Sul caso la magistratura indaga per sequestro di persona e apre due inchieste: un fascicolo della Procura ordinaria e uno presso il Tribunale per i minorenni. I controlli, anche con cani molecolari, sono estesi a grotte, inghiottitoi, cisterne, pozzi: un terrapieno in una campagna lungo la strada che da Alessano conduce a Novaglie viene ispezionato senza risultati.
Il fidanzato indagato per omicidio volontario. La svolta nell'indagine arriva mercoledì 13, a dieci giorni dalla scomparsa della ragazza: Il fidanzatino 17enne di Noemi Durini è indagato per omicidio volontario. Le telecamere di sicurezza di un'abitazione di Specchia certificano che il ragazzo e Noemi erano insieme all'alba del 3 settembre, a bordo di una fiat 500 di proprietà della famiglia del ragazzo: a bordo dell'auto - da giorni sotto sequestro - non sono stati trovati elementi utili all'indagine. Il fidanzato ha raccontato di aver lasciati Noemi nei pressi del campo sportivo, ma le sue dichiarazioni avrebbero lati oscuri e qualche contraddizione. L'iscrizione del suo nome nel registro degli indagati è disposta dalla Procura per i minorenni di Lecce per permettere l'esecuzione di accertamenti utili alle indagini.
Trovato il corpo, il fidanzato confessa: «L'ho uccisa io». Un episodio con tanti lati oscuri che man mano che passano i giorni, si connota sempre meno come un allontanamento volontario e assume i contorni del giallo. Fino alla confessione del fidanzato. A dieci giorni dalla scomparsa di Noemi durini, gli investigatori trovano il corpo e lui confessa l'omicidio.
Noemi su Facebook: «Non è amore se ti fa male». Il profilo Facebook di Noemi si popola, con il passare delle ore, di messaggi e di appelli, anche di violenza verbale. Commenti che vengono lasciati sotto gli ultimi post della ragazza tra foto dei suoi look, selfie e frasi ripostate: «Non ve lo darei neanche se l'avessi doppio» commentava con un cuore accanto ad una foto abbracciata al fidanzatino, l'11 agosto gioiva per il suo «Fidanzamento ufficiale», pochi giorni dopo scriveva «La voleva l'amore mio» accanto ad un selfie in shorts di jeans. Tra i tanti post anche frasi condivise da altri siti e pagine social, una in cui si legge: «Se ha voglia di te, non se ne va, non sparisce. Non credere a chi ti dice il contrario, sono solo parole. Chi ti ama ti vuole vicino, ha bisogno di stringere la tua mano, anche restando semplicemente lì, in silenzio». E ancora in un post del 23 agosto: «C'è vita fuori da una relazione abusiva. Non è amore se ti fa male, non è amore se ti controlla, non è amore se ti fa paura di essere ciò che sei, non è amore se ti picchia, ti umilia, non rispetta la tua volontà.
Noemi, parla il carabiniere che ha interrogato il ragazzo. "Non si è pentito", scrive il 16 Settembre 2017 Giuseppe Spatola su "Libero Quotidiano”. Un'ora e tre quarti faccia a faccia con il mostro che non ti aspetti, cercando una ragione della follia che ha spezzato due giovani vite e gettato un intero paese nel dramma. Così il maresciallo capo Giuseppe Borrello, 40 anni e tre figli, comandante della stazione dei carabinieri di Specchia, nella lunga notte passata in caserma con l'unico indiziato ha cercato di riordinare gli ultimi scampoli di vita di Noemi Durini, portando il giovane fidanzato ad ammettere l'atroce mattanza. Lui, ragazzino violento con un passato già frastagliato da "problemi", ha confessato ma non si è pentito. Anzi. «Il ragazzo è stato lucido e chiaro nella ricostruzione dei fatti - ha confermato il maresciallo -. Ma non ha avuto crisi di pianto o momenti di sconforto, dal punto di vista emotivo e di ricostruzione dei fatti non ha evidenziato disagio di tipo psichico».
Freddo e distaccato, anche quando vi ha detto "sono stato io"?
«Nessuna reazione. Per noi è stata una conferma drammatica di quanto avevamo raccolto con le indagini dal giorno della scomparsa».
Cosa lo ha portato a confessare...
«Si sentiva braccato. La pressione psicologica lo ha portato a venire a confidarsi con me. Cercava qualcuno che lo potesse guidare verso la confessione per liberarsi del peso. Del resto i giornali e l'opinione pubblica lo avevano indicato come principale sospettato. Aveva paura dell'arresto. Si è tolto un peso e ha scelto di farlo con chi nei giorni passati lo aveva sentito ma anche consigliato, rassicurandolo che sarebbe stato tutelato in tutti i sensi data la sua giovane età. A quel punto ha parlato...».
Ma con lei non ha fatto lo sbruffone, non si è bullato così come ha invece fatto all' uscita della Caserma...
«Il ragazzo con me è stato molto tranquillo, remissivo, non ha fatto colpi di testa. Non mi aspettavo questa reazione all' uscita dalla caserma. Non è stato un bel gesto nei confronti della popolazione. Eppure pochi istanti prima mi aveva fatto intendere che non dormiva da giorni per il peso che nascondeva e la paura di finire in manette. Non ce la faceva più a sopportare un peso simile anche a livello fisico».
Una confessione che tira fuori dai guai il padre, pure lui coinvolto nell' inchiesta.
«Non ha mai parlato del padre. Per l'adulto la vicenda sarà magari approfondita dall' autorità giudiziaria».
La questione che lascia però perplessi è la storia tormentata di questa giovane coppia, dove tutti parevano sapere dei litigi e delle violenze ma in paese nessuno ha mai parlato fino al giorno dopo il dramma. È normale?
«I problemi ci sono stati, è innegabile, ma la comunità ci ha aiutati tanto da ipotizzare il coinvolgimento del giovane».
La famiglia del fidanzato aveva denunciato la ragazza per atti persecutori nei confronti del giovane. La denuncia sarebbe stata fatta alcuni mesi fa e 15-20 giorni dopo quella presentata invece dalla madre di Noemi che accusava il ragazzo di lesioni nei confronti della figlia. Come può una madre tutelare la figlia maltrattata se neppure denunciando il fidanzato manesco si riesce ad avere la giusta serenità?
«La madre ha fatto tutto il possibile per tutelare la giovane. Ma parlare dopo è facile. Certo lui non era un agnello, ha commesso un omicidio efferato senza provare pentimento. Solo quando ci ha portato davanti alla tomba di sassi dove aveva nascosto il corpo martoriato di Noemi l'ho visto barcollare. Un attimo. Poi è tornato presente e lucido, quasi distaccato».
Specchia come Avetrana?
«Quando muore una giovane il dramma è condiviso dall' intera comunità. Il paese avrà modo di elaborare il lutto, capendo dove si è sbagliato».
L'autopsia in prima pagina: quando la cronaca diventa abuso. La nera tra tv e giornali. Quello di Noemi Durini è soltanto l'ultimo caso della deriva di un certo tipo di giornalismo italiano, scrive Francesco Merlo il 15 settembre 2017 su "La Repubblica". È odiosa la deriva selvaggia di questo giornalismo italiano che attizza la morbosità e ti fa dimenticare la sedicenne uccisa a Specchia e l’oltraggio subito da tutte le ragazze del mondo, presi come siamo a violarne gli spasmi sotto le pietre, “anzi no, era un coltello”. Ora al pantografo sono finite le ferite, il sangue e la lama affilata. Ma le mani restano manacce che colpiscono e manine che si chiudono, e la descrizione dei colpi di bastone ti fa sentire il legno che sbatte sulle ossa. Poi si passa ai lividi vecchi che, recuperati e rinfrescati dal sempre più pietoso prosatore, bene illustrano le botte dei titoloni a tutta pagina. E così, alla fine, quando arrivi in fondo all’articolo e già attacchi il secondo, che viola lo smarrimento della madre, e poi ce ne sono un terzo sull’arma e un quarto sul luogo dell’esecuzione, alla fine, dicevo, non c’è più la morte di una bella ragazza che tutti avremmo voluto come figlia, ma c’è solo l’infinita indecenza. E non è vero che lì c’è il Dio dei dettagli, la storia concentrata. Al contrario, c’è la fuga dalla notizia alla pornografia. E più ti avvicini e più ingrandisci il dettaglio morboso più Dio si allontana da te, dal giornale, da tutti. È un giornalismo spudorato quello che in video mostra l’androne dove sono state stuprate le due ragazze americane a Firenze: «Non ne facciamo il nome» dice lo scoopista indignato mentre ci accompagna a casa loro, e in quel buio dove è stata consumata la violenza prova a rievocare lo smarrimento, vorrebbe misurare l’incommensurabilità del dolore, ma la verità è che, in questo modo, la cronaca del delitto diventa a sua volta delitto, e la notizia dello stupro è lo stupro della notizia. Ed è stato un interrogatorio “di polizia”, anzi una vera e propria trappola quella di Chi l’ha visto? ai genitori del fidanzato assassino. Il padre e la madre di Vincenzo hanno appreso dalla giornalista che il corpo era stato ritrovato e che il loro figlio aveva confessato: uno spettacolo orribile e terribile. Mentre cercavano, maldestramente, di difendere il loro ragazzo c’era infatti una bandella che annunziava quello che stava per accadere: «Ancora non sapevano che il figlio avesse confessato». Il padre, che è indagato, dice allora «bedda mia», si appoggia al tavolo, si agita come una bestia ferita: «Hanno creato un mostro» grida. Poi c’è la lunga inquadratura sullo strazio della madre che si abbandona a una serie di frasi sconnesse, straparla di killer venuti da lontano, infine sbotta «ora siamo morti» e piange nascondendo la testa tra le braccia conserte poggiate sul tavolo. Ecco, tutto questo ci ha lasciato non a bocca aperta ma a bocca chiusa. Anche la mamma dell’assassino ha diritto alla compostezza pubblica e alla disperazione privata. E invece la giornalista non le ha dato il tempo di dominarsi, di raccapezzarsi e l’ha esposta all’insana curiosità dell’Italia, ha ridotto la sua pena a tecnica spettacolare. Diciamo la verità: il rigetto è totale. È vero che Mussolini aveva proibito la cronaca nera considerandola “eversiva ed emulativa” ed è stata una liberazione riappropriarsene, un dovere del giornalismo democratico occuparsene. È insomma giusto che la cronaca nera, che non è solo roba da stampa scandalistica, occupi anche le prime pagine dei quotidiani d’informazione responsabile, dei giornali-istituzione che sanno servire il pubblico con un controllo qualificato delle reticenze, svolgendo il ruolo dei grandi testi di riferimento del passato. Come si sa, infatti, la grande letteratura gialla proviene proprio dalla cronaca nera. Ebbene, grazie alla qualità dei giornali italiani, la cronaca nera nel dopoguerra è diventata letteratura, con Dino Buzzati, Orio Vergani, Tommaso Besozzi...Ma ci sono dei doveri che il giornalista non dovrebbe mai dimenticare. E invece, in un crescendo che dura da un po’ di anni, anche colleghi sensibili, perspicaci e intelligenti, non si fermano più dinanzi alla sconcezza. Ma non è civile l’idea che il diritto di cronaca significhi infilare il naso nelle nefandezze. Ricordate il caso Cogne? Quell’omicidio ci colse impreparati. Non capimmo subito quello che stava accadendo nell’informazione italiana. In molti ricorderanno l’iniziale spaesamento e poi il crescente disagio dinanzi alla rappresentazione della violenza, alla voglia di mostrare nel dettaglio lo scempio di un corpicino, all’indugiare sul particolare raccapricciante, al calcolo dei colpi mortali, al dilungarsi sull’efferatezza, allo spacciare per scienza il bla-bla vanitoso degli psicologi del sabot assassino, alla sanguinolenta esibizione di sapere degli esperti di tragedie greche, alla truce chiacchiera su criminologia, cervello e maternità. Insomma, ci abbiamo messo un po’ di tempo a capire che dietro l’eccesso di cronaca c’era la morbosità, e che non si trattava di analisi fredda e neppure di resoconto intelligente, ma di compiacimento. Poi però, da un omicidio all’altro, da uno stupro all’altro, da un femminicidio all’altro, siamo arrivati all’attuale accanimento dell’informazione sulla cronaca nera: la pedofilia (ricordate Rignano?), le streghe di Avetrana, Meredith, Yara, la mamma assassina di Loris... Ed è stata un’escalation che ha accompagnato la crisi dei giornali, la perdita di lettori, il bisogno di fare audience e di vendere copie. Sino allo stupro di Rimini e alla diffusione di quei verbali, che ovviamente avevamo pure noi, anche se non ci è mai passato per la mente che fossero uno scoop. Erano infatti una roba da pattumiera dell’anima, un’immondizia adatta al giornalismo- immondizia e non certo alla Rai, a Mediaset, ai grandi quotidiani e ai settimanali italiani che, come già denunziò l’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi — nel 2003! — «danno un rilievo altissimo ai fatti di violenza», eccedono, insistono, scavano con un furore che «finisce per dare a quei drammi una valenza esemplare che essi sicuramente non hanno», e alla fine questa gutter press, questo giornalismo da rigagnolo, commette, concludeva Ciampi, «un grave attentato alla dignità umana». Noi non pensiamo che la rappresentazione, il racconto, la fotografia, la discussione, anche quella inutile e oziosa sulla violenza, debbano essere denunziate più della violenza stessa. Ma una cosa è raccontare che c’è stato un caso di harakiri e un’altra mostrare lo sparpagliamento delle viscere. Ci sono cose che debbono essere fatte perché sono importanti: il magistrato, per esempio, deve indagare e anche, con la polizia, tendere tranelli. E il chirurgo deve operare. Ma l’operazione non si fa su Raitre o a Canale 5. E i processi si celebrano in tribunale. Né basta esibire un’indignazione morale che diventa essa stessa spettacolo. Durante il caso di Rignano, seguendo un’idea “neutrale”, furono messi a confronto in televisione i genitori dei bimbi e i presunti pedofili. Esiste, secondo noi, l’abuso di cronaca che dovrebbe essere sanzionato, non in tribunale ma nelle coscienze, dalla cosiddetta deontologia, specie quando l’abuso si spaccia per verità senza tabù, per “necessità di sapere”, per scoop. Ci sono degli eccessi e ci sono casi di abbrutimento della vita che sono così eccezionali da meritare professionalità eccezionali che sappiano, quando occorre, anche chiudere gli occhi per pietà. Così il racconto di uno stupro, come quello di Rimini, almeno sui grandi giornali come il nostro, deve essere riassunto, mediato dalla professionalità e dal pudore del giornalista, dal riserbo se necessario. Non può diventare un furto d’anima, uno squartamento interiore, il feroce avvilimento dell’umanità, un’orgia scritta di carne e liquidi, di posizioni, di sodomie, tutti convinti di scrivere come Balzac, Simenon e Truman Capote, tutti piccoli Tarantino, tutti virtuosi dello splatter. Tutti arrapati, invece, che con la penna incidono, aprono, fanno l’autopsia, sporcano e si sporcano. La cronaca nera, ci insegnarono i nostri maestri, non si commenta mai. Ma, questa volta, per dirla con Montale: «Codesto solo oggi possiamo dirti, /ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».
Quando si oltrepassa il comune senso del pudore, scrive il 15 Settembre 2017 Oscar Iarussi su "La Gazzetta del Mezzogiorno". Ci sarebbe da lasciare la pagina in bianco. Ci sono già troppe parole intorno alla tragica fine di Noemi Durini, la sedicenne salentina di Specchia, morta per mano del suo ragazzo di 17 anni. «Ho sbagliato, potevo uccidermi io e avrei evitato questo casino», avrebbe dichiarato il presunto assassino, che l’altra notte ha rischiato il linciaggio quando ha sfoderato un atteggiamento di sfida - un saluto inquietante, una smorfia derisoria - verso la folla che ne attendeva il trasferimento. Chiuso in una struttura protetta, con un passato di trattamenti psichiatrici, il «fidanzatino» - come molti continuano a definirlo con impropria tenerezza - viene descritto in preda a una confusione che si riflette nelle diverse versioni della sua confessione. «Ero innamoratissimo di lei», ha detto ai Carabinieri. «Ho reagito di fronte all’ostinazione di Noemi nel voler portare a termine il progetto dello sterminio della mia famiglia». Arma del delitto? Le pietre. Anzi, un coltello che la stessa vittima avrebbe portato con sé, di cui però finora non v’è traccia. Una storia tremenda, vissuta quasi «in prima persona» da chiunque abbia figli adolescenti, così vicini così lontani rispetto al mondo adulto. Noi genitori possiamo intuirne il disagio, i turbamenti, i dolori, ma spesso è difficile andare al cuore del loro comportamento. Perché davvero, con Pascal, «il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce», persino nei casi più foschi. Così è nel tunnel oscuro e criminale di questa vicenda in un paese invece solare e ventoso qual è Specchia, un luogo elevato - dal latino specula - adatto per le osservazioni. Tra l’altro, ogni estate vi si svolge un piccolo festival dedicato al «Cinema del reale», il cui titolo rischia ora di suonare beffardo. Si è infatti subito scatenato il reality / irreality show dei mass media. Cartoline dell’irrealtà spedite a raffica, tanto più quando una tragedia - accadde anche per lo scontro ferroviario di Andria nel luglio 2016 - dà la stura a un inconsapevole e sottile svilimento del Sud. Così ieri abbiamo letto su un quotidiano milanese che «nessuno si fa troppe domande, giù nel Basso Salento, tra Specchia e Alessano, belle ville di vacanza della swinging Puglia e terre riarse dei poveracci». Noi diremmo piuttosto che tutti in Italia si fanno molte domande, in cerca di una risposta che possa «spiegare» seppur lontanamente quello che purtroppo a volte succede, nelle «terse riarse dei poveracci» come nel caso dell’omicidio di Garlasco, in provincia di Pavia. Ma il clou del Barnum mediatico è stato toccato in televisione, tanto che i vertici dei sindacato dei giornalisti, il pugliese Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, deplorano che l’inviata di Chi l’ha visto abbia comunicato in diretta ai genitori del presunto assassino di Noemi la notizia della morte della ragazza e della confessione del figlio. Sulla necessità di cautelare i minori intervengono anche il Comitato regionale per le Comunicazioni della Puglia e l’Ordine dei giornalisti della Puglia che ricorda l’importanza «di applicare i principi deontologici nell’uso di tutti gli strumenti di comunicazione, compresi i social network». Pare d’accordo l’avvocato del ragazzo, Paolo Pepe, che ieri ha dichiarato: «Nel rispetto della riservatezza e sensibilità delle famiglie coinvolte, e nel rispetto delle indagini dell’Autorità Giudiziaria, tuttora in corso, ci si esime dal diffondere e trattare mediaticamente la vicenda». Tuttavia, poco dopo, la madre del reo confesso ha letto davanti alle telecamere di La vita in diretta un biglietto che le avrebbe lasciato il figlio: «Quello che ho fatto è stato per l’amore che provo per voi. Noemi voleva che io vi uccidessi per potere avermi con sé. Sono un fallito e mi faccio schifo. Ti voglio bene papà e mamma». Il macabro «circo» ovviamente non si fermerà e già abbiamo assistito ai selfie di rito sul luogo del delitto o ad altre dirette Tv nelle quali l’informazione live degrada verso lo spettacolo della morte. Sono segnali di scadimento morale che riflettono l’orizzonte imbarbarito dagli stupri e dal razzismo. Allora, nonostante il pudore che spingerebbe a tacere, viene il sospetto che le parole servano: pacate, riflessive, ferme. Quelle dei giudici, quando toccherà a loro. Quelle degli adulti, ogni giorno. Quelle dei liceali pugliesi che ieri, in memoria di Noemi e delle vittime della violenza di genere, hanno testimoniato il loro sdegno con i sit-in a Bari e in altre città unite dall’hashtag «Ti amo da vivere». «Perché - dicono gli studenti - non si può morire amando e non si uccide mai per amore».
Due molotov lanciate nella notte contro la casa dei genitori dell'assassino di Noemi. Non erano state accese, quindi non sono esplose. Alta tensione tra le due famiglie: entrambe le case sono piantonate, scrive Chiara Spagnolo il 17 settembre 2017 su "La Repubblica". Cresce la tensione ad Alessano, il paese in cui vive la famiglia del diciassettenne reo confesso dell’omicidio della fidanzata sedicenne Noemi Durini. Due ordigni rudimentali - costruiti utilizzando bottiglie incendiarie - sono stati lanciati nella notte tra venerdì e sabato contro l’abitazione di Montesardo (frazione di Alessano) in cui il ragazzo viveva assieme ai genitori e ai fratelli. Laddove, pochi giorni fa, il padre di Noemi, Umberto Durini, era andato ad urlare la propria rabbia, accusando l’altro genitore di essere l’assassino della figlia. “Il ragazzo lo sta coprendo” aveva detto Umberto, lanciando un’accusa durissima, che potrebbe presto essere raccolta sotto forma di testimonianza dalla Procura di Lecce. Per il momento l’unico responsabile dell’omicidio viene considerato il fidanzato, indagato per omicidio premeditato, aggravato dai futili motivi e dalla crudeltà, mentre il padre è indagato solo per occultamento di cadavere. L’ipotesi è che abbia aiutato il figlio a disfarsi del corpo senza vita della fidanzata ma stride con le ammissioni del giovane, che ha raccontato agli inquirenti di avere assassinato Noemi nella campagna vicino Santa Maria di Leuca in cui è stato trovato il cadavere. Molte le contraddizioni nei suoi interrogatori, a partire dalle modalità dell’omicidio, che ha detto prima di avere effettuato con una pietra e poi con un coltello che si sarebbe spezzato. Ma sul cranio della vittima non sono state trovate ferite compatibili con le pietrate e del coltello non c’è traccia. Per non aggravare ulteriormente la sua posizione, il 17enne ha scelto di rimanere in silenzio davanti al gip Ada Colluto, chiamata a convalidare il fermo del 13 settembre e a disporre nuova misura cautelare. I difensori Luigi Rella e Paolo Pepe hanno chiesto di trasferire il ragazzo in una struttura protetta non detentiva e di sottoporlo a una perizia psichiatrica, anche allo scopo di verificare la capacità di intendere e di volere al momento del delitto. La diffusione della notizia di tale strategia processuale (che se fosse accolta potrebbe incidere molto su una futura valutazione della pena) ha ulteriormente sollecitato la rabbia degli amici e conoscenti di Noemi e l’indignazione della famiglia. A far crescere la tensione, le migliaia di commenti sui social, che spesso si trasformano in minacce che rischiano di diventare realtà. Come è accaduto appunto venerdì notte, quando ignoti hanno raggiunto la villetta gialla in cui abita la famiglia di Montesardo e hanno lanciato due molotov contro il muro: gli ordini non hanno preso fuoco. I genitori del diciassettenne erano in casa. I carabinieri di Alessano hanno recuperato i resti di due bottiglie incendiarie e verificato la presenza di telecamere di sorveglianza nei pressi dell’abitazione, che potrebbero aver ripreso i responsabili. Entrambe le abitazioni, quelle dei genitori di Noemi e del fidanzato, sono piantonate. Lunedì 18 settembre intanto dovrebbero iniziare gli accertamenti autoptici sul corpo di Noemi, che si potrebbero concludere martedì, per cui i funerali - ai quali il sindaco di Specchia Rocco Pagliara ha invitato a presenziare il ministro della Giustizia, Andrea Orlando - potrebbero tenersi mercoledì o addirittura giovedì.
Omicidio Noemi, l'ex fidanzato: «Così l'ho uccisa: abbiamo fatto l’amore poi l’ho colpita alla testa». Il pm nel decreto di fermo del 17enne: «Condotta violenta, crudele e premeditata», scrive Andrea Pasqualetto, inviato a Specchia, il 16 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Si conclude così una lunga lettera scritta da Lucio (il fidanzato 17enne arrestato con l’accusa di avere ucciso Noemi) e trovata dagli investigatori in una pen drive. È datata 30 agosto. Dopo tre giorni Lucio l’ha uccisa e lui l’ha confessato così: «Quella notte ci siamo incontrati perché mi aveva nuovamente chiesto di far fuori i miei genitori. Aveva un coltello, credo da cucina... Dopo averglielo tolto, l’ho colpita alla testa e poi con alcuni sassi. Con il coltello una sola volta perché la lama si è spezzata e il manico mi è rimasto in mano… Prima avevamo avuto un rapporto sessuale». Al di là del movente e delle modalità del delitto, sui quali gli inquirenti hanno molte perplessità, restano i fatti: da una parte una lettera d’amore, dall’altra un delitto. Entrambi firmati da questo diciassettenne che ieri, su consiglio dei suoi difensori, ha deciso di non aggiungere altro davanti al gip del Tribunale per i minorenni di Lecce. L’avvocato Luigi Rella ha chiesto per lui una perizia psichiatrica per stabilire la capacità di intendere e di volere al momento dell’omicidio. Ma il pm non crede né all’incapacità né al delitto d’impeto: «Condotta violenta, crudele e premeditata tenuta da L. nelle prime ore del 3 settembre», ha scritto nel decreto di fermo. Rimangono dei dubbi sul perché L. abbia ucciso e, soprattutto, sul ruolo di suo padre, indagato per concorso in occultamento di cadavere «solo per una questione tecnica, cioè per poter eseguire alcune perquisizioni», ha aggiunto ieri un investigatore. E rimane questa strana lettera, nella quale L. ripercorre l’ultimo tormentato anno, con Noemi e con il padre. «Un giorno andai con il mio migliore amico alla villetta del paese per incontrare gli altri amici e vidi una ragazza di nome Noemi che mi piaceva già da un bel po’ e feci di tutto per rimorchiarla… Dopo 30 giorni stavamo insieme e iniziarono guai seri con mio padre e mia madre che mi portarono all’esaurimento nervoso. Una sera furono così tante le lamentele da parte dei miei che io mi ribellai scatenando tutta la rabbia che avevo verso di loro…». E lì volarono le «manate» e ci fu il primo Tso. «Lei mi dava la forza per scappare da mio padre… Con Noemi però litigavo spesso e io soffrivo talmente tanto che mi rinchiusero a Casarano». Altro Tso. E un altro ancora lo scorso 21 luglio, dopo nove birre bevute in una sera e un crollo «etilico». Poi venne il giorno del delitto, i tentativi di depistaggio e la consegna. «E lui lo chiamava amore», ha sospirato ieri sera Umberto Durini, il padre di Noemi, passandosi una mano sulla testa. «Poco prima della scomparsa — ha ricordato sua moglie Imma — mia figlia mi aveva detto “mamma io parto, mi prendo il diploma e aiuterò le persone in difficoltà”». Nel ragazzo pare sia spuntato un barlume di pentimento: «Ho sbagliato — avrebbe detto — potevo uccidermi e avrei evitato questo casino».
Specchia e Alessano unite nel dolore: non alimentiamo faide, scrive il 17 Settembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". Non ci sono faide, non ci sono guerre tra paesi né propositi di vendetta incrociata. Però è necessario che tutti quanti abbassino i toni, altrimenti si rischia un’altra tragedia; si rischia che qualcuno dalle parole e dalle accuse, per il momento solo urlate dalle due famiglie dei ragazzini protagonisti di questa triste vicenda, possa passare ai fatti. Sono le istituzioni di Specchia e Alessano a capire prima di tutti che è necessario lasciare che la giustizia segua il suo corso, senza alimentare odi e rancori. Anche perché, come dimostrano le parole pronunciate anche oggi dalla madre di Noemi, Imma, gli animi sono tutto tranne che tranquillizzati. «Voglio giustizia - ha detto la donna - queste persone hanno fatto male a mia figlia e devono stare dentro. Lucio in prima persona deve rispondere di questo omicidio, poi ne risponderà anche la famiglia. Non sono persone normali, sono due delinquenti e nessuno di loro si deve permettere di nominare mia figlia, la lascino in pace e la smettano di offendere il nome di Noemi, che trovando loro ha trovato solo la morte». L’assassinio della sedicenne ha sconvolto profondamente una comunità dove tutti si conoscono e dove in molti sapevano del rapporto tormentato tra la ragazza e Lucio. Nei bar e nei capannelli in mezzo alla strada si parla solo di questo, ognuno dice la sua per spiegare un omicidio orrendo e, soprattutto, fioriscono i pettegolezzi, le voci non verificate, i si dice che non fanno altro che complicare e distorcere una vicenda ancora da chiarire fino in fondo. Ecco perché le istituzioni lanciano una sorta d’appello, chiedendo prima di tutto alla stampa e poi ai propri concittadini di moderare i toni. Specchia e Alessano sono unite nel dolore e nella vicinanza ad una famiglia distrutta - dice il primo cittadino del comune dove abitava Noemi, Rocco Pagliara - Ogni giorno mi sento con il sindaco di Alessano e viviamo entrambi questo dramma che riguarda l’intera comunità. Non c'è alcuno scontro tra le due comunità, tanta gente di Alessano mi ha chiamato in questi giorni per esprimermi vicinanza, per dirmi di portare il loro abbraccio alla famiglia di Noemi». Ed in ogni caso, aggiunge, «il tessuto sociale dei due paesi è sanissimo, qui c'è gente civile. Poi purtroppo ci sono anche le eccezioni che fanno clamore, ma non sono la realtà. Che è invece quella di una comunità unità». Parole condivise dal collega di Alessano, Francesca Torsello. «Ma quale guerra, ma quale faide. Fin dalle prime ore siamo vicini alla famiglia di Noemi. L’intera comunità - sostiene il sindaco - è spaesata e attonita, non capisce questa violenza. I miei concittadini sono tutti affranti e nessuno tenta di difendere l’indifendibile. Siamo una comunità con un grande senso di civiltà». Quel che è certo, aggiunge, è che «bisogna abbassare i toni. C'è una famiglia che sta soffrendo in maniera inaudita e il silenzio è il modo migliore per esserle vicino». La pensa così anche don Antonio De Giorgi, il parroco di Specchia. «È evidente che bisogna moderare i termini. Invito tutti al silenzio e a pregare per quella povera ragazza - è il suo messaggio - Le nostre comunità sono unite e vicine nello stringersi attorno alla famiglia della ragazza e a condannare unanimemente chi si è macchiato di questi delitto. Non ci sono tifoserie che patteggiano per l’uno o per l’altro, perché questo è un dramma che ha scosso tutto il territorio».
Abuso di cronaca nera su giornali e tv. La deriva selvaggia del giornalismo che attizza la morbosità, scrive Francesco Merlo il 15 settembre 2017 su "La Repubblica". E’ odiosa la deriva selvaggia di questo giornalismo italiano che attizza la morbosità e ti fa dimenticare la sedicenne uccisa a Specchia e l’oltraggio subito da tutte le ragazze del mondo, presi come siamo a violarne gli spasmi sotto le pietre, ” anzi no, era un coltello”. Dunque ora al pantografo sono finite le ferite da taglio, il sangue e la lama affilata, ma le mani restano manacce che colpiscono e manine che si chiudono, e la descrizione dei colpi di bastone ti fa sentire il legno che sbatte sulle ossa. Poi si passa ai lividi vecchi che, recuperati e rinfrescati dal sempre più pietoso prosatore, bene illustrano le botte dei titoloni a tutta pagina. E così, alla fine, quando arrivi in fondo all’articolo e già attacchi il secondo, che viola lo smarrimento della madre, e poi ce ne sono un terzo sull’arma e un quarto sul luogo dell’esecuzione, alla fine, dicevo, non c’è più la morte di una bella ragazza che tutti avremmo voluto come figlia, ma c’è solo l’infinita indecenza. E non è vero che lì c’è il Dio dei dettagli, la storia concentrata. Al contrario, c’è la fuga dalla notizia alla pornografia. E più ti avvicini e più ingrandisci il dettaglio morboso più Dio si allontana da te, dal giornale, da tutti. E’ un giornalismo spudorato quello che in video mostra l’androne dove sono state stuprate le due ragazze americane a Firenze: “non ne facciamo il nome” dice lo scoopista indignato mentre ci accompagna a casa loro, e in quel buio dove è stata consumata la violenza prova a rievocare lo smarrimento, vorrebbe misurare l’incommensurabilità del dolore, ma la verità è che, in questo modo, la cronaca del delitto diventa a sua volta delitto, e la notizia dello stupro è lo stupro della notizia. Ed è stato un interrogatorio “di polizia”, anzi una vera e propria trappola quella di “Chi l’ha visto?” ai genitori del fidanzato assassino. Il padre e la madre di Vincenzo hanno appreso dalla giornalista che il corpo era stato ritrovato e che il loro figlio aveva confessato: uno spettacolo orribile e terribile. Mentre cercavano, maldestramente, di difendere il loro ragazzo c’era infatti una bandella che annunziava quello che stava per accadere: “ancora non sapevano che il figlio avesse confessato”. Il padre, che è indagato, dice allora “bedda mia”, si appoggia al tavolo, si agita come una bestia ferita: “hanno creato un mostro” grida. Poi c’è la lunga inquadratura sullo strazio della madre che si abbandona ad una serie di frasi sconnesse, straparla di killer venuti da lontano, infine sbotta “ora siamo morti” e piange nascondendo la testa tra le braccia conserte poggiate sul tavolo. Ecco, tutto questo ci ha lasciato non a bocca aperta ma a bocca chiusa. Anche la mamma dell’assassino ha diritto alla compostezza pubblica e alla disperazione privata. E invece la giornalista non le ha dato il tempo di dominarsi, di raccapezzarsi e l’ha esposta all’insana curiosità dell’Italia, ha ridotto la sua pena a tecnica spettacolare. Diciamo la verità: il rigetto è totale. E’ vero che Mussolini aveva proibito la cronaca nera considerandola “eversiva ed emulativa” ed è stata una liberazione riappropriarsene, un dovere del giornalismo democratico occuparsene. E’ insomma giusto che la cronaca nera, che non è solo roba da stampa scandalistica, occupi anche le prime pagine dei quotidiani d’informazione responsabile, dei giornali-istituzione che sanno servire il pubblico con un controllo qualificato delle reticenze, svolgendo il ruolo dei grandi testi di riferimento del passato. Come si sa, infatti, la grande letteratura gialla proviene proprio dalla cronaca nera. Ebbene, grazie alla qualità dei giornali italiani, la cronaca nera nel dopoguerra è diventata letteratura, con Dino Buzzati, Orio Vergani, Tommaso Besozzi…
Ma ci sono dei doveri che il giornalista non dovrebbe mai dimenticare. E invece, in un crescendo che dura da un po’ di anni, anche colleghi sensibili, perspicaci e intelligenti, non si fermano più dinanzi alla sconcezza. Ma non è civile l’idea che il diritto di cronaca significhi infilare il naso nelle nefandezze.
Ricordate il caso Cogne? Quell’omicidio ci colse impreparati. Non capimmo subito quello che stava accadendo nell’ informazione italiana. In molti ricorderanno l’iniziale spaesamento e poi il crescente disagio dinanzi alla rappresentazione della violenza, alla voglia di mostrare nel dettaglio lo scempio di un corpicino, all’indugiare sul particolare raccapricciante, al calcolo dei colpi mortali, al dilungarsi sull’efferatezza, allo spacciare per scienza il bla-bla vanitoso degli psicologi del sabot assassino, alla sanguinolenta esibizione di sapere degli esperti di tragedie greche, alla truce chiacchiera su criminologia, cervello e maternità. Insomma, ci abbiamo messo un po’di tempo a capire che dietro l’eccesso di cronaca c’era la morbosità, e che non si trattava di analisi fredda e neppure di resoconto intelligente, ma di compiacimento. Poi però, da un omicidio all’altro, da uno stupro all’altro, da un femminicidio all’altro, siamo arrivati all’attuale accanimento dell’informazione sulla cronaca nera: la pedofilia (ricordate Rignano?), le streghe di Avetrana, Meredith, Yara, la mamma assassina di Loris… Ed è stata un’escalation che ha accompagnato la crisi dei giornali, la perdita di lettori, il bisogno di fare audience e di vendere copie. Sino allo stupro di Rimini e alla diffusione di quei verbali, che ovviamente avevamo pure noi, anche se non ci è mai passato per la mente che fossero uno scoop. Erano infatti una roba da pattumiera dell’anima, un’immondizia adatta al giornalismo-immondizia e non certo alla Rai, a Mediaset, ai grandi quotidiani e ai settimanali italiani che, come già denunziò l’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi – nel 2003! – , eccedono, insistono, scavano con un furore che , e alla fine questa gutter press, questo giornalismo da rigagnolo, commette, concludeva Ciampi. Noi non pensiamo che la rappresentazione, il racconto, la fotografia, la discussione, anche quella inutile e oziosa sulla violenza, debbano essere denunziate più della violenza stessa. Ma una cosa è raccontare che c’ è stato un caso di harakiri e un’altra mostrare lo sparpagliamento delle viscere. Ci sono cose che debbono essere fatte perché sono importanti: il magistrato, per esempio, deve indagare e anche, con la polizia, tendere tranelli. E il chirurgo deve operare. Ma l’operazione non si fa su Raitre o a Canale 5. E i processi si celebrano in tribunale. Fa bene il macellaio a squartare il vitello, ma non certo davanti a un pubblico pagante. Né basta esibire un’indignazione morale che diventa essa stessa spettacolo. Durante il caso di Rignano, seguendo un’idea ‘neutrale’, furono messi a confronto in televisione i genitori dei bimbi e i presunti pedofili. Esiste, secondo noi, l’abuso di cronaca che dovrebbe essere sanzionato, non in tribunale ma nelle coscienze, dalla cosiddetta deontologia, specie quando l’abuso si spaccia per verità senza tabù, per necessità di sapere, per scoop. Ci sono degli eccessi e ci sono casi di abbrutimento della vita che sono così eccezionali da meritare professionalità eccezionali che sappiano, quando occorre, anche chiudere gli occhi per pietà. Così il racconto di uno stupro, come quello di Rimini, almeno sui grandi giornali come il nostro, deve essere riassunto, mediato dalla professionalità e dal pudore del giornalista, dal riserbo se necessario. Non può diventare un furto d’anima, uno squartamento interiore, il feroce avvilimento dell’umanità, un’orgia scritta di carne e liquidi, di posizioni, di sodomie, tutti convinti di scrivere come Balzac, Simenon e Truman Capote, tutti piccoli Tarantino, tutti virtuosi dello splatter. Tutti arrapati, invece, che con la penna incidono, aprono, fanno l’autopsia, sporcano e si sporcano. La cronaca nera, ci insegnarono i nostri maestri, non si commenta mai. Ma, questa volta, per dirla con Montale: “Codesto solo oggi possiamo dirti, /ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”.
Vittorio Feltri il 16 Settembre 2017 su "Libero Quotidiano": l'informazione si accorge solo ora che la verità fa male. Ma ai tempi di Nicole Minetti...Credo di potermi definire amico di Francesco Merlo, editorialista della Repubblica, col quale per alcuni anni lavorai al Corriere della Sera. Il quale ieri ha scritto un articolo sofferto per deplorare il giornalismo-verità aduso a raccontare i fatti di cronaca con la crudezza con cui sono stati compiuti, non trascurando dettagli scabrosi. Egli condanna i colleghi accusandoli di compiacersi nel descrivere gli scempi commessi da stupratori e assassini. A Merlo, scrittore raffinato, non mancano gli argomenti per trafiggere la categoria cui, come lui, appartengo. Però mi stupisco della sua tardiva consapevolezza del problema che tratta con ardore e disgusto. Narrare le schifezze che contraddistinguono i comportamenti orrendi dell’umanità offende spesso i buoni sentimenti dei lettori, ma bisogna decidere se essi hanno il diritto di sapere oppure se noi pennaioli abbiamo il potere di occultare, addolcire, omettere. Il quotidiano al quale Francesco collabora si è distinto in un recente passato per la tigna con cui ha riferito delle porcherie avvenute nelle istituzioni del Paese e dintorni. Ricordiamo le prodezze della signora D’Addario, della signora Minetti, delle varie olgettine, che la Repubblica ha ricostruito sulle proprie pagine con scrupolo notarile. Tutte costoro sono state cordialmente sputtanate allo scopo di incrementare le vendite. O per sport? La reputazione italiana andò a farsi benedire con quella di Berlusconi. Fu una bella operazione? Non mi pare. Opportunamente Merlo ricorda i grandi inviati del Corriere della Sera, che si dedicarono a fatti di nera, per esempio quello di Rina Fort che massacrò una famiglia a Milano nell’immediato dopoguerra. Mi sono riletto in proposito i pezzi del grande Dino Buzzati, che avrebbe meritato il Nobel se non fosse stato contrastato dalla sinistra perché non apparteneva alla consorteria, e ho scoperto che non trascurò di narrare i particolari della strage, insistendo sul bimbo soppresso mentre era seduto sul seggiolone e mangiava la pappa. Questo dimostra che il giornalismo di un tempo, oggi osannato e rimpianto, non era molto diverso, se si esclude la qualità della prosa, rispetto a quello odierno. Caro Merlo, non diciamo cose inesatte. Buzzati nell’arte di spaccare il capello (specialmente se sporco) era un maestro. I suoi resoconti sui peggiori crimini e sciagure sono passati alla storia e non alla barzelletta. Non voglio dilungarmi, ma hai seguito sulla Repubblica ed altre pubblicazioni chic (si fa per dire) la vicenda dolorosa di Bossetti, all’ergastolo per l’uccisione di Yara? Costui ha appreso di avere una mamma leggerotta, e quindi di essere figlio non di suo padre anagrafico, direttamente dai quotidiani. Nessuno tranne me ha protestato. Sempre dai giornali Bossetti ha saputo che sua moglie gli ha messo le corna quando lui era già in carcere. Bello? Cosicché i bambini del galeotto, ancora via stampa, sono stati informati di essere eredi di un omicida e di una fedifraga, nonché nipoti di un cornuto e di una nonna infedele. Potrei vergare la storia di mille altre persone maltrattate (caso Tortora) dal tuo e da altri giornali organi di informazione, tuttavia, non si sono mai sognati di scusarsi. Adesso arrivi tu a deplorare coloro che hanno stilato articoli sugli ultimi stupri e delitti vari. Non ti sembra di essere lento e troppo critico nei confronti di colleghi che fanno il loro dovere nel porgere ai lettori quanto scoperto nello spulciare le carte processuali? E che dire delle intercettazioni abusive, se non rubate, relative a episodi riguardanti gente più o meno importante, divulgate urbi et orbi dal tuo foglio autorevole, ma non immune dagli stessi difetti che rilevi in altre pubblicazioni che non ti piacciono? Non è un peccato spiattellare la verità, lo è ometterla. Vittorio Feltri
Noemi, convalidato il fermo di Lucio: via dalla Puglia. Il vescovo: mantenere la calma, scrive il 17 Settembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". Prima le urla disperate del padre di Noemi contro il papà di Lucio, da lui accusato di aver avuto un ruolo nella tragica fine della figlia, poi le tre molotov lanciate l’altra notte contro l’abitazione della famiglia del fidanzato e assassino reo-confesso della sedicenne di Specchia. Dopo l’attentato le misure di sicurezza sono aumentate. Il prefetto di Lecce ha disposto la vigilanza sotto casa della vittima e della famiglia di Lucio, che era in casa quando è stato compiuto l’attentato e ha dato l’allarme. Le bottiglie incendiarie sono finite sul terrazzino dell’appartamento della frazione di Montesardo di Alessano, ma non sono esplose perché non innescate. Nessuna conseguenza, quindi, ma l’attentato intimidatorio prova però come la 'guerrà in atto tra le due famiglie abbia raggiunto livelli altissimi. Tutto è accaduto alla vigilia della decisione del gip del Tribunale per i minorenni di Lecce che ha convalidato oggi il fermo del diciassettenne per omicidio premeditato aggravato dai futili motivi e dalla crudeltà e ne ha disposto il trasferimento in una struttura protetta per minori fuori dalla Puglia. Al momento non è dato di sapere quando il minorenne sarà trasferito nell’Istituto protetto per minori fuori regione che sarà scelto sulla base di una valutazione dei servizi sociali e degli psichiatri che lo hanno in cura. Per il giudice, il giovane ha un equilibrio psicofisico «labile» che potrebbe portarlo non solo a fuggire nuovamente da casa, ma anche ad essere pericoloso per se stesso e per i suoi familiari, come dimostrano i tre Trattamenti sanitari obbligatori (Tso) subiti in un anno e richiesti - a quanto si sa - proprio dalla sua famiglia. Sul luogo dell’attentato i carabinieri hanno recuperato i cocci (per rilevare eventuali impronte) delle tre bottiglie di birra trasformate in molotov, lanciate dal lato dell’abitazione che affaccia su via Santa Barbara. I militari stanno inoltre cercando le immagini degli attentatori nelle riprese degli impianti di sorveglianza della zona. Sulla vicenda è intervenuto durante la messa del mattino il parroco di Specchia, don Antonio De Giorgi. In serata un appello alla comunità è stato lanciato anche dal vescovo, monsignor Vito Angiuli. «Stiamo vivendo - dice il parroco - giorni terribili. Invito tutti i cittadini e i parrocchiani di Specchia a mantenere la calma ed il controllo delle parole e delle azioni e a non commettere gesti di cui poi potrebbero pentirsi perché non è con la vendetta che si ottiene giustizia per la povera Noemi». «La violenza porta solo altra violenza - aggiunge - in una spirale che alla fine rischia di distruggere anche l’ultimo brandello di umanità». Sull'omicidio di Noemi è al lavoro anche la Procura ordinaria di Lecce che ha indagato il papà del diciassettenne per concorso in sequestro di persona e occultamento di cadavere. Gli investigatori stanno rileggendo le sue dichiarazioni rese a verbale tra la scomparsa della ragazza (il 3 settembre) fino al ritrovamento del cadavere (il 13 settembre). Il 9 settembre l'uomo dice ai militari di aver saputo più volte dal figlio che "Noemi lo incitava ad ammazzare me e mia moglie» (la stessa versione fornita dal 17enne durante la confessione del delitto) e che la sedicenne «stava raccogliendo danaro» da dare ad un giovane di Patù «che, dopo aver comprato una pistola, mi doveva ammazzare». L’11 settembre il 61enne dice, però, di avere dubbi sulla versione del figlio in relazione alla scomparsa della giovane e ammette per la prima volta: «Ho paura che abbia fatto del male a quella ragazza. Dubbi atroci che ho anche rappresentato all’avvocato». Sarà conferito il 19 settembre, al medico legale Roberto Vaglio, l’incarico di compiere l’autopsia: il medico legale è stato convocato presso la Procura per i minorenni di Lecce alle ore 10 dal pubblico ministero inquirente Anna Carbonara.
Noemi, il 17enne potrebbe aver avuto un complice. Insulti sul web agli avvocati della difesa. Troppe contraddizioni nei racconti del ragazzo che ha confessato di aver ucciso la fidanzata. Il padre è indagato per occultamento di cadavere. La famiglia di Noemi si rivolge a Giulia Bongiorno, scrive Chiara Spagnolo il 18 settembre 2017 su "La Repubblica". Il diciassettenne che si è accusato dell'omicidio della fidanzata sedicenne Noemi Durini potrebbe aver agito insieme a un complice. Si legge tra le righe dell'ordinanza con cui la gip dei minori di Lecce Ada Colluto ha imposto la custodia in carcere minorile, convalidando il fermo per omicidio premeditato e aggravato dalla crudeltà e dai futili motivi ma non per il reato di occultamento di cadavere. Significa che non ci sono elementi univoci sulla responsabilità del ragazzo nella creazione di quel tumulo fatto di pietre e che qualcun altro potrebbe essere intervenuto nella campagna vicino Santa Maria di Leuca per far sparire Noemi. Il padre del diciassettenne B.M., forse. Al momento è l'unico indagato dell'inchiesta della Procura ordinaria, che gli contesta proprio il reato di occultamento di cadavere. Il suo ruolo non è chiaro ma l'attenzione su di lui alta, anche in virtù dell'odio viscerale verso Noemi, tirato fuori a più riprese davanti alle telecamere. E anche dell'accusa precisa lanciata dal papà di Noemi: "E' stato lui, il figlio lo sta coprendo". Tutti questi elementi sono al vaglio degli inquirenti, che non hanno messo la parola fine alle indagini, anche perché la ricostruzione fornita dal reo confesso non è limpida in ogni sua parte, ma ricca di contraddizioni, a partire dall'arma del delitto, che prima ha detto essere stata una pietra e poi un coltello. I dubbi saranno sciolti dall'autopsia, che sarà effettuata martedì 19 settembre dal medico legale Roberto Vaglio, e indicherà con maggiore precisione cosa ha provocato il decesso di Noemi. Altri dubbi riguardano lo stato di salute del 17enne. Per i suoi avvocati (Luigi Rella e Paolo Pepe) "il ragazzo deve essere curato" e, per questo motivo, avevano chiesto che il fermo non venisse convalidato e fosse trasferito in una casa di cura. La gip invece ha accolto integralmente la richiesta della pm Anna Carbonara e disposto la detenzione in un istituto penitenziario minorile, "da individuare fuori dalla Puglia" per cercare di smorzare la carica di violenza nei suoi confronti, che si sta diffondendo aiutata dal web e venerdì notte ha portato ignoti a lanciare due bottiglie molotov contro la sua abitazione di Alessano, in cui si trovavano i genitori. Nel decreto di convalida del fermo, la scelta di applicare la misura cautelare più restrittiva è motivata in virtù "dell'equilibrio psico-fisico labile" dell'indagato, che potrebbe portarlo a fuggire ma anche ad essere pericoloso, per se stesso e per gli altri. Per la difesa, il giovane dovrà essere sottoposto a una perizia psichiatrica, che ne attesti la capacità di intendere e di volere, anche al momento del delitto. Tale strategia processuale è stata duramente condannata dal popolo del web, che in coda agli articoli dei giornali online e sui social ha lanciato accuse durissime contro gli avvocati di L.M., in alcuni casi diventate vere e proprie minacce. Per questo motivo l'Aiga (Associazione italiana giovani avvocati) di Lecce ha stigmatizzato "la deriva populista della grave vicenda di sangue che ha sconvolto il Salento", puntando il dito contro "la spettacolarizzazione delle vicende investigative e giudiziarie, che sta producendo una valanga di insulti e di minacce nei confronti dei difensori". "La gente comune - scrive l'Aiga - sempre di più identifica il presunto colpevole con il suo avvocato, visto quale favoreggiatore se non complice. Ciò significa che si è smarrito il senso civico e si vuole negare il diritto di difesa, costituzionalmente garantito". Restando in tema di assistenza legale, è di poche ore la notizia che la famiglia di Noemi Durini potrebbe essere assistita oltre che dall'avvocato salentino Mario Blandolino anche dall'avvocata Giulia Bongiorno, già presidente della Commissione giustizia della Camera dei deputati, difensore di Giulio Andreotti ma anche di Raffaele Sollecito e fondatrice della onlus Doppia Difesa, che si occupa di donne vittime di abusi e violenze. Intanto a Roma, gli ispettori del ministero della Giustizia inizieranno a breve a vagliare la documentazione sul "caso Noemi" inviata dagli uffici giudiziari minorili di Lecce dopo l'avvio di accertamenti preliminari sul caso. "Valutiamo se nei passaggi davanti alla giurisdizione tutto abbia funzionato o se esistano passaggi che hanno un rilievo disciplinare" ha detto sabato a Lecce il ministro della Giustizia Orlando, che è stato invitato dal sindaco di Specchia, Rocco Pagliara, a presenziare al funerale della ragazzina, che dovrebbe tenersi mercoledì o giovedì. La mamma Imma Rizzo, ha chiesto che le esequie non vengano trasformate in, uno show.
L’urlo degli avvocati: «Basta giustizia show», scrive il 20 settembre 2017 Simona Musco su "Il Dubbio". L’appello dell’ordine di Lecce: «Basta anonimi su internet e basta impunità». «Dobbiamo insegnare che il rifiuto dell’odio serve a far sì che fatti come questo non si ripetano». L’appello del presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Lecce, Roberta Altavilla, è rivolto ad avvocati, magistrati e giornalisti. Ed è stato lanciato durante un incontro organizzato dall’ordine degli avvocati e dalla presidenza della Corte d’Appello, alla presenza del neo presidente Roberto Tanisi, dopo le minacce nei confronti dei legali del reo confesso dell’omicidio di Noemi. «Dobbiamo uscire dai tribunali e insegnare che legalità significa responsabilità e che il rifiuto dell’odio serve a far sì che fatti come questo non si ripetano». L’appello di Roberta Altavilla, presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Lecce, è a tutti: avvocati, magistrati e giornalisti, chiamati a fare rete per arginare l’odio ormai sempre più pervasivo in rete e dire no ai linciaggi. È stato questo il tema affrontato ieri nel corso di un incontro organizzato dall’ordine degli avvocati e dalla presidenza della Corte d’Appello, alla presenza del neo presidente Roberto Tanisi, un incontro urgente a seguito delle minacce nei confronti dei legali del 17enne reo confesso dell’omicidio di Noemi Durini. Il clima a Specchia e Alessano, paesi in cui risiedevano la vittima e il suo presunto assassino, è di tensione. Sono gli stessi primi cittadini, Rocco Pagliara e Francesco Torsello, ad evidenziarlo, richiamando tutti al buon senso e ai «valori della legalità». Gli avvocati salentini si sono schierati con Paolo Pepe e Luigi Rella, i due legali sottoposti alla gogna mediatica, accusati di essere «complici», «parassiti» e ai quali è stata augurata anche la morte. Ma il caso è solo l’ultimo di una lunga serie che ha dato voce al “partito dei forcaioli”. «Abbiamo voluto dare un messaggio di unità e rete tra avvocatura e magistratura nella battaglia contro l’odio – ha spiegato Altavilla – Anche la stampa deve starci accanto. Dispiace molto che questi messaggi di minacce ai colleghi, a corredo di un articolo pubblicato sul web, non siano stati rimossi subito. Il nostro obiettivo è far capire a chi scrive che c’è un principio di responsabilità e che bisogna rispettare la funzione dell’avvocato e la sua terzietà». Un appello è stato rivolto anche alla politica, affinché chi viene colpito da minacce e ingiurie sul web non sia costretto a difendersi da sé. «La tutela deve venire da chi è deputato a questo», ha commentato Altavilla. Tra i soggetti colpiti spesso e volentieri ci sono anche gli avvocati, che hanno un ruolo fondamentale nelle democrazie, ha evidenziato Tanisi. «Ho dato un’occhiata a quei messaggi e sono rimasto allibito. Chi li ha scritti può tentare di fare linciaggi. Anche lo Stato migliore diventerebbe prevaricatore nei confronti del cittadino senza avvocati – ha sottolineato – Però c’è la convinzione diffusa che l’avvocato intralci il corso della giustizia. Ovviamente non è così». Ma il problema, va da sé, non riguarda solo il Salento. «È una questione generale – ha spiegato – che a monte ha un humus culturale degradato. C’è una concezione forcaiola data dall’idea di farsi giustizia da sé che dipende da una sfiducia nella giustizia, che arriva tardi, e in leggi ritenute “permissive”». La soluzione, ha spiegato Tanisi, sta nelle norme e nelle scuole. Convinzione condivisa anche dagli avvocati, che stanno portando avanti un progetto di alternanza scuola lavoro per promuovere la cultura della legalità. Lo scopo è far comprendere ai giovani, ma anche ai loro genitori, che internet è un luogo in cui possono essere commessi anche dei reati. «Ingiuriare, offendere, diffamare, calunniare sono azioni contro la legge – ha rimarcato Altavilla – e chi li compie deve averne la consapevolezza». Ma c’è anche un altro problema da affrontare, ovvero l’immedesimazione del reo con l’avvocato. «Non esiste – ha aggiunto – L’avvocato in quel momento è come il sacerdote che coglie in confessionale il peccato del fedele e non può essere identificato con esso. La moralità comune è cosa diversa dal comportamento deontologicamente corretto dell’avvocato, che deve svolgere il proprio mandato in libertà e autonomia. Faccio appello anche alla stampa, perché il processo show non aumenta il livello della cultura e della giustizia». E va superata anche la cultura dell’anonimato: «la materia va regolamentata – ha aggiunto – è giusto che chi si avvicina al web abbia un nome e cognome. In un sistema nel quale non c’è responsabilità non ci può essere giustizia».
Specchia, il paese di Noemi tra vendetta e sete di giustizia. Molotov lanciate contro la casa dei genitori dell’ex fidanzato killer, scrive Grazia Longo il 18/09/2017 su "La Stampa". Al netto dell’orrore per la morte di Noemi e della sete di vendetta contro i genitori del suo fidanzato-assassino culminata con il lancio di tre molotov contro la loro abitazione, la cifra di questo piccolo centro nel cuore del Salento è l’incomunicabilità. «Nessun uomo è un’isola» scriveva Thomas Merton, ma a Specchia - cinquemila anime tra un borgo antico e una periferia cresciuta troppo in fretta - c’è una comunità smarrita. Dove ciascuno è rinchiuso nella propria isola e fatica a confrontarsi con gli altri. Non c’era vero dialogo tra i due ex innamorati, per la gelosia spietata di quest’ultimo, schizoide e manipolatore, che ha spento sogni e desideri della bella e dolce sedicenne. Non c’era comprensione tra Lucio e i suoi genitori, in particolare il padre, che hanno ostacolato il suo fidanzamento con pedinamenti e botte. Non c’era possibilità di confronto tra le due famiglie, se non a colpo di denunce e contro denunce. E oggi assistiamo al gesto estremo di chi vuole farsi giustizia da sé. Non parole di condanna, o richieste di un chiaramente per un delitto brutale e ancora avvolto nel giallo ma un episodio concreto. Terribile e insidioso. Certo, le tre bottiglie di benzina scagliate alle tre della notte tra venerdì e sabato scorso contro la finestra della villetta di Lucio, nella vicina Montesardo frazione di Alessano, non erano accese. Eppure la sensazione è ugualmente devastante. In passato, prima dell’omicidio, chissà, qualcuno si è forse girato dall’altra parte di fronte a un 17 enne sulla 500 del padre pur senza patente e maltrattava in pubblico la sua ragazza. Oggi invece in molti hanno cercato di linciarlo quando l’altra notte è uscito dalla caserma dei carabinieri dopo aver confessato e qualcuno con le molotov ha deciso di sostituirsi alla legge e punire i suoi genitori. Forse in particolar modo suo padre, indagato per sequestro di persona e occultamento di cadavere. Ma sarebbe troppo facile inquadrare questo dramma in un contesto sociale di indifferenza. La realtà ha tanti volti. Accanto a quelli, sconosciuti, di chi ha confezionato e scaraventato le molotov artigianali ci sono anche quelli degli amici di Noemi che escono dalla sua casa. «Fatti come questo non aiutano nessuno - dice una ragazzina con i capelli lunghi schiariti sulle punte -. L’unico modo per rendere giustizia a Noemi è mandare in prigione il fidanzato che invece si finge pazzo». Un adolescente con la camicia di jeans e un berretto con la visiera: «Anche il parroco ha detto che così non andiamo da nessuna parte. Ha ragione lui: ci vuole giustizia, non vendetta». E un pensionato che è venuto a porgere le condoglianze ai genitori di Noemi «anche se non li conosco» insistite che «qui siamo brava gente, non vogliamo diventare la nuova Avetrana». Il sindaco Rocco Pagliara difende il suo paese: «Le molotov sono un atto spregevole ma isolato, frutto forse dell’esasperazione per le parole dei genitori del ragazzo che lo hanno difeso sostenendo che con l’omicidio si è liberato una volta per tutte di Noemi. Ma Specchia non cerca vendetta, è con la legge. Ho parlato anche con il sindaco di Alessano, Francesca Torsello, entrambi ribadiamo che le nostre comunità sono sane». Ecco allora snocciolati i dati sulle tante associazioni di volontariato che a Specchia coinvolgono i giovani, il Festival del cinema del reale che a luglio richiama tanti spettatori e la bandiera arancione attribuita al borgo antico dalle organizzazioni turistiche. Intanto ieri sera una folla ha partecipato alla veglia di preghiera nella chiesa di Sant’Antonio. Il vescovo della Diocesi di Ugento, monsignor Vito Angiuli, ha voluto celebrare una messa anche per stemperare il clima di tensione. E il parroco di Specchia, Antonio de Giorgi, ribadisce: «Viviamo giorni terribili. La tragedia che ha colpito la nostra comunità e lo shock che ne è seguito ci chiama a una prova dura e difficile. Invito tutti i a mantenere la calma e il controllo delle parole e delle azioni e a non commettere gesti di cui potrebbero pentirsi». Non si ferma, nel frattempo, l’inchiesta giudiziaria. I difensori del ragazzo, che compirà 18 anni a dicembre, gli avvocati Luigi Rella e Paolo Pepe, puntano a una perizia psichiatrica per verificare la capacità di intendere e di volere al momento del delitto. Ipotesi che fa inorridire la madre della vittima, Imma Rizzo: «Ma quale pazzo! Anche se ha avuto i tre Tso e prendeva psicofarmaci, quello è furbo e spietato». Anche il padre, Umberto Durini insiste: «L’ha uccisa nel peggiore dei modi. E chissà fino a che punto è coinvolto anche suo padre».
Intanto il gip ha convalidato il fermo solo in relazione al reato di omicidio volontario pluriaggravato, ma non per l’occultamento di cadavere. Sul lancio delle molotov non ci sono immagini, perché il vicino di casa aveva disattivato le telecamere di sorveglianza. Il prefetto di Lecce ha disposto la vigilanza sotto casa della vittima e della famiglia di Lucio. L’autopsia è prevista domani, entro giovedì il funerale.
Noemi, minacce e insulti sul web agli avvocati del 17enne, scrive Erasmo Marinazzo Lunedì 18 Settembre 2017 su "Il Quotidiano di Puglia". Insulti e minacce agli avvocati che hanno preso la difesa del 17enne reoconfesso dell’omicidio della fidanzata Noemi Durini, 16enne di Specchia. Il “partito forcaiolo” si è scatenato sul web appena i genitori di L.M., di Alessano, hanno nominato l’avvocato Paolo Pepe. E anche all’avvocato Luigi Rella è stata riservata una sfilza di parole offensive - ed anche l’auspicio che certe cose accadano alla sua famiglia - sull’inopportunità di garantire la difesa a chi ha ammesso di aver ucciso la giovanissima fidanzata con un colpo di coltello alla gola ed un colpo di pietra alla testa. Intanto la casa di L.M. è presidiata giorno e notte. Lo ha stabilito il prefetto Claudio Palomba, dopo che nella notte fra venerdì e sabato sono state scagliate due molotov. Non sono esplose, ma danno comunque la dimensione del livello di tensione. Il web invece si è riempito di sfoghi e di rancori soprattutto dopo che l’avvocato Rella - davanti alle telecamere delle tv - ha spiegato che il ragazzo si è avvalso della facoltà di non rispondere, che ha bisogno di cure e che chiederà, insieme con il collega Pepe, una perizia psichiatrica sulla capacità di intendere e di volere al momento del fatto e sulla capacità di stare in giudizio. Nella giornata odierna i legali dell’indagato per omicidio volontario aggravato dalla premeditazione, dalla crudeltà e dai futili motivi, stabiliranno se presentare un esposto in Procura ed anche se chiedere l’intervento del Consiglio dell’Ordine degli avvocati. Intanto sul linguaggio dell’odio è intervenuto l’avvocato Michele Laforgia: «Chi insulta e minaccia gli avvocati che fanno il loro dovere, invece, ne è complice». Gli strali più offensivi sono tutti raccolti nella sezione commenti del video in cui parla l’avvocato Rella. Commenti che, per scelta, non pubblichiamo. C’è anche chi ha attaccato l’intera categoria. In pratica i legali di L.M. sono diventati i parafulmini delle ingiurie e delle accuse del processo, con giustizia sommaria, e senza diritto alla difesa, riservato dalla rete al ragazzo. Esponente dell’associazione “Antigone per i diritti e le garanzie del sistema penale”, l’avvocato Laforgia è intervenuto sulla sua pagina Facebook: «Il minorenne che ha assassinato Noemi aveva subito tre Tso, acronimo che sta per trattamento sanitario obbligatorio. Una misura eccezionale ed estrema, che si adotta nei confronti dei malati psichici pericolosi per se stessi e per gli altri. Eppure quel minorenne non è stato curato né fermato prima di commettere un delitto atroce. Com’è stato possibile? E come si può - perché si può, e si deve - prevenire tragedie terribili come questa? Sono domande difficili, me ne rendo conto, perché la morte di una sedicenne tende a travolgere emotivamente ogni riflessione e soprattutto perché comportano l’assunzione di un principio di responsabilità collettiva, come dovrebbe accadere sempre quando il sangue di un innocente rischia di travolgere le basi della nostra convivenza sociale, famiglie comprese. Il processo serve anche a questo. A rendere possibili queste domande e, magari, a trovare qualche risposta, senza annegare tutto nella invocazione di altro sangue. Chi assume la difesa dell’imputato difende anche tutti noi dalla stessa ottusa violenza che ha reso possibile il delitto. Chi insulta e minaccia gli avvocati che fanno il loro dovere, invece, ne è complice».
Noemi, spunta un teste. «Inseguiti da un'Ibiza». Una seconda auto sulla scena? Il racconto in tv: quella notte l'ho vista salire in auto col fidanzato, scrive il 19 Settembre 2017 Gianfranco Lattante La Gazzetta del Mezzogiorno. Una seconda auto. Un testimone. Il sospetto di un complice. Le indagini sull’omicidio di Noemi Durini, la 16enne di Specchia uccisa dal fidanzato 17enne, si arricchiscono di nuovi elementi. Ora spunta un testimone che, ai microfoni della trasmissione «Mattino Cinque», ha raccontato di aver visto Noemi (proprio la notte in cui è scomparsa, il 3 settembre scorso) salire sull’auto del fidanzato e di aver notato una seconda macchina, una Seat di colore verde, che li avrebbe seguiti: «Ho visto sfrecciare una Seat davanti a me, una Ibiza verdone, vecchio modello». Il testimone, dunque, avanza l’ipotesi che quella notte ci fosse una seconda auto coinvolta nell’omicidio. Gli investigatori frenano ma non smentiscono che sono in corso indagini alla ricerca di un eventuale complice. La confessione del fidanzato di Noemi non sembra essere convincente nella parte in cui sostiene di aver fatto tutto da solo. Di certo i carabinieri hanno acquisito e stanno esaminando i filmati delle telecamere che si trovano lungo la statale che porta al luogo in cui è stato trovato il cadavere di Noemi, nelle campagne di Castrignano del Capo, ad una decina di chilometri da Specchia. Gli investigatori stanno verificando il passaggio di tutte le auto, concentrando l’esame intorno agli unici orari che, al momento, sembrano essere certi. Sono quelli forniti dalla telecamera installata vicino alla casa di Noemi: alle 5.09 la Fiat Cinquencento condotta dal 17enne si allontana con la ragazza a bordo. Finora, per concorso in occultamento di cadavere e sequestro di persona, è indagato il papà 61enne del ragazzo, sul quale sono in corso accertamenti che tendono a verificane gli spostamenti subito dopo la scomparsa della vittima. Ma non risulta che l’uomo abbia in uso una Seat. L’assassino reo confesso di Noemi, da ieri mattina, non è più nell’istituto minorile di Monteroni. È stato trasferito a Bari ma, secondo quanto disposto dal gip Ada Colluto del Tribunale dei minori di Lecce, dovrà andare in Sardegna, in una struttura specializzata dove sarà curato. Nell’ordinanza di custodia cautelare, infatti, il gip lo descrive come un ragazzo con «un’organizzazione borderline della personalità con capacità intellettive al limite» che non mostra segni di «un reale senso di colpa». Per il gip il ragazzo deve seguire «un percorso trattamentale altamente specialistico», anche se al momento, non ci sono elementi per ritenere che al momento dell’omicidio «non fosse pienamente in grado di intendere e di volere». Il trasferimento in Sardegna è anche un modo per tenerlo lontano dalla guerra in corso fra la sua famiglia e quella della vittima, dal clima di avversione sociale nei suoi confronti, sfociata nel lancio di tre molotov non innescate contro l’abitazione dei suoi genitori. Oggi, intanto, sarà eseguita l’autopsia. L’accertamento potrà fare chiarezza sulle modalità e sull’arma dell’omicidio: pietra o coltello? Il ragazzo ha sostenuto di aver ucciso Noemi con alcune coltellate al collo. Della presunta arma del delitto non è stata trovata traccia. Dalla Tac non sarebbero emersi segni di fratture tali da far pensare a colpi di pietra. Il papà di Noemi ha contattato l’avvocato Giulia Bongiorno (che in passato ha difeso Giulio Andreotti e Raffaele Sollecito) per l’assistenza legale. Intanto i difensori del 17enne sono finiti al centro di minacce sul web. E proprio questa mattina l’ordine degli avvocati di Lecce insieme con la presidenza della Corte d’Appello ha organizzato un incontro su «Linguaggio dell’odio, diritto di difesa e informazione sul web».
Noemi, un testimone in tv: «C'era un'altra auto», scrive Erasmo Marinazzo su “Il Quotidiano di Puglia” il 18 settembre 2017. «La notte del 3 settembre percorrevo quella strada. Alle tre e mezzo ho notato il ragazzo arrestato, a bordo di una Fiat 500 bianca. Stava da solo. Stavo andando verso l’incrocio sulla destra ed ho visto sfrecciare davanti a me una Seat Ibiza verdone, vecchio modello». E’ la testimonianza raccolta dai microfoni di “Mattino Cinque”. Un ragazzo del Capo di Leuca ha raccontato di aver visto L.M. la notte del 3 settembre vicino alle campagne fra Santa Maria di Leuca e Castrignano del Capo, alla guida della macchina dei genitori. E di aver visto passare lo stesso modello di macchina indicata dal giovane che si trova in un Istituto penale per minori, con l’accusa di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione, dai futili motivi e dalla crudeltà, nella quarta delle versioni sulla scomparsa della fidanzata Noemi Durini: una Seat Ibiza. Si tratta di una testimonianza che al momento non ha trovato riscontri nei filmati, anche quelli più recenti, acquisiti dai carabinieri. E che potrebbe invece servire a capire se L.M. abbia fatto o meno un sopralluogo nelle campagne dove qualche ora più tardi avrebbe condotto la fidanzata. Per ucciderla. Tuttavia chi ha parlato al microfono non ha riferito nulla di ciò che ha visto agli inquirenti. La ricostruzione della sequenza tragica di domenica 3 settembre ha come punto fermo il filmato dell’impianto di video sorveglianza di una villa poco distante dalla casa della ragazza, a Specchia: L.M. e Noemi sono stati ripresi a bordo della Fiat 500 bianca alle 5.05. Il fidanzato era arrivato lì alle 4.51, nel video si vedono ripartire alle 5.09. Più tardi, almeno un’ora più tardi, i fidanzati sono stati ripresi mentre passavano da Santa Maria di Leuca all’altezza del santuario sulla strada per Castrignano del Capo. Stavano per raggiungere contrada San Giuseppe dove mercoledì scorso L.M. ha fatto ritrovare il corpo della ragazza. E la Seat Ibiza? Ne parlò L.M. ai carabinieri dopo che gli fecero presente l’esistenza del filmato in cui era stato ripreso davanti casa di Noemi e della possibilità che altri impianti di videosorveglianza confermassero che avessero trascorso insieme la nottata. Sentito appena la madre della ragazza presentò la denuncia di scomparsa, nella tarda mattina del 6 settembre, L.M. sostenne di non saperne nulla: non la vedeva dal 28 agosto perché si erano lasciati. Messo al corrente del filmato cambiò versione almeno altre due volte, fino a raccontare di averla accompagnata alla rotatoria per Morciano di Leuca. Lì, ad attenderli, ci sarebbe stata una Seat Ibiza, di colore nero, con un uomo alla guida. Noemi sarebbe scesa dalla Fiat 500 per salire a bordo dell’altra auto e allontanarsi. Tutto inventato: dopo le perquisizione in casa, il sequestro della macchina con il ritrovamento di tracce di sangue, l’avviso di garanzia con la contestazione di omicidio volontario, L.M. la mattina del 13 settembre ha chiesto di parlare con i carabinieri. E si è liberato del peso di aver ucciso la fidanzata: ha fatto ritrovare il corpo, ha accompagnato gli investigatori nelle campagne di contrada San Giuseppe. Caso chiuso? No. Ancora no. Perché se l’indagato ha sostenuto di avere ammazzato Noemi con un colpo di coltello alla testa e che la lama si sarebbe spezzata all’interno, è vero anche che la Tac ha smentito questa ricostruzione: la lama non è stata individuata. Qualche chiarimento potrebbe arrivare dall’autopsia prevista nella giornata di oggi. Il medico legale Roberto Vaglio cercherà di capire se quelle lesioni sulla parte sinistra del collo siano compatibili con una coltellata. E verificherà anche le lesioni sulla testa che potrebbero essere state procurate con la pietra intrisa di sangue, trovata a circa cinque metri dal corpo di Noemi. Servirà, insomma, l’autopsia, a verificare l’attendibilità dell’indagato. A difenderlo, gli avvocati Luigi Rella e Paolo Pepe, mentre la famiglia di Noemi si è affidata a Giulia Bongiorno ed Mario Blandolino.
Noemi, la perizia psichiatrica sul fidanzato: "Capacità intellettiva al limite", scrive il 18 Settembre 2017 "Libero Quotidiano". È questa la patologia di cui soffrirebbe Lucio, il 17enne che ha confessato di avere ucciso Noemi Durini, la sua fidanzata 16enne: "Un'organizzazione borderline di personalità con capacità intellettive al limite". Emerge nel decreto di convalida del gip del Tribunale per i Minorenni di Lecce Ada Colluto, in riferimento alla relazione neuropsichiatrica psicologica del dipartimento di salute mentale dell'Asl di Lecce redatta lo scorso 14 settembre. Per il gip, il giovane "non manifesta cenni di reale senso di colpa". Nel decreto di convalida del fermo il gip ritiene che sussista un pericolo di fuga, c'è la possibilità che "egli non rimanga coerente in quel suo atteggiamento rispetto alla vicenda e si renda irreperibile magari anche per cercare di risolvere a suo modo la situazione di totale avversione sociale che avverte nei confronti suoi e della sua famiglia". Tutti elementi comunque che secondo il magistrato "non possono portare in ogni caso a ritenere in questa fase che" il ragazzo "non fosse pienamente in grado di intendere e di volere nel momento in cui ha commesso l'azione delittuosa. È evidente - conclude - che allo stato non è possibile soddisfare le esigenze cautelari con misure meno gravi, mentre proprio un contesto totalizzante, pienamente regolato e separato come quello dell'Istituto penale minorile può consentire di creare le condizioni minime per la profonda ricostruzione della personalità".
Omicidio di Noemi Durini, pm chiede la perizia per Lucio, il diciassettenne reo confesso, scrive il 30 Settembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". Lucio, il 17enne e assassino reo-confesso di Noemi Durini, era capace di intendere e di volere quando ha assassinato la sua fidanzata? E’ la domanda che il pm del Tribunale per i minorenni di Lecce, Anna Carbonara, rivolge al gip Ada Colluto chiedendole di disporre un incidente probatorio che accerti nell’immediato la capacità processuale dell’indagato, detenuto per omicidio volontario aggravato dalla premeditazione, dai futili motivi e dalla crudeltà. Lucio è ritenuto dai sanitari un ragazzo difficile e violento perché faceva uso di droghe leggere e perché, in un anno, è stato sottoposto a tre trattamenti sanitari obbligatori, i cosiddetti Tso. Gli stessi difensori del giovane, subito dopo il fermo per l'omicidio, avevano presentato al Tribunale una richiesta per procedere a una perizia psichiatrica che ne attestasse la capacità di intendere e volere al momento dei fatti. L'accertamento chiesto dal pm minorile è ritenuto fondamentale dalla Procura, che ritiene pure che si debba svolgere nell’immediato piuttosto che nella fase processuale i cui tempi potrebbero pregiudicare irreparabilmente la valutazione psichiatrica del giovane, che a dicembre diventerà maggiorenne. L'indagine tecnico-scientifico è rilevante per la decisione dibattimentale. Infatti, ai sensi dell’articolo 98 del Codice penale, la capacità di intendere e volere del minore che ha compiuto 14 anni ma non ancora i 18, a differenza dell’adulto, non è presunta, ma deve essere accertata. Nel caso in cui dovesse essere accertata l’incapacità di intendere e di volere, Lucio potrebbe finire, se ritenuto colpevole, in un manicomio giudiziario; se il vizio di mente dovesse essere parziale, il diciassettenne risponderà del reato commesso, ma la pena sarà diminuita. Lucio, detenuto presso l’Istituto penale minorile di Quartucciu (Cagliari), in Sardegna, avrebbe picchiato e poi accoltellato a morte la fidanzata all’alba del 3 settembre scorso, giorno il cui la sedicenne scomparve da Specchia, città del Basso Salento in cui viveva. Il cadavere fu fatto ritrovare dallo stesso fidanzato dopo 10 giorni, il 13 settembre, nelle campagne di Castrignano del Capo, sulla strada per Santa Maria di Leuca. Il corpo si trovava sotto un cumulo di pietre. Le telecamere di sorveglianza nella zona avrebbero accertato che Lucio avrebbe agito da solo al momento del delitto. Per il sequestro di persona e occultamento di cadavere è invece indagato a piede libero il papà del ragazzo.
Avetrana, Specchia e le pietraie d'Italia figlie del Grande Fratello. Villaggi dai nomi sconosciuti, che un giorno tutti imparano per le ragioni più atroci. Villaggi senza età né futuro. Storditi davanti a un televisore, incantati da personaggi che non esistono, scrive Massimo Del Papa il 18 settembre 2017 su "Lettera 43". Quante sono le Avetrana, le Specchia che covano mostri? Anus mundi, villaggi dai nomi sconosciuti, senza età, senza futuro, che un giorno li imparano tutti, per le ragioni più atroci. Morto il mito ambiguo, consolatorio della provincia lontana dalla metropoli e dalle sue perversioni, feroce nei suoi rituali presociali ma almeno sana nel preservarne i legami e quei valori ingenui forse mai esistiti, resta la realtà delle ragazzine scannate per niente, delle faide familiari, la banalità di un male più banale, senza neppure l'alibi dell'illusione.
TERRE DI NIENTE E DI NESSUNO. Noland, terre di niente e di nessuno, senza speranze, che i telegiornali mostrano simili a pietraie dell'Afghanistan, ma qui la gente ci nasce e non vuole andarsene, si limita a sospettare altre forme di vita su altri pianeti mostrati dalla televisione, neanche internet, che serve a chattare la non-vita di ogni minuto, proprio l'eterna televisione che poi, un giorno, mostra «in diretta» il ritrovamento dei loro cadaveri in un pozzo o un bosco o una cava, come una lapidazione postuma. Sostituendosi ai carabinieri, ma col loro permesso, com'era successo, e sempre da Chi l'ha visto?, per la giovanissima Sarah Scazzi e come si è ripetuto per la pressoché coetanea Noemi Durini, quindici, sedicenni per le quali la stessa televisione del brutto e del macabro spreca le formule del decadentismo romanzato borghese, «aveva una relazione difficile», «il fidanzato», «il legame tormentato». Ragazzine irretite in una vita che non arriva mai, ma che è l'unica che c'è, finché c'è.
E RIPARTE LA FAIDA. «Abbiamo fatto l'amore» confessa il «fidanzatino» con fare vissuto, «poi l'ho massacrata con un sasso». E alla gente che lo vuol linciare fa le linguacce da Gain Burrasca ritardato, la manda affanculo, lascia biglietti sgangherati, veri o apocrifi, che sembrano usciti da romanzi d'appendice che non leggerà mai, neanche in carcere: «Era meglio che mi ammazzavo io». E già gli hanno spiegato che, «gestito» come si deve, cioè «facendo il pazzo», come teme la madre di Noemi, uscirà prestissimo perché c'è sempre qualche prete sociale, ma soprattutto mediatico, che lo aspetta. E puntuale, nelle pietraie del Sud d'Italia, ma non necessariamente, riparte la faida, il padre della vittima che vuole sterminare l'altra famiglia, i parenti dell'omicida, abbonato al Tso, per niente ammansiti, che danno la colpa alla ragazzina trucidata, il parroco che fa il Ponzio Pilato, «Io non ne sapevo niente», unico in una noland dove tutti sanno tutto e sapevano del disagio della madre di Noemi, Imma, anche lei con storie difficili alle spalle, con altri figli da mantenere, costretta a una trama di lavoretti duri e inutili, ma nessuno o quasi l'aiuta e tutti sanno tutto. Tranne il parroco. Lo stesso che adesso guida il comitato dei festeggiamenti, perché a Specchia, Afghanistan italiano, hanno subito colto al balzo la palla nell'abisso umano per inventarsi una sorta di fiera, di sagra che avrebbe fatto impazzire Fellini: processione del feretro, magari con inchino davanti casa dei notabili, corteo di motociclette rombanti, fiori, la banda che suona come dopo un delitto di mafia, la gigantografia di lei tratta da Facebook, altoparlanti, maxischermo, fortuna che Imma in un sussulto di orrore s'è opposta: no a tutto, ha ringhiato, altrimenti il casino lo faccio io.
LE LITANIE DEL DOLORE. Su Facebook la ragazzina Noemi postava le sue litanie del dolore, «se non ti rispetta non è amore, se ti alza le mani non è amore», ma si lasciava pestare e a mollare quel balordo di villaggio non ci pensava, un conto era la ragione del social, un altro la sua vita non-vita che era l'unica che aveva e un'altra vita sapeva non sarebbe mai arrivata. E così, un brutto giorno arriva la resa dei conti e il «fidanzatino» chiude la storia, senza una ragione, così, perché gli è salita la furia, perché il Tso non funzionava. Anche il ministro Andrea Orlando sospetta, con la prudenza del burocrate, «che qualcosa non abbia funzionato» e così ha mandato gli ispettori i quali, inutili come tutti gli ispettori, concluderanno nella nebbia e nel discarico di responsabilità, anche se la madre Imma disperata aveva fatto due o tre denunce, puntualmente cascate nel vuoto di chi tutto sapeva, tutto si aspettava. Quante sono le pietraie d'Italia dove il buon senso, l'umanità, il diritto finiscono inghiottite?
UN ANTIDOTO STORDENTE. «Io quando le vedo alla televisione queste storie non mi sembrano vere, invece siamo noi», ha detto alla televisione, in un fiorire di anacoluti, qualche ragazzina del posto. E la televisione è ancora l'unico antidoto alla noia della pietraia, insieme alle canne e, a volte, altra roba più forte. Ma la televisione è la più stordente di tutte. Hanno calcolato che la prima puntata del Grande Fratello Vip è stata vista dal 25% dei televisori, uno su quattro accesi, 4,5 milioni di spettatori che si bevono gli aneliti di Malgioglio e i fratelli di Belen. In crescita rispetto agli anni scorsi. Uno su due ha tra i 15 e i 24 anni, una su tre è donna, particolarmente al Sud. Tutto per un programma che non esiste, con personaggi che non esistono, con un copione che non c'è anche se la sua narrazione pornografica ha sostituito i romanzi d'appendice, giunto al suo 17esimo anno. Ovviamente non si vuol dire che chi guarda il Grande Fratello poi diventa balordo e criminale, si vuol semplicemente dire che, nelle mille pietraie d'Italia, l'orizzonte culturale è quello, la speranza di vita è quella. E non cambia.
La negligenza dei PM. Marianna Manduca e le altre o gli altri. Per la Corte di Cassazione 12 denunce disattese valgono “la negligenza inescusabile” dei PM. Commento di Antonio Giangrande. Scrittore e sociologo storico. Trattare il caso di Marianna Manduca, anche in video, è come trattare miriadi di casi identici, così come ho fatto in “Ingiustiziopoli. Disfunzioni del sistema che colpiscono i singoli”, e mi porta ad affrontare un tema che tocca argomenti inclusi in vari saggi da me scritti e pubblicati su Amazon e su Lulu.
Per la verità la decisione della Corte di Cassazione, tanto enfatizzata dai media, è intervenuta solo per affermare un principio giuridico formale. La Suprema Corte ha accolto il ricorso con il quale il tutore dei tre bambini (Carmelo Calì che è un cugino della loro mamma che vive a Senigallia, nelle Marche) ha fatto valere il diritto dei piccoli a ottenere giustizia. La Corte di Appello di Messina non potrà più respingere la richiesta sostenendo che sono scaduti i termini e che l’azione andava esercitata entro i due anni dalla morte di Marianna. Per la Cassazione invece le argomentazioni dei magistrati messinesi «non hanno giuridico fondamento» perchè - spiegano i supremi giudici - il termine biennale, in un caso del genere, non può decorrere dal giorno della morte della donna ma «dal momento in cui i minori stessi avessero acquistato la capacità di agire», ovvero dal giorno in cui un adulto veniva ufficialmente nominato loro tutore.
La Corte Suprema, sulla base della legge del 1988 sulla responsabilità civile dei magistrati, ha affermato che i figli di Marianna ora potranno avere un risarcimento dallo Stato per la «negligenza inescusabile» dei pm che avrebbero dovuto invece occuparsi di quelle denunce.
Tanto si è parlato del caso di Marianna Manduca. Per la Cassazione i magistrati non diedero importanza alle denunce della donna poi uccisa dal marito ed è per questo che i suoi tre figli hanno diritto ad un risarcimento. Il padre uxoricida è stato condannato a soli venti anni di reclusione. Le aggressioni alla ex moglie erano tutte avvenute in pubblico. Ciò nonostante nessuno condusse indagini e nemmeno prese provvedimenti a tutela della donna in pericolo, nonostante le sue richieste di aiuto.
«Spesso la legge non tutela le donne, ma in questo caso anche quelle previste non sono state applicate - denuncia l'avvocato Corrado Canafoglia - è incredibile che 12 dodici aggressioni avvenute in strada, pubblicamente e alla presenza di testimoni l'uomo non sia stato allontanato». Ergo: sbagliano le toghe, pagano gli italiani, muoiono le vittime.
Ma a tutti è sfuggito un particolare importante che porta a chiederci: per le toghe quante denunce insabbiate valgono una vita umana? Una, due, tre, dieci…Oppure fino a che punto lo stantio o l’inerzia provoca l’inevitabile evento denunciato?
E perché, come ai poveri cristi, alle toghe omissive non viene applicato il reato di omissione d’atti di ufficio, ex art. 328 C.P.? Non si paventa il dolo omissivo?
Non si pensi che la morte di Marianna Manduca sia un caso isolato e riferito solo alla trinacride magistratura. Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. «La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio».
La sua storia è esemplare: è il padre di Carmela. «Una ragazzina di 13 anni - scrive Alfonso - che il 15 aprile del 2007 è deceduta volando via da un settimo piano della periferia di Taranto, dopo aver subito violenze sessuali da un branco di viscidi esseri», ma poi anche le incompetenze e la malafede di quelle Istituzioni che sono state coinvolte con l’obiettivo di tutelarla», perché «invece di rinchiudere i carnefici di mia figlia hanno pensato bene di rinchiudere lei in un istituto (convincendoci con l’inganno) ed imbottendola di psicofarmaci a nostra insaputa». Carmela aveva denunciato di essere stata violentata; e nessuno, né polizia, né magistrati, né assistenti sociali le avevano creduto o l’avevano presa sul serio. Ma le istituzioni avevano anche fatto di peggio. Hanno considerato Carmela «soggetto disturbato con capacità compromesse» e, quindi, poco credibile.
Invece di perseguire chi l’aveva violentata, hanno di fatto perseguito una bambina rinchiudendola in vari istituti in cui Carmela non voleva stare. E, come ha denunciato il padre, usando il metodo facile di «calmarla» con psicofarmaci.
Fin qui la questione attinente al femminicidio.
L’uomo orco da scotennare? No! C’è un paradosso da non sottovalutare. Se i Pm insabbiano, i giudici sono punitivi.
«Giudici punitivi, sempre dalla parte delle madri. E padri disperati: troppe le storie quotidiane di sofferenza atroce». E’ agguerrito Alessandro Poniz di Martellago (Ve), coordinatore Veneto dell’associazione Papà Separati. Esprime la rabbia e la frustrazione che ogni giorno tanti genitori «vessati dall’ex coniuge» riversano su di lui. «Ci si scontra continuamente con madri “tigri” tutelate dalla legge - accusa Poniz - . Non mi stupisce il dramma del papà di Padova. Sì, sono convinto che per la disperazione si possa arrivare a togliersi la vita. Sapete quanti padri si presentano puntuali a prendere i figli, secondo le sentenze stabilite dai tribunali, suonano il campanello e vengono mandati via dalla madre con la scusa che il bimbo è ammalato? Escamotage simili vanno avanti per anni... E quanti scontano l’odio e il rancore di figli “plagiati” dalle madri?».
«Il sistema non è mai pronto a intervenire tempestivamente», sostiene Alessandro Sartori, presidente Veneto dell’associazione italiana avvocati per la famiglia e per i minori (Aiaf). «Ci vorrebbe una formazione specifica sia per i giudici che per i servizi sociali. A volte sono chiamati a pronunciarsi su questa materia delicatissima giudici che fino al giorno prima si occupavano di diritto condominiale...».
Divorzi e paternità: ecco come la donna violenta l'uomo. False denunce e false accuse tra violenze fisiche, verbali e paternità negate. Nella coppia la donna diventa sempre più violenta. Ecco i risultati sconcertanti del questionario, scrive Nadia Francalacci su “Panorama”. “Sono prive di fondamento le teorie dominanti che circoscrivono ruoli stereotipati: donna/vittima e uomo/carnefice”. Ad affermarlo è la psicologa forense Sara Pezzuolo, dopo aver condotto in Italia la prima “Indagine conoscitiva sulla violenza verso il maschile”. “Dal questionario emerge come anche un soggetto di genere femminile sia in grado di mettere in atto una gamma estesa di violenze fisiche, sessuali e psicologiche - continua a spiegare a Panorama.it, l’esperta - che trasformano il soggetto di genere maschile in vittima”.
E quando gli affidi diventano scippi e le vittime sono i figli ed entrambi i genitori?
Ci sono i falsi abusi, ma che realizzano vere tragedie. Solo 3 denunce su 100 si concludono con una condanna.
Minori strappati dalle mura domestiche e rinchiusi all’interno di comunità. Storie di sofferenze, abusi, maltrattamenti, ma anche di errori giudiziari, che segnano indelebilmente la vita di minori, costretti a vivere e crescere in comunità o famiglie affidatarie lontane dall’affetto dei genitori.
Da quanto detto si estrae una semplice conclusione. Il sistema esaspera gli animi ed il debole soccombe. Non vi è differenza di sesso od età. Solo i media esaltano il fenomeno del femminicidio. Lo fanno per non colpire i veri responsabili: i magistrati.
Bene. Anzi, male. Perché se è vero, come è vero, che questo sistema della stagnazione delle denunce o la loro invereconda procedibilità viene applicato anche per qualsiasi altro tipo di reato violento, allora si è consapevoli del fatto che ogni vittima è rassegnata al peggio. Si badi bene. Qui si parla anche di vittime di estorsioni. Quindi vittime di mafia. Senza parlare poi delle vittime di errori giudiziari.
Ecco, allora, chiedo a Voi toghe. Quando scatterebbe la “la negligenza inescusabile” dei PM che provoca morte o rassegnazione, dopo una, due, tre, dieci…denunce? Ce lo dite con una vostra alta sonante pronuncia, in modo che noi vittime, poi, teniamo il conto di quelle già insabbiate. Se poi, in virtù dell’indifferenza sopravviene la morte, chissà, forse i nostri figli si potranno rivalere economicamente, non sui responsabili, come sarebbe giusto, ma, bontà vostra, sui nostri e vostri concittadini che pagano le tasse anche per quei risarcimenti del danno. Danni riferiti a responsabilità dei magistrati, ma non a questi addebitati.
È morta la 15enne di Ischitella colpita al volto dall'ex della madre, scrive il 21 Settembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". E’ morta la ragazza di 15 anni, Nicolina Pacini, che ieri era stata ferita al volto da un colpo di pistola sparato dall’ex compagno della mamma, Antonio Di Paola, di 37 anni, che, dopo una fuga nelle campagne circostanti il paese, si è ucciso sparandosi con la stessa arma, una calibro 22. La ragazza è morta poco prima delle 7 di questa mattina per un ennesimo arresto cardiaco. La quindicenne, Nicolina Pacini, ieri, intorno alle 7.30, stava scendendo le scale di via Zuppetta, a Ischitella, per raggiungere la fermata dell’autobus che l’avrebbe condotta a scuola, a Vico del Gargano, quando è stata avvicinata da Antonio Di Paola, che - probabilmente - le ha chiesto notizie della mamma, Donatella Rago, di 37 anni, fino ad un mese fa la sua compagna. Al rifiuto della ragazzina, l’uomo avrebbe sparato colpendola al viso. Donatella Rago è stata raggiunta dalla notizia mentre si trovava in una località della Toscana dove lavora e dove, pare, avesse cominciato una nuova relazione. Antonio Di Paola non si dava pace e voleva in tutti i modi ritornare insieme alla donna che di recente lo aveva denunciato due volte per minacce, l'ultima un paio di settimane fa. Nicolina Pacini, a causa delle condizioni di disagio famigliare, viveva a casa dei nonni ai quali era stata affidata dai servizi sociali insieme al fratello.
La madre: inutile la mia denuncia, scrive il 20 Settembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". I miei figli «erano in affidamento ai miei (genitori, ndr) ed io ho avvertito che sarebbe successo qualcosa, nessuno mi ha dato retta. Io non c'ero, ma i miei che li avevano in affido dov'erano? Non doveva prendere il pullman visto che c'erano delle denunce in corso, ma dovevano accompagnarla loro a scuola». Lo scrive su Facebook la mamma della 15enne ferita con un colpo di pistola al volto ad Ischitella (Foggia). Per il ferimento viene ricercato l’ex compagno 37enne della donna. Quest’ultima non vive in Puglia. «E l’assistente sociale del Comune di Ischitella - accusa la mamma - che mi aveva assicurata che dai miei stavano benissimo? Complimenti!» L'avevo «supplicata - aggiunge - di portarli in un altro posto perché sapevo che sarebbe successo tutto questo. Non mi ha ascoltato, anzi ha detto: 'Stanno bene dove stanno'. Ora mia figlia è in coma farmacologico. Mio Dio ti prego aiuta la mia unica stella, era l’unica figlia femmina che ho. Ti prego, ti prego, ti prego. Mio Dio! Ascolta la mia preghiera. Sono disperata, lei non c'entrava nulla». La donna ieri aveva pubblicato la foto di tre ragazzi, forse i suoi tre figli, e aveva scritto: «La mia forza, la mia vita, il mio ossigeno: siete tutto quello che ho amori miei».
E la mamma della ragazzina rivela: «Hanno ignorato le mie denunce». Lo sfogo della donna sui social: «Sapevo che sarebbe successo», scrive Massimo Malpica, Giovedì 21/09/2017, su "Il Giornale". Ancora una volta una tragedia annunciata. Ancora una volta il dubbio che l'inerzia dello Stato abbia contribuito a versare del sangue innocente. Anche a Ischitella, nel Foggiano, dove un 37enne ha sfogato la sua malata gelosia per l'ex compagna, sparando in volto alla figlia quindicenne della donna prima di suicidarsi. Ora la ragazzina lotta tra la vita e la morte, e le sue condizioni sono «disperate». E a soffiare sul fuoco delle polemiche arrivano i post «social» della madre, che su Facebook ha commentato la notizia, sostenendo di aver più volte denunciato l'ex compagno, e di aver avvertito invano le autorità di temere questo terribile esito. Almeno due sarebbero le denunce presentate contro l'uomo che ha sparato alla figlia, e l'ultima porterebbe la data di un paio di settimane fa. Tra l'altro la donna, Donatella, sostiene anche di aver chiesto che i figli, affidati ai nonni, venissero portati via da Ischitella. «Perché sapevo si legge in uno dei messaggi scritti ieri sul social network dalla madre - che sarebbe successo tutto questo». Un episodio che ricorda quanto accaduto pochi giorni fa con la morte di Noemi Durini, ammazzata dal fidanzato nonostante le numerose denunce presentate sia dalla madre della ragazza che dalla famiglia di lui, e che non avevano portato ad alcuna forma di tutela prima che si consumasse la tragedia. Tornando a Ischitella, è di ieri alle 13 il primo messaggio postato dalla donna, che nel frattempo dopo aver rotto la relazione con l'uomo che ha aggredito la figlia per poi ammazzarsi si è trasferita in Toscana. «Mia figlia!», esclama a commento di un articolo sulla sparatoria. E rispondendo ai commenti di amici e parenti, ecco la denuncia: «Erano in affidamento ai miei - scrive la madre - ed io ho avvertito che sarebbe successo qualcosa ma nessuno mi ha dato retta». E ancora: «Non doveva prendere il pullman visto che c'erano delle denunce in corso, ma dovevano accompagnarla loro a scuola», lamenta la donna, rivolgendosi poi per nome all'assistente sociale del paese: «Complimenti... io ti avevo supplicata di portarli da un altro posto che sapevo che sarebbe successo tutto questo, non mi ha ascoltato anzi ha detto stanno bene dove stanno... ora mia figlia è in coma farmacologico». Poi la mamma della 15enne ferita se la prende con l'ex compagno. «Spero che ti ammazzi bastardo lurido - scrive - prendertela con una ragazza di soli 15 anni, sei un rifiuto umano», e poco dopo aggiunge «tu non meriti di vivere», per poi commentare la notizia del suicidio, ancora su Facebook: «Ditemi che è vero». Ce n'è abbastanza per riaccendere il dibattito sulla scarsa efficacia dello Stato nel proteggere chi denuncia violenze e minacce. A seguito degli esposti della donna, i carabinieri erano intervenuti con perquisizioni personali e domiciliari, concluse senza alcun esito tranne, nel 2016, un deferimento per porto illegale di coltello.
La mamma della 15enne uccisa posta un messaggio su Facebook: «Senza te non siamo niente», scrive il 22 Settembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". «Amore senza di te non siamo niente», "ricordati di tua mamma di tuo padre e del tuo fratellino», «torna tra noi, ti prego, ti aspetto». Sono alcuni dei passaggi del post che ha pubblicato su Facebook Donatella Rago, madre di Nicolina Pacini, la 15enne uccisa dall’ex compagno della donna. Rago ha pubblicato il post ieri, in tarda serata, aggiungendo numerose foto in cui Nicolina è ritratta in diverse occasioni: col vestito elegante, mentre si scatta un selfie davanti allo specchio, in posa per sembrare ancora più bella. «Eccoti amore mio - scrive sua madre - così bella, solare, allegra, carattere forte...con questi occhi blu più del sole e del mare...tu la mia vita, il mio sole il mio tutto...io e te si litigava, io e te ci confidavamo a vicenda, eravamo due sorelle e non madre e figlia. Tutti ci invidiavano amore mio, vita mia, mi manchi tantissimo». «Ora - prosegue la mamma di Nicolina - tu sei un piccolo angelo in mezzo a tanti angeli mah! Qui giù ricordati di tua mamma, di tuo padre e il tuo fratellino, amoreeeeee senza di te siamo niente...tesoro mio ti va di venire (a darci, ndr) un bacio?». «Così - conclude - ci sembra che tu stia ancora qui con noi...nico ci manchi amore mio, torna tra noi, ti prego a mamma, ti aspetto!!!!». Al post seguono messaggi di condoglianze e vicinanza, ma anche molte critiche alla mamma per «non aver badato a sua figlia» e perché «espone il suo dolore su Facebook». Stessi attacchi che ha ricevuto anche dopo il post pubblicato questa mattinata, con una foto di Nicolina con due ali da angelo: «Il mio angelo per sempre», ha scritto Donatella. «Sapevo che aveva una pistola e l’ho anche detto ai carabinieri quando ho presentato le denunce perché mi minacciava: ho ancora i messaggi conservati sul telefono. Era un violento, sapevo che c'era pericolo per i miei figli», ha poi detto Donatella Rago all''Ansa.
Nicolina non ce l'ha fatta. Lo sfogo della madre: l'avevo messa in guardia. Il killer aveva già minacciato con un coltello la 15enne. Il ministro chiede una relazione, scrive Bepi Castellaneta, Venerdì 22/09/2017 su "Il Giornale". Il filo di speranza si è fatto sempre più sottile e si è affievolito ancor di più con il passare delle ore. Fino a quando, poco prima delle 7, il cuore di Nicolina Pacini, 15 anni, raggiunta da un colpo di pistola al volto sparato dall'ex compagno della madre che poi si è suicidato, si è fermato per sempre in una stanza degli Ospedali Riuniti di Foggia, là dove era stata ricoverata dopo un agguato gelido e spietato in un vicolo di Ischitella, piccolo centro del Gargano. Fin dal primo momento i medici si erano mostrati pessimisti: troppo gravi le lesioni riportate, la ragazza è stata ferita a un occhio e la pallottola ha causato un'emorragia cerebrale. «Impossibile operare», è stato il drammatico verdetto. E così, dopo una notte di agonia, per la quindicenne non c'è stato niente da fare: i suoi sogni e il suo destino sono stati cancellati sugli scalini insanguinati di via Zuppetta, il vicolo del centro storico che stava percorrendo per raggiungere la fermata dell'autobus e andare a scuola. Adesso in questo angolo della provincia di Foggia il dolore si mescola alla rabbia. E crescono le polemiche per quella che in tanti definiscono una tragedia annunciata. A cominciare dalla madre, Donatella Rago. Che non usa mezzi termini e sul suo profilo Facebook sostiene di aver dato più volte l'allarme puntando l'indice contro l'ex compagno, Antonio Di Paola, 37 anni, l'uomo che ha ucciso e si è tolto la vita poche ore dopo nelle campagne del paese con la stessa pistola. In un'intervista a Mattino Cinque la donna rivela il contenuto dell'ultima telefonata con Nicolina, data in affidamento ai nonni materni su disposizione della magistratura minorile. «Io mi sto preoccupando perché so cosa vuole fare», le ha detto quattro giorni fa la madre, che era riuscita a chiudere il rapporto con Di Paola tornando a Viareggio, dove vive l'ex marito che insieme a lei ieri ha raggiunto Ischitella per piangere sul corpo della figlia. Aveva paura, Donatella. Temeva che il 37enne, quell'uomo con cui ha convissuto due anni, un tipo violento con precedenti penali e noto in paese come «una testa calda», potesse in qualche modo vendicarsi dopo che lei aveva deciso di interrompere la relazione e di fargliela pagare nel modo più atroce. Del resto lui lo aveva detto chiaramente: secondo quanto risulta nella denuncia presentata nel 2016, Di Paola nel corso di una lite avrebbe minacciato Nicolina con un coltello, intervennero ai carabinieri e l'arma fu sequestrata; e poi ancora: due settimane fa il pregiudicato avrebbe chiesto con insistenza alla quindicenne notizie della ex compagna, la ragazza si è rifiutata di rispondere e ha riferito tutto alla madre. Risultato: è stata presentata una seconda denuncia, questa volta in Toscana. Insomma Donatella temeva che nella mente di Di Paola, in preda a una gelosia ossessiva, avrebbe potuto persino prendere forma il feroce disegno di una vendetta trasversale. E così è stato. «Non siamo stati capaci di evitare una tale tragedia», dice il parroco della chiesa di Santa Maria Maggiore, Dino Iacovone. E mentre in paese la gente si interroga su ciò che poteva essere fatto per fermare l'assassino, il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, annuncia l'intenzione di chiedere maggiori dettagli sul caso.
La mamma della 15enne uccisa «Aveva già minacciato mia figlia». Poi attacca i genitori: dove erano? Scrive il 22 Settembre 2017 “La Gazzetta del Mezzogiorno". «Nessuno muore finchè vive nel cuore di chi resta. E' questo uno degli striscioni che campeggiavano stasera nel corso della fiaccolata a Ischitella per ricordare Nicolina Pacini, la 15enne uccisa dall'ex compagno della mamma. Il sindaco ha proclamato il lutto cittadino in occasione dei funerali che avranno luogo sabato, alle 15.30. Intanto, la mamma della ragazza, in un post ha dato sfogo alle sue emotivi: «Amore senza di te non siamo niente», "ricordati di tua mamma di tuo padre e del tuo fratellino», «torna tra noi, ti prego, ti aspetto». Sono alcuni dei passaggi del post che ha pubblicato su Facebook Donatella Rago, madre di Nicolina. Rago ha pubblicato il post ieri, in tarda serata, aggiungendo numerose foto in cui Nicolina è ritratta in diverse occasioni: col vestito elegante, mentre si scatta un selfie davanti allo specchio, in posa per sembrare ancora più bella. «Eccoti amore mio - scrive sua madre - così bella, solare, allegra, carattere forte...con questi occhi blu più del sole e del mare...tu la mia vita, il mio sole il mio tutto...io e te si litigava, io e te ci confidavamo a vicenda, eravamo due sorelle e non madre e figlia. Tutti ci invidiavano amore mio, vita mia, mi manchi tantissimo». «Ora - prosegue la mamma di Nicolina - tu sei un piccolo angelo in mezzo a tanti angeli mah! Qui giù ricordati di tua mamma, di tuo padre e il tuo fratellino, amoreeeeee senza di te siamo niente...tesoro mio ti va di venire (a darci, ndr) un bacio?». «Così - conclude - ci sembra che tu stia ancora qui con noi...nico ci manchi amore mio, torna tra noi, ti prego a mamma, ti aspetto!!!!». Al post seguono messaggi di condoglianze e vicinanza, ma anche molte critiche alla mamma per «non aver badato a sua figlia» e perché «espone il suo dolore su Facebook». Stessi attacchi che ha ricevuto anche dopo il post pubblicato questa mattinata, con una foto di Nicolina con due ali da angelo: «Il mio angelo per sempre», ha scritto Donatella.
«Sapevo che aveva una pistola e l’ho anche detto ai carabinieri quando ho presentato le denunce perché mi minacciava: ho ancora i messaggi conservati sul telefono. Era un violento, sapevo che c'era pericolo per i miei figli», ha poi detto Donatella Rago all''Ansa. «Nicolina era stata già minacciata ad agosto dell’anno scorso dal mio ex compagno che le ha puntato un coltello alla pancia». Donatella ricorda che non lasciava «mai Nicolina da sola con lui» ma quel giorno «ero a fare un colloquio di lavoro» e "Nicolina volle tornare a casa sua per riprendersi delle foto di lei e di suo fratello. Appena entrò - ricorda Donatella - trovò tutte le foto per terra e si arrabbiò molto: fu allora - conclude - che mia figlia fu minacciata». «Avevo chiesto ai miei figli di venire con me a Viareggio dove mi sono trasferita per lavoro, per dare loro un futuro migliore - spiega la donna - ma non hanno voluto seguirmi perché qui avevano la scuola e le loro amicizie. Avevano detto che non sarebbe successo nulla». Qualche giorno prima dell’omicidio, Donatella dichiara di aver avvisato i suoi genitori, invitandoli a stare attenti. «Qualcuno - racconta Donatella - mi ha telefonato per dirmi che il bastardo (il suo ex compagno, ndr) era stato visto nei dintorni di casa mia», ma "mio padre mi ha detto che era al bar con gli amici». E poi, aggiunge Donatella, «ha chiamato il padre di Nicolina dicendogli di non farmi telefonare più». «Volevo che i miei figli fossero trasferiti altrove, fuori dal paese. Ma l'assistente sociale mi diceva sempre che non c'era posto più sicuro di casa dei nonni: si è visto com'è andata a finire». La donna riferisce che tempo fa aveva avvertito Nicolina di stare attenta perché il suo ex le aveva telefonato dicendo di averla vista in giro con la zia. «Lasci tua figlia in mano agli altri?», le aveva chiesto. Rago spiega che alla sua richieste di guardarsi le spalle, Nicolina aveva risposto: «Mamma, ma allora non posso più uscire?». «Io - conclude Donatella piangendo - l’avevo pregata di non uscire mai da sola». «Andrò a Foggia e comprerò a mia figlia il vestito più bello che c'è, perché me l'hanno lasciata nuda, non mi hanno fatto neppure trovare i suoi vestiti», ha continuato la mamma di Nicolina. Rago, tra le lacrime, punta il dito contro i nonni della piccola, i suoi genitori, ai quali era stata affidata e con i quali i rapporti si erano deteriorati. Li accusa, tra l’altro, di non aver fatto vedere neppure al papà di Nicolina, ieri a Ischitella, l’altro figlio più piccolo, pure lui affidato ai nonni. «Sapevano saremmo arrivati e se ne sono andati - dice Rago - con l’unico figlio che gli rimane».
IL FATTO. Norbaonline. 22 settembre 2017. L’editoriale del direttore del TgNorba Enzo Magistà. Tema del giorno: Femminicidi in costante crescita. Quali sono le carenze nelle istituzioni e nella rete familiare delle vittime?
«Le famiglie denunciano, le istituzioni sembrano sorde. E nel frattempo gli omicidi continuano. In Puglia sembra che si sia aperta una pericolosa spirale, a Specchia come ad Ischitella. C’è un dato che fa paura. C’erano due probabili assassini in giro, denunciati, conosciuti, liberi, nessuno li ha fermati. E così due ragazze sono state uccise. Stato impotente? Servizi insufficienti? Istituzioni disattente? Si è detto e si è scritto di tutto in questi giorni tanto che il CSM e il Ministero della Giustizia hanno messo sotto indagine la procura minorile di Lecce. Noemi e Nicolina si potevano salvare per davvero? E che cosa avrebbero dovuto fare le istituzioni per salvarle dalla morte più di quanto non abbiano fatto? Dovevano arrestare preventivamente i probabili assassini, introducendo il reato del sospetto? Noemi prima di essere uccisa uscì di casa di sua spontanea volontà all’alba di quel giorno. Uscì con i suoi piedi, con le sue gambe, forse anche armata. Potevano saperlo i servizi sociali di Specchia? Poteva saperlo la procura minorile di Lecce? O dovevano prevederlo i suoi genitori? E così Nicolina, doveva essere accompagnata a scuola dai nonni, perché girava da sola per le strade deserte di Ischitella di mattina presto? Le due vicende, purtroppo, dimostrano che ci sono disattenzioni familiari prima delle disattenzioni istituzionali. Si fa presto a dire “Lo Stato non ci protegge”. Ma in famiglia cosa si fa per meritarsi anche questa protezione? Certo, fa male parlare così delle famiglie delle vittime in questo doloroso momento per loro però le riflessioni se si devono fare si devono fare a 360° guardando alle responsabilità di tutti. I genitori, i parenti, hanno responsabilità dirette che vengono prima delle responsabilità sociali. Se si bypassa la rete di protezione familiare, se si fa un buco in questa rete allora ci si deve aspettare di tutto. E non è un caso che i delitti più efferati avvengano nell’ambito delle famiglie se non addirittura tra le mura domestiche. Ci sarà un perché. Questo perché è nascosto dietro la porta di casa».
A Ischitella i funerali di Nicolina. Il parroco: “Dopo Noemi, ancora dolore in Puglia”. Tantissime persone, di Ischitella ma anche dei paesi vicini, sono intervenute nella chiesa di San Francesco e all’esterno per i funerali di Nicolina Pacini, la quindicenne uccisa dall’ex compagno della madre, scrive il 23 settembre 2017 Susanna Picone su "Fan Page". Nel pomeriggio di oggi, nella chiesa di San Francesco a Ischitella, in provincia di Foggia, più di mille persone sono intervenute per dare l’ultimo saluto a Nicolina Pacini, la quindicenne uccisa dall’ex compagno della madre il 20 settembre. “Per la seconda volta, in una settimana, la nostra Puglia è stretta in un abbraccio di dolore: prima i funerali di Noemi, a Specchia, nel profondo Sud; oggi quelli per Nicolina. Una terra che ci invidia il mondo, in cui alla luce splendida delle sue albe, si alterna l'oscurità della violenza; alla bellezza dei suoi paesaggi, l'orrore per questi crimini; alla santità che ha benedetto questa nostra diocesi, con san Michele Arcangelo e con San Pio da Pietrelcina, di cui oggi ricordiamo la festa liturgica, il terribile peccato del femminicidio”, le parole pronunciate durante l’omelia da don Dino Iacovone. “Nicolina rivive non solo nel ricordo di chi l'ha conosciuta e amata, rivive in noi quando ci incontriamo per pregare, quando allacciamo relazioni amorevoli e sincere, quando ci battiamo per liberare l'aria e la terra dai rifiuti dell'odio. Solo così il suo sacrificio non sarà vano”, ha detto ancora il sacerdote. Lutto cittadino a Ischitella – Oltre ai genitori della ragazza, ai nonni e al fratellino, sono presenti alle esequie, fra gli altri, il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, il sindaco di Ischitella, Carlo Guerra, autorità civili e militari, sacerdoti, famiglie e anche tanti bambini e ragazzi. Tantissime le persone, arrivate anche dai paesi vicini, che sono rimaste fuori dalla chiesa. A Ischitella oggi è stato proclamato il lutto cittadino mentre ieri c’è stata una fiaccolata per la ragazzina. Il corteo era aperto da uno striscione: “Nessuno muore finché vive nel cuore di chi resta”. Nicolina frequentava il secondo anno del liceo “Publio Virgilio Marone” di Vico del Gargano ed è lì che stava andando la mattina in cui ha incontrato l’uomo che poi le ha sparato in viso. Un uomo che dopo il delitto si è tolto la vita.
Un delitto di abbandono mentre tanti sapevano, scrive Enrica Simonetti il 23 Settembre 2017 su "La Gazzetta del Mezzogiorno". Il nome sembra quello della protagonista di una favola: Nicolina. Pure il paese, con 4mila anime, arroccato su una collina verde, sembra da favola. Il paradosso è che la favola è invece un horror, un ennesimo horror sbarcato nel nostro strano mondo, in cui pensiamo di sapere e di potere tutto. E invece, fino all’altro giorno, nulla conoscevamo di Nicolina e della sua stirpe, della mamma «volata» lontano, del padre assente, dei nonni ai quali era affidata, della casa-famiglia in cui aveva abitato e di tutte le vicissitudini da lei vissute nel breve tempo dei suoi 15 anni. Nulla si sa, perché nulla siamo e nulla facciamo. Non sappiamo dei fascicoli pendenti in qualche Tribunale per i minori, nulla di qualche assistente sociale che doveva avere in carico il caso. Sappiamo solo che c’è una nuova black story da consumare, divorare e buttar via. Una storia in cui tutto sembra assurdo: dal fatto che una ragazzina e il suo fratellino possano essere stati lasciati nel mezzo di un pericolo di vendetta, fino al mistero di un uomo rancoroso tranquillamente fornito di pistola. Nelle favole c’è dolore, è vero, ma qui ce ne sta troppo; nelle favole c’è meraviglia, ma esiste pure un po’ di felicità. Che qui sembra invisibile. In questa storia pugliese che ha tanto di interplanetario e nulla di esclusivamente pugliese, c’è l’ennesima beffa contro i deboli. C’è una famiglia dilaniata in una società altrettanto dilaniata: una società che perde tempo a parlare di femminicidi e di pedagogia dell’ascolto e nulla riesce a fare per fermare la mano violenta di un uomo e per sanare la mente impazzita davanti al volto aperto di Nicolina. Una ragazzina forse forte, ma indebolita dalle carenze di uno Stato che non ha potuto proteggerla nonostante fosse stata minacciata un mese fa con un coltello puntato alla pancia da chi poi le ha sparato. Una debolezza dietro l’altra: è debole un sistema sociale in cui i servizi sociali languono; è debole una famiglia che fugge ed è debole chi soccombe; è debole chi non riesce a tollerare la separazione; è debole chi adesso fa il «finto forte» insultando la madre di Nicolina su Facebook. Deboli ma violente le liti familiari che fanno da sfondo a questo caso, con le barriere di odio che serpeggiano tra le case, tra i legami, tra le incomprensioni. La vita ha le parole che può, la fiaba ha le parole che deve. Mai fiaba e vita possono coincidere, ma a Ischitella, sembra che si riproduca quel cruento delle fiabe che Kafka già ai suoi tempi intravedeva come reale. E il disagio è accorgersi che nulla cambia, nemmeno con l’avanzare dei tempi e dei diritti. Perché l’infelice fine di una ragazzina trovatasi sola contro il nemico è un fatto moderno e antico allo stesso tempo, figlio della nostra era, così apparentemente completa e così definitivamente arresa al Nulla. Possibile che nel 2017 Nicolina sia rimasta sola a combattere il deserto di una famiglia e di un mondo? Le cose che si dicono dopo un delitto purtroppo finiscono per somigliarsi tutte, un po’ come le famiglie felici-infelici citate da Tolstoj. La ritualità di queste stragi familiari è ormai terribilmente «tipica»: con l’esperto che commenta, con l’inchiesta che scava, con quella piazza provinciale che diventa l’Italia affamata di noir. Un’era fa i cronisti passavano ore davanti a queste case inondate di orrore, mendicavano una foto, un ricordo, una dichiarazione. Oggi si digita un nome sfortunato su Facebook e si «rapiscono» gli istanti di una vita, con un fiume di immagini e di sorrisi da offrire per lo «spettacolo». A Specchia come a Ischitella e come in tutti questi delitti, c’è una rosa di immagini dei tempi felici, capaci di inondare il racconto orrifico delle tragedie. E queste immagini ci arrivano e ci soffocano, spezzano il racconto, distraggono dall’obiettivo: pensate, come se Shakespeare avesse fotografato Desdemona soffocata da Otello invece di descriverla... forse quella storia non sarebbe mai stata così indimenticabile. E allora, il rischio della debordante e breve attenzione mediatica di fronte a questi orrori è quello di produrre oblìo, non memoria. Di fare casciara e non analisi. In poche parole: di continuare a ignorare Nicolina e coloro che hanno come lei una sfortunata e intensa vita. Un po’ come quelle favole onnipresenti che si sanno, si ripetono... e si dimenticano. Enrica Simonetti.
Il papà: «Giustizia per Noemi». Il padre di Lucio alza il tiro: «Lei vittima della sua famiglia», scrive Sabato 23 Settembre 2017 il "Quotidiano di Puglia”. «Voglio verità e giustizia per mia figlia Noemi»: a dirlo è Umberto Durini, il padre della sedicenne di Specchia uccisa il 3 settembre dal suo fidanzato di 17 anni che ha poi confessato l'omicidio. L'uomo si è affidato all'avvocato del foro di Perugia Walter Biscotti, già legale della mamma di Sarah Scazzi e difensore di Salvatore Parolisi, che si è recato appositamente nella città pugliese. «Umberto Durini - ha detto l'avvocato Biscotti - vuole ringraziare le forze dell'ordine e tutti quelli che hanno collaborato alle indagini. Chiede che rimanga alta l'attenzione sul caso perché ci sono punti ancora oscuri legati alla confessione del ragazzo». Secondo il legale «occorre chiarire in particolare il ruolo del padre del diciassettenne». «Sono andato ai servizi sociali, mi sono inginocchiato e ho detto: “Mi aiuti a trovare una struttura dove mio figlio possa essere curato”. Non mi hanno mai contattato. Lei era gelosa e morbosa». «Ho cercato di salvarli tutti e due: sarebbe bastato che mi avessero ascoltato». Sono alcuni dei passaggi dell'intervista, mandata in onda ieri su Retequattro, a 'Quarto Gradò, a Biagio, il padre di Lucio, il ragazzo che ha confessato di essere responsabile dell'omicidio di Noemi Durini, la ragazza di 16 anni, di Specchia, ammazzata il 3 settembre scorso. Il ragazzo è accusato di omicidio volontario. Anche il padre è indagato per sequestro di persona e concorso in occultamento di cadavere. «Sono stato ai servizi sociali per chiedere come mai questa ragazza fosse sempre fuori di casa e non fosse seguita dalla famiglia. Mi sono inginocchiato e ho detto: “Mi aiuti a trovare una struttura dove chiudere mio figlio, in modo che venga curato”. Se ne sono usciti con un "sarai contattato da un consultorio". Consultorio che non si è fatto mai vivo», ha raccontato l'uomo. «Che questa ragazza fosse pericolosa per mio figlio me ne sono accorto quasi subito, perché era gelosa e morbosa. Me ne sono accorto - continua l'uomo - sin dai primi giorni, quando veniva accompagnata da un ragazzo di Casarano molto più grande di lei». «È pericolosa questa gente qua? a venire a casa a buttare molotov. I carabinieri lo avevano già detto: «Occhio! A causa di questa ragazza Lucio frequenta persone molto adulte... erano amici loro, amici delle loro famiglie. Non è vero che questa ragazza chiedesse il permesso per uscire di casa: usciva quando voleva. Tempo fa, poi, vengo a sapere che raccoglieva soldi per comprare una pistola e ammazzarci», ha detto il padre di Lucio. «Adesso - ha concluso - siamo passati che la mia è una cattiva famiglia, che non seguivo mio figlio, e che Noemi invece era una brava ragazza. Ho pietà per lei. Per me era vittima della sua famiglia. Questa è la pura e sacrosanta verità. E quando ci sarà l'opportunità tirerò fuori vita morte e miracoli di questa famiglia. A Lucio non posso dire niente perché non ce l'ho più. Ho cercato di salvarli tutti e due: sarebbe bastato che mi avessero ascoltato».
Che stravagante e bizzarra è la coincidenza per la quale sia diventato l’avvocato del padre di Noemi l’avvocato di Parolisi e della famiglia Scazzi, ossia l’avvocato di Perugia Walter Biscotti, che oltretutto si è occupato anche del caso dell’omicidio di Meredith Kercher. Egli difendeva il condannato Rudy Guede. Per quel delitto sono stati assolti Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Anche loro vittime dei PM di turno innamorati della loro ipotesi investigativa.
Gli avvocati Biscotti e Gentile si sono offerti alla famiglia Scazzi (a dire degli avvocati, gratuitamente) e si avvarranno della consulenza dell’ex comandante del Ris di Parma, l'ex generale Luciano Garofano. «Vogliamo essere di supporto alla Procura – ha spiegato Gentile – abbiamo incontrato il sostituto procuratore Mariano Buccoliero (dirige l’inchiesta sulla scomparsa della minore) depositando le nostre nomine.
E poi, nonostante si fosse in preda alla disperazione, che annebbia la razionalità, e si fosse consapevole che nelle situazioni di clamore mediatico tutti avrebbero approfittato per essere illuminati dai media per conseguire notorietà, la famiglia Scazzi il 21 settembre 2010 si è affidata agli avvocati Walter Biscotti e Nicodemo Gentile.
L'anomalia è che la famiglia Scazzi sceglie come difensore l'avvocato Walter Biscotti, già difensore di Rudy Guede nel processo Meredith, e coinvolto anche nel caso Marrazzo. L'avvocato risiede a Perugia. C'è da domandarsi come ha fatto la famiglia a scegliere un difensore che risiede a centinaia di chilometri, e con che criterio. Inoltre, nella fase di ricerca di una persona scomparsa, il difensore è assolutamente inutile, non essendoci procedimenti né civili né penali da affidare al legale. Guarda caso poi, il legale in questione non solo trova il tempo di recarsi personalmente ad Avetrana, ma ha anche la fortuna di trovarsi alla trasmissione "Chi l'ha visto" proprio quando in diretta mandano la notizia del ritrovamento del cadavere.
Sulla mediaticità degli avvocati, anche il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto fa dei rilievi. In riferimento al caso Sarah Scazzi a Daniele Galoppa viene contestata la sovraesposizione mediatica, a Vito Russo e Emilia Velletri anche l'accaparramento di clientela. Per Russo si aggiunge anche la violazione delle norme di correttezza e decoro. In seguito agli eventi su esposti l'avv. Russo e l'avv. Velletri hanno lasciato la difesa di Sabrina Misseri. Sicuramente, questi, non hanno l'opportunità, riservata a Galoppa, Biscotti e Gentile, (per questi la sovraesposizione mediatica mai contestata e per gli avvocati di Perugia, nemmeno l’essersi offerti “gratuitamente” per accaparrarsi la clientela), di presenziare nei talk show televisivi, non invitati da quei media poco inclini a dare spazio alle tesi difensive o a sposare la tesi dell'innocenza di Sabrina o Cosima, ovvero sentire rimostranze contro gli atteggiamenti della procura di Taranto e del GIP Martino Rosati.
Dove ci sono le telecamere, subito dopo appaiono loro. I casi più seguiti dai media sono roba loro. Non è accaparramento illecito di clientela. Sia mai. Non è come per gli avvocati tarantini Vito Russo ed Emilia Velletri. Per loro, sì, che si son mossi Procura e Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto. Inoltre i legali degli Scazzi collaborano in modo “simbiotico e significativo” sia con i giornalisti, sia con i magistrati. Gli avvocati di Perugia Walter Biscotti e Nicodemo Gentile rappresentano anche Salvatore Parolisi come persona offesa nell'indagine sull'omicidio della moglie Melania Rea. Anche in questo caso non mancano di soffermarsi su un fatto: stabilire la loro verità. Gli avvocati Gentile e Biscotti hanno spiegato che con la loro nomina intendono "contribuire all'accertamento della verità". «Abbiamo incontrato il pm Umberto Monti - ha detto Biscotti, avvicinato dai cronisti ad Ascoli Piceno - offrendo massima collaborazione. La volontà di Parolisi è essere considerato parte offesa in questa vicenda, collaborando con gli investigatori, come ha già fatto finora». Intanto si è proceduto nei confronti di Parolisi come se si trattasse del vero responsabile. Sia da parte della stampa, sia da parte della procura, che pur procedendo alla perquisizione in casa di Parolisi, a questo non gli è stato indicato di nominare un legale. L'irresistibile ascesa dei due avvocati perugini alla fama nazionale. Si tratta di Valter Biscotti e Nicodemo Gentile che hanno ricevuto l'incarico di difendere Winston Manuel Reves, 41enne domestico di origine filippina che ha ammesso di aver ucciso la contessa Alberica Filo Della Torre. Un delitto che ha trovato soluzione, grazie a nuove tecniche di laboratorio, a quasi 20 anni di distanza. La contessa, infatti, fu uccisa, nella camera da letto della sua splendida villa situata all'interno del parco dell'Olgiata, a Roma, il 10 luglio 1991. Sarà un processo importante per la coppia di avvocati perugini, l'ultimo di una serie che li ha visti protagonisti. Hanno assistito la famiglia di Emanuele Petri, l'agente della Polfer, assassinato il 2 marzo 2003, sul treno Roma-Firenze, dal brigatista Mario Galesi. Hanno poi difeso Rudy Guede nel processo per il delitto di Meredith Kercher. Assistono la famiglia Scazzi dopo il delitto di Sarah, il cui corpo senza vita fu ritrovato nelle campagne intorno ad Avetrana, il 6 ottobre 2010. Infine, i due penalisti, difendono la famiglia di Brenda, il trans brasiliano trovato morto, asfissiato, nella sua modesta abitazione romana, il 20 novembre 2009. Brenda era testimone eccellente nel caso che portò alle dimissioni il governatore del Lazio, Piero Marrazzo. Infine, il solo Biscotti è stato nominato difensore di Sara Tommasi, la starlette ternana comparsa tra le ragazze che avrebbero frequentato le feste di Arcore nella villa di Silvio Berlusconi. Attaccare Sabrina Misseri considerandola responsabile del delitto di Sarah Scazzi, o definire la madre, Cosima Serrano, come fortino da espugnare, riferendosi al fatto non provato che il delitto fosse stato commesso in casa con l’apporto di tutta la famiglia, non sono il solo exploit diffamatorio del duo perugino. Sapete cosa dissero Biscotti e Gentile al processo in cui difendevano Rudy Guede? Vi riporto il passaggio di un articolo de “Il Corriere della Sera” del 25 ottobre 2008. «Chi era Meredith Kercher? Non era certo una ragazza estremamente riservata e che non si faceva avvicinare da nessuno, anzi, amava bere, assumeva delle droghe (cannabis) quando si trovava in compagnia. Aveva inoltre una vita sessuale piena, a trecentosessanta gradi, e provava attrazione non solo per il proprio fidanzato italiano».
Stavolta l'ineffabile Ghedini non se l'è sentita, scrive L’Unità. Di trash e pulp, noir e spy, in effetti, in questi anni, ne ha visto e vissuto fin troppo. E poi si vede che questa era troppo persino per lui. Così la denuncia penale che mira a svelare il complotto demo-pluto-giudaico-massonico che nel 2011 costrinse Berlusconi a lasciare palazzo Chigi e che dopo il giornalista Alan Friedman è stato svelato anche dall'ex segretario al Tesoro Usa Timothy Geithner, è stata firmata da Walter Biscotti, toga nota agli addetti ai lavori, un po' meno alla grandi masse, con bellissimo studio nel corso principale che taglia in due la città vecchia di Perugia. Dove, negli anni novanta, nacque il primo club Forza Silvio. E da dove, per l'appunto, Biscotti ha iniziato, non più giovanissimo, la scalata alla notorietà che gli è valsa, in effetti, qualche uscita nel salotto di Porta a Porta. Una veloce carrellata sui casi che portano in calce la sua firma dimostra la predilezione dell'avvocato per il trash, il pulp e il noir profondo. E' stato difensore dell'ivoriano Rudy Guede, condannato con rito abbreviato a sedici anni per l'omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher. Si è appassionato al caso Marrazzo e ha assistito la mamma di Brenda, la transessuale testimone del caso del caso del governatore poi trovata morta in casa. Un crescendo fino ai casi di Avetrana, dove ha assistito la famiglia di Sarah Scazzi. Fino all'omicidio Parolisi dove ha assistito il marito-militare. In questo percorso, non poteva mancare il giallo dell'Olgiata: qui Biscotti difende Manuel Winston, il filippino che dopo vent'anni ha confessato di essere stato l'autore dell'omicidio rimasto irrisolto. Insomma, dove c'è Biscotti c'è il caso di cronaca nera che conta. E che fa audience. Poi sono cause difficili da vincere. Ma molto popolari. Certo, adesso la faccenda è diversa: c'è di mezzo Berlusconi, un complotto internazionale, un'associazione dal nome altisonante e altamente evocativo. L'esposto-denuncia per cui la procura di Roma ieri ha dovuto aprire il fascicolo, è infatti presentato dalla deputata azzurra Micaela Biancofiore e dalla associazione Tribunale Dreyfus. Entrambi ipotizzano i reati di attentati contro i diritti politici del cittadino e di violazione della norma che punisce le associazioni segrete (legge Anselmi). Walter Biscotti e il giornalista Arturo Diaconale (che pure firma la denuncia), affermano che è "assolutamente necessario l'individuazione degli European Officials, così come denominati dall'autore del libro (Geithner)" , e ritenuti autori delle pressioni, nel 2011, per costringere l'allora premier italiano a lasciare palazzo Chigi. Una trama straordinaria. Un complotto perfetto. “Demo-giudo-plutaico-massonico” amava dire qualcuno.
Valter Biscotti: dal processo Pecorelli al caso di Avetrana, l’intervista di Daniel Chiabolotti su “La Goccia”. L’avvocato Valter Biscotti, originario di Peschici, da anni esercita la professione nella città di Perugia. Recentemente si è occupato di casi di notevole rilievo della cronaca giudiziaria italiana: dalla difesa di Rudy Guede, accusato del delitto della studentessa inglese Meredith Kercher, all’assistenza legale fornita alla famiglia della giovane Sarah Scazzi e in ultimo a Salvatore Parolisi, vedovo di Melania Rea, la ventinovenne di Somma Vesuviana trovata uccisa il 20 aprile scorso nel bosco delle Casermette in provincia di Teramo. Nell’intervista che l’Avv. Biscotti ci ha rilasciato, invece d’investigare nei particolari più foschi degli ultimi risvolti processuali, abbiamo preferito approfondire la chiave del suo successo personale e conoscere più da vicino il legame che si instaura tra legale e assistito in processi molto delicati.
Avvocato come è riuscito ad “aggiudicarsi” dei casi di notevole rilievo della recente cronaca giudiziaria italiana?
«Da oltre venticinque anni svolgo la professione d’avvocato. I casi Kercher e Scazzi non sono i primi di una certa importanza che tratto. Verso la metà degli anni novanta ho fatto parte del collegio difensivo di Giuseppe Calò nel processo per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, svoltosi a Perugia; nel 2003 sono stato legale di parte civile della famiglia di Emanuele Petri (l'agente della POLFER ucciso da Mario Galesi e Desdemona Lioce esponenti delle nuove Brigate Rosse) e Massimo D’Antona, ho rappresentato la parte civile nel processo della strage di piazza della Loggia a Brescia. Assieme al collega Nicodemo Gentile mi sono occupato della difesa di Rudy Guede, processo che vedeva il giovane ivoriano accusato dell’omicidio di Meredith Kercher, suscitando grande clamore nella cronaca italiana e internazionale. Da allora ho instaurato un ottimo lavoro di collaborazione con l’avvocato Gentile: lavoriamo in sintonia e dopo il caso Kercher abbiamo assunto la difesa della mamma di Brenda, la transessuale del “caso Marrazzo”; in autunno si aprirà il processo. Attualmente ci stiamo occupando del caso di Avetrana e della difesa di Manuel Winston che ha confessato di essere l’autore dell’omicidio dell’Olgiata e di Salvatore Parolisi».
Come si comportano i clienti le prime volte che si rivolgono a voi, considerando l’attenzione mediatica posta su di loro?
«Inizialmente sono timidi nel cercarci, non sanno come approcciarsi. Tuttavia cerchiamo fin da subito di instaurare un clima disteso, cercando di far capire che siamo persone molto alla mano. Ancorché lei vede lo studio tutto ovattato e affrescato, nel quale ci troviamo durante quest’intervista, spesso accade di incontrare i miei clienti a casa loro, nella loro cucina, in un tranquillo ambiente familiare mettendoli più a loro agio. È fondamentale manifestare un segno di vicinanza in tutti i modi».
Instaurare un clima disteso tra avvocato e cliente vi aiuta nel vostro lavoro…
«…Esatto. Svolgere i colloqui in un tranquillo ambiente domestico aiuta a metterli più a loro agio. Bisogna essere vicini al proprio assistito accorciando il più possibile la distanza tra cliente e avvocato. Ovviamente poi l’avvocato deve saper interpretare il proprio ruolo in maniera professionale all’interno del processo, e dare il meglio per ottenere il massimo risultato processuale».
È stato ospite in svariate trasmissioni televisive che si occupano di cronaca giudiziaria, da “Quarto Grado” a “Porta a Porta”, da “Chi l’ha visto?” a “Matrix” come valuta l’apporto del mezzo televisivo?
«Determinati casi di cronaca per forza di cose assumono una forte visibilità mediatica, è normale che se ne parli nei programmi d’approfondimento. Quando tuttavia la trasmissione assume dei toni troppo insinuatori il cliente viene in qualche modo mal rappresentato o addirittura già giudicato dal pubblico televisivo. Ritengo che l’avvocato in queste situazioni debba prendere parte in questo “processo mediatico”. A partire dal caso di Rudy immediatamente giudicato e condannato dalla televisione, fino a Salvatore Parolisi linciato pubblicamente e processato dai media quando è soltanto il marito della povera Melania. Se il processo si fa, sempre più frequentemente in tv, l’avvocato deve rappresentare il suo cliente anche in questa situazione e le assicuro che non è una cosa semplice».
Giustizia, i Perry Mason dell’Umbria: i grandi casi mediatici visti e raccontati dagli avvocati. L'avvocato Valter Biscotti si è occupato della difesa di Rudy Guede, di Salvatore Parolisi, dei familiari di Sarah Scazzi e dei processi alle vecchie e nuove Br: "Mi fermano in giro per l'Italia e mi chiedono di salutare mamma Concetta", scrive Umberto Maiorca il 19 ottobre 2016 su “La Notizia Quotidiana”. La toga sulle spalle, a discutere davanti ai giudici di Corte d’assise, e poi davanti ad una selva di microfoni e telecamere. Una scena che l’avvocato Valter Biscotti ha vissuto molte volte, sia come difensore dell’imputato sia come rappresentante legale della parte offesa.
Da studente universitario ad avvocato “mediatico”, come hai iniziato?
«Sono avvocato da 28 anni e mi sono diviso sempre tra diritto industriale, dai tempi dell’università, e penale. Ricordo che iniziai con un paio di processi con due maestri come Stelio Zaganelli e Fabio Dean. Poi arrivò l’occasione di partecipare al processo Pecorelli, con la difesa di Calò. Sono stati cinque anni molto intensi, una settimana al mese di udienza, una sorta di master universitario sul campo con professionisti del calibro di Coppi, Naso, Oliviero, Taormina e magistrati come Cardella, Cannevale e Orzella».
Nel tempo sono arrivati altri processi importanti.
«Ho iniziato ad occuparmi di casi di omicidio, come quello di un ragazzo che aveva ucciso la madre o di un anziano che aveva assassinato la moglie. Entrambi furono assolti per incapacità. Il grande salto nel mondo dei media è arrivato con la difesa di Rudy e il processo Mez. Anche se qualche anno prima avevo iniziato ad occuparmi del delitto del soprintendente Emanuele Petri da parte delle nuove Br e avevo partecipato anche al procedimento per l’omicidio di Massimo D’Antona. Si è trattato dei primi delitti delle Br dopo tanti anni durante i quali si riteneva di aver sgominato i terroristi. Assisto ancora oggi i familiari degli uomini della scorta di Aldo Moro, trucidati in via Fani. Sono stato anche difensore di parte civile per la strage di piazza della Loggia. Tutti casi impegnativi che hanno avuto grande risalto su giornali e televisioni. Il processo a Rudy guede, però, è stato un evento mondiale e molto impegnativo. Ricordo che in occasione dell’udienza del riesame avevano montato delle torri per poter trasmettere i servizi. I giornalisti che hanno seguito il caso penso che siano stati, almeno presenti una volta, oltre 200».
Quale rapporto tra giustizia e media, tra avvocati e giornalisti?
«Devi essere capace di trattare con la stampa, perché i media hanno una rilevanza enorme nel processo, soprattutto quando si tratta di un procedimenti indiziario. In certi casi la sovraesposizione mediatica del caso può danneggiare lo svolgimento del processo e le parti coinvolte. L’avvocato, quindi, visto che è chiamato in gioco, deve giocare, nel rispetto delle regole professionali, ma deve saper usare il circo mediatico anche per bilanciare i vari elementi dell’inchiesta giudiziaria. Il “no comment” davanti ai giornalisti è un danno per il cliente. L’avvocato deve saper reagire alle notizie che provengono dalla controparte del difensore dell’imputato. La disparità di potere è rilevante, quindi a volte, bisogna impressionare l’opinione pubblica. Purtroppo mi è capitato che un magistrato si sia lasciato impressionare e abbia avuto paura di prendere decisioni conformi alle risultanze processuali».
Verità processuale e verità dei fatti, le sentenze rispecchiano l’evento?
«No. Alcuni esempi? Il caso Parolisi. È ingiusto perché le risultanze processuali non rispecchiano il tenore delle sentenze. Il caso Rudy lascia ancora tanti dubbi e ombre su quanto sia avvenuto in via della Pergola. Il caso di Sarah Scazzi è stato molto importante e seguito, forse il più mediatico, con ogni canale e ogni trasmissione che ogni settimana dedicava uno spazio. Eppure di omicidi simili ce ne sono stati tanti e ce ne sono in Italia. Dalla sentenza sappiamo tante cose, ma non emerge la verità piena, come è avvenuto l’omicidio, la dinamica resta un mistero».
Troppa visibilità danneggia il lavoro dell’avvocato?
«In casi come quelli nominati occorrono nervi saldi e e una serie di collaboratori per tutti i fronti e per controllare ogni aspetto del procedimento. Bisogna scegliere i migliori consulenti. E bisogna saper rispondere a tutti. Qualche anno fa c’erano solo “Un giorno in pretura” e “Chi l’ha visto?”, adesso ci sono almeno cinque programmi nazionali e decine di siti che fanno cronaca nera. La visibilità porta anche ad essere fermato da estranei nei posti più impensati in giro per l’Italia, tipo in autogrill, e mi dicono: Salutami Parolisi, oppure dì a Concetta, la mamma di Sarah Scazzi, che le sono vicino».
L'avvocato: «Silenzi, omissioni e complicità: come ad Avetrana», scrive Lunedì 25 Settembre 2017 "Il Quotidiano di Puglia”. Questi silenzi, queste omissioni, queste complicità: non voglio richiamare il caso Missere, ma le sensazioni e l’esperienza processuale mi dicono che bisogna ancora chiare se e quale ruolo abbia avuto la famiglia dell’indagato». Parla l’avvocato Walter Biscotti a poche ore dalla nomina ricevuta dal padre di Nomi Durini, di seguire gli sviluppi dell’inchiesta che vede indagato il fidanzato della ragazza per omicidio volontario aggravato dalla premeditazione, dalla crudeltà e dai futili motivi. Non è la prima volta che il legale di Umberto Durini affronti casi di particolare interesse mediatico: è stato l’avvocato di parte civile della madre di Sarah Scazzi (la ragazza di 15 anni fatta ritrovare morta dallo zio Michele Missere il 6 ottobre del 2010 nelle campagne di Avetrana) e l’avvocato difensore Salvatore Parolisi (il caporal maggiore condannato per l’omicidio della moglie Melania Rea del 18 aprile del 2011 a Ripe di Civitella, in provincia di Teramo).
Avvocato Biscotti, perché ritiene che vada approfondito il ruolo della famiglia?
«Le mie sono sensazioni, per ora solo sensazioni, dettate dall’intervista rilasciata al padre e dalla madre a “Chi l’ha visto”. Dico questo perché successivamente il genitore ha affermato di essere stato messo a conoscenza di tutto dal figlio la sera prima. Alla luce delle esperienza maturata in tanti processo in Corte d’Assise, non posso non pensare ad aiuti forniti dalla famiglia. So che la Procura di Lecce sta svolgendo un lavoro egregio, resto però dell’idea della necessità di scandagliare il ventaglio delle possibili responsabilità anche ai genitori. Del resto c’è un dato oggettivo: il padre è indagato per concorso in occultamento di cadavere. Non so se sia stata solo una scelta procedurale per fare perquisizioni o altro, staremo a vedere. Siamo qui anche per questo».
Se dovesse profilarsi un favoreggiamento cambierebbe qualcosa?
«No. Manca la punibilità del reato: nel nostro codice non può essere contestato ad un familiare dell’indagato».
Avvocato, alla luce della ricostruzione fatta dal ragazzo e dei primi esiti dell’autopsia, che idea si è fatto: L.M. mente?
«Ho ricevuto l’incarico poche ore fa, per questo non ho avuto possibilità di valutare direttamente i fatti. Dalle notizie diffuse dagli organi di informazione e fermandomi solo a considerazioni di carattere generale, posso dire che ci siano certamente zone d’ombra nella ricostruzione del delitto. Resta da chiarire se ci siano state delle omissioni volontarie con lo scopo di proteggere qualcuno o se l’indagato non ha saputo essere più preciso durante il primo interrogatorio».
L’autopsia sembra costituire il punto di svolta dell’inchiesta: nominerete un medico legale?
«Non ne vedo la necessità. Il professore Francesco Introna (nominato dalla madre di Noemi, ndr) è uno dei migliori medici legali in Italia. Ed ho già avuto modo di collaborare con lui».
Cerchia familiare e delitti di Puglia. Cosa unisce gli ultimi casi di cronaca con vittime ragazze belle e giovani? Scrive Giandomenico Amendola il 26 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera". La cronaca sembra dar ragione al filosofo francese Jean Baudrillard il quale afferma che nella società contemporanea la realtà insegue l’immaginario e tende a riprodurlo. Tesi ripetuta in un suo volume dal titolo, oggi incredibilmente attuale, “Il delitto perfetto”. Perché è ai delitti di casa nostra che la citazione di Baudrillard fa pensare. Gli assassini di ragazze, belle e giovanissime, Noemi a Specchia e Nicolina ad Ischitella ieri, e Sarah Scazzi ad Avetrana prima, sembrano uscire dalle sceneggiature dei film e delle fiction televisive che raccontano le storie di piccoli paesi, perfetti visti da lontano ma che nascondono terribili segreti. Specchia, Ischitella ed Avetrana sono i più piccoli dei tanti piccoli paesi della Puglia ed anche loro come le cittadine del Midwest dei film americani nascondevano qualcosa. Quelli di Noemi, Nicolina e Sarah non sono, a ben guardare, i consueti delitti passionali, crimini consumati sull’onda del desiderio inappagato o della rabbia per il tradimento. C’è certamente anche questo ma in più appare un terzo inquietante protagonista: la famiglia di cui le ragazzine sono, almeno simbolicamente, le vittime. La zia e la cugina di Sarah ad Avetrana mentre Nicolina è la vittima della passione malata dell’ex compagno della madre. Nella vicenda di Noemi a Specchia incombe l’ombra delle famiglie in antico conflitto tra di loro. Se sia questo uno dei motivi che ha armato la mano di un ragazzo violento e border line non è dato di sapere. Riappare improvvisamente nello scenario di un Mezzogiorno, ormai considerato assolutamente modernizzato, l’antico protagonismo delle famiglie, tema tradizionale di cento ricerche e dell’interesse di autorevoli studiosi stranieri. Nel 1958, quando le nostre regioni sembravano uscire dall’arretratezza secolare, venne proposto dal politologo statunitense Edward Banfield il “familismo amorale” come tratto caratterizzante delle “Basi morali di una società arretrata” (era il titolo del suo importante volume). Le ricerche le aveva condotte vivendo in un paesino della Basilicata, ribattezzato Montegrano. Qui nulla sembrava pensabile senza dover far riferimento alla famiglia i cui valori morali erano assolutamente autoreferenziali o, detto in altri termini, centrati solo sull’interesse e sulle pulsioni dei membri del nucleo. Sono passati sessant’anni da quel libro ed il Mezzogiorno è cambiato profondamente ma, evidentemente, qualcosa del familismo amorale sembra permanere. Nei piccolissimi centri certamente ma anche nelle grandi città come mostrano eloquentemente la politica e le università dove il peso – più o meno amorale – della famiglia è ancora rilevante.
Lo sfogo del papà di Noemi: "Ho sbagliato tutto". Uno sfogo in lacrime davanti le telecamere che ha colpito gli spettatori. Il padre di Noemi: "Con lei e Lucio ho sbagliato", scrive Luca Romano, Lunedì 25/09/2017, su "Il Giornale". Il dolore non passa. Il padre di Noemi Durini fa ancora i conti con quanto accaduto, con quella mano assassina che gli ha portato via una figlia. E in un'intervista a Mattino Cinque il padre della 16 uccisa a Specchia nel Leccese si sfoga e accusa se stesso, colpevole a suo dire, di non aver evitato il peggio per la ragazzina: "Mia figlia era una ragazza dolce e spensierata prima di incontrare quel ragazzo. Il loro era un amore malato. Non ho mai visto un livido sul suo corpo ma sapevo che le faceva del male e quando l’ha capito pure lei è rinata”. Poi svela alcuni retroscena sul passato che hanno una sorta di sapore che sa di rimpianto: “Ricordo ancora quando l’ho portata l’ultima volta al mare e le ho montato la tenda per passare lì la serata. Sono stato uno stupido. Mi ero illuso di poterli aiutare entrambi, e invece ho sbagliato tutto. Mi sento terribilmente in colpa – ha ammesso in lacrime il signor Umberto – potevo fare molto di più per la mia piccola, e invece ho sbagliato”. Il padre della ragazza dunque si sente in colpa per non aver fatto abbastanza per separare quell'unione tra i due ragazzi che infine è costata la vita a Noemi. Un dolore immenso per un padre che adesso prova a cercare delle risposte a domande che forse non ne hanno.
Elisabetta: “Il fidanzato di Noemi mi ha aggredita”, scrive il 25 settembre 2015 Tgcom 24. A Mattino Cinque, parla l’amica di Noemi proprietaria dell’auto distrutta dal ragazzo. Elisabetta, amica di Noemi nonché la proprietaria dell’auto distrutta dal 17enne reoconfesso, racconta in esclusiva ai microfoni di Mattino Cinque i momenti concitati della lite con il fidanzato della giovane di Specchia. “Ho provato a difendere il papà di Noemi dopo che i due stavano discutendo animatamente. Il 17enne alle domande di Umberto ha reagito con un pugno, e così sono intervenuta io. Poco dopo però il giovane ha perso le staffe e ha colpito la mia macchina con una sedia di un bar lì vicino”. Le immagini mostrano il 17enne che distrugge i vetri della Nissan Micra di Elisabetta. “Poi mi ha inseguita – ha aggiunto l’amica di Noemi - per quasi 200 metri urlando “dov’è il papà di Noemi, portatemelo qui”. Stava per raggiungermi, ma per fortuna sono arrivati i carabinieri. Ho avuto paura”.
Noemi: Lucio solo sul luogo del delitto. Telecamera riprende la 500 entrare in uliveto, unica auto in zona, scrive "L'Ansa" il 26 settembre 2017. Spunta un video che confermerebbe che Lucio, il 17enne reo confesso dell'omicidio della fidanzata Noemi Durini, avrebbe agito da solo la notte del delitto. A fornirlo la telecamera di sicurezza di una villa che si affaccia lungo via Enea, il proseguimento della provinciale che da Castrignano del Capo conduce a Santa Maria Leuca, che si affaccia proprio sull'ingresso dell'uliveto dove é stato trovato il cadavere della sedicenne di Specchia il 13 settembre, dieci giorni dopo la scomparsa e il delitto. L'apparecchio riprende poco prima dell'alba del 3 settembre la Fiat 500 con a bordo verosimilmente i due fidanzati, arrivare sul posto e poi, dopo un po', andare via. Da quel terreno quella notte sarà l'unica auto ad entrare ed uscire. L'utilitaria guidata da Lucio viene ripresa la notte del delitto da tutte le telecamere posizionate lungo il tragitto percorso, fino al rientro a Montesardo di Alessano, dove vive Lucio, poco dopo le 7. Il diciassettenne, anche in questo caso, è da solo.
ANSA 19 settembre 2017. L’autopsia compiuta sul corpo in avanzato stato di decomposizione di Noemi Durini non ha finora fornito elementi certi per stabilire le cause della morte della sedicenne, ma i medici legali hanno “forti sospetti” su alcune lesioni presenti tra il collo e la testa della giovane. Il fidanzato di Noemi, detenuto per l’omicidio, ha detto di aver ucciso la ragazza con una coltellata al collo. Noemi sarebbe stata uccisa il giorno della scomparsa, il 3 settembre. L’accertamento sulle cause della morte è abbastanza difficile. Il cadavere di Noemi era molto malmesso, quasi pre-mummificato, e vi erano numerose lesioni su diverse parti del corpo provocate da larve. Il medico legale nominato dalla Procura, Roberto Vaglio, e il consulente della famiglia, il prof. Francesco Introna, hanno deciso di compiere esami istologici e cito-chimici sui tessuti prelevati dal cadavere e hanno disposto l’esame delle larve per accertare l’epoca della morte. I funerali della ragazza si dovrebbero tenere domani alle 16 a Specchia.
L’autopsia conferma: Noemi è stata prima picchiata, poi accoltellata. Rinvenuta nel cuoio capelluto della ragazza la punta del coltello che l’ha colpita. Sul cadavere invece non sono presenti segni di pietrate. Per l’assassino reo confesso, ora rinchiuso in carcere in Sardegna, l’accusa è di omicidio premeditato, scrive "Il Corriere della Sera" il 22 settembre 2017. Prima di essere uccisa Noemi Durini è stata picchiata, probabilmente a mani nude, e successivamente è stata accoltellata al capo e al collo. Lo ha stabilito l’autopsia. I medici legali hanno riscontrato sul cadavere della sedicenne «lesioni contusive multiple da picchiamento al capo e agli arti e lesioni da arma bianca al capo e collo». Come era già emerso ieri, nel cuoio capelluto della sedicenne di Specchia (Lecce) è stata trovata la punta del coltello utilizzata per il ferimento ed è confermata la circostanza, già emersa, che sul cadavere della ragazzina non sono presenti segni di pietrate. L’autopsia è stata compiuta tre giorni fa dal medico legale nominato dalla Procura, Roberto Vaglio, e dal consulente della famiglia della vittima, il medico legale barese Francesco Introna. L’omicida reo confesso, il fidanzato 17enne della ragazzina, è attualmente detenuto in Sardegna con l’accusa di omicidio premeditato. La lama curva, più larga alla base per finire all’estremità ben appuntita, meno lunga del palmo di una mano, col manico di plastica invece di lunghezza maggiore: è la descrizione del coltello da cucina, di quelli usati per sbucciare frutta e ortaggi, che il 17enne fidanzato della sedicenne Noemi avrebbe usato per colpire e uccidere la sua fidanzata. È stato lo stesso giovane reo confesso, attualmente detenuto presso l’Istituto penale per i minorenni di Quartucciu (Cagliari), in Sardegna, a disegnarlo agli inquirenti su un foglio di carta, durante l’interrogatorio del 13 settembre scorso, affermando di non ricordarsi dove lo avrebbe occultato. Il disegno compare tra gli atti acquisiti dagli investigatori. Il 17enne, nel corso dell’interrogatorio, ha riferito di avere avvolto il coltello nella maglietta che indossava e di averlo occultato in una buca fatta nella terra in una zona di campagna in agro di Castrignano del Capo (Lecce), ma non vicino al luogo in cui è avvenuto il delitto. In ogni caso il ragazzo non è stato in grado di indicare il luogo perché in quei momenti era molto agitato. Noemi Durini era scomparsa il 3 settembre scorso ed il suo corpo senza vita è stato ritrovato dieci giorni dopo, sepolto parzialmente sotto un cumulo di pietre in aperta campagna, non lontano da Santa Maria di Leuca, nel comune di Castrignano del Capo. Secondo le dichiarazioni dello stesso ragazzo, sarebbe stata Noemi a portare con sé il coltello la mattina del 3 settembre, per mettere in atto il proposito di uccidere i genitori del ragazzo. Dopo l’esame autoptico, eseguito dal medico legale Roberto Vaglio, la salma di Noemi Durini è stata restituita alla famiglia, e mercoledì scorso, a Specchia, si sono svolti i funerali.
Noemi, l'autopsia non scioglie i dubbi: «Lesioni a collo e testa», scrive il 19 Settembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". L’autopsia non ha fornito elementi certi per stabilire le cause della morte di Noemi Durini, ma i medici legali hanno «forti sospetti» su alcune lesioni presenti tra il collo e la testa della sedicenne. Il fidanzato di Noemi, detenuto per omicidio premeditato, ha confessato di aver ucciso la ragazza con una coltellata al collo: se gli ulteriori accertamenti medico legali dovessero confermare questi sospetti, è probabile che Lucio abbia detto la verità sulle modalità del delitto. Resta da accertare, invece, quale sia stata l’arma utilizzata e se ci sono stati eventuali complici che abbiano aiutato il minorenne a nascondere il corpo. La ragazza - stando ai primi accertamenti - sarebbe stata uccisa il giorno della scomparsa, il 3 settembre, dieci giorni prima il ritrovamento del cadavere sotto una catasta di sassi nelle campagne di Castrignano del Capo. Fu Lucio a portare i carabinieri sul luogo della sepoltura e a dire: "L'ho uccisa io". L’accertamento sulle cause della morte della sedicenne è abbastanza difficile. Il cadavere è molto malmesso, quasi pre-mummificato, e vi sono numerose lesioni su diverse parti del corpo provocate dalle larve. La difficoltà di stabilire le cause della morte nascono proprio da queste lesioni: bisogna capire quali sono quelle inferte dall’assassino e quali quelle provocate dalla larve. Per questo motivo, il medico legale nominato dalla Procura, Roberto Vaglio, e il consulente della famiglia della vittima, Francesco Introna, hanno deciso di compiere esami istologici e cito-chimici sui tessuti prelevati dal cadavere e hanno disposto l'esame delle larve per accertare con esattezza il giorno e l'ora della morte. L’autopsia ha confermato anche quando emerso nei giorni scorsi: la Tac compiuta sul cadavere non ha rilevato fratture né sul capo né altrove. Da qui la ricerca delle cause della morte tra le tante lesioni presenti sul cadavere. All’autopsia erano presenti anche il procuratore per i minorenni Maria Cristina Rizzo e il pm Anna Carbonara. Intanto, la tensione tra le famiglie di Lucio e Noemi resta altissima. I sindaci di Alessano e di Specchia, Francesca Torsello e Rocco Pagliara, chiedono alle loro comunità «di vivere i sentimenti di sgomento e di dolore per l’accaduto con doveroso rispetto». «Ora è giusto - concludono - che la giustizia e le istituzioni operino in un clima sereno, che consenta di giungere alla verità dei fatti, nella convinzione che qualsiasi atto di ritorsione privata e di eccessiva spettacolarizzazione mediatica dell’accaduto danneggino il lavoro degli inquirenti». Si dovrebbero tenere domani pomeriggio, nella chiesa di Specchia, i funerali di Noemi Durini. Il sindaco di Specchia, Rocco Pagliara, si è recato in serata all’ospedale Vito Fazzi di Lecce dove si è tenuta l’autopsia sul corpo della ragazza per firmare alcune pratiche relative al rilascio della salma. A quanto si è saputo, il corpo della ragazza dovrebbe essere restituito alla famiglia già nelle prossime ore. La bara sarà trasportata in via Madonna del Passo, a Specchia, nell’abitazione dove Noemi abitava con la madre mentre domani mattina sarà trasferita presso la camera ardente allestita nel centro “Catsda” che nei giorni della scomparsa della sedicenne aveva funzionato come centro di coordinamento delle ricerche. Alle 15 la salma sarà portata in chiesa e alle 16 si terranno i funerali.
Noemi, dopo il delitto il fidanzato avrebbe compiuto un furto: le immagini delle telecamere. La trasmissione “Quarto Grado” mostra due frame delle immagini riprese dalle telecamere all’interno del negozio. Il diciassette reo confesso dell’omicidio di Noemi Durini avrebbe rubato merce dal valore di pochi euro qualche ora dopo aver ucciso la fidanzata, scrive il 22 settembre 2017 "Fan Page". Prima avrebbe picchiato e accoltellato la sua fidanzata Noemi Durini uccidendola e poi, poco dopo, il ragazzo di diciassette anni ora in carcere con l’accusa di omicidio premeditato avrebbe anche compiuto un furto in un emporio gestito da cittadini di origini cinesi. Lo rivela la trasmissione televisiva di Rete4 “Quarto Grado”, che nella puntata di questa sera ha fornito degli aggiornamenti sulla tragica storia della sedicenne di Specchia (Lecce) uccisa lo scorso 3 settembre. Lucio, re confesso dell’omicidio di Noemi, nel negozio dei cinesi avrebbe rubato due penne di tipo laser, del valore complessivo di tre euro. "Quarto Grado" ha mostrato due frame delle immagini riprese dalle telecamere all’interno del negozio. La rapina sarebbe avvenuta poco dopo le 18.15 del 3 settembre, quindi appunto a poche ore dalla scomparsa e dall’omicidio della adolescente pugliese. Il coltello disegnato dal fidanzato di Noemi – L’inviato della trasmissione Remo Croci ha anche riferito che il ragazzo arrestato, durante l’interrogatorio nella caserma di Specchia in cui ha ammesso di essere l'autore del delitto, ha disegnato l’arma usata per uccidere Noemi. Da quanto emerso, si tratterebbe di un coltello a serramanico che il diciassettenne portava spesso con sé. L’arma avrebbe un bottone che dà lo scatto per l’uscita della lama. Il disegno è stato realizzato su un foglio che poi è stato consegnato agli inquirenti. Il ragazzo avrebbe spiegato di non ricordare il luogo in cui ha nascosto l’arma che per ora non è stata ancora ritrovata. Sicuramente, secondo quanto emerso dall’autopsia effettuata sul cadavere della giovane vittima, l’assassino ha usato un coltello per uccidere. I medici legali hanno infatti riscontrato sul cadavere di Noemi “lesioni contusive multiple da picchiamento al capo e agli arti e lesioni da arma bianca al capo e collo”. Nel cuoio capelluto della ragazzina è stata rinvenuta anche la punta del coltello.
Omicidio Noemi: il ruolo dell’amico Fausto al centro dell’inchiesta, ecco perché, scrive sabato 23/09/2017 Michela Becciu su "Urban Post". L’uomo è stato chiamato in causa dal 17enne reo confesso, che lo accusa di essere stato assoldato dalla vittima per sterminare la sua famiglia. Omicidio Noemi Durini, a Quarto Grado nella puntata del 22 settembre un lungo approfondimento sul delitto di Specchia. Si è parlato, tra le altre cose, di un uomo adulto cui la giovane vittima era legata. Fausto, chiamato in casa dall’assassino reo confesso, secondo cui sarebbe stato assoldato da Noemi per uccidere i suoi genitori che osteggiavano la sua relazione con la ragazza. Remo Croci di Quarto Grado ha intervistato Fausto, che ha rimandato al mittente ogni accusa: “Noemi era legata ad Elisabetta, la figlia dell’amica mia. Lei mi voleva bene, mi chiama papà. Tra noi ci sono stati sempre dei rapporti alla luce del sole”, ha detto. “La Noemi non ha mai fatto uso di droga, che io sappia si limitava a cercare erba, cose così… Ed io ero contrario quando lei e Lucio fumavano le canne, ma lui mi rispondeva che non c’era problema, che fumava spesso l’hashish insieme a suo padre”. Fausto delinea il rapporto conflittuale fra Lucio e suo padre: “Aveva una grande rabbia contro suo padre, una volta mi raccontò che lo picchiò con una pala in testa … Dopo i TSO Lucio era cambiato, sembrava intontito. Dopo l’ultimo, poi, sembra un robot, aveva questi occhi da demone … un demone”. Nega di aver assoldato qualcuno, su richiesta di Noemi, per sterminare la famiglia di Lucio, come invece asserito agli inquirenti dal ragazzo e dai suoi genitori, che lo hanno accusato di ciò di fronte alle telecamere di Chi l’ha visto? – “Assolutamente no, non ho mai fatto una cosa del genere” – ed ammette soltanto di avere sferrato due cazzotti a Biagio, padre del 17enne reo confesso: “Sì è vero, il giorno del ritrovamento di Noemi (13 settembre ndr), erano le 13:30 e l’ho visto fuori dal bar con occhiali e cellulare, era baldanzoso … così ho fermato lo scooter e gli ho dato due cazzotti. Mi hanno fermato, ma io volevo mandarlo all’ospedale … ho i miei dubbi su di lui”. Anche Fausto dunque, così come il padre di Noemi, sospetta che il padre Lucio sia coinvolto nell’omicidio.
«Noemi non mi chiese aiuto per uccidere i genitori di lui», scrive Alessandro Cellini su "Il Quotidiano di Puglia" Giovedì 28 Settembre 2017. Era stato tirato in ballo dal 17enne reo confesso dell’omicidio di Noemi e dai suoi genitori: secondo loro, avrebbe dovuto procurare alla ragazza un’arma con cui ucciderli. Ora Fausto Nicolì, 49enne di Patù, vuole giustizia. Non gli va giù quella ricostruzione (che anche gli investigatori ritengono poco credibile) che lo dipinge come un complice nel progetto di un duplice omicidio. E così si è rivolto alla giustizia: assistito dall’avvocato Luca Puce, Nicolì ha querelato il giovane e i suoi genitori rispettivamente per i reati di calunnia e di diffamazione. L’uomo, nell’atto depositato sia presso la Procura ordinaria che presso quella peri minorenni, ripercorre tutta la vicenda che lo ha visto, suo malgrado, protagonista. Spiega di aver conosciuto entrambi i ragazzi «lo scorso anno, per caso in un bar di Montesardo. Sebbene piuttosto ampia fosse la differenza di età tra noi, accadeva spesso e volentieri di frequentarci anche insieme ad altri giovani». Poi le cose precipitano: la scomparsa di Noemi, il 3 settembre, le indagini, le tensioni in paese e le prime dicerie che corrono di bocca in bocca. Fino alla confessione dell’omicidio, avvenuta dieci giorni dopo, e a quella ricostruzione fornita prima ai carabinieri da L.M. e poi ale telecamere di diverse trasmissioni televisive dai genitori. «Da circa due mesi ho saputo che Noemi Durini, insieme a Fausto Nicolì, avevano deciso di comprare una pistola con cui ammazzare la mia famiglia»: questo ha dichiarato il giovane durante l’interrogatorio. E poi quelle frasi della mamma di lui: «Voleva ammazzare me, mio marito e mia figlia. Aveva raccolto i soldi, la signorina, per darli a Fausto Nicolì di Patù». Troppo, insomma. Accuse insopportabili. Tanto più che lo stesso Nicolì scrive a chiare lettere nella querela: «Il mio coinvolgimento in un presunto progetto di Noemi di uccidere i suoi genitori è del tutto falso». Quando il 49enne viene a conoscenza di queste accuse, non riesce a credere ai suoi occhi e alle sue orecchie: «Sono rimasto letteralmente basito. Conoscevo sì, per sommi capi, di accuse pesanti rivolte al mio indirizzo dal ragazzo, ma mai avrei potuto ipotizzare che costui per difendersi potesse giungere a tanto; ad infangare il mio nome, sebbene io gli sia sempre stato amico e l’abbia anche sempre difeso, tirandomi dentro ad una storia di cui sono, viceversa, mero spettatore e, ancor più, a demolire l’immagine della sua fidanzata, che lui sosteneva di amare tanto». Da qui, dunque, la decisione di querelare sia il ragazzo che i suoi genitori. Un ulteriore tassello in una storia, quella dell’omicidio di Noemi Durini, 16enne di Specchia, che per alcuni versi appare ormai chiara; e per altri - ad esempio sul fronte delle indagini sull’arma del delitto, che ancora non si trova - quanto mai fumosa.
Noemi, è il giorno del funerale. In centinaia per l’addio alla 15enne. L’autopsia: «lesioni provocate da oggetti diversi, ma non da colpi di pietra. L’assassino reo confesso è stato trasferito nel carcere minorile di Cagliari, scrive il 20 settembre 2017 "Il Corriere della Sera". Le «lesioni multiple» rilevate durante l’autopsia compiuta sul collo e sulla testa di Noemi Durini sono state «indotte da mezzi diversi». Quali siano questi mezzi, al momento non è certo perché il corpo è fortemente interessato dall’azione demolitiva delle larve degli insetti. Saranno quindi necessari esami istologici sui tessuti. Sul corpo della 16 enne di Specchia, uccisa dal fidanzato, non sono presenti segni di colpi di pietra. I medici legali sono riusciti a ricostruire quanto è avvenuto il 3 settembre scorso, giorno della scomparsa e dell’uccisione della giovane. Sulla ricostruzione dei fatti, la procura di Lecce ha imposto il riserbo. Durante l'autopsia sono stati anche eseguiti tamponi che saranno inviati al Ris di Roma. L’accertamento è stato disposto al fine di procedere a confronti con il dna di persone che potrebbero aver avuto un contatto con la vittima o anche solo con il suo cadavere. Materiale per procedere a questo confronto sarebbe già in possesso degli investigatori. Per questo motivo la famiglia di Noemi, oltre al medico legale di fiducia che ha partecipato all'autopsia (Francesco Introna) ha nominato consulente la genetista forense romana Marina Baldi. Su eventuali complici che possano aver aiutato Lucio, il fidanzato 17enne e assassino reo-confesso della ragazza, la Procura ha indagato formalmente per sequestro di persona e occultamento di cadavere il padre di Lucio a casa del quale, nei giorni scorsi, i Ris hanno compiuto una minuziosa perquisizione.
I funerali di Noemi. La bara bianca della 15enne è stata trasportata a spalla tra due ali di folla e accompagnata da un lungo applauso commosso fino alla nella chiesa parrocchiale di Santa Maria Vergine di Specchia, dove sta per iniziare la cerimonia funebre. Il feretro è stato vegliato nella camera ardente, era preceduto da una grande foto di Noemi e seguito dalla famiglia della giovane, mamma, padre e due sorelline. La chiesa è gremita e moltissima gente è rimasta fuori. Alla cerimonia, presieduta dal vescovo, Vito Angiuli, partecipa anche il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano.
L’omelia. «Non rifugiatevi nella solitudine del vostro mondo, ma lasciateci intravvedere l'immenso desiderio di bene che alberga dentro di voi. Affrontate con coraggio la vita, non scoraggiatevi di fronte alle difficoltà». È uno dei passaggi dell'omelia di monsignor Vito Angiuli, vescovo di Ugento, al funerale di Noemi. Operatori tv e fotografi sono rimasti fuori, e nel piazzale antistante la chiesa un altoparlante ha diffuso il rito funebre alle tante persone che non sono riuscite ad entrare. «L'uccisione di una donna si ripresenta, nel nostro tempo, con sempre maggiore frequenza - ha detto ancora il vescovo - Cambiano scenari, motivazioni, età e condizioni sociali, ma efferatezza, crudeltà e ferocia sono simili. Cosa sta accadendo alla nostra società? perché, nonostante il tanto parlare, la donna non è ancora rispettata? Perché sempre più spesso i giovani si sentono soli e, non trovano chi ha tempo da dedicare a loro per ascoltarli e orientarli?». Cara Noemi, cercavi l’amore, hai trovato la morte ma Dio ti ridona la vita». Con queste parole monsignor Angiuli, ha chiuso l’omelia.
La mamma di Noemi: «Non voglio odio». «Non voglio odio, non odiate, perché l'odio porta solo violenza». È l'appello che la mamma di Noemi Durini ha rivolto ai giovani parlando dall'altare a conclusione della cerimonia funebre per la figlia uccisa dal suo fidanzato. «Vi chiedo - ha aggiunto - se avete problemi, venite a casa di Noemi e parlate, la porta sarà sempre aperta per ascoltarvi». Alla fine della cerimonia ci sono stati altri applausi e palloncini bianchi sono stati fatti volare sulle note della canzone «Vietato morire» di Ermal Meta, hanno accompagnato l'uscita della bara bianca di Noemi dalla chiesa parrocchiale di Specchia. Il feretro era portato a spalla da personale della protezione civile che nei giorni corsi ha partecipato alle ricerche della ragazza, quando ancora si sperava che fosse viva.All'uscita della chiesa, il corteo si è diretto verso la casa di Noemi per una breve sosta di raccoglimento. Poi si è mosso nuovamente verso il cimitero dove domani avverrà la tumulazione.
Lucio è a Cagliari. Intanto, il diciassettenne è stato trasferito dall’istituto minorile penale di Bari a quello di Quartucciu, in provincia di Cagliari. Nel carcere sardo il giovane sarà anche sottoposto a cure mediche. Intanto, l’insegnante Agnese Maisto, amica della mamma di Noemi, ha lanciato un appello a raccogliere fondi per sostenere le spese processuali della famiglia Durini. E anche per avviare la costruzione di un centro antiviolenza.
Noemi, l'appello della madre ai funerali: "Giovani, l'odio porta soltanto violenza". Centinaia di persone hanno partecipato in Salento al funerale della ragazza uccisa dal fidanzato 17enne. L'omelia di monsignor Angiuli contro la violenza sulle donne, scrive Chiara Spagnolo il 20 settembre 2017 su "La Repubblica". "Non voglio odio. Non odiate, perché l'odio porta soltanto violenza". E' l'appello che la mamma di Noemi Durini ha rivolto ai giovani parlando dall'altare a conclusione della cerimonia funebre per la figlia sedicenne uccisa dal suo fidanzato. "Mia figlia è morta, ma ha vinto lo stesso perché lei non provava odio - ha aggiunto - A voi ragazzi ora chiedo: se avete problemi, venite a casa di Noemi e parlate. La porta sarà sempre aperta per ascoltarvi". La messa è stata celebrata dal vescovo della diocesi di Ugento-Santa Maria di Leuca, monsignor Vito Angiuli, il quale ha lanciato un appello dall'altare: "Ciò che è accaduto a vostra figlia e alla vostra famiglia potrebbe accadere ad altre ragazze e ad altre famiglie: Noemi cercava l'amore e ha trovato la morte". Migliaia di persone hanno partecipato alla cerimonia funebre a Specchia: fra loro anche il governatore Michele Emiliano. Nel piccolo paese del Salento è stato un altro giorno segnato dal dolore. Prima la veglia funebre in casa della ragazza, poi la camera ardente allestita nel centro Capsda in cui fino a sette giorni fa sono state coordinate le ricerche. Le lacrime delle amiche, i ricordi spezzati dal pianto, gli abbracci alla mamma Imma e alla sorella Benedetta, per ore seduta accanto alla bara bianca. C'era anche il padre della vittima, Umberto Durini, che nei giorni scorsi aveva lanciato accuse durissime, ipotizzando il coinvolgimento nell'omicidio del padre del fidanzato della figlia, indagato per occultamento di cadavere. Al ragazzo (arrestato il 13 settembre e trasferito nel carcere minorile di Quartucciu a Cagliari, dopo alcuni giorni trascorsi a Bari) vengono contestati i reati di omicidio premeditato, aggravato dalla crudeltà e dai futili motivi, occultamento di cadavere e porto di oggetti atti ad offendere fuori dalla sua abitazione. L'autopsia non ha fornito risposte definitive sul decesso ma sul collo e sulla testa della ragazza sono state riscontrate "lesioni multiple" probabilmente prodotte da più armi. E se pure l'intera comunità di Specchia è stata coinvolta prima nelle ricerche della ragazza (scomparsa il 3 settembre e il cui corpo è stato trovato il 13 vicino Leuca grazie alla confessione del fidanzato) e poi nell'inchiesta (molte le persone interrogate), in paese c'è stato spazio soltanto per il dolore. "Sappiamo che in un momento tragico come questo è difficile tenere a freno il rancore e l’amarezza- ha detto nell'omelia monsignor Angiuli - Il lutto può generare torpore e stordimento. E' possibile, forse, nutrire sentimenti di astio e di risentimento nei riguardi di chi ha portata via troppo presto vostra figlia. È un evento destabilizzante e devastante. Vanno in frantumi il futuro, i sogni, i progetti. Muore una parte della vostra vita". Ma proprio in questo momento di dolore lacerante, il vescovo ha rinnovato la vicinanza della comunità alla famiglia. Durini. E don Tonino De Giorgi, parroco di Specchia, ha ribadito la necessità di "affidare agli inquirenti la ricerca della verità", invitando i testimoni "a dire tutta la verità". Dell'ansia di giustizia del piccolo paese salentino ha parlato anche il sindaco Rocco Pagliara al termine della celebrazione funebre: "La morte di Noemi ci ha lasciato la responsabilità di chiedere giustizia e di non permettere più che una donna subisca un'azione violenta. Per questo esorto tutte le ragazze ad aprire gli occhi, a essere vigili, a non accettare nemmeno il primo schiaffo o la violenza verbale, che uccide una donna rendendola fragile". Il primo cittadino ha poi ammesso che una diversa attenzione da parte di tutte le istituzioni avrebbe potuto salvare la vita della ragazza: "Non abbiamo capito e non siamo intervenuti quando avremmo potuto. Perdonaci, Noemi, se ti abbiamo lasciata sola". Per lei, per la sedicenne che le amiche durante la preghiera hanno ricordato come "una ragazza solare", "grintosa e un po' ribelle per celare le tue insicurezze", all'uscita della bara bianca dalla chiesa madre sono stati esposti striscioni e lanciati in volo palloncini bianchi. Un lungo applauso ha accolto il passaggio tra migliaia di persone, mentre il coro intonava la canzone Vietato morire di Ermal Meta. Quella che a Noemi piaceva tanto e mai avrebbe pensato sarebbe stata suonata al suo funerale.
Camera ardente a Specchia alle 16 i funerali di Noemi, scrive il 20 Settembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". Disperazione, strazio di una intera comunità, dolore, incredulità, e tanta rabbia, ma l'odio no. E’ stata la mamma di Noemi a tentare di tenere fuori della chiesa di Specchia, gremita per i funerali di sua figlia uccisa dal fidanzato, il sentimento più distruttivo che si possa provare dinanzi al feretro bianco di una sedicenne. Lo ha fatto dall’altare rivolgendosi ai giovani dopo giorni di accuse e tensioni incrociate tra le famiglie coinvolte nella vicenda: «Non voglio odio - ha detto - perché l’odio porta solo violenza». «Vi chiedo - ha aggiunto - se avete problemi, venite a casa di Noemi e parlate, la porta sarà sempre aperta per ascoltarvi». Parole che hanno fatto esplodere la commozione trattenuta fino ad allora a stento nella chiesa e sul sagrato dove centinaia di persone si sono fermate non riuscendo ad entrare. E che hanno rilanciato l’appello rivolto dal vescovo di Ugento, mons. Vito Angiuli, che nella omelia si è rivolto anche lui ai giovani invitandoli a «non rifugiarsi nella solitudine del loro mondo, ma ad aprire i loro cuori e confidarsi». Un appello diretto al mondo di adolescenti in cui è maturata questa tragedia e a Lucio, il diciassettenne che il 13 settembre scorso, dopo dieci giorni di ricerche, ha confessato di avere ucciso Noemi e di averla nascosta sotto una catasta di pietre in campagna. «Noemi, cercavi l’amore e hai trovato la morte», ha detto il vescovo, esprimendo comprensione per lo strazio della famiglia ma invitandola a «tenere a freno rancore e amarezza, nutrendo sentimenti di astio e risentimento nei riguardi di chi ha portato via troppo presto vostra figlia». Mons. Angiuli si è anche interrogato sulle cause che hanno portato a questa tragedia e ha invitato tutti a riflettere «perché - ha detto - ciò che è accaduto a Noemi potrebbe accadere ad altre ragazze e ad altre famiglie. Anzi, accade sempre più spesso». All’ingresso e all’uscita dalla chiesa ali di folla hanno accompagnato con applausi il passaggio della bara bianca di Noemi. L’ultimo corteo, all’uscita dalla chiesa, è stato preceduto dalle note della canzone di Ermal Meta 'Vietato Morire' e dal lancio di palloncini bianchi. La fine del funerale e la tumulazione, che avverrà domani, non mettono la parola fine sulla vicenda perché, dal punto di vista investigativo sono ancora molti i quesiti da chiarire. L'autopsia, infatti, eseguita ieri, non ha chiarito del tutto le modalità dell’uccisione di Noemi accertando comunque che la morte è stata provocata da lesioni multiple sul collo e sulla testa provocate da oggetti di varia natura. Non si sa ancora quale sia l’arma usata e questo è importante per capire se il presunto assassino abbia detto la verità quando ha confessato di avere accoltellato la ragazza e di avere agito da solo. Il coltello non è stato trovato, e gli investigatori sospettano che qualcuno lo abbia aiutato. Per questo è indagato anche il padre del ragazzo, accusato al momento di sequestro di persona e occultamento di cadavere. Più chiarezza arriverà dagli esiti di altri esami e dalla comparazione di eventuali tracce di Dna di altre persone che potrebbero essere entrate in contatto con la ragazza primo o dopo la morte. Oggi, mentre Lucio veniva trasferito dall’Istituto minorile penale di Bari a quello di Quartucciu (Cagliari) dove sarà anche sottoposto a cure mediche, a Specchia la comunità sconvolta tentava di reagire: un gruppo di cittadini ha avviato una raccolta fondi per creare un centro anti-violenza e di aiuto alle persone che vivono disagi e difficoltà. A rappresentarli è Agnese Maisto, una delle insegnati di Noemi. (Di Paola Laforgia, ANSA)
Omicidio Noemi, il padre di Lucio in diretta a Quarto Grado: “Noemi vittima delle sue amicizie”, scrive Filomena Procopio il 7 ottobre 2017 su "Ultime Notizie Flash". Nella puntata di Quarto Grado in onda il 6 ottobre 2017 è stato trattato ancora una volta, un tema delicato, quello dell’omicidio di Noemi Durini, la sedicenne di Specchia uccisa dal suo fidanzato Lucio, diciassettenne di Alessano. Come sempre, anche in questa occasione, l’inviata del programma di Rete 4 era davanti la casa dei genitori di Lucio in diretta per raccontare le ultime notizie sul caso. Dopo qualche minuto, chiede di poter intervenire anche il padre di Lucio, il signor Biagio, che vuole precisare alcune cose in diretta. L’uomo spiega a Nuzzi, correggendolo, che i famosi cellulari “presi” da suo figlio, sono stati riconsegnati ai Carabinieri da lui, a dimostrazione del fatto che in questa vicenda ha sempre voluto collaborare e non ha mai nascosto quello che suo figlio faceva. Il conduttore ha poi chiesto al signor Biagio quali siano le responsabilità in questa storia, delle famiglie. La sua risposta: Io credo che le famiglie non abbiano responsabilità in questa storia, soltanto che magari qualcosa è sfuggita di mano, certamente le responsabilità, secondo me vanno cercate nelle amicizie di queste ragazze, io credo, mi posso sbagliare ma non credo. Queste le parole del padre di Lucio che ancora una volta ribadisce il suo punto di vista. Il conduttore gli chiede poi se abbia una parola per Noemi, sperando di ascoltare magari, finalmente, qualche parola d’affetto. L’uomo risponde con queste dichiarazioni: Una parola per Noemi, per me è una vittima, lo è sempre stata, è una vittima delle sue amicizie e di qualcuno che non ha fatto il suo dovere. Mi ascolti signor Nuzzi, mio figlio viveva a casa mia, io ho cercato di fare il meglio. Io penso che nella famiglia di lei debba trovare le risposte. Qualcuno deve mordersi dove non riesce. Quella ragazza andava curata. Dopo le parole del padre di Lucio ha deciso di intervenire in diretta la madre di Noemi che non può permettere che sua figlia, anche da morta, venga insultata in questo modo.
La mamma di Noemi Durini in diretta a Quarto Grado: “La famiglia di Lucio deve pagare con la galera”, scrive ancora Filomena Procopio il 7 ottobre 2017 su "Ultime Notizie Flash". E’ stata una puntata movimentata quella di Quarto Grado in onda il 6 ottobre 2017. In studio si parlava dell’omicidio di Noemi Durini, la sedicenne di Specchia uccisa dal suo fidanzato, il giovane Lucio. Mentre in diretta si raccontavano le ultime notizie sul caso, il padre di Lucio ha chiesto di intervenire rilasciando delle discutibili dichiarazioni che hanno provocato, come era immaginabile, la reazione della mamma di Noemi, la signora Imma, che ha deciso quindi di chiamare il programma per dire la sua in diretta. Il padre di Lucio ancora una volta ha tirato in ballo le amicizie di Noemi, dicendo che bisogna cercare in quella cerchia i motivi della morte della ragazza. La mamma di Noemi non ci sta e vuole ricordare chi fosse realmente sua figlia. “Io non volevo più intervenire, da un mese viviamo un dolore immenso, mia figlia è sotto terra e qui si parla ancora di amicizie” queste le parole della mamma di Noemi che definisce delle bestie i genitori di Lucio e che chiede che giustizia venga fatta. “Adesso basta, questa bestia, devono lasciare in pace mia figlia, noi ce la piangiamo e loro dimenticano che sta sottoterra. Il buonismo non esiste in quella famiglia. Noi siamo le persone oneste. Qui si trattava di un ragazzino che ha sempre subito sin dall’adolescenza. Io la querelo signor Biagio. Lei non deve diffamare mia figlia. Noemi sta sotto terra. L’altra sua figlia la sta facendo diventare peggio di lei. Io non ho paura. Io non odio. Io non porto rabbia l’ho sempre detto ma adesso basta, dovete lasciare in pace mia figlia, Noemi deve riposare in pace. Lei sta in mezzo alle persone che le vogliono bene. Io ogni giorno vado al cimitero per pregare mia figlia. Adesso basta. Questa bestia deve stare in silenzio. Io sono una mamma”.
Il conduttore le chiede perchè il padre di Lucio tira sempre in ballo queste amicizie: Mia figlia era sempre amica di tutti, mia figlia andava ad aiutare le persone con i problemi, perchè di questo non si parla? Perchè buttare fango? Si dovrebbe solo guardare allo specchio e vergognarsi. Le loro anime saranno dannate a vita. La giustizia ci deve essere. Mia figlia ha sedici anni e non c’è più. Io li voglio vedere tutti in galera a pagare per quello che hanno fatto.
Noemi Durini: gli ultimi istanti dei due fidanzati visti dalle telecamere. Da Quarto Grado le novità e opinioni sul caso della giovane assassinata dal fidanzato, scrive Marta Migliardi su "it.blastingnews.com" il 6 ottobre 2017 e curato da Federico Gonzo. La famiglia è il tema della puntata del 6 ottobre di #Quarto Grado. E, trattando il caso Durini, si concentra particolarmente sulle figure della madre e del padre di Lucio. Ma tutto comincia con l'osservare ancora le #telecamere, che, data la confessione spesso contraddittoria del presunto omicida, al momento sono capi saldi che possono direzionare le indagini.
I ragazzi sembravano tranquilli. Nel servizio di Croci e Lombardi si vedono due figure che si muovono nella notte, Lucio e Noemi. Nelle immagini sgranate della telecamera i due sembrano tranquilli. Salgono in auto e si accede la lucina interna. Alle 5.09 la macchina parte. A Castigano del Capo, nell'oliveto a pochi Km di distanza Noemi verrà poi trovata morta. Lucio dichiara di aver avuto con Noemi un rapporto sessuale e dopo una lite di averla uccisa. Tutto da solo. Lui dichiara che il luogo dove si è recato con Noemi fosse casuale. Ma le cose stanno così? Davvero il luogo era uno qualsiasi? Nella confessione racconta che prima si erano fermati a Santa Maria di Leuca. La costante nei suoi racconti, cercando di depistare, è che Noemi facesse uso di droga. Nella droga arriva ad indicare un possibile movente, prima di confessare. L'oliveto dove farà ritrovare il cadavere, tra l'altro, è diviso in 14 appezzamenti. Perché l'ha scelto? Forse voleva allontanare i sospetti lasciando la ragazza inerme su un terreno con molti possibili collegamenti? Possibile che gli agricoltori addetti alla potatura non lo abbiano notato? Le immagini delle telecamere Lucio e Noemi mentre salgono in macchina sono gli unici documenti oggettivi di questa storia e ne fissano la dinamica. Possono anche far venir fuori le contraddizioni del ragazzo. Le telecamere possono raccontare se Lucio ha fatto da solo o no. Che ruolo ha il padre di Lucio, che prima del ritrovamento del corpo ammise che il figlio gli diceva bugie?
La telecamera davanti all'ingresso secondario. Le telecamere ci aiutano, come quella davanti all'ingresso secondario della casa di Lucio. Quarto Grado scopre che sotto il pergolato del vicino vi è una telecamera che potrebbe aver ripreso Lucio al suo rientro a casa il 3 Settembre. Si interpellano i vicini stessi, proprietari della telecamera, ed effettivamente si vede bene il garage da dove Lucio sarebbe rientrato con la macchina. Il vicino dice che il 3 settembre la camera funzionava. Questo modello di telecamera sovrascrive i dati ogni tre giorni, ma gli inquirenti hanno sequestrato la memoria, che potrebbe rivelare se davvero Lucio era solo e a che ora è tornato. Qualora si riuscissero a recuperare, le immagini potrebbero anche svelare se il ragazzo indossava la maglietta o era a torso nudo, come da lui dichiarato. A indicare la telecamera fu proprio Biagio, il padre di Lucio. Il sig. Lucio si presta alle telecamere di Quarto Grado e dice che le responsabilità vanno ricercate nelle amicizie che aveva Noemi. Ribadisce che Noemi stessa è una vittima delle sue amicizie.
La mamma di Lucio. Che ruolo ha la mamma di Lucio? Nel servizio di Valentina Fabris vediamo descrivere meglio la figura della madre di Lucio, Rocchetta Rizzelli. Una madre preoccupata e in ansia, così pare, che definisce il figlio schiavo del rapporto con Noemi. Una madre attenta che però non si preoccupa del fatto che a mancare dal guardaroba sia proprio la maglia che pare Lucio indossasse il giorno del delitto. Ha sempre accompagnato Lucio agli interrogatori. Non era invece presente quando lui confessò. Gli inquirenti stessi hanno notato un cambio di atteggiamento. Senza la madre piange, è meno strafottente e spavaldo. La donna, comunque, è convinta che il figlio la abbia uccisa per difenderli, perché Noemi voleva, a detta sua, assassinare lei e il marito. I sospetti verso la donna sono nati anche per l'astio feroce verso Noemi, nei confronti della quale, anche una volta saputo della sua morte, non sono state spese parole di pietà. Sempre in tema di famiglia Remo Croci riporta una lettera scritta questa volta dalla mamma di Noemi, la signora Irma, dove la donna si aggrappa alla fede e respinge ogni forma di odio e di rabbia. Ma ci tiene a specificare che Noemi era una 16enne come tutte le ragazzine della sua età. "Noemi è la vittima, solo la vittima. Nessuno ha il diritto di infangare la sua memoria. Manterrò la promessa e le farò giustizia" #noemi durini.
Compie in carcere i 18 anni l'assassino di Noemi Durini, scrive il 02 Dicembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". Ha compiuto 18 anni in carcere, oggi, Lucio, il fidanzato assassino di Noemi Durini. Il giovane di Montesardo, frazione di Alessano, arrestato lo scorso 13 settembre, reo confesso, è detenuto nell’istituto per minorenni di Quartuccio in Sardegna, con l’accusa di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione, dalla crudeltà e dai utili motivi. Secondo quanto riferito dai suoi legali, il giovane è controllato a vista per via dei reiterati propositi suicidi che lo hanno portato, per i sensi di colpa, a infliggersi gesti di autolesionismo. La direzione penitenziaria del carcere avrebbe inviato una segnalazione alla Procura per i minorenni di Lecce per valutare l’ipotesi di un trasferimento in una struttura psichiatrica. Possibilità che però potrà essere presa in esame dopo che sarà ultimata la perizia in corso disposta dal gip del Tribunale per i Minorenni di Lecce Ada Colluto. Nonostante il raggiungimento della maggiore età il fascicolo dell’inchiesta resterà di competenza della Procura per i minorenni di Lecce.
La perizia rivela: «Il killer di Noemi capace d’intendere», scrive Alessandro Cellini, Sabato 13 Gennaio 2018, su "Il Quotidiano di Puglia”. Lucio era capace di intendere e di volere al momento dell’omicidio. Questo dice la perizia psichiatrica disposta sull’assassino reo confesso di Noemi Durini, la 16enne di Specchia uccisa il 3 settembre scorso nelle campagne tra Castrignano del Capo e Santa Maria di Leuca. Le conclusioni dei consulenti Alessandra Zafferano e Maria Grazia Felline, nominati dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale per i minorenni Ada Colluto, sono state depositate nei giorni scorsi. E saranno oggetto di discussione a partire dall’8 febbraio, giorno in cui è stato fissato l’incidente probatorio. E sarà battaglia anche sulla scorta delle altre perizie: quella della difesa, quella della Procura per i minorenni, e infine le due - distinte - disposte dai genitori della ragazzina. I dettagli degli accertamenti disposti dal Tribunale si sapranno solo nei giorni a venire. Ma l’indicazione trapelata nelle scorse ore è di fondamentale importanza per il prosieguo del procedimento giudiziario nei confronti dell’indagato. Il neo diciottenne è accusato di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione, dai motivi abietti e futili e dalla crudeltà, soppressione di cadavere, e porto di oggetti atti a offendere. E nella relazione dei consulenti nominati dal gip sono contenute anche le considerazioni relative al rapporto tra Lucio e i suoi genitori, nonché quelli tra il ragazzo e i genitori di Noemi: tutti e quattro sentiti dai periti nei mesi scorsi. Un rapporto decisivo per tratteggiare la personalità dell’indagato, anche alla luce delle tensioni tra le famiglie relative alla relazione tra i due ragazzini. «Occorre accertare - scriveva il gip nella richiesta ai due consulenti - le caratteristiche della personalità, le capacità cognitive ed intellettive di Lucio in rapporto all’età, alle condizioni di vita socio-familiare ed alle condizioni di salute psichica, al fine di valutare il suo stato mentale al momento del fatto e stabilire se e in quali termini fosse capace di intendere e di volere in quel momento, nonché al fine di valutare la sua capacità di partecipare coscientemente al processo». L’omicidio sconvolse un’intera comunità, ed ebbe una eco nazionale: Noemi scomparve il 3 settembre e di lei non si ebbero più notizie fino a dieci giorni più tardi, quando il suo fidanzato, Lucio, ammise davanti ai carabinieri di averla uccisa. Fornendo, però, versioni sempre diverse e contrastanti sul tragitto, sul movente e su altre circostanze. Il 20 ottobre, ai funerali di Noemi, celebrati dal vescovo della diocesi di Ugento-Santa Maria di Leuca monsignor Vito Angiuli, parteciparono migliaia di persone. L’ultimo saluto di un paese ancora sotto shock.
"Così ho ucciso Noemi". La confessione dell’ex fidanzato della giovane ragazza. La 16enne di Specchia è stata uccisa nelle campagne di Castrignano, vicino a Lecce, lo scorso settembre, scrive la Redazione di Tiscali il 14 gennaio 2018. Una coltellata in testa per poi essere colpita ripetutamente con un sasso. Questa la morte atroce di Noemi Durini, la 16enne di Specchia uccisa nelle campagne di Castrignano, vicino a Lecce, lo scorso settembre. A raccontarla con freddezza e distacco Lucio, il fidanzato della ragazza e autore del delitto nel corso dell'interrogatorio. Alla base dell'omicidio, ricostruisce il 17enne davanti agli inquirenti, l'insistenza di Noemi che lo avrebbe aggredito all'ennesimo rifiuto del ragazzo di uccidere i suoi genitori: "Ho saputo che Noemi Durini insieme a Fausto Nicolì aveva deciso di prendere una pistola - dice Lucio -, volevano togliere di mezzo mio padre e mia madre in modo tale che io dovevo vivere la vita normalissima con Noemi. Però io gli ho spiegato a Noemi che se ci teneva a me, visto che io ci tengo ai miei genitori, non voglio ammazzare i miei genitori, gli avevo detto di aspettare che io facevo 18 anni e ce ne andavamo per i fatti nostri". Una richiesta cui, nelle parole di Lucio, Noemi non vuole arrendersi: "Quella notte ci siamo incontrati perché lei ha detto 'Vienimi a prendere così andiamo e ammazziamo i genitori tuoi'. Mi aveva fatto quasi del tutto il lavaggio del cervello, perché io ero attratto da lei, ero innamorato di lei, non volevo perderla. Io non volevo - aggiunge - io volevo farla ragionare. Al che non ho preso la strada di casa mia". Lucio devia il percorso e i due ragazzi hanno da prima una lite furibonda, con Noemi che tira fuori un coltello da cucina - "Lei aveva il coltello in mano, come se mi minacciava anche a me: 'dobbiamo andare ad ammazzarli'" - e poi un rapporto sessuale nelle campagne circostanti. Un momento di serenità, e la situazione precipita: "Siamo scesi dalla macchina, lei ha cominciato ha gridare 'No, noi dobbiamo ammazzarli, noi dobbiamo ammazzarli', e come ha fatto nel passato, che prendeva comando su di me, ha cominciato a spingermi e a graffiarmi, a fare cose così e io da là non ci ho visto più". Nel racconto senza emozioni di Lucio, gli ultimi istanti di vita di Noemi sono agghiaccianti: "E' successo che sono andato di dietro e le ho infilzato il coltello in testa - mima il gesto il 17enne -, e poi con delle pietre le ho frantumato la testa. L'ho lasciata stesa e ho meso delle pietre sopra solo. Sopra di lei. Però in quel momento non capivo niente. So di averla colpita alla nuca - dice ancora -, ma non so in quale punto... Poi si è spezzata la lama dentro, io mi sono ritrovato il manico in mano e me lo sono messo in tasca. L'ho colpita con la pietra un paio di volte". Il ragazzo a questo punto nasconde il cadavere e scappa: "L'ho trascinata dove ho visto che c'era un muretto crollato, l'ho messa di fianco, le pietre le ho prese e l'ho coperta. Ero talmente agitato che sono corso in macchina. Non mi ricordo neanche il luogo dov'era Castrignano talmente tanto che ero agitato. Tremavo così... mi sono fatto una sigaretta, mi sono tolto la maglietta. Ero in aperta campagna, non stavo nel paese, mi sono tolto la maglietta, ho messo il manico dentro, ne ho fatto una palla, ho fatto una buca nella terra, ho messo dentro e ho chiuso". Il corpo di Noemi sarà ritrovato solo 10 giorni dopo, quando Lucio ammetterà le sue responsabilità e condurrà gli inquirenti sul luogo del delitto.
Noemi Durini, l’interrogatorio choc di Lucio: “Coltello nella nuca”. Poi il colpo di scena: “Non l’ho uccisa io”, scrive la redazione di Blitz Quotidiano" il 13 gennaio 2018. “Le ho conficcato un coltello nella nuca”. Così Lucio, il giovane accusato di aver ucciso la fidanzatina Noemi Durini di appena 16 anni, ha confessato ai pm il tragico delitto avvenuto lo scorso 3 settembre. Alcuni spezzoni di quell’interrogatorio choc sono stati mostrati nel corso di uno speciale a Quarto Grado, in onda su Rete 4. Poi il colpo di scena. Lucio ritratta tutto in una lettera: “Non ho ucciso io Noemi”. Il giovane di Montesardo, frazione di Alessano, arrestato lo scorso 13 settembre e reo confesso, è detenuto nell’istituto per minorenni di Quartuccio in Sardegna, con l’accusa di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione, dalla crudeltà e dai utili motivi. Quella tragica notte di settembre, la sera dell’omicidio, Lucio l’ha raccontata così ai pm: “Ci siamo incontrati e mi ha detto: ‘Andiamo a uccidere i tuoi genitori’, mi aveva fatto il lavaggio del cervello, aveva un coltello da cucina in mano. Poi ci siamo fermati con la macchina nella campagna, abbiamo avuto un rapporto sessuale, ma quando siamo usciti lei ha iniziato a prendere il controllo su di me. Diceva di andare ad uccidere i miei genitori, mi colpiva e mi graffiava, così ho perso la testa, l’ho presa da dietro e le ho conficcato il coltello nella nuca. Poi le ho fracassato la testa con una pietra”. Lucido, spietato, non mostra sofferenza o empatia. Il racconto del giovane prosegue: “Ero ancora in campagna, ho nascosto il coltello sotto terra”. Poi a Quarto Grado si è discusso della perizia psichiatrica condotta sul giovane, ritenuto capace di intendere e di volere dai periti. Nel corso della trasmissione sono stati mostrati altri frammenti dell’interrogatorio. Dal rientro a casa con la macchina spenta per non svegliare i genitori e la sorella che dormivano, ai vestiti sporchi di sangue buttati. Poi Lucio inizia a fare domande surreali sul suo futuro: “Lei mi ha cambiato, ero succube. A volte non l’ho chiamata per settimane ma lei mi cercava in paese. Io voglio andare a scuola, fare il secondo e il terzo anno e poi diventare elettrotecnico e andare a lavorare con i miei genitori a Milano. Quando posso tornare a scuola?”. A quel punto il pm lo interrompe: “Lucio, questa è vita vera, non puoi fare queste domande”. Infine il colpo di scena. In trasmissione viene mostrata una lettera in cui Lucio ritratta tutto: “Non ho ucciso io Noemi”.
Noemi Durini. Fausto Nicoli ora è indagato: l’amico e meccanico accusato da Lucio verrà interrogato. Noemi Durini, Fausto Nicoli ora è indagato dopo le accuse del carcere del fidanzatino Lucio. Il meccanico e amico dei Durini sarà interrogato il 29 gennaio: è indagato come atto dovuto, scrive 18 gennaio 2018 Niccolò Magnani su "Il Sussidiario". Alla fine anche la Procura di Lecce segue le indicazioni lasciate in maniera clamorosa qualche giorno fa da Lucio, il 17enne (all’epoca dei fatti) che è accusato di aver ucciso la fidanzatina Noemi Durini in quel di Specchia. “È stato lui, Fausto Nicoli, ad aver ucciso Noemi”: dopo questa rivelazione dell’imputato, ora in carcere minorile a Quartucciu (Cagliari) dopo l’arresto lo scorso 13 settembre, il meccanico 49enne e amico di famiglia dei Durini è stato indagato a sua volta e a breve si terrà il primo interrogatorio a diversi mesi dalle dichiarazioni rilasciate spontanee da chi si è sempre detto sicuro che l’assassino fosse il piccolo ex fidanzato di Noemi (con la collaborazione del padre). «Quella donna è una strega, ma io credo che il responsabile morale di tutta questa tragedia è il padre di Lucio, è un…», lo aveva detto a Pomeriggio 5 mesi fa lo stesso Fauso. Ora però è indagato dopo le parole rilasciate da Lucio che ha ritrattato dopo la prima confessione. Va detto che l’iscrizione del 49enne, con l'ipotesi di omicidio volontario, è un atto dovuto da parte della pm Donatina Buffelli, che coordina le indagini della procura ordinaria di Lecce: Lucio infatti aveva in un primo momento confessato di aver ucciso la ragazzina e aveva anche indicato il luogo dove aveva nascosto il cadavere. Ora ritratta e accusa direttamente l’amico di famiglia dei Durini che si è sempre scagliato contro la famiglia di Lucio, rea di aver “convinto” il ragazzo ad eliminare Noemi. La conferma delle indagini e dei prossimi interrogatori per Fausto Nicoli arriva dal suo legale, Luca Puce: all’Adnkronos ha dichiarato, «il fidanzato di Noemi lo ha accusato in una lettera agli inquirenti e ora per atto dovuto è indagato. Siamo convinti che il mio assistito potrà dimostrare in sede di interrogatorio l’assoluta estraneità ai fatti». In quella lettera pubblicata nei giorni scorsi da Quarto Grado, Lucio sostiene che la sera del drammatico omicidio, si trovava in casa con Noemi a Castrignano del Capo e che lì sono stati raggiunti da Fausto Nicoli. Il meccanico avrebbe consegnato loro una pistola con la quale avrebbero dovuto uccidere i genitori di Lucio: a quel punto però gli animi si sono scaldati e il tutto sarebbe culminato nella coltellata inferta dal 48enne alla testa della povera ragazza. Fausto ovviamente si difende dicendo di essere completamente estraneo ai fatti e dalla sua rimane la prima confessione del ragazzo che dopo mesi avrebbe ritrattato tutto. Intervenendo in una puntata di Pomeriggio 5 ad ottobre scorso, Fausto Nicoli ha raccontato come secondo lui l’esecutore materiale è stato sì Lucio, ma convinto dal padre. «Io credo che però il vero responsabile sia il padre, non so se il killer sia solo Lucio, quello s…», e via altri insulti in una situazione piuttosto imbarazzante in diretta televisiva. Il signor Fausto accusa Lucio e il padre Biagio: ora i ruoli si sono rovesciati ma la Procura di Lecce dovrà capire per bene come si sono svolti i fatti in un omicidio che è tutt’altro che vicino alla soluzione.
Noemi Durini. Video, Lucio ritratta: “Non l'ho uccisa io, è stato il meccanico Fausto”. Noemi Durini, svolta nell'omicidio: video, Lucio ritratta. “Non l'ho uccisa io, è stato il meccanico Fausto”, ha dichiarato il fidanzato della ragazza in una lettera, scrive il 15 gennaio 2018 Silvana Palazzo su "Il Sussidiario". Svolta nell'omicidio di Noemi Durini: il fidanzato ritratta. Dopo quattro mesi cambia versione: dichiara la sua innocenza e accusa del delitto un amico della ragazza. Ad uccidere la 16enne di Specchia sarebbe stato Fausto Nicolì, meccanico 48enne di Patù, già immischiato nella vicenda per fatti secondari. Ora però finisce al centro dell'inchiesta. Lucio lo scorso 3 gennaio ha infatti consegnato una lettera ad un agente di polizia penitenziaria nel carcere di Quartucciu dove è detenuto: la missiva è stata trasmessa alla Procura dei Minori di Lecce e allegata agli atti d'indagine. Il 18enne di Montesardo salentino ha raccontato che quella sera si trovava con Noemi a Castrignano del Capo, luogo nel quale la giovane sarebbe stata uccisa. La coppia sarebbe stata raggiunta da Fausto Nicolì, che avrebbe consegnato alla ragazza una pistola, quella con la quale avrebbe voluto uccidere i genitori di Lucio, secondo le dichiarazioni fornite dallo stesso ragazzo. A quel punto si sarebbero scaldati gli animi, sarebbe nata una discussione culminata nella coltellata inferta dal 48enne al capo della vittima. Intanto, stando a quanto raccolto da Pomeriggio 5, i genitori di Lucio avrebbero chiesto indagini più approfondite e si chiedono perché fosse sempre presente Fausto nel loro rapporto. È stato Fausto Nicolì a uccidere Noemi Durini? A lanciare l'accusa è il fidanzato della 16enne, Lucio. Pronta la replica dell'avvocato del 48enne, il legale Luca Puce: «Non avendo ancora una cognizione completa di quella che, a tutti gli effetti, appare come l'ennesima fantasiosa esternazione da parte di L.M., allo stato, qualsivoglia dichiarazione di intenti nell'interesse dell'assistito sarebbe prematura sebbene accuse così infamanti e impiantate sul nulla lascino basiti e, verosimilmente, non potranno non essere sottoposte, in chiave punitiva, all’autorità giudiziaria». Intanto una perizia psichiatrica disposta nei confronti del 17enne ha stabilito che il ragazzo era perfettamente capace di intendere e di volere. Il contenuto della lettera ribalta le prove acquisite finora dagli inquirenti, che avevano raccolto la confessione dopo l'arresto. E di quel lungo interrogatorio sono stati mandati in onda dalla trasmissione televisiva Quarto Grado venerdì scorso. In un passaggio Lucio si rivolse al pm rivelando la sua intenzione di diplomarsi, diventare elettrotecnico e di trasferirsi a Milano con i suoi genitori. Alcuni stralci dell'interrogatorio choc di Lucio, il giovane accusato di aver ucciso la fidanzata Noemi Durini lo scorso 3 settembre, sono stati mandati in onda da Quarto Grado. «Ho saputo che Noemi Durini volevano togliere di mezzo mio padre. Non volevo ammazzare i miei genitori, così le ho detto di aspettare che compissi 18 anni, poi ce ne saremo andati via a vivere per conto nostro», ha raccontato Lucio ai pm. La notte dell'omicidio si sono incontrati e lei, con un coltello da cucina in mano, gli avrebbe detto di andare ad uccidere i genitori di lui. «Poi ci siamo fermati con la macchina nella campagna, abbiamo avuto un rapporto sessuale, ma quando siamo usciti lei ha iniziato a prendere il controllo su di me». Quando però lei avrebbe ricominciato a dirgli di andare ad uccidere i suoi genitori la situazione è degenerata: «Così ho perso la testa, l'ho presa da dietro e le ho conficcato il coltello nella nuca. Poi l'ho le ho fracassato la testa con una pietra». Nessuna piega mentre racconta dettagli scioccanti dell'omicidio.
Omicidio Noemi, si attende l'interrogatorio del meccanico di Patù. Era già stato interrogato dichiarando la propria estraneità rispetto all'omicidio, scrive il 18 gennaio 2018 la Redazione di Norbaonline. Sarà interrogato il 29 gennaio il meccanico 49enne di Patù recentemente iscritto nel registro degli indagati in relazione all'omicidio di Noemi Durini, la sedicenne di Specchia scomparsa il 3 settembre e il cui cadavere è stato trovato il 13 settembre in una campagna vicino Santa Maria di Leuca. L'iscrizione del 49enne, con l'ipotesi di omicidio volontario, è un atto dovuto da parte della pm Donatina Buffelli, che coordina le indagini della Procura ordinaria di Lecce. I suoi accertamenti sono paralleli a quelli della Procura minorile, che ha finora coordinato l'inchiesta principale sul delitto, confessato dal diciottenne di Alessano che era fidanzato con Noemi. Il ragazzo è stato arrestato il 13 settembre, dopo aver svelato ai carabinieri il luogo in cui era stato nascosto il corpo della ragazzina. E' accusato di omicidio preterintenzionale aggravato, occultamento di cadavere e porto di oggetti atti ad offendere e si trova detenuto nel carcere minorile di Cagliari, essendo stato arrestato quando era ancora minorenne. Il padre è accusato invece di concorso in occultamento di cadavere. Secondo la ricostruzione fin qui emersa dalle indagini della magistratura, il ragazzo avrebbe ucciso Noemi in un impeto d'ira, a causa di problemi sentimentali nella coppia. Nelle scorse settimane il giovane ha scritto una lettera dal carcere - acquisita dagli inquirenti - nella quale indica il meccanico 49enne come responsabile del delitto. L'uomo - stando a quanto già accertato nell'immediatezza del delitto - era un amico di Noemi ed era già stato interrogato, dichiarando la propria estraneità rispetto all'omicidio. Per verificare ancora meglio la sua posizione, la pm Buffelli ha disposto una perquisizione nella sua abitazione di Patù, effettuata alla presenza dell'avvocato Luca Puce. Il legale si dice convinto che il suo assistito potrà dimostrare, in sede di interrogatorio, l'assoluta estraneità ai fatti.
PARLIAMO DI LECCE.
Lecce, voti e favori sessuali in cambio di case: 7 arresti e 46 indagati. C'è anche un senatore della Lega. Le case affidate a persone non in graduatoria, alcune occupate. Secondo i magistrati l'obiettivo era ottenere consenso elettorale dai beneficiari. Fra gli indagati c'è Roberto Marti, scrive il 7 settembre 2018 "La Repubblica". Ex amministratori comunali, consiglieri comunali, alcuni dei quali ancora in carica, e dirigenti del Comune di Lecce arrestati dai militari della Guardia di finanza. Quarantasei le persone indagate, tutte a vario titolo accusate per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione elettorale, abuso d'ufficio e falso ideologico. Voti elettorali sarebbero stati scambiati con alloggi popolari: secondo i magistrati la finalità era quella di acquisire il consenso elettorale dei potenziali beneficiari dei pubblici alloggi. Gli indagati si spendevano per procacciare voti in favore dei candidati del proprio partito, per aumentare il proprio peso all'interno di esso e nei confronti del suo leader. Gli arresti sono stati richiesti dai pm Massimiliano Carducci e Roberta Licci. Non solo case, però, ma anche prestazioni sessuali. Scenari a luci rosse in una vicenda che vede protagonista l'ex assessore alla Mobilità e addetto all'Ufficio casa del Comune di Lecce Luca Pasqualini, oggi consigliere comunale. Contro di lui spunta l'accusa di aver ottenuto prestazioni sessuali da una donna in cambio dell'assegnazione illegittima di una casa. Nell'ordinanza si legge che la donna, di nascosto dal marito, avrebbe mandato dei messaggi all'amministratore comunale in cui si diceva disponibile a ricambiare sessualmente il favore. Gli investigatori fanno riferimento a due incontri tra l'ex assessore e la donna avvenuti proprio nell'ufficio di Pasqualini durante i quali si sarebbero consumati dei rapporti intimi. Dalle intercettazioni telefoniche e dai capi di imputazione ci sono anche nomi di vari big della politica locale e nazionale, ma il loro coinvolgimento nel mercato illecito dello scambio di voti in cambio di alloggi popolari è stato escluso. Fra gli indagati c'è anche il senatore leghista Roberto Marti. Marti, indagato per abuso d'ufficio, falso ideologico e tentato peculato, è stato titolare dell'assessorato ai Servizi sociali del Comune di Lecce dal 2004 e il 2010, nella giunta di centrodestra guidata all'epoca dal sindaco Paolo Perrone. A partire dal 2010, con l'elezione al consiglio regionale della Puglia con il Popolo delle libertà, la carriera politica di Roberto Marti è stata costantemente in ascesa. Nel 2013 venne eletto alla Camera dei deputati nella circoscrizione Puglia, sempre tra le fine del Popolo delle libertà, poi è passato a Forza Italia, partito che ha abbandonato per divergenze politiche con Silvio Berlusconi, aderendo ai Conservatori e riformisti guidati da Raffaele Fitto. Nel 2015, Marti è passato al Gruppo misto insieme agli altri deputati Cor. Più recentemente, nel novembre del 2017, dopo avere abbandonato Direzione Italia, Roberto Marti ha, infine, aderito a Noi con Salvini conquistando l'elezione al Senato alle ultime politiche. Tornando all'inchiesta, i provvedimenti restrittivi sono stati eseguiti nei confronti di nove persone (di cui due in carcere, 5 agli arresti domiciliari e due con obblighi di dimora). In carcere Umberto Nicoletti e Nicola Pinto, soggetti ritenuti legati alla malavita organizzata, accusati del pestaggio, nel 2015, dell'uomo che nel 2013 con la sua denuncia dette il via all'inchiesta penale. Arresti domiciliari per gli ex assessori Attilio Monosi e Luca Pasqualini, attualmente entrambi in carica come consiglieri comunali nel centrodestra, per il consigliere comunale del Pd Antonio Torricelli, anche in carica, per il dirigente comunale Lillino Gorgoni e per Andrea Santoro, quest'ultimo accusato nell'ambito dell'episodio di pestaggio del denunciante. La sua posizione è stata valutata meno grave rispetto a quella degli altri due aggressori finiti in carcere. Obbligo di dimora per Monica Durante e Monia Gaetani, entrambe leccesi, che fungevano - come ipotizzato dagli inquirenti - come "collettore elettorale", mettevano cioè in contatto gli abitanti della zona 167 della città, considerata l'epicentro del voto di scambio, con gli interessati a ottenere i voti elettorali. Per altri cinque dipendenti comunali, in servizio presso l'ufficio casa e ufficio patrimonio, è stata chiesta l'interdizione temporanea dai pubblici uffici. La misura interdittiva è stata disposta per Piera Perulli, Sergio De Salvatore, Giovanni Puce, Paolo Rollo e Luisa Fracasso In totale gli indagati nell'inchiesta sono 46, per 34 dei quali (tra cui compaiono ex dirigenti ed ex funzionari comunali, oltre a persone ad aver beneficiato indebitamente dell'alloggio) non è stato preso alcun provvedimento. L'ipotesi di reato formulata dai magistrati ha accertato l'assegnazione indebita di alloggi di edilizia residenziale pubblica in favore di persone non collocate in graduatoria in posizione utile, l'occupazione abusiva di alloggi resisi disponibili per l'assegnazione nonché l'accesso illegittimo a forme di sanatoria di cui alla legge regionale 10 del 2014 concesse in assenza dei requisiti richiesti. L'ordinanza è stata emessa dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Lecce, Giovanni Gallo, in seguito a richiesta avanzata dalla Procura nel mese di dicembre dello scorso anno nell'ambito di indagini svolte dal nucleo di polizia economico-finanziaria di Lecce. "Chi crede nei principi costituzionali non può che tenere sempre a mente la presunzione di innocenza degli indagati che non sono al momento neanche imputati - è il commento del sindaco di Lecce, Carlo Salvemini - chi conosce il diritto penale sa che quelle formulate sono solo ipotesi che dovranno essere confermate in un eventuale processo". "È doveroso - aggiunge - leggere con calma gli atti e attendere rispettosamente le altre fasi del procedimento penale, anche come manifestazione di attenzione nei confronti degli indagati e dei loro familiari. Per quanto riguarda le conseguenze sull'amministrazione si dovrà ora provvedere, con ossequio alla previsione di legge, alla momentanea surroga dei consiglieri comunali colpiti dal provvedimento di custodia cautelare. Ogni diverso altro commento oggi rischia di assumere significati impropri".
Lecce, voti in cambio di case popolari: arrestati ex amministratori e consiglieri comunali. Indagato senatore della Lega. Sette le misure di custodia cautelare, anche nei confronti dell'ex assessore e attuale consigliere comunale Attilio Monosi (centrodestra), del consigliere comunale Pd Antonio Torricelli e dell'ex assessore della giunta Perrone Luca Pasqualini (centrodestra). Tutti gli indagati sono accusati di associazione a delinquere, peculato, corruzione, corruzione elettorale, abuso d’ufficio, falso, occupazione abusiva, violenza privata e lesioni. Sotto inchiesta anche il senatore leghista Roberto Marti, scrive il 7 settembre 2018 "Il Fatto Quotidiano". Sette persone arrestate e 46 indagati a Lecce. Sono ex amministratori comunali, consiglieri – alcuni dei quali ancora in carica – e dirigenti, tutti accusati di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione elettorale, abuso d’ufficio e falso ideologico. Scambiavano voti per alloggi popolari. Sono finiti ai domiciliari l’ex assessore e attuale consigliere comunale Attilio Monosi (centrodestra), il consigliere comunale Pd Antonio Torricelli, l’ex assessore della giunta Perrone Luca Pasqualini (oggi consigliere di centrodestra), il dirigente comunale Lillino Gorgoni e il 27enne Andrea Santoro. Interdittiva invece per i dirigenti e funzionari dell’ufficio casa Piera Perulli, Giovanni Puce, Paolo Rollo e Luisa Fracasso. Tra gli indagati c’è anche il senatore della Lega, Roberto Marti, ex assessore leccese, il cui nome era emerso già oltre un anno fa in un altro filone dell’inchiesta sulle case popolari. Gli arresti sono stati richiesti dai pm Massimiliano Carducci e Roberta Licci. Il sindaco di Lecce, Carlo Salvemini, è sostenuto da una maggioranza di centrosinistra ed è stato eletto nel 2017, dopo 20 anni di amministrazione di centrodestra. I finanzieri del Comando Provinciale di Lecce, al termine di indagini coordinate dalla Procura della Repubblica, hanno eseguito un’ordinanza di misura cautelare nei confronti di 9 persone (di cui due in carcere, cinque agli arresti domiciliari e due con obblighi di dimora), indagati a vario titolo per reati di associazione a delinquere, peculato, corruzione, corruzione elettorale, abuso d’ufficio, falso, occupazione abusiva, violenza privata e lesioni. Secondo quanto riporta il Nuovo Quotidiano di Puglia, a Pasqualini viene contestata anche l’accusa “di avere approfittato delle prestazioni di una donna” che “sarebbe la moglie di un uomo residente nel Quartiere Stadio che sarebbe stato particolarmente raccomandato all’assessore per avere una casa parcheggio”. Le indagini, scrive il quotidiano leccese, hanno documentato uno scambio di telefonate e messaggi con questa donna con cui ci sarebbero stati due incontri. L’ordinanza di 800 pagine, che ha interessato, tra gli altri, amministratori pubblici pro-tempore e dipendenti della amministrazione comunale, è stata emessa dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Lecce, Giovanni Gallo, in seguito a richiesta avanzata dalla Procura nel mese di dicembre dello scorso anno nell’ambito di indagini svolte dal Nucleo di Polizia Economico Finanziaria di Lecce. Secondo l’ipotesi di reato formulata dai magistrati, è stata accertata l’assegnazione indebita di alloggi di Edilizia Residenziale Pubblica in favore di persone non collocati in graduatoria in posizione utile, l’occupazione abusiva di alloggi resisi disponibili per l’assegnazione nonché l’accesso illegittimo a forme di sanatoria di cui alla Legge Regionale 10 del 2014 concesse in assenza dei requisiti richiesti. Si tratta di comportamenti che al momento non vedono coinvolti ulteriori soggetti oltre a quelli colpiti dalla misura cautelare di oggi. Secondo i magistrati la finalità era quella di acquisire consenso elettorale dei potenziali beneficiari di alloggi pubblici. Dalle intercettazioni telefoniche e dai capi di imputazione che compaiono nella corposa ordinanza, ci sono anche nomi di vari big della politica locale e nazionale, ma il loro coinvolgimento nel mercato illecito dello scambio di voti in cambio di alloggi popolari è stato escluso dagli investigatori. Le indagini a loro carico non hanno prodotto alcun elemento che ne attestasse il coinvolgimento. Nell’ordinanza vengono ricostruiti su fonti di prova, concrete, episodi e modalità con cui avveniva il giro del mercato illecito legato all’assegnazione degli alloggi popolari in cambio di voti elettorali. L’inchiesta principale, aperta tre anni fa, aveva conosciuto un primo momento di svolta nel pieno della campagna elettorale 2017, quando emerse il nome dell’allora sindaco Paolo Perrone, l’ex primo cittadino Adriana Poli Bortone, gli ex assessori alle Politiche giovanili e al Welfare, Damiano D’Autilia e Nunzia Brandi; i due ultimi segretari comunali Domenico Maresca e Vincenzo Specchia; il capo di Gabinetto Maria Luisa De Salvo; i dirigenti Luigi Maniglio, Nicola Elia e Raffaele Attisani; l’ex consigliere regionale di Azzurro Popolare Aldo Aloisi. Intere palazzine di via Potenza, via Pistoia, Piazzale Cuneo e Piazzale Genova sarebbero state assegnate con criteri poco trasparenti, tra il 2006 e il 2016. Per almeno 28 appartamenti, cioè, si sospettano attribuzioni senza requisiti, a colpi di sanatorie di occupazioni abusive, semplici delibere, passaggi indebiti dalle case parcheggio agli alloggi. Il tutto con la presunta influenza degli amministratori e commistione dei dipendenti di Palazzo Carafa, per agevolare precisi gruppi di inquilini. Tra questi ci sono anche persone ritenute vicine ai clan della Scu.
Lecce, voti e favori sessuali in cambio di case: arrestati politici e dirigenti Comune. Ai domiciliari gli ex assessori Monosi e Pasqualini. Ci sono 46 indagati, scrive il 7 Settembre 2018 "La Gazzetta del Mezzogiorno". Ex amministratori comunali, consiglieri comunali, alcuni dei quali ancora in carica, e dirigenti del Comune di Lecce sono stati arrestati in queste ore dai militari della Guardia di Finanza. Tra loro, ai domiciliari, l'ex assessore e attuale consigliere comunale Attilio Monosi (centrodestra), il consigliere comunale del PD Antonio Torricelli, l'ex assessore della giunta Perrone Luca Pasqualini (centrodestra). Sono tutti accusati di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione elettorale. Gli arresti sono stati richiesti dai Pm Massimiliano Carducci e Roberta Licci. Sono 46 le persone indagate, tutte a vario titolo accusate per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione elettorale, abuso d’ufficio e falso ideologico. Voti elettorali sarebbero stati 'scambiati' con alloggi popolari.
CASE IN CAMBIO DI SESSO - Luca Pasqualini, uno dei tre consiglieri comunali arrestati oggi dalla Guardia di Finanza nell’ambito dell’inchiesta sugli alloggi popolari scambiati con voti elettorali, avrebbe agevolato l’assegnazione di un alloggio popolare al quartiere Stadio ad una donna che, per ottenerlo, si sarebbe «concessa» al politico in due occasioni. Il risvolto emerge a pagina 15 dell’ordinanza dove il gip scrive come il politico, in qualità di responsabile all’Ufficio Casa del Comune di Lecce, «si faceva promettere e dare utilità consistite in prestazioni sessuali da (***) effettivamente intervenute in almeno due occasioni». Atti che sarebbero stati preordinati all’assegnazione, illegittima per gli investigatori, di un alloggio Erp alla donna e al marito all’oscuro dell’accaduto. La donna, sempre secondo l’ordinanza, avrebbe dato la disponibilità “a ricambiare” con atti sessuali l’impegno del politico a concludere la vicenda dell’assegnazione. E ciò - per gli inquirenti - sarebbe effettivamente avvenuto nell’ufficio di Pasqualini, come specifica il gip, in due occasioni, a giugno e a novembre del 2014. Nel pomeriggio intanto gli investigatori della Guardia di Finanza hanno effettuato una perquisizione negli uffici comunali acquisendo ulteriore documentazione.
I DETTAGLI DEI PROVVEDIMENTI - I provvedimenti restrittivi sono stati eseguiti nei confronti di nove persone (di cui due in carcere, 5 agli arresti domiciliari e due con obblighi di dimora). I provvedimenti restrittivi eseguiti oggi riguardano gli arresti in carcere di Umberto Nicoletti e Nicola Pinto, soggetti ritenuti legati alla malavita organizzata, accusati del pestaggio, nel 2015, dell’uomo che nel 2013 con la sua denuncia dette il via all’inchiesta penale. Arresti domiciliari per gli ex assessori Attilio Monosi e Luca Pasqualini, attualmente entrambi in carica come consiglieri comunali nel centrodestra, per il consigliere comunale del Pd Antonio Torricelli, anche in carica, per il dirigente comunale Lillino Gorgoni e per Andrea Santoro, quest’ultimo accusato nell’ambito dell’episodio di pestaggio del denunciante. La sua posizione è stata valutata meno grave rispetto a quella degli altri due aggressori finiti in carcere. Obbligo di dimora per Monica Durante e Monia Gaetani, entrambe leccesi, che fungevano - come ipotizzato dagli inquirenti - come «collettore elettorale», mettevano cioè in contatto gli abitanti della zona 167 della città, considerata l'epicentro del voto di scambio, con gli interessati ad ottenere i voti elettorali. Per altri cinque dipendenti comunali in servizio presso l’ufficio casa e ufficio patrimonio, é stata chiesta l’interdizione temporanea dai pubblici uffici. In totale gli indagati nell’inchiesta sono 48, per 34 dei quali (tra cui compaiono ex dirigenti ed ex funzionari comunali, oltre a persone ad aver beneficiato indebitamente dell’alloggio) non é stato preso alcun provvedimento, come nel caso del senatore Marti. L’ordinanza è stata firmata dal gip di Lecce Giovani Gallo. Le indagini sono cominciate nel 2013 dopo la denuncia di un cittadino.
IPOTESI INVESTIGATIVE - L’ipotesi investigativa è che gli indagati nell’inchiesta sui voti elettorali ottenuti in cambio di case popolari a Lecce, si spendessero per procacciare voti in favore dei candidati del proprio partito per aumentare il proprio peso all’interno di esso e nei confronti del suo leader. Dalle intercettazioni telefoniche e dai capi di imputazione che compaiono nella corposa ordinanza, ci sono anche nomi di vari big della politica locale e nazionale, ma il loro coinvolgimento nel mercato illecito dello scambio di voti in cambio di alloggi popolari é stato escluso dagli investigatori. Le indagini a loro carico non hanno prodotto alcun elemento che ne attestasse il coinvolgimento. L’ordinanza firmata dal gip di Lecce Giovani Gallo è stata depositata dalla Procura di Lecce, su coordinamento del Procuratore Leonardo Leone De Castris, nel novembre 2017. É composta da oltre 800 pagine nelle quali vengono ricostruiti su fonti di prova, concrete, episodi e modalità con cui avveniva il giro del mercato illecito legato all’assegnazione degli alloggi popolari in cambio di voti elettorali.
LE PAROLE DEL SINDACO - «La mia città è oggi nei titoli di testa dei notiziari on line, televisivi, radiofonici. Un’indagine avviata diversi anni fa su un tema delicatissimo - interferenze nell’assegnazione degli alloggi popolari, sulla quale sono in passato più volte intervenuto pubblicamente - è giunta oggi alla notifica di una serie di provvedimenti cautelari nei confronti di consiglieri comunali e all’arresto di cittadini. I reati contestati sono gravi, considerato il rilievo sociale legato a bisogni di famiglie private del diritto alla casa». Lo afferma in un post su Facebook il sindaco di Lecce, Carlo Salvemini, commentando l’operazione della Guardia di Finanza nell’ambito della quale è stata notificata ad ex amministratori comunali, a consiglieri e dirigenti comunali, una ordinanza di custodia cautelare nei confronti di nove persone (di cui due in carcere, cinque agli arresti domiciliari e due con obblighi di dimora). «Chi crede nei principi costituzionali non può che tenere sempre a mente la presunzione di innocenza degli indagati che non sono al momento neanche imputati; chi conosce il diritto penale sa che quelle formulate sono solo ipotesi che dovranno essere confermate in un eventuale processo. E’ doveroso - aggiunge - leggere con calma gli atti e attendere rispettosamente le altre fasi del procedimento penale, anche come manifestazione di attenzione nei confronti degli indagati e dei loro familiari. Per quanto riguarda le conseguenze sull'amministrazione si dovrà ora provvedere, con ossequio alla previsione di legge, alla momentanea surroga dei consiglieri comunali colpiti dal provvedimento di custodia cautelare. Ogni diverso altro commento oggi rischia di assumere significati impropri».
Lecce: 7 arresti e 46 indagati c'è anche un senatore della Lega. Voti in cambio di abitazioni, scrive il 7 settembre 2018 "Il Corriere del Giorno". Gli appartamenti assegnate a persone non in graduatoria, alcune occupate. Fra gli indagati il senatore leghista Roberto Marti, Secondo la procura di Lecce il fine era quello di ottenere consenso elettorale. Arrestati ex amministratori comunali, consiglieri comunali, alcuni dei quali ancora in carica, e dirigenti del Comune di Lecce, dagli uomini della Guardia di finanza di Lecce su ordinanza emessa dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Lecce, Giovanni Gallo, in seguito a richiesta avanzata dai pm Massimiliano Carducci e Roberta Licci della Procura di Lecce nel mese di dicembre dello scorso anno nell’ambito di indagini svolte dal nucleo di polizia economico-finanziaria di Lecce. Sono 46 le persone indagate, tutte a vario titolo accusate per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione elettorale, abuso d’ufficio e falso ideologico. Fra gli indagati compare anche il senatore leghista Roberto Marti per “abuso d’ufficio”, “falso ideologico” e “tentato peculato”, allorquando fra il 2004 e il 2010 era titolare dell’assessorato ai Servizi sociali del Comune di Lecce, nella giunta di centrodestra guidata all’epoca dal sindaco Paolo Perrone. L’ipotesi di reato formulata dai magistrati ha accertato l’assegnazione indebita di alloggi di edilizia residenziale pubblica in favore di persone non collocate in graduatoria in posizione utile, l’occupazione abusiva di alloggi resisi disponibili per l’assegnazione nonché l’accesso illegittimo a forme di sanatoria (previste dalla legge regionale 10 del 2014) concesse in assenza dei requisiti richiesti. I provvedimenti cautelari sono stati eseguiti nei confronti di nove persone, 2 dei quali sono stati incarcerati: Umberto Nicoletti e Nicola Pinto leccesi di 31 e 41 anni, entrambi inquilini di alloggi popolari situati nel quartiere Stadio di Lecce, vengono ritenuti legati alla malavita organizzata, e sono accusati del pestaggio, nel 2015, dell’uomo che nel 2013 con la sua denuncia dette il via all’inchiesta penale, 5 posti agli arresti domiciliari (2 con obblighi di dimora) fra i quali gli ex assessori Attilio Monosi e Luca Pasqualini, attualmente entrambi in carica come consiglieri comunali nel centrodestra, per il consigliere comunale del Pd Antonio Torricelli, anche in carica, per il dirigente comunale Lillino Gorgoni e per Andrea Santoro, quest’ultimo accusato nell’ambito dell’episodio di pestaggio del denunciante. Nell’inchiesta sull’assegnazione delle case popolari a Lecce, è venuta a galla anche un’accusa particolarmente odiosa nei confronti di Luca Pasqualini, ex assessore alla Mobilità nella giunta Perrone, ed oggi consigliere comunale. Infatti uno dei reati di “corruzione per atti contrari ai doveri di ufficio” che gli vengono contestati dagli inquirenti è relativo all’accusa di aver richiesto ed ottenuto prestazione sessuali da una donna, moglie di un uomo residente nel Quartiere Stadio il quale sarebbe stato “particolarmente raccomandato” allo stesso assessore per l’assegnazione di una casa parcheggio. Tale ipotesi di reato è suffragato da uno scambio di telefonate e messaggi agli atti del procedimento tra Pasqualini e la donna, e gli investigatori avrebbero anche appurato che a giugno ed a novembre del 2014 i due si siano incontrati. Durante lo svolgimento delle corso indagini sono emerse delle risultanze che hanno aperto dei nuovi filoni d’inchiesta, uno dei quali relativo alla frenetica attività di alcuni indagati per consentire che un alloggio tolto dall’Antimafia a un “boss” della malavita salentino, venisse successivamente assegnato al fratello dello stesso boss. La misura interdittiva è stata disposta per altri cinque dipendenti comunali, Luisa Fracasso, Piera Perulli, Giovanni Puce, Paolo Rollo tutti in servizio presso l’ufficio casa e ufficio patrimonio, per i quali è stata chiesta l’interdizione temporanea dai pubblici uffici. Sono tutti accusati di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione elettorale. Secondo gli investigatori, gli indagati si spendevano per procacciare voti in favore dei candidati del proprio partito, per aumentare il proprio peso all’interno di esso e nei confronti del suo leader, ed avevano organizzato un sistema per controllare un “serbatoio dei voti” che ogni beneficiario degli alloggi poteva mettere a disposizione. Gli inquilini dovevano indicare su un foglio e consegnare il nome di tutte le persone amiche che avrebbero garantito loro il proprio voto alle elezioni. A seguito delle intercettazioni telefoniche disposte e dai capi di imputazione compaiono anche nomi di vari “big” della politica locale e nazionale, ma è stato escluso un loro coinvolgimento nel mercato illecito dello scambio di voti in cambio di alloggi popolari. La carriera politica di Roberto Marti è stata costantemente in ascesa a partire dal 2010, con l’elezione al consiglio regionale della Puglia con il Popolo delle libertà. Nel 2013 venne eletto alla Camera dei deputati nella circoscrizione Puglia, sempre tra le fine del PdL da cui è successivamente passato a Forza Italia, partito che ha abbandonato per divergenze politiche con Silvio Berlusconi, migrando nei Conservatori e riformisti guidati da Raffaele Fitto. Successivamente Marti nel 2015, insieme ad altri deputati Corè passato al Gruppo misto. Più recentemente, nel novembre del 2017, Roberto Marti dopo avere abbandonato Direzione Italia, ha aderito a Noi con Salvini ottenendo un seggio l’elezione al Senato alle ultime politiche. Le reazioni politiche: “La presenza del senatore Marti nell’inchiesta — dichiara il deputato Camillo D’Alessandro, responsabile per le politiche abitative del Pd — è inquietante. Soprattutto perché quello degli alloggi popolari è un tema su cui questo governo sta predicando bene e razzolando molto male. Ovviamente per noi Marti è innocente fino al terzo grado di giudizio, ma se le accuse venissero confermate ci troveremmo davanti a uno scenario gravissimo”. “Stiamo parlando di voti — commenta Nico Bavaro, segretario pugliese di Sinistra italiana — giocati sulla pelle dei senza casa. La Legadi Salvini è impegnata a cacciare i poveracci, prima però li sfrutta. Fra i 49 milioni di euro di fondi pubblici rubati e l’utilizzo della disperazione dei senza casa, a scopo elettorale, c’è l’imbarazzo della scelta. Devono vergognarsi e andare a casa, specie perché continuano a sfruttare la disperazione degli ultimi contro i penultimi e su questo costruiscono voti e consenso”.
Ecco tutti i nomi degli indagati: Stefano Armenta, di Lecce; Giovanni Bene, di Lecce; Nunzia Brandi, di Lecce; Antonio Briganti,di Lecce; Angelica Camassa, di Lecce; Barbara Cazzella, di Lecce; Serena Cervelli, di Lecce; Damiano D’Autiia, di Casarano; Rosario D’Elia, di Lecce; Ilaria Decimo, di Lecce; Sergio De Salvatore, di Lecce; Monica Durante, di Lecce; Douglas Durante, di Lecce; Cristian Elia, di Lecce; Luisa Fracasso, di Galatina; Fabio Freuli, di Lecce; Monia Gaetani, di Lecce; Pasquale Gorgoni, di Cutrofiano; Raffaele Liccardi, di Lizzanello; Roberto Marti di Lecce; Sergio Marti, di Melendugno; Luisa Martina, di Lecce; Andrea Mello, di Lecce; Piergiovanni Miggiano, di Minervino; Diego Monaco, di Lecce; Attilio Monosi, di Lecce; Roberta Murra, di Lecce; Giuseppe Nicoetti, di Lecce; Umberto Nicoetti, di Lecce; Gessyca Palazzo, di Lecce; Laura Panzera, di Lecce; Luca Pasqualini, di Lecce; Nicola Pinto, di Lecce; Antonio Torricelli, di Lecce; Giuseppe Naccarelli, di Lecce; Giovanni Puce, di Maglie; Piera Perulli, di Lecce; Nicolina Pulimento, di Corigliano d’Otranto, Guido Raffaele, di Lecce; Vincenzo Raho, di Lecce, Salvatore Rizzo, di Lecce; Paolo Rollo, di Lecce; Francesca Sansò, di Lecce; Andrea Santoro, di Lecce; Amedeo Scialpi, di Manduria; . Vincenzo Specchia, di Galatina; Vanessa Tornese, di Lecce.
Case popolari, ecco il messaggio piccante tra una donna e Pasqualini, scrive il 7 settembre 2018 Teleramanews. Nell’inchiesta della Guardia di Finanza sull’assegnazione delle case popolari, emergono piccanti intercettazioni che riguardano l’ex assessore e attuale consigliere comunale Luca Pasqualini. E’ infatti accusato anche di aver ottenuto prestazione sessuali da una donna, moglie di un uomo residente nel Quartiere Stadio, raccomandato allo stesso assessore per l’assegnazione di una casa parcheggio. “Il Pasqualini– si legge nell’ordinanza, ha avuto in almeno due occasioni, dei rapporti sessuali con L.G.che costituiscono l’utilità prestata da quest’ultima per ottenere il soddisfacimento delle richieste avanzate dalla stessa e dal marito D.D. nell’assegnazione di una casa migliore e più grande. La G. – si legge ancora - si reca dal Pasqualini per parlare dei problemi della casa e, in alcune occasioni, i due, all’esito di questi incontri, hanno rapporti sessuali. Negli sms che questa scrive a P. la prima apertamente fa intendere che se il politico si darà da fare per risolvere il problema casa ( e quindi, non la “deluderà”) lei sarà pronta a “non deluderlo”. Si tratta con evidenza- scrive il gip Giovanni Gallo- di una proposta di scambio di favori”. Ecco il tenore di alcuni sms che la donna invia: “…parliamo poco e fottiamo BN!…comunque spero che ti darai da fare per risolvere presto questa situazione…fai l’impossibile per affrettare le cose! Mi voglio fidare di te…so che non mi deluderai ed io non deluderò te!”. I messaggi sono datati 10-06-2014, e il Pasqualini “Non si sottrae alla proposta, ma anzi si trattiene in intimità con la G. in (almeno) due occasioni nei mesi successivi. Si tratta del periodo nel quale P. continua a svolgere la sua opera diretta ad agevolare la donna, anche in maniera illecita, per l’assegnazione di un alloggio diverso da quello occupato. Si tratta di un elemento di assoluta rilevanza, che fa comprendere come il Pasqualini fosse a conoscenza della circostanza che la donna si comportava in maniera “gentile” con lui per vedere risolto il problema abitativo.” Per questo a Pasqualini viene contestato il reato di “corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio”. Alcuni degli sms intercettati nel settembre 2014:
G:” Mio marito domani viene da te per parlare della casa, ma io vorrei che tu dicessi a me come stanno davvero le cose. Io e te ci siamo sempre intesi anche senza parlare!”
P: “Ok L. scusami. Se vuoi domani andiamo insieme all’ufficio per definire tutto”.
G: “Si vorrei ..ma c è comunque mio marito! Invece io vorrei parlarti da sola perché credo che tu mi stia deludendo…ti ho sempre apprezzato come persona e come uomo…”
G: “Ciao Luca, so che ti sei sentito con mio marito e vi dovete vedere nel pomeriggio. Ma quella famosa lista riesci ad averla?”
Pasqualini: “Si tranquilla”.
G: “Ah! Finalmente mi dai una buona notizia! Allora non mi sbagliavo sul tuo conto…”
P: “Non ti sbagli poi vedi! Siamo della stessa pasta?”
G: “Penso proprio di si…parliamo poco e fottiamo BN!…comunque spero che ti darai da fare per risolvere presto questa questione perché voglio proprio vedere se mi sbaglio o no…Fai l’impossibile per affrettare le cose …mi voglio fidare di te…so che non mi deluderai e io non deluderò te!”
P: “Sto lavorando per te”.
Case popolari, Salvemini: “Reati gravi ma attendiamo sviluppi”. Pronta surroga dei consiglieri coinvolti, scrive il 7 settembre 2018 Trnews. Sullo scandalo Case popolari interviene con un post su Facebook il Sindaco di Lecce, Carlo Salvemini, in un post scrive: “Un’indagine avviata diversi anni fa su un tema delicatissimo sulla quale sono in passato più volte intervenuto pubblicamente è giunta alla notifica di una serie di provvedimenti cautelari nei confronti di consiglieri comunali e all’arresto di cittadini. I reati contestati sono vari e inevitabilmente gravi, considerato il rilievo sociale legato a bisogni di famiglie private del diritto alla casa. Chi crede -continua- nei principi costituzionali non può che tenere sempre a mente la presunzione di innocenza degli indagati che non sono al momento neanche imputati; chi conosce il diritto penale sa che quelle formulate sono solo ipotesi che dovranno essere confermate in un eventuale processo. E’ ora doveroso leggere con calma gli atti e attendere rispettosamente le altre fasi del procedimento penale, anche come manifestazione di attenzione nei confronti degli indagati e dei loro familiari. Per quanto riguarda le conseguenze sull’amministrazione si dovrà ora provvedere – in ossequio alla previsione di legge – alla momentanea surroga dei consiglieri comunali colpiti dal provvedimento di custodia cautelare”. Subentreranno ai politici interdetti dall’attività amministrativa, Paola Leucci al posto di Torricelli, mentre Carmen Tessitore e Giordana Guerrieri, al posto di Monosi e Pasqualini.
Salento, si scontrano due treni in provincia di Lecce: 27 tra contusi e feriti. È accaduto all’uscita di Galugnano, frazione di San Donato, in provincia di Lecce. Coinvolti due convogli delle Ferrovie Sud Est. Nessuno dei feriti è in gravi condizioni. Accertamenti sulle cause: «Non rispettato un segnale rosso», scrive il 13 giugno 2017 “Il Corriere della Sera”. Due convogli ferroviari delle Ferrovie Sud Est si sono scontrati all’uscita di Galugnano, frazione di San Donato, in provincia di Lecce. Sono 278 le persone rimaste ferite lievemente. Nessuna di loro è in gravi condizioni perché i convogli in quel tratto procedono a bassa velocità. Sul posto sono intervenuti i soccorritori, che per raggiungere il luogo dello scontro hanno dovuto percorrere un tratto di circa venti minuti a piedi, portando le attrezzature attraverso i campi. L’incidente - avvenuto intorno alle 17.30 - su una tratta in cui il binario è unico. «Uno dei due convogli era fermo al segnale di ingresso della stazione di Galugnano, mentre l’altro è partito in direzione Lecce non rispettando il segnale rosso», spiega in una nota Ferrovie dello Stato, proprietaria da alcuni mesi delle Ferrovie del Sud Est. Le cause sono in corso di accertamento. Sui convogli viaggiavano un’ottantina di persone, compresi alcuni turisti. La tratta ferroviaria collega Lecce a Otranto ed è molto trafficata in estate. I contusi sono dieci e 5 i feriti portati in ospedale. Una donna ha riportato le ferite più gravi: ha una lesione lacero-contusa alla fronte che è stata suturata. Poteva andare peggio. In attesa che la Procura di Lecce (che ha già sequestrato scatole nere, documenti, ascoltato testimoni e nominato un consulente) accerti le cause dell’incidente di San Donato, sono scoppiate anche in questo caso le polemiche sulla sicurezza della rete ferroviaria in concessione in Puglia. Proprio oggi il Tribunale Fallimentare di Bari ha ammesso Ferrovie Sud Est al concordato preventivo così come proposto dalla società, fissando per il prossimo 12 dicembre l’udienza per il voto dei creditori. La società (recentemente rilevata da Ferrovie dello Stato) è proprietaria dei due treni che si sono scontratati. La proposta di concordato che ha ottenuto il via libera dei giudici, ma che eviterà l’ipotesi di fallimento solo in caso di voto favorevole dei creditori, prevede il pagamento di tutti i debiti nei confronti dei creditori privilegiati e di circa la metà delle somme dovute ai creditori chirografari. Complessivamente i debiti della società ammontano ad oltre 200 milioni di euro nei confronti di quasi 400 soggetti fra banche, fornitori, debiti previdenziali e tributari. «È assurdo che le Regioni italiane non abbiano alcun potere di vigilare ed eventualmente bloccare quelle linee ferroviarie che non risultino assolutamente sicure». Lo afferma in una nota il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, dopo l’incidente ferroviario sulla linea delle Ferrovie del Sud Est. Emiliano rileva come «solo un miracolo oggi non ci consegna un bilancio grave e inaccettabile come quello del 12 luglio dell’anno scorso», quando sulla tratta Andria-Corato morirono 23 persone in uno scontro frontale tra convogli della Ferrotramviaria. Il 12 luglio 2016 in Puglia ci fu un altro scontro frontale sulla tratta a binario unico di un’altra azienda ferroviaria pugliese in concessione, la Ferrotramviaria, tra Andria e Corato: l’incidente provocò la morte di 23 persone e 50 feriti.
Lecce, scontro fra treni delle Sud Est: 7 feriti, nessuno è grave. "E' stato un errore umano". L'impatto all'uscita di Galugnano, frazione di San Donato, sul binario unico come nel disastro ad Andria. Uno dei due convogli era fermo al segnale di ingresso e l'altro è partito senza rispettare il rosso. L'assessore regionale ai Trasporti: "Ferrovie Sud Est non utilizzò tutti i fondi stanziati per la sicurezza", scrive Chiara Spagnolo il 13 giugno 2017 su "La Repubblica". Un altro scontro fra treni su un binario unico in Puglia. Stavolta si tratta di due convogli delle Ferrovie Sud Est sulla tratta Lecce-Otranto. L'impatto è avvenuto intorno alle 17,30 all'uscita di Galugnano, frazione di San Donato, a pochi chilometri da Lecce. Sette persone sono rimaste ferite in maniera lieve - fra loro c'è anche un bambino di pochi mesi - e una decina hanno riportato contusioni: tutti i feriti sono stati accompagnati all'ospedale Vito Fazzi di Lecce. A bordo dei treni c'erano un'ottantina di passeggeri, alcuni dei quali turisti. I due convogli procedevano in senso opposto, ma a bassa velocità: i mezzi non hanno riportato grossi danni. Fse ha disposto immediatamente un servizio di autobus sostitutivi.
"Un segnale non rispettato". I passeggeri e i feriti sono stati soccorsi sul luogo dell'incidente, in una zona di campagna, da vigili del fuoco e operatori del 118. I soccorritori hanno aiutato i passeggeri a raggiungere a piedi un tratto di strada che costeggia la tratta ferroviaria: uno scuolabus ha trasportato tutti in municipio a San Donato. L'intero percorso delle Sud Est è a binario unico. L'incidente, si legge in una nota dell'azienda (che ha già aperto un'inchiesta), è stato provocato da un errore umano: "Uno dei due convogli era fermo al segnale di ingresso della stazione di Galugnano, mentre l'altro è partito in direzione Lecce non rispettando il segnale rosso".
Il precedente sulla Andria-Corato. Il 12 luglio 2016 in Puglia ci fu un altro scontro frontale sulla tratta a binario unico di un'altra azienda ferroviaria pugliese in concessione, la Ferrotramviaria, fra Andria e Corato: l'incidente provocò 23 morti e 50 feriti. "Un altro scontro di treni in Puglia. Bastaaaaa. Vogliamo sicurezza. Vergogna, Stato assente. Regione assente" si legge in un post pubblicato sulla pagina Facebook dell'Astip, l'associazione 'Strage treni in Puglia 12 luglio 2016', sorta per la ricerca della verità e della giustizia per le vittime della tragedia. Sequestrate le scatole nere. Anche il procuratore della Repubblica di Lecce, Leonardo Leone de Castris, è arrivato sul luogo dell'incidente. Il magistrato, assieme al pm Giovanni Gagliotta, ha ascoltato alcuni testimoni e disposto l'acquisizione di documenti utili alle indagini e il sequestro delle scatole nere dei due treni. Nell'indagine che è stata avviata non viene finora ipotizzato un reato, in attesa dell'acquisizione dei primi elementi di prova.
"Quei fondi inutilizzati". "La linea ferroviaria interessata dall'incidente è a binario unico ma è attrezzata con il sistema di sicurezza 'conta assi', che in caso di linea già impegnata da un convoglio fa scattare il semaforo rosso per altri treni sulla linea", fa sapere l'assessore ai Trasporti della Regione Puglia, Giovanni Giannini. L'esponente del governo regionale ricorda che con la "programmazione 2007-2013 dei Fesr (Fondi europei di sviluppo regionale) la Regione Puglia stanziò 83 milioni per la sicurezza ferroviaria, in particolare per il montaggio degli Scmt (Sistema controllo marcia treno) a bordo e a terra. Alle Ferrovie del Sud Est furono assegnati 36 milioni che la società ha utilizzato soltanto in minima parte, non avendo rispettato il termine di scadenza per l'utilizzo dei fondi Por". E il Movimento 5 Stelle in Puglia ha chiesto "le dimissioni immediate dell'assessore Giannini". Gli otto consiglieri regionali lamentano in una nota "la situazione del sistema pugliese" giudicando in "una situazione che non può più andare avanti". "E' soltanto un miracolo - sostengono - che non vi siano state vittime".
Il governatore Emiliano e lo scandalo Fse. "È assurdo - tuona il governatore Michele Emiliano - che le Regioni italiane non abbiano alcun potere di vigilare ed eventualmente bloccare quelle linee ferroviarie che non risultino assolutamente sicure". Emiliano parla dello "scandalo" delle Sud Est e si augura che la magistratura accerti "le responsabilità dei tanti che hanno spolpato una società della quale è stato azionista unico per decenni il governo della Repubblica e ha oggi contribuito oggettivamente alla mancata realizzazione, anche su quel tratto ferroviario, di sistemi di sicurezza per i quali la Regione Puglia aveva già messo a disposizione il denaro necessario". Ma questa è una materia sulla quale è al lavoro da tempo la magistratura, che indaga sul saccheggio di una società che ha debiti per 200 milioni e che è stata ammessa al concordato preventivo.
La replica delle Sud Est. "La rete ferroviaria e i servizi di trasporto di Ferrovie del Sud Est sono stati integrati nel Gruppo FS Italiane a fine 2016, dopo il trasferimento dell’ex ferrovia concessa", si legge in una nota. "Il nuovo management di Ferrovie del Sud Est, nominato da FS Italiane, ha immediatamente attivato un piano di interventi per l’adeguamento tecnologico e infrastrutturale dell’intera rete ex concessa e dei treni. Piano che prevede l’installazione dei più moderni sistemi di gestione e controllo del traffico ferroviario e di distanziamento in sicurezza dei treni". E ancora: "I primi lavori sono stati avviati già lo scorso anno e si concluderanno entro il 2017, con un investimento complessivo da 19 milioni di euro. La seconda parte degli interventi di potenziamento infrastrutturale e tecnologico partiranno nelle prossime settimane, come programmato, e saranno conclusi entro il 2018 (Bari e Taranto) e il 2019 (Salento), con un investimento da 53 milioni di euro. Entrambi gli interventi sono finanziati dalla Regione Puglia".
L'inchiesta sul disastro di Andria. Stando alle indagini della Procura di Trani, ancora in corso, a causare l'incidente fra Andria e Corato sarebbe stato un errore umano dovuto all'utilizzo del blocco telefonico (ritenuto dagli inquirenti obsoleto e assolutamente non sicuro) su una linea a binario unico. E da parte dei dirigenti della società Ferrotramviaria, l'aver omesso "la collocazione di impianti e apparecchiature tecnologiche - ipotizza la Procura di Trani - deputate alla protezione della marcia dei treni (il conta assi) idonei a prevenire ed evitare il disastro ferroviario". La tratta ferroviaria è ancora sotto sequestro. In 13 sotto inchiesta. Nell'inchiesta sono indagate 13 persone (il capotreno superstite, due capistazione, tecnici e amministratori della società Ferrotramviaria) per i reati, a vario titolo contestati, di disastro ferroviario colposo, omicidio colposo plurimo e lesioni personali colpose plurime e omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro. Ai dirigenti della società si contesta inoltre di aver contribuito a causare l'incidente - o meglio, "di non averlo impedito" - commettendo una serie di omissioni relative alla corretta informazione sulle norme che riguardano la sicurezza dei lavoratori e dei fruitori del servizio ferroviario.
Scontro treni in Salento. «Il macchinista scese dal treno». L'inchiesta interna avrebbe accertato che il conducente stava provando i freni, ma è risalito prima della partenza, scrive Massimiliano Scagliarini il 15 giugno 2017 su "La Gazzetta del Mezzogiorno". È probabile che il macchinista del 544, quello che si sarebbe mosso da solo causando martedì l’incidente (senza vittime) di Galugnano sulla linea Lecce-Zollino delle Sud-Est, sia sceso dal suo treno lasciandolo incustodito per un tempo più o meno lungo. E per questo non sarebbe riuscito a intervenire quando il convoglio è ripartito per via della leggera pendenza della linea. È questa l’ipotesi su cui ieri si sarebbe orientata la commissione tecnica delle Ferrovie Sud-Est, che ha ascoltato i due macchinisti con lo scopo di ricostruire la dinamica dell’impatto avvenuto intorno alle 17,30. Una ipotesi tutta da riscontrare, naturalmente, ma che si basa su una serie di circostanze di fatto e su una considerazione pratica: il macchinista del 544, R.R., avrebbe avuto tutto il tempo di accorgersi che qualcosa non andava e dunque di intervenire. La dinamica può essere raccontata così. Il 549 proveniente da Lecce era fermo al segnale della stazione impresenziata di Galugnano. L’altro treno, il 544 proveniente da Otranto, una Aln 668 presa a noleggio da Trenitalia, era giunto al segnale di protezione (un semaforo rosso). A quel punto, il capotreno del 544, è sceso dal treno per recarsi nei locali tecnici della stazione e azionare la cosiddetta «rar», un dispositivo che serve ad effettuare la manovra di incrocio. Ha insomma dato il via all’altro treno, cioè al 549 da Lecce, per attraversare la stazione. Invece, per qualche motivo, è stato il 549 a muoversi nonostante il segnale rosso. «È partito da solo e non sono riuscito a frenare», è la ricostruzione di R.R. (assistito dal delegato sindacale della Uil). Il macchinista del 544 ha riferito ieri di essersi accorto che l’altro treno gli stava andando addosso, e di aver cominciato a muoversi a retromarcia, di qualche decina di metri, per attutire l’impatto. Ma gli ispettori nominati da Sud-Est (altri sono stati designati dall’Agenzia nazionale per la sicurezza ferroviaria e dal ministero delle Infrastrutture) devono capire esattamente cosa è avvenuto. Per il momento non possono accedere alle zone tachigrafiche, la scatola nera dei treni, sequestrate dalla Procura di Lecce. È un fatto che il capotreno del 549 fosse sceso, e pare sia stato anche visto sbracciarsi quando ha visto che il convoglio aveva cominciato a muoversi. Tuttavia, dicono i tecnici, le cose non quadrano. Il 549 ha tallonato il deviatoio (lo scambio) sul ramo sbagliato, e questo provoca quattro forti colpi di cui il macchinista a bordo si sarebbe dovuto accorgere. Visto che il treno non aveva preso velocità, è il ragionamento, c’era tutto il tempo per fermarlo anche se - come è stato detto - fossero state tirate le «funicelle» (dispositivi che si trovano a centro treno e che servono a scaricare l’impianto pneumatico di frenatura: una manovra che richiede, appunto, la discesa dal treno, ma che di norma viene effettuata dal capotreno). «Ero sceso per effettuare una prova freni ma poi sono risalito», è la giustificazione che sarebbe stata fornita rispetto a questa incongruenza. Tuttavia fonti sindacali ieri hanno fatto circolare la foto qui in alto, foto che sarebbe stata scattata subito dopo l’impatto. Si vede il ceppo del freno che non aderisce perfettamente alla ruota del primo asse: sarebbe la dimostrazione - a detta di chi la ha scattata - che il freno a mano della Aln668 non funzionava correttamente. Tuttavia - dicono i tecnici - se il treno aveva il freno a mano inserito, anche nella modalità immortalata dalla foto, difficilmente si sarebbe mosso per gravità. E dunque il freno a mano potrebbe essere stato azionato in un momento successivo. Tutte circostanze che ora dovranno essere esaminate dalla Procura di Lecce, che con il pm Giovanni Gagliotta indaga al momento a carico di ignoti per disastro ferroviario e lesioni colpose. La Polfer sta continuando a raccogliere elementi, mentre sarà una consulenza tecnica ad accertare la dinamica dell’incidente e il funzionamento dell’impianto frenante. L’impatto tra i due treni, che trasportavano complessivamente 80 persone, ha causato 27 feriti tutti molto lievi. Questo perché il treno 549 procedeva a bassissima velocità, meno di 30 all’ora: tanto che nessuno dei due convogli (sequestrati dalla Procura insieme alla documentazione) ha riportato danni evidenti.
Scontro treni sulla Andria-Corato. Pm: disastro per plurimi errori, scrive il 15 giugno 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". La strage ferroviaria del 12 luglio 2016 sulla linea Andria-Corato di Ferrotramviaria (23 morti, 50 feriti) fu causata da «plurimi errori umani», forse compiuti «da più di tre» dipendenti della società. E’ quanto emerge dall’incontro, svoltosi in Procura a Trani tra pm e Polizia, convocato per valutare le migliaia di elementi di prova finora raccolti per accertare le responsabilità del disastro. Oltre all’errore umano si valuta se all’incidente abbia contribuito, e in che misura, il sistema ritenuto dai pm «obsoleto e insicuro" del blocco telefonico. Questo è il sistema cui è affidata la sicurezza della tratta ferroviaria del disastro (e non solo), in base al quale i capistazione si scambiano dispacci per segnalare la partenza e l'arrivo dei treni. Il blocco telefonico è ritenuto dagli inquirenti talmente «obsoleto» da non essere più riconosciuto neanche come sistema di sicurezza. Ma quello che è ancor più grave - a giudizio degli inquirenti - è che l’utilizzo del blocco telefonico è in contrasto con la normativa in vigore, che non lo ammette. Proprio su questo tema è un corso un esame degli inquirenti che dovranno valutare se il blocco telefonico sia addirittura da considerare illegittimo. Per quanto riguarda l’errore umano - è il ragionamento degli inquirenti -, questo sarebbe stato compiuto da più persone e non solo del solo capostazione di Andria, Vito Piccarreta, che avrebbe dato erroneamente il via libera al treno ET1021 diretto verso Corato, che si è poi scontrato frontalmente, sulla tratta a binario unico, con il convoglio ET1016 partito da Corato. Oltre ai tanti errori tecnici finora accertati, gli inquirenti non escludono che vi siano altri livelli di responsabilità all’interno di Ferrotramviaria. Vengono infatti esaminati ruoli e responsabilità non solo di chi è nella catena di comando, ma anche di chi, all’epoca dei fatti, si occupava di formazione e aggiornamento del personale. Nell’inchiesta - coordinata dal procuratore reggente Francesco Giannella - sono indagate 13 persone e la società per i reati, contestati a vario titolo, di disastro ferroviario, omicidio e lesioni colpose plurime e omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro. Intanto, proseguono le indagini della Procura di Lecce sull'altro incidente ferroviario avvenuto in Salento il 13 giugno scorso (30 feriti) dove si sono scontrati frontalmente due treni delle FSE. Il macchinista che è partito col segnale rosso sostiene che ci sia stata un’avaria ai freni, l’altro di aver innestato la retromarcia per attutire l’impatto.
Lecce, truffa sui fondi per le vittime: presa la presidente di un'associazione antiracket Maria Antonietta Gualtieri. Arrestato un funzionario comunale. Trentadue le persone indagate: fra loro c'è anche l'assessore comunale ai Lavori pubblici, Attilio Monosi. Al setaccio una convenzione del 2012 con il Viminale, scrive Chiara Spagnolo il 12 maggio 2017 su "La Repubblica”. Una bufera giudiziaria si abbatte sull'amministrazione comunale di Lecce nel giorno in cui si avvia la presentazione delle liste elettorali per le elezioni dell'11 giugno. Un'inchiesta della guardia di finanza su presunti illeciti in alcune attività dello Sportello antiracket ha portato all'arresto della presidente dell'associazione, Maria Antonietta Gualtieri, e di un funzionario dell'ufficio Patrimonio del Comune di Lecce, Pasquale Gorgoni (già coinvolto nell'inchiesta sulle assegnazioni delle case popolari). Le ipotesi di reato - contestate nell'ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Giovanni Gallo su richiesta dei sostituti procuratori Massimiliano Carducci e Roberta Licci - sono corruzione e truffa e riguardano le azioni di un presunto sodalizio criminale che sarebbe capeggiato proprio da Gualtieri. Un provvedimento di interdizione dai pubblici uffici è stato emesso nei confronti dell'assessore comunale ai Lavori pubblici, Attilio Monosi, candidato al consiglio comunale in una delle liste che sostengono il candidato sindaco del centrodestra Mauro Giliberti. Proprio nelle ore in cui la guardia di finanza stava notificando le ordinanze del gip, a Palazzo Carafa era in programma la presentazione ufficiale dei candidati. In totale sono quattro le ordinanze di custodia cautelare (tre in carcere e una ai domiciliari) disposte dal gip, sette le misure interdittive dai pubblici uffici e 32 sono le persone indagate. Sequestrato anche l'equivalente di somme indebitamente percepite dal ministero dell'Interno, pari a 2 milioni di euro. Secondo la ricostruzione degli investigatori, nel 2012 Gualtieri avrebbe stipulato convenzioni con il Viminale per istituire tre Sportelli antiracket a Lecce, Brindisi e Taranto. Le indagini hanno accertato che tali strutture in realtà non sono mai state operative, avendo come unico obiettivo l'indebita percezione dei fondi pubblici destinati alle vittime di racket e usura. Documentati la fittizia rendicontazione di spese per il personale impiegato; l'utilizzo di fatture per operazioni inesistenti afferenti l'acquisizione di beni e servizi; la rendicontazione di spese per viaggi e trasferte in realtà mai eseguite; la falsa attestazione del raggiungimento degli obiettivi richiesti dal progetto in termini di assistenza ai nuovi utenti e numero di denunce raccolte. Un altro capitolo dell'inchiesta ha riguardato le presunte collusioni con pezzi dell'amministrazione comunale di Lecce. A partire dal funzionario Gorgoni, che avrebbe fatto carte false per far sì che alcuni lavori di ristrutturazione dell'ufficio dello Sportello antiracket venissero pagati dal Comune anziché dal commissario Antiracket. L'obiettivo - secondo la tesi investigativa - era agevolare il costruttore che ha effettuato i lavori e che avrebbe poi avuto un occhio di riguardo per il funzionario pubblico per altri interventi eseguiti nella sua abitazione. Anche le ristrutturazioni eseguite all'ufficio dello Sportello antiracket di Brindisi sarebbero state viziate da anomalie, relative a false certificazioni di interventi mai ultimati da parte di dipendenti comunali. Ad aggravare ulteriormente la situazione di Gualtieri c'è il fatto che avendo appreso che alcuni suoi collaboratori erano stati convocati dalla finanza per gli interrogatori, li avrebbe istruiti sulle versioni da fornire al fine di cercare di nascondere i numerosi illeciti commessi al fine di ottenere indebitamente i soldi del Fondo antiracket, sottraendoli al loro legittimo utilizzo.
Il Quotidiano di Puglia scrive: Gli arrestati finiti in carcere sono Maria Antonietta Gualtieri, presidente dell'associazione antiracket di Lecce, Giuseppe Naccarelli, ex dirigente del settore finanziario del Comune di Lecce, e Lillino Gorgoni, funzionario di Palazzo Carafa. Agli arresti domiciliari è finita invece Simona Politi, segretaria dell'associazione antiracket. Tra le sette misure interdittive c'è il divieto di ricoprire cariche pubbliche per l'attuale assessore al Bilancio del Comune di Lecce Attilio Monosi, in procinto di candidarsi alle elezioni amministrative con Direzione Italia, e che proprio alcuni giorni fa aveva inaugurato il suo comitato elettorale. Stessa misura per l'avvocato Marco Fasiello, uno dei legali dell'associazione antiracket.
Antiracket Lecce, da anni polemiche accuse e sospetti sulla presidente dell’associazione arrestata. “In un momento come quello attuale, particolarmente critico per l’economia del Paese, cancri sociali come il racket e l’usura insidiano il sistema produttivo, mettendo radici”. Così parlava Maria Antonietta Gualtieri ad aprile 2013 nel presentare un convegno dell’Antiracket Salento a Brindisi e oggi arrestata per truffa aggravata, scrive Luisiana Gaita il 12 maggio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". “In un momento come quello attuale, particolarmente critico per l’economia del Paese, cancri sociali come il racket e l’usura insidiano il sistema produttivo, mettendo radici”. Così parlava Maria Antonietta Gualtieri ad aprile 2013 nel presentare un convegno dell’Antiracket Salento a Brindisi. Eppure, secondo la procura di Lecce, che ha lavorato all’indagine sulla presunta truffa finalizzata a ottenere un finanziamento da due milioni di euro destinato alle vittime del racket e dell’usura, molto era già accaduto. Tanto che già in passato si era gettata qualche ombra sull’operato dell’associazione, ben prima dell’operazione della Guardia di Finanza scattata oggi nel Salento. Ma negli ultimi anni l’Antiracket Salento è stata al centro di polemiche, accuse, sospetti e anche inchieste che, in un modo o nell’altro, l’hanno coinvolta. A giugno 2013 a fare andare su tutte le furie Maria Antonietta Gualtieri furono le parole del presidente della Camera di Commercio di Brindisi Alfredo Malcarne che annunciava l’apertura presso l’ente di uno sportello antiracket. “Solo noi siamo l’unico sportello riconosciuto dal ministero dell’Interno finanziato con i fondi Pon sicurezza” si affrettò a chiarire la presidente, ricordando che l’associazione era l’unica ad aver firmato un protocollo con la Procura della Repubblica. “Vorrà pur dir qualcosa – aggiunse – ci sono associazioni che sono cattive imitazioni”. Poi le accuse ad altre realtà del territorio: “Ce ne sono alcune dalle quali ho subito pressioni – disse – perché non vogliono che cambino le cose. Con il loro atteggiamento favoriscono il consenso sociale alla criminalità, non aiutano le vittime di racket e usura. Tanto da pensare che ci possano essere delle infiltrazioni”. Inevitabili le reazioni. Come quella del presidente antiracket di Mesagne (Brindisi) Fabio Marini: “Una cosa è certa, noi siamo un’associazione non profit composta da vittime del racket e dell’usura che hanno deciso di lottare e aiutare gli altri, facciamo volontariato, mentre lo sportello antiracket Salento vive perché ha ottenuto un finanziamento di 2 milioni di euro”. E a proposito di quel finanziamento, a gennaio 2014 si diffuse la notizia che la Corte dei Conti di Napoli stava indagando sul trasferimento di fondi pubblici a favore di alcune associazioni antiracket. Al centro i 13 milioni e 433mila euro stanziati dall’Unione Europea e arrivati agli inizi del 2012 che facevano parte del Pon-Sicurezza, il Programma Operativo Nazionale finanziato per lo sviluppo del Mezzogiorno. E al Sud nell’albo prefettizio risultavano attive oltre cento associazioni antiracket. I fondi, però, furono destinati solo a tre di esse, tra cui l’Antiracket Salento, che ha ottenuto qualcosa come un milione e 862mila euro. Già a marzo del 2012, in realtà, le associazioni ‘La Lega per la Legalità’ ed ’S.O.S. Impresa’ avevano inviato una lettera all’allora ministro Anna Maria Cancellieri, denunciando l’esistenza di una vera e propria “casta dell’antiracket”. Lino Busà, presidente di S.O.S Impresa, commentando l’indagine fece proprio il suo nome: “Prendiamo il caso di Maria Antonietta Gualtieri, presidentessa dell’Antiracket Salento e già candidata a Lecce sei anni fa nella lista civica di Alfredo Mantovano”. La presidente smentì di essere coinvolta nell’indagine della Corte dei Conti, sottolineando la correttezza dell’iter che aveva portato al finanziamento degli sportelli antiracket. Di fatto l’associazione non ha partecipato ad alcun bando pubblico. E Busà ricordava che sia le norme italiane che quelle europee prevedono, invece, “bandi ed avvisi pubblici”, arrivando a parlare di “una trattativa privata”. Un anno dopo, nel luglio 2015, un’altra inchiesta della procura di Lecce ha coinvolto l’associazione. Un avvocato e un commercialista sono finiti nel registro degli indagati, accusati di avere estorto denaro durante la loro attività di consulenti allo sportello Antiracket di Lecce. Nel fascicolo del procuratore Cataldo Motta si parlava di parcelle che andavano dai 100 ai 900 euro per gli imprenditori che si rivolgevano all’associazione per chiedere pareri sui tassi di interesse dei mutui accesi con le banche. In quella occasione, però, le accuse partirono proprio dalle denunce presentate da un imprenditore, dalla presidente dell’associazione Maria Antonietta Gualtieri e da altre due persone. Il rapporto di collaborazione tra i due consulenti e lo sportello antiracket si interruppe, ma i consulenti depositarono una querela per calunnia contro la presidente Gualtieri.
"A Lecce case popolari a elettori del centrodestra": indagati il sindaco Perrone e Poli Bortone. Inchiesta dei pm salentini sull'affidamento degli alloggi dopo l'esposto del Pd: tra i 46 avvisi di garanzia anche due assessori comunali, l'ex ministra del governo Berlusconi e il deputato di Marti (Cor), scrive Chiara Spagnolo il 28 febbraio 2017 su "La Repubblica". Indagati eccellenti nell'inchiesta della Procura di Lecce sull'assegnazione delle case popolari nel capoluogo salentino: la richiesta di proroga delle indagini formulata dai pm ha fatto venire fuori i nomi del sindaco uscente Paolo Perrone e dell'ex sindaca Adriana Poli Bortone, del deputato Roberto Marti (Cor, già assessore comunale) e degli attuali componenti della giunta Nunzia Brandi e Damiano D'Autilia. Il terremoto arriva in piena campagna elettorale, con Perrone che cerca di passare il testimone al giornalista Mauro Giliberti e si ricandida come consigliere comunale. Quarantasei, in totale, le persone su cui si concentrano le indagini dei finanzieri del Nucleo di polizia tributaria, coordinate dai sostituti procuratori Massimiliano Carducci e Roberta Licci, che stanno passando al setaccio gli atti relativi al periodo fra il 2006 e il 2016. L'ipotesi - ancora parzialmente da verificare - è che l'assegnazione degli alloggi popolari di Lecce sia stata improntata a criteri poco trasparenti. Dettata da favoritismi più che dal rispetto delle regole e da una serie di atti pilotati in favore di elettori del centrodestra, come dimostra il fatto che tra gli indagati figurano anche numerosi dirigenti del Comune. A fare scattare le indagini furono gli esposti presentati negli anni da diversi esponenti del Pd, a partire dall'assessora regionale alle Attività economiche, Loredana Capone, che nel 2012 fu candidata sindaco a Lecce. Fu lei a denunciare in Procura e al prefetto l'esistenza di "un contesto elettorale a rischio" e nella stessa direzione andarono qualche anno più tardi la viceministra Teresa Bellanova e il parlamentare pd Salvatore Capone, recapitando ai magistrati un articolato dossier sul meccanismo di assegnazione delle case popolari. Tra la documentazione al vaglio degli investigatori, le testimonianze di inquilini che lamentavano richieste di mazzette da parte di esponenti politici per il mantenimento dell'assegnazione, le visite nel corso delle campagne elettorali, le occupazioni abusive e molti altri presunti illeciti. I reati, contestati a vario titolo, vanno dall'associazione per delinquere alla corruzione, abuso d'ufficio, falso materiale e ideologico, truffa.
Lecce, favori nell’assegnazione di case popolari: indagati il sindaco Perrone, Adriana Poli Bortone e il deputato Marti. I reati ipotizzati dalla procura salentina sono falso, abuso d’ufficio, omissione di atti d’ufficio e invasione di edifici. 46 le persone sotto inchiesta, tra loro - oltre all'attuale primo cittadino e all'ex ministro del governo Berlusconi - anche due assessori comunali, i due ultimi segretari di palazzo di città. Secondo l'accusa, gli indagati avrebbero agevolato determinati inquilini a colpi di sanatorie di occupazioni abusive, semplici delibere, passaggi indebiti dalle case parcheggio agli alloggi. Tra questi ci sono anche persone ritenute vicine ai clan della Scu, scrive Tiziana Colluto il 28 febbraio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Nel bel mezzo della campagna elettorale per le amministrative, a Lecce deflagra la bomba alloggi popolari. Emergono nomi eccellenti dal vaso di Pandora della lunga inchiesta che tiene col fiato sospeso la politica cittadina. Il punto di partenza degli inquirenti è noto: presunti favori nell’assegnazione delle case in cambio di sostegno alle elezioni del 2012 e anche prima. Nel registro degli indagati finisce, ora, l’attuale sindaco Paolo Perrone, che ha annunciato che tornerà a correre in prima persona a sostegno del candidato del centrodestra Mauro Giliberti. Poi, ci sono l’ex primo cittadino Adriana Poli Bortone e il deputato fittiano Roberto Marti, già assessore alla Casa del Comune di Lecce. Si aggiungono gli attuali assessori alle Politiche giovanili e al Welfare, Damiano D’Autilia e Nunzia Brandi; i due ultimi segretari comunali Domenico Maresca e Vincenzo Specchia; il capo di Gabinetto Maria Luisa De Salvo; i dirigenti Luigi Maniglio, Nicola Elia e Raffaele Attisani; l’ex consigliere regionale di Azzurro Popolare Aldo Aloisi. I reati ipotizzati sono quelli di falso, abuso d’ufficio, omissione di atti d’ufficio e invasione di edifici. Sono 46 in totale i nomi che emergono dalla richiesta di proroga delle indagini preliminari notificata nella giornata di ieri dai militari del Nucleo di Polizia tributaria della Guardia di Finanza. Nell’atto presentato al gip Giovanni Gallo e a firma dei pm Roberta Licci e Massimiliano Carducci, compaiono anche altri dipendenti comunali e molti residenti delle case popolari della zona 167. Intere palazzine di via Potenza, via Pistoia, Piazzale Cuneo e Piazzale Genova sarebbero state assegnate con criteri poco trasparenti, tra il 2006 e il 2016. Per almeno 28 appartamenti, cioè, si sospettano attribuzioni senza requisiti, a colpi di sanatorie di occupazioni abusive, semplici delibere, passaggi indebiti dalle case parcheggio agli alloggi. Il tutto con la presunta influenza degli amministratori e commistione dei dipendenti di Palazzo Carafa, per agevolare precisi gruppi di inquilini. Tra questi ci sono anche persone ritenute vicine ai clan della Scu. La contiguità con ambienti della criminalità organizzata in questo settore è stata uno dei terreni su cui ha vigilato anche la commissione parlamentare antimafia, durante la sua visita a Lecce un anno fa. Ed è uno dei temi che ha visto impegnato il prefetto Claudio Palomba in prima persona, con la sorveglianza esterna del Settore casa del Comune. Le faglie di questo terremoto giudiziario vengono da lontano, dagli esposti che avvelenarono la precedente campagna elettorale per le amministrative. Due anni fa, si sentirono le prime scosse, quando vennero notificati i primi quattro avvisi di garanzia a due assessori della giunta Perrone, attualmente ancora in carica, Attilio Monosi e Luca Pasqualini, oltre che ad un consigliere comunale Pd e a un dirigente comunale. L’accusa, allora, fu di aver messo in piedi una vera e propria associazione a delinquere bipartisan, ritenuta la regia di “gravi e plurimi favoritismi” negli iter burocratici relativi all’assegnazione delle case popolari, “con grave evidente danno dei legittimi aspiranti all’assegnazione”. Stando ad una indagine di Nomisma Federcasa, Lecce resta, probabilmente non a caso, la capitale d’Italia delle occupazioni abusive, con la percentuale più alta in relazione al numero di abitanti: a vivere nelle case popolari senza requisiti è un inquilino su tre.
Inchiesta alloggi popolari, D’Autilia: “io estraneo ai fatti”. Perrone: “atto dovuto”. In merito all'inchiesta sugli alloggi popolari intervengono l'assessore comunale comunale Dmiano d'Autila, che si dice estraneo ai fatti, e il primo cittadino Paolo Perrone, fiducioso nell'operato nella Magistratura, scrive il 28 febbraio 2017 TrNews. L’assessore comunale Damiano D’Autilia interviene in merito all’inchiesta della Procura di Lecce sulle case popolari, definendosi “estraneo ai fatti”. “Sono rimasto amareggiato per essere stato raggiunto da un avviso di garanzia da parte della Procura di Lecce– afferma- durante la mia esperienza amministrativa non ho mai avuto ruoli o incarichi che potessero essere riconducibili alla vicenda relativa all’assegnazione degli alloggi di proprietà comunale”. Per il primo cittadino Paolo Perrone si tratta di un “un atto dovuto e, per certi versi– dice- sono sollevato da questa inchiesta, che dimostrerà in modo inequivocabile la nostra correttezza”. Sull’ipotesi che la vicenda possa gravare sulla campagna elettorale del candidato del centro destra precisa che la faccenda ha una duplice chiave di lettura: “se fossimo stati condannati -conclude- avrebbe potuto gravare. Laddove l’indagine dimostri la nostra lealtà, per noi potrebbe essere una spinta”.
"Mai interessata agli alloggi, se ne occupavano Marti e Perrone", scrive Paola Ancora su “Il Quotidiano di Puglia” l'1 Marzo 2017. «Mi sono chiesta che c’entro io. Non mi sono mai occupata di case. Se ne occupavano gli assessori: Marti, Perrone». Adriana Poli Bortone, ex ministro e parlamentare e sindaco della città dal 1999 i primi mesi del 2007, liquida con queste parole la notizia dei nuovi sviluppi nell’inchiesta sulla gestione delle case popolari che la vede indagata. Poche parole e l’indicazione di coloro che, all’epoca della sua amministrazione e a suo avviso e memoria, si occupavano di case quando lei sedeva sulla poltrona di sindaco: gli ex assessori, oggi rispettivamente parlamentare e sindaco, Roberto Marti e Paolo Perrone, indagati come lei.
Senatrice come ha reagito alla notizia di essere indagata?
«Veramente io ho saputo di questo fatto dai giornali. Non so nemmeno che dire. Mi sono chiesta che c’entro io».
Lei è stata sindaco fino all’inizio del 2007 e l’inchiesta copre un arco temporale dal 2006 al 2015.
«Sì, ma io non mi sono mai occupata di case. Gli assessori se ne occupavano: Marti, Perrone. Loro se ne occupavano. è la prima volta che vengo a conoscenza di certe cose. E mi ripropongo di andare a capire se posso almeno sapere e chiedere di che si tratta, di che parliamo».
Olimpiadi Concorso infermieri ASL LE: I tempi dei vincitori. ASL Lecce, si assumono gli infermieri che per primi fanno le domande e non per meriti, scrive il 17 gennaio 2017 Lucio Marengo direttore di Metropoli. “Se la Costituzione stabilisce che nella pubblica amministrazione si entra per concorso pubblico, la Asl di Lecce si supera e comunica che per l’avviso pubblico per personale infermieristico il criterio sia l’ordine di arrivo delle domande. Un’escalation di assurdità, proprio a ridosso dalle elezioni amministrative, che avvalora i dubbi sulla questione che abbiamo avanzato nei giorni scorsi: è venuto il momento di un intervento diretto e deciso del presidente Emiliano”. Così il presidente del Gruppo consiliare di Forza Italia, Andrea Caroppo. “Facciamo un passo indietro. Era già incomprensibile, come abbiamo denunciato insieme ai sindacati, -prosegue- la pubblicazione di un avviso per incarichi infermieristici della durata di 60 giorni, mentre si licenziavano gli infermieri precari già in servizio prima della scadenza dei contratti. Ma se non bastava già questa moltiplicazione di precari, ora arriva la grande beffa: molti interessati non sono riusciti a trasmettere le domande di partecipazione perché la casella Pec della Asl risulta piena. E ancora, il gran finale: la Asl comunica agli infermieri precari di non inoltrare più le domande perché il criterio di assunzione è quello –rullo di tamburi – dell’ordine di trasmissione della stessa domanda. In altre parole, non si assume chi ha più meriti, ma chi ha avuto la fortuna di venire a conoscenza prima dell’opportunità. Il che, chiaramente, ci fa pensare ancora più ad una manovra dal sapore elettorale, ledendo non solo i diritti di coloro che sono stati licenziati prima del tempo, ma anche di chi ha trasmesso la domanda e che magari, pur essendo più meritevole di altri, si vede superato da coloro che hanno appreso dell’avviso prima (magari grazie a qualche ‘uccellino’ che vuole accaparrarsi qualche voto in più)”. “Per questo – conclude Caroppo – chiedo formalmente l’intervento del presidente-assessore Emiliano per il ritiro immediato dell’avviso pubblico ed il ripristino dei principi di trasparenza e meritocrazia nella pubblica amministrazione”.
LEGULEI COPIONI.
Lecce, avvocati copioni i gip dicono sì alla maxi multa, scrive “Il Quotidiano di Puglia” il 28 novembre 2015. Alla fine il conto per più di 100 aspiranti avvocati delle province di Lecce, Brindisi e Taranto accusati di aver copiato durante le tre prove scritte dell’esame di Stato nel dicembre 2012 è arrivato. E supera il milione di euro. A presentarlo sono stati qualche settimana fa (ma la notizia è trapelata solo ora) i gip (giudice per le indagini preliminari) del tribunale di Lecce Antonia Martalò e Simona Panzera, che hanno accolto la richiesta avanzata, lo scorso agosto, dal procuratore della Repubblica Cataldo Motta. È 11mila euro la cifra messa nero su bianco su ciascun decreto penale di condanna notificato a 101 su 103 indagati. Sono quindi solo due le richieste respinte dal giudice Martalò. Per alcuni però la partita resta aperta. Sosterranno un processo, essendosi opposti al provvedimento che li tratteggia come copioni. Copioni non proprio abili, considerato che la commissione esaminatrice di Catania, incaricata di correggere più di 1.200 elaborati svolti nella sala dell’Ecoteckne (non adeguatamente isolata e priva di schermatura) a Lecce, si accorse di alcune “singolari coincidenze”, annullò i loro compiti e li inviò alla commissione d'esame locale presieduta dall’avvocato Francesco Flascassovitti. È così che partì l’inchiesta condotta dal procuratore capo Cataldo Motta con il prezioso contributo del vicequestore Floriana Gesmundo e del funzionario tecnico Andrea Carnimeo, del compartimento di polizia postale di Bari, e dell’ispettore Salvatore Antonio Madaro, della sede di Lecce. Le indagini svolte utilizzando potenti software, come il Tetras, consentirono di entrare nei cellulari degli indagati, ovviando al sequestro, partendo proprio dal numero fornito dagli stessi nelle domande di ammissione, di scorporare le e-mail scambiate con gli studi legali, gli sms in entrata e in uscita, e le connessioni a siti web specializzati in diritto durante le ore delle prove scritte. La violazione accertata dalla Procura riguarda una norma datata quasi un secolo fa, la legge numero 475 del 1925, che all’articolo 1 parla chiaro: “Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed all'esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno”. E la pena detentiva individuata dal numero uno della Procura di Lecce fu di tre mesi, poi convertita in quella pecuniaria di 11mila euro.
E vai!!!! Così ci prendono in giro. Esame Forense. Tutti copiano, solo alcuni incappano. E poi ci fregano col fumo negli occhi. Come per Catanzaro: decreto penale di condanna opposto e prescrizione per tutti!!! I passacarte della Procura danno anche i nomi dei malcapitati, ma tacciono su cosa succede veramente nelle stanze segrete delle commissioni di esame, dove di giudica senza leggere e correggere.
Copiarono all’esame di avvocato. Sotto inchiesta 103 candidati. La Procura di Lecce ha chiesto una sanzione di 11 mila euro per ciascuno. I testi acquisiti da alcuni siti internet specializzati in materie giuridiche, scrive Antonio Della Rocca su “Il Corriere della Sera” il 31 luglio 2015. Centotré candidati all’esame di avvocato svoltosi a Lecce dall’11 al 13 dicembre 2012 avrebbero copiato le prove scaricando gli elaborati da alcuni siti web o ricevendoli via email attraverso i telefonini. È quanto hanno scoperto gli agenti della Polizia postale di Bari e Lecce, coordinati dalla Procura della repubblica salentina che a tutti i candidati finiti sotto indagine contesta di avere presentato elaborati non propri, fattispecie prevista dalla legge 475 del 1925 e punita con «la reclusione non inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito». In questo caso, la Procura salentina ha chiesto che la pena detentiva sia trasformata in una sanzione di 11mila euro per ciascun candidato. Era stata l’apposita commissione incaricata della correzioni dei test, istituita presso la Corte d’appello di Catania, a segnalare le anomalie nei 103 elaborati. Da qui l’indagine svoltasi sotto la diretta supervisione del procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta. La Polizia postale ha scoperto che i testi sono stati acquisiti da alcuni siti internet specializzati in materie giuridiche, mentre in altre circostanze i candidati avrebbero ricevuto il compito completo via email. Il file sarebbe stato poi diffuso nell’aula tramite WhatsApp. Dei 103 candidati, attualmente 41 sono praticanti avvocati, mentre altri 20 risultano iscritti negli albi degli Ordini degli avvocati delle province di Lecce, Brindisi e Taranto, avendo superato successivamente l’esame di abilitazione. Quattro di loro hanno sostenuto e superato la prova d’esame in Spagna. «Questa vicenda fa emergere un’ipotesi di reato che è quella contestata, e forse ciò che abbiamo scoperto è il risultato di un costume che va cambiato», ha osservato il procuratore Cataldo Motta.Ben 103 aspiranti avvocati, provenienti da Lecce, Brindisi e Taranto, sono stati accusati dalla Procura della Repubblica di Lecce di aver copiato la prova degli esami. Il procuratore Cataldo Motta ha chiesto, con un decreto di condanna, al gip del Tribunale di Lecce la conversione della pena detentiva in una multa di 11mila euro a testa. L’inchiesta scattò dalla Corte di Appello di Catania. Dei 103 coinvolti oggi una ventina sono iscritti negli ordini di Lecce, Brindisi e Taranto. Per altri 40 sono in atto le procedure di praticantato, altri 40 si sono abilitati all’estero.
Esami da avvocato, a Lecce in 103 copiarono prove: condannati a pagare 11mila euro a testa. La Corte d'appello di Catania, chiamata a correggere le prove d'esame sostenute a Lecce, rispedì al mittente i loro compiti, annullando di fatto la prova e inviando gli atti alla magistratura salentina, scrive invece Chiara Spagnolo su “La Repubblica”. Per i compiti copiati all'esame di avvocato del 2012 dovranno pagare 11mila euro ciascuno. La condanna riguarda 103 praticanti del distretto di Lecce-Brindisi-Taranto, ai quali è stata inviata la richiesta di decreto penale di condanna firmata direttamente dal procuratore della Repubblica di Lecce, Cataldo Motta. Il provvedimento chiude il capitolo investigativo dell'inchiesta avviata all'inizio del 2013, quando la Corte d'appello di Catania, chiamata a correggere le prove d'esame sostenute a Lecce, rispedì al mittente 103 compiti, annullando di fatto la prova e inviando gli atti alla magistratura salentina affinché scoprisse cosa era accaduto nelle aule d'esame. Soltanto 20 praticanti l'anno successivo ritentarono l'esame in altre sedi, conseguendo l'abilitazione. Per loro - iscritti nei fori di Lecce, Brindisi, Taranto e Foggia - in caso di condanna si profilerebbe la sospensione dalla professione. L'indagine è stata effettuata dalla polizia postale di Bari e Lecce, che spulciando migliaia di mail e sms ha scoperto come durante le prove gli esaminandi abbiano inviato le tracce a persone di fiducia o studi legali, ottenendo indietro i compiti belli e fatti. Altri furbetti hanno invece attinto le informazioni su Internet, consultando siti specializzati, mentre i più generosi hanno fatto copia fotografica dei compiti corretti e li hanno inviati agli amici, impegnati nella stessa prova, tramite WhatsApp. Da qui la presentazione di un centinaio di temi fin troppo corretti, che hanno subito fatto scattare il campanello d'allarme nei commissari. Due anni di indagini hanno consentito alla polizia postale di mettere insieme prove schiaccianti, quali appunto mail e messaggi in entrata e in uscita sui telefonini dei 103 indagati, durante l'orario d'esame e contenenti il testo poi effettivamente presentato. All'esito di quella attività la Procura ha contestato la violazione dell'articolo 1 della legge 475 del 1925, che punisce chiunque "utilizzi elaborati non propri". E poiché la pena detentiva prevista in materia è blanda (da tre mesi a un anno), il procuratore Motta ha ritenuto che la sanzione da 11mila euro sarebbe stata una lezione più incisiva. Sarà ora il gip a decidere se applicare effettivamente il decreto penale di condanna. Se lo facesse per tutte e 103 le richieste, lo Stato incasserebbe 1 milione 133mila euro.
Un copia e incolla perfetto, senza alcuno sforzo di rielaborazione: da internet, da dispense, da mail e sms ricevuti durante le prove per diventare avvocati. Ora il Procuratore Capo di Lecce, Cataldo Motta, chiede la condanna per 103 candidati, con l’accusa di utilizzazione di elaborati non propri in concorso pubblico, dice nel suo video servizio Trnews della leccese Tele Rama. In mattinata, è stata inoltrata al gip, per via telematica, la richiesta di un decreto penale di condanna che prevede per ognuno il pagamento di una sanzione pecuniaria di 11mila euro, in alternativa rispetto all’applicazione della pena detentiva, che per reati di questo tipo oscilla da tre mesi a un anno. Ad essere stato contestato è l’art.1 della legge 475 risalente al 1925. La sessione finita sotto accusa è quella svoltasi nei giorni dell’11, 12 e 13 dicembre 2012, a Lecce. A presentarsi un migliaio di candidati, chiamato ad affrontare tre prove scritte di diritto civile, penale e la redazione di un atto. I compiti sono stati poi controllati dalla commissione di Catania, che per il 10 per cento delle prove ha avanzato sospetti, tanto da arrivare ad annullarle. A finire nei guai tutti aspiranti avvocati delle province di Lecce, Brindisi e Taranto. Tra loro, solo venti hanno ripetuto l’esame e oggi sono iscritti all’albo. Altri 41 sono praticanti, di cui uno a Foggia, e in quattro, iscritti a Taranto, hanno conseguito l’abilitazione all’estero. L’input arrivato dalla Corte d’Appello di Catania ha dato la stura alle indagini, avviate nel settembre 2013 e delegate ai compartimenti di Polizia postale di Bari e Lecce. Un accertamento minuzioso, possibile grazie all’utilizzo di un software che ha consentito di incrociare tabulati e celle telefoniche utilizzate: negli orari di svolgimento dell’esame, stando a quanto si è verificato, il traffico in entrata e in uscita dai cellulari ha confermato la ricezione di mail da studi legali, lo scambio di foto dei compiti tramite Whatsapp, il collegamento a siti specializzati come diritto.it e guidaaldiritto.it. C’è stato solo un altro caso così eclatante in Italia, a Firenze, dove sono stati annullati 120 compiti svolti nella sessione del 2013. Sarà il consiglio dell’ordine forense, ora, a valutare anche eventuali sanzioni disciplinari.
Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....
All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.
Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.
Esame per avvocati: «Una selezione poco motivata». Sono un giovane avvocato penalista di 31 anni che ha vissuto un’esperienza sconcertante. Laureato all’Università di Brescia, ho svolto il regolare periodo di pratica professionale forense - effettiva e non fittizia - ed ho superato l’esame di abilitazione alla professione di avvocato. Le prove scritte consistono nella redazione - a mano, ancora oggi - di due pareri motivati aventi ad oggetto una questione regolata dal codice civile, una dal codice penale e la redazione di un atto giudiziario. A dicembre di ogni anno si svolgono le prove scritte ed a giugno dell’anno successivo vengono comunicati i risultati; con rammarico apprendo che non sono stato ammesso all’esame orale poiché non ho ottenuto il punteggio complessivo di almeno 90 punti (30 per ogni prova). Ottengo la copia dei compiti e con grande sorpresa leggo in calce al primo parere «trenta, 30»; al secondo «trenta, 30» ed all’atto giudiziario «venticinque, 25». Mi chiedo, tutto qui? Nessun giudizio? Nessuna motivazione? Solo un numero. Perché non 30, 35 e 25? Sarei stato ammesso all’esame orale. Rileggo l’atto giudiziario valutato insufficiente alla disperata ricerca di un errore ortografico, di un’imprecisione nella sintassi di uno strafalcione giuridico... nulla. Chiedo allora un parere all’avvocato presso il quale ho svolto la pratica e con cui collaboro: «Non vedo errori». Sono rabbioso: perché non sono stato ammesso? Perché 25 e non 30? Dov’è l’errore? Come faccio a capire quale errore ho commesso da un numero? Mi sovviene allora il ricordo, dal corso di diritto amministrativo, dell’obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi «compresi quelli concernenti (...) lo svolgimento dei pubblici concorsi». Voglio fare ricorso! Intendo fare ricorso perché da un numero non ho capito quale e dove sia il mio errore, perché già all’università quando studiai diritto penale e diritto processuale penale capii che l’avvocato era la professione che avrei voluto fare nella mia vita. Svolgo una ricerca giurisprudenziale sui ricorsi amministrativi contro i provvedimenti di non ammissione all’esame orale e dopo tre giorni ho già cambiato idea. Consiglio di Stato, sentenza n. 2557/2010: «I provvedimenti della commissione esaminatrice vanno di per sé considerati adeguatamente motivati, quando si fondano su voti numerici, attribuiti in base a criteri da essa predeterminati, senza necessità di ulteriori spiegazioni e chiarimenti, valendo comunque il voto a garantire la trasparenza della valutazione». Corte Costituzionale, sentenza n. 175/2011: «Il punteggio, già nella varietà della graduazione attraverso la quale si manifesta, esterna una valutazione che, sia pure in modo sintetico, si traduce in un giudizio di sufficienza o di insufficienza, a sua volta variamente graduato a seconda del parametro numerico attribuito al candidato». Aspetto sei mesi per rifare l’esame scritto con quattro certezze. La prima, ancora oggi a distanza di anni, non so quale errore, sempre che esista, mi abbia impedito di accedere all’esame orale. La seconda, non posso avere altre fonti di reddito: quale praticante abilitato al patrocinio, secondo l’art. 18 della nuova legge forense sono incompatibile con qualsiasi altro lavoro, autonomo o subordinato. La terza, non posso lavorare: sono abilitato a difendere persone accusate di reati non gravi ma solo, come ha stabilito la Corte Costituzionale nella sentenza n. 106/2010, se mi conoscono, se si fidano della mia professionalità e quindi mi nominano loro difensore di fiducia. Ma chi conosce un praticante avvocato del foro di Brescia dove in Lombardia ci sono circa 32.000 avvocati? Nessuno. La quarta ed ultima certezza è l’attualità del pensiero del filosofo e giurista inglese Jeremy Bentham, che nella sua opera principale «Introduzione ai principi della morale e della giurisdizione» aveva già nel 1789 constatato un’evoluzione storica della giurisprudenza inversa a quella delle altre scienze: se in queste «si vanno sempre più semplificando le procedure rispetto al passato; nella giurisprudenza le si vanno sempre complicando. E mentre tutte le arti progrediscono moltiplicando i risultati con l’impiego di mezzi più ridotti, la giurisprudenza regredisce moltiplicando i mezzi e riducendo i risultati». Lettera firmata pubblicata su “Il Giornale di Brescia”.
Esame di Stato e praticanti avvocati. L'esame di Stato per avvocati: l'analisi di un candidato, continua “Il Giornale di Brescia”. Anche quest’anno, come i precedenti, sono stati comunicati i risultati delle prove scritte sostenute dai praticanti avvocati per l’esame di abilitazione all’esercizio della professione forense che hanno visto, nel distretto di corte d’appello di Brescia, 330 candidati ammessi all’esame orale su 825 iscritti. L’esame di Stato ha l’importantissima finalità di garantire alla collettività un livello medio minimo ma sufficiente ed indispensabile di preparazione ed adeguatezza della classe forense, stante l’imprescindibile ruolo dell’avvocato che consiste nell’assicurare la difesa dei diritti del proprio assistito nel rispetto dei diritti altrui, con lealtà ed indipendenza, non condizionandola all’utile economico. L’obiettivo dell’esame è quindi quello di garantire ad ogni cittadino che qualsiasi avvocato, sia questi nominato di fiducia o d’ufficio, abbia un grado di professionalità tale da fornire un’adeguata assistenza legale al proprio cliente. Un esame con tali finalità dovrebbe necessariamente essere sì severo e selettivo ma necessariamente improntato a canoni di equità e meritevolezza ma soprattutto strutturato con parametri di correzione e di valutazione trasparenti ed oggettivi. Ma siamo sicuri che sia così? Siamo davvero sicuri che l’esame di abilitazione all’esercizio della professione forense, per come è oggi strutturato, abbia davvero questa nobile finalità e non sia già funzionale ad altri e diversi interessi? Attualmente l’art. 17-bis del regio decreto n. 37/1934 prevede l’esecuzione di tre prove scritte: la redazione di due pareri motivati aventi ad oggetto una questione regolata dal codice civile ed una dal codice penale ed, infine, la redazione di un atto giudiziario «che postuli conoscenze di diritto sostanziale e di diritto processuale, su un quesito proposto, in materia scelta dal candidato tra il diritto privato, il diritto penale ed il diritto amministrativo». La commissione centrale istituita ogni anno presso il Ministero della giustizia ha definito per l’anno 2014 i seguenti criteri di valutazione degli elaborati scritti: «a) correttezza della forma grammaticale, sintattica ed ortografica e padronanza del lessico italiano e giuridico; b) chiarezza, pertinenza e completezza espositiva, capacità di sintesi, logicità e rigore metodologico delle argomentazioni ed intuizione giuridica; c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti trattati, nonchè degli orientamenti della giurisprudenza; d) dimostrazione di concreta capacità di risolvere i problemi giuridici anche attraverso riferimenti alla dottrina e l’utilizzo di giurisprudenza; e) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà, anche con specifici riferimenti al diritto costituzionale e comunitario per la soluzione di casi che vengano prospettati in una dimensione europea, ovvero presentino connessioni con altre materie giuridiche; f) coerenza dell’elaborato con la traccia assegnata ed esauriente indagine dell’impianto normativo relativo agli istituti giuridici di riferimento; g) capacità di argomentare adeguatamente le conclusioni tratte, anche se difformi dal prevalente indirizzo giurisprudenziale e/o dottrinario; h) dimostrazione della padronanza delle scelte difensive e delle tecniche di persuasione per ciò che concerne, specificamente, l’atto giudiziario». Dal corposo ed articolato elenco di criteri valutativi si dovrebbe ragionevolmente ritenere che il giudizio apposto su ogni elaborato dalla sottocommissione correttrice sia fornito di motivazione, seppur sintetica – che non si esaurisca in una clausola di stile – se non esaustiva quantomeno intelleggibile, in modo tale che ogni candidato possa comprendere le ragioni per le quali non è stato ammesso a sostenere la successiva prova orale. Dovrebbe quindi essere possibile vedere una correzione vicino ad un errore ortografico, si dovrebbero comprendere le motivazioni di un elaborato ritenuto poco chiaro, non pertinente od incompleto, oppure andrebbe spiegata la ragione per la quale un candidato ha dimostrato scarsa capacità argomentativa o non padronanza delle scelte difensive e delle tecniche di persuasione. E’ evidente, infatti, che solo la conoscenza dei motivi sottesi alla non ammissione, consentirebbe al candidato che intenda presentarsi l’anno successivo di prepararsi adeguatamente – correggendo gli errori commessi l’anno precedente – proprio per raggiungere quel grado di preparazione tecnica che l’esame di stato mira a garantire. Così non è. Il giudizio espresso su ogni elaborato è costituito da un numero. Una votazione numerica compresa tra 0 e 50 ed «alla prova orale sono ammessi i candidati che abbiano conseguito, nelle tre prove scritte, un punteggio complessivo di almeno 90 punti e con un punteggio non inferiore a 30 punti per almeno due prove». Ma come è possibile comprendere da un numero, da una votazione, se l’elaborato scritto sia grammaticalmente, sintatticamente od ortograficamente errato, oppure se sia illogico, privo di sintesi, non pertinente alla traccia assegnata od, ancora, se sia indice di non padronanza delle scelte difensive o delle tecniche di persuasione? Non è dato saperlo. Se, come ebbe modo di scrivere Voltaire, «il grado di civiltà di un paese si misura osservando la condizione delle sue carceri», allora non deve stupire se un paese incivile abbia un esame di abilitazione all’esercizio della professione forense altrettanto incivile. Un sistema autoreferenziale giuridicamente inaccessibile. Non sono così peregrine, allora, le numerose eccezioni di legittimità costituzionale di questo sistema di valutazione degli elaborati scritti sollevate da avvocati e recepite dai tribunali amministrativi regionali investiti dai ricorsi presentati dai svariati candidati non ammessi all’esame orale. L’espressione del giudizio attraverso il solo voto numerico – che di fatto non consente al candidato non ammesso alla prova orale di sapere le ragioni per le quali il suo elaborato è stato giudicato insufficiente – comporta un difetto di trasparenza in contrasto con il principio di imparzialità che postula la conoscibilità e pubblicità delle scelte amministrative anche tecniche (art. 97 Cost.), nonché con il principio di uguaglianza e di pari dignità di tutti i cittadini di fronte all’esercizio del potere amministrativo (art. 3 Cost.), lede il diritto di difesa ed alla tutela dei diritti e degli interessi legittimi contro gli atti amministrativi di ogni candidato (artt. 24 e 113 Cost.) ed, infine, contrasta con l’interesse legittimo – avente natura sostanziale e non solo processuale – degli stessi candidati all’accesso al lavoro (artt. 4 e 41 Cost.). Nonostante l’art. 3 della legge n. 241/1990 preveda che «ogni provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti (…) lo svolgimento dei pubblici concorsi deve essere motivato» – la cui finalità è quella di rendere trasparente e controllabile l’esercizio del potere discrezionale della pubblica amministrazione – Consiglio di Stato prima e Corte costituzionale poi, hanno sempre tenuto una linea di assoluta intransigenza. La quarta sezione del Consiglio di Stato nella sentenza n. 2557/2010 ha infatti ritenuto che «i provvedimenti della commissione esaminatrice (…) vanno di per sé considerati adeguatamente motivati, quando si fondano su voti numerici, attribuiti in base ai criteri da essa predeterminati, senza necessità di ulteriori spiegazioni e chiarimenti, valendo comunque il voto a garantire la trasparenza della valutazione; né può sostenersi che la circostanza che sugli elaborati di un concorso pubblico non sia stato apposto alcun segno grafico di correzione sia elemento significativo da cui desumere la carenza di motivazione, sia perché essa non può significare che la prova non sia stata oggetto di correzione, sia perché la necessaria correlazione con i predeterminati criteri di valutazione è comunque garantita dalla graduazione ed omogeneità delle valutazioni effettuate mediante l'espressione della cifra del voto, con il solo limite della contraddizione tra specifici ed obiettivi elementi di fatto, criteri di massima prestabiliti e conseguente attribuzione del voto». Dal canto suo la Corte costituzionale nella sentenza n. 175/2011 ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 17-bis, 23 e 24 del regio decreto n. 37/1934 sollevate dal tribunale amministrativo della Lombardia sostenendo che il «punteggio, già nella varietà della graduazione attraverso la quale si manifesta, esterna una valutazione che, sia pure in modo sintetico, si traduce in un giudizio di sufficienza o di insufficienza, a sua volta variamente graduato a seconda del parametro numerico attribuito al candidato». «Il punteggio espresso deve trovare specifici parametri di riferimento nei criteri di valutazione contemplati dall’art. 22 del regio decreto-legge n. 1578/1933» – ed integrati ogni anno dalla commissione centrale – «ed è soggetto a controllo da parte del giudice amministrativo che, pur non potendo sostituire il proprio giudizio a quello della commissione esaminatrice, può tuttavia sindacarlo, nei casi in cui sussistano elementi in grado di porre in evidenza vizi logici, errori di fatto o profili di contraddizione ictu oculi rilevabili, previo accesso agli atti del procedimento». Come è possibile rilevare «vizi logici, errori di fatto o profili di contraddizione» da un numero? Come è possibile comprendere da un numero se l’elaborato scritto non sia sufficiente a rispondere ai parametri previsti dall’art. 22 del regio decreto-legge n. 1578/1933, integrati ogni anno dalla commissione centrale istituita presso il Ministero della giustizia? E’ questo il vero interrogativo al quale Consiglio di Stato e Corte costituzionale dovrebbero rispondere, magari con ampia ed articolata motivazione, della quale tuttavia nelle due sentenze citate non v’è traccia. La reale ragione per la quale è sufficiente il solo giudizio numerico è una e molto semplice: se ogni elaborato avesse un giudizio costituito da una motivazione apprezzabile e non già da una manifestamente apparente, la medesima motivazione, qualora viziata, errata o contraddittoria se rapportata al giudizio dell’elaborato scritto, sarebbe oggetto di massiccio ricorso al tribunale amministrativo regionale. Una volta compreso che nessun candidato non ammesso all’esame orale abbia la possibilità di correggere le proprie mancanze in vista dell’esame dell’anno successivo e che tale sistema è protetto dalla giurisprudenza amministrativa e costituzionale, è agevole intuire che il vero obiettivo dell’esame di stato non sia quello di garantire un livello di preparazione e professionalità minimo della classe forense. Inizia quindi a prendere corpo la risposta al quesito iniziale e cioè quale sia la finalità dell’esame di abilitazione all’esercizio della professione forense. La vera finalità dell’esame. Nonostante non sia esplicitato in nessun documento ufficiale o reso noto da nessuna commissione od Ordine Forense, la finalità sommersa ma reale ed unica dell’esame di stato è quella di limitare il più possibile l’accesso all’ordine forense di coloro i quali ogni anno intendano esercitare la professione d’avvocato. Il motivo è molto semplice: siamo troppi. Circostanza assolutamente vera ed inconfutabile se si considera che attualmente nella sola Lombardia esistono circa 32.000 avvocati quando in tutta la Francia – che ha 2 milioni di abitanti in meno dell’Italia (65 milioni e 67 milioni) – gli avvocati sono circa 47.000. Quindi non è un caso se ogni anno mediamente accedono all’esame orale, nel distretto di corte d’appello di Brescia, circa 300 candidati (330 nel 2014, 290 nel 2013, 300 nel 2012, 207 nel 2011, 258 nel 2010, 272 nel 2009, 172 nel 2008, 525 nel 2007, 400 nel 2006). Non è un caso se nessun avvocato oggi scrive manualmente un’istanza od un parere scritto – quando richiesto dal cliente – dovendo preoccuparsi di avere una calligrafia chiara e comprensibile al suo lettore; non è un caso se nessun avvocato oggi redige un atto d’appello avvalendosi delle sole massime di giurisprudenza riportate sui codici commentati e non già delle banche dati e delle riviste giuridiche, facoltà che – tra l’altro – a partire dall’anno 2017 non sarà più concessa. Se la finalità è quella – del tutto ragionevole – di ridurre l’accesso alla professione forense allora sarebbe più logico, efficace e soprattutto equo, apporre il filtro a monte e non a valle del percorso formativo dei giovani diplomati che intendano intraprendere questa strada: bisognerebbe introdurre il numero chiuso per limitare l’accesso alla facoltà di giurisprudenza, rendere tale università veramente selettiva e formativa. E’ del tutto inutile e persino dannoso se non addirittura illusorio ridurre il periodo di pratica forense da 2 anni ad 1 anno e 6 mesi come ha recentemente stabilito l’art. 5 della legge n. 247/2012 recante la “nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense”, come se l’apprendimento – effettivo – della professione forense potesse essere concentrato solamente in 18 mesi. La vera selezione della classe forense, infatti, è svolta dal tempo: un avvocato solo dopo anni di professione dignitosa e decorosa può realmente comprendere se gode di considerazione e stima nell’ambito della sua professione, dovendo egli meritare la fiducia dei suoi assistiti solamente attraverso la sua capacità professionale, la sua rettitudine e la considerazione che hanno di lui i colleghi e non già per la sua furbizia nel proporsi. Sarebbe dunque più equo e meritocratico – ed allo stesso tempo altrettanto selettivo – introdurre criteri di valutazione realmente oggettivi e comprensibili ai candidati che solo il test con quesiti a risposta multipla è in grado di garantire (come accade per l’esame di abilitazione alla professione di commercialista od all’ingresso dei laureati in medicina nelle varie specializzazioni professionali), magari prevedendo la soglia di promozione ed accesso all’esame orale prossima al anche 90% delle risposte corrette. Vi è tuttavia da segnalare che la nuova legge professionale forense prevede che a partire dall’anno 2015 la commissione esaminatrice debba annotare «le osservazioni positive o negative nei vari punti di ciascun elaborato, le quali costituiscono motivazione del voto che viene espresso con un numero pari alla somma dei voti espressi dai singoli componenti». Non rimane che attendere l’esito delle correzioni dei primi compiti per comprendere se «le osservazioni positive o negative» si esauriranno in semplici clausole di stile del tutto inidonee a costituire una motivazione apprezzabile oppure se consentiranno un effettivo controllo della correlazione tra la votazione numerica ed i parametri di valutazione stabiliti dalla commissione centrale istituita presso il Ministero della giustizia. La confisca di un anno di vita da parte dello Stato. Il praticante avvocato abilitato al patrocinio – cioè autorizzato ad assumere la difesa di persone imputate di reati per i quali è prevista una pena non superiore a 4 anni di reclusione e per il solo processo di primo grado – non ammesso all’esame orale non ha molte alternative: non può colmare le proprie lacune perché non gli è consentito sapere quali esse siano; nell’attesa del bando d’esame dell’anno successivo non gli è consentito ottenere una fonte di reddito alternativa a quella della propria professione – che non è abilitato a svolgere – perché, come qualsiasi altro avvocato, egli è sottoposto alle ipotesi di incompatibilità che la nuova legge professionale forense prevede al proprio art. 18, secondo il quale la professione è «incompatibile: a) con qualsiasi altra attività di lavoro autonomo; b) con l’esercizio di qualsiasi attività di impresa commerciale; c) con qualsiasi attività di lavoro subordinato anche se con orario limitato». Il praticante, quindi, se collabora con un avvocato serio viene retribuito con «un compenso adeguato» come previsto dall’art. 40 del codice deontologico forense, se invece collabora con un avvocato meno serio e meno incline al rispetto delle norme deontologiche, è fortunato quando riceve una formazione proficua ma gratuita, è poco fortunato quando è ridotto a svolgere delle mansioni che non gli competono ovviamente non retribuite. Il praticante abilitato al patrocinio, non può neppure lavorare attivamente ed incrementare il proprio livello di preparazione e professionalità. Oltre allo studio degli atti processuali ed alla ricerca giurisprudenziale – prodromiche all’udienza –, l’attività di vera formazione dell’avvocato (soprattutto di quello penalista) è quella che viene svolta nelle aule di tribunale. Solo partecipando attivamente ai processi, infatti, il praticante può imparare ad interrogare testimoni dell’accusa e della difesa (quali domande porre e come formularle), prendere decisioni improvvise dettate da circostanze verificatesi nel corso dell’udienza e sollevare eccezioni processuali oppure prendere parte alla discussione orale che conclude il processo. Tali attività, dopo 77 anni dal loro ininterrotto svolgimento, dal 2010 sono precluse al praticante abilitato al patrocinio nel caso in cui il suo mandato defensionale non derivi direttamente dal cliente ma sia comunicato dall’ufficio della procura della Repubblica presso il tribunale che vi deve necessariamente provvedere prima del compimento di determinate attività d’indagine o processuali. La Corte costituzionale nella sentenza n. 106/2010 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 8 del regio decreto-legge n. 1578/1933 nella parte in cui prevede che i praticanti avvocati abilitati al patrocinio possano essere nominati difensori d’ufficio. La Corte costituzionale dopo avere premesso che «la differenza tra il praticante e l’avvocato iscritto all’albo si apprezza non solo sotto il profilo della capacità professionale (che, nel caso del praticante, è in corso di maturazione, il che giustifica la provvisorietà dell’abilitazione al patrocinio), ma anche sotto l’aspetto della capacità processuale, intesa come legittimazione ad esercitare, in tutto od in parte, i diritti e le facoltà proprie della funzione defensionale», indica due sintetiche ragioni. «In primo luogo, il praticante iscritto nel registro, pur essendo abilitato a proporre dichiarazione di impugnazione, non può partecipare all’eventuale giudizio di gravame». Vero. Ma la Corte avrebbe dovuto chiedersi cosa accadeva ed è accaduto durante i 77 anni precedenti. Il praticante avvocato portava a termine il suo mandato con la conclusione del processo di primo grado: in caso di condanna, se riusciva a mettersi in contatto con il cliente gli suggeriva di nominare un avvocato di fiducia affinché redigesse l’atto d’appello e lo difendesse nel secondo grado di giudizio oppure presentava la dichiarazione di impugnazione e la corte d’appello provvedeva a nominare un difensore – avvocato – d’ufficio. La seconda ragione consiste nella circostanza che «il praticante si trova, inoltre, nell’impossibilità di esercitare attività difensiva davanti al tribunale in composizione collegiale, competente in caso di richiesta di riesame nei giudizi cautelari». Sorprende come la Corte costituzionale ignori o abbia voluto ignorare che la stragrande maggioranza dei reati per i quali il praticante avvocato può assumere il patrocinio (previsti dall’art. 550 del codice di procedura penale con l’aggiunta dei reati che furono di competenza del pretore) non comportino la possibilità di applicare misure cautelari. Ma cosa accadeva ed è accaduto durante i 77 anni precedenti? E’ evidente che in precedenza nel caso in cui veniva disposta una misura cautelare era nominato d’ufficio un avvocato, in caso contrario poteva anche essere nominato d’ufficio un praticante abilitato al patrocinio. Tutto ciò dal 2010 non è più possibile. L’unica sua fonte di clientela e di lavoro può scaturire unicamente dalla nomina di fiducia: non è difficile comprendere come un praticante che si sia appena affacciato alla realtà forense – che vanta così tanti avvocati – veda ridotta vicino allo zero la possibilità essere nominato di fiducia da un cliente. E’ allora agevole intuire che al praticante abilitato al patrocinio non ammesso all’esame orale di alternativa ne rimane una sola: lasciare trascorrere l’anno solare nel quale egli non può migliorare la propria preparazione in vista dell’esame, non può aumentare il livello della propria professionalità perché non gli è consentito “lavorare” nelle aule di tribunale; quello stesso anno di vita che lo Stato, attraverso l’esame di abilitazione così strutturato, con finalità non dichiarate, e protetto dalla giurisprudenza amministrativa e costituzionale, ha deciso di confiscare. In realtà è ben triste rilevare in conclusione come sia alquanto attuale il pensiero del filosofo e giurista inglese Jeremy Behntam, il quale nella sua opera principale pubblicata nel 1789 “Introduzione ai principi della morale e della giurisdizione” aveva già constatato un’evoluzione storica della giurisprudenza inversa a quella delle altre scienze: se in queste «si vanno sempre più semplificando le procedure rispetto al passato; nella giurisprudenza le si vanno sempre complicando. E mentre tutte le arti progrediscono moltiplicando i risultati con l’impiego di mezzi più ridotti, la giurisprudenza regredisce moltiplicando i mezzi e riducendo i risultati».
TI SEI DIVERTITO? (OVVERO L’ESAME DI AVVOCATO), scrive Federico Baccomo su “Studio Illegale”. Nonostante quello che si può pensare, io non sono nato Avvocato. Ero uno qualunque prima che il superamento di un esame mi elevasse a un rango tale per cui la gente sbadiglia quando dico di cosa mi occupo. Dicevo. Ho superato un esame per essere quello che sono. Io, che vivo la mia vita professionale come un totano nella rete, ho superato un esame per essere quello che sono. Lo ripeto perché mi sembra molto divertente. Ed è questa la caratteristica principale dell’esame d’avvocato. E’ una delle cose più divertenti che possa capitare di fare. Scherzi, lazzi, giochi, burle. In una parola, un gran divertimento. Come ogni esame che si rispetti, l’esame d’avvocato è diviso in due fasi: lo scritto e l’orale. E questo sembra quasi banale. Ma sarebbe un errore pensarlo, perché, a differenza di ingegneri, architetti o altri professionisti poco spiritosi, la cosa divertente del nostro esame è che tra i due momenti – scritto e orale – può passare anche un anno. Un anno. Ci pensano le commissioni d’esame a creare la giusta suspence, rilasciando i risultati dopo sei/sette mesi dallo svolgimento delle prove, con il popolo dei candidati che, al rullare dei tamburi, dice “oooooooooOoOoOOOOOOOHHH”. E sembra proprio di stare allo stadio prima di un rigore. Un rigore con una rincorsa di sette mesi. Spassosissimo. E, per quelli che ce l’hanno fatta a fare centro, una media di altri tre/quattro mesi prima di sostenere l’orale. Col risultato di un esame che, come un bellissimo e lunghissimo gioco, occupa un anno di vita. Questo io lo trovo assolutamente divertente, perché permette di assaporare mille sensazioni (tra cui, l’ansia, l’agitazione, l’angoscia, l’amarezza, la demoralizzazione, ecc.) e di sentirsi gioiosamente parte di un felice meccanismo di selezione. Per alcuni colleghi, poi, è tutto ancora più divertente. Siccome può capitare che l’iter si prolunghi oltre l’anno senza che siano riusciti a sostenere l’esame orale, sono costretti, in attesa dell’orale, a rifare l’esame scritto nonostante l’abbiano già passato l’anno prima. E’ uno scherzo bellissimo. E loro si divertono molto, essendo persone che sanno stare al gioco. Certo, alcuni, all’inizio, si arrabbiano un po’, sostenendo che il Consiglio nazionale forense si disinteressa della dignità o della sorte dei suoi futuri appartenenti. Ma poi lo capiscono subito che è solo un bellissimo scherzo. Anzi, io credo che il Consiglio semplicemente voglia che il candidato arrivi al titolo con gradualità. Il successo, quando è improvviso, può dare alla testa. E poi si diventa presuntuosi. E non ci si diverte più. Oggi, è cominciato l’esame scritto. Dura tre giorni. Tre giorni per tre elaborati: un parere in materia civile, un parere in materia penale e un atto su una materia a scelta (civile, penale, amministrativo). A questo punto, in maniera molto superficiale, ci si potrebbe chiedere: io che mi occupo di fusioni e acquisizioni societarie, perché devo svolgere un tema d’esame su Caia, vicina di Tizio, che sbatte i tappeti fuori dalla finestra? Ha Tizio diritto a un risarcimento per il danneggiamento del cortile? E se Caia compie l’azione di pulitura del tappeto tutta nuda, ci sono profili per riconoscere la legittimità del gesto? Di più, sempre ingenuamente, si potrebbe notare che un chirurgo non è tenuto a saper curare una carie o un cardiologo a saper togliere le emorroidi. E allora perché l’avvocato deve provare di conoscere la disciplina del matrimonio e quella del tentato omicidio, la contrattualistica e il diritto condominiale, l’infanticidio e il contratto di locazione? Ma questo, come si diceva, è tutto frutto di ingenuità. E l’Ordine degli Avvocati non risponde all’ingenuità. E poi, finché il cliente paga, queste sono quisquilie di cui possiamo anche non tenere conto. Il fatto è che si fanno tre prove scritte per divertirsi. Presentarsi per tre giorni in un capannone dove solitamente tengono la fiera del ciclo e motociclo, insieme ad altri 3000 ragazzi, stipati in banchetti di 40×80, dalla mattina alle 8.00, per uscirne solo intorno alle 19.00, è qualcosa di molto divertente. Sembra un po’ di stare in colonia. Si mangiano i panini fatti in casa, ci si ritrova nei bagni per parlare, si fanno tante amicizie. E, proprio come in colonia, alle volte viene da piangere, con la malinconia della mamma. Ma è solo un attimo e poi si torna tutti a ridere felici. Purtroppo, però, si sentono dire tante cattiverie. In particolare, è facile sentire tanta gente che non sa stare allo scherzo dire una certa parola e fare la faccia di chi ha capito tutto. La parola in questione è Catanzaro. Catanzaro per un avvocato non è solo il capoluogo della Calabria. Catanzaro è un simbolo. Catanzaro è la Mecca del praticante avvocato. A Catanzaro, nel 1997, avvenne qualcosa di molto bello. I commissari d’esame, la mattina di una delle prove, entrarono con un foglio in mano e dissero: “Ora fate attenzione perché non ripeteremo”. E cominciarono a dettare la soluzione del compito. Pensate quante risate si sono fatti quando il 98% dei candidati ha passato l’esame, mentre nella maggior parte del resto d’Italia le teste dei candidati cadevano impietosamente (con percentuali tra il 10 e il 30% di promossi). Furono in 6 su 2.301 a non copiare. Naturalmente furono i meno spiritosi. Perché quando si scherza, è importante fare gruppo. Poi successe che qualche malvolente magistrato mise in piedi un’inchiesta, ma si scoprì presto che anche quello era solo un gioco e all’esito del processo si è festeggiata una prescrizione da tutti attesa e felicemente accolta. In fondo a Catanzaro quella era la tradizione. E, ancora più in fondo, si stava solo giocando. Chi non ha mai sbirciato le carte di quello andato al bagno? Chi non s’è mai aggiunto delle armate sulla Kamchatka mentre gli altri erano distratti? Chi non ha mai mosso un pochino il maglione per stringere la porta quando giocava a calcio ai giardinetti? Il legislatore, tuttavia, in quel caso se ne ebbe un po’ a male ed orchestrò una soluzione. Oggi, per evitare ingiustizie, si procede così: da ogni sede d’esame, partono alcuni tir che portano i compiti svolti, per esempio, a Roma e li fanno correggere a, per esempio, Bologna. E’ un po’ come se a scuola, invece di mantenere la disciplina durante un compito, si lasciassero gli studenti a fare quello che gli pare e poi si prendessero i temi e si facessero correggere alla professoressa del piano di sotto. E’ evidente che è tutto uno scherzo. Uno scherzo ancora più gustoso se si pensa a quanto può essere professionalmente importante questo esame per un ragazzo che impiega un paio di anni per potervi accedere. Come si vede, le premesse per divertirsi ci sono tutte. Ah… quanti ricordi che ho anche io del mio esame. Ricordo che, alla vigilia, ho dovuto presentarmi insieme a tutti gli altri candidati, con un trolley pieno di codici e una catena, presso la sede della Fiera Campionaria. Dopo cinque ore di coda, ho potuto raggiungere il mio banco all’interno di un enorme capannone e lì ho legato il bagaglio. I candidati, infatti, devono portare all’esame il proprio materiale di consultazione. I commissari d’esame, furbi come lepri marzoline, pretendono, però, di controllare tale materiale affinché nessun furbacchione introduca libri non autorizzati e/o bigliettini e/o note e/o appunti. E allora si deve passare in mezzo a una serie di controlli di questo manipolo di giovani e meno giovani professori/magistrati/avvocati che giocano al sergente controllore, per vedersi approvati i propri codici. Ogni codice ha più di 5.000 pagine. Ogni candidato ha almeno 4 codici. 3.000 i candidati. Che fanno 60.000.000 di pagine da controllare. A rifletterci ora, a mente fredda, sono stato fin troppo pessimista, visto che avevo infilato gli appunti nei calzini. Quello che non ci stava nei calzini, comunque, l’avevo messo in una tasca del trolley che non è stata aperta. Tutto questo avviene il giorno prima dell’inizio dell’esame, quando il candidato è in quello stato d’animo di contagiosa gioia che anima chiunque alla vigilia di una prova e lo spinge a riversarsi in piazza. Chi di noi ha bisogno di concentrarsi, studiare e/o rilassarsi? A noi piace fare una coda di ore, nella Milano di dicembre, per farci perquisire come terroristi legali. E anche tutto questo contribuisce al divertimento. E poi cominciò l’esame vero e proprio. Gli epici tre giorni. Ma quello che ivi avvenne – tra commissari compiacenti, errori nella dettatura dei temi d’esame, carabinieri che sorvegliavano i cessi, tentativi di rimorchio, svenimenti, acrobatici suggerimenti, scene isteriche, allarmi in funzione per ore, ecc. – non lo posso raccontare. Fa parte di quei ricordi personali che noi ex praticanti serbiamo nel cuore tra le cose più care e per i quali non esistono parole. (Dedicato a N. che ha fatto l’esame sette volte. Poi l’ha passato. E la moglie l’ha lasciato.).
Esame di Stato per Avvocato: vi racconto cosa accadde…Ogni anno, come sovente, tutte le sedi dell’Esame di Stato per Avvocato (una per ogni Corte d’Appello) saranno prese d’assalto da migliaia di fiduciosi, ma spesso scettici, aspiranti avvocati che, date le difficoltà dell’esame stesso (e forse la “quantità industriale” di avvocati già presenti sul territorio nazionale), spesso si ritrovano a essere puntualmente respinti e a doverlo ripetere ad oltranza (per fortuna ci sono sempre i “bravi e fortunati” che riescono a superarlo in un batter di ciglio e in prima battuta!). Anche quest’anno stressatissimi giovani avvocati già “giurati”, dunque, dopo aver studiato per mesi o dopo aver ripetuto per l’ennesima volta gli stessi codici, leggi e decreti, si recheranno nelle sedi dell’Esame di Stato per Avvocato con un sicuro altissimo livello di ansia e di tensione, spesso acuite dallo stesso contesto. Leggende metropolitane(?) raccontano di un ambiente alquanto “rigido” dove spesso il concetto di giustezza e di liceità nel modus operandi delle persone deputate a garantire l’ordine e la legalità di questo ufficialissimo “evento” pubblico, talvolta si confondono e vengano interpretati in maniera piuttosto personale ed arbitraria. Non basta, quindi, a quanto pare, aver sudato già le “doverose” sette camicie di rito per laurearsi in legge, non basta aver sopportato ingiustizie, angherie e più banalmente la spietata concorrenza dei tanti che prima e dopo di te si sono iscritti a giurisprudenza, non basta aver sopportato un vivere in quegli anni come in un sistema classista e gerarchico dove al vertice si erge quasi con “scettro e pastorale la sacra casta”! Sembra, infatti, che anche dopo, occorra recuperare delle “buone spalle larghe”, augurandosi che bastino per indossare nuovamente almeno altre 7 camicie!
Intervista: lo sfogo di una partecipante all’Esame di Stato per Avvocato, scrive Pasqualina Scalea su “Controcampus”. A tal proposito, a seguire, un’intervista o forse sarebbe più opportuno parlare di uno “sfogo”, una “confessione”, un “racconto” di uno dei tanti aspiranti avvocati campani che ha voluto raccontare per Controcampus la sua ultima esperienza di Esame di Stato per Avvocato in Campania, dopo aver conseguito la laurea presso un’università nella stessa regione. Per ovvi motivi il nostro “quasi avvocato e lettore” di Controcampus rimarrà nell’anonimato, così come preferiamo stendere il silenzio sul luogo specifico di svolgimento dell’Esame di Stato per Avvocato.
“Tra qualche mese, a dicembre, ci ritroveremo tutti al patibolo. Ogni anno la percentuale dei promossi all’esame di stato per avvocato, è più bassa dell’anno precedente. Pertanto, se non ti dispiace, comincerei dalla fine invece che dal principio, giusto per rendere spiegabile l’ansia e la frustrazione che ognuno di noi vive nel corso dei tre giorni di esame. E’ chiaro a tutti che ormai la volontà politica generale è quella di ridurre il numero degli avvocati. La maggior parte dei parlamentari è un avvocato e nessuno ama la concorrenza. Siamo rimasti tra (se non l’unico) Paese in Europa ad aver mantenuto un esame di stato per avvocato per l’accesso alla professione quando, invece, la selezione dovrebbe farla il mercato. Tra l’altro ci si dovrebbe interrogare su questa riflessione: se alcuni anni fa a superare l’esame erano il 96% dei candidati e oggi il 17-30% cosa vuol dire? Che tutti gli incapaci sono nati nelle ultime due generazioni o che molti degli ATTUALI avvocati sono in realtà degli incapaci? Allora perché non fare un esame per restare nell’albo? Troppo pericoloso, forse? Cane non morde cane?"
“C’è, poi, un altro paradosso che devi conoscere. Dopo un anno di pratica è possibile sostenere un giuramento (che non prevede alcun esame ma solo la lettura di una formula) e patrocinare cause per un valore non superiore a € 25mila. Io, grazie a questo nulla osta, ho oggi un fatturato di circa diecimila euro (e nessuna di queste pratiche mi è stata passata da mio padre, per chiarirci). Questo “nulla osta” vale per sei anni dal momento del giuramento; dopo di che, se non hai superato il famoso esame di stato per avvocato, non può più patrocinare. Dunque, il paradosso: dopo un anno di pratica appena, posso patrocinare ma dopo 7 anni di pratica, cause mie, un mio fatturato, no. Allora? Come si spiega? Si spiega col fatto che i patrocinanti con il nulla osta sono utili a quegli avvocati che non possono andare in udienza e mandano questi ragazzi (a costo generalmente pari a zero! Per essere chiari l’ho fatto e lo faccio anche io). Il nulla osta esiste solo per questo. Ma quando questi ragazzi, manovalanza a costo zero, diventa concorrenza, diventano degli incapaci.”
“E continuo dalla fine, posso?” La correzione dei compiti: vogliamo parlarne? Una farsa. Nel mio caso (che è uguale a quello di tutti gli altri, non sono una vittima) tre compiti di almeno 4 pagine intere ciascuno. Corretti con una media di due minuti e mezzo, senza alcun segno di correzione. Assolutamente plausibile credere che non siano stati letti, no? Anche perché nella sostanza, col senno di poi, si è in grado di dire se uno ha scritto sciocchezze o cose giuste. Le mie erano cose giuste! E, voglio dire, non esiste solo il massimo dei voti ma anche la sufficienza. Pare che se ne siano dimenticati!"
“Ho visto i compiti di alcuni miei amici che li hanno fatti uguali (sì hanno copiato tra di loro), te lo giuro, IDENTICI (qualche sinonimo qua e là del tipo o-oppure, inoltre-in più, etc.) con voti assolutamente diversi: un promosso a voti pienissimi, una promossa “rosicata”, un bocciato che con quei voti avrebbe dovuto ritirarsi. Mah! E andiamo alla tre giorni dello scorso anno. Io l’ho sostenuto già due volte e posso farti un paragone. La prima volta è stato tutto molto tranquillo, forse fin troppo; i membri della commissione ti davano una mano, se chiedevi un consiglio te lo davano (ok, ognuno diverso dall’altro il che ti metteva in crisi…chi aveva ragione? Ma almeno ci provavano), se chiedevi un bicchiere d’acqua, mamma mia, te lo portavano (devi sapere che non ci sono distributori, quindi se ti sei portata qualcosa, bene se no, niente). Devo essere sincera il primo anno fu un po’ anche un paradosso: ho visto cellulari sui banchi e gente che copiava dallo schermo. Ora dico, anche questo forse era troppo, ma il secondo anno (2010) è stato assurdo.”
“Intanto si è presentato questo ispettore “mandato direttamente dal ministro Alfano per vigilare sul Concorso”. Ecco, appunto. Non è un CONCORSO. E’ un esame di stato per avvocato ma da ignorante qual è, non conosce la differenza. Il secondo giorno si è presentato in compagnia di un membro importante dell’ordine forense, personaggio veramente ignobile, secondo me. Non una parola di sostegno, no, contro di noi a trattarci come criminali. Ci ha detto insieme all’ispettore che chi copiava commetteva reato (anche su questo vorrei aprire una parentesi: I REATI SONO SOLO QUELLI PREVISTI DAL CODICE PENALE. Non è un reato “copiare”, al massimo è un illecito amministrativo tant’è che tra i trenta/cinquanta espulsi dello scorso anno nessuno è stato perseguito).”
“L’ispettore e i suoi bravi giravano nelle classi, ci fermavano davanti ai bagni e nei corridoi e ci urlavano addosso. Ecco, nella mia esperienza personale questo tizio mi ha urlato in faccia “Che cos’hai? Caccia quello che hai! URLAVA, con dei modi!!!! “Io ti faccio perquisire” se non che con molta calma gli ho detto “Guardi che lei mi sta trattando come una criminale ma io nella mia vita non ho neanche mai preso una multa”. Un’umiliazione, uno stress, una tensione che ci-mi faceva stare fisicamente male. Io mi sono sentita malissimo. Non mi sono mossa dal banco. Qualcuno dirà, chi non aveva nulla da temere non doveva avere paura. Non è così. Per la prima volta l’ho capito. Era l’aria che si respirava, quel modo di fare, di urlare che faceva stare male. Ogni tanto qualcuno della commissione o qualche esaminando entrava in aula e diceva, fuori un altro! Hanno espulso una quantità di gente. E, mi risulta, anche qualcuno “sulla base del sospetto” il che ovviamente non si può fare (ma questi sono fortunati, se fanno ricorso, lo vincono necessariamente). Una ragazza al momento della consegna dell’ultimo compito si è abbassata per firmare e l’ispettore ha visto o ha creduto di vedere una sagoma nella tasca dei jeans e le ha urlato di cacciare il cellulare. La ragazza (sangue freddo) ha detto che erano sigarette, che lui non poteva metterle le mani addosso e che quindi se ne andava. L’ha trattenuta chiedendo a dei militari (mi pare finanzieri) di perquisirla ma si sono rifiutati. La perquisizione è possibile solo per armi e droga e su mandato di un giudice. Non può venire un tizio qualsiasi a dire, perquisitela (una donna poi!). Forse anche l’ispettore dovrebbe rifare l’esame di stato per avvocato. Ma questo non tutti lo sapevano o hanno avuto la lucidità di dirlo e sembra che nei bagni la polizia (femminile) abbia chiesto alle ragazze di levare gli stivali e alzarsi le maglie. Nemmeno questo possono fare. Perfino all’aeroporto per farti levare le scarpe TE LO CHIEDONO e non te lo intimano e ti danno dei calzini.”
“Alla fine, mia cara chi doveva copiare ha copiato comunque. Chi aveva i suoi santi in paradiso ha ricevuto il compito bello e fatto e amen. Come al solito la mano dura colpisce quelli che sono soli. Nel mio caso, il giorno del terrore è stato il secondo, compito di penale. Quando quello mi ha urlato addosso, a me veniva da piangere e non mi sono mossa più, non ho parlato più con nessuno (anche se lì è un vociferare continuo). Quel giorno sapevo di essermi giocata l’esame e il terzo giorno sono andata spavalda. Non avevo altro da perdere (e non sbagliavo). E come me ho avuto l’impressione che fossimo tutti più spavaldi, consapevoli. Metterceli contro, non ci pesava più. Non li avremmo più rivisti e molti sapevamo che ormai il dado era tratto (in negativo). Ho camminato spavalda nei corridoi e amen. L’ispettore sembrava quasi spaventato e, infatti, alla fine non è uscito se non dopo molte ore e scortato.”
“Ci hanno trattato come criminali e invece stavamo solo facendo un esame di stato farsa e tra i banchi a controllarci c’erano molte persone che mi chiamano “collega” in udienza, mi chiedono favori, non di rado “consigli” e cercano di trattare con me le loro cause (perse)!”.
Un esame all'italiana, scrive “Pensiero Precario”. Venerdì 20 giugno 2014 sono usciti i risultati della prova scritta dell’esame di stato di avvocato 2013/2014 che ha suscitato gioie ma soprattutto dolori, pianti, polemiche, rabbia, sconforto. E’ normale. Dopo 2 anni di praticantato (ora 18 mesi) - spesso e volentieri non pagato o sottopagato - il praticante si ritrova a dover superare un doppio esame (scritto e orale) che potrebbe (e sottolineo potrebbe) finalmente dargli la chance di una vita normale. Diventare avvocato al giorno d’oggi non vuol dire più molto. Non ha di certo il significato che poteva avere anche solo 20 anni fa. Per la maggior parte delle persone oggi diventare avvocato vuol dire avere uno stipendio senza dover soccombere alle leggi del mercato che vedono il praticante un “nessuno” senza alcuna tutela, forza lavoro in eccesso e pertanto non retribuibile. Per molti pertanto, diventare avvocato significa raggiungere una posizione socialmente riconosciuta, ottenere un minimo potere contrattuale che permette di strappare al proprio datore di lavoro il tanto agognato corrispettivo. Tuttavia, non è sulla condizione dei praticanti avvocati che voglio soffermarmi. Ne uscirebbe un discorso troppo lungo per quanto meritevole di attenzione. Il trattamento vergognoso a cui questi sono soggetti non è una novità, ma in un momento di crisi del genere la drammaticità di tale condizione viene ancora più in risalto senza che però se ne parli a sufficienza. Qualcosa finalmente è stato fatto. Ora, il nuovo codice deontologico prevede l’obbligo, dopo sei mesi, di retribuzione da parte del dominus nei confronti del collaboratore. Tuttavia si tratta di un provvedimento debole, una finta risposta alle reiterate lamentele di chi si sente umiliato dopo anni di studi e sacrifici. Un’apparenza di cambiamento che non comporterà alcun cambiamento. Parlavo quindi della speranza di diventare avvocato come possibile inizio di una vita normale. Normale nel senso di acquisire quel minimo di indipendenza economica che possa permetterti di chiedere un mutuo, di poter pagare un affitto e iniziare a costruire una famiglia, di poter affrontare le piccole difficoltà quotidiane senza il continuo ma fondamentale supporto dei propri genitori. Ebbene, la porta d’accesso a tale vita per chi sceglie la professione forense è, nella maggior parte dei casi, l’esame di stato. Un esame apparentemente come gli altri, ma paradossale nelle modalità di svolgimento. Solo a Milano quest’anno ci sono stati circa 3.250 candidati che hanno sostenuto le tre prove scritte all’interno del padiglione della vecchia fiera. Una schiera di aspiranti avvocati che si ritrovano, il giorno prima delle prove, in file interminabili con trolley alla mano, in attesa di entrare in questo enorme hangar che sarà il loro unico riparo per tre lunghi ed intensi giorni. Si entra e si aspettano ore prima che arrivi il proprio turno. Sembra di essere all’imbarco di un aeroporto: metal detector, perquisizione e via, ciascuno (bagaglio alla mano) parte per il proprio personale “viaggio” verso l’acquisizione del titolo. Dopo aver incatenato per bene il trolley (contenente i costosi codici commentati) al banco – ebbene sì, è necessario incatenarli perché in assenza del candidato c’è gente che si diletta a rubarne il contenuto – torni a casa, aspettando con la massima concentrazione ed un po’ di tensione la tre giorni intensiva che ti aspetta. Le voci che girano intorno a quest’esame tuttavia danno l’impressione che la preparazione non sia l’arma sufficiente per svolgere l’esame con successo. Da quanto si tramanda di praticante in praticante, sembra quasi che non esista modo per affrontare nel modo migliore tale prova se non il votarsi a Dio, alla Fortuna o a qualsivoglia entità astratta. Il perché di queste voci è subito svelato il primo giorno della prova. Dopo aver dettato le tracce d’esame e aver dato il via alle scritture, i commissari devono subito cominciare a preoccuparsi di arginare il caos che si crea all’interno dell’enorme stanza. La situazione non è facilmente descrivibile: candidati che passeggiano tra i banchi, modelli di atti e pareri che passano di mano in mano, commissari che tengono banco in mezzo a capannelli di esaminandi che penzolano dalle loro labbra in cerca di un indizio risolutivo, continui richiami all’ordine e alla continenza (ebbene sì, proprio quella considerate le finte code ai bagni). Se volessi paragonare tale situazione ad un’immagine, quell’immagine – con le dovute proporzioni – sarebbe il gran bazaar di Istanbul. Un enorme spazio dove all’interno di centinaia di viette – i corridoi creati tra un blocco di banchi ed un altro – si muovono centinaia di persone che passeggiano e chiacchierano amabilmente. Non c’è che dire, una fortuna per i candidati che possono contare anche sul supporto di migliaia di altre teste. L’unione fa la forza! Peccato che tutto ciò faccia somigliare l’esame scritto ad una farsa, ad una rappresentazione teatrale dell’assurdo più che ad un concorso pubblico. Ed è a quel punto che il pensiero torna ai mesi precedenti: mesi di studio, mesi di esercitazioni, mesi di corsi intensivi. Ritrovi carbonari durante i quali scrivere atti e pareri a profusione secondo schemi e formule predefinite elaborati da scuole iper-costose. Eh sì! C’è il sistema Just Legal Service, c’è il metodo Ius and Law, ci sono i modelli, i trucchetti, i segreti che ogni singolo corso vende ai propri iscritti in cambio di una somma che varia a seconda della validità del metodo insegnato e dei servizi offerti. Non si va mai comunque al di sotto dei 650 Euro e si arriva anche a 3.000 Euro per tre mesi (intensivi) di lezione. Ebbene, nella maggior parte dei casi si scopre subito che tutto quello che i corsi vendono a caro prezzo non è altro che un enorme specchietto per le allodole. Tornando alla tre giorni di prove scritte, dopo aver concluso i compiti ed averli minuziosamente imbustati e consegnati, l’esame diventa pian piano un ricordo annebbiato, che annega nel mare degl’impegni lavorativi e ogni tanto torna a galla grazie alle parole di un collega o un amico. In quel lasso di tempo – 6 mesi per l’esattezza – i candidati vivono in un limbo di incertezze, fra chi ottimisticamente pensa di averlo passato e chi fatalisticamente pensa che sia solo una questione di “fattore C”. Infatti non è forse quella dello svolgimento dell’esame la fase peggiore di tale procedura concorsuale. Ma è il momento della correzione degli scritti. Tralasciando le numerose storie (vere ma non dimostrabili se non con testimonianze di vecchi commissari) sui criteri di selezione officiosi (quali la calligrafia, o peggio ancora, un numero limite prestabilito di candidati ammissibili sulla base di una curva pseudo-gaussiana), è un dato di fatto che: i compiti che vengono “corretti” sono intonsi, senza alcun segno indicativo della parte errata o inopportuna, senza alcuna motivazione scritta del voto assegnato o anche solo dell’esito finale; da verbale risulta che spesso e volentieri i commissari non dedicano tempo sufficiente alla correzione del compito, facendo pensare ad una lettura superficiale (se lettura c’è stata) piuttosto che ad una attenta valutazione di un elaborato di non immediata comprensione. Ma com’è possibile? Perché un concorso pubblico in cui c’è in ballo il futuro professionale di migliaia di persone, per cui molte persone hanno speso molto in termini di tempo, denaro e fatica viene gestito in modo così approssimativo e superficiale? Quali sono gli interessi che spingono coloro che hanno il potere di cambiare lo status quo a non cambiare nulla? Perché fare ancora affidamento su un sistema di valutazione e selezione vetusto, senza criterio e non meritocratico? Apparentemente è un problema comune a tutti i concorsi pubblici tanto da diventare una prassi accettata. Ogni tanto si legge qualche articolo sul tema (relativamente al concorso di magistratura di quest’anno, si veda "Il Fatto Quotidiano"), ma poi inevitabilmente tutto finisce nel dimenticatoio. Il mio grido di protesta vuole essere quello di tutti quegli aspiranti avvocati che amano il loro lavoro, ma che vedono i loro sforzi frustrati da un sistema illogico che accoglie gli incompetenti e troppo spesso allontana dalla professione i meritevoli. Affinchè però il mio grido non sia solo di protesta e distruttivo, con questa lettera voglio anche proporre delle piccole misure (condivise dalla quasi unanimità della base praticante forense – e non solo) che possono portare ad un miglioramento della situazione attuale. Seguirà quindi un elenco dei principali problemi legati alla procedura d’esame di avvocato con le rispettive possibili soluzioni:
1) Il numero eccessivo di candidati
Come spesso si sente dire in giro: “Ci sono più avvocati a Roma che in tutta la Francia”. Effettivamente il numero di laureati in giurisprudenza è elevato. Non essendoci numero chiuso e venendo tale facoltà considerata come una delle più appetibili in termini di sbocchi lavorativi garantiti, molte persone scelgono questa strada. Il problema è che il sistema non è in grado di accogliere tutti questi laureati in giurisprudenza: ci sono i concorsi di notaio e di magistrato, ma non ogni anno e i posti sono pochi; ci sono le aziende ma in questo momento di crisi, anche le offerte provenienti dal privato sono in calo. Cominciare la pratica legale è l’unico modo per avere un posto di lavoro ed un salario certi. Ovviamente ciò crea delle forti distorsioni in tema di diritti del lavoratore: rapporti di lavoro non regolarizzati, paghe da miseria, orari di lavoro eccessivi, tutto questo perché la domanda è elevata e i giovani, pur di lavorare, sono disposti ad accettare tutto. La soluzione quindi è diminuire il numero della forza-lavoro a disposizione. Ciò permetterebbe di acquisire una maggiore forza contrattuale nei rapporti con il dominus, con sicure ripercussioni sulla qualità del lavoro (in termini di mansioni e retribuzione). I modi per contenere ed abbassare tale numero sono molti: 1) numero chiuso alla facoltà di giurisprudenza; 2) abolire la possibilità di andare fuori corso a meno che non si presenti all’università un regolare contratto di lavoro (che appunto certifichi impegni extrascolastici che giustifichino il ritardo negli studi); 3) obbligo di retribuzione del praticante quale condizione necessaria per l’iscrizione e la permanenza nell’Albo (da provare attraverso la presentazione mensile all’Ordine del cedolino/fattura); 4) la previsione di un pre-test a crocette sul diritto civile, penale e amministrativo prima delle tre prove scritte al fine di effettuare una prima scrematura oggettiva basata sulla cultura giuridica generale.
2) Irregolarità nel corso delle prove
Un numero più basso di laureati e praticanti porta ad avere di conseguenza un numero più basso di candidati. Ciò permetterebbe di gestire molto meglio la situazione caotica sopra descritta. Tolleranza zero per chiunque parli, copi, si alzi senza un valido motivo; con i commissari (e i delegati) non si deve parlare se non per questioni di “cancelleria” (fogli aggiuntivi, modalità di correzione di errori ecc…); fissare orari precisi per l’inizio e la fine del compito (in altre parole, dopo le 7 ore si smette di scrivere).
3) Tempi d’attesa biblici
Il numero inferiore di candidati porterebbe un altro vantaggio: ridurrebbe drasticamente il periodo intercorrente tra lo svolgimento delle prove e l’uscita dei risultati. Definire incivile un’attesa di 6 mesi è dir poco.
4) Criteri di correzione poco chiari
Infine ritengo un diritto della persona esaminata l’essere valutato sulla base di criteri certi, oggettivi e ben definiti. E soprattutto, è un diritto del candidato sapere quali siano stati gli errori commessi nello svolgimento delle prove (attraverso le dovute segnalazioni) e, se respinto, la motivazione sulla base della quale i commissari hanno maturato la decisione.
Queste sono solamente alcune delle idee proposte dall'ambiente degli aspiranti avvocati per cambiare questa "porcata" di procedura selettiva. Tante altre sono presenti in blog, forum, documenti più o meno ufficiali, ma rimangono rigorosamente inascoltate. Spero che questo "grido di rabbia" possa scuotere un po' le coscienze e far sì che, anche per la categoria dimenticata dei praticanti avvocati, qualcosa possa cambiare.
Concorso magistratura 2014, “Irregolarità”. Piovono denunce, rischio annullamento. Torna a far discutere il concorsone che aveva rischiato di slittare per il ricorso di un candidato invalido. Dopo le prove alla Fiera di Roma fioccano segnalazioni su codici vietati, tracce già disponibili, commissari compiacenti. Tutto da verificare, ma alcuni candidati varcano la soglia della Procura e il Codacons chiede i verbali. E il Ministero, imbarazzato, per ora tace, scrive Thomas Mackinson su "Il Fatto Quotidiano" del 4 luglio 2014. Si presentano in 7mila, affamatissimi di un posto tra i 365 in palio. Ma qualcosa va storto. Segnalazione dopo segnalazione, prende piede il sospetto che anche gli aspiranti magistrati della Repubblica commettano illeciti d’ogni tipo pur di diventarlo: smartphone imboscati con cui farsi dettare le risposte, tracce diffuse in anteprima da alcuni rispetto alla dettatura per tutti,codici commentati introdotti abusivamente fino al classico compito collettivo. Peggio, i magistrati chiamati a vigilare sulla correttezza della prova, secondo le testimonianze, avrebbero fatto spallucce delle tante segnalazioni rese dai partecipanti, omettendo di prendere gli opportuni provvedimenti, e perfino di verbalizzarle. Insomma, un putiferio sul concorso dei magistrati. E proprio mentre si torna a parlare di riforma della giustizia. Il concorso incriminato è quello per ordinari della Magistratura che aveva già fatto notizia per il rischio che saltasse tutto, dopo il ricorso di un ragazzo disabile impossibilitato a partecipare alle prove per tre giorni consecutivi (poi scongiurato da una sentenza lampo del Consiglio di Stato). Ma evidentemente il concorso è destinato a fare ancora notizia e forse a saltare davvero, stavolta per annullamento. Bandito con decreto il 30 ottobre 2013 è stato preso d’assalto con 20mila domande. Le prove scritte si sono tenute per tre giorni, 25, 26 e 27 giugno 2014, alla Fiera di Roma. L’ultima, quella di venerdì, sarebbe stata scandita da una serie di irregolarità tali da spingere alcuni candidati a varcare la soglia della Procura di Roma, il Codacons a chiedere i verbali della commissione, molti altri “aspiranti” a organizzare via web una protesta che potrebbe portare in piazza un sacco di gente, il 7 luglio. Sullo sfondo il Ministero che, contattato, non ha saputo fornire alcuna conferma o smentita circa i fatti. Restano una collezione di testimonianze che fioccano da ogni parte e alimentano la polemica, soprattutto sul web. Ad esempio sul sito www.miniterno.it che è il ricettacolo dei commenti pre e post e degli affanni dei concorsisti dilagano ricostruzioni e testimonianze che si spingono alla “parente del commissario con la traccia già scritta in bagno”. Ma c’è anche chi sta raccogliendo testimonianze circostanziate e non anonime, che saranno utili a chi vorrà vederci chiaro. Un giornalista del Corriere Università, Raffaele Nappi, le sta collezionando una ad una visto che di prove documentali (tracce audio-video) anche le vittime dei brogli non ne hanno potute produrre per mancanza di quei supporti che, invece, sembra impazzassero tra i colleghi meno onesti. I problemi sembra abbiano riguardato i padiglioni 3 e 4. “Più di uno aveva codici commentati” e con tanto di timbro del commissario, racconta ad esempio Fabrizio Ruggeri. Che aggiunge: “I candidati con i codici commentati sono stati espulsi. Pertanto, se, a fronte di una irregolarità così macroscopica sono stati espulsi i candidati, è evidente che la Commissione giudicatrice ha ripristinato la regolarità del concorso”. “Ho visto alcuni candidati fare il compito a gruppetti, e la commissione invece di intervenire ha solo chiesto di fare meno rumore”, racconta Giovanni R. Una candidata racconta che, a fronte di nessun controllo su alcuni, ad altri veniva effettuata una perquisizione corporale da criminali di strada, parti intime comprese. Altre testimonianze ancora potranno arrivare dagli avvocati dello studio Santi Delia e Michele Bonetti a loro volta hanno ricevuto diverse segnalazioni e in seguito il mandato da parte di un gruppo di candidati per presentare istanza di accesso al Ministero della Giustizia per chiedere copia dei verbali di concorso. Sullo stesso fronte si muove poi il Codacons che circostanzia la sua azione al caso, l’unico per ora che sembra trovare riscontri netti, di tre candidati in possesso di codici commentati. “Qualora risultasse accertato quanto denunciato – spiega l’associazione in una nota – si determinerebbero serie e gravi responsabilità sia per i 3 candidati autori dell’illecito sia per i membri della Commissione, qualora non abbiano adottato le misure previste dalla legge nei confronti dei tre candidati scorretti”. Insieme a tutto il resto, è un’altra vicenda da chiarire.
Potenza, esame per avvocati. Sequestrati anche i compiti. Continua l’indagine: indagati cinque avvocati e quattro praticanti, scrive “Il Quotidiano della Basilicata”, il 4 settembre 2014. Utilizzavano smartphone e indirizzi email creati per ricevere le tracce dell’esame di Stato per l’abilitazione alla professione di avvocato direttamente dagli studi legali in cui avevano svolto il praticantato: alcuni compiti sono stati sequestrati ieri a Potenza, dai Carabinieri dalla sezione di Polizia giudiziaria del Tribunale, nell’ambito di un’inchiesta coordinata dalla Procura del capoluogo lucano, con nove persone indagate, tra legali e candidati. La vicenda si riferisce alle prove scritte dell’esame di Stato che si sono svolte lo scorso dicembre: la commissione di Trieste, chiamata a valutare i testi dei partecipanti, aveva già annullato una sessantina di compiti. Ieri i Carabinieri - l’inchiesta è coordinata dal pm Daniela Pannone - hanno effettuato il sequestro probatorio di altri compiti, non ancora annullati. Gli investigatori hanno indagato a tutto campo, arrivando a collegare il traffico telefonico e internet di pc e cellulari, per ricostruire nelle ore della prova scritta il «viaggio» delle soluzioni fornite ai praticanti. Le caselle email sono stati aperte «ad hoc» per inviare e ricevere i testi, utilizzando anche programmi per nascondere gli indirizzi «Ip» (Internet protocol address, le «targhe» dei dispositivi utilizzati) e server statunitensi. Gli aspiranti praticanti hanno poi ricevuto la posta elettronica in sede d’esame, forse «passando» il testo anche ad altri candidati. Dei nove indagati, cinque sono gli avvocati che avrebbero spedito le soluzioni, e quattro i praticanti che le hanno utilizzate. Alcuni casi sarebbero stati scoperti anche a Catanzaro. L’ipotesi di reato riguarda la violazione della legge del 2012 sull’ordinamento forense, e in particolare l’articolo 46.
Esame per avvocati: «Le risposte copiate da internet». Bufera sulle prove sostenute a Potenza nel 2013. Sarebbero una trentina gli elaborati definiti sospetti dalla Procura, scrive ancora Leo Amato su “Il Quotidiano della Basilicata”, del 26 agosto 2014. Per la commissione d’esame avrebbero copiato da un sito internet per questo hanno annullato le loro prove inviando una formale denuncia alla Procura della Repubblica. Ma per il Tar, almeno a prima vista, i brani sono identici a quelli riportati sui codici commentati, che i candidati possono consultare liberamente. E’ di nuovo bufera a Potenza sul concorso per avvocati quattro anni dopo lo “scandalo” per gli avvisi di garanzia inviati a 110 giovani giureconsulti, seguito dall’archiviazione delle accuse. Tutto sarebbe nato dalla denuncia dei commissari dell’Ordine degli avvocati di Trieste, incaricati di correggere le prove degli aspiranti lucani. Proprio come allora avevano fatto i colleghi di di Trento. Ma questa volta, oltre alle evidenti somiglianze tra gli elaborati, sarebbero state scoperte anche le fonti da cui sono derivate. Si tratta di alcuni siti internet che avrebbero pubblicato nel giro di qualche minuto le soluzioni alle traccia del parere di diritto civile estratta dalle buste aperte in contemporanea in tutta Italia il 10 dicembre dell’anno scorso. Chiaro quindi che qualcuno dall’interno dev’essere riuscito a comunicarla ai suoi complici all’esterno, che hanno effettuato qualche ricerca e hanno elaborato una risposta adeguata. Poi però hanno deciso di di permettere anche ad altri di approfittarne, purché fossero riusciti a trafugare uno smartphone tra i banchi. Sarà stato per depistare, per incrementare gli accessi sulle loro pagine web, o per puro spirito di ribellione. Ma a distanza di qualche mese quando i commissari si sono accorti della perfetta corrispondenza tra le soluzioni proposte e quelle finite in alcuni degli elaborati non l’hanno presa bene. Per questo a maggio ne sono stati annullati una trentina, escludendo i candidati che intanto avevano sostenuto anche la seconda e la terza prova: la redazione di un parere di diritto penale più quella di un atto giudiziario. Infine hanno inviato una denuncia alla Procura della Repubblica di Potenza che da allora ha avviato un’indagine per accertare l’ora in cui risultano inserite in rete le soluzioni alle tracce e il loro autore. Nel frattempo tra i candidati “esclusi” c’è chi come Giusi Caputo non s’è data per vinta, per questo ha proposto ricorso al Tar chiedendo di annullare il verbale della commissione. Il suo per il momento sembra essere un caso isolato, fatto sta che i giudici di via Ridola le hanno dato ragione bloccando in via cautelare la sua esclusione. Secondo il presidente del Tar, Michele Perrelli: «l’annullamento della prova di diritto civile, cui è conseguito in automatico (e quindi senza neppure la mera lettura) l’annullamento delle altre due prove scritte, non appare sorretto da sufficientemente solida motivazione specie in ordine alla individuazione dei siti in rete che hanno pubblicato identica soluzione rispetto a quella “copiata”». «Gli ampi stralci evidenziati dalla commissione - prosegue Perrelli - corrispondono a quanto riportato dai Codici commentati, legalmente ammessi alla consultazione in sede di esame da parte dei candidati, in relazione a pronunzie giurisprudenziali di giudici, sia di merito che di legittimità, che hanno delibato fattispecie analoghe a quella ipotizzata nella traccia offerta alla elaborazione degli aspiranti avvocati». Motivo per cui è stata ordinata «la valutazione delle tre prove scritte consegnate dalla candidata da parte di commissione con diversa composizione (eventualmente anche presso Corte di Appello diversa da quella di Trieste) che dovrà svolgere la correzione adottando accorgimenti a garanzia dell’anonimato». In caso di esito positivo potrà quindi sostenere l’orale con gli altri 121 giovani procuratori che hanno superato gli scritti. S’intende in attesa dell’udienza del 10 settembre in cui verrà discusso il merito della vicenda, e dell’esito delle indagini che sono state affidate ai militari dell’aliquota di polizia giudiziaria dei carabinieri di Potenza.
Copiano gli esami per avvocato, annullati 120 compiti, scrive “La Gazzetta del Sud" del 01/06/2014. Nulle le prove scritte degli aspiranti avvocati del distretto di Corte d’Appello: contenevano passaggi identici. La commissione ammette agli orali soltanto il 40% degli oltre 1.600 candidati. La “sorpresa” all’apertura delle buste contenenti i compiti degli aspiranti avvocati del distretto di Catanzaro appena corretti a Firenze: ci sono passaggi identici nella bellezza di 120 prove scritte, molto probabilmente copiate da Internet. E pensare che non hanno avuto neanche la “furbizia” di modificare le prime due o tre righe. Naturalmente i 120 autori dei compiti risultati copiati sono stati tutti esclusi dall’esame; ritenteranno, nella speranza che serva loro da lezione. Resta però il dato di una mezza ecatombe: circa l’8% degli aspiranti avvocati dell’ultima sessione, a Catanzaro, ha copiato è stato punito dalla commissione. Le prove orali, secondo quanto è stato stabilito dal presidente della commissione, inizieranno il prossimo 4 luglio. E il sorteggio ha decretato che si comincerà con la lettera “L”. Accede agli orali, complessivamente, il 40% circa degli oltre 1.600 candidati. La percentuale di stangati si attesta dunque sulla media delle ultime stagioni.
Avvocati, a Bari è record di bocciati nell’esame finito sotto inchiesta: passa uno su tre. Ammessi all'orale soltanto in 573 su 1.600. L'elenco sarà acquisito dal pm per capire se tra i candidati ci siano quelli accusati di aver alimentato la truffa scoperta dai carabinieri, scrive Gabriella De Matteis su “La Repubblica” del 16 giugno 2015. I candidati all’esame per l’abilitazione alla professione di avvocato erano più di 1.600, ma soltanto 573 hanno superato la prova scritta. I risultati del primo step della selezione, al centro di uno scandalo scoperto dai carabinieri, sono stati pubblicati nei giorni scorsi. Un elenco atteso non soltanto dagli aspiranti avvocati, ma anche e soprattutto dalla Procura. Che ha deciso di acquisire la lista di coloro che hanno superato la prova scritta. Quest’anno l’esame per l’abilitazione alla professione forense è stato caratterizzato dalle polemiche: i carabinieri del reparto operativo, nel terzo giorno delle prove scritte, svoltesi nel dicembre scorso alla Fiera del Levante, sono intervenuti, facendo luce su un tentativo di truccare la selezione. Gli elaborati dei candidati sono stati corretti dalla commissione istituita presso la Corte d’appello di Firenze. Il risultato è di fatto in linea con quello degli scorsi anni. Anche quest’anno in pochi, circa il 35 per cento, sono riusciti a superare con successo la prima parte della selezione. L’elenco, però, diventerà materia d’indagine perchè il sostituto procuratore Luciana Silvestris vuole capire se tra i candidati, risultati idonei per affrontare la seconda prova, quella orale, ci siano anche quelli sospettati di aver alimentato il “sistema” ideato, secondo l’accusa, dall’ex funzionaria amministrativa dell’Università di Bari (è recentemente andata in pensione) Tina Laquale. I carabinieri del reparto operativo hanno sorpreso la donna mentre consegnava al cancelliere Giacomo Santamaria, segretario di una delle commissioni d’esame, gli elaborati destinati ad alcuni candidati. Almeno cinque quelli iscritti nel registro degli indagati, sia pure con posizioni diverse. I primi tre sono finiti nell’inchiesta all’indomani dell’intervento dei carabinieri. C’erano i loro nomi sulla busta gialla consegnata da Laquale a Santamaria, che aveva il compito di introdurli nelle aule. Uno dei tre aspiranti avvocati, secondo la ricostruzione che è stata effettuata dai carabinieri, avrebbe dovuto passarli ad altri candidati. Scorrendo l’elenco di coloro che hanno superato la prova scritta, si scopre che soltanto uno dei tre è stato ammesso alla seconda fase della selezione. E sono stati bocciati anche gli aspiranti avvocati, madre e figlia, praticanti in uno noto studio legale della città, iscritti nel registro degli indagati in un secondo momento e con un’accusa ben più grave: quella di aver pagato per ricevere i compiti. Nel decreto di perquisizione notificato nel marzo scorso a Tina Laquale, il pubblico ministero Silvestris non usa giri di parole: l’ex funzionaria è accusata di «ricezione illecita, nella sua qualità di pubblico ufficiale, di denaro corrisposto in vista del compimento di atti contrari ai doveri di ufficio consistiti nella predisposizione e messa a disposizione, per mezzo di altri soggetti, degli elaborati riferiti alle prove scritte dell’esame di abilitazione alla professione di avvocato». Ma il sospetto della Procura è che madre e figlia non siano state le uniche a pagare: sono «numerosi i candidati», secondo il pm, che avrebbero beneficiato del “sistema”. Da qui la necessità di acquisire l’elenco degli ammessi alla prova orale. Nel fascicolo sono indagati anche due docenti dell’Ateneo barese, componenti della commissione d’esame del concorso. Il presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Bari, Giovanni Stefanì, il 22 giugno 2015 su Rai tg3 Regione ha detto: “l’esame è un terno al lotto”.
Test per avvocati, trovati i soldi l’accusa: ora è di corruzione. Blitz a Giurisprudenza. Sequestrati i computer della dirigente Laquale, sotto inchiesta. Indagate madre e figlia: pagarono per ottenere le tracce dell’esame, scrive Francesca Russi su “La Repubblica” del 18 marzo 2015. Blitz dei carabinieri ieri mattina all'Università di Bari. I militari del nucleo investigativo si sono presentati negli uffici amministrativi di Giurisprudenza con un decreto di perquisizione firmato dalla pm della procura di Bari Luciana Silvestris. Al centro dell'indagine, che riguarda il tentativo di truccare le prove per l'esame da avvocato, c'è, infatti, il nome della dirigente amministrativa Tina Laquale in servizio a Giurisprudenza. Alla dipendente universitaria, 62 anni, accusata di aver passato gli elaborati delle prove scritte per la professione di avvocato a diversi candidati, sono contestati oltre alla violazione della legge 475 del 1925 che punisce chi presenta come proprio un lavoro altrui, anche i reati di corruzione in concorso e abuso d'ufficio. Ed è proprio questa la novità nelle indagini. Spunta il reato di corruzione. L'ipotesi, dunque, è che i candidati, per ottenere copia degli elaborati d'esame, abbiano pagato. Alla base dunque ci sarebbe stato uno scambio di soldi. Un elemento che finora non era ancora emerso e su cui si concentrano adesso le attenzioni degli investigatori. I carabinieri che si sono presentati a sorpresa ieri mattina negli uffici amministrativi di Giurisprudenza hanno sequestrato il computer in uso alla 62enne e hanno ascoltato anche altri dipendenti universitari in servizio in quello stesso ufficio e che potevano avere accesso a quel pc. I dati presenti in memoria nel computer verranno passati ora al setaccio dai periti informatici a caccia di prove che possano documentare quel tentativo di truccare il concorso di dicembre scorso a Bari. Anche eventuali file cancellati da dicembre scorso, quando i carabinieri intervennero nel corso dell'esame sequestrando copie degli elaborati pronte a essere distribuite tra i banchi ad alcuni candidati, a oggi potrebbero essere recuperati. Le perquisizioni sono state estese anche in casa della Laquale e nell'abitazione di altre due persone, Carmela Di Cosola e Rossella Trabace, rispettivamente mamma e figlia, iscritte nel registro degli indagati perché avrebbero, secondo la procura, consegnato denaro per poter passare l'esame. L'accusa nei confronti della Laquale, si legge nel decreto di perquisizione a firma del sostituto procuratore Silvestris, è di "ricezione illecita, nella sua qualità di pubblico ufficiale, di denaro corrisposto da Di Cosola in vista del compimento di atti contrari ai doveri di ufficio consistiti nella predisposizione e messa a disposizione, per mezzo di altri soggetti, in favore di Trabace degli elaborati riferiti alle prove scritte dell'esame di abilitazione alla professione di avvocato ". E anche, prosegue l'accusa, "in favore di numerosi candidati procurando loro il relativo vantaggio patrimoniale ingiusto ". Nei confronti di madre e figlia, 60 e 27 anni, invece, pesano le accuse di "illecita dazione di denaro materialmente corrisposto da Di Cosola Carmela a Laquale Nunzia, pubblico ufficiale che accettava la dazione in vista del compimento di atti contrari ai doveri di ufficio" (l'articolo 321 del codice penale che prevede le pene per il corruttore) e di violazione della legge 475 in particolare la "presentazione come propri degli elaborati da altri procurati". Bisognerà attendere ora le consulenze informatiche per capire se tra il materiale sequestrato ci siano elementi utili per l'inchiesta. Secondo quanto emerso finora dalle indagini dei carabinieri, il sistema si basava sulla presenza, all'interno del padiglione della Fiera del Levante in cui era in corso l'esame di avvocato, di un cancelliere della Corte d'appello, Giacomo Santamaria, segretario di una commissione, che avrebbe avuto il compito di fare arrivare ad alcuni ragazzi i compiti redatti all'esterno da tre professionisti, che potevano contare sul dirigente amministrativo del dipartimento di Giurisprudenza di Bari, Tina Laquale. Sarebbe stata lei, secondo i carabinieri, a portare dentro gli elaborati, accompagnata in Fiera da un autista della stessa Università di Bari. Sarebbero stati sei i giovani aspiranti avvocati che avrebbero dovuto beneficiare di quell'aiuto. Per averlo, è la nuova ipotesi contenuta nell'avviso di garanzia recapitato ieri alla Laquale, avrebbero pagato una somma in denaro. L'inchiesta, però, è ancora agli inizi e potrebbe ulteriormente allargarsi.
«L’esame da avvocato resta una farsa, un vero e proprio colabrodo». È la posizione del presidente dell’Ordine degli Avvocati di Bari, Emmanuele Virgintino, «È un esame che non assegna il giusto merito ai candidati che vogliono questa professione. Con o senza codici commentati cambia poco, è tutta una manfrina. Una storia conosciuta, tutti raccomandano tutti. Per non parlare di quello che è successo a dicembre 2014, con gente che si faceva passare le tracce scritte dall’esterno».
Ordini professionali, se l'esame di Stato diventa una beffa. Difformità di valutazione, barriere all'ingresso e scandali clamorosi, come quello di Catanzaro con i duemila compiti-fotocopia. Nei "Veri intoccabili" (Chiarelettere) Franco Stefanoni racconta le "lobby del privilegio". Leggine un estratto di Franco Stefanoni su "Sky tg 24". Facilissimo, ordinario, capestro. L’accesso agli ordini non brilla per omogeneità. In base ai dati forniti a fine 2009 dal ministero dell’Università, nel corso degli anni Duemila la probabilità di ottenere l’abilitazione a un ordine o a un collegio si è ridotta in media del 10 per cento: solo il 55 per cento dell’intero popolo dei candidati raggiunge il traguardo dell’albo. A fronte di un afflusso di aspiranti professionisti che cresce di anno in anno, calano le probabilità di farcela, nonostante l’incremento generale degli iscritti: tra il 1997 e il 2010 il loro numero complessivo da 1,5 a oltre 2 milioni. Ma l’accesso all’albo segue criteri differenti e all’interno delle varie categorie si trova di tutto. Per veterinari e farmacisti l’esame di Stato per immatricolarsi all’ordine è una pura formalità: a livello nazionale passa il 98 per cento dei candidati. Non è molto diverso per odontoiatri (96 per cento), biologi e medici (95 per cento). Per altre categorie, invece, le prove scritte e orali possono diventare una batosta. Tra i consulenti del lavoro le supera appena il 31 per cento, tra gli avvocati il 24 per cento, tra i notai addirittura un misero 7 per cento. Esclusi i casi in cui gli esami si svolgono a Roma a livello nazionale, come per giornalisti, biologi o notai, in generale le prove si tengono a livello locale, con accorpamento delle sedi nei luoghi in cui il numero di candidati è ridotto. Per categorie come consulenti del lavoro, psicologi, geologi, assistenti sociali, chimici e tecnologi alimentari gli esami sono gestiti dai consigli regionali in sinergia con le università. In tutti gli altri casi ci pensano invece gli ordini provinciali. Sono i consigli dislocati sul territorio che contribuiscono a preparare e organizzare le sessioni scritte e orali, e che indicano la composizione delle commissioni d’esame, in genere condivise con membri scelti dai ministeri competenti: Università, Lavoro, Giustizia. All’interno delle commissioni sono designati professionisti, accademici, magistrati, esperti della materia, che periodicamente sono chiamati a valutare la preparazione di futuri ingegneri, avvocati o architetti. Nei casi in cui è richiesto, i candidati devono certificare lo svolgimento di un periodo di tirocinio da uno a due anni in uno studio professionale o in una struttura autorizzata. Il più delle volte il tirocinio è remunerato al minimo o per nulla, con ricadute professionali e familiari notevoli per chi rimane troppo a lungo in attesa di ottenere l’accesso. Talvolta, come accade per notai e avvocati, l’aiuto per preparare gli esami è fornito da apposite organizzazioni che fanno capo agli ordini stessi e alle università. Gli avvocati, per esempio, possono scegliere tra 77 scuole, con qualità di insegnamento e tariffe molto differenti tra loro. Non sono le uniche spese. Se a livello locale il candidato non deve sopportare costi di vitto e alloggio, non è così quando deve spostarsi a Roma per sostenere gli esami. Secondo l’Antitrust la scarsa uniformità della selezione fa sorgere il sospetto che alcuni ordini stabiliscano a tavolino un’implicita barriera all’entrata. L’accusa è che i consigli, oltre a esaminare i candidati sotto il profilo tecnico, agiscano sotto la spinta di logiche corporative. Ma riforme parlamentari ad hoc su singole categorie e moniti del garante sono serviti a poco. D’altronde, il potere di un consiglio locale si esprime anche nella capacità di aprire o chiudere il rubinetto ai nuovi colleghi. A ciò contribuiscono fattori strutturali: per gli aspiranti medici esiste già il numero chiuso al momento dell’iscrizione all’università. Oppure, come avviene per i notai, c’è un numero fisso di posti stabilito in base a parametri economici e territoriali. Altrimenti la prassi può essere influenzata da logiche localistiche: in una zona dove il numero di iscritti all’albo è ritenuto eccessivo e il lavoro non basta per tutti può scattare la stretta, che poi potrà essere premiata in termini di voto al rinnovo degli organi dell’ordine. Viceversa, in zone dove predominano le logiche clientelari e di scambio elettorale può essere più conveniente abbassare la guardia sull’accesso all’albo e imbarcare iscritti, che troveranno il modo di sdebitarsi al momento del voto. Le differenze di valutazione tra una città e l’altra balzano all’occhio. Per esempio, a fine anni Duemila gli aspiranti architetti sono promossi per il 94 per cento a Napoli e l’86 per cento a Palermo, ma solo per il 34 per cento a Torino e il 25 per cento a Trieste. A Palermo supera l’esame appena il 14 per cento dei candidati dottori commercialisti, a Udine il 7 per cento, mentre a Torino passa il 90 per cento. Sono tuttavia gli avvocati a vantare il primato della minore omogeneità. A fine anni Duemila gli idonei risultano il 16 per cento a Salerno, il 21 per cento a Milano, il 22 per cento a Firenze e Trento, il 27 per cento a Torino. In altre sedi d’esame la situazione si ribalta: 50 per cento a Bologna, 53 per cento a Catanzaro, 65 per cento a Palermo e Lecce. Tale disomogeneità sussiste malgrado una riforma del 2003 varata dal leghista Roberto Castelli, ministro alla Giustizia, che ha ridotto la variabilità dell’esito delle prove forensi. Fino ad allora, infatti, gli scarti tra una sede e l’altra erano ancora più marcati. Con le nuove regole cambia la formula: nelle commissioni non sono più presenti membri dei consigli locali ma liberi avvocati del foro, e a chi svolge l’incarico di commissario è vietato di candidarsi alle elezioni dell’ordine immediatamente successive agli esami. Questo per annullare il pericolo di scambi di interessi e voti tra consiglieri e candidati. La riforma Castelli ha introdotto un’altra novità: gli elaborati di ogni sede sono corretti dai consigli di un’altra sede distrettuale abbinata con sorteggio. Vagonate di scritti sono spediti a ordini lontani centinaia di chilometri. Motivo? Contenere il fenomeno del cosiddetto turismo forense: aspiranti avvocati che si spostano da una città all’altra, con la compiacenza di colleghi che attestano tirocini di facciata, nella speranza di affrontare un esame più facile. Così, dal 2003, si spariglia: gli scritti di Milano sono corretti a Roma e viceversa. Siccome le prove orali restano di competenza della sede originaria, non è infrequente che si cerchi di compensare il tasso di ammessi e respinti: se dagli elaborati di Milano, corretti a Roma, risultano troppi promossi, agli orali Milano ne boccerà di più. I candidati che non ce la fanno possono tentare di diventare avvocati all’estero e poi farsi riconoscere in Italia: la via preferita è quella spagnola, ma i corsi formativi sono costosi e pochi la percorrono, anche perché c’è il rischio di restare marchiati dallo stigma del «furbo». Ancora nel 2009 è Catanzaro una delle città più generose nel garantire l’accesso all’albo. Un primato che in passato, quando ogni ordine locale correggeva da sé i propri esami con commissioni composte anche da esponenti del consiglio forense del luogo, è stato ancora più netto e ha dato origine a un clamoroso scandalo.
Lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Lo verifica la Guardia di finanza, dopo la soffiata di alcuni esclusi, su mandato della Procura della Repubblica di Catanzaro. Si apre un’indagine resa pubblica nell’estate 2000 da Gian Antonio Stella sul «Corriere della Sera», in cui si denunciano compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente » in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo». Giuseppe Iannello, presidente dell’ordine forense di Catanzaro, smentisce tutto. Iannello non è uno qualunque ma un notabile dell’ente di categoria. È una vita che siede nel consiglio forense di Catanzaro, del quale per decenni rimane incontrastato presidente (lo sarà fino al 2012), spesso partecipando direttamente alle commissioni d’esame. Molto conosciuto in tribunale, consulente della Regione Calabria e storico socio del Lions club di Catanzaro, Iannello, che ha uno studio anche a Roma, leva la voce a difesa della procedura di accesso alla professione. Ma la candidata continua: «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio». L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Il clima è pesante e il consiglio dell’ordine calabrese protesta contro la «ferocia demolitrice della stampa» e la volontà di «aggredire tutta la città di Catanzaro». Lo scandalo dei 2295 compiti-fotocopia alza il velo su una prassi che molti conoscono. La sede d’esame della città calabrese è nota per l’altissimo numero di partecipanti e promossi: oltre il 90 per cento. Una marea che sbilancia l’intero numero di accessi nazionali. Non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e I veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito.
Franco Stefanoni è giornalista de “il Mondo”. Da anni si occupa di liberi professionisti e ordini professionali, raccontandone fatti e misfatti. È autore di Finanza in crac (Editori Riuniti, 2004), Il codice del potere (2007), Il finanziere di Dio. Il caso Roveraro (2008),Mafia a Milano (con Mario Portanova, Giampiero Rossi, nuova edizione 2011) tutti pubblicati da Melampo.
Luigi De Magistris è il magistrato divenuto tale con il concorso del 1992 ritenuto nullo? Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.
Federico Sergi è lo stesso di cui se ne sono occupate le cronache? Giovane magistrato si droga in servizio nel tribunale di Palmi, sospeso un anno, scrive "Calabria web oggi", Martedì 16 Giugno 2015. Si è concluso con la sanzione della sospensione per un anno, con collocamento fuori ruolo organico della magistratura, il processo disciplinare ad un magistrato finito davanti al tribunale delle toghe per aver assunto droga prima del servizio. Una delle sanzioni più gravi, comminata però come "chance" di recupero, considerato che il giovane magistrato, Federico Sergi, è stato riconosciuto responsabile delle pesanti accuse che gli venivano rivolte e per le quali la procura generale della Cassazione aveva chiesto la sanzione ben più grave delle rimozione. All'epoca dei fatti in servizio al tribunale di Palmi (Rc) e sospeso all'esito di un altro procedimento disciplinare per un fatto analogo, Sergi era accusato di "aver violato l'obbligo di esercitare le proprie funzioni con correttezza ed equilibrio", poiché nel 2012 dopo aver assunto cocaina e anfetamine aveva avuto una crisi ed era stato trovato dai colleghi nel bagno del palazzo di giustizia "riverso a terra in preda a convulsioni ed in evidente stato confusionale" al punto che, si legge nel capo d'incolpazione, "continuava a dimenarsi e a farneticare", facendo anche resistenza al medico chiamato per soccorrerlo. Altra accusa rivoltagli riguarda le ripetute assenze che avrebbero compromesso il "regolare svolgimento del servizio". Il sostituto pg di Cassazione Renato Finocchi Ghersi, nel sostenere l'accusa, ha sottolineato la necessità di valutare il caso a prescindere dal quadro medico del magistrato, che si è poi disintossicato, vista la "rilevante recidività" e l'"esclation della gravità di comportamenti che mettono a rischio la funzione giudiziaria". Sergi, infatti, oltre alla sospensione per due anni per essere stato trovato ubriaco alla guida, era stato sottoposto negli anni precedenti anche ad altri procedimenti disciplinari, uno dei quali finito con la sanzione dell'ammonimento. Il pg ha quindi concluso chiedendo di valutare il più severo dei provvedimenti, la rimozione. Una sanzione più lieve è stata chiesta dal difensore, Franco Morozzo della Rocca, ex avvocato generale dello Stato in Cassazione, premettendo che Sergi ha ammesso il fatto contestato, ma chiedendo di inquadrare le accuse in maniera meno grave: l'episodio della crisi in tribunale, ha sostenuto, "ha segnato una cesura, l'ha messo di fronte alle proprie responsabilità, era affetto da depressione e si è curato". Circostanza ribadita in una deposizione spontanea dalla stesso Sergi, che ha spiegato i fatti legandoli ai problemi di salute e familiari. Spiegazioni comprese dal collegio che infatti ha emesso una sanzione meno grave delle richieste.
Ed ancora. Magistrato ubriaco minaccia carabinieri: sospeso per due anni (senza stipendio), scrive “L’Unione Sarda” Mercoledì 23 Ottobre 2013. E' stato fermato in automobile da una pattuglia dei carabinieri, completamente ubriaco. E, alla richiesta di esibire i documenti, è sceso dalla macchina e ha iniziato a dare in escandescenze, prendendo a calci e pugni i due militari e danneggiando anche la loro volante. Non solo. Come se non bastasse se l'è presa anche con un operatore del 118 che, visto il suo stato alterato, voleva solamente accompagnarlo in ospedale per un controllo. Protagonista in negativo della vicenda, non l'ultimo dei balordi. Bensì un magistrato. Si tratta di Federico Sergi, ex pubblico ministero della Procura di Catanzaro. Il processo penale nei suoi confronti (resistenza a pubblico ufficiale) si era risolto con un'assoluzione. Quello disciplinare, invece, è terminato con una sanzione alquanto pesante. La sospensione per due anni dal servizio, durante i quali non percepirà lo stipendio. Motivo? Secondo la Procura generale della Corte di Cassazione ha commesso fatti "idonei a ledere l'immagine del magistrato". Tesi accolta dal "tribunale delle toghe". Sergi, però, rischia anche la dispensa dal servizio, una questione che è all'esame della Quarta Commissione del Csm.
Più di 5 milioni di italiani con la tangente o la raccomandazione, scrive Paolo Comi su “Il Garantista”. C’è una ricerca del Censis, che è stata presentata a Roma, molto interessante su svariati argomenti (la ricerca è sul rapporto tra mondo produttivo e pubblica amministrazione) e che ci fornisce in particolare un dato sul quale sarà giusto riflettere. Questo: quattro milioni e mezzo di italiani ammettono di avere fatto ricorso a una raccomandazione per ottenere una maggior velocità (e un buon esito) alle pratiche disperse nei meandri dell’amministrazione pubblica. E addirittura 800 mila ammettono di avere fatto un regalino a dirigenti e funzionari per avere in cambio un atto dovuto. Regalino, a occhio, è qualcosa di simile alla tangente. Le cifre poi vanno lette bene. Se quattro milioni e mezzo ammettono, è probabile che altri quattro milioni e mezzo non ammettono. E così per gli 800 mila. Le cifre vere potrebbero essere 9 milioni di raccomandazioni e un milione e seicentomila piccole tangenti. Se consideriamo che non tutta la popolazione attiva (e cioè circa 40 milioni di persone) ha avuto bisogno di velocizzare pratiche nella pubblica amministrazione (diciamo circa la metà) otteniamo questo rapporto: su 20 milioni di persone che hanno avuto problemi con la pubblica amministrazione, 9 milioni hanno fatto ricorso a una raccomandazione, perché conoscevano qualcuno, un milione e seicentomila ha pagato una tangente, altri 9 milioni e quattrocentomila se ne sono stati buoni buoni in fila ad aspettare. E’ abbastanza divertente intrecciare questi dati coi dati su coloro che chiedono più rigore, più pene, severità e ferocia contro la corruzione. Corrotti, corruttori e ”punitori” di corruttori e corrotti, spesso, sono la stessa persona. La ricerca del Censis ci consegna una realtà nitida e incontrovertibile: almeno la metà degli italiani fa uso di forme soft di corruzione. E le forme, probabilmente, sono soft perché non esistono le possibilità che siano hard. Perché questi nove milioni non hanno né potere né soldi. Naturalmente di fronte a questo dato si può dire: colpa dei politici che danno il cattivo esempio. Beh, questa è una stupidaggine. Non c’è un problema di cattivo esempio, perché anzi, da almeno vent’anni, i politici e i giornalisti e tutti i rappresentanti delle classi dirigenti, delle professioni, dei mestieri e della Chiesa, non fanno altro che indicare la corruzione come il peggiore dei mali che ammorba la nostra società. Il problema è che spesso, gli stessi, ricorrono in qualche modo alla corruzione e non si sentono per questo incoerenti. Qualche caso un po’ clamoroso di ipocrisia è saltato fuori recentemente dalla cronaca, fior di imprenditori antimafia e anticorruzione presi con le mani nel sacco. La gran parte dei casi però non emerge. Potete star sicuri, ad esempio, che una buona parte degli opinionisti, dei giornalisti e dei politici che tutti i giorni si impancano e vi fanno la lezione di moralità, qualche mancetta l’hanno lasciata, qualche pagamentino in nero lo hanno accettato, qualche rimborso spese di troppo… L’altro giorno, in una intervista divertentissima, il vecchio Pippo Baudo raccontava, sorridendo, di quando il principe dei moralizzatori, Beppe Grillo, si faceva pagare dalla Rai il rimborso spese per il soggiorno a Roma, se lo metteva in tasca, e poi andava a mangiare e a dormire a casa di Pippo. Il vecchio Baudo se la rideva, e ha anche raccontato di quel giorno che Beppe gli ha detto: «Magari, per sdebitarmi, lascio una mancia alla Nena». La Nena era la donna di servizio di Baudo, e Baudo subito ha detto a Beppe che gli pareva un’ottima cosa, e gli ha chiesto quanto pensava di lasciarle. Grillo, vecchio genovese, ha risposto: «Che dici, cinquemila?». «Non sarà troppo?, gli ha ribattuto, ironico, Pippo Baudo. E allora Grillo ha sentenziato: «No, meno di 5000 no, allora è meglio niente». E non gli ha lasciato niente… Così il rimborso se l’è preso tutto intero. Non sarà colpa dell’esempio, ma comunque è colpa dei politici. La raccomandazione e la tangente sono un frutto del modo nel quale è organizzata la vita pubblica. E i politici di questo sono responsabili. La mancata trasparenza (nella pubblica amministrazione come negli appalti) è la causa vera della corruzione. Perché la rende possibile e perché la rende indispensabile. Però di tutto questo frega poco a tutti. Prendiamo la questione degli appalti. E’ chiaro come l’acqua che il sistema complicatissimo vigente (in Italia ci sono oltre 30 mila stazioni appaltanti, e non si sa a chi rispondano, e non si sa chi decide, e ognuna adopera criteri tutti suoi per valutare, e non sia sa chi e come può controllare ed eventualmente indagare) consegna poteri discrezionali enormi a un certo numero di persone e -spesso – ad alcuni politici. Che naturalmente esercitano questo potere. Alcuni, meritoriamente, in modo onesto – ma perché sono disperatamente onesti loro, incorruttibili – alcuni in modo meno onesto, o comunque traendone qualche utilità. Moltissime volte l’appalto viene assegnato senza gara. Altre volte col sistema del ribasso dei prezzi, che è un sistema assurdo perché consegna un potere immenso a chi decide e presuppone un rapporto forte e sregolatissimo tra impresa e stazione appaltante. Dovrebbe essere abbastanza chiaro che, in seguito a una perizia seria, si può stabilire che costruire in quel luogo una scuola con certe caratteristiche e di una certa grandezza costa una cifra tot. Diciamo 10 milioni. L’appalto non può essere dato a chi chiede meno. Se uno mi offre di fare quella scuola a 5 milioni, mi sta fregando. O pensa di fare la scuola con la carta pesta, o pensa di farla piano piano e che tra due anni chiederà una revisione prezzi e otterrà 15 milioni ( e poi magari la farà lo stesso di carta pesta…). L’appalto deve essere concesso a una cifra fissa all’azienda che da le maggiori garanzie. E da un numero ridottissimo e quindi controllabile di stazioni appaltanti. Se fosse così sarebbe molto difficile corrompere qualcuno. E la stessa cosa per le pratiche della pubblica amministrazione. Vanno semplificate, spesso abolite, deburocratizzate e risolte in tempi certi. Ottenere qualcosa del genere sarebbe una riforma seria. Una riforma dello Stato molto, molto più utile e profonda dell’abolizione del Senato e roba simile. Perché nessuno le chiede queste leggi? Perchè la politica e l’intellettualità italiana sono nelle mani di un cerchio magico (che si è costruito, trasversale, attorno al triumvirato Anm-Travaglio- Salvini) il quale se ne frega delle riforme e chiede solo pene severe. Per loro non contano le leggi, le idee, contano gli anni di carcere e basta. Adesso hanno stabilito che la pena massima per la corruzione sale da otto o dieci anni. E sono felici, e brindano, e sentono le manette tintinnare allegre. Riforma forcaiola e inutile. Il problema non è di tenere un povero cristo in prigione per due anni di più, il problema è di rendergli impossibile la corruzione. Ma questa idea non piace a nessuno. Non piace a Salvini, non piace a Travaglio, non piace all’Anm, non piace, probabilmente, neanche a Renzi, e nemmeno ai 4 o 9 o 10 milioni di italiani delle raccomandazioni e dei regalini. A loro piace solo sapere che impiccheranno Lupi con una corda d’oro.
Perché leggere Antonio Giangrande?
Superare una prova dell’esame da avvocato senza aver studiato nulla. E’ quanto hanno dimostrato le telecamere di Studio Aperto che ha messo in onda un filmato realizzato con telecamera nascosta da un giornalista che ha preso il posto di un candidato assente e si è fatto “passare” il compito scritto valido come secondo test della prova per l’iscrizione all’albo degli avvocati. Il reportage ha messo in evidenza tutti i “vizi” tipici degli esami di Stato in Italia. Il cronista del tg di Mediaset e’ entrato tranquillamente nella sala d’esame e nessuno ha mai controllato la sua identità. Sarebbe potuto essere un magistrato che sostituisce un parente impreparato o un avvocato deciso ad aiutare un collega principiante. Il reporter si è tranquillamente seduto sul banco vuoto destinato a tal Federico C. poi – una volta cominciata la prova – si è fatto passare tutto il compito riempiendo gli appositi moduli timbrati e firmati dalla Corte d’Appello di Roma. Il tutto sotto l’occhio di una telecamerina che ha anche filmato come nella vasta aula ci si passassero manuali, e suggerimenti atti a superare la prova. Infine nel filmato di Studio Aperto si documenta anche come nei bagni del mega-hotel che ha ospitato gli esami i candidati abbiano potuto consultarsi sui contenuti del compito e passarsi le relative soluzioni.
Copi alla maturità, a un esame o a un concorso o a un esame di Stato? Ecco cosa rischi legalmente. Hai il vizietto di copiare? Lo sai che in alcuni casi si rischia anche l'arresto? Ecco, caso per caso, cosa rischi a livello legale quando copi. Quante volte incappate in persone che copiano agli esami o a un concorso pubblico, o magari chissà..siete voi stessi a farlo. Quello che forse non sapete è che copiare non è uno scherzo, ma in molte circostanze costituisce un vero e proprio reato perseguibile a livello penale.
Se copi vi è il reato di plagio. Secondo l'art. 1 della legge n. 475/1925 infatti: Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed all'esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito.
Se poi qualche commissario ti aiuta nell'ordinamento italiano, vi è l’abuso d'ufficio che è il reato previsto dall'art. 323 del codice penale ai sensi del quale: 1. Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni. 2. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità.
Se chi ti aiuta ti obbliga o ti induce a pagare c’è la concussione. La concussione (dal latino tardo concussio «scossa, eccitamento» dunque «pressione indebita, estorsione») è il reato del pubblico ufficiale che, abusando della sua qualità o delle sue funzioni, costringa (concussione violenta) o induca (concussione implicita o fraudolenta) qualcuno a dare o promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità anche di natura non patrimoniale. Reato tipico dell'ordinamento giuridico penale della Repubblica Italiana, la fattispecie concussiva non è presente nella maggior parte degli ordinamenti europei e internazionali (al suo posto troviamo l'estorsione aggravata). I beni tutelati dalla fattispecie sono pubblici (buon andamento e imparzialità della Pubblica amministrazione) e allo stesso tempo anche privati (tutela contro abusi di potere e lesioni della libertà di autodeterminazione). Tra i delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica amministrazione, la concussione è il reato più gravemente sanzionato. Oggi, a seguito della riforma introdotta dalla l. 6 novembre 2012, n.190, è prevista la reclusione da sei a dodici anni (anche ante riforma era il reato contro la P.a. più sanzionato). La normativa italiana di contrasto al fenomeno concussivo è contenuta nel codice penale e precisamente nel Libro II, Titolo II "Dei delitti contro la pubblica amministrazione" (art. 314-360).
Se chi ti aiuta si fa pagare è corruzione ed indica, in senso generico, la condotta di un soggetto che, in cambio di danaro oppure di altri utilità e/o vantaggi che non gli sono dovuti, agisce contro i propri doveri ed obblighi. Il fenomeno ha molte implicazioni, soprattutto dal punto di vista sociale e giuridico; uno stato nel quale prevale un sistema politico incontrollabilmente corrotto viene definito "cleptocrazia", cioè "governo di ladri", oppure "repubblica delle banane". In Italia il concetto di corruzione è riconducibile a diverse fattispecie criminose, disciplinate nel Codice Penale, Libro II - Dei delitti in particolare, Titolo II - Dei delitti contro la pubblica amministrazione. Le relative fattispecie criminose sono tutte accomunate da alcuni elementi:
reati propri del pubblico ufficiale
accordo con il privato
dazione di denaro od altre utilità
Quindi, la corruzione è categoria generale, descrittiva dei seguenti reati:
art. 318 c.p. - Corruzione per l'esercizio della funzione
art. 319 c.p. - Corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio
art. 319 ter c.p. - Corruzione in atti giudiziari
art. 320 c.p. - Corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio
art. 321 c.p. - Pene per il corruttore
In base all'art. 319 codice penale il pubblico ufficiale che, per omettere o ritardare o per aver omesso o ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per compiere o per aver compiuto un atto contrario ai doveri di ufficio, riceve per sé o per un terzo, denaro o altra utilità, o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da due a cinque anni. È definita questa corruzione propria ed è la forma più grave di corruzione poiché danneggia l'interesse della pubblica amministrazione a una gestione che rispetti i criteri di buon andamento e imparzialità (art.97 cost). Di questo reato (corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio, art. 319 c.p.) può essere ritenuto responsabile anche un Consigliere Regionale per comportamenti tenuti nella sua attività legislativa. In base alla definizione dell'art. 357 c.p. è pubblico ufficiale anche colui che esercita una funzione legislativa. È priva di fondamento la tesi secondo cui nell'esercizio di un'attività amministrativa discrezionale, ed in particolare della pubblica funzione legislativa, non può ipotizzarsi il mercanteggiamento della funzione, nemmeno qualora venga concretamente in rilievo che la scelta discrezionale non sia stata consigliata dal raggiungimento di finalità istituzionali e dalla corretta valutazione degli interessi della collettività, ma da quello prevalente di un privato corruttore. Non è applicabile la speciale guarentigia sanzionata dal quarto comma dell'art. 122 della Costituzione secondo cui i Consiglieri Regionali non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni. Questa speciale immunità non trova applicazione qualora il Consigliere Regionale non sia perseguito dal giudice penale per avere concorso alla formazione ed alla approvazione di una legge regionale, ma per comportamenti che siano stati realizzati con soggetti non partecipi di tale procedimento al fine di predisporre le condizioni per il conseguimento di un vantaggio illecito.
In base all'art. 318 codice penale il pubblico ufficiale che, per l'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetta la promessa è punito con la reclusione da uno a cinque anni. Questa forma di corruzione viene definita corruzione impropria antecedente poiché l'oggetto della prestazione che il pubblico ufficiale offre in cambio del denaro o dell'altra utilità che gli viene data o promessa, è un atto proprio dell'ufficio e la promessa o la dazione gli vengono fatti prima che egli compia l'atto. Il disvalore della condotta è sicuramente minore poiché pur nella violazione dei beni giuridici di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione non ci sono atti che ledano gli interessi della stessa, come avveniva invece nella corruzione propria con ritardi o omissione di atti dovuti ovvero con il compimento di atti contrari ai doveri d'ufficio. Il pubblico ufficiale non sarà imparziale avendo accettato una retribuzione non dovuta e venendo meno all'espresso divieto che gli pone la legge e pertanto sarà punito.
La legge 13 gennaio 2003, n. 3 ha istituito nell'ordinamento italiano l’Alto Commissario per la prevenzione e il contrasto della corruzione e delle altre forme di illecito all’interno della pubblica amministrazione. L'articolo 68, comma 6, del decreto legge n. 112 del 25 giugno 2008, ha successivamente soppresso l’Alto Commissario. Con DPCM del 5 agosto 2008 le relative funzioni sono state attribuite al Dipartimento per la Pubblica Amministrazione e l'Innovazione che ha istituito il Servizio Anticorruzione e Trasparenza. L'Italia ha aderito al Gruppo di Stati contro la corruzione (GRECO), unità del Consiglio d'Europa a Strasburgo che monitora la corruzione, il 30 giugno 2007. GRECO è stato fondato nel 1999 da 17 paesi europei, oggi ne conta 49, e include anche paesi non europei. L'ultima valutazione di GRECO sullo stato della corruzione in Italia è stato pubblicato in marzo 2012, ed è disponibile in inglese e francese.
Se poi chi ti aiuta falsifica i verbali d’esame vi è Falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici , previsto dall'art. 476 C.P. Il pubblico ufficiale, che, nell'esercizio delle sue funzioni, forma, in tutto o in parte, un atto falso o altera un atto vero, e' punito con la reclusione da uno a sei anni. Se la falsità concerne un atto o parte di un atto, che faccia fede fino a querela di falso, la reclusione è da tre a dieci anni.
Se poi chi ti aiuta, afferma in atti pubblici, che tu inabile al ruolo, sei invece capace e meritevole, vi è Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, punito dall'art. 479 c.p.: Il pubblico ufficiale, che, ricevendo o formando un atto nell'esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente che un fatto è stato da lui compiuto o è avvenuto alla sua presenza, o attesta come da lui ricevute dichiarazioni a lui non rese, ovvero omette o altera dichiarazioni da lui ricevute, o comunque attesta falsamente fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità, soggiace alle pene stabilite nell'articolo 476.
Se poi chi ti aiuta fa parte di una commissione di esame (formata da avvocati od altre figure professionali specifiche al concorso o dall'esame; magistrati; professori universitari) ed è d’accordo con i solidali vi è un’associazione a delinquere. L'associazione per delinquere è un delitto contro l'ordine pubblico, previsto dall'art. 416 del codice penale italiano. I tratti caratteristici di questa fattispecie di reato sono:
la stabilità dell’accordo, ossia l’esistenza di un vincolo associativo destinato a perdurare nel tempo anche dopo la commissione dei singoli reati specifici che attuano il programma dell’associazione. La stabilità del vincolo associativo dà al delitto in esame la tipica natura del reato permanente;
l'esistenza di un programma di delinquenza volto alla commissione di una pluralità indeterminata di delitti. La commissione di un solo delitto non integra la fattispecie in esame.
Parte della dottrina e della giurisprudenza richiede inoltre l’esistenza di un terzo requisito, vale a dire il fatto che l’associazione sia dotata di una "organizzazione", anche minima, ma adeguata rispetto al fine da raggiungere. Sul punto però non v'è uniformità di vedute: secondo taluno in dottrina non è necessaria alcuna organizzazione; secondo altri, invece, è indispensabile una struttura ben delineata "gerarchicamente" organizzata. Infine, soprattutto in giurisprudenza, si è sostenuto talvolta che è sufficiente una struttura "rudimentale". L'associazione per delinquere va ricondotta nella categoria dei reati a concorso necessario e presenta delle affinità con il concorso di persone nel reato (definito eventuale, poiché integra la fattispecie monosoggettiva); ciononostante i due istituti vanno tenuti nettamente separati. Infatti, mentre nel concorso di persone due o più soggetti s'incontrano e occasionalmente si accordano per la commissione di uno o più reati ben determinati dopo la realizzazione dei quali l'accordo si scioglie, nell'associazione per delinquere, invece, tre o più soggetti si accordano allo scopo di dar vita a un'entità stabile e duratura diretta alla commissione di una pluralità indeterminata di delitti per cui dopo la commissione di uno o più reati attuativi del programma di delinquenza i membri dell'associazione restano uniti per l'ulteriore attuazione del programma dell'associazione. Diretta conseguenza di ciò è che l'associazione per delinquere è punibile, teoricamente (non è questo il caso di trattare problemi di carattere probatorio), per il solo fatto dell'accordo, con un'eccezione rispetto alle ordinarie norme penali.
Se l'organizzazione stabilita ha carattere di sistema generale, taciuto, impunito e ritorsivo contro chi si ribella vi è l'associazione per delinquere di stampo mafioso. Il mezzo che deve utilizzarsi per qualificare come mafiosa un'associazione è quindi la forza intimidatrice del vincolo associativo e della condizione di soggezione e di omertà che ne deriva.
Gli obiettivi sono:
il compimento di delitti;
acquisire il controllo o la gestione di attività economiche;
concessioni;
autorizzazioni;
appalti o altri servizi pubblici;
procurare profitto o vantaggio a sé o ad altri;
limitare il libero esercizio del diritto di voto;
procurare a sé o ad altri voti durante le consultazioni elettorali.
Ciò nonostante si può star tranquilli che in Italia nulla succede se chi delinque sono quelle istituzioni che dettano legge ed operano i controlli.
Bari. Test per avvocati 2014-2015, trovati i soldi l’accusa: ora è di corruzione. Blitz a Giurisprudenza. Sequestrati i computer della dirigente Laquale, sotto inchiesta. Indagate madre e figlia: pagarono per ottenere le tracce dell’esame, scrive Francesca Russi su Repubblica. Blitz dei carabinieri ieri mattina all'Università di Bari. I militari del nucleo investigativo si sono presentati negli uffici amministrativi di Giurisprudenza con un decreto di perquisizione firmato dalla pm della procura di Bari Luciana Silvestris. Al centro dell'indagine, che riguarda il tentativo di truccare le prove per l'esame da avvocato, c'è, infatti, il nome della dirigente amministrativa Tina Laquale in servizio a Giurisprudenza. Alla dipendente universitaria, 62 anni, accusata di aver passato gli elaborati delle prove scritte per la professione di avvocato a diversi candidati, sono contestati oltre alla violazione della legge 475 del 1925 che punisce chi presenta come proprio un lavoro altrui, anche i reati di corruzione in concorso e abuso d'ufficio. Ed è proprio questa la novità nelle indagini. Spunta il reato di corruzione. L'ipotesi, dunque, è che i candidati, per ottenere copia degli elaborati d'esame, abbiano pagato. Alla base dunque ci sarebbe stato uno scambio di soldi. Un elemento che finora non era ancora emerso e su cui si concentrano adesso le attenzioni degli investigatori. I carabinieri che si sono presentati a sorpresa ieri mattina negli uffici amministrativi di Giurisprudenza hanno sequestrato il computer in uso alla 62enne e hanno ascoltato anche altri dipendenti universitari in servizio in quello stesso ufficio e che potevano avere accesso a quel pc. I dati presenti in memoria nel computer verranno passati ora al setaccio dai periti informatici a caccia di prove che possano documentare quel tentativo di truccare il concorso di dicembre scorso a Bari. Anche eventuali file cancellati da dicembre scorso, quando i carabinieri intervennero nel corso dell'esame sequestrando copie degli elaborati pronte a essere distribuite tra i banchi ad alcuni candidati, a oggi potrebbero essere recuperati. Le perquisizioni sono state estese anche in casa della Laquale e nell'abitazione di altre due persone, Carmela Di Cosola e Rossella Trabace, rispettivamente mamma e figlia, iscritte nel registro degli indagati perché avrebbero, secondo la procura, consegnato denaro per poter passare l'esame. L'accusa nei confronti della Laquale, si legge nel decreto di perquisizione a firma del sostituto procuratore Silvestris, è di "ricezione illecita, nella sua qualità di pubblico ufficiale, di denaro corrisposto da Di Cosola in vista del compimento di atti contrari ai doveri di ufficio consistiti nella predisposizione e messa a disposizione, per mezzo di altri soggetti, in favore di Trabace degli elaborati riferiti alle prove scritte dell'esame di abilitazione alla professione di avvocato ". E anche, prosegue l'accusa, "in favore di numerosi candidati procurando loro il relativo vantaggio patrimoniale ingiusto ". Nei confronti di madre e figlia, 60 e 27 anni, invece, pesano le accuse di "illecita dazione di denaro materialmente corrisposto da Di Cosola Carmela a Laquale Nunzia, pubblico ufficiale che accettava la dazione in vista del compimento di atti contrari ai doveri di ufficio" (l'articolo 321 del codice penale che prevede le pene per il corruttore) e di violazione della legge 475 in particolare la "presentazione come propri degli elaborati da altri procurati". Bisognerà attendere ora le consulenze informatiche per capire se tra il materiale sequestrato ci siano elementi utili per l'inchiesta. Secondo quanto emerso finora dalle indagini dei carabinieri, il sistema si basava sulla presenza, all'interno del padiglione della Fiera del Levante in cui era in corso l'esame di avvocato, di un cancelliere della Corte d'appello, Giacomo Santamaria, segretario di una commissione, che avrebbe avuto il compito di fare arrivare ad alcuni ragazzi i compiti redatti all'esterno da tre professionisti, che potevano contare sul dirigente amministrativo del dipartimento di Giurisprudenza di Bari, Tina Laquale. Sarebbe stata lei, secondo i carabinieri, a portare dentro gli elaborati, accompagnata in Fiera da un autista della stessa Università di Bari. Sarebbero stati sei i giovani aspiranti avvocati che avrebbero dovuto beneficiare di quell'aiuto. Per averlo, è la nuova ipotesi contenuta nell'avviso di garanzia recapitato ieri alla Laquale, avrebbero pagato una somma in denaro. L'inchiesta, però, è ancora agli inizi e potrebbe ulteriormente allargarsi.
Catanzaro. Esame di Avvocato 2013-2014. Copiano gli esami per avvocato, annullati 120 compiti. Nulle le prove scritte degli aspiranti avvocati del distretto di Corte d’Appello: contenevano passaggi identici. La commissione ammette agli orali soltanto il 40% degli oltre 1.600 candidati, scrive “La Gazzetta del Sud”. La “sorpresa” all’apertura delle buste contenenti i compiti degli aspiranti avvocati del distretto di Catanzaro appena corretti a Firenze: ci sono passaggi identici nella bellezza di 120 prove scritte, molto probabilmente copiate da Internet. E pensare che non hanno avuto neanche la “furbizia” di modificare le prime due o tre righe. Naturalmente i 120 autori dei compiti risultati copiati sono stati tutti esclusi dall’esame; ritenteranno, nella speranza che serva loro da lezione. Resta però il dato di una mezza ecatombe: circa l’8% degli aspiranti avvocati dell’ultima sessione, a Catanzaro, ha copiato è stato punito dalla commissione. Le prove orali, secondo quanto è stato stabilito dal presidente della commissione, inizieranno il prossimo 4 luglio. E il sorteggio ha decretato che si comincerà con la lettera “L”. Accede agli orali, complessivamente, il 40% circa degli oltre 1.600 candidati. La percentuale di stangati si attesta dunque sulla media delle ultime stagioni.
Lecce. Esame di Avvocato 2012-2013. L’Interrogazione parlamentare del dr Antonio Giangrande, scrittore e Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia.
Al Ministro della Giustizia. — Per sapere – premesso che: alla fine di giugno 2013 si apprendeva dalla stampa che a Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di esame di avvocato presso la Corte d’Appello di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati dell’esame di avvocato sessione 2012 tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce. Più di cento scritti sono finiti sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati.
Tenuto conto che le notizie sono diffamatorie e lesive della dignità e dell’onore non solo dei candidati accusati del plagio, ma anche di tutta la comunità giudiziaria di Taranto, Brindisi e Lecce coinvolta nello scandalo, si chiede di approfondire alcune questioni (in relazione alle quali l’interrogante ritiene opportuno siano comunicati con urgenza dati certi) per dimostrare se di estremo zelo si tratti per perseguire un malcostume illegale o ciò non nasconda un abbaglio o addirittura altre finalità.
Per ogni sede di esame di avvocato ogni anno qual è la media degli abilitati all’avvocatura ed a che cosa è dovuta la disparità di giudizio, tenuto conto che i compiti corretti annualmente presso ogni sede d’esame hanno diversa provenienza. Se per l’esame di avvocato è permesso usare codici commentati con la giurisprudenza; Se le tracce d’esame di avvocato indicate del 2012 erano riconducibili a massime giurisprudenziali prossimi alla data d’esame e quindi quasi impossibile reperirle dai codici recenti in uso i candidati e se, quindi, i commissari, per l’impossibilità acclamata riconducibile ad errori del Ministero, hanno dato l’indicazione della massima da menzionare nei compiti scritti;
Nella sessione di esame di avvocato 2012 a che ora è stabilita la dettatura delle tracce; presso la sede di esame di avvocato di Lecce a che ora sono state lette le tracce; se in tal caso la conoscenza delle stesse non sia stata conosciuta prima dell’apertura della sessione d’esame con il divieto imposto dell’uso di strumenti elettronici; Quali sono le mansioni delle commissioni d’esame di avvocato: correggere i compiti e/o indagare se i compiti sono copiati e quanto tempo è dedicata ad una o all’altra funzione;
Quali sono i principi di correzione dei compiti, ed in base ai principi dettati, quali sono le competenze tecniche dei commissari e se corrispondono esattamente ai criteri di correzione: Chiarezza, logicità e metodologia dell’esposizione, con corretto uso di grammatica e sintassi; Capacità di soluzione di specifici problemi; Dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati e della capacità di cogliere profili interdisciplinari; Padronanza delle tecniche di persuasione. Tra i principi indicati qual è la figura professionale tra avvocati, magistrati e professori universitari che ha la perizia professionale adatta a correggere i compiti dal punto di vista lessicale, grammaticale, sintattico, persuasivo ed ogni altro criterio di correzione riconducibile alle materie letterarie, filosofiche e comunicative.
Quanti e quali sono le sottocommissioni in Italia che da sempre hanno scoperto compiti accusati di plagio e in base a quali prove è stata sostenuta l’accusa;
Quante e quali sono le sottocommissioni di Catania che hanno verificato il plagio de quo e quanti sono gli elaborati accusati di plagio ed in base a quali prove è sostenuta l’accusa.
Se le Sottocommissioni di Catania coinvolte erano composte da tutte le componenti necessarie alla validità della sottocommissione: avvocato, magistrato, professore.
Se tutti i compiti di tutte le sottocommissioni di esame di avvocato di Catania (contestati, dichiarati sufficienti, e dichiarati insufficienti) presentano segni di correzione (glosse, cancellature, segni, correzioni, note a margine);
Quanto tempo, in base ai verbali apertura-chiusura sessione, per ogni compito tutte le sottocommissioni di Catania (anche quelle che non hanno scoperto le plagiature) hanno dedicato alla fase di correzione (apertura della busta grande, lettura e correzione dell’elaborato, giudizio e motivazione, verbalizzazione e sottoscrizione);
Quanto tempo, in base ai verbali apertura-chiusura sessione, per ogni compito tutte le sottocommissioni di Catania (quelle che hanno scoperto le plagiature) hanno dedicato alla fase di correzione e quanto tempo alla fase di indagine con ricerca delle fonti di comparazione e quali sono stati i periodi di pausa (caffè o bisogni fisiologici).
Al Ministro si chiede se si intenda valutare l’opportunità di procedere ad un indagine imparziale ed ad un’ispezione Ministeriale presso le sedi d’esame coinvolte per stabilire se Lecce e solo Lecce sia un nido di copioni, oppure se la correzione era mirata, anzichè al dare retti giudizi, solo a fare opera inquisitoria e persecutoria con eccesso di potere per errore nei presupposti; difetto di istruttoria; illogicità, contraddittorietà, parzialità dei giudizi.
Copiano all’esame, nei guai 12 avvocati salernitani, scrive "Salerno Notizie". Inchiesta sulla prova scritta del 2011 – 2012 per l’abilitazione professionale. La soluzione del compito fu presa da un sito internet, secondo l’accusa che ha portato sotto inchiesta 12 avvocati salernitani destinatari di un avviso di conclusione delle indagini . A darne notizia il quotidiano La Città oggi in edicola. La questione è seguita dal sostituto procuratore Maria Chiara Minerva. Al momento della correzione dei compiti dodici svolgimenti risultarono identici tra loro e uguali a quello proposto dal sito internet dal quale sarebbe stato copiato il compito. Il tema – scrive La Città - era quello del ruolo di pubblico ufficiale assegnato ai notai, e l’analisi dei dodici praticanti poi finiti sotto inchiesta era così uguale finanche nei dettagli da non lasciare ai membri della commissione nessun margine di dubbio.
Salerno. Copiano all’esame, indagati 12 avvocati. Inchiesta sulla prova scritta della sessione 2011/2012, scrive Clemy De Maio su La Città di Salerno. Che tra gli esaminandi di ogni categoria vi sia una quota che provi a “copiare” è storia vecchia, ma stavolta la tentazione di truccare la selezione è costata cara a dodici avvocati, finiti sotto inchiesta e destinatari di un avviso di conclusione delle indagini firmato pochi giorni fa dal sostituto procuratore Maria Chiara Minerva. Nel mirino c’è la sessione 2011/2012 per l’abilitazione alla professione forense e in particolare la prova scritta che nel dicembre di quattro anni fa si svolse nel campus universitario. Una prova finita da subito al centro delle polemiche perché alcuni candidati lamentarono un sistema di controllo d’impronta poliziesca, con l’utilizzo persino di metal detector. Eppure nemmeno quella sorveglianza così rigorosa bastò a evitare che qualcuno riuscisse a utilizzare in aula telefoni di ultima generazione e si collegasse al web per copiare un tema che nel frattempo era stato inserito sul sito Altalex, specializzato in argomenti giuridici. La commissione però se ne accorse. Al momento della correzione dei compiti dodici svolgimenti risultarono identici tra loro e uguali in tutto e per tutto all’elaborato circolato su internet. Il tema era quello del ruolo di pubblico ufficiale assegnato ai notai, e l’analisi dei dodici praticanti poi finiti sotto inchiesta era così uguale finanche nei dettagli da non lasciare ai membri della commissione nessun margine di dubbio. La correzione si svolse a Lecce, in ossequio al principio di incrocio tra le sedi che era stato introdotto per evitare il rischio di collusioni tra esaminandi ed esaminatori. Lì furono annullati i compiti copiati e da lì partì pure la segnalazione alla Procura, che dopo quasi tre anni e mezzo ha chiuso l’inchiesta. Nel frattempo quei giovani praticanti sono divenuti avvocati, superando l’esame negli anni successivi e specializzandosi chi nel diritto civile e chi in quello penale. Ora rischiano di dover affrontare un processo con l’accusa di violazione delle norme sul diritto d’autore, e hanno venti giorni di tempo per chiedere al magistrato di essere ascoltati e fornire la propria versione. «Valuteremo se richiedere l’interrogatorio» commenta l’avvocato Antonio Zecca, secondo il quale la vicenda impone ancora un approfondimento, innanzitutto sulla “paternità” del testo pubblicato sul web. «È mia opinione che il tema non sia stato redatto da chi lo ha firmato – spiega – ma che questi lo abbia preso a sua volta da altri testi e si sia limitato a divulgarlo». Qualcuno ha poi diffuso la notizia che lo svolgimento della traccia era on line e in dodici, secondo l’accusa, lo hanno copiato tal quale pensando così di assicurarsi il superamento dell’esame. Furono invece bocciati (come accadde in quell’anno al 51 per cento dei candidati) e ora si trovano sottoposti a un procedimento penale.
Salerno, l’inchiesta sull’esame divide gli avvocati. In dodici sono indagati per avere copiato da internet. Il presidente Montera: «Si controllino pure magistrati e notai», scrive Clemy De Maio su "La città di Salerno". «La Procura indaga sugli esami degli avvocati? E perché non si verificano pure quelli per magistrati o notaio, visto che negli anni scorsi un concorso al notariato è stato persino annullato perché qualche figlio “illustre” conosceva già le tracce prima di entrare». Più che una difesa, quello di Americo Montera è un contrattacco. E tanto per essere chiaro il presidente dell’Ordine degli avvocati getta subito la “palla” nel campo degli inquirenti: «Certo è stranissimo che si sia potuto copiare – osserva – visto che la prova si svolge sotto la stretta sorveglianza di una commissione di cui fanno parte anche magistrati». La sessione finita nel mirino è quella 2011/2012: agli scritti del dicembre 2011 parteciparono oltre 1250 candidati e in dodici sono ora sotto inchiesta con l’accusa di avere violato le norme sul diritto d’autore, copiando lo svolgimento di una traccia dal sito internet Altalex. Nei giorni scorsi hanno ricevuto un avviso di conclusione delle indagini firmato dal sostituto procuratore Maria Chiara Minerva e rischiano di dover affrontare un processo, sebbene nel frattempo siano divenuti avvocato superando gli esami degli anni successivi. Tre anni fa la loro prova fu invece annullata, la commissione di Catania che corresse gli scritti si accorse di quei compiti ciclostilati e decretò le bocciature. Ne nacque prima un contenzioso amministrativo, perché qualcuno presentò ricorso al Tar, e poi una denuncia penale che ha dato origine all’inchiesta. E dire che proprio quell’anno gli esami erano già finiti al centro delle polemiche per presunti eccessi nelle misure di vigilanza, giunte per la prima volta all’utilizzo del metal detector. A volerlo fu il presidente di commissione Andrea Di Lieto, avvocato e docente universitario, che ora apprende con sorpresa dell’esistenza di un procedimento penale: «Non ne avevamo saputo nulla – spiega – e d’altronde, non correggendo noi gli elaborati non potevamo renderci conto che ve ne fossero di uguali». Neanche i numeri delle bocciature avevano destato sospetti, perché statistiche alla mano i compiti annullati per irregolarità erano stati al di sotto della media. Però il sospetto che l’uso degli smartphone potesse inquinare la selezione lo avevano avuto: «Per questo pensammo ai metal detector – ricorda Di Lieto – ma dei sei che avevamo richiesto ne arrivarono solo tre. Li utilizzammo a rotazione sui vari varchi e ottenemmo la consegna volontaria di cento telefoni. Però controllare tutti era impossibile».
Eppure secondo il docente il potenziamento della vigilanza è soprattutto una questione di volontà ministeriale: «Di più si può fare, ma aumentando i costi e allungando i tempi, impiegando più personale e strumenti sofisticati. Altrimenti, se non si attivano tutte le procedure in astratto prevedibili, si deve ritenere fisiologico che una parte dei candidati non sia corretta. Accade ovunque e vale per tutte le categorie». Qualche modo per stringere la vite dei controlli ci sarebbe, magari prendendo a prestito gli strumenti da concorsi come quello per l’ingresso in magistratura «dove i libri devono essere consegnati nei giorni prima, in modo che la commissione possa visionarli». Ma su un irrigidimento della sorveglianza non tutti sono d’accordo, a cominciare dal presidente Montera che da quindici anni è alla guida dell’avvocatura salernitana. «Il nostro – sottolinea – è solo un esame per l’abilitazione professionale, cosa diversa dai concorsi che danno accesso a un posto di lavoro. E poi anche questa inchiesta... Non ne conosco i dettagli ma sulle ipotesi di plagio bisogna andarci cauti. Francamente? Mi pare si stia un po’ esagerando».
Gli aspiranti avvocati copiano i temi: 110 indagati a Potenza. L'esame di abilitazione è stato corretto a Trento nel 2007, scrive “La Stampa”. La Procura della Repubblica di Potenza ha inviato 110 avvisi. Un centinaio di elaborati troppo simili per poter parlare di semplice coincidenza. La Commissione esaminatrice di Trento, che nel dicembre 2007 ha corretto le prove scritte degli aspiranti avvocati lucani per l’esame di abilitazione professionale, decide per questo motivo di annullarle in quanto «copiate in tutto o in parte da altri lavori», segnalando poi l’accaduto alla Procura della Repubblica di Potenza: ne è scaturita un’inchiesta che ha portato a 110 avvisi di garanzia per gli esaminandi. La vicenda è emersa nel luglio 2008, con la pubblicazione dei risultati delle prove che si sono svolte a dicembre dell’anno precedente: l’esame prevede la redazione di due «pareri» (uno di diritto civile e uno di diritto penale) e di un atto a scelta, e si è svolto a Potenza con una Commissione composta da avvocati del Distretto. Gli elaborati, come da prassi, vengono poi inviati per la correzione a una Commissione esterna, stabilita attraverso un sorteggio. Nel 2007 è toccato a Trento, «così come per i tre anni precedenti - ha spiegato uno degli esaminandi - e abbiamo l’impressione che i commissari si siano accaniti contro di noi». Al termine delle correzioni un centinaio di elaborati sono stati annullati: non sarebbe stato però un unico testo quello copiato, ma tre diversi che hanno «ispirato» altrettanti gruppi di esaminandi lucani. La Commissione non si è però fermata alla bocciatura, ma ha segnalato l’accaduto alla Procura della Repubblica di Potenza, che ha aperto un’inchiesta per capire se, ed eventualmente come, le tracce sono state «passate» agli aspiranti avvocati. Il tutto è proseguito fino ai giorni scorsi, quando il pm di Potenza, Sergio Marotta, ha inviato 110 avvisi di garanzia e di conclusione delle indagini. Per il momento nessuno ha voluto commentare l’accaduto: l’Ordine degli avvocati di Potenza preferisce ricevere una comunicazione ufficiale dalla Procura prima di prendere una posizione e decidere eventuali provvedimenti disciplinari. La vicenda però ha avuto un effetto immediato, forse casuale, già nella sessione successiva, nel dicembre 2008, quando la sede per lo svolgimento della prova scritta è stata trasferita da un quartiere centrale di Potenza a una zona periferica e isolata della città. Dove, per altro, i cellulari hanno pochissimo campo.
Campobasso. Trentotto persone sono indagate nell'ambito di un'inchiesta sullo svolgimento dell'esame per diventare avvocato. L'esame, tenutosi nel dicembre del 2007 in Molise, sarebbe stato "truccato", scrive "Altro Molise". I compiti svolti da molti concorrenti sarebbero identici, cioè copiati. Il caso è finito nelle mani della Procura di Campobasso che ha iscritto sul registro degli indagati 38 persone, tutti concorrenti, quasi tutti molisani. Sono accusati del reato di attribuzione a sé di elaborati altrui in materia di concorsi pubblici. Sono stati già ascoltati dai giudici. Ma presto potrebbero essere contestati altri reati. Il presidente della commissione esaminatrice, l'avvocato Lucio Epifanio, difende l'operato dei commissari e ribadisce che tutto si è svolto nel rispetto delle leggi.
Ci sono molti giovani molisani fra gli indagati dello scandalo dei temi copiati all’esame di abilitazione alla professione di avvocato, scrive "Primo Numero". Dopo la comunicazione di chiusura delle indagini da parte del sostituto procuratore di Campobasso Rossana Venditti, emergono nuovi particolari sul caso dei temi copiati durante l’esame dell’anno 2007. Secondo l’accusa infatti, i 38 aspiranti avvocati ora indagati, avrebbero copiato in parte o nella totalità le tre prove previste, vale a dire un atto giuridico e due pareri legali. Secondo quanto emerso, la commissione giudicante, composta dalla Corte d’Appello di Trieste, avrebbe riscontrato temi uguali e divisi in sottogruppi. In alcuni casi il testo giuridico sembra sia stato copiato per filo e per segno. Il magistrato Venditti attende ora la scadenza dei 20 giorni durante i quali gli indagati potranno farsi interrogare o potranno presentare memorie giuridiche. Scaduto quel termine è molto probabile il rinvio a giudizio.
Copiano esame per diventare avvocati: 5 termolesi nei guai, continua "Primo Numero". Ci sono anche cinque ragazzi di Termoli e uno di Montenero di Bisaccia tra i 20 indagati dalla Procura di Campobasso per aver copiato l’esame per diventare avvocati. Passaggi importanti del tema di diritto civile e di diritto penale sono identici nei 20 elaborati che sono stati annullati dalla Commissione esaminatrice. Stanno per scadere i 20 giorni di tempo per essere ascoltati dal Pm. Stesse parole, punteggiatura identica, intere frasi copiate. La Procura di Campobasso non ha dubbi: 20 candidati molisani che hanno partecipato al concorso per avvocati nel dicembre del 2007 hanno copiato, e per questo ora sono indagati "per aver attribuito a se stessi elaborati altrui in materia di concorsi pubblici". Tra di loro ci sono anche cinque termolesi tra i 30 e i 33 anni, tre ragazzi e due ragazze e un giovane di Montenero di Bisaccia. Sono difesi dagli avvocati Antonio De Michele e Oreste Campopiano. In questi giorni, dopo aver ricevuto l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, alla chetichella si stanno recando dal pm di Campobasso Rossana Venditti, chi a farsi interrogare chi a presentare memorie difensive. Sono accusati di aver copiato passaggi importanti sia del tema di diritto civile che di quello di diritto penale. Ora si dovrà capire chi è il vero autore degli elaborati e chi invece ha copiato anche se non sarà facile. I temi infatti non sono stati scaricati da internet come invece si era detto in precedenza. Ma c’è stato qualcuno che ha redatto gli elaborati e tutti gli altri invece si sono semplicemente limitati a svolgere il ruolo comprimario di amanuensi. Le prove erano state annullate a tutti i candidati con temi uguali dalla commissione esaminatrice della Corte di Appello di Trieste, sorteggiata per la correzione degli elaborati molisani. I membri della stessa poi avevano provveduto a mandare tutti gli atti alla Procura della Repubblica di Campobasso.
Sotto inchiesta la prova scritta che si è tenuta a Catanzaro nel '97. Avvisi di garanzia a legali di tutta Italia. Avvocati, all'esame di Stato hanno copiato 2.295 candidati su 2.301, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. «Laudemus sanctum Ivonem, qui fuit advocatus sed non latro. O res mirabilis!». Per decenni, quelle righette carogna contenute nel breviario dei parroci in ricordo di Sant' Ivo alla Sapienza, «avvocato ma non ladro», hanno fatto ridere e irritare intere generazioni di penalisti e civilisti. Una foltissima schiera di giovani legali, però, se l'è tirata. L'ha scoperto la Guardia di Finanza di Catanzaro che sta smistando 2.295 avvisi di garanzia ad altrettanti laureati in legge che, scesi in massa da tutte le lande italiche fino a Catanzaro per passare l'esame di Stato e diventare avvocati a fine '97, hanno fatto (o res mirabilis!) esattamente lo stesso identico compito. Esame per avvocato, compiti tutti uguali Truffa scoperta a Catanzaro: su 2.301 partecipanti solo sei non avevano copiato Riga per riga, parola per parola, virgola per virgola: 2.295 temi in fotocopia su 2.301 partecipanti. Fate i conti: a non avere avuto già il tema in tasca erano in 6. Lo 0,13% di onesti contro un 99,87% di truffatori. Riassunto per i non addetti. Per diventare avvocato occorre prendere la laurea in giurisprudenza, iscriversi all'albo dei praticanti procuratori, fare due anni di pratica nello studio di un avvocato, frequentare le aule di giustizia per accumulare esperienza e «imparare il mestiere», farsi timbrare via via dai cancellieri un libretto sul quale viene accertata l'effettiva frequenza alle udienze e infine superare l'esame di Stato, che viene indetto anno dopo anno nelle sedi regionali delle corti d'appello. Esame non facile. Basti dire che sulla prova scritta (che prevede tre temi: diritto penale, civile e pratica di atti giudiziari) o sulla successiva prova orale si schianta in media oltre la metà dei concorrenti. Con qualche ecatombe qua e là, soprattutto al Nord, segnata da picchi del 94% di respinti. A Catanzaro no. Sarà l'aria buona, sarà il profumo del bergamotto, sarà la percentuale di ferro nell' acqua, ma non c'è allievo che, messo davanti al foglio protocollo o assiso davanti a una commissione, non riesca a tirar fuori il meglio di sé. Basti leggere le tabelle dei promossi e dei bocciati agli esami di maturità pubblicata ieri dalla Gazzetta del Sud. Promossi: 98,84%. Bocciati: 1,16%. Ma molti istituti hanno fatto di meglio: tutti promossi i 133 ragazzi del liceo classico «Fiorentino», tutti i 207 dello scientifico «Siciliani», tutti i 209 dell'Itis «Scalfaro» e così via: 19 istituti su 34 senza un trombato. Fantastico il rendimento alle magistrali «Cassiodoro»: sono usciti col massimo dei voti (100 su 100) 34 giovani su 141 iscritti. Un genio ogni quattro. Va da sé che la voglia di respirare queste brezze salutari, benefiche anche per gli aspiranti avvocati (se è vero che nel 1995, per prendere un anno a caso, venne promosso oltre il 90 per cento dei candidati, è cresciuta di anno in anno, a mano a mano che la fama di Catanzaro risaliva la Penisola, dilagava tra le colline dell'Astigiano, si incuneava nelle valli della Carnia, allagava le piane mantovane. Ma come superare l'handicap della legge, che stabilisce che tu possa fare l' esame a Trento oppure a Palermo soltanto se risulti residente lì da almeno 6 mesi, durante i quali devi aver fatto parte di uno studio legale del posto e aver fatto timbrare il tuo libretto di pratica negli uffici giudiziari locali? Un bel problema. Irrisolvibile se gli avvocati catanzaresi, che per bontà d' animo e disponibilità verso la gioventù non hanno eguali al mondo, non avessero via via accolto nei loro studi mandrie annuali di laureati in legge provenienti da Roma (14%), Torino (6%), Milano (3%), Genova (3%) e così via. Giovani comunisti umbri, leghisti lombardi, forzisti veneti, diessini liguri, postfascisti laziali, popolari friulani. Magari accomunati nella feroce contestazione verso il «lassismo» meridionale, ma compatti nel cercare di prender parte alla spartizione della torta. E che torta! Pensate solo che nel ' 95 i partecipanti in corsa a Catanzaro furono esattamente quanti quelli di Milano e il doppio di quelli di Torino. E che nel '97, l'anno finito nel mirino dei sostituti procuratori Luigi De Magistris (poi trasferito a Napoli) e Federica Baccaglini (una padovana che fra un mese dovrebbe lei pure passare a un'altra sede), riuscirono a superare l'esame, in tutta intera l'Italia, circa 8.000 procuratori legali. Ai quali, se non fosse saltato tutto per la scoperta della truffa, si sarebbero aggiunte altre duemila «pagliette» promosse nel solo capoluogo calabrese. Una su cinque. Meglio di una fiera dell'agricoltura o del passaggio del Festivalbar era, per Catanzaro, l'appuntamento annuale con l'esame. I 260 posti nei 5 alberghi cittadini venivan prenotati con mesi d'anticipo, nascevano qua e là «pensioni» improvvisate per accogliere le torme di pellegrini giudiziari, riaprivano in pieno inverno i villaggi sulla costa che talora offrivano il pacchetto completo: camera, colazione, cena e minibus per portare gli ospiti direttamente alla sede dell' esame dove erano attesi dalla commissione: avvocati, magistrati di corte d'appello, giudici di cassazione, professori universitari. Il tutto senza che i vertici del Palazzo di Giustizia locale, tra cui c'era ad esempio l' attuale «governatore» regionale forzista Giuseppe Chiaravalloti, sentissero mai puzza di bruciato. Finché, un bel giorno ai primi del 1998, grazie probabilmente a una soffiata anonima di chi non ne poteva più dell'andazzo, non viene fuori che una ventina di compiti svolti in dicembre dai candidati riuniti al liceo classico «Galuppi» erano identici. Calligrafie diverse, ovvio. Ma i testi parevano fotocopiati: pagina dopo pagina, riga dopo riga. In marzo, il ministero chiede informazioni. La Commissione d'esame, tenetevi forte, risponde che «non è corretto fare riferimento a gravi irregolarità» ma «soltanto» (testuale: soltanto...) a «comportamenti improvvidi quanto sciocchi di candidati che, al postutto si ritorcono a loro danno, avendo provveduto questa Commissione all' annullamento degli elaborati identici». Cosa abbiano scoperto in realtà, setacciando uno per uno tutti i temi, i due magistrati autori dell' inchiesta e i finanzieri che con il capitano Fulvio Marabotto si sono dovuti sciroppare il noiosissimo confronto tra i 2.301 temi trovando infine quei sei sparuti «fessi» che non avevano copiato l' abbiamo raccontato. Come abbiano fatto tutti quegli aspiranti «uomini di legge» a infognarsi in una faccenda così zozza senza che alcuno sentisse poi il bisogno di andare dal giudice lo racconteranno loro stessi nei prossimi interrogatori. A noi resterà, comunque, un piccolo rovello: superato lo scritto, come se la sarebbero cavata con l'esame orale di deontologia? Potete scommetterci: sarebbe stato un trionfo.
Cassazione SU: l’avvocato che favorisce i candidati durante l’esame di abilitazione va sospeso, scrive Francesca Russo su Filo Diritto del 16 febbraio, le Sezioni Unite hanno rinviato al Consiglio nazionale forense la decisione sulla sospensione di un avvocato per aver aiutato un candidato durante l’esame di abilitazione. Nel caso in esame, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma aveva irrogato ad un avvocato la sanzione disciplinare della cancellazione dall’Albo, avendolo ritenuto colpevole della violazione dei doveri di probità, dignità e decoro (articolo 5 del vigente Codice deontologico forense), di lealtà e correttezza (articolo 6 Codice deontologico forense) nonché del dovere di agire in modo tale da non compromettere la fiducia che i terzi debbono avere nella dignità della professione (articolo 56 Codice deontologico forense). L’avvocato era accusato di essersi abusivamente introdotto munito di appunti e trasmettitori, esibendo tesserino simile a quello in dotazione ai commissari di esame e qualificandosi delegato del Consiglio dell’ordine, nelle aule di un Hotel, mentre si svolgeva la sessione di esami di abilitazione all’esercizio della professione di avvocato per l’anno 2010, ed aver tentato di favorire partecipanti all’esame. Avverso la decisione del Consiglio nazionale forense, di integrale conferma di quella del Consiglio territoriale, l’avvocato aveva proposto ricorso per Cassazione in quattro motivi, lamentando:
1) la mancata sospensione del giudizio nonostante la pendenza, in relazione ai medesimi fatti, di procedimento penale per il reato di cui agli articoli 340 e 494 del codice penale;
2) il mancato rilievo della nullità del giudizio di primo grado per avervi preso parte un componente del Consiglio dell’Ordine, poi dichiarato decaduto con decisione del Consiglio nazionale;
3) la carenza di prova, con particolare riguardo alla mancata ammissione di testi a discarico;
4) la misura eccessiva e sproporzionata della sanzione in rapporto al comportamento ascrittogli.
Per quanto riguarda il primo motivo, la Cassazione ritiene che non può omettersi di rilevare che non risulta provato in atti il concreto esercizio di azione penale a carico del ricorrente per i medesimi fatti oggetto del giudizio.
Quanto al secondo (sulla composizione del collegio del Consiglio territoriale dell’Ordine), deve considerarsi che la decisione del Consiglio nazionale forense appare aver tratto, dalla natura amministrativa delle funzioni esercitate in materia disciplinare dai Consigli dell’Ordine degli avvocati e del correlativo procedimento (Cassazione, SU 20360/07, 23240/05), coerente corollario in merito alla validità di deliberazione, che, in rapporto alla circostanza dedotta, non risulta specificamente censurata con riguardo all’osservanza del quorum prescritto.
Il terzo motivo (sulla prova dell’illecito), secondo la Cassazione, si rivela, poi, inammissibile, giacché il ricorrente riporta in termini essenzialmente generici il contenuto delle prove testimoniali che sostiene ingiustificatamente non ammesse dal giudice disciplinare; mentre le uniche circostanze concrete in proposito riferite (in merito alle giustificazioni fornite al personale di vigilanza sulla sua presenza nel luogo dell’esame) non risultano decisivamente contraddire il tenore dell’incolpazione attribuitagli.
Pertanto, la Corte, a Sezioni Unite, rigetta i primi tre motivi di ricorso e, decidendo sul quarto motivo incidente sulla misura della sanzione, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese, al Consiglio nazionale forense. (Corte di Cassazione - Sezioni Unite Civili, Sentenza 16 febbraio 2015, n. 3023).
UNA COSA E’ CERTA. NESSUNO DI COLORO CHE HA USUFRUITO O HA AGEVOLATO UN CONCORSO TRUCCATO E’ STATO MAI CONDANNATO O RADIATO. SE POI VAI A PARLAR CON COSTORO SI DIPINGONO ANIME BIANCHE E TI ACCUSANO DI MITOMANIA O PAZZIA. ADDIRITTURA ARRIVANO A DIRTI: TI RODI PER NON AVER SUPERATO L'ESAME O IL CONCORSO!!!
Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri». Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».
Chi non è raccomandato, scagli la prima pietra.
Essere raccomandati in un’azienda privata è una cosa lecita. Esser raccomandati per vincere un concorso pubblico o un esame di Stato è reato. Spesso, però, per indulgenza o per collusione, le cose si confondono.
Se non basta un muro di parole per vincer la resistenza degli scettici, allora è solo mala fede in loro.
La Costituzione all'art. 3 non cita che siamo tutti uguali o tutti discendenti di eccelsi natali, esplica solo che tutti siamo uguali, sì, ma di fronte alla legge!!!
Chi non è raccomandato scagli la prima pietra. Più di quattro milioni di italiani sono ricorsi a una raccomandazione per ottenere un'autorizzazione o accelerare una pratica. E 800mila hanno fatto un "regalino" a dirigenti pubblici per avere in cambio un favore. Sono alcuni dati emersi da una ricerca realizzata dal Censis.
Non solo. Il coro di voci, che hanno chiesto le dimissioni al Ministro Lupi del governo Renzi, è roboante. Tra i vari aspetti della vicenda Incalza che lo vedono coinvolto, al ministro delle Infrastrutture non viene perdonata la presunta raccomandazione per il figlio. Ma è davvero così peccaminoso prodigarsi per il proprio figlio come ogni genitore farebbe, oltretutto, in un Paese dove la raccomandazione è all'ordine del giorno?
E’ inutile negarlo, la pratica della raccomandazione è la sola che funziona perfettamente nel nostro Paese, anche perché coinvolge ognuno di noi in maniera democratica senza distinzione di genere, scrive “Panorama”. Ci sono gli italiani che raccomandano e gli italiani che si fanno raccomandare, una sorta di catena di Sant’Antonio che prosegue all’infinito. Almeno una volta nella vita bisogna provare l’ebbrezza della spintarella, anche quando si è coscienti che questa non servirà a nulla per raggiungere l’ambita destinazione, qualsiasi essa sia (il posto di lavoro, la visita medica, l’esame all’università) e non importa se alla meta arriverà un altro, perché la nostra osservazione sarà “chissà chi lo ha raccomandato…!” E poi ci sentiamo a posto con la coscienza per due motivi, il primo perché, comunque, il tentativo lo abbiamo fatto, il secondo perché la volta successiva non ci faremo trovare impreparati, anzi ci organizzeremo meglio cercando una spinta più potente. Forse un giorno potremo anche inserirla nel curriculum vitae.
Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo». «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Questi avvocati esercitano.
La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare? ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino. E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”.
Ma guarda un po’, sti settentrionali, a vomitar cattiverie e poi ad agevolarsi del…sole calabro.
Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.
Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano.
Quando si dà la caccia ai figli per colpire i padri, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. E poi dicono, i potenti, povero ministro Lupi. Un figlio laureato con 110 e lode al Politecnico di Milano, e tutto quello che gli trova è un lavoretto su un cantiere Eni a partita iva da 1300 euro mese. Un precario aggiunto ai milioni di giovani senza posto fisso. E sì che mica lo poteva infilare in una delle cooperative di Comunione e liberazione, quelle ormai stanno nell’occhio del ciclone, e poi che fai, vai a pulire il culo degli ammalati negli ospedali, dai i pasti alla mensa, ti sbatti coi tossici, ricicli i libri usati, oh, c’ha una laurea al Politecnico. E però, per i figli si farebbe tutto, certo. Anche mettendoti a rischio. I figli sono pezzi di cuore, sono quello per cui ti sbatti, sono quello che rimarrà di te, sono il punto debole. È una costante questa. Sarà che noi italiani c’abbiamo il familismo amorale, c’abbiamo. Prima di tutto la famiglia, i figli.
Chissà se hanno telefonato per i loro figli in carriera. Indignazione per Lupi jr, ma nessuno si chiede se i rampolli dei leader democratici abbiano avuto l'aiutino. Dagli eredi dei presidenti alle ragazze di Veltroni e D'Alema, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Mio figlio è laureato al Politecnico con 110 e lode, gli faccio sempre questa battuta: purtroppo ha fatto Ingegneria civile e si è ritrovato un padre ministro delle Infrastrutture» si difende Maurizio Lupi, accusato di familismo all'italiana. Quella è una sfortuna che capita spesso ai figli di potenti, quasi sempre dotati di grande talento tanto da meritare posti prestigiosi, carriere formidabili, magari in settori affini a quelli di papà o mammà. Così viene il sospetto, malizioso e certamente infondato, che qualche telefonatina per lanciare i rampolli, una sponsorizzazione paterna o materna, sia prassi diffusa. Anche a sinistra, magari a partire da chi si indigna per Lupi jr. Avere parenti potenti non serve, se si è bravi, però aiuta. Sempre che non li intercettino.
Caso Lupi, Giampiero Mughini su Dago critica Giuliano Ferrara: "Tutti siamo stati raccomandati, anche tu", scrive “Libero Quotidiano”. Chi è senza raccomandazione alzi il ditino da moralista. Giampiero Mughini interviene a piedi uniti nel dibattito sul ministro Maurizio Lupi e la sospetta raccomandazione che avrebbe fatto al figlio ingegnere per farlo lavorare. A far saltare la mosca al naso di Mughini è un pezzo di Giuliano Ferrara sul Foglio che in un passaggio scrive: "Non mi hanno ristrutturato case a buon prezzo, assunzioni di parenti no e poi no, non li conosco. Le cricche mi sono lontane". Apri cielo: Mughini in una lettera a Dagospia prima ricostruisce il suo ingresso nel mondo del lavoro, ricordando la lettera di raccomandazione scrittagli da Gian Carlo Pajetta per lavorare a Paese Sera. Poi passa proprio all'Elefantino, sulla cui vita ha anche scritto un libro in passato: "Era stato Alberto Ronchey, negli anni Cinquanta moscoviti collega di papà Maurizio Ferrara, a intercedere presso il Corriere della Sera perché Giuliano potesse iniziarvi una sua collaborazione". Con il ministro di Ncd, Mughini dice di non avere legami, quindi nessuna difesa di ufficio. Se poi venisse confermata la telefonata con la quale Lupi avrebbe chiesto un lavoro per il figlio: "Io - scrive Mughini - altissimamente me ne strafotto. E tutti quelli che si stanno alzando con il ditino puntato - continua - hanno a che vedere con la faziosità politica".
"La credibilità dello Stato oggi è ampiamente compromessa e il primo atto, lo dico non per ragioni giudiziarie, ma per ragioni politiche, dovrebbe essere una bonifica radicale del ministero delle Infrastrutture, e anche le dovute dimissioni del ministro competente". Lo ha detto il leader di Sel e presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, parlando il 17 marzo 2015 oggi a Bari con i giornalisti in merito alla maxi operazione dei Cc del Ros sulla gestione illecita degli appalti delle cosiddette Grandi opere. Certo che non vi è vergogna nei nostri politici. Si parla delle dimissioni di Lupi che non è indagato. Mentre chi le chiede, e gli esponenti del suo partito, nel processo a Taranto "Ambiente Svenduto", per loro la Procura ha chiesto al giudice per l'udienza preliminare Wilma Gilli il rinvio a giudizio. Chiesto dalla Procura il rinvio a giudizio per il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, per il sindaco di Taranto, Ezio Stefàno, per gli attuali assessori regionali all'Ambiente, Lorenzo Nicastro, e alla Sanità, Donato Pentassuglia, quest'ultimo all'epoca dei fatti presidente della commissione regionale Ambiente, nonché per l'allora assessore regionale Nicola Fratoianni, oggi deputato di Sel.
Vittorio Feltri: “Se Santoro è giornalista la colpa è mia che l’ho promosso all’esame. Si dà infatti il caso che Santoro sia diventato giornalista professionista con il mio contributo, giacché facevo parte della commissione all'esame di Stato che lo promosse e gli consentì l'iscrizione all'Ordine nazionale dei giornalisti. Era il 1982. Me lo ricordo perché erano in corso i Mondiali di calcio in Spagna, quelli vinti dall'Italia con Sandro Pertini in tribuna d'onore. La vita del commissario esaminatore aveva qualche risvolto piacevole. Feci comunella con Giuseppe Pistilli, vicedirettore del Corriere dello Sport, il quale sedeva con me nel sinedrio. La sera andavamo a cena insieme. Il ponentino e il Frascati ci aiutavano a dimenticare le miserie cui avevamo assistito durante la giornata nel valutare i candidati. Ancora non avevo maturato la convinzione che l'Ordine dei giornalisti fosse un ente inutile, anzi peggio: dannoso. Pistilli contribuì a instillarmi qualche sospetto, illustrandomi come funzionava la commissione d'esame. Esempio: un aspirante scriba ti era stato raccomandato o ti stava a cuore? Bene, si trattava di farsi dare da lui le prime righe dell'articolo che aveva steso durante la prova scritta. Nessuno comincia un pezzo nella stessa maniera del compagno di banco, chiaro no? Perciò, non appena s'iniziava la lettura ad alta voce e in forma anonima degli elaborati, all'udire l'attacco familiare il commissario dava un calcetto sotto il tavolo a chi gli stava accanto. Costui a sua volta sferrava un calcetto al commissario più vicino, e avanti così. Con sei calcetti, il candidato era promosso. Dopodiché ricevevi a tua volta altri colpi negli stinchi e dovevi restituire il favore ricevuto. In questo modo passavano l'esame (e lo passano tuttora) asini sesquipedali.”
Il tribunale del popolo guidato da Di Pietro, scrive Tiziana Maiolo su "Il Garantista". Maurizio Lupi non è un indagato. È un condannato dal Tribunale del Popolo composto di giornalisti invidiosi, magistrati esibizionisti e una folla di tricoteuses opportunamente istigata dai Paladini della Virtù che passeggiano per i talkshow spargendo il proprio verbo, la propria “moralità”. Il 17 marzo 2015 mattina si è svegliato presto Antonio Di Pietro, si è collegato subito con Radio24, poi è corso in Rai per farsi intervistare ad Agorà sgusciando poi via velocemente per planare su La7. Una fatica per chi ha tante lezioni di moralità da elargire al ministro Maurizio Lupi. Che non è indagato, ma condannato perché “forse” si è lasciato regalare un vestito da un imprenditore suo amico di famiglia, il quale avrebbe anche donato un orologio costoso a suo figlio in occasione di una laurea particolarmente brillante al Politecnico di Milano. Tra le imputazioni di stampo moralistico c’è anche un posto di lavoro temporaneo al neo-ingegnere in un cantiere. Giusto quindi che intervenga subito il Pm più famoso d’Italia. Un plauso a tutti i conduttori che hanno pensato di invitare proprio Di Pietro a commentare i comportamenti di Lupi. È uno che se ne intende.
Da quale pulpito vien la predica?
Si riportano vari articoli di stampa, a scanso di persecuzione personale.
L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.
Si riportano vari articoli di stampa, a scanso di persecuzione personale.
Corrado Carnevale: "Quell’aiutino a Di Pietro per diventare magistrato...", scrive “Libero Quotidiano”. Corrado Carnevale: "Al concorso in magistratura, Di Pietro ha avuto due aiutini". L'ex giudice Corrado Carnevale: "Era stato in seminario ed era di famiglia povera. Fu così che chiusi un occhio", scrive Rachele Nenzi su “Il Giornale”.
Quell’aiutino a Di Pietro per diventare magistrato. L’ex giudice Carnevale sull’esame di Tonino a pm: «Era povero, mi commossi. E due 5 diventarono 6», scrive Valeria Di Corrado su “Il Tempo”.
Giancarlo De Cataldo su “L’Espresso”: L'Italia è una repubblica fondata sullo scandalo. Dai tempi di Cavour a Mani Pulite: ogni vent’anni un’indagine-choc. Corsi e ricorsi storici delle tangenti, specchio di un Paese che non cambia. Il commento dello scrittore-magistrato. La fiction “1992” è bella e coraggiosa. Racconta - ed è già questo un merito innegabile - la controversa stagione di Mani Pulite. Lo fa con la disinvolta ferocia narrativa che è il marchio di fabbrica delle grandi serie. “1992” è televisione avanzata. Ma ha anche un altro merito. “1992” declina con linguaggio di oggi una vicenda che affonda radici profonde nella storia d’Italia. Una storia antica: la storia della nostra corruzione. Una storia cominciata tanti anni fa. Conquistato il Sud grazie all’impresa dei Mille, il conte di Cavour si mette all’opera per disegnare il futuro della nuova nazione. Giorgio Asproni, deputato sardo, alta carica massonica, ex-prete, esponente dell’estrema sinistra mazziniana, nei suoi impietosi diari annota disgustato l’incessante processione di faccendieri, ufficiali, imprenditori che assediano l’ufficio di Cavour a Palazzo Carignano. Tutti a vantare inesistenti meriti patriottici, tutti a implorare un incarico, una commessa, un’onorificenza. Ciò che l’incendiario Asproni non può sapere è che in quegli stessi momenti Cavour, il liberale, l’odioso tessitore di trame che i democratici accusano di essersi impossessato per turpi fini della bandiera della Patria, proprio Cavour, prova, nei confronti dei questuanti, sentimenti non molto dissimili. Al punto da bollare i clientes con parole di fuoco. Asproni e Cavour, ciascuno eroico a suo modo, divisi da visioni radicalmente inconciliabili della Storia (e della natura umana) su un punto concordano: il disprezzo per quei molli figuri che non versarono una sola goccia di sangue per la “causa” e ora si avventano sulla greppia dell’Italia unita. Ma se Asproni li metterebbe volentieri al muro, corrotti e corruttori, Cavour, secondo il suo costume, pensa di poterne agevolmente “trarre partito”. Costruire dal nulla un’identità nazionale è compito arduo, ai limiti dell’impossibile. Nella fase d’avvio non si può andare tanto per il sottile. Anche gli affaristi servono, e servono i faccendieri. Cavour opera una scelta di campo destinata a ipotecare pesantemente il nostro futuro. Il destino fa il resto. Cavour, che forse sarebbe riuscito a contenere le smanie predatorie nell’alveo della fisiologia democratica, muore troppo presto. I suoi successori non si riveleranno all’altezza. Quindici anni dopo l’Unità, nel 1875, un popolano trasteverino accoltella a morte Raffaele Sonzogno, coraggioso giornalista calato a Roma dal Nord, animatore di inchieste sul dilagante malaffare post-unitario. Il sicario viene subito arrestato, ma è chiaro che, secondo uno schema destinato a ripetersi drammaticamente negli anni, se il pugnale viene dalla strada, l’ordine è partito dal Palazzo. Giancarlo De Cataldo Dietro l’uccisione di Sonzogno c’è una colossale speculazione edilizia sui terreni espropriati al Vaticano. Sono coinvolti banchieri, palazzinari, preti attenti al portafoglio, pezzi della Destra storica, che uscirà sconfitta dalle elezioni dell’anno dopo, e pezzi della Sinistra che già pregusta la vittoria, e persino un rampollo “agitato” dell’eroe dei Due Mondi. Una pregevole compagnia di giro che ritroveremo spesso nella cronaca del nostro Paese. Troppo, per una nazione appena nata. L’inchiesta, abilmente pilotata, porta alla condanna del deputato Luciani. Movente: una questione di corna. Luciani becca una condanna tombale, e invano, per anni, minaccerà sconvolgenti rivelazioni. Dalla speculazione verranno poste le basi per uno dei tanti, anch’essi ricorrenti, “sacchi” di Roma. Qualche anno dopo, nel 1892, un giornale satirico della capitale, “Il carro di Checco”, svela la vicenda finanziaria che passerà alla storia come “scandalo della Banca Romana”. Incalzato dal battagliero Napoleone Colajanni, il governo è costretto a nominare una commissione d’inchiesta. Emergono notevoli reati: si va dalla fabbricazione e spaccio di monete false al falso in bilancio, dalle false fatturazioni alla corruzione dei funzionari e deputati incaricati dei controlli, passando per la costituzione di “fondi neri” riversati nelle tasche di personaggi pubblici. Coinvolto il gotha politico del tempo, Giolitti in testa, lambita Casa Savoia. Giolitti, anche se non è più ministro, pretende e ottiene una giurisdizione “politica”. Il finale è deprimente, con la morte per suicidio di un onorevole accusato di un reato minore e il proscioglimento generale. Favorito, si disse, da un’attenta “gestione” dei materiali probatori concordata fra Governo e vertici della magistratura. Grande e diffusa fu la frustrazione. Un giurista scrisse che si era consacrata «l’immoralità di chi ha troppo mangiato e che dopo il pasto pare abbia, come la lupa di Dante, più fame di pria». La stampa, come sovente accade, deplorò. E tutto ricominciò come prima. Fra l’altro, proprio mentre si dibatteva della Banca Romana, in Sicilia veniva assassinato Emanuele Notarbartolo di San Giovanni. Un banchiere onesto che si era messo di traverso alle speculazioni ordite da quella che, allora, si chiamava “Alta Mafia”. Fu incriminato per questo omicidio l’onorevole Palizzolo, poi assolto all’esito di un interminabile processo. Il vecchio liberale Gaetano Mosca parlò di «disfatta morale». Gli amici festeggiarono la liberazione di Palizzolo noleggiando una nave con tanto di gran pavese. In tempi più recenti, sembra essersi affermata una paradossale “legge del venti”. Nel senso che ogni vent’anni circa il Paese “scopre” uno o più colossali scandali a base di corruzione. Si deplora, si invocano cambiamenti legislativi, emergono demagoghi più o meno versati nell’arte di arringare le masse promettendo “pulizia”, si adottano misure asseritamente restrittive, si fanno esami di coscienza, si va in Tribunale. Nel 1974 alcuni giovani giudici, definiti con un certo risentimento “pretori d’assalto” (l’anticamera del “giudici ragazzini” di qualche anno dopo), scoprono che i petrolieri pagano i ministri per ottenere leggi favorevoli alla propria lobby. Sandro Pertini, Presidente della Camera, li incoraggia a «non guardare in faccia a nessuno», inclusi i suoi compagni del Partito Socialista. Minaccia, in caso di insabbiamento, le dimissioni. Il governo cade. Gli imputati sono giudicati dalla Commissione Parlamentare per i procedimenti di accusa. Pertini non si dimette. Esito del giudizio: due ministri archiviati, due prescritti, due assolti dopo qualche tempo. Mani Pulite, si è detto, esplode nel 1992, quindi a circa vent’anni dallo scandalo dei petroli. Fra il 1992 e il 1993 si consumano gli ultimi delitti eccellenti e le ultime stragi di mafia. Curiosa coincidenza con quanto era accaduto esattamente un secolo prima. Ieri corruzione a Roma e morte di un banchiere onesto in Sicilia, oggi corruzione a Milano e non solo, piombo e tritolo per politici, giudici e inermi cittadini in Sicilia e non solo. Quasi a voler sottolineare che gli inconfessabili legami e lo spregiudicato uso della violenza e della corruttela, col tempo, invece di attenuarsi, si sono rafforzati. Le stragi mafiose e Mani Pulite suscitarono un’ondata di indignazione. Furono approvate leggi per favorire il fenomeno del pentitismo e confiscare i beni dei mafiosi. Una nuova classe politica spazzò via la precedente: e anche questo era accaduto, cent’anni prima. Poi, col tempo, tutto si è sopito e troncato. I pentiti sono diventati più o meno degli appestati. Mani Pulite è oggetto di revisione storiografica critica. Ritocchi normativi bipartisan hanno reso sempre più disagevole l’operato degli investigatori. A risvegliare i dormienti, guarda caso a vent’anni da Mani Pulite, gli scandali Expo, Mose, e, infine, l’inchiesta “Mafia Capitale”. Che, fra l’altro, come all’epoca del trapasso fra Destra storica e Sinistra, propone uno spaccato di cointeressenze fra gente che dovrebbe, teoricamente, militare su opposte sponde. Oggi la stampa deplora. Sono allo studio inasprimenti di pena. Si nominano authority anticorruzione e assessori alla legalità. Intanto, si vara una legge punitiva sulla responsabilità civile dei magistrati e si tuona contro il loro “protagonismo”: senza mai riempire di contenuto questa parola dal suono, si direbbe, gnostico. Si giura, soprattutto, che è venuto il momento di voltare pagina. Come diceva Nino Manfredi: «Fusse ca fusse...». Dobbiamo dunque ritenerci rassegnati e sfiduciati? Ci mancherebbe! A un ragazzo che si affaccia alla vita non puoi trasmettere il messaggio del “tutto è perduto”. Sarebbe delittuoso. Però un minimo di onestà intellettuale non disturba, anzi. Bisogna spiegare che fra corruzione e legalità si combatte una guerra aspra, senza esclusione di colpi. Che corrotti e corruttori offrono scorciatoie convincenti, indossano maschere seducenti, vantano - e purtroppo sovente a ragione - indiscutibili successi. Sono simpatici, mondani, ricchi di fascino, corrotti e corruttori. “Legalità” è invece una parola astratta che ossessivi, abili messaggi fanno apparire sempre più ostile, odioso patrimonio di arcigni, e dunque antipatici, guardiani. “Moralista” fa oggi sorridere, “incorruttibile” suscita panico. Bisogna spiegare che giudici e poliziotti sono patologi del sistema, intervengono quando il danno è stato fatto. Bisogna insistere sull’istruzione e sulla cultura, e persino sull’estetica: si può combattere, consapevoli della disparità fra le forze in campo, anche per il solo gusto di non darla vinta alla società dei magnaccioni. E dopo, a casa, magari, tutti a vedere “1992”, la serie. Con Asproni che digrigna i denti e Cavour che perde un po’ alla volta il suo ironico sorrisetto.
Perché leggere Antonio Giangrande?
Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente”, ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri. Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.
Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)
Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,
La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.
Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.
Mentre gli occhi seguono la salda carena,
la nave austera e ardita.
Ma o cuore, cuore, cuore,
O stillanti gocce rosse
Dove sul ponte giace il mio Capitano.
Caduto freddo e morto.
O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.
Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;
Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;
Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.
Qui Capitano, caro padre,
Questo mio braccio sotto la tua testa;
È un sogno che qui sopra il ponte
Tu giaccia freddo e morto.
Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;
Il mio padre non sente il mio braccio,
Non ha polso, né volontà;
La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.
Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,
Esultino le sponde e suonino le campane!
Ma io con passo dolorante
Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.
Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.
Chi sa: scrive, fa, insegna.
Chi non sa: parla e decide.
Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?
Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.
La calunnia è un venticello
un’auretta assai gentile
che insensibile sottile
leggermente dolcemente
incomincia a sussurrar.
Piano piano terra terra
sotto voce sibillando
va scorrendo, va ronzando,
nelle orecchie della gente
s’introduce destramente,
e le teste ed i cervelli
fa stordire e fa gonfiar.
Dalla bocca fuori uscendo
lo schiamazzo va crescendo:
prende forza a poco a poco,
scorre già di loco in loco,
sembra il tuono, la tempesta
che nel sen della foresta,
va fischiando, brontolando,
e ti fa d’orror gelar.
Alla fin trabocca, e scoppia,
si propaga si raddoppia
e produce un’esplosione
come un colpo di cannone,
un tremuoto, un temporale,
un tumulto generale
che fa l’aria rimbombar.
E il meschino calunniato
avvilito, calpestato
sotto il pubblico flagello
per gran sorte va a crepar.
E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.
Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.
Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it, mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.
Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?
Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò
La coscienza
Volevo sapere che cos'è questa coscienza
che spesso ho sentito nominare.
Voglio esserne a conoscenza,
spiegatemi, che cosa significa.
Ho chiesto ad un professore dell'università
il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si,
ma tanto tempo fa.
Ora la coscienza si è disintegrata,
pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,
vivendo con onore e dignità.
Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.
Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande,
il gigante, quelli che sanno rubare.
Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?
Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare.
L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere,
la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.
Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle,
se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere.
E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,
mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.
Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)
perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,
adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare.
Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare,
la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,
vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)
I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
Per il pontefice “il clima mediatico ha le sue forme di inquinamento, i suoi veleni. La gente lo sa, se ne accorge, ma poi purtroppo si abitua a respirare dalla radio e dalla televisione un’aria sporca, che non fa bene. C’è bisogno di far circolare aria pulita. Per me i peccati dei media più grossi sono quelli che vanno sulla strada della bugia e della menzogna, e sono tre: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Dare attenzione a tematiche importanti per la vita delle persone, delle famiglie, della società, e trattare questi argomenti non in maniera sensazionalistica, ma responsabile, con sincera passione per il bene comune e per la verità. Spesso nelle grandi emittenti questi temi sono affrontati senza il dovuto rispetto per le persone e per i valori in causa, in modo spettacolare. Invece è essenziale che nelle vostre trasmissioni si percepisca questo rispetto, che le storie umane non vanno mai strumentalizzate”. Infatti nessuno delle tv ed i giornali ne hanno parlato di questo intervento.
"Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione". E' l'esortazione che rivolge al mondo dell'informazione e della comunicazione Papa Francesco, cogliendo l'occasione dell'udienza del 15 dicembre 2014 in Aula Paolo VI dei dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Chiesa italiana. «Di questi tre peccati, la calunnia sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all'errore, ti porta a credere solo a una parte della verità. La disinformazione, in particolare spinge a dire la metà delle cose e questo porta a non potersi fare un giudizio preciso sulla realtà. Una comunicazione autentica non è preoccupata di colpire: l'alternanza tra allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio, due estremi che continuamente vediamo riproposti nella comunicazione odierna, non è un buon servizio che i media possono offrire alle persone. Occorre parlare alle persone “intere”, alla loro mente e al loro cuore, perché sappiano vedere oltre l'immediato, oltre un presente che rischia di essere smemorato e timoroso del futuro. I media cattolici hanno una missione molto impegnativa nei confronti della comunicazione sociale cercare di preservarla da tutto ciò che la stravolge e la piega ad altri fini. Spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle ideologie, a fini politici o di controllo dell'economia e della tecnica. Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la “parresia”, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà. Se siamo veramente convinti di ciò che abbiamo da dire, le parole vengono. Se invece siamo preoccupati di aspetti tattici, il nostro parlare sarà artefatto e poco comunicativo, insipido. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare. Risvegliare le parole: ecco il primo compito del comunicatore. La buona comunicazione in particolare evita sia di "riempire" che di "chiudere". Si riempie quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano. Si chiude quando alla via lunga della comprensione si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare».
Questa sub cultura artefatta dai media crea una massa indistinta ed omologata. Un gregge di pecore. A questo punto vien meno il concetto di democrazia e prende forma l’esigenza di un uomo forte alla giuda del gregge che sappia prendersi la responsabilità del necessario cambiamento nell’afasia e nell’apatia totale. Sembra necessario il concetto che è meglio far decidere al buon e capace pastore dove far andare il gregge che far decidere alle pecore il loro destino rivolto all’inevitabile dispersione.
Francesco di Sales, appena ordinato sacerdote, nel 1593, lo mandarono nel Chablais, che poi sarebbe il Chiablese, dato che sta nell’Alta Savoia, ma l’avevano invaso gli Svizzeri e tutti si erano convertiti al calvinismo, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Insomma, doveva essere proprio tosto predicare il cattolicesimo lì. Però, lui aveva studiato dai Gesuiti e poi si era laureato a Padova, perciò poteva con capacità d’argomentazione affrontare qualunque disputa teologica. Era uno che lavorava di fino, Francesco di Sales. Solo che tutto quello che diceva dal pulpito non sortiva grande effetto in quei cuori e quelle menti montanare, e allora per raggiungerli e scaldarli meglio con le sue parole gli venne l’idea di far affiggere nei luoghi pubblici dei “manifesti”, composti con uno stile agile e di grande efficacia, e di far infilare dei “volantini” sotto le porte. Il risultato fu straordinario. È per questo che san Francesco di Sales è il santo patrono dei giornalisti. Per lo stile e l’efficacia, per la capacità di argomentare la verità. Almeno fino a ieri. Perché da ieri c’è un altro Francesco che ha steso le sue mani benedette sul giornalismo, ed è papa Bergoglio. «Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione». È l’esortazione che papa Francesco ha rivolto al mondo dell’informazione e della comunicazione, cogliendo l’occasione dell’udienza in Aula Paolo VI di dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Cei, conferenza episcopale italiana. In realtà, ne aveva già parlato il 22 marzo, incontrando nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, i membri dell’Associazione ”Corallo”, network di emittenti locali di ispirazione cattolica presenti in tutte le regioni italiane. Ora c’è tornato sopra, ora ci batte il chiodo. Si vede che gli sta a cuore la cosa, e come dargli torto. Evidentemente non parlava solo ai giornalisti cattolici, papa Francesco, e quindi siamo tutti chiamati in causa. «Di questi tre peccati, la calunnia – ha continuato Francesco – sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all’errore, ti porta a credere solo a una parte della verità». Era stato anche più dettagliato nell’argomentazione il 22 marzo: «La calunnia è peccato mortale, ma si può chiarire e arrivare a conoscere che quella è una calunnia. La diffamazione è peccato mortale, ma si può arrivare a dire: questa è un’ingiustizia, perché questa persona ha fatto quella cosa in quel tempo, poi si è pentita, ha cambiato vita. Ma la disinformazione è dire la metà delle cose, quelle che sono per me più convenienti, e non dire l’altra metà. E così, quello che vede la tv o quello che sente la radio non può fare un giudizio perfetto, perché non ha gli elementi e non glieli danno».
Sono i falsari dell’informazione, i peccatori più gravi.
«E io a lui: “Chi son li due tapini
che fumman come man bagnate ’l verno,
giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”.
L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;
l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:
per febbre aguta gittan tanto leppo».
Così Dante descrive nel Canto XXX dell’Inferno la sorte di due “falsari”, la moglie di Putifarre e Sinone. Sinone è quello che convinse i Troiani raccontando un sacco di panzane che quelli si bevvero come acqua fresca e fecero entrare il cavallo di legno, dentro cui si erano nascosti gli Achei che così presero la città. La moglie di Putifarre, ricco signore d’Egitto – così si racconta nella Genesi –, invece, s’era incapricciata del giovane schiavo Giuseppe, cercando di sedurlo. Solo che Giuseppe non ci sentiva da quell’orecchio. Offesa dal rifiuto del giovane, la donna si vendicò accusandolo di aver tentato di farle violenza. Per questa falsa accusa Giuseppe fu gettato nelle prigioni del Faraone. Eccolo, il “leppo” dantesco, che è un fumo puzzolente. E fumo puzzolente si leva dalle pagine dei giornali di disinformacija all’italiana.
Durante la Guerra fredda i russi si erano specializzati nel diffondere informazioni false e mezze verità: raccontavano un sacco di balle sui propri progressi, o magnificavano le sorti delle nazioni che erano sotto l’orbita del comunismo, e nello stesso tempo imbrogliavano le carte su quello che succedeva nell’Occidente maledettamente capitalistico. Pure gli americani avevano la loro disinformacija. Le loro porcherie diventavano battaglie di libertà e le puttanate che compivano erano gesti necessari per difendere la democrazia dall’orso russo e dai cavalli cosacchi. Fare disinformaciija non è banale, non è che ti metti a strillare le stronzate, è un lavoro sottile. Quel cervellone di Chomsky – e ne capisce della questione, visto che è un linguista – riferendosi alle falsificazioni delle prove e delle fonti l’ha definita “ingegneria storica”. Devi orientare l’opinione pubblica, mescolando verità e menzogna; devi sminuire l’importanza e l’attenzione su un evento dandogli una scarsa visibilità e, all’opposto, ingigantire gli spazi informativi su questioni di secondaria importanza; devi negare l’evidenza inducendo al dubbio e all’incredulità. Insomma, è un lavoraccio, che presuppone una vera e propria “macchina disinformativa”. Cioè, i giornali. «Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la parresia, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà», ha aggiunto papa Francesco. Ha ragione papa Francesco, ragione da vendere. Qualunque direttore di giornale, qualunque editore, qualunque comitato di redazione, qualunque corso dell’ordine dei giornalisti, ti dirà che questi, della franchezza e della libertà, sono i cardini del lavoro dell’informazione. Ma sono chiacchiere. Francesco, invece, non fa chiacchiere. E magari succede che domani troveremo in qualche piazza dei dazebao o dei volantini sotto le nostre porte con la sua firma.
Dalla prova scientifica a quella dichiarativa, passando per il legame tra magistratura e giornalismo. Il dibattito sul processo penale organizzato il 12 dicembre 2014 a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, nell’auditorium della Casa della Cultura intitolata a Leonida Repaci dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con la collaborazione del Comune e della Camera penale, è stato molto più di un semplice dibattito, andato oltre gli aspetti prettamente giuridici, scrive Viviana Minasi su “Il Garantista”. Si è infatti parlato a lungo del legame che esiste tra la magistratura e il giornalismo, quel giornalismo che molto spesso trasforma in veri e propri eventi mediatici alcuni processi penali o fatti di cronaca nera. Se ne è parlato con il direttore de Il Garantista Piero Sansonetti, il Procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, il presidente del Tribunale di Palmi Maria Grazia Arena, l’onorevole Armando Veneto, presidente della Camera penale di Palmi e con il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Francesco Napoli. Tanti gli ospiti presenti in questa due giorni dedicata al processo penale. Al direttore Sansonetti il compito di entrare nel vivo del dibattito, puntando quindi l’attenzione su quella sorta di “alleanza” tra magistratura e giornalismo, a volte tacita. «Mi piacerebbe apportare una correzione alla locandina di questo evento, ha detto ironicamente Sansonetti – scrivendo “Giornalismo è giustizia”, invece che “Giornalismo e giustizia”. Perché? Perché molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni, è successo che i processi li ha fatti il giornalismo, li abbiamo fatti noi insieme ai magistrati». Fatti di cronaca quali il disastro della Concordia, Cogne, andando indietro negli anni anche Tangentopoli, fino a giungere all’evento che ha catalizzato l’attenzione dei media nazionali negli ultimi giorni, l’inchiesta su Mafia Capitale, sono stati portati alla ribalta dal giornalismo, magari a danno di altri eventi altrettanto importanti che però quasi cadono nell’oblio. «Ci sono eventi di cronaca che diventano spettacolo – ha proseguito il direttore Sansonetti – e questo accade quando alla stampa un fatto interessa, quando noi giornalisti fiutiamo “l’affare”». Sansonetti ha poi parlato di un principio importante tutelato dall’articolo 111 della Costituzione, l’articolo che parla del cosiddetto “giusto processo”, che in Italia sarebbe sempre meno applicato, soprattutto nella parte in cui si parla dell’informazione di reato a carico di un indagato. «Sempre più spesso accade che l’indagato scopre di essere indagato leggendo un giornale, o ascoltando un servizio in televisione, e non da un magistrato». Su Mafia Capitale, Sansonetti ha lanciato una frecciata al Procuratore capo di Roma Pignatone, definendo un «autointralcio alla giustizia» la comunicazione data in conferenza stampa, relativa a possibili altri blitz delle forze dell’ordine, a carico di altri soggetti che farebbero parte della “cupola”. Suggestivo anche l’intervento di Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia forense all’università di Padova, che ha relazionato su “tecniche di analisi scientifica del testimone”. Secondo quanto affermato da Sartori, le testimonianze nei processi, ma non solo, sono quasi sempre inattendibili. Il punto di partenza di questa affermazione è uno studio scientifico condotto su circa 1500 persone, che ha dimostrato come la testimonianza è deviata e deviabile, sia dal ricordo sia dalle domande che vengono poste al testimone. Un caso che si sarebbe evidenziato soprattutto nelle vicende che riguardano le molestie sessuali, nelle quali il ricordo è fortemente suggestionabile dal modo in cui vengono poste le domande. Il convegno era stato introdotto dall’ex sottosegretario del primo governo Prodi ed ex europarlamentare Armando Veneto, figura di primo piano della Camera penale di Palmi. L’associazione dei penalisti da anni è in prima linea per controbilanciare il “potere” (secondo gli avvocati) che la magistratura inquirente avrebbe nel distretto giudiziario di Reggio Calabria e il peso preponderante di cui la pubblica accusa godrebbe nelle aule di giustizia. Le posizione espresse da Veneto, anche all’interno della camera penale di Palmi, sono ormai state recepite da due generazioni di avvocati penalisti.
Purtroppo, però, in Italia non cambierà mai nulla.
Mamma l’italiani, canzone del 2010 di Après La Class
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
nei secoli dei secoli girando per il mondo
nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo
non viene dalla Cina non è neppure americano
se vedi uno spaccone è solamente un italiano
l'italiano fuori si distingue dalla massa
sporco di farina o di sangue di carcassa
passa incontrollato lui conosce tutti
fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
a suon di mandolino nascondeva illegalmente
whisky e sigarette chiaramente per la mente
oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso
non smercia sigarette ma giochetti per il sesso
l'italiano è sempre stato un popolo emigrato
che guardava avanti con la mente nel passato
chi non lo capiva lui lo rispiegava
chi gli andava contro è saltato pure in a...
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
l'Italia agli italiani e alla sua gente
è lo stile che fa la differenza chiaramente
genialità questa è la regola
con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia
l'Italia e la sua nomina e un alta carica
un eredità scomoda
oggi la visione italica è che
viaggiamo tatuati con la firma della mafia
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
vacanze di piacere per giovani settantenni
all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni
pagano pesante ragazze intraprendenti
se questa compagnia viene presa con i denti
l'italiano è sempre stato un popolo emigrato
che guardava avanti con la mente nel passato
chi non lo capiva lui lo rispiegava
chi gli andava contro è saltato pure in a...
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
spara la famiglia del pentito che ha cantato
lui che viene stipendiato il 27 dallo Stato
nominato e condannato nel suo nome hanno sparato
e ricontare le sue anime non si può più
risponde la famiglia del pentito che ha cantato
difendendosi compare tutti giorni più incazzato
sarà guerra tra famiglie
sangue e rabbia tra le griglie
con la fama come foglie che ti tradirà
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?
Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.
La Superbia-Vanità (desiderio irrefrenabile di essere superiori, fino al disprezzo di ordini, leggi, rispetto altrui);
L’Avarizia (scarsa disponibilità a spendere e a donare ciò che si possiede);
La Lussuria (desiderio irrefrenabile del piacere sessuale fine a sé stesso);
L’Invidia (tristezza per il bene altrui, percepito come male proprio);
La Gola (meglio conosciuta come ingordigia, abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola, e non solo);
L’Ira (irrefrenabile desiderio di vendicare violentemente un torto subito);
L’Accidia-Depressione (torpore malinconico, inerzia nel vivere e nel compiere opere di bene).
Essendo viziosi ci scanneremmo l’un l’altro per raggiungere i nostri scopi. E periodicamente lo facciamo.
Vari illuminati virtuosi, chiamati profeti, ci hanno indicato invano la retta via. La via indicata sono i precetti dettati dalle religioni nate da questi insegnamenti. Le confessioni religiose da sempre hanno cercato di porre rimedio indicando un essere superiore come castigatore dei peccati con punizioni postume ed eterne. Ecco perché i vizi sono detti Capitali.
I vizi capitali sono un elenco di inclinazioni profonde, morali e comportamentali, dell'anima umana, spesso e impropriamente chiamati peccati capitali. Questo elenco di vizi (dal latino vĭtĭum = mancanza, difetto, ma anche abitudine deviata, storta, fuori dal retto sentiero) distruggerebbero l'anima umana, contrapponendosi alle virtù, che invece ne promuovono la crescita. Sono ritenuti "capitali" poiché più gravi, principali, riguardanti la profondità della natura umana. Impropriamente chiamati "peccati", nella morale filosofica e cristiana i vizi sarebbero già causa del peccato, che ne è invece il suo relativo effetto.
Una sommaria descrizione dei vizi capitali comparve già in Aristotele, che li definì gli "abiti del male". Al pari delle virtù, i vizi deriverebbero infatti dalla ripetizione di azioni, che formano nel soggetto che le compie una sorta di "abito" che lo inclina in una certa direzione o abitudine. Ma essendo vizi, e non virtù, tali abitudini non promuovono la crescita interiore, nobile e spirituale, ma al contrario la distruggono.
In questo mondo vizioso tutto ha un prezzo e quasi tutti sono disposti a svendersi per ottenerlo e/ o a dispensare torti ai propri simili. Ciclicamente i nomi degli aguzzini cambiano, ma i peccati sono gli stessi.
In questa breve vita senza giustizia, vissuta in un periodo indefinito, vincono loro: non hanno la ragione, ma il potere. Questo, però, non impedirà di raccontare la verità contemporanea nel tempo e nello spazio, affinché ai posteri sia delegata l’ardua sentenza contro i protagonisti del tempo trattato, per gli altri ci sarà solo l’ignominia senza fama né gloria o l’anonimato eterno.
“La superficie della Terra non era ancora apparsa. V’erano solo il placido mare e la grande distesa di Cielo... tutto era buio e silenzio". Così inizia il Popol Vuh, il libro sacro dei Maya Quiché che narra degli albori dell’umanità. Il Popol Vuh descrive questi primi esseri umani come davvero speciali: "Furono dotati di intelligenza, potevano vedere lontano, riuscivano a sapere tutto quel che è nel mondo. Quando guardavano, contemplavano ora l'arco del cielo ora la rotonda faccia della Terra. Contrariamente ai loro predecessori, gli esseri umani ringraziarono sentitamente gli dei per averli creati. Ma anche stavolta i creatori si indispettirono. "Non è bene che le nostre creature sappiano tutto, e vedano e comprendano le cose piccole e le cose grandi". Gli dei tennero dunque consiglio: "Facciamo che la loro vista raggiunga solo quel che è vicino, facciamo che vedano solo una piccola parte della Terra! Non sono forse per loro natura semplici creature fatte da noi? Debbono forse anch'essi essere dei? Debbono essere uguali a noi, che possiamo vedere e sapere tutto? Ostacoliamo dunque i loro desideri... Così i creatori mutarono la natura delle loro creature. Il Cuore del Cielo soffiò nebbia nei loro occhi, e la loro vista si annebbiò, come quando si soffia su uno specchio. I loro occhi furono coperti, ed essi poterono vedere solo quello che era vicino, solo quello che ad essi appariva chiaro."
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie. Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai. Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali. “Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
Antonio Giangrande, perché è diverso dagli altri?
Perché lui spiega cosa è la legalità, gli altri non ne parlano, ma ne sparlano.
La legalità è un comportamento conforme alla legge ed ai regolamenti di attuazione e la sua applicazione necessaria dovrebbe avvenire secondo la comune Prassi legale di riferimento.
Legge e Prassi sono le due facce della stessa medaglia.
La Legge è votata ed emanata in nome del popolo sovrano. I Regolamenti di applicazione sono predisposti dagli alti Burocrati e già questo non va bene. La Prassi, poi, è l’applicazione della Legge negli Uffici Pubblici, nei Tribunali, ecc., da parte di un Sistema di Potere che tutela se stesso con usi e consuetudini consolidati. Sistema di Potere composto da Caste, Lobbies, Mafie e Massonerie.
Ecco perché vige il detto: La Legge si applica per i deboli e si interpreta per i forti.
La correlazione tra Legge e Prassi e come quella che c’è tra il Dire ed il Fare: c’è di mezzo il mare.
Parlare di legge, bene o male, ogni leguleio o azzeccagarbugli o burocrate o boiardo di Stato può farlo. Più difficile per loro parlar di Prassi generale, conoscendo loro signori solo la prassi particolare che loro coltivano per i propri interessi di privilegiati. Prassi che, però, stanno attenti a non svelare.
Ed è proprio la Prassi che fotte la Legge.
La giustizia che debba essere uguale per tutti parrebbe essere un principio che oggi consideriamo irrinunciabile, anche se non sempre pienamente concretizzabile nella pratica quotidiana. Spesso assistiamo a fenomeni di corruzione, all’applicazione della legge in modo diverso secondo i soggetti coinvolti. E l’la disfunzione è insita nella predisposizione umana.
Essa vien da lontano.
E’ lo stesso Alessandro Manzoni che parla di “Azzeccagarbugli” genuflessi ai mafiosi del tempo al capitolo 3 dei “Promessi Sposi”. Ma non sarebbe stato il Manzoni a coniare l’accoppiata tra il verbo “azzeccare” e il sostantivo “garbuglio” stante che quando la parola entrò nei “Promessi Sposi”, aveva un’età superiore ai tre secoli. Il primo ad usarla fu Niccolò Machiavelli che, in un passo delle "Legazioni" (1510), scrive: “Voi sapete che i mercatanti vogliono fare le cose loro chiare e non azzeccagarbugli”. Questa spiegazione si trova nel Dizionario italiano ragionato e nel Dizionario etimologico di Cortelazzo-Zolli mentre gli altri vocabolari si limitano a indicare soltanto la matrice manzoniana. È giusto dare a Niccolò quello che è di Niccolò, ricordando inoltre che il Manzoni era un conoscitore dell’opera di Machiavelli ed è probabile che sia stato ispirato dal citato passo. Non si dimentichi, infatti, che nella prima stesura dei “Promessi Sposi” il personaggio si chiamava “dotor Pe’ ttola” e non Azzeccagarbugli.
La legge non era uguale per tutti anche nel Seicento, secolo di soprusi e di prepotenze da parte dei potenti. Renzo cerca giustizia recandosi da un noto avvocato del tempo, ma, allora come oggi, la giustizia non sta dalla parte degli oppressi, bensì da quella degli oppressori.
Azzecca-garbugli è un personaggio del romanzo storico ed è il soprannome di un avvocato di Lecco, chiamato, nelle prime edizioni del romanzo, dottor Pettola e dottor Duplica (nell'edizione definitiva il nome non viene mai detto, ma solo il soprannome). Il nome costituisce un'italianizzazione del termine dialettale milanese zaccagarbùj che il Cherubini traduce "attaccabrighe". Viene chiamato così dai popolani per la sua capacità di sottrarre dai guai, non del tutto onestamente, le persone. Spesso e volentieri aiuta i Bravi, poiché, come don Abbondio, preferisce stare dalla parte del più forte, per evitare una brutta fine.
Renzo Tramaglino giunge da lui, nel capitolo III, per chiedere se ci fosse una grida che avrebbe condannato don Rodrigo, ma lui sentendo nominare il potente signore, respinge Renzo perché non avrebbe potuto contrastare la sua potente autorità. Egli rappresenta quindi un uomo la cui coscienza meschina è asservita agli interessi dei potenti. Compare anche nel capitolo quinto quando fra Cristoforo va al palazzotto di don Rodrigo e lo trova fra gli invitati al banchetto che si sta tenendo a casa appunto di don Rodrigo.
Apparentemente, è un uomo di legge molto erudito, e nel suo studio è presente una notevole quantità di libri, il cui ruolo principale, però, è quello di elementi decorativi piuttosto che di materiale di studio. Il suo tavolo invece è cosparso di fogli che impressionano gli abitanti del paese che vi si recano. In realtà non consulta libri da molti anni addietro, quando andava a Milano per qualche causa d'importanza.
Il suo nome Azzeccagarbugli è dovuto dal fatto che Azzecca significa "indovinare" e garbugli "cose non giuste", quindi: Indovinare cose non giuste.
Azzeccagarbugli è la figura centrale del Capitolo 3°, è un avvocato venduto, è un miserabile e il Manzoni pur non dicendolo apertamente ce lo fa capire descrivendocelo appunto negli aspetti più negativi. Di questo personaggio emerge una grande miseria morale: ciò che preme all'avvocato è di assicurarsi il favore di don Rodrigo anche se per ottenere questo deve calpestare quella giustizia della quale dovrebbe essere servitore. Il Dottor Azzeccagarbugli è una figurina vista di scorcio, ma pur limpida e interessante. E' un leguleio da strapazzo, ma abile la sua parte a ordire garbugli per imbrogliare le cose, come lui stesso confessa a Renzo. Ci vuole la conoscenza del codice, è necessario saper interpretare le gride, ma per lui valgono sopra tutto le arti per ingarbugliare i clienti. Tale è la morale di questo tipo di trappolone addottorato, comunissimo in ogni società. Il Manzoni lo ha ricreato di una specifica individualità esteriore, nell'eloquio profuso, a volte enfatico e sentenzioso, a volte freddo e cavilloso, grave e serio nella posa di uomo di alte cure, pieno di sussiego nella sua mimica istrionica. Don Rodrigo lo ha caro, come complice connivente nei suoi delittuosi disegni, mentre il dottore accattando protezione col servilismo e l'adulazione, scrocca lauti pranzi. Alcuni osservano, e non a torto, che in questo personaggio il Manzoni abbia voluto farsi beffe dei legulei dalla coscienza facile.
"«Non facciam niente, – rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. – Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli… Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.»
Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: – oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.
- Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?
- Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse… basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo…
- Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.
- Le giuro…
- Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani -. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.
- Ma senta, ma senta, – ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: – restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.
Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione."
A Parlar di azzeccagarbugli non vi pare che si parli dei nostri contemporanei legulei togati, siano essi magistrati od avvocati?
Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.
Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate.
Chi siamo noi?
Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.
Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.
Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.
Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.
Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.
Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
Ho vissuto una breve vita confrontandomi con una sequela di generazioni difettate condotte in un caos organizzato. Uomini e donne senza ideali e senza valori succubi del flusso culturale e politico del momento, scevri da ogni discernimento tra il bene ed il male. L’Io è elevato all’ennesima potenza. La mia Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” composta da decine di saggi, riporta ai posteri una realtà attuale storica, per tema e per territorio, sconosciuta ai contemporanei perché corrotta da verità mediatiche o giudiziarie.
Per la Conte dei Conti è l’Italia delle truffe. È l'Italia degli sprechi e delle frodi fotografata in un dossier messo a punto dalla procura generale della Corte dei Conti che ha messo insieme le iniziative più rilevanti dei procuratori regionali. La Corte dei Conti ha scandagliato l'attività condotta da tutte le procure regionali e ha messo insieme «le fattispecie di particolare interesse, anche sociale, rilevanti per il singolo contenuto e per il pregiudizio economico spesso ingente».
A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua.
La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"
"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie.
Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.
Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.
La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.
Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.
Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla.
Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).
Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).
La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.
Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso.
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
Recensione di un’opera editoriale osteggiata dalla destra e dalla sinistra. Perle di saggezza destinate al porcilaio.
I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. Lo dice Beppe Grillo e forse ha ragione. Ma tra di loro vi sono anche eccellenze di gran valore. Questo vale per le maggiori testate progressiste (Il Corriere della Sera, L’Espresso, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano), ma anche per le testate liberali (Panorama, Oggi, Il Giornale, Libero Quotidiano). In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci, questi eccelsi giornalisti, attraverso le loro coraggiose inchieste, sono fonte di prova incontestabile per raccontare l’Italia vera, ma sconosciuta. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia. Tramite loro, citando gli stessi e le loro inchieste scottanti, Antonio Giangrande ha raccolto in venti anni tutto quanto era utile per dimostrare che la mafia vien dall’alto. Pochi lupi e tante pecore. Una selezione di nomi e fatti articolati per argomento e per territorio. L’intento di Giangrande è rappresentare la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui il Giangrande è il massimo cultore. Questa è la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti da Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. In occasione delle festività ed in concomitanza con le nuove elezioni legislative sarebbe cosa buona e utile presentare ai lettori una lettura alternativa che possa rendere più consapevole l’opinione dei cittadini. Un’idea regalo gratuita o con modica spesa, sicuramente gradita da chi la riceve. Non è pubblicità gratuita che si cerca per fini economici, né tanto meno è concorrenza sleale. Si chiede solo di divulgare la conoscenza di opere che già sul web sono conosciutissime e che possono anche esser lette gratuitamente. Evento editoriale esclusivo ed aggiornato periodicamente. Di sicuro interesse generale. Fa niente se dietro non ci sono grandi o piccoli gruppi editoriali. Ciò è garanzia di libertà.
Grazie per l’adesione e la partecipazione oltre che per la solidarietà.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
Politica, giustizia ed informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.
Da scrittore navigato, il cui sacco di 50 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in stampo elettorale.
In Italia dove non c’è libertà di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si indossa l’abito bianco.
I nuovi politici non si presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti virtù, come verginelle illibate.
Ci si atteggia a migliore dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.
L’Italietta è incurante del fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.
L’Italietta che non batte ciglio quando a Bari Massimo D’Alema in modo lecito esce pulito da un’inchiesta penale. Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine «anticipata» proprio da D’Alema.
L’Italietta non si scandalizza del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno traditi in vita, causandone la morte.
L’Italietta non si sconvolge del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40% dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento, anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la lungaggine dei processi.
L’Italietta che su giornali e tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.
L’Italietta, malgrado ciò, riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza mediatica-giudiziaria.
Fa niente se proprio tutta la stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e tutelare i loro privilegi.
Da ultimo è la perquisizione ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla redazione del tg di Telenorba.
Il re è nudo: c’è qualcuno che lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.
I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo codardi.
E cosa c’è altro da pensare. In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia.
Tutti hanno taciuto "Le mani nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”. Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento significativo”.
Cosa pensare se si è sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai loro colleghi Giudici.
Alla luce di quanto detto, è da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato” Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a dire la verità?
Si badi che a ricever querela basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.
Che giornalisti sono coloro che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede a loro?
E cosa ci si aspetta da questa informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il rappresentante legale?
La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”
Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere.
Magistrati. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla.
Allora io ho deciso: al posto di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette l’abito bianco per apparir pulito.
E facile dire pregiudicato. Parliamo del comportamento degli avvocati. Il caso della condanna di Sallusti. Veniamo al primo grado: l’avvocato di Libero era piuttosto noto perché non presenziava quasi mai alle udienze, preferendo mandarci sempre un sostituto sottopagato, dice Filippo Facci. E qui, il giorno della sentenza, accadde un fatto decisamente singolare. Il giudice, una donna, lesse il dispositivo che condannava Sallusti a pagare circa 5mila euro e Andrea Monticone a pagarne 4000 (più 30mila di risarcimento, che nel caso dei magistrati è sempre altissimo) ma nelle motivazioni della sentenza, depositate tempo dopo, lo stesso giudice si dolse di essersi dimenticato di prevedere una pena detentiva. Un’esagerazione? Si può pensarlo. Tant’è, ormai era andata: sia il querelante sia la Procura sia gli avvocati proposero tuttavia appello (perché in Italia si propone sempre appello, anche quando pare illogico o esagerato) e la sentenza della prima sezione giunse il 17 giugno 2011. E qui accadeva un altro fatto singolare: l’avvocato di Libero tipicamente non si presentò in aula e però neppure il suo sostituto: il quale, nel frattempo, aveva abbandonato lo studio nell’ottobre precedente come del resto la segretaria, entrambi stufi di lavorare praticamente gratis. Fatto sta che all’Appello dovette presenziare un legale d’ufficio – uno che passava di lì, letteralmente – sicché la sentenza cambiò volto: come richiesto dall’accusa, Monticone si beccò un anno con la condizionale e Sallusti si beccò un anno e due mesi senza un accidente di condizionale, e perché? Perché aveva dei precedenti per l’omesso controllo legato alla diffamazione. Il giudice d’Appello, in pratica, recuperò la detenzione che il giudice di primo grado aveva dimenticato di scrivere nel dispositivo.
Ma anche il Tribuno Marco Travaglio è stato vittima degli avvocati. Su Wikipedia si legge che nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio ha definito Previti «un indagato» su “L’Indipendente”. Previti era effettivamente indagato ma a causa dell'impossibilità da parte dell' avvocato del giornale di presentare le prove in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire. Comunque lui stesso a “Servizio Pubblico” ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.
Ma chi e quando le cose cambieranno?
Per fare politica in Italia le strade sono poche, specialmente se hai qualcosa da dire e proponi soluzioni ai problemi generali. La prima è cominciare a partecipare a movimenti studenteschi fra le aule universitarie, mettersi su le stellette di qualche occupazione e poi prendere la tessera di un partito. Se di sinistra è meglio. Poi c'è la strada della partecipazione politica con tesseramento magari sfruttando una professione che ti metta in contatto con molti probabili elettori: favoriti sono gli avvocati, i medici di base ed i giornalisti. C'è una terza via che sempre più prende piede. Fai il magistrato. Se puoi occupati di qualche inchiesta che abbia come bersaglio un soggetto politico, specie del centro destra, perché gli amici a sinistra non si toccano. Comunque non ti impegnare troppo. Va bene anche un'archiviazione. Poi togli la toga e punta al Palazzo. Quello che interessa a sinistra è registrare questo movimento arancione con attacco a tre punte: De Magistris sulla fascia, Di Pietro in regia e al centro il nuovo bomber Antonio Ingroia. Se è un partito dei magistrati e per la corporazione dei magistrati. Loro "ci stanno".
Rivoluzione Civile è una formazione improvvisata le cui figure principali di riferimento sono tre magistrati: De Magistris, Di Pietro e Ingroia. Dietro le loro spalle si rifugiano i piccoli partiti di Ferrero, Diliberto e Bonelli in cerca di presenza parlamentare. E poi, ci mancherebbe, con loro molte ottime persone di sinistra critica all’insegna della purezza. Solo che la loro severità rivolta in special modo al Partito Democratico, deve per forza accettare un’eccezione: Antonio Di Pietro. La rivelazione dei metodi disinvolti con cui venivano gestiti i fondi dell’Italia dei Valori, e dell’uso personale che l’ex giudice fece di un’eredità cospicua donata a lui non certo per godersela, lo hanno costretto a ritirarsi dalla prima fila. L’Italia dei Valori non si presenta più da sola, non per generosità ma perchè andrebbe incontro a una sconfitta certa. Il suo leader però viene ricandidato da Ingroia senza troppi interrogativi sulla sua presentabilità politica. “Il Fatto”, solitamente molto severo, non ha avuto niente da obiettare sul Di Pietro ricandidato alla chetichella. Forse perchè non era più alleato di Bersani e Vendola? Si chiede Gad Lerner.
Faceva una certa impressione nei tg ascoltare Nichi Vendola (che, secondo Marco Ventura su “Panorama”, la magistratura ha salvato dalle accuse di avere imposto un primario di sua fiducia in un concorso riaperto apposta e di essere coinvolto nel malaffare della sanità in Puglia) dire che mentre le liste del Pd-Sel hanno un certo profumo, quelle del Pdl profumano “di camorra”. E che dire di Ingroia e il suo doppiopesismo: moralmente ed eticamente intransigente con gli altri, indulgente con se stesso. Il candidato Ingroia, leader rivoluzionario, da pm faceva domande e i malcapitati dovevano rispondere. Poi a rispondere, come candidato premier, tocca a lui. E lui le domande proprio non le sopporta, come ha dimostrato nella trasmissione condotta su Raitre da Lucia Annunziata. Tanto da non dimettersi dalla magistratura, da candidarsi anche dove non può essere eletto per legge (Sicilia), da sostenere i No Tav ed avere come alleato l'inventore della Tav (Di Pietro), da criticare la legge elettorale, ma utilizzarla per piazzare candidati protetti a destra e a manca. L'elenco sarebbe lungo, spiega Alessandro Sallusti. Macchè "rivoluzione" Ingroia le sue liste le fa col manuale Cencelli. L'ex pm e i partiti alleati si spartiscono i posti sicuri a Camera e Senato, in barba alle indicazioni delle assemblee territoriali. Così, in Lombardia, il primo lombardo è al nono posto. Sono tanti i siciliani che corrono alle prossime elezioni politiche in un seggio lontano dall’isola. C’è Antonio Ingroia capolista di Rivoluzione Civile un po' dappertutto. E poi ci sono molti "paracadutati" che hanno ottenuto un posto blindato lontano dalla Sicilia. Pietro Grasso, ad esempio, è capolista del Pd nel Lazio: "Non mi candido in Sicilia per una scelta di opportunità", ha detto, in polemica con Ingroia, che infatti in Sicilia non è eleggibile. In Lombardia per Sel c'è capolista Claudio Fava, giornalista catanese, e non candidato alle ultime elezioni regionali per un pasticcio fatto sulla sua residenza in Sicilia (per fortuna per le elezioni politiche non c'è bisogno di particolare documentazione....). Fabio Giambrone, braccio destro di Orlando, corre anche in Lombardia e in Piemonte. Celeste Costantino, segretaria provinciale di Sel a Palermo è stata candidata, con qualche malumore locale, nella circoscrizione Piemonte 1. Anna Finocchiaro, catanese e con il marito sotto inchiesta è capolista del Pd, in Puglia. Sarà lei in caso di vittoria del Pd la prossima presidente del Senato. Sempre in Puglia alla Camera c'è spazio per Ignazio Messina al quarto posto della lista di Rivoluzione civile. E che dire di Don Gallo che canta la canzone partigiana "Bella Ciao" sull'altare, sventolando un drappo rosso.
"Serve una legge per regolamentare e limitare la discesa in politica dei magistrati, almeno nei distretti dove hanno esercitato le loro funzioni, per evitare che nell'opinione pubblica venga meno la considerazione per i giudici". Lo afferma il presidente della Cassazione, nel suo discorso alla cerimonia di inaugurazione del nuovo anno giudiziario 2013. Per Ernesto Lupo devono essere "gli stessi pm a darsi delle regole nel loro Codice etico". Per la terza e ultima volta - dal momento che andrà in pensione il prossimo maggio - il Primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha illustrato - alla presenza del Presidente della Repubblica e delle alte cariche dello Stato - la «drammatica» situazione della giustizia in Italia non solo per la cronica lentezza dei processi, 128 mila dei quali si sono conclusi nel 2012 con la prescrizione, ma anche per la continua violazione dei diritti umani dei detenuti per la quale è arrivato l’ultimatum dalla Corte Ue. Sebbene abbia apprezzato le riforme del ministro Paola Severino - taglio dei “tribunalini” e riscrittura dei reati contro la pubblica amministrazione - Lupo ha tuttavia sottolineato che l’Italia continua ad essere tra i Paesi più propensi alla corruzione. Pari merito con la Bosnia, e persino dietro a nazioni del terzo mondo. Il Primo presidente ha, poi, chiamato gli stessi magistrati a darsi regole severe per chi scende in politica e a limitarsi, molto, nel ricorso alla custodia in carcere. «È auspicabile - esorta Lupo - che nella perdurante carenza della legge, sia introdotta nel codice etico quella disciplina più rigorosa sulla partecipazione dei magistrati alla vita politica e parlamentare, che in decenni il legislatore non è riuscito ad approvare». Per regole sulle toghe in politica, si sono espressi a favore anche il Procuratore generale della Suprema Corte Gianfranco Ciani, che ha criticato i pm che flirtano con certi media cavalcando le inchieste per poi candidarsi, e il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli. Per il Primo presidente nelle celle ci sono 18.861 detenuti di troppo e bisogna dare più permessi premio. Almeno un quarto dei reclusi è in attesa di condanna definitiva e i giudici devono usare di più le misure alternative.
"Non possiamo andare avanti così - lo aveva già detto il primo presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, nella relazione che ha aperto la cerimonia dell’ inaugurazione dell’ Anno Giudiziario 2009 - In più, oltre a un più rigoroso richiamo dei giudici ai propri doveri di riservatezza, occorrerebbe contestualmente evitare la realizzazione di veri e propri 'processi mediatici', simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre è ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali". "La giustizia - sottolinea Carbone - deve essere trasparente ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria".
Questo per far capire che il problema “Giustizia” sono i magistrati. Nella magistratura sono presenti "sacche di inefficienza e di inettitudine". La denuncia arriva addirittura dal procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, sempre nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009.
Ma è questa la denuncia più forte che viene dall'apertura dell'anno giudiziario 2013 nelle Corti d'Appello: «Non trovo nulla da eccepire sui magistrati che abbandonano la toga per candidarsi alle elezioni politiche - ha detto il presidente della Corte di Appello di Roma Giorgio Santacroce. Ma ha aggiunto una stoccata anche ad alcuni suoi colleghi - Non mi piacciono - ha affermato - i magistrati che non si accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo. Quei magistrati, pochissimi per fortuna, che sono convinti che la spada della giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene. Parlano molto di sè e del loro operato anche fuori dalle aule giudiziarie, esponendosi mediaticamente, senza rendersi conto che per dimostrare quell' imparzialità che è la sola nostra divisa, non bastano frasi ad effetto, intrise di una retorica all'acqua di rose. Certe debolezze non rendono affatto il magistrato più umano. I magistrati che si candidano esercitano un diritto costituzionalmente garantito a tutti i cittadini, ma Piero Calamandrei diceva che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra».
Dove non arrivano a fare le loro leggi per tutelare prerogative e privilegi della casta, alcuni magistrati, quando non gli garba il rispetto e l’applicazione della legge, così come gli è dovuto e così come hanno giurato, disapplicano quella votata da altri. Esempio lampante è Taranto. I magistrati contestano la legge, anziché applicarla, a scapito di migliaia di lavoratori. Lo strapotere e lo straparlare dei magistrati si incarna in alcuni esempi. «Ringrazio il Presidente della Repubblica, come cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il quale inconsciamente marciavamo». Sono le parole con le quali il presidente della Corte d'appello, Mario Buffa, ha aperto, riferendosi alla caduta del Governo Berlusconi, la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012 nell'aula magna del palazzo di giustizia di Lecce. «Per fortuna il vento sembra essere cambiato – ha proseguito Buffa: la nuova ministra non consuma le sue energie in tentativi di delegittimare la magistratura, creando intralci alla sua azione». Ma il connubio dura poco. L’anno successivo, nel 2013, ad aprire la cerimonia di inaugurazione è stata ancora la relazione del presidente della Corte d’appello di Lecce, Mario Buffa. Esprimendosi sull’Ilva di Taranto ha dichiarato che “il Governo ha fatto sull’Ilva una legge ad aziendam, che si colloca nella scia delle leggi ad personam inaugurata in Italia negli ultimi venti anni, una legge che riconsegna lo stabilimento a coloro che fingevano di rispettare le regole di giorno e continuavano a inquinare di notte”. Alla faccia dell’imparzialità. Giudizi senza appello e senza processo. Non serve ai magistrati candidarsi in Parlamento. La Politica, in virtù del loro strapotere, anche mediatico, la fanno anche dai banchi dei tribunali. Si vuole un esempio? "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Ed allora “stronzi” chi li sta a sentire.
«L'unica spiegazione che posso dare è che ho detto sempre quello che pensavo anche affrontando critiche, criticando a mia volta la magistratura associata e gli alti vertici della magistratura. E' successo anche ad altri più importanti e autorevoli magistrati, a cominciare da Giovanni Falcone. Forse non è un caso - ha concluso Ingroia - che quando iniziò la sua attività di collaborazione con la politica le critiche peggiori giunsero dalla magistratura. E' un copione che si ripete». «Come ha potuto Antonio Ingroia paragonare la sua piccola figura di magistrato a quella di Giovanni Falcone? Tra loro esiste una distanza misurabile in milioni di anni luce. Si vergogni». È il commento del procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, ai microfoni del TgLa7 condotto da Enrico Mentana contro l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, ora leader di Rivoluzione civile. Non si è fatta attendere la replica dell'ex procuratore aggiunto di Palermo che dagli schermi di Ballarò respinge le accuse della sua ex collega: «Probabilmente non ha letto le mie parole, s'informi meglio. Io non mi sono mai paragonato a Falcone, ci mancherebbe. Denunciavo soltanto una certa reazione stizzita all'ingresso dei magistrati in politica, di cui fu vittima anche Giovanni quando collaborò con il ministro Martelli. Forse basterebbe leggere il mio intervento» E poi. «Ho atteso finora una smentita, invano. Siccome non è arrivata dico che l'unica a doversi vergognare è lei che, ancora in magistratura, prende parte in modo così indecente e astioso alla competizione politica manipolando le mie dichiarazioni. La prossima volta pensi e conti fino a tre prima di aprire bocca. Quanto ai suoi personali giudizi su di me, non mi interessano e alle sue piccinerie siamo abituati da anni. Mi basta sapere cosa pensava di me Paolo Borsellino e cosa pensava di lei. Ogni parola in più sarebbe di troppo». «Sì, è vero. È stato fatto un uso politico delle intercettazioni, ma questo è stato l’effetto relativo, la causa è che non si è mai fatta pulizia nel mondo della politica». Un'ammissione in piena regola fatta negli studi di La7 dall'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Che sostanzialmente ha ammesso l'esistenza (per non dire l'appartenenza) di toghe politicizzate. Il leader di Rivoluzione civile ha spiegato meglio il suo pensiero: «Se fosse stata pulizia, non ci sarebbero state inchieste così clamorose e non ci sarebbe state intercettazioni utilizzate per uso politico». L’ex pm ha poi affermato che «ogni magistrato ha un suo tasso di politicità nel modo in cui interpreta il suo ruolo. Si può interpretare la legge in modo più o meno estensiva, più o meno garantista altrimenti non si spiegherebbero tante oscillazione dei giudici nelle decisioni. Ogni giudice dovrebbe essere imparziale rispetto alle parti, il che non significa essere neutrale rispetto ai valori o agli ideali, c’è e c’è sempre stata una magistratura conservatrice e una progressista». Guai a utilizzare il termine toga rossa però, perché "mi offendo, per il significato deteriore che questo termine ha avuto", ha aggiunto Ingroia. Dice dunque Ingroia, neoleader dell'arancia meccanica: «Piero Grasso divenne procuratore nazionale perché scelto da Berlusconi grazie a una legge ad hoc che escludeva Gian Carlo Caselli». Come se non bastasse, Ingroia carica ancora, come in un duello nella polvere del West: «Grasso è il collega che voleva dare un premio, una medaglia al governo Berlusconi per i suoi meriti nella lotta alla mafia». Ma poi, già che c'è, Caselli regola i conti anche con Grasso: «È un fatto storico che ai tempi del concorso per nominare il successore di Vigna le regole vennero modificate in corso d'opera dall'allora maggioranza con il risultato di escludermi. Ed è un fatto che questo concorso lo vinse Grasso e che la legge che mi impedì di parteciparvi fu dichiarata incostituzionale». Dunque, la regola aurea è sempre quella. I pm dopo aver bacchettato la società tutta, ora si bacchettano fra di loro, rievocano pagine più o meno oscure, si contraddicono con metodo, si azzannano con ferocia. E così i guardiani della legalità, le lame scintillanti della legge si graffiano, si tirano i capelli e recuperano episodi sottovuoto, dissigillando giudizi rancorosi. Uno spettacolo avvilente. Ed ancora a sfatare il mito dei magistrati onnipotenti ci pensano loro stessi, ridimensionandosi a semplici uomini, quali sono, tendenti all’errore, sempre impunito però. A ciò serve la polemica tra le Procure che indagano su Mps. «In certi uffici di procura "sembra che la regola della competenza territoriale sia un optional. C'è stata una gara tra diversi uffici giudiziari, ma sembra che la new entry abbia acquisito una posizione di primato irraggiungibile». Nel suo intervento al congresso di Magistratura democratica del 2 febbraio 2013 il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati ha alluso criticamente, pur senza citarla direttamente, alla procura di Trani, l'ultima ad aprire, tra le tante inchieste aperte, un'indagine su Mps. «No al protagonismo di certi magistrati che si propongono come tutori del Vero e del Giusto magari con qualche strappo alle regole processuali e alle garanzie, si intende a fin di Bene». A censurare il fenomeno il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nel suo intervento al congresso di Md. Il procuratore di Milano ha puntato l'indice contro il "populismo" e la "demagogia" di certi magistrati, che peraltro - ha osservato - "non sanno resistere al fascino" dell'esposizione mediatica. Di tutto quanto lungamente ed analiticamente detto bisogna tenerne conto nel momento in cui si deve dare un giudizio su indagini, processi e condanne. Perché mai nulla è come appare ed i magistrati non sono quegli infallibili personaggi venuti dallo spazio, ma solo uomini che hanno vinto un concorso pubblico, come può essere quello italiano. E tenendo conto di ciò, il legislatore ha previsto più gradi di giudizio per il sindacato del sottoposto.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
La Repubblica delle manette (e degli orrori giudiziari). Augusto Minzolini, già direttore del Tg1, è stato assolto ieri dall'accusa di avere usato in modo improprio la carta di credito aziendale. Tutto bene? Per niente, risponde scrive Alessandro Sallusti. Perché quell'accusa di avere mangiato e viaggiato a sbafo (lo zelante Pm aveva chiesto due anni di carcere) gli è costata il posto di direttore oltre che un anno e mezzo di linciaggio mediatico da parte di colleghi che, pur essendo molto esperti di rimborsi spese furbetti, avevano emesso una condanna definitiva dando per buono il teorema del Pm (suggerito da Antonio Di Pietro, guarda caso). Minzolini avrà modo di rifarsi in sede civile, ma non tutti i danni sono risarcibili in euro, quando si toccano la dignità e la credibilità di un uomo. Fa rabbia che non il Pm, non la Rai, non i colleghi infangatori e infamatori sentano il bisogno di chiedere scusa. È disarmante che questo popolo di giustizialisti non debba pagare per i propri errori. Che sono tanti e si annidano anche dentro l'ondata di manette fatte scattare nelle ultime ore: il finanziere Proto, l'imprenditore Cellino, il manager del Montepaschi Baldassarri. Storie diverse e tra i malcapitati c'è anche Angelo Rizzoli, l'erede del fondatore del gruppo editoriale, anziano e molto malato anche per avere subito un calvario giudiziario che gli ha bruciato un terzo dell'esistenza: 27 anni per vedersi riconosciuta l'innocenza da accuse su vicende finanziarie degli anni Ottanta. L'uso spregiudicato della giustizia distrugge le persone, ma anche il Paese. Uno per tutti: il caso Finmeccanica, che pare creato apposta per oscurare la vicenda Montepaschi, molto scomoda alla sinistra. Solo la magistratura italiana si permette di trattare come se fosse una tangente da furbetti del quartierino il corrispettivo di una mediazione per un affare internazionale da centinaia di milioni di euro. Cosa dovrebbe fare la più importante azienda di alta tecnologia italiana (70mila dipendenti iper qualificati, i famosi cervelli) in concorrenza con colossi mondiali, grandi quanto spregiudicati? E se fra due anni, come accaduto in piccolo a Minzolini, si scopre che non c'è stato reato, chi ripagherà i miliardi in commesse persi a favore di aziende francesi e tedesche? Non c'entra «l'elogio della tangente» che ieri il solito Bersani ha messo in bocca a Berlusconi, che si è invece limitato a dire come stanno le cose nel complicato mondo dei grandi affari internazionali. Attenzione, che l'Italia delle manette non diventi l'Italia degli errori e orrori.
Un tempo era giustizialista. Ora invece ha cambiato idea. Magari si avvicinano le elezioni e Beppe Grillo comincia ad avere paura anche lui. Magari per i suoi. Le toghe quando agiscono non guardano in faccia nessuno. E così anche Beppe se la prende con i magistrati: "La legge protegge i delinquenti e manda in galera gli innocenti", afferma dal palco di Ivrea. Un duro attacco alla magistratura da parte del comico genovese, che afferma: "Questa magistratura fa paura. Io che sono un comico ho più di ottanta processi e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 in meno, e poi va in televisione a lamentarsi". Il leader del Movimento Cinque Stelle solo qualche tempo fa chiedeva il carcere immediato per il crack Parmalat e anche oggi per lo scandalo di Mps. Garantista part-time - Beppe ora si scopre garantista. Eppure per lui la presunzione di innocenza non è mai esistita. Dai suoi palchi ha sempre emesso condanne prima che finissero le istruttorie. Ma sull'attacco alle toghe, Grillo non sembra così lontano dal Cav. Anche se in passato, il leader Cinque Stelle non ha mai perso l'occasione per criticare Berlusconi e le sue idee su una riforma della magistratura. E sul record di processi Berlusconi, ospite di Sky Tg24, ha precisato: "Grillo non è informato. Io ho un record assoluto di 2700 udienze. I procedimenti contro di me più di cento, credo nessuno possa battere un record del genere".
"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, arrivano all'apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”.
Pubblichiamo ampi stralci dell'intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati L'ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa). Livadiotti è anche l'autore di un libro sugli sprechi dei sindacati, dal titolo L'altra casta.
La giustizia italiana non funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati-L'ultracasta. «È evidente che Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d'interessi in materia, che ne delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata all'epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta».
Dunque niente meritocrazia, niente efficienza in tribunale?
«L'attuale normativa prevede che dopo 27 anni dall'aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa 9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all'apice dell'inquadramento. E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore del Corriere della Sera o di Repubblica».
E come si spiega?
«Non si spiega. Io stesso quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno carriera automaticamente, solo sulla base dell'anzianità di servizio. E di esami che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state fatte, dopo l'ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle quali riferita a un giudice già in pensione!».
Tutto questo indipendentemente dagli incarichi?
«Dagli incarichi e dalle sedi. E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi dell'Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti italiani».
Quasi sempre i magistrati addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia.
«Macché, il rapporto Cepej dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali, avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all'anno (dato 2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più».
Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari?
«Assolutamente no, di fatto. Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi lo dimostrano».
Quali dati?
«Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c'è il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 - un dato che fa impressione - sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura 5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%; quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm».
Ma poi ci saranno state delle sanzioni, o no?
«Negli ultimi 5 anni, tra il 2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali i magistrati destituiti sono stati... nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il 2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in servizio».
Ma c'è anche una legge sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito!
«In teoria sì, è la legge 117 dell'88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati».
E com'è andata, questa legge?
«Nell'arco 23 anni, sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità, 34, ovvero l'8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise: lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato insomma accolto appena l'1 per cento delle pochissime domande di risarcimento».
Cioè non si sa quanto lavorano e guadagnano?
«Risulta che da un magistrato ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all'anno, che diviso per 365 vuol dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso, perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno di lavoro effettivo».
TRALASCIANDO L’ABILITAZIONE UNTA DAI VIZI ITALICI, A FRONTE DI TUTTO QUESTO CI RITROVIAMO CON 5 MILIONI DI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.
MAGISTRATI CHE SONO MANTENUTI DAI CITTADINI E CHE SPUTANO NEL PIATTO IN CUI MANGIANO.
Chi frequenta assiduamente le aule dei tribunali, da spettatore o da attore, sa benissimo che sono luogo di spergiuro e di diffamazioni continue da parte dei magistrati e degli avvocati. Certo è che sono atteggiamenti impuniti perché i protagonisti non possono punire se stessi. Quante volte le requisitorie dei Pubblici Ministeri e le arringhe degli avvocati di parte civile hanno fatto carne da macello della dignità delle persone imputate, presunte innocenti in quella fase processuale e, per lo più, divenuti tali nel proseguo. I manettari ed i forcaioli saranno convinti che questa sia un regola aurea per affermare la legalità. Poco comprensibile e giustificabile è invece la sorte destinata alle vittime, spesso trattate peggio dei delinquenti sotto processo.
Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini - ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».
Fino a prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel processo.
La ciliegina sulla torta, alla requisitoria, è quella delle 14.10 circa del 31 maggio 2013, quando Antonio Sangermano era sul punto d'incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto impallidire quella della Boccassini su Ruby: "Non si può considerare la Tumini un cavallo di ....", ha detto di Melania Tumini, la principale teste dell'accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica parola.
Ancora come esempio riferito ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi.
“Vi annuncio che da oggi pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni,…….oltre che essere maleducato, scorbutico, arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri durante la perquisizione, la notte dell’arresto”.
A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla cattura avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la storia sanitaria di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto".
Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati.
“Il carcere uno stupro. Ora voglio la verità”, dice Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, ad Ivan Zazzaroni. «Voglio conoscere la vera ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito “uno stupro”. Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. - Ricorda: riordina. - La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? “Se parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori”, ripeteva. E poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si può finire in carcere per arroganza». Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente del Cagliari. «Non odio nessuno (lo ripete più volte). Ma ho provato vergogna. Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello. E le intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata: solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di scrivere o dire come stanno realmente le cose. Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre stato!»
VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO E TUTTO CIO' NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL'OPERATO DELLA MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA' IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.
D'altronde di italiani si tratta: dicono una cosa ed un’altra ne fanno. Per esempio, rimanendo in ambito sportivo in tema di legalità, è da rimarcare come la parola di un altoatesino vale di più di quella di un napoletano. Almeno secondo Alex Schwazer, atleta nato in quel di Vipiteno il 26 dicembre 1984, trovato positivo al test antidoping prima delle Olimpiadi di Londra 2012. Era il 28 giugno 2012. Due giorni dopo, un test a sorpresa della Wada, l'agenzia mondiale antidoping, avrebbe rivelato la sua positività all'assunzione dell'Epo. «Posso giurare che non ho fatto niente di proibito – scriveva Schwazer, il 28 giugno 2012, al medico della Fidal Pierluigi Fiorella – ti ho dato la mia parola e non ti deluderò. Sono altoatesino, non sono napoletano». Due giorni dopo, il 30 giugno, l'atleta viene trovato positivo all'Epo. Ma l'insieme della contraddizioni (a voler essere gentili) non finisce qui. Nella sua confessione pubblica dell'8 agosto 2012, Schwazer ammise di aver assunto Epo a causa di un cedimento psicologico. Era un brutto periodo, e qualcosa bisognava pur fare. Ma le indagini dei Ros di Trento e dei Nas di Firenze contraddicono la versione dell'assunzione momentanea. I carabinieri, addirittura, parlano di “profilo ematologico personale”, un'assunzione continua e costante di sostanze dopanti per la quale non è escluso che Schwazer facesse utilizzo di Epo anche durante i giochi di Pechino 2008. Competizione, lo ricordiamo, dove l'atleta di Vipiteno, vinse l'oro alla marcia di 50 chilometri. Infatti, questo si evince anche nel decreto di perquisizione della Procura di Bolzano. “La polizia giudiziaria giunge pertanto a ritenere che non possa escludersi che Schwazer Alex, già durante la preparazione per i Giochi Olimpici di Pechino 2008 (e forse ancor prima), sia stato sottoposto a trattamenti farmacologici o a manipolazioni fisiologiche capaci di innalzare considerevolmente i suoi valori ematici.” Insomma: Schwazer non solo offende i napoletani e di riporto tutti i meridionali, incluso me, ma poi, come un fesso, si fa cogliere pure con le mani nel sacco. E dire che, oltretutto, è la parola di un carabiniere, qual è Alex Schwazer.
L'Italia è un Paese fondato sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé stessi). In un libro, "Io ti fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate in Rete a quelle più antiche e consolidate. In Italia, fottere l'altro - una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto, "lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.
E fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica. L'armistizio di Cassabile in Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8 settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell' Eiar. In quei frangenti vi fu grande confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.
La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza.. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.
Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.
Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012. Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000.
E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto. Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto, di seguito brevemente tratteggiati. Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La Germania è stata protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in questi casi, i vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in primis alla Germania stessa. Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale, talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche della pace, fu uno dei principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la sua applicazione avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di avviare un percorso di rinascita post-bellica. Così effettivamente accadde, poiché la Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli anni '20 (in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui esito minò la capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania negli anni '20 giunse a essere considerata come «sinonimo di default». Arrivò così il 1932, anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra, secondo gli studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del 1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il debito (per usare un eufemismo). I marchi risparmiati furono destinati ad avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi. A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. In quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o «wirtschaftswunder»). Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di default, non solo il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). Il risultato ottenuto dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero notevole:
1) l'esposizione debitoria fu ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!
2) la durata del debito fu estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;
3) le somme corrisposte annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali trasferimenti internazionali.
Sempre secondo gli accordi del '53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del 1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile. Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un «istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.
Non solo. Un altro luogo comune viene sfatato ed abbattuto. La Germania di Angela Merkel è il paese che ha l'economia sommersa più grande d'Europa in termini assoluti. L'economia in nero teutonica vale 350 miliardi di euro. Sono circa otto milioni i cittadini tedeschi che vivono lavorando in nero. Secondo gli esperti il dato è figlio dell'ostilità dei tedeschi ai metodi di pagamento elettronici. I crucchi preferiscono i contanti. La grandezza dell'economia in nero della Germania è stata stimata e calcolata dal colosso delle carte di credito e dei circuiti di pagamento Visa in collaborazione con l'università di Linz. In relazione al Pil tedesco il nero sarebbe al 13 per cento, pari a un sesto della ricchezza nazionale. Quindi in termini relativi il peso del sommerso è minore, ma per volume e in termini assoluti resta la più grande d'Europa. Chi lavora in nero in Germania di solito opera nel commercio e soprattutto nell'edilizia, poi c'è il commercio al dettaglio e infine la gastronomia. Il livello del nero in Germania comunque si è stabilizzato. Il picco è arrivato dieci anni fa. Nel 2003 la Germania ha attraversato la peggiore stagnazione economica degli ultimi vent'anni e all'epoca il nero valeva 370 miliardi. Ora con l'economia in ripresa che fa da locomotiva per l'Europa, il nero è fermo al 13 per cento del Pil.
Tornando alla repubblica delle manette ci si chiede. Come può, chi indossa una toga, sentirsi un padreterno, specie se, come è noto a tutti, quella toga non rispecchia alcun meritocrazia? D’altronde di magistrati ve ne sono più di 10 mila a regime, cosi come gli avvocati sono intorno ai 150 mila in servizio effettivo.
Eppure nella mia vita non ho mai trovato sulla mia strada una toga degna di rispetto, mentre invece, per loro il rispetto si pretende. A me basta ed avanza essere Antonio Giangrande, senza eguali per quello che scrive e dice. Pavido nell’affrontare una ciurma togata pronta a fargli la pelle, mal riuscendoci questi, però, a tacitarlo sulle verità a loro scomode.
Si chiedeva Sant’Agostino (354-430): «Eliminata la giustizia, che cosa sono i regni se non bande di briganti? E cosa sono le bande di briganti se non piccoli regni?». Secondo il Vescovo di Ippona è la giustizia il principale, per non dire l’unico, argine contro la voracità dei potenti.
Da quando è nato l’uomo, la libertà e la giustizia sono gli unici due strumenti a disposizione della gente comune per contrastare la condizione di sudditanza in cui tendono a relegarla i detentori del potere. Anche un bambino comprende che il potere assoluto equivale a corruzione assoluta.
Certo. Oggi nessuno parlerebbe o straparlerebbe di assolutismo. I tempi del Re Sole sembrano più lontani di Marte. Ma, a differenza della scienza e delle tecnologie, l’arte del governo è l’unica disciplina in cui non si riscontrano progressi. Per dirla con lo storico Tacito (55-117 d. C.), la sete di potere è la più scandalosa delle passioni. E come si manifesta questa passione scandalosa? Con l’inflazione di spazi, compiti e competenze delle classi dirigenti. Detto in termini aggiornati: elevando il tasso di statalismo presente nella nostra società.
Friedrich Engels (1820-1895) tutto era tranne che un liberale, ma, da primo marxista della Storia, scrisse che quando la società viene assorbita dallo Stato, che a suo giudizio è l’insieme della classe dirigente, il suo destino è segnato: trasformarsi in «una macchina per tenere a freno la classe oppressa e sfruttata». Engels ragionava in termini di classe, ma nelle sue parole riecheggiava una palese insofferenza verso il protagonismo dello Stato, che lui identificava con il ceto dirigente borghese, che massacrava la società. Una società libera e giusta è meno corrotta di una società in cui lo Stato comanda in ogni pertugio del suo territorio. Sembra quasi un’ovvietà, visto che la scienza politica lo predica da tempo: lo Stato, per dirla con Sant’Agostino, tende a prevaricare come una banda di briganti. Bisogna placarne gli appetiti.
E così i giacobini e i giustizialisti indicano nel primato delle procure la vera terapia contro il malaffare tra politica ed economia, mentre gli antigiustizialisti accusano i magistrati di straripare con le loro indagini e i loro insabbiamenti fino al punto di trasformarsi essi stessi in elementi corruttivi, dato che spesso le toghe, secondo i critici, agirebbero per fini politici, se non, addirittura, fini devianti, fini massonici e fini mafiosi.
Insomma. Uno Stato efficiente e trasparente si fonda su buone istituzioni, non su buone intenzioni. Se le Istituzioni non cambiano si potranno varare le riforme più ambiziose, dalla giustizia al sistema elettorale; si potranno pure mandare in carcere o a casa tangentisti e chiacchierati, ma il risultato (in termini di maggiore onestà del sistema) sarà pari a zero. Altri corrotti si faranno avanti. La controprova? Gli Stati meno inquinati non sono quelli in cui l’ordinamento giudiziario è organizzato in un modo piuttosto che in un altro, ma quelli in cui le leggi sono poche e chiare, e i cui governanti non entrano pesantemente nelle decisioni e nelle attività che spettano a privati e società civile.
Oggi ci si scontra con una dura realtà. La magistratura di Milano? Un potere separatista. Procure e tribunali in Italia fanno quello che vogliono: basta una toga e arrivederci, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. L’equivoco prosegue da una vita: un sacco di gente pensa che esista una sinergia collaudatissima tra i comportamenti della politica e le decisioni della giustizia, come se da qualche parte ci fosse una camera di compensazione in cui tutti i poteri (politici, giudiziari, burocratici, finanziari) contrattassero l’uno con l’altro e rendessero tutto interdipendente. Molti ragionano ancora come Giorgio Straquadanio sul Fatto: «Questo clima pacifico porta a Berlusconi una marea di benefici, l’aggressione giudiziaria è destinata a finire... c’è da aspettarsi che le randellate travestite da sentenze, così come gli avvisi di garanzie e le inchieste, cessino». Ora: a parte che solo una nazione profondamente arretrata potrebbe funzionare così, questa è la stessa mentalità che ha contribuito al crollo della Prima Repubblica, protesa com’era a trovare il volante «politico» di inchieste che viceversa avevano smesso di averne uno. In troppi, in Italia, non hanno ancora capito che non esiste più niente del genere, se non, in misura fisiologica e moderata, a livello di Quirinale-Consulta-Csm. Ma per il resto procure e tribunali fanno quello che vogliono: basta un singolo magistrato e arrivederci. L’emblema ne resta Milano, dove la separatezza tra giudici e procuratori non ci si preoccupa nemmeno di fingerla: la magistratura, più che separato, è ormai un potere separatista.
Prodigio delle toghe: per lo stesso reato salvano il Pd e non il Pdl. A Bergamo "non luogo a procedere" per un democratico, a Milano invece continua il processo contro Podestà, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”.
Stesso fatto (firme tarocche autenticate), stesso capo d’accusa (falso ideologico), stesso appuntamento elettorale (le Regionali lombarde), stesso anno (il 2010). Eppure a Bergamo un esponente di centrosinistra esce dal processo perché il giudice stabilisce il «non luogo a procedere», mentre a Milano altri politici di centrodestra - tra cui il presidente della Provincia Guido Podestà - restano alla sbarra. Ma andiamo con ordine. Nel febbraio 2010 fervono i preparativi in vista delle elezioni. È sfida tra Roberto Formigoni e Filippo Penati. Matteo Rossi, consigliere provinciale di Bergamo del Pd, è un pubblico ufficiale e quindi può vidimare le sottoscrizioni a sostegno delle varie liste. Ne autentica una novantina in quel di Seriate a sostegno del Partito pensionati, all’epoca alleato del centrosinistra. Peccato che tra gli autografi ne spuntino sette irregolari, tra cui due persone decedute, una nel 2009 e l’altra nel 1992. È il Comune a sollevare dubbi e il caso finisce in Procura. All’udienza preliminare l’avvocato Roberto Bruni, ex sindaco del capoluogo orobico e poi consigliere regionale della lista Ambrosoli, invoca la prescrizione. Lo fa appellandosi a una riforma legislativa e il giudice gli dà ragione. È successo che Bruni, tra i penalisti più stimati della città, ha scandagliato il testo unico delle leggi sulle elezioni. Testo che in sostanza indica in tre anni il tempo massimo per procedere ed emettere la sentenza. Parliamo di una faccenda da Azzeccagarbugli, anche perché un recente pronunciamento della Cassazione conferma sì il limite di tre anni per arrivarne a una, ma solo se la denuncia è partita dai cittadini. Mentre nel caso di Rossi tutto è scattato per un intervento del Comune di Seriate. Fatto sta che a Milano c’è un altro processo con lo stesso capo d’imputazione e che riguarda la lista Formigoni. Nessuno, finora, ha sollevato la questione della prescrizione ma in questi giorni la decisione del giudice orobico ha incuriosito non poco gli avvocati Gaetano Pecorella e Maria Battaglini, dello stesso studio dell’ex parlamentare del Pdl. Vogliono capire com’è andata la faccenda di Rossi, così da decidere eventuali strategie a difesa dei loro assistiti, tra cui spicca Podestà. Nel suo caso, le sottoscrizioni fasulle sarebbero 770, raccolte in tutta la Lombardia: nell’udienza il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il pm Antonio D’Alessio hanno indicato come testimoni 642 persone che, sentite dai carabinieri nel corso dell’inchiesta, avevano affermato che quelle firme a sostegno del listino di Formigoni, apposte con il loro nome, erano false. Tra i testi ammessi figura anche l’allora responsabile della raccolta firme del Pdl, Clotilde Strada, che ha già patteggiato 18 mesi. A processo, oltre a Podestà, ci sono quattro ex consiglieri provinciali del Popolo della Libertà milanese: Massimo Turci, Nicolò Mardegan, Barbara Calzavara e Marco Martino. Tutti per falso ideologico, come Rossi, e tutti per firme raccolte tra gennaio e febbraio del 2010. All’ombra della Madonnina il processo era scattato per una segnalazione dei Radicali, in qualità di semplici cittadini. Non è detto che il destino del democratico Rossi coinciderà con quello degli imputati azzurri di Milano. Strano ma vero.
Certo c’è da storcere il naso nel constatare che non di democrazia si parla (POTERE DEL POPOLO) ma di magistocrazia (POTERE DEI MAGISTRATI).
Detto questo parliamo del Legittimo Impedimento. Nel diritto processuale penale italiano, il legittimo impedimento è l'istituto che permette all'imputato, in alcuni casi, di giustificare la propria assenza in aula. In questo caso l’udienza si rinvia nel rispetto del giusto processo e del diritto di difesa. In caso di assenza ingiustificata bisogna distinguere se si tratta della prima udienza o di una successiva. Nel caso di assenza in luogo della prima udienza il giudice, effettuate le operazioni riguardanti gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti (di cui al 2° comma dell'art. 420), in caso di assenza non volontaria dell'imputato se ne dichiara la condizione di contumacia e il procedimento non subisce interruzioni. Se invece l'assenza riguarda una udienza successiva alla prima ed in quella l'imputato non è stato dichiarato contumace, questi è dichiarato semplicemente assente. E ancora, se nell'udienza successiva alla prima alla quale l'imputato non ha partecipato (per causa maggiore, caso fortuito o forza maggiore) questi può essere ora dichiarato contumace.
''L'indipendenza, l'imparzialità, l'equilibrio dell'amministrazione della giustizia sono più che mai indispensabili in un contesto di persistenti tensioni e difficili equilibri sia sul piano politico che istituzionale''. Lo afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’11 giugno 2013 al Quirinale ricevendo i neo giudici al Quirinale e, come se sentisse puzza nell’aria, invita al rispetto della Consulta. Tre ''tratti distintivi'' della magistratura, ha sottolineato il capo dello Stato, ricevendo al Quirinale i 343 magistrati ordinari in tirocinio, che rappresentano ''un costume da acquisire interiormente, quasi al pari di una seconda natura''. Napolitano ha chiesto poi rispetto verso la Consulta: serve "leale collaborazione, oltre che di riconoscimento verso il giudice delle leggi, ossia la Corte Costituzionale, chiamata ad arbitrare anche il conflitto tra poteri dello Stato''. E dopo aver fatto osservare che sarebbe ''inammissibile e scandaloso rimettere in discussione la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, per ciechi particolarismi anche politici'', Napolitano parlando del Consiglio superiore della magistratura ha detto che ''non è un organo di mera autodifesa, bensì un organo di autogoverno, che concorre alle riforme obiettivamente necessarie'' della giustizia.
D’altronde il Presidente della Repubblica in quanto capo dei giudici, non poteva dire altrimenti cosa diversa.
Eppure la corte Costituzionale non si è smentita.
Per quanto riguarda il Legittimo Impedimento attribuibile a Silvio Berlusconi, nelle funzioni di Presidente del Consiglio impegnato in una seduta dello stesso Consiglio dei Ministri, puntuale, atteso, aspettato, è piovuto il 19 giugno 2013 il "no" al legittimo impedimento. La Corte Costituzionale, nel caso Mediaset, si schiera contro Silvio Berlusconi. Per le toghe l'ex premier doveva partecipare all'udienza e non al CDM. È stato corretto l'operato dei giudici di Milano nel processo “Mediaset” quando, il primo marzo del 2010, non hanno concesso il legittimo impedimento a comparire in udienza all'allora premier e imputato di frode fiscale Silvio Berlusconi. A deciderlo, nel conflitto di attribuzioni sollevato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in dissidio con i togati milanesi, è stata la Corte Costituzionale che ha ritenuto che l'assenza dall'udienza non sia stata supportata da alcuna giustificazione relativa alla convocazione di un Cdm fuori programma rispetto al calendario concordato in precedenza.
"Incredibile" - In una nota congiunta i ministri PDL del governo Letta, Angelino Alfano, Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi, Nunzia De Girolamo e Beatrice Lorenzin, commentano: "E' una decisione incredibile. Siamo allibiti, amareggiati e profondamente preoccupati. La decisione - aggiungono - travolge ogni principio di leale collaborazione e sancisce la subalternità della politica all'ordine giudiziario". Uniti anche tutti i deputati azzurri, che al termine della seduta della Camera, hanno fatto sapere in un comunicato, "si sono riuniti e hanno telefonato al presidente Berlusconi per esprimere la loro profonda indignazione e preoccupazione per la vergognosa decisione della Consulta che mina gravemente la leale collaborazione tra gli organi dello Stato e il corretto svolgimento dell’esercizio democratico". Al Cavaliere, si legge, "i deputati hanno confermato che non sarà certo una sentenza giudiziaria a decretare la sua espulsione dalla vita politica ed istituzionale del nostro Paese, e gli hanno manifestato tutta la loro vicinanza e il loro affetto". "Siamo infatti all’assurdo di una Corte costituzionale che non ritiene legittimo impedimento la partecipazione di un presidente del Consiglio al Consiglio dei ministri", prosegue il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta, "Dinanzi all’assurdo, che documenta la resa pressoché universale delle istituzioni davanti allo strapotere dell’ingiustizia in toga, la tentazione sarebbe quella di chiedere al popolo sovrano di esprimersi e di far giustizia con il voto". Occorre – dice – una riforma del sistema per limitare gli abusi e una nuova regolazione dei poteri dell’ordine giudiziario che non è un potere ma un ordine in quanto la magistratura non è eletta dal popolo. ''A mente fredda e senza alcuna emozione il giudizio sulla sentenza è più chiaro e netto che mai. Primo: la sentenza è un'offesa al buon senso, tanto varrebbe dichiarare l'inesistenza del legittimo impedimento a prescindere, qualora ci sia di mezzo Silvio Berlusconi. Secondo: la Consulta sancisce che la magistratura può agire in quanto potere assoluto come princeps legibus solutus. Terzo: la risposta di Berlusconi e del Pdl con lui è di netta separazione tra le proteste contro l'ingiustizia e leale sostegno al governo Letta. Quarto: non rinunceremo in nessun caso a far valere in ogni sede i diritti politici del popolo di centrodestra e del suo leader, a cui vanno da parte mia solidarietà e ammirazione. Quinto: credo che tutta la politica, di destra, di sinistra e di centro, dovrebbe manifestare preoccupazione per una sentenza che di fatto, contraddicendo la Costituzione, subordina la politica all'arbitrio di qualsiasi Tribunale''. E' quanto afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati del Pdl. Gli fa eco il deputato Pdl Deborah Bergamini, secondo cui "è difficile accettare il fatto che viviamo in un Paese in cui c’è un cittadino, per puro caso leader di un grande partito moderato votato da milioni di italiani, che è considerato da una parte della magistratura sempre e per forza colpevole e in malafede. Purtroppo però è così".
Nessuna preoccupazione a sinistra. "Per quanto riguarda il Pd le sentenze si applicano e si rispettano quindi non ho motivo di ritenere che possa avere effetti su un governo che è di servizio per i cittadini e il Paese in una fase molto drammatica della vita nazionale e dei cittadini", ha detto Guglielmo Epifani, "È una sentenza che era attesa da tempo. Dà ragione a una parte e torto all’altra, non vedo un rapporto tra questa sentenza e il quadro politico".
Non si aveva nessun dubbio chi fossero gli idolatri delle toghe.
LE SENTENZE DEI GIUDICI SI APPLICANO, SI RISPETTANO, MA NON ESSENDO GIUDIZI DI DIO SI POSSONO BEN CRITICARE SE VI SONO FONDATE RAGIONI.
Piero Longo e Niccolò Ghedini, legali di Silvio Berlusconi, criticano duramente la decisione della Consulta sull'ex premier. «I precedenti della Corte Costituzionale in tema di legittimo impedimento sono inequivocabili e non avrebbero mai consentito soluzione diversa dall'accoglimento del conflitto proposto dalla presidenza del Consiglio dei Ministri», assicurano. Per poi aggiungere: «Evidentemente la decisione assunta si è basata su logiche diverse che non possono che destare grave preoccupazione»."La preminenza della giurisdizione rispetto alla legittimazione di un governo a decidere tempi e modi della propria azione - continuano i due legali di Silvio Berlusconi - appare davvero al di fuori di ogni logica giuridica. Di contro la decisione, ampiamente annunciata da giorni da certa stampa politicamente orientata, non sorprende visti i precedenti della stessa Corte quando si è trattato del presidente Berlusconi e fa ben comprendere come la composizione della stessa non sia più adeguata per offrire ciò che sarebbe invece necessario per un organismo siffatto". Mentre per Franco Coppi, nuovo legale al posto di Longo, si tratta di «una decisione molto discutibile che crea un precedente pericoloso perché stabilisce che il giudice può decidere quando un Consiglio dei ministri è, o meno, indifferibile. Le mie idee sul legittimo impedimento non coincidono con quelle della Corte Costituzionale ma, purtroppo, questa decisione la dobbiamo tenere così come è perché è irrevocabile».
Ribatte l'Associazione Nazionale Magistrati: «È inaccettabile attribuire alla Consulta logiche politiche»; un'accusa che «va assolutamente rifiutata». A breve distanza dalla notizia che la Consulta ha negato il legittimo impedimento a Silvio Berlusconi nell'ambito del processo Mediaset, arriva anche la reazione di Rodolfo Sabelli, presidente dell'associazione nazionale magistrati, che ribadisce alle voci critiche che si sono sollevate dal Pdl la versione delle toghe."Non si può accettare, a prescindere dalla decisione presa - dice Sabelli - l’attribuzione alla Corte Costituzionale di posizioni o logiche di natura politica". Ribadendo l'imparzialità della Corte Costituzionale "a prescindere dal merito della sentenza", chiede "una posizione di rispetto" per la Consulta e una discussione che - se si sviluppa - sia però fatta "in modo informato, conoscendo le motivazioni della sentenza, e con rigore tecnico".
La Corte costituzionale ha detto no. Respinto il ricorso di Silvio Berlusconi per il legittimo impedimento (giudicato non assoluto, in questo caso) che non ha consentito all’allora premier di partecipare all’udienza del 10 marzo 2010 del processo Mediaset, per un concomitante consiglio dei ministri. Nel dare ragione ai giudici di Milano che avevano detto no alla richiesta di legittimo impedimento di Berlusconi, la Corte Costituzionale ha osservato che «dopo che per più volte il Tribunale (di Milano), aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, è stata fissata dall'imputato Presidente del Consiglio in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti), nè circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità» dell'impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario. "La riunione del Cdm - spiega la Consulta - non è un impedimento assoluto". Si legge nella sentenza: "Spettava all'autorità giudiziaria stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione all'udienza penale del 1 marzo 2010 l'impegno dell'imputato Presidente del Consiglio dei ministri" Silvio Berlusconi "di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per tale giorno", che invece "egli aveva in precedenza indicato come utile per la sua partecipazione all'udienza".
Ma è veramente imparziale la Corte costituzionale?
Tutta la verità sui giornali dopo la bocciatura del “Lodo Alfano”, sulla sospensione dei procedimenti penali per le più alte cariche dello Stato, avvenuta da parte della Corte Costituzionale il 7 ottobre 2009. La decisione della Consulta è arrivata con nove voti a favore e sei contrari. Quanto al Lodo Alfano, si sottolinea che il mutamento di indirizzo della Corte "oltre che una scelta politica si configura anche come violazione del principio di leale collaborazione tra gli organi costituzionali che ha avuto la conseguenza di sviare l'azione legislativa del Parlamento". Berlusconi dice: "C'è un presidente della Repubblica di sinistra, Giorgio Napolitano, e c'è una Corte costituzionale con undici giudici di sinistra, che non è certamente un organo di garanzia, ma è un organo politico. Il presidente è stato eletto da una maggioranza di sinistra, ed ha le radici totali della sua storia nella sinistra. Credo che anche l'ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte dimostri da che parte sta". La Corte ha 15 membri, con mandato di durata 9 anni: 5 nominati dal Presidente della Repubblica, Ciampi e Napolitano (di area centro-sinistra); 5 nominati dal Parlamento (maggioranza centro-sinistra); 5 nominati dagli alti organi della magistratura (che tra le sue correnti, quella più influente è di sinistra). Non solo. Dalla Lega Nord si scopre che 9 giudici su 15 sono campani. «Ci sembra alquanto strano che ben 9 dei 15 giudici della Consulta siano campani» osservano due consiglieri regionali veneti della Lega Nord, Emilio Zamboni e Luca Baggio. «È quasi incredibile - affermano Zamboni e Baggio - che un numero così elevato di giudici provenga da una sola regione, guarda caso la Campania. Siamo convinti che questo dato numerico debba far riflettere non solo l'opinione pubblica, ma anche i rappresentanti delle istituzioni». «Il Lodo Alfano è stato bocciato perché ritenuto incostituzionale. Ma cosa c'è di costituzionale - si chiedono Baggio e Zamboni - nel fatto che la maggior parte dei giudici della Consulta, che ha bocciato la contestata legge provenga da Napoli? Come mai c'è un solo rappresentante del Nord?».
Da “Il Giornale” poi, l’inchiesta verità: “Scandali e giudizi politici: ecco la vera Consulta”. Ermellini rossi, anche per l’imbarazzo. Fra i giudici della Corte costituzionale che hanno bocciato il Lodo Alfano ve n’è uno che da sempre strizza un occhio a sinistra, ma li abbassa tutti e due quando si tratta di affrontare delicate questioni che riguardano lui o i suoi più stretti congiunti. È Gaetano Silvestri, 65 anni, ex csm, ex rettore dell’ateneo di Messina, alla Consulta per nomina parlamentare («alè, hanno eletto un altro comunista!» tuonò il 22 giugno 2005 l’onorevole Carlo Taormina), cognato di quell’avvocato Giuseppe «Pucci» Fortino arrestato a maggio 2007 nell’inchiesta Oro Grigio e sotto processo a Messina per volontà del procuratore capo Luigi Croce. Che ha definito quel legale intraprendente «il Ciancimino dello Stretto», con riferimento all’ex sindaco mafioso di Palermo, tramite fra boss e istituzioni. Per i pm l’«avvocato-cognato» era infatti in grado di intrattenere indifferentemente rapporti con mafiosi, magistrati, politici e imprenditori. Di Gaetano Silvestri s’è parlato a lungo anche per la vicenda della «parentopoli» all’università di Messina. Quand’era rettore s’è scoperto che sua moglie, Marcella Fortino (sorella di Giuseppe, il «Ciancimino di Messina») era diventata docente ordinario di Scienze Giuridiche. E che costei era anche cognata dell’ex pro-rettore Mario Centorrino, il cui figlio diventerà ordinario, pure lui, nel medesimo ateneo. E sempre da Magnifico, Silvestri scrisse una lettera riservata al provveditore agli studi Gustavo Ricevuto per perorare la causa del figlio maturando, a suo dire punito ingiustamente all’esito del voto (si fermò a 97/100) poiché agli scritti - sempre secondo Silvestri - il ragazzo aveva osato criticare un certo metodo d’insegnamento. La lettera doveva rimanere riservata, il 5 agosto 2001 finì in edicola. E fu scandalo. «Come costituzionalista - scrisse Silvestri - fremo all’idea che una scuola di una Repubblica democratica possa operare siffatte censure, frutto peraltro di un non perfetto aggiornamento da parte di chi autoritariamente le pone in atto. Ho fatto migliaia di esami in vita mia, ma sentirei di aver tradito la mia missione se avessi tolto anche un solo voto a causa delle opinioni da lui professate». Andando al luglio ’94, governo Berlusconi in carica, Silvestri firma un appello per «mettere in guardia contro i rischi di uno svuotamento della carta costituzionale attraverso proposte di riforme e revisione, che non rispettino precise garanzie». Nel 2002 con una pletora di costituzionalisti spiega di «condividere le critiche delle opposizioni al Ddl sul conflitto di interessi». L’anno appresso, a proposito del Lodo sull’immunità, se ne esce così: «Siamo costretti a fare i conti con questioni che dovrebbero essere scontate, che risalgono ai classici dello stato di diritto (...). Se si va avanti così fra breve saremo capaci di metabolizzare le cose più incredibili». Altro giudice contrarissimo al Lodo è Alessandro Criscuolo. Ha preso la difesa e perorato la causa dell’ex pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, nel procedimento disciplinare al Csm: «Non ha mai arrestato nessuno ingiustamente, De Magistris è stato molto attento alla gestione dei suoi provvedimenti». Smentito. Quand’era presidente dell’Anm, alle accuse dei radicali sulla (mala) gestione del caso Tortora, Criscuolo rispose prendendo le parti dei magistrati, difese la sentenza di primo grado, ringraziò i pentiti per il loro contributo (sic!). Nel ’97 entrò a gamba tesa in un altro processo, quello per l’omicidio del commissario Calabresi, al grido di «meglio un colpevole libero che un innocente dentro». E che dire del giudice Franco Gallo, già ministro delle Finanze con Ciampi, nemico giurato del successore visto che all’insediamento di Giulio Tremonti (scrive Il Fatto) rassegnò le dimissioni dalla scuola centrale tributaria dopo esser uscito da un’inchiesta finita al tribunale dei ministri, su presunti illeciti compiuti a favore del Coni per il pagamento di canoni irrisori per alcuni immobili. Altro ministro-giudice di Ciampi, rigorosamente no-Lodo, è il professor Sabino Cassese, gettonatissimo in commissioni di studio e d’inchiesta, ai vertici di società importanti e di banche. A proposito della sentenza del gip Clementina Forleo, che assolveva cinque islamici accusati di terrorismo definendoli «guerriglieri», chiosò dicendo che gli Stati Uniti avevano violato lo stato di diritto. Giuseppe Tesauro, terza creatura di Ciampi alla Consulta, viene ricordato al vertice dell’Antitrust per la sua battaglia contro la legge Gasparri («è una legge contro la concorrenza», oppure, «il testo non è in odor di santità, la riforma mescola coca-cola, whisky e acqua»). Di lui si parlò come candidato dell’Ulivo a fine mandato 2005 e come «persecutore» di Gilberto Benetton e della sua Edizioni Holding interessata ad acquistare la società Autogrill (l’inchiesta venne archiviata). Considerato a sinistra da sempre anche Ugo De Siervo, almeno dal ’95 quando al convegno «Con la Costituzione non si scherza» parlò di comportamenti «ispirati a dilettantismo e tatticismo, interpretazioni di stampo plebiscitario, spregio della legalità costituzionale». A maggio 2001 è a fianco dell’ex sottosegretario e senatore dei Ds Stefano Passigli, che annuncia un esposto contro Berlusconi per la violazione dei limiti di spesa per la legge elettorale.
Tanto comandano loro: le toghe! Magistrati, raddoppiati gli incarichi extragiudiziari. Le richieste per svolgere un secondo lavoro sono aumentate in 12 mesi del 100%. Sono passate da 961 a 494. Un record. Consulenze e docenze le più appetibili, scrive “Libero Quotidiano”. La doppia vita dei magistrati. Alle toghe di casa nostra non bastano mai i soldi che incassano con il loro lavoro da magistrato. Le toghe preferiscono la seconda attività. Negli ultimi sei mesi il totale degli incarichi autorizzati dal Csm alle toghe ha toccato quota 961, quasi il doppio dei 494 concessi nei sei mesi precedenti. Insomma il doppio lavoro e la doppia busta paga servono per riempire le tasche. La doppia attività è una tradizione dei nostri magistrati. E la tendenza è in crescita. Si chiamano incarichi “extragiudiziari”, in quanto relativi ad attività che non fanno riferimento alla professione giudiziaria. Gli incarichi per le toghe arrivano dalle società, dagli enti di consulenza e università private, come quella della Confindustria. I dati sull'incremento degli incarichi extragiudiziari li fornisce il Csm. Tra novembre 2012 e maggio 2013 gli incarichi sono raddoppiati. A dare l'ok alla doppia attività è proprio il Csm. Le toghe amano le cattedre e così vanno ad insegnare alla Luiss, l’ateneo confindustriale diretto da Pier Luigi Celli. Poi ci sono le consulenze legali per la Wolters Kluwer, multinazionale che si occupa di editoria e formazione professionale. Ma non finisce qua. Qualche magistrato lavora per la Altalex Consulting, altra società attiva nell’editoria e nella formazione giuridica. Le paghe sono sostanziose. Ad esempio Giovanni Fanticini, racconta Lanotiziagiornale.it, è giudice al tribunale di Reggio Emilia. Ma ha 11 incarichi extragiudiziali. Tra docenze, seminari e lezioni varie, è semplicemente impressionante: dalla Scuola superiore dell’economia e delle finanze (controllata al ministero di via XX Settembre) ha avuto un incarico di 7 ore con emolumento orario di 130 euro (totale 910 euro); dalla società Altalex ha avuto sei collaborazioni: 15 ore per complessivi 2.500 euro, 7 ore per 1.300, 8 ore per 1.450, 15 ore per 2.500, 5 ore per 750 e 5 ore per 700; dal Consorzio interuniversitario per l’aggiornamento professionale in campo giuridico ha ottenuto due incarichi, complessivamente 8 ore da 100 euro l’una (totale 800 euro). Insomma un buon bottino. In Confindustria poi c'è l'incarico assegnato a Domenico Carcano, consigliere della Corte di cassazione, che per 45 ore di lezioni ed esami di diritto penale ha ricevuto 6 mila euro. C’è Michela Petrini, magistrato ordinario del tribunale di Roma, che ha incassato due docenze di diritto penale dell’informatica per complessivi 4.390 euro. Ancora, Enrico Gallucci, magistrato addetto all’Ufficio amministrazione della giustizia, ha ottenuto 5.500 euro per 36 ore di lezione di diritto penale. Il doppio incarico di certo non va molto d'accordo con l'imparzialità della magistratura. Se le società dove lavorano questi magistrati dovessero avere problemi giudiziari la magistratura e i giudici quanto sarebbero equidistanti nell'amministrare giustizia? L'anomalia degli incarichi extragiudiziari va eliminata.
“VADA A BORDO, CAZZO!!”.
E’ celebre il “vada a bordo, cazzo” del comandante De Falco. L’Italia paragonata al destino ed agli eventi che hanno colpito la nave Concordia. Il naufragio della Costa Concordia, è un sinistro marittimo "tipico" avvenuto venerdì 13 gennaio 2012 alle 21:42 alla nave da crociera al comando di Francesco Schettino e di proprietà della compagnia di navigazione genovese Costa Crociere, parte del gruppo anglo-americano Carnival Corporation & plc. All'1.46 di sabato mattina 14 gennaio il comandante della Concordia Francesco Schettino riceve l'ennesima telefonata dalla Capitaneria di Porto. In linea c'è il comandante Gregorio Maria De Falco. La chiamata è concitata e i toni si scaldano rapidamente.
De Falco: «Sono De Falco da Livorno, parlo con il comandante?
Schettino: «Sì, buonasera comandante De Falco»
De Falco: «Mi dica il suo nome per favore»
Schettino: «Sono il comandante Schettino, comandante»
De Falco: «Schettino? Ascolti Schettino. Ci sono persone intrappolate a bordo. Adesso lei va con la sua scialuppa sotto la prua della nave lato dritto. C'è una biscaggina. Lei sale su quella biscaggina e va a bordo della nave. Va a bordo e mi riporta quante persone ci sono. Le è chiaro? Io sto registrando questa comunicazione comandante Schettino...».
Schettino: «Comandante le dico una cosa...»
De Falco: «Parli a voce alta. Metta la mano davanti al microfono e parli a voce più alta, chiaro?».
Schettino: «In questo momento la nave è inclinata...».
De Falco: «Ho capito. Ascolti: c'è gente che sta scendendo dalla biscaggina di prua. Lei quella biscaggina la percorre in senso inverso, sale sulla nave e mi dice quante persone e che cosa hanno a bordo. Chiaro? Mi dice se ci sono bambini, donne o persone bisognose di assistenza. E mi dice il numero di ciascuna di queste categorie. E' chiaro? Guardi Schettino che lei si è salvato forse dal mare ma io la porto… veramente molto male… le faccio passare un’anima di guai. Vada a bordo, cazzo!»
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
Parafrasando la celebre frase di De Falco mi rivolgo a tutti gli italiani: ““TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Il tema è “chi giudica chi?”. Chi lo fa, ha veramente una padronanza morale, culturale professionale per poterlo fare? Iniziamo con il parlare della preparazione culturale e professionale di ognuno di noi, che ci permetterebbe, in teoria, di superare ogni prova di maturità o di idoneità all’impiego frapposta dagli esami scolastici o dagli esami statali di abilitazione o di un concorso pubblico. In un paese in cui vigerebbe la meritocrazia tutto ciò ci consentirebbe di occupare un posto di responsabilità. In Italia non è così. In ogni ufficio di prestigio e di potere non vale la forza della legge, ma la legge del più forte. Piccoli ducetti seduti in poltrona che gestiscono il loro piccolo potere incuranti dei disservizi prodotti. La massa non è li ha pretendere efficienza e dedizione al dovere, ma ad elemosinare il favore. Corruttori nati. I politici non scardinano il sistema fondato da privilegi secolari. Essi tacitano la massa con provvedimenti atti a quietarla.
Panem et circenses, letteralmente: "pane e giochi del circo", è una locuzione in lingua latina molto conosciuta e spesso citata. Era usata nella Roma antica. Contrariamente a quanto generalmente ritenuto, questa frase non è frutto della fantasia popolare, ma è da attribuirsi al poeta latino Giovenale:
« ...duas tantum res anxius optat panem et circenses».
« ...[il popolo] due sole cose ansiosamente desidera pane e i giochi circensi».
Questo poeta fu un grande autore satirico: amava descrivere l'ambiente in cui viveva, in un'epoca nella quale chi governava si assicurava il consenso popolare con elargizioni economiche e con la concessione di svaghi a coloro che erano governati (in questo caso le corse dei carri tirati da cavalli che si svolgevano nei circhi come il Circo Massimo e il Circo di Massenzio).
Perché quel “TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Perché la legge dovrebbe valere per tutti. Non applicata per i più ed interpretata per i pochi. E poi mai nessuno, in Italia, dovrebbe permettersi di alzare il dito indice ed accusare qualcun altro della sua stessa colpa. Prendiamo per esempio la cattiva abitudine di copiare per poter superare una prova, in mancanza di una adeguata preparazione. Ognuno di noi almeno un volta nella vita ha copiato. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini a base di formule trigonometriche, biografie del Manzoni e del Leopardi, storia della filosofia e traduzioni di Cicerone. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. Anche in questo caso l'inconveniente è che se ti sorprendono sono guai. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo. Pure quello difficile da gestire: solo gli artisti della copia copiarella possono.
Il consiglio è quello di studiare e non affidarsi a trucchi e trucchetti. Si rischia grosso e non tutti lo sanno. Anche perché il copiare lo si fa passare per peccato veniale. Copiare ad esami e concorsi, invece, potrebbe far andare in galera. E' quanto stabilito dalla legge n. 475/1925 e dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 32368/10. La legge recita all'art.1 :“Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito”. A conferma della legge è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n.32368/10, che ha condannato una candidata per aver copiato interamente una sentenza del TAR in un elaborato a sua firma presentato durante un concorso pubblico. La sentenza della sezione VI penale n. 32368/10 afferma: “Risulta pertanto ineccepibile la valutazione dei giudici di merito secondo cui la (…) nel corso della prova scritta effettuò, pur senza essere in quel frangente scoperta, una pedissequa copiatura del testo della sentenza trasmessole (…). Consegue che il reato è integrato anche qualora il candidato faccia riferimento a opere intellettuali, tra cui la produzione giurisprudenziale, di cui citi la fonte, ove la rappresentazione del suo contenuto sia non il prodotto di uno sforzo mnemonico e di autonoma elaborazione logica ma il risultato di una materiale riproduzione operata mediante l’utilizzazione di un qualsiasi supporto abusivamente impiegato nel corso della prova”.
In particolare per gli avvocati la Riforma Forense, legge 247/2012, al CAPO II (ESAME DI STATO PER L’ABILITAZIONE ALL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO) Art. 46. (Esame di Stato) stabilisce che “….10. Chiunque faccia pervenire in qualsiasi modo ad uno o più candidati, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema proposto è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la pena della reclusione fino a tre anni. Per i fatti indicati nel presente comma e nel comma 9, i candidati sono denunciati al consiglio distrettuale di disciplina del distretto competente per il luogo di iscrizione al registro dei praticanti, per i provvedimenti di sua competenza.”
Ma, di fatto, quello previsto come reato è quello che succede da quando esiste questo tipo di esame e vale anche per i notai ed i magistrati. Eppure, come ogni altra cosa italiana c’è sempre l’escamotage tutto italiano. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce che copiare non è reato: niente più punizione. Dichiarando tuttavia “legale” copiare a scuola, si dichiara pure legale copiare nella vita. Non viene sanzionato un comportamento che è senza dubbio scorretto. Secondo il Consiglio di Stato, il superamento dell’esame costituisce di per sè attestazione delle “competenze, conoscenze e capacità anche professionali acquisite” dall'alunna e la norma che regola l'espulsione dei candidati dai pubblici concorsi per condotta fraudolenta, non può prescindere "dal contesto valutativo dell’intera personalità e del percorso scolastico dello studente, secondo i principi che regolano il cosiddetto esame di maturità": le competenze e le conoscenze acquisite….in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di ciascun indirizzo e delle basi culturali generali, nonché delle capacità critiche del candidato. A ciò il Cds ha anche aggiunto un'attenuante, cioè "uno stato d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute" della studentessa stessa, che sarebbe stato alla base del gesto. Il 12 settembre 2012 una sentenza del Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione del Tar della Campania che aveva escluso dagli esami di maturità una ragazza sorpresa a copiare da un telefono palmare. Per il Consiglio di Stato la decisione del Tar non avrebbe adeguatamente tenuto conto né del “brillante curriculum scolastico” della ragazza in questione, né di un suo “stato di ansia”. Gli esami, nel frattempo, la giovane li aveva sostenuti seppur con riserva. L’esclusione della ragazza dagli esami sarà forse stata una sanzione eccessiva. Probabilmente la giovane in questione, sulla base del suo curriculum poteva esser perdonata. Gli insegnanti, conoscendola e comprendendo il suo stato d’ansia pre-esame, avrebbero potuto chiudere un occhio. Tutto vero. Ma sono valutazioni che spettavano agli insegnanti che la studente conoscono. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce invece, di fatto, un principio. E in questo caso il principio è che copiare vale. Non è probabilmente elegante, ma comunque va bene. Questo principio applicato alla scuola, luogo in cui le generazioni future si forgiano ed educano, avrà ripercussioni sulla società del futuro. Se ci viene insegnato che a non rispettar le regole, in fondo, non si rischia nulla più che una lavata di capo, come ci porremo di fronte alle regole della società una volta adulti? Ovviamente male. La scuola non è solo il luogo dove si insegnano matematica e italiano, storia e geografia. Ma è anche il luogo dove dovrebbe essere impartito insegnamento di civica educazione, dove si impara a vivere insieme, dove si impara il rispetto reciproco e quello delle regole. Dove si impara a “vivere”. Se dalla scuola, dalla base, insegniamo che la “furbizia” va bene, non stupiamoci poi se chi ci amministra si compra il Suv con i soldi delle nostre tasse. In fondo anche lui avrà avuto il suo “stato d’ansia”. Ma il punto più importante non è tanto la vicenda della ragazza sorpresa a copiare e di come sia andata la sua maturità. Il punto è la sanzionabilità o meno di un comportamento che è senza dubbio scorretto. In un paese già devastato dalla carenza di etica pubblica, dalla corruzione e dall’indulgenza programmatica di molte vulgate pedagogiche ammantate di moderno approccio relazionale, ci mancava anche la corrività del Consiglio di Stato verso chi imbroglia agli esami.
E, comunque, vallo a dire ai Consiglieri di Stato, che dovrebbero già saperlo, che nell’ordinamento giuridico nazionale esiste la gerarchia della legge. Nell'ordinamento giuridico italiano, si ha una pluralità di fonti di produzione; queste sono disposte secondo una scala gerarchica, per cui la norma di fonte inferiore non può porsi in contrasto con la norma di fonte superiore (gerarchia delle fonti). nel caso in cui avvenga un contrasto del genere si dichiara l'invalidità della fonte inferiore dopo un accertamento giudiziario, finché non vi è accertamento si può applicare la "fonte invalida". Al primo livello della gerarchia delle fonti si pongono la Costituzione e le leggi costituzionali (fonti superprimarie). La Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1º gennaio 1948, è composta da 139 articoli: essa detta i principi fondamentali dell'ordinamento (artt. 1-12); individua i diritti e i doveri fondamentali dei soggetti (artt. 13-54); detta la disciplina dell'organizzazione della Repubblica (artt. 55-139). La Costituzione italiana viene anche definita lunga e rigida, lunga perché non si limita "a disciplinare le regole generali dell'esercizio del potere pubblico e delle produzioni delle leggi" riguardando anche altre materie, rigida in quanto per modificare la Costituzione è richiesto un iter cosiddetto aggravato (vedi art. 138 cost.). Esistono inoltre dei limiti alla revisione costituzionale. Al di sotto delle leggi costituzionali si pongono i trattati internazionali e gli atti normativi comunitari, che possono presentarsi sotto forma di regolamenti o direttive. I primi hanno efficacia immediata, le seconde devono essere attuate da ogni paese facente parte dell'Unione europea in un determinato arco di tempo. A queste, si sono aggiunte poi le sentenze della Corte di Giustizia Europea "dichiarative" del Diritto Comunitario (Corte Cost. Sent. n. 170/1984). Seguono le fonti primarie, ovvero le leggi ordinarie e gli atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi), ma anche le leggi regionali e delle provincie autonome di Trento e Bolzano. Le leggi ordinarie sono emanate dal Parlamento, secondo la procedura di cui gli artt. 70 ss. Cost., le cui fasi essenziali sono così articolate: l'iniziativa di legge; l'approvazione del testo di legge è affidata alle due Camere del Parlamento (Camera dei deputati e Senato della Repubblica); la promulgazione del Presidente della Repubblica; la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Al di sotto delle fonti primarie, si collocano i regolamenti governativi, seguono i regolamenti ministeriali e di altri enti pubblici e all'ultimo livello della scala gerarchica, si pone la consuetudine, prodotta dalla ripetizione costante nel tempo di una determinata condotta. Sono ammesse ovviamente solo consuetudini secundum legem e praeter legem non dunque quelle contra legem.
Pare che molte consuetudini sono contra legem e pervengono proprio da coloro che dovrebbero dettare i giusti principi.
Tutti in pensione da "presidente emerito". I giudici della Corte Costituzionale si danno una mano tra loro per dare una spinta in più alla remunerazione pensionistica a fine carriera. Gli ermellini in pratica a rotazione, anche breve, cambiano il presidente della Corte per regalargli il titolo più prestigioso prima che giunga il tramonto professionale. Nulla di strano se non fosse che il quinto comma dell'articolo 135 della Costituzione recita: "La Corte elegge tra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in carica per un triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dall’ufficio di giudice". Dunque secondo Costituzione il presidente dovrebbe cambiare ogni 3 anni, o quanto meno rieletto anche per un secondo mandato dopo 36 mesi. Le cose invece vanno in maniera completamente diversa. La poltrona da presidente con relativa pensione fa gola a tanti e allora bisogna accontentare tutti. Così dagli Anni Ottanta la norma è stata aggirata per un tornaconto personale, scrive “Libero Quotidiano”. Per consentire al maggior numero di membri di andare in pensione col titolo da presidente emerito, e fino al 2011 con tanto di auto blu a vita, si è deciso che il prescelto debba essere quello con il maggior numero di anni di servizio. Il principio di anzianità. Questo passaggio di consegne oltre a garantire una pensione più sostanziosa rispetto a quella di un semplice giudice costituzionale, offre anche un’indennità aggiuntiva in busta paga: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti ugualmente una retribuzione corrispondente al complessivo trattamento economico che viene percepito dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni. Al Presidente è inoltre attribuita una indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione", recita la legge 87/1953. Successivamente, il legislatore è intervenuto con legge 27 dicembre 2002, n. 289, sostituendo il primo periodo dell'originario art. 12, comma 1, della legge 87/1953 nei seguenti termini: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti egualmente una retribuzione corrispondente al più elevato livello tabellare che sia stato raggiunto dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni, aumentato della metà". Resta ferma l'attribuzione dell'indennità di rappresentanza per il Presidente. Quella era intoccabile. Così ad esempio accade che Giovanni Maria Flick è stato presidente per soli 3 mesi, dal 14 novembre 2008 al 18 febbraio 2009. Flick si difese dicendo che quella "era ormai una prassi consolidata". Già, consolidata in barba alla Carta Costituzionale che loro per primi dovrebbero rispettare. Gustavo Zagerblesky ad esempio è stato presidente per soli 7 mesi. Poi è stato il turno di Valerio Onida, presidente per 4 mesi dal 22 settembre 2004 al 30 maggio 2005. Ugo De Servio invece ha tenuto la poltrona dal 10 dicembre 2010 al 29 aprile 2011, 4 mesi anche per lui. Recordman invece Alfonso Quaranta che è stato in carica per un anno e sette mesi, dal 6 giugno 2011 al 27 gennaio 2012. Ora la corsa alla poltrona è per l'attuale presidente Franco Gallo, in carica dal gennaio 2013. Durerà fin dopo l'estate? Probabilmente no.
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
Per esempio nei processi, anche i testimoni della difesa.
Tornando alla parafrasi del “TUTTI DENTRO, CAZZO!!” si deve rimarcare una cosa. Gli italiani sono: “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigatori”. Così è scritto sul Palazzo della Civiltà Italiana dell’EUR a Roma. Manca: “d’ingenui”. Ingenui al tempo di Mussolini, gli italiani, ingenui ancora oggi. Ma no, un popolo d’ingenui non va bene. Sul Palazzo della Civiltà aggiungerei: “Un popolo d’allocchi”, anzi “Un popolo di Coglioni”. Perché siamo anche un popolo che quando non sa un “cazzo” di quello che dice, parla. E parla sempre. Parla..…parla. Specialmente sulle cose di Giustizia: siamo tutti legulei.
Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.
Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.
Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip».
Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».
Sul degrado morale dell’Italia berlusconiana (e in generale di tutti quelli che hanno votato Berlusconi nonostante sia, per dirla con Gad Lerner, un “puttaniere”) è stato detto di tutto, di più. Ma poco, anzi meno, è stato detto a mio parere sul degrado moralista della sinistra anti-berlusconiana (e in generale di molti che hanno votato “contro” il Cavaliere e che hanno brindato a champagne, festeggiato a casa o in ufficio, tirato un sospiro di sollievo come al risveglio da un incubo di vent’anni). Quella sinistra che, zerbino dei magistrati, ha messo il potere del popolo nelle mani di un ordine professionale, il cui profilo psico-fisico-attitudinale dei suoi membri non è mai valutato e la loro idoneità professionale incute dei dubbi.
Condanna a sette anni di carcere per concussione per costrizione (e non semplice induzione indebita) e prostituzione minorile, con interdizione perpetua dai pubblici uffici per Silvio Berlusconi: il processo Ruby a Milano finisce come tutti, Cavaliere in testa, avevano pronosticato. Dopo una camera di consiglio-fiume iniziata alle 10 di mattina e conclusa sette ore abbondanti dopo, le tre giudici della quarta sezione penale Giulia Turri, Orsola De Cristofaro e Carmen D'Elia hanno accolto in pieno, e anzi aumentato, le richieste di 6 anni dell'accusa, rappresentata dai pm Ilda Boccassini (in ferie e quindi non in aula, sostituita dal procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati, fatto mai avvenuto quello che il procuratore capo presenzi in dibattimento) e Antonio Sangermano. I giudici hanno anche trasmesso alla Procura, per le opportune valutazioni, gli atti relativi alla testimonianza, tra gli altri, di Giorgia Iafrate, la poliziotta che affidò Ruby a Nicole Minetti. Inoltre, sono stati trasmessi anche i verbali relativi alle deposizioni di diverse olgettine, di Mariano Apicella e di Valentino Valentini. Il tribunale di Milano ha disposto anche la confisca dei beni sequestrati a Ruby, Karima El Mahroug e al compagno Luca Risso, ai sensi dell'articolo 240 del codice penale, secondo cui il giudice "può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto".
I paradossi irrisolti della sentenza sono che colpiscono anche la “vittima” Ruby e non solo il “carnefice” Berlusconi. L’ex minorenne, Karima El Mahroug, «per un astratta tutela della condizione di minorenne», viene dichiarata prima “prostituta” e poi i suoi beni le vengono confiscati: «Come nel caso del concusso, la parte lesa non si dichiara tale anzi si manifesta lesa per l’azione dei magistrati». Ruby «è doppiamente lesa dai magistrati», spiega Sgarbi, «nella reputazione e nel vedersi sottrarre, in via cautelativa, i denari che Berlusconi le ha dato».
«Non chiamiamola sentenza. Non chiamiamolo processo. Soprattutto, non chiamiamola giustizia». Comincia così, con queste amarissime parole, la nota di Marina Berlusconi in difesa di suo padre. «Quello cui abbiamo dovuto assistere è uno spettacolo assurdo che con la giustizia nulla ha a che vedere, uno spettacolo che la giustizia non si merita. La condanna - scrive Marina - era scritta fin dall'inizio, nel copione messo in scena dalla Procura di Milano. Mio padre non poteva non essere condannato. Ma se possibile il Tribunale è andato ancora più in là, superando le richieste dell'accusa e additando come spergiuri tutti i testi in contrasto con il suo teorema». Nonostante la "paccata" di testimoni portati in tribunale dalla difesa di Silvio Berlusconi, il presidente della Corte Giulia Turri e i giudici Orsolina De Cristofano e Carmen D'Elia hanno preferito inseguire il teorema costruito ad arte dal pm Ilda Boccassini e tacciare di falsa testimonianza tutte le persone che, con le proprie parole, hanno scagionato il Cavaliere. Insomma, se la "verità" non coincide con quella professata dalla magistratura milanese, allora diventa automaticamente bugia. Non importa che non ci sia alcuna prova a dimostrarlo.
L'accusa dei giudici milanesi è sin troppo chiara, spiega Andrea Indini su "Il Giornale": le trentadue persone che si sono alternate sul banco dei testimoni per rendere dichiarazioni favorevoli a Berlusconi hanno detto il falso. Solo le motivazioni, previste tra novanta giorni, potranno chiarire le ragioni per cui il collegio abbia deciso di trasmettere alla procura i verbali di testimoni che vanno dall’amico storico dell’ex premier Mariano Apicella all’ex massaggiatore del Milan Giorgio Puricelli, dall’europarlamentare Licia Ronzulli alla deputata Maria Rosaria Rossi. Da questo invio di atti potrebbe nascere, a breve, un maxi procedimento per falsa testimonianza. A finir nei guai per essersi opposta al teorema della Boccassini c'è anche il commissario Giorgia Iafrate che era in servizio in Questura la notte del rilascio di Ruby. La funzionaria aveva, infatti, assicurato di aver agito "nell’ambito dei miei poteri di pubblico ufficiale". "Di fronte alla scelta se lasciare la ragazza in Questura in condizioni non sicure o affidarla ad un consigliere regionale - aveva spiegato - ho ritenuto di seguire quest’ultima possibilità". Proprio la Boccassini, però, nella requisitoria aveva definito "avvilenti le dichiarazioni della Iafrate che afferma che il pm minorile Fiorillo le aveva dato il suo consenso". Alla procura finiscono poi i verbali di una ventina di ragazze. Si va da Barbara Faggioli a Ioana Visan, da Lisa Barizonte alle gemelle De Vivo, fino a Roberta Bonasia. Davanti ai giudici avevano descritto le serate di Arcore come "cene eleganti", con qualche travestimento sexy al massimo, e avevano sostenuto che Ruby si era presentata come una 24enne. "I giudici hanno dato per scontato che siamo sul libro paga di Berlusconi - ha tuonato Giovanna Rigato, ex del Grande Fratello - io tra l’altro al residence non ho mai abitato, sono una che ha sempre lavorato, l’ho detto in mille modi che in quelle serata ad Arcore non ho mai visto nulla di scabroso ma tanto...". Anche Marysthelle Polanco è scioccata dalla sentenza: "Non mi hanno creduto, non ci hanno creduto, io ho detto la verità e se mi chiamano di nuovo ripeterò quello che ho sempre raccontato". Sebbene si siano lasciate scivolare addosso insulti ben più pesanti, le ragazze che hanno partecipato alle feste di Arcore non sono disposte ad accettare l’idea di passare per false e bugiarde. Da Puricelli a Rossella, fino al pianista Mariani e ad Apicella, è stato tratteggiato in Aula un quadro di feste fatto di chiacchiere, balli e nessun toccamento.
Nel tritacarne giudiziario finisce anche la Ronzulli, "rea" di aver fornito una versione diversa da quella resa da Ambra e Chiara nel processo "gemello" e di aver negato di aver visto una simulazione di sesso orale con l’ormai famosa statuetta di Priapo. Stesso destino anche per l’ex consigliere per le relazioni internazionali Valentino Valentini che aveva svelato di esser stato lui a far contattare la Questura di Milano per "capire cosa stesse accadendo". Ed era stato sempre lui a parlare di una conversazione tra Berlusconi e l'ex raìs Hosni Mubarak sulla parentela con Ruby. Anche il viceministro Bruno Archi, all’epoca diplomatico, ai giudici aveva descritto quel pranzo istituzionale nel quale si sarebbe parlato di Karima. E ancora: sono stati trasmessi ai pm anche i verbali di Giuseppe Estorelli, il capo scorta di Berlusconi, e del cameriere di Arcore Lorenzo Brunamonti, "reo" di aver regalato al Cavaliere, di ritorno da un viaggio, la statuetta di Priapo. Tutti bugiardi, tutti nella tritarcarne del tribunale milanese. La loro colpa? Aver detto la verità. Una verità che non piace ai giudici che volevano far fuori a tutti i costi Berlusconi.
C'era un solo modo per condannare Silvio Berlusconi nel processo cosiddetto Ruby, spiega Alessandro Sallusti su "Il Giornale": fare valere il teorema della Boccassini senza tenere conto delle risultanze processuali, in pratica cancellare le decine e decine di testimonianze che hanno affermato, in due anni di udienze, una verità assolutamente incompatibile con le accuse. E cioè che nelle notti di Arcore non ci furono né vittime né carnefici, così come in Questura non ci furono concussi. Questo trucco era l'unica possibilità e questo è accaduto. Trenta testimoni e protagonisti della vicenda, tra i quali rispettabili parlamentari, dirigenti di questura e amici di famiglia sono stati incolpati in sentenza, cosa senza precedenti, di falsa testimonianza e dovranno risponderne in nuovi processi. Spazzate via in questo modo le prove non solo a difesa di Berlusconi ma soprattutto contrarie al teorema Boccassini, ecco spianata la strada alla condanna esemplare per il capo: sette anni più l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, esattamente la stessa pronunciata nella scena finale del film Il Caimano di Nanni Moretti, in cui si immagina l'uscita di scena di Berlusconi. Tra questa giustizia e la finzione non c'è confine. Siamo oltre l'accanimento, la sentenza è macelleria giudiziaria, sia per il metodo sia per l'entità. Ricorda molto, ma davvero molto, quelle che i tribunali stalinisti e nazisti usavano per fare fuori gli oppositori: i testimoni che osavano alzare un dito in difesa del disgraziato imputato di turno venivano spazzati via come vermi, bollati come complici e mentitori, andavano puniti e rieducati. Come osi, traditore - sostenevano i giudici gerarchi - mettere in dubbio la parola dello Stato padrone? Occhio, che in galera sbatto pure te. Così, dopo Berlusconi, tocca ai berlusconiani passare sotto il giogo di questi pazzi scatenati travestiti da giudici. I quali vogliono che tutti pieghino la testa di fronte alla loro arroganza e impunità. In trenta andranno a processo per aver testimoniato la verità, raccontato ciò che hanno visto e sentito. Addio Stato di diritto, addio a una nobile tradizione giuridica, la nostra, in base alla quale il giudizio della corte si formava esclusivamente sulle verità processuali, che se acquisite sotto giuramento e salvo prova contraria erano considerate sacre.
Omicidi, tentati omicidi, sequestro di persona, occultamenti di cadavere. Per la giustizia italiana questi reati non sono poi così diversi da quello di concussione, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". La condanna inflitta a Silvio Berlusconi a 7 anni di carcere, uno in più rispetto alla pena chiesta dai pubblici ministeri, e interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati di prostituzione minorile e concussione, non differisce che di poche settimane da quella inflitta a Michele Misseri il contadino di Avetrana che ha occultato il cadavere della nipotina Sara Scazzi in un pozzo delle campagne pugliesi. Non solo. La condanna all’ex premier è addirittura ancor più pesante rispetto a quella inflitta a due studenti di Giurisprudenza, Scattone e Ferraro, che “ quasi per gioco” hanno mirato alla testa di una studentessa, Marta Russo, uccidendola nel cortile interno della facoltà. Quasi per gioco. Così in pochi istanti hanno ucciso, tolto la vita, ad una ragazza che aveva tanti sogni da realizzare. Marta Russo così come Sara Scazzi oppure un Gabriele Sandri, il tifoso laziale ucciso nell’area di servizio dopo dei tafferugli con i tifosi juventini. Il poliziotto che ha premuto il grilletto colpendolo alla nuca, è stato condannato a 9 anni e 4 mesi. A soli 28 mesi in più di carcere rispetto a Silvio Berlusconi.
Analizzando casi noti e quelli meno conosciuti dall’opinione pubblica, non è possibile non notare una “sproporzione” di condanna tra il caso Ruby e una vicenda quale il caso Scazzi o Russo. Ecco alcuni dei casi e delle sentenze di condanna.
Caso Sandri: 9 anni e 4 mesi. Per la Cassazione è omicidio volontario. Per l'agente della Polstrada Luigi Spaccarotella, la sentenza è diventata definitiva con la pronuncia della Cassazione. La condanna è di nove anni e quattro mesi di reclusione per aver ucciso il tifoso della Lazio Gabriele Sandri dopo un tafferuglio con tifosi juventini nell'area di servizio aretina di Badia al Pino sulla A1. Sandri era sulla Renault che doveva portarlo a Milano, la mattina dell'11 novembre 2007, per vedere Inter-Lazio insieme ad altri quattro amici. Spaccarotella era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione per omicidio colposo, determinato da colpa cosciente. In secondo grado i fatti erano stati qualificati come omicidio volontario per dolo eventuale e la pena era stata elevata a nove anni e quattro mesi di reclusione.
Caso Scazzi: per Michele Misseri, 8 anni. Ergastolo per Sabrina. Ergastolo per sua madre Cosima Serrano. Otto anni per Michele Misseri, che ora rischia anche un procedimento per autocalunnia. Questo è il verdetto di primo grado sulla tragedia di Avetrana. il contadino è accusato di soppressione di cadavere insieme al fratello e al nipote.
Caso Marta Russo. L’omicidio quasi per gioco di Marta Russo è stato punito con la condanna di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, rispettivamente puniti con 5 anni e quattro mesi il primo e 4 anni e due mesi il secondo; Marta Russo, 22 anni, studentessa di giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma, fu uccisa all'interno della Città universitaria il 9 maggio 1997, da un colpo di pistola alla testa.
Caso Jucker. Ruggero Jucker, reo di aver assassinato la propria fidanzata sotto l’effetto di stupefacenti, è stato condannato, con un patteggiamento in appello a 16 anni di reclusione salvo poi essere stato liberato dopo 10 anni.
Casi minori e meno conosciuti dall’opinione pubblica.
Bari. 8 anni di carcere ad un politico che uccise un rapinatore. 5 giugno 2013. La Corte d’appello di Bari, ha chiesto la condanna a otto anni di reclusione per Enrico Balducci, l’ex consigliere regionale pugliese, gestore del distributore di carburante di Palo del Colle, accusato di omicidio volontario e lesioni personali, per aver ucciso il 23enne Giacomo Buonamico e ferito il 25enne Donato Cassano durante un tentativo di rapina subito il 5 giugno 2010. In primo grado, Balducci era stato condannato con rito abbreviato alla pena di 10 anni di reclusione. Dinanzi ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bari l’accusa ha chiesto una riduzione di pena ritenendo sussistente l’attenuante della provocazione, così come era stato chiesto anche dal pm in primo grado ma non era stato riconosciuto dal gup. Chiesta una condanna a quattro anni di reclusione per Cassano (condannato in primo grado a 5 anni) per i reati di rapina e tentativo di rapina. Prima di recarsi in moto al distributore di carburante gestito da Balducci, infatti, i due avrebbero compiuto un’altra rapina al vicino supermercato. Balducci, questa la ricostruzione dell’accusa, vedendosi minacciato, non sarebbe riuscito a controllare la sua ira, e consapevole di poter uccidere, avrebbe fatto fuoco ferendo Cassano e uccidendo Buonamico.
Sequestro Spinelli (ragioniere di Berlusconi): 8 anni e 8 mesi di carcere al capobanda Leone. Condannati anche i tre complici albanesi. Ma le pene sono state dimezzate rispetto alle richieste dell'accusa. Il pm Paolo Storari ha chiesto la condanna a 16 anni di carcere per Francesco Leone, ritenuto il capo banda, e pene tra gli 8 e i 10 anni per gli altri tre imputati. I quattro furono arrestati nel novembre dell'anno scorso assieme ad altri due italiani, Pier Luigi Tranquilli e Alessandro Maier, per i quali invece è stata chiesta l'archiviazione. Il gup di Milano Chiara Valori ha condannato con il rito abbreviato a 8 anni e 8 mesi Francesco Leone, riqualificando il reato in sequestro semplice. Sono arrivate due condanne a 4 anni e 8 mesi, e una a 6 anni e 8 mesi, per gli altri tre imputati. La vicenda è quella del sequestro lampo di Giuseppe Spinelli e della moglie.
Pesaro. Picchiò e gettò la ex dal cavalcavia: condannato a 10 anni di carcere. Il 22 giugno scorso, Saimo Luchetti è stato condannato ieri a 10 anni di reclusione per sequestro di persona, stalking, violenza privata e tentato omicidio. Dovrà versare anche una provvisionale immediata di 60mila euro per la ragazza, 40mila per la madre e 15 per la sorella. Luchetti, 23 anni, calciatore dilettante, la notte del 18 marzo 2012 aveva malmenato e rapito sotto casa l’ex fidanzata Andrea Toccaceli di 18 anni, gettandola poi da un viadotto di Fossombrone alto 15 metri. Lui si gettò giù subito dopo. Sono sopravvissuti entrambi, ristabilendosi completamente. Luchetti è in carcere ad Ancona e dove dovrà rimanerci altri nove anni.
Caso Mancuso: condannato per tentato omicidio a 5 anni di carcere. Il diciannovenne Luigi Mancuso è stato condannato a 5 anni di reclusione per il tentato omicidio di Ion Sorin Sheau, un cittadino romeno aggredito e abbandonato in strada a San Gregorio d'Ippona. Assieme a Mancuso, figlio di Giuseppe Manuso, boss della 'ndrangheta, è stato condannato anche Danilo Pannace, 18 anni, che dovrà scontare la pena di 4 anni e 8 mesi sempre per tentato omicidio. I due imputati, giudicati col rito abbreviato, sono stati ritenuti responsabili del tentato omicidio del romeno Ion Sorin Sheau, aggredito e lasciato in strada con il cranio sfondato ed in un lago di sangue il 10 agosto del 2011 a San Gregorio d’Ippona, in provincia di Vibo. Mancuso è stato ritenuto responsabile anche del reato di atti persecutori nei confronti della comunità romena di San Gregorio.
All’estero. In Argentina l’ex-presidente Carlos Menem è stato condannato a 8 anni di carcere per traffico d'armi internazionale. Sono otto gli anni di carcere che l’ex presidente, ora senatore al parlamento di Buenos Aires, dovrà scontare insieme a Óscar Camilión, ministro della difesa durante il suo governo, con l’accusa di contrabbando aggravato d’armi a Croazia ed Ecuador. Tra il 1991 e il 1995, l’Argentina esportò 6.500 tonnellate di armamenti destinati ufficialmente a Panama e Venezuela. Questi raggiunsero però la Croazia nel pieno del conflitto jugoslavo, e l’Ecuador che nel ‘95, combatteva con il Perú.
Parlare, però, di Berlusconi è come sminuire il problema. I Pasdaran della forca a buon mercato storcerebbero il naso: Bene, parliamo d’altro.
«In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Ed ancora Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.
Taranto, Milano, l’Italia.
“Egregi signori, forse qualcuno di voi, componente delle più disparate commissioni di esame di avvocato di tutta Italia, da Lecce a Bari, da Venezia a Torino, da Palermo a Messina o Catania, pensa di intimorirmi con la forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Sicuramente il più influente tra di voi, bocciandomi o (per costrizione e non per induzione) facendomi bocciare annualmente senza scrupoli all’esame di avvocato dal lontano 1998, (da quando ho promosso interrogazioni parlamentari e inoltrato denunce penali, che hanno ottenuto dei risultati eclatanti, come l’esclusione dei consiglieri dell’ordine degli avvocati dalle commissioni d’esame e ciononostante uno di loro è diventato presidente nazionale), pensa che possa rompermi le reni ed impedirmi di proseguire la mia lotta contro questo concorso forense e tutti i concorsi pubblici che provo nei miei libri essere truccati. E sempre su quei libri provo il vostro sistema giudiziario essere, per gli effetti, fondato sull’ingiustizia. Mi conoscete tutti bene da vent’anni, come mi conoscono bene, prima di giudicarmi, i magistrati che critico. Per chi non fa parte del sistema e non MI conosce e non VI conosce bene, al di là dell’immagine patinata che vi rendono i media genuflessi, pensa che in Italia vige la meritocrazia e quindi chi esamina e giudica e chi supera gli esami, vale. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. Avete la forza del potere, non la ragione della legge. Forse qualcuno di voi, sicuramente il più influente, perseguendomi artatamente anche per diffamazione a mezzo stampa, senza mai riuscire a condannarmi, pur con le sentenze già scritte prima del dibattimento, pensa di tagliarmi la lingua affinchè non possa denunciare le vostre malefatte. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. E non per me, ma per tutti coloro che, codardi, non hanno il coraggio di ribellarsi. Anche perché se lo fate a me, lo fate anche agli altri. Fino a che ci saranno centinaia di migliaia di giovani vittime che mi daranno ragione, voi sarete sempre dalla parte del torto. Avete un potere immeritato, non la ragione. Un ordine che dileggia il Potere del popolo sovrano. In Italia succede anche questo. Potete farmi passare per mitomane o pazzo. E’ nell’ordine delle cose: potrebbe andarmi peggio, come marcire in galera o peggio ancora. Potete, finché morte non ci separi, impedirmi di diventare avvocato. Farò vita eremitica e grama. Comunque, cari miei, vi piaccia o no, di magistrati ce ne sono più di dieci mila, criticati e non sono certo apprezzati; di avvocati più di 250 mila e questi, sì, disprezzati. Alla fine per tutti voi arriva comunque la Livella e l’oblio. Di Antonio Giangrande c’è uno solo. Si ama o si odia, ma fatevene un ragione: sarò per sempre una spina nel vostro fianco e sopravviverò a voi. Più mi colpite, più mi rendete altrettanto forte. Eliminarmi ora? E’ troppo tardi. Il virus della verità si diffonde. E ringraziate Dio che non ci sia io tra quei 945 parlamentari che vi vogliono molto, ma molto bene, che a parlar di voi si cagano addosso. Solo in Italia chi subisce un’ingiustizia non ha nessuno a cui rivolgersi, siano essi validi bocciati ai concorsi pubblici o innocenti in galera, che si chiamino Berlusconi o Sallusti o Mulè o Riva (e tutti questi li chiamano “persone influenti e potenti”). I nostri parlamentari non sanno nemmeno di cosa tu stia parlando, quando ti prestano attenzione. Ed è raro che ciò succeda. In fede Antonio Giangrande”.
Una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e diffamazione contro la Commissione d’esame di avvocato di Catania per tutelare l’immagine dei professionisti e di tutti i cittadini leccesi, tarantini e brindisini è quanto propone il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” (www.controtuttelemafie.it) e profondo conoscitore del fenomeno degli esami e dei concorsi pubblici truccati. Proposta presentata a tutti coloro che sono stati esclusi ed a tutti gli altri, anche non candidati all’esame di avvocato, che si sentono vittime di questo fenomeno di caccia alle streghe o che si sentano diffamati come rappresentanti e come cittadini del territorio, ormai sputtanato in tutta Italia. E proposta di presentazione del ricorso al Tar che sarebbe probabilmente accolto, tenuto conto dei precedenti al Consiglio di Stato.
«A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992.
Le mie denunce sono state sempre archiviate ed io fatto passare per pazzo o mitomane.
Quindi chi si è abilitato barando, ha scoperto l’acqua calda. Questa caccia alle streghe, perché? Vagito di legalità? Manco per idea. In tempo di magra per i professionisti sul mercato, si fa passare per plagio, non solo la dettatura uniforme dell’intero elaborato (ripeto, che c’è sempre stata), ma anche l’indicazione della massima giurisprudenziale senza virgolette. Ergo: dov’è il dolo? Per chi opera in ambito giuridico le massime della Cassazione sono l’appiglio per tutte le tesi difensive di parte o accusatorie. Senza di queste sarebbero solo opinioni personali senza valore. Altra cosa è riportare pari pari, più che le massime, le motivazioni delle sentenze.
Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?
Ed allora i candidati esclusi alla prova scritta dell’esame di avvocato tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce si rivolgano a noi per coordinare tutte le azioni di tutela: una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e per diffamazione contro tutti coloro che si son resi responsabili di una campagna diffamatoria ed un accanimento senza precedenti. Premo ricordare che l’esame è truccato insitamente e non bisogna scaricare sulla dignità e l’onore dei candidati gli interessi di una categoria corporativistica. Nessuno li difende i ragazzi, esclusi e denunciati (cornuti e mazziati) ma, dato che io c’ero e ci sono dal 1998, posso testimoniare che se plagio vi è stato, vi è sempre stato, e qualcuno ha omesso il suo intervento facendola diventare una consuetudine e quindi una norma da rispettare, e sono concorsi nel reato anche la commissione di Lecce ed il Presidente della Corte d’Appello, Mario Buffa, in quanto hanno agevolato le copiature. L’esame di avvocato in tutta Italia si apre alle 9 con la lettura delle tracce, che così finiscono in rete sul web. A Lecce l’esame non inizia mai prima delle undici. I ragazzi più furbi hanno tutto il tempo di copiare legalmente, in quanto l’esame non è ancora iniziato e quindi, se hanno copiato, non lo hanno fatto in quel frangente, perché non ci si può spostare dal banco. Anche se, devo dire, si è sempre permessa la migrazione per occupare posti non propri.
Su questi punti chiamerei a testimoniare, a rischio di spergiuro, tutti gli avvocati d’Italia.
Ai malfidati, poi, spiegherei per filo e per segno come si trucca l’esame, verbalmente, in testi ed in video.
Mi chiedo, altresì, perché tanto accanimento su Lecce se sempre si è copiato ed in tutta Italia? E perché non ci si impegna ha perseguire le commissioni che i compiti non li correggono e li dichiarano tali?
Ma la correzione era mirata al dare retti giudizi o si sono solo impegnati a fare opera inquisitoria e persecutoria?
Inoltre ci sono buone possibilità che il ricorso al Tar avverso all’esclusione possa essere accolto in base ai precedenti del Consiglio di Stato».
Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.
I commissari dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio, presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza.
Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo).
Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso.
Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.
Io che ho denunciato e dimostrato che gli esami ed i concorsi pubblici sono truccati. Forse per questo per le mie denunce sono stato fatto passare per mitomane o pazzo ed ora anche per falsario.
Denigrare la credibilità delle vittime e farle passare per carnefici. Vergogna, gentaglia.
INDIZIONE DEL CONCORSO: spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare da parte dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli di studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e somiglianza (perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice il concorso quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il prescelto. Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti presso le Università e gli enti pubblici locali. Spesso, come è successo per la polizia ed i carabinieri, i vincitori rimangono casa.
COMMISSIONE D’ESAME: spesso a presiedere la commissione d’esame di avvocato sono personalità che hanno una palese incompatibilità. Per esempio nella Commissione d’esame centrale presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato 2010 è stato nominato presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la commissione locale di Corte d’Appello di Lecce. Cacciato in virtù della riforma (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180). La legge prevede che i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere Commissari d’esame (e per conseguenza i nominati dal Consiglio locale per il Consiglio Nazionale Forense, che tra i suoi membri nomina il presidente di Commissione centrale). La riforma ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame di avvocato sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Essenziale nelle commissioni a cinque è la figura del magistrato, dell’avvocato, del professore universitario: se una manca, la commissione è nulla. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari.
I CONCORSI FARSA: spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come il concorso truffa a 1.940 posti presso l’INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l’Ente.
LE TRACCE: le tracce sono composte da personalità ministeriali scollegate alla realtà dei fatti. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Altre volte si son riportate tracce con massime vecchissime e non corrispondenti con le riforme legislative successive. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.
LE PROVE D’ESAME: spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.
MATERIALE CONSULTABILE: c’è da dire che intorno al materiale d’esame c’è grande speculazione e un grande salasso per le famiglie dei candidati, che sono rinnovati anno per anno in caso di reiterazione dell’esame a causa di bocciatura. Centinaia di euro per codici e materiale vario. Spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello Stato ed in tutti gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010. Al concorso di avvocato, invece, è permesso consultare codici commentati con la giurisprudenza. Spesso, come succede al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere da scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e nonostante ciò discriminati in sede di correzione. Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo». «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Ecco perché i commissari d’esame, con coscienza e magnanimità, aiutano i candidati. Altrimenti nessuno passerebbe l’esame. I commissari dovrebbero sapere quali sono le fonti di consultazioni permesse e quali no. Per esempio all’esame di avvocato può capitare che il magistrato commissario d’esame, avendo fatto il suo esame senza codici commentati, non sappia che per gli avvocati ciò è permesso. I commissari d’esame dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio, presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza. Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo). Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso. Impuniti, invece sono coloro che veramente copiano integralmente i compiti. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.
IL MATERIALE CONSEGNATO: il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare contenente un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci dovrebbero essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso di notaio. Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i commissari firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande consegnata.
LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:
• apertura della busta grande contenente gli elaborati;
• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;
• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;
• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;
• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;
• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;
• redazione del verbale.
Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.
La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».
Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?
In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.
Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.
Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.
Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.
Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.
In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.
GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.
TUTELA AMMINISTRATIVA: non è ammesso ricorso amministrativo gerarchico. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Il presidente di Commissione d’esame di Lecce, ricevendo il ricorso amministrativo gerarchico contro l’esito della valutazione della sottocommissione, non ha risposto entro i trenta giorni (nemmeno per il diniego) impedendomi di presentare ricorso al Tar.
TUTELA GIUDIZIARIA. Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso, dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza 175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito, il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”, secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio. Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti. All’improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull’elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le commissioni deviano il senso della norma concorsuale.
Sì, il Tar può salvare tutti, meno che Antonio Giangrande. Da venti anni inascoltato Antonio Giangrande denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Prima di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi, insabbiamento delle denunce contro i concorsi truccati ed attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei suoi compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il ricorso di Antonio Giangrande va rigettato, ma devono spiegare a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal Giangrande e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?
In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia, ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.
Certo che a qualcuno può venire in mente che comunque una certa tutela giuridica esiste. Sì, ma dove? Ma se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. “Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa”, ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si è svolto un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza – Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è già scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato (Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza (Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove. Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente! Ecco perché urge una riforma dei concorsi pubblici. Riforma dove le lobbies e le caste non ci devono mettere naso. E c’è anche il rimedio. Niente esame di abilitazione. Esame di Stato contestuale con la laurea specialistica. Attività professionale libera con giudizio del mercato e assunzione pubblica per nomina del responsabile politico o amministrativo che ne risponde per lui (nomina arbitraria così come di fatto è già oggi). E’ da vent’anni che Antonio Giangrande studia il fenomeno dei concorsi truccati. Anche la fortuna fa parte del trucco, in quanto non è tra i requisiti di idoneità. Qualcuno si scandalizzerà. Purtroppo non sono generalizzazioni, ma un dato di fatto. E da buon giurista, consapevole del fatto che le accuse vanno provate, pur in una imperante omertà e censura, l’ha fatto. In video ed in testo. Se non basta ha scritto un libro, tra i 50, da leggere gratuitamente su www.controtuttelemafie.it o su Google libri o in ebook su Amazon.it o cartaceo su Lulu.com. Invitando ad informarsi tutti coloro che, ignoranti o in mala fede, contestano una verità incontrovertibile, non rimane altro che attendere: prima o poi anche loro si ricrederanno e ringrazieranno iddio che esiste qualcuno con le palle che non ha paura di mettersi contro Magistrati ed avvocati. E sappiate, in tanti modi questi cercano di tacitare Antonio Giangrande, con l’assistenza dei media corrotti dalla politica e dall’economia e genuflessi al potere. Ha perso le speranze. I praticanti professionali sono una categoria incorreggibile: “so tutto mi”, e poi non sanno un cazzo, pensano che essere nel gota, ciò garantisca rispetto e benessere. Che provino a prendere in giro chi non li conosce. La quasi totalità è con le pezze al culo e genuflessi ai Magistrati. Come avvoltoi a buttarsi sulle carogne dei cittadini nei guai e pronti a vendersi al miglior offerente. Non è vero? Beh! Chi esercita veramente sa che nei Tribunali, per esempio, vince chi ha più forza dirompente, non chi è preparato ed ha ragione. Amicizie e corruttele sono la regola. Naturalmente per parlare di ciò, bisogna farlo con chi lavora veramente, non chi attraverso l’abito, cerca di fare il monaco.
Un esempio per tutti di come si legifera in Parlamento, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani.
In tema di persecuzione giudiziaria, vi si racconta una favola e per tale prendetela.
C‘era una volta in un paese ridente e conosciuto ai più come il borgo dei sognatori, un vecchietto che andava in bicicletta per la via centrale del paese. Il vecchietto non era quello che in televisione indicano come colui che buttava le bambine nei pozzi. In quel frangente di tempo una sua coetanea, avendo parcheggiato l’auto in un tratto di strada ben visibile, era in procinto di scendere, avendo aperto la portiera. Ella era sua abitudine, data la sua tarda età, non avere una sua auto, ma usare l’auto della nipote o quella simile del fratello. Auto identiche in colore e marca. Il vecchietto, assorto nei suoi pensieri, investe lo sportello aperto dell’auto e cade. Per sua fortuna, a causa della bassa velocità tenuta, la caduta è indolore. Assicurato alla signora che nulla era accaduto, il vecchietto inforca la bicicletta e va con le sue gambe. Dopo poco tempo arriva alla signora da parte del vecchietto una richiesta di risarcimento danni, su mandato dato allo studio legale di sua figlia. L’assicurazione considera che sia inverosimile la dinamica indicata ed il danno subito e ritiene di non pagare.
Dopo due anni arriva una citazione da parte di un’altro avvocato donna. Una richiesta per danni tanto da farsi ricchi. Ma non arriva alla vecchietta, ma a sua nipote. Essa indica esattamente l’auto, la zona del sinistro e la conducente, accusando la nipote di essere la responsabile esclusiva del sinistro.
E peccato, però, che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto la targa, pur posti a pochi metri del fatto; che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto l’auto distinguendola da quella simile; che nessun testimone in giudizio ha disconosciuto la vecchietta come protagonista; che nessun testimone in giudizio ha ammesso che vi siano stati conseguenze per la caduta.
E peccato, però, che l’auto non era in curva, come da essa indicato.
Peccato, però, che la responsabile del sinistro non fosse quella chiamata in giudizio, ma la vecchietta di cui sopra.
Una prima volta sbaglia il giudice competente ed allora cambia l’importo, riproponendo la domanda.
Tutti i giudici di pace ed onorari (avvocati) fanno vincere la causa del sinistro fantasma alla collega.
La tapina chiamata in causa afferma la sua innocenza e presenta una denuncia contro l’avvocato. La poveretta, che poteva essere querelata per lesioni gravissime, si è cautelata. La sua denuncia è stata archiviata, mentre contestualmente, alla stessa ora, i testimoni venivano sentiti alla caserma dei carabinieri.
La poveretta non sapeva che l’avvocato denunciato era la donna del pubblico ministero, il cui ufficio era competente sulla denuncia contro proprio l’avvocato.
Gli amorosi cosa hanno pensato per tacitare chi ha osato ribellarsi? L’avvocato denuncia per calunnia la poveretta, ingiustamente accusata del sinistro, la procura la persegue e gli amici giudici la condannano.
L’appello sacrosanto non viene presentato dagli avvocati, perché artatamente ed in collusione con la contro parte sono fatti scadere i termini. L’avvocato amante del magistrato altresì chiede ed ottiene una barca di soldi di danni morali.
La poveretta ha due fratelli: uno cattivo, amico e succube di magistrati ed avvocati, che le segue le sue cause e le perde tutte: uno buono che è conosciuto come il difensore dei deboli contro i magistrati e gli avvocati. I magistrati le tentano tutte per condannarlo: processi su processi. Ma non ci riescono, perché è innocente e le accuse sono inventate. L’unica sua colpa è ribellarsi alle ingiustizie su di sé o su altri. Guarda caso il fratello buono aveva denunciato il magistrato amante dell’avvocato donna di cui si parla. Magistrato che ha archiviato la denuncia contro se stesso.
La procura ed i giudici accusano anche il fratello buono di aver presentato una denuncia contro l’avvocato e di aver fatto conoscere la malsana storia a tutta l’Italia. Per anni si cerca la denuncia: non si trova. Per anni si riconduce l’articolo a lui: non è suo.
Il paradosso è che si vuol condannare per un denuncia, che tra tante, è l’unica non sua.
Il paradosso è che si vuol condannare per un articolo, che tra tanti (è uno scrittore), è l’unico non suo e su spazio web, che tra tanti, non è suo.
Se non si può condannare, come infangare la sua credibilità? Dopo tanti e tanti anni si fa arrivare il conto con la prescrizione e far pagare ancora una volta la tangente per danni morali all’avvocato donna, amante di magistrati.
Questa è il finale triste di un favola, perché di favola si tratta, e la morale cercatevela voi.
Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano. Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della mafia, è avvenuto lo scorso 31 maggio 2013, durante la pausa di un'udienza alla quale il boss partecipava in teleconferenza. Queste frasi sono contenute in una relazione di servizio stilata dagli agenti del Gom, il gruppo speciale della polizia penitenziaria che si occupa della gestione dei detenuti eccellenti. La relazione è stata inviata ai magistrati della Procura di Palermo che si occupano della trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.
La legge forse è uguale per tutti, le toghe certamente no. Ci sono quelle buone e quelle cattive. Ci sono i giudici e i pm da una parte e gli avvocati dall'altra. Il Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri al convegno di Confindustria del 2 luglio 2013 risponde senza peli sulla lingua alla domanda del direttore del Tg de La7 Enrico Mentana , su chi sia al lavoro per frenare le riforme: «gli avvocati... le grandi lobby che impediscono che il Paese diventi normale». Così come è altrettanto diretta quando Mentana le chiede se nel governo c’è una unità di intenti sulla giustizia: «non c’è un sentimento comune, o meglio c’è solo a parole», dice, spiegando che «quando affrontiamo il singolo caso, scattano i campanilismi e le lobby». Magari ha ragione lei. Forse esiste davvero la lobby degli azzeccagarbugli, scrive Salvatore Tramontano su “Il Giornale”. Ogni categoria fa nel grande gioco del potere la sua partita. Non ci sono, però, solo loro. Il Guardasigilli, ex Ministro dell’Interno ed ex alto burocrate come ex Prefetto non si è accorto che in giro c'è una lobby molto più forte, un Palazzo, un potere che da anni sogna di sconfinare e che fa dell'immobilismo la sua legge, tanto da considerare qualsiasi riforma della giustizia un attentato alla Costituzione. No, evidentemente no.
Oppure il ministro fa la voce grossa con le toghe piccole, ma sta bene attenta a non infastidire i mastini di taglia grossa. La lobby anti riforme più ostinata e pericolosa è infatti quella dei dottor Balanzone, quella con personaggi grassi e potenti. È la Lobby ed anche Casta dei magistrati. Quella che se la tocchi passi guai, e guai seri. Quella che non fa sconti. Quella che ti dice: subisci e taci. Quella che non si sottopone alla verifica pisco-fisica-attitudinale. Quella vendicativa. Quella che appena la sfiori ti inquisisce per lesa maestà. È una lobby così minacciosa che perfino il ministro della Giustizia non se la sente neppure di nominarla. Come se al solo pronunciarla si evocassero anatemi e disgrazie. È un'ombra che mette paura, tanto che la sua influenza agisce perfino nell'inconscio. Neanche in un fuori onda la Cancellieri si lascia scappare il nome della gran casta. È una censura preventiva per vivere tranquilli. Maledetti avvocati, loro portano la scusa. Ma chi soprattutto non vuole riformare la giustizia in Italia ha un nome e un cognome: magistratura democratica. Quella delle toghe rosse. Dei comunisti che dovrebbero tutelare i deboli contro i potenti.
Ma si sa in Italia tutti dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi, nudda sentu”.
I magistrati, diceva Calamandrei, sono come i maiali. Se ne tocchi uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione.
In tema di Giustizia l'Italia è maglia nera in Europa. In un anno si sono impiegati 564 giorni per il primo grado in sede civile, contro una media di 240 giorni nei Paesi Ocse. Il tempo medio per la conclusione di un procedimento civile nei tre gradi di giudizio si attesta sui 788 giorni. Non se la passa meglio la giustizia penale: la sua lentezza è la causa principale di sfiducia nella giustizia (insieme alla percezione della mancata indipendenza dei magistrati e della loro impunità, World Economic Forum). La durata media di un processo penale, infatti, tocca gli otto anni e tre mesi, con punte di oltre 15 anni nel 17% dei casi. Ora, tale premessa ci sbatte in faccia una cruda realtà. Per Silvio Berlusconi la giustizia italiana ha tempi record, corsie preferenziali e premure impareggiabili. Si prenda ad esempio il processo per i diritti televisivi: tre gradi di giudizio in nove mesi, una cosa del genere non si è mai vista in Italia. Il 26 ottobre 2012 i giudici del Tribunale di Milano hanno condannato Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione, una pena più dura di quella chiesta dalla pubblica accusa (il 18 giugno 2012 i PM Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono al giudice una condanna di 3 anni e 8 mesi per frode fiscale di 7,3 milioni di euro). Il 9 novembre 2012 Silvio Berlusconi, tramite i suoi legali, ha depositato il ricorso in appello. L'8 maggio 2013 la Corte d'Appello di Milano conferma la condanna di 4 anni di reclusione, 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e 3 anni dagli uffici direttivi. Il 9 luglio 2013 la Corte di Cassazione ha fissato al 30 luglio 2013 l'udienza del processo per frode fiscale sui diritti Mediaset. Processo pervenuto in Cassazione da Milano il 9 luglio con i ricorsi difensivi depositati il 19 giugno. Per chi se ne fosse scordato - è facile perdere il conto tra i 113 procedimenti (quasi 2700 udienze) abbattutisi sull'ex premier dalla sua discesa in campo, marzo 1994 - Berlusconi è stato condannato in primo grado e in appello a quattro anni di reclusione e alla pena accessoria di cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Secondo i giudici, l'ex premier sarebbe intervenuto per far risparmiare a Mediaset tre milioni di imposte nel 2002-2003. Anni in cui, per quanto vale, il gruppo versò all'erario 567 milioni di tasse. I legali di Berlusconi avranno adesso appena venti giorni di tempo per articolare la difesa. «Sono esterrefatto, sorpreso, amareggiato» dichiara Franco Coppi. Considerato il migliore avvocato cassazionista d'Italia, esprime la sua considerazione con la sua autorevolezza e il suo profilo non politicizzato: «Non si è mai vista un'udienza fissata con questa velocità», che «cade tra capo e collo» e «comprime i diritti della difesa». Spiega: «Noi difensori dovremo fare in 20 giorni quello che pensavamo di fare con maggior respiro». Tutto perché? «Evidentemente - ragiona Coppi -, la Cassazione ha voluto rispondere a chi paventava i rischi della prescrizione intermedia. Ma di casi come questo se ne vedono molti altri e la Suprema Corte si limita a rideterminare la pena, senza andare ad altro giudice. Al di là degli aspetti formali, sul piano sostanziale, dover preparare una causa così rinunciando a redigere motivi nuovi, perché i tempi non ci sono, significa un'effettiva diminuzione delle possibilità di difesa». Il professore risponde così anche all'Anm che definisce «infondate» le polemiche e nega che ci sia accanimento contro il Cavaliere.
113 procedimenti. Tutto iniziò nel 1994 con un avviso di garanzia (poi dimostratosi infondato) consegnato a mezzo stampa dal Corriere della Sera durante il G8 che si teneva a Napoli. Alla faccia del segreto istruttorio. E’ evidentemente che non una delle centinaia di accuse rivoltegli contro era fondata. Nessun criminale può farla sempre franca se beccato in castagna. E non c’è bisogno di essere berlusconiano per affermare questo.
E su come ci sia commistione criminale tra giornali e Procure è lo stesso Alessandro Sallusti che si confessa. In un'intervista al Foglio di Giuliano Ferrara, il direttore de Il Giornale racconta i suoi anni al Corriere della Sera, e il suo rapporto con Paolo Mieli: «Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno scoop pazzesco. E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai tempi di Mani pulite il Corriere aveva due direttori, Mieli e Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano. I magistrati ci passavano le notizie, con una tempistica che serviva a favorire le loro manovre. Mi ricordo bene la notte in cui pubblicammo l'avviso di garanzia a Berlusconi. Fu una giornata bestiale, Mieli a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi piombò all'improvviso nella mia stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, che firmavano il pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di insicurezza, di scrivere tutto, che lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono grave, teso. Quella notte, poi, ci portò in pizzeria, ci disse che aveva già scritto la lettera di dimissioni, se quello che avevamo non era vero sarebbero stati guai seri. Diceva di aver parlato con Agnelli e poi anche con il presidente Scalfaro. Ma poi ho ricostruito che non era così, non li aveva nemmeno cercati, secondo me lui pendeva direttamente dalla procura di Milano».
Si potrebbe sorridere al fatto che i processi a Silvio Berlusconi, nonostante cotanto di principi del foro al seguito, innalzino sensibilmente la media nazionale dello sfascio della nostra giustizia. Ma invece la domanda, che fa capolino e che sorge spontanea, è sempre la stessa: come possiamo fidarci di "questa" giustizia, che se si permette di oltraggiare se stessa con l’uomo più potente d’Italia, cosa potrà fare ai poveri cristi? La memoria corre a quel film di Dino Risi, "In nome del popolo italiano", 1971. C'è il buono, il magistrato impersonato da Tognazzi. E poi c'è il cialtrone, o presunto tale, che è uno strepitoso Gassman. Alla fine il buono fa arrestare il cialtrone, ma per una cosa che non ha fatto, per un reato che non ha commesso. Il cialtrone è innocente, ma finalmente è dentro.
Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia,i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730. Accadde che un vigile, a Montagnano, provincia di Campobasso, nel lontano 2 novembre 2005 fermò un uomo di 70 anni: la sua auto viaggiava con un solo faro acceso. Ne seguì una vivace discussione tra il prossimo multato e l'agente. Quando contravvenzione fu, il guidatore si lasciò andare al seguente sfogo: "Invece di andare ad arrestare i tossici a Campobasso, pensate a fare queste stronzate e poi si vedono i risultati. In questo schifo di Italia di merda...". Il vigile zelante prese nota di quella frase e lo denunciò. Mille euro di multa - In appello, il 26 aprile del 2012, per il viaggiatore senza faro che protestò aspramente contro la contravvenzione arrivò la condanna, pena interamente coperta da indulto. L'uomo decise così di rivolgersi alla Cassazione. La sentenza poi confermata dai giudici della prima sezione penale del Palazzaccio. Il verdetto: colpevole di "vilipendio alla nazione". Alla multa di ormai otto anni fa per il faro spento, si aggiunge quella - salata - di mille euro per l'offesa al tricolore. L'uomo si era difeso sostenendo che non fosse sua intenzione offendere lo Stato e appellandosi al "diritto alla libera manifestazione di pensiero". «Il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo - si legge nella sentenza depositata - non può trascendere in offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva»: per integrare il reato, previsto dall'articolo 291 del codice penale, «è sufficiente una manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata pubblicamente». Il reato in esame, spiega la Suprema Corte, «non consiste in atti di ostilità o di violenza o in manifestazioni di odio: basta l'offesa alla nazione, cioè un'espressione di ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o l'onore della collettività nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti dall'autore». Il comportamento dell'imputato, dunque, che «in luogo pubblico, ha inveito contro la nazione», gridando la frase “incriminata”, «sia pure nel contesto di un'accesa contestazione elevatagli dai carabinieri per aver condotto un'autovettura con un solo faro funzionante, integra - osservano gli “ermellini” - il delitto di vilipendio previsto dall'articolo 291 cp, sia nel profilo materiale, per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente, tali da ledere oggettivamente il prestigio o l'onore della collettività nazionale, sia nel profilo psicologico, integrato dal dolo generico, ossia dalla coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall'autore e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita, che abbia spinto l'agente a compiere l'atto di vilipendio».
A questo punto ognuno di noi ammetta e confessi che, almeno per un volta nella sua vita, ha proferito la fatidica frase “che schifo questa Italia di merda” oppure “che schifo questi italiani di merda”.
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!
Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e e gran parte della classe politica del tempo tranne quei pochi che ne erano i veri destinatari (Craxi e Forlani) e quei pochissimi che si rifiutarono di partecipare al piano stragista (Andreotti Lima e Mannino) e che per questo motivo furono assassinati o lungamente processati. La Sinistra non di governo sapeva. La Sinistra Democristiana ha partecipato al piano stragista fino all'elezione di Scalfaro poi ha cambiato rotta. I traditori di Craxi e la destra neofascista sono gli artefici delle stragi. Quelli che pensavamo essere i peggio erano i meglio. E quelli che pensavamo essere i meglio erano i peggio. In questo contesto non si può cercare dai carabinieri Mario Mori e Mario Obinu che comunque dipendevano dal Ministero degli Interni e quindi dal Potere Politico, un comportamento lineare e cristallino.
Ed a proposito del “TUTTI DENTRO”, alle toghe milanesi Ruby non basta mai. Un gigantesco terzo processo per il caso Ruby, dove sul banco degli imputati siedano tutti quelli che, secondo loro, hanno cercato di aiutare Berlusconi a farla franca: poliziotti, agenti dei servizi segreti, manager, musicisti, insomma quasi tutti i testimoni a difesa sfilati davanti ai giudici. Anche Ruby, colpevole di avere negato di avere fatto sesso con il Cavaliere. Ma anche i suoi difensori storici, Niccolò Ghedini e Piero Longo. E poi lui medesimo, Berlusconi. Che della opera di depistaggio sarebbe stato il regista e il finanziatore. I giudici con questa decisione mandano a dire (e lo renderanno esplicito nelle motivazioni) che secondo loro in aula non si è assistito semplicemente ad una lunga serie di false testimonianze, rese per convenienza o sudditanza, ma all'ultima puntata di un piano criminale architettato ben prima che lo scandalo esplodesse, per mettere Berlusconi al riparo dalle sue conseguenze. Corruzione in atti giudiziari e favoreggiamento, questi sono i reati che i giudici intravedono dietro quanto è accaduto. Per l'operazione di inquinamento e depistaggio la sentenza indica una data di inizio precisa: il 6 ottobre 2010, quando Ruby viene a Milano insieme al fidanzato Luca Risso e incontra l'avvocato Luca Giuliante, ex tesoriere del Pdl, al quale riferisce il contenuto degli interrogatori che ha già iniziato a rendere ai pm milanesi. I giudici del processo a Berlusconi avevano trasmesso gli atti su quell'incontro all'Ordine degli avvocati, ritenendo di trovarsi davanti a una semplice violazione deontologica. Invece la sentenza afferma che fu commesso un reato, e che insieme a Giuliante ne devono rispondere anche Ghedini e Longo. E l'operazione sarebbe proseguita a gennaio, quando all'indomani delle perquisizioni e degli avvisi di garanzia, si tenne una riunione ad Arcore tra Berlusconi e alcune delle «Olgettine» che erano state perquisite. Berlusconi come entra in questa ricostruzione? Essendo imputato nel processo, il Cavaliere non può essere accusato né di falsa testimonianza né di favoreggiamento. La sua presenza nell'elenco vuol dire che per i giudici le grandi manovre compiute tra ottobre e gennaio si perfezionarono quando Berlusconi iniziò a stipendiare regolarmente le fanciulle coinvolte nell'inchiesta. Corruzione di testimoni, dunque. Ghedini e Longo ieri reagiscono con durezza, definendo surreale la mossa dei giudici e spiegando che gli incontri con le ragazze erano indagini difensive consentite dalla legge. Ma la nuova battaglia tra Berlusconi e la Procura di Milano è solo agli inizi. D’altra parte anche Bari vuol dire la sua sulle voglie sessuali di Berlusconi. Silvio Berlusconi avrebbe pagato l'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini tramite il faccendiere Walter Lavitola, perchè nascondesse dinanzi ai magistrati la verità sulle escort portate alle feste dell’ex premier. Ne è convinta la procura di Bari che ha notificato avvisi di conclusioni delle indagini sulle presunte pressioni che Berlusconi avrebbe esercitato su Tarantini perchè lo coprisse nella vicenda escort. Nell’inchiesta Berlusconi e Lavitola sono indagati per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria. Secondo quanto scrivono alcuni quotidiani, l’ex premier avrebbe indotto Tarantini a tacere parte delle informazioni di cui era a conoscenza e a mentire nel corso degli interrogatori cui è stato sottoposto dai magistrati baresi (tra luglio e novembre 2009) che stavano indagando sulla vicenda escort. In cambio avrebbe ottenuto complessivamente mezzo milione di euro, la promessa di un lavoro e la copertura delle spese legali per i processi. Secondo l’accusa, Tarantini avrebbe mentito, tra l'altro, negando che Berlusconi fosse a conoscenza che le donne che Gianpy reclutava per le sue feste erano escort. Sono indagati Berlusconi e Lavitola, per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria.
Comunque torniamo alle condanne milanesi. Dopo il processo Ruby 1, concluso con la condanna in primo grado di Silvio Berlusconi a 7 anni, ecco il processo Ruby 2, con altri 7 anni di carcere per Emilio Fede e Lele Mora e 5 per Nicole Minetti. Ma attenzione, perché si parlerà anche del processo Ruby 3, perché come accaduto con la Corte che ha giudicato il Cav anche quella che ha condannato Fede, Mora e Minetti per induzione e favoreggiamento della prostituzione ha stabilito la trasmissione degli atti al pm per valutare eventuali ipotesi di reato in relazione alle indagini difensive. Nel mirino ci sono, naturalmente, Silvio Berlusconi, i suoi legali Niccolò Ghedini e Piero Longo e la stessa Karima el Mahroug, in arte Ruby. Come accaduto per il Ruby 1 anche per il Ruby 2 il profilo penale potrebbe essere quello della falsa testimonianza. La procura, rappresentata dal pm Antonio Sangermano e dall’aggiunto Piero Forno, per gli imputati aveva chiesto sette anni di carcere per induzione e favoreggiamento della prostituzione anche minorile. Il processo principale si era concluso con la condanna a sette anni di reclusione per Silvio Berlusconi, accusato di concussione e prostituzione minorile. Durante la requisitoria l’accusa aveva definito le serate di Arcore “orge bacchiche”. Secondo gli inquirenti sono in tutto 34 le ragazze che sono state indotte a prostituirsi durante le serate ad Arcore per soddisfare, come è stato chiarito in requisitoria, il “piacere sessuale” del Cavaliere. Serate che erano “articolate” in tre fasi: la prima “prevedeva una cena”, mentre la seconda “definita ‘bunga bunga’” si svolgeva “all’interno di un locale adibito a discoteca, dove le partecipanti si esibivano in mascheramenti, spogliarelli e balletti erotici, toccandosi reciprocamente ovvero toccando e facendosi toccare nelle parti intime da Silvio Berlusconi”. La terza fase riguardava infine la conclusione della serata e il suo proseguimento fino alla mattina dopo: consisteva, scrivono i pm, “nella scelta, da parte di Silvio Berlusconi, di una o più ragazze con cui intrattenersi per la notte in rapporti intimi, persone alle quali venivano erogate somme di denaro ed altre utilità ulteriori rispetto a quelle consegnate alle altre partecipanti”. A queste feste, per 13 volte (il 14, il 20, il 21, il 27 e il 28 febbraio, il 9 marzo, il 4, il 5, il 24, il 25 e il 26 aprile, e l’1 e il 2 maggio del 2010) c’era anche Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori, non ancora 18enne. La ragazza marocchina, in base all’ipotesi accusatoria, sarebbe stata scelta da Fede nel settembre del 2009 dopo un concorso di bellezza in Sicilia, a Taormina, dove lei era tra le partecipanti e l’ex direttore del Tg4 uno dei componenti della giuria. Secondo le indagini, andò ad Arcore la prima volta accompagnata da Fede con una macchina messa a disposizione da Mora. Per i pm, però, ciascuno dei tre imputati, in quello che è stato chiamato “sistema prostitutivo”, aveva un ruolo ben preciso. Lele Mora “individuava e selezionava”, anche insieme a Emilio Fede, “giovani donne disposte a prostituirsi” nella residenza dell’ex capo del Governo scegliendole in alcuni casi “tra le ragazze legate per motivi professionali all’agenzia operante nel mondo dello spettacolo” gestita dall’ex agente dei vip. Inoltre Mora, come Fede, “organizzava” in alcune occasioni “l’accompagnamento da Milano ad Arcore” di alcune delle invitate alla serate “mettendo a disposizione le proprie autovetture”, con tanto di autista. I pm in requisitoria hanno paragonato Mora e Fede ad “assaggiatori di vini pregiati”, perché valutavano la gradevolezza estetica delle ragazze e le sottoponevano a “un minimo esame di presentabilità socio-relazionale”, prima di immetterle nel “circuito” delle cene. Nicole Minetti, invece, avrebbe fatto da intermediaria per i compensi alle ragazze – in genere girati dal ragionier Giuseppe Spinelli, allora fiduciario e “ufficiale pagatore” per conto del leader del Pdl – che consistevano “nella concessione in comodato d’uso” degli appartamenti nel residence di via Olgettina e “in contributi economici” per il loro mantenimento o addirittura per il pagamento delle utenze di casa o delle spese mediche fino agli interventi di chirurgia estetica.
Il rischio di una sentenza che smentisse quella inflitta a Berlusconi è stato dunque scongiurato: e di fatto la sentenza del 19 luglio 2013 e quella che del 24 giugno 2013 rifilò sette anni di carcere anche al Cavaliere si sorreggono a vicenda. Chiamati a valutare sostanzialmente il medesimo quadro di prove, di testimonianze, di intercettazioni, due tribunali composti da giudici diversi approdano alle stesse conclusioni. Vengono credute le ragazze che hanno parlato di festini hard. E non vengono credute le altre, Ruby in testa, che proprio nell’aula di questo processo venne a negare di avere mai subito avances sessuali da parte di Berlusconi. La testimonianza di Ruby viene trasmessa insieme a quella di altri testimoni alla procura perché proceda per falso, insieme a quella di molti altri testimoni. I giudici, come già successo nel processo principale, hanno trasmesso gli atti alla Procura perché valutino le dichiarazioni di 33 testimoni della difesa compresa la stessa Ruby; disposta la trasmissione degli atti anche per lo stesso Silvio Berlusconi e dei suoi avvocati: Niccolò Ghedini e Piero Longo per violazione delle indagini difensive. Il 6-7 ottobre 2010 (prima che scoppiasse lo scandalo) e il 15 gennaio 2011 (il giorno dopo l’avviso di garanzia al Cavaliere) alcune ragazze furono convocate ad Arcore, senza dimenticare l’interrogatorio fantasma fatto a Karima. Durante le perquisizioni in casa di alcune Olgettine erano stati trovati verbali difensivi già compilati. Vengono trasmessi gli atti alla procura anche perché proceda nei confronti di Silvio Berlusconi e dei suoi difensori Niccolò Ghedini e Piero Longo, verificando se attraverso l'avvocato Luca Giuliante abbiano tentato di addomesticare la testimonianza di Ruby. In particolare la Procura dovrà valutare la posizione, al termine del processo di primo grado «Ruby bis» non solo per Silvio Berlusconi, i suoi legali e Ruby, ma anche per altre ventinove persone. Tra queste, ci sono numerose ragazze ospiti ad Arcore che hanno testimoniato, tra le quali: Iris Berardi e Barbara Guerra (che all'ultimo momento avevano ritirato la costituzione di parte civile) e Alessandra Sorcinelli. Il tribunale ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica anche per il primo avvocato di Ruby, Luca Giuliante. «Inviare gli atti a fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e i suoi difensori è davvero surreale». Lo affermano i legali di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Piero Longo, in merito alla decisione dei giudici di Milano di trasmettere gli atti alla procura in relazione alla violazione delle indagini difensive. «Quando si cerca di esplicare il proprio mandato defensionale in modo completo, e opponendosi ad eventuali prevaricazioni, a Milano possono verificarsi le situazioni più straordinarie» proseguono i due avvocati. E ancora: «La decisione del Tribunale di Milano nel processo cosiddetto Ruby bis di inviare gli atti per tutti i testimoni che contrastavano la tesi accusatoria già fa ben comprendere l'atteggiamento del giudicante. Ma inviare gli atti ai fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e per i suoi difensori è davvero surreale. Come è noto nè il presidente Berlusconi nè i suoi difensori hanno reso testimonianza in quel processo. Evidentemente si è ipotizzato che vi sarebbe stata attività penalmente rilevante in ordine alle esperite indagini difensive. Ciò è davvero assurdo».
La sentenza è stata pronunciata dal giudice Annamaria Gatto. Ad assistere all'udienza anche per il Ruby 2, in giacca e cravatta questa volta e non in toga, anche il procuratore Edmondo Bruti Liberati, che anche in questo caso, come nel processo a Berlusconi, ha voluto rivendicare in questo modo all'intera Procura la paternità dell'inchiesta Ruby. Il collegio presieduto da Anna Maria Gatto e composto da Paola Pendino e Manuela Cannavale è formato da sole donne. Giudici donne come quelle del collegio del processo principale formato dai giudici Orsola De Cristofaro, Carmela D'Elia e dal presidente Giulia Turri. Anche la Turri, come la Gatto, ha deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare l'eventuale falsa testimonianza per le dichiarazioni rese in aula da 33 testi: una lunga serie di testimoni che hanno sfilato davanti alla corte.
TOGHE ROSA
Dici donna e dici danno, anzi, "condanno".
È il sistema automatico che porta il nome di una donna, Giada (Gestione informatica assegnazioni dibattimentali) che ha affidato il caso della minorenne Karima el Mahroug, detta Ruby Rubacuori, proprio a quelle tre toghe. Che un processo possa finire a un collegio tutto femminile non è una stranezza, come gridano i falchi del Pdl che dopo troppi fantomatici complotti rossi ora accusano la trama rosa: è solo il segno dell'evoluzione storica di una professione che fino a 50 anni fa era solo maschile. Tra i giudici del tribunale di Milano oggi si contano 144 donne e 78 uomini: quasi il doppio.
Donna è anche Ilda Boccassini, che rappresentava l’accusa contro Berlusconi. Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini - ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».
Dovesse mai essere fermata un'altra Ruby, se ne occuperebbe lei. Il quadro in rosa a tinta forte si completa con il gip Cristina Di Censo, a cui il computer giudiziario ha affidato l'incarico di rinviare a "giudizio immediato" Berlusconi, dopo averle fatto convalidare l'arresto di Massimo Tartaglia, il folle che nel 2010 lo ferì al volto con una statuetta del Duomo. Per capirne la filosofia forse basta la risposta di una importante giudice di Milano a una domanda sulla personalità di queste colleghe: «La persona del magistrato non ha alcuna importanza: contano solo le sentenze. È per questo che indossiamo la toga».
Donna di carattere anche Annamaria Fiorillo, il magistrato dei minori che, convocata dal tribunale, ha giurato di non aver mai autorizzato l'affidamento della minorenne Ruby alla consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti e tantomeno alla prostituta brasiliana Michelle Conceicao. Per aver smentito l'opposta versione accreditata dall'allora ministro Roberto Maroni, la pm si è vista censurare dal Csm per "violazione del riserbo".
Ruby 2, chi sono le tre giudicesse che hanno condannato Mora, Fede e la Minetti, e trasmesso gli atti per far condannare Berlusconi, i suoi avvocati e tutti i suoi testimoni? Anna Maria Gatto, Paola Pendino e Manuela Cannavale. Si assomigliano molto anche nel look alle loro colleghe del Ruby 1.
Anna Maria Gatto si ricorda per una battuta. La testimone Lisa Barizonte, sentita in aula, rievoca le confidenze tra lei e Karima El Mahrough, alias Ruby. In particolare il giudice le chiede di un incidente con l’olio bollente. La teste conferma: “Mi disse che lo zio le fece cadere addosso una pentola di olio bollente”. “Chi era lo zio? Mubarak?”, chiede Anna Maria Gatto strappando un sorriso ai presenti in aula. Ironia che punta dritta al centro dello scandalo. La teste, sottovoce, risponde: “No, non l’ha detto”. Annamaria Gatto, presidente della quinta sezione penale, è il giudice che, tra le altre cose, condannò in primo grado a 2 anni l'ex ministro Aldo Brancher per ricettazione e appropriazione indebita, nell'ambito di uno stralcio dell'inchiesta sulla tentata scalata ad Antonveneta da parte di Bpi.
Manuela Cannavale, invece, ha fatto parte del collegio che nel 2008 ha condannato in primo grado a tre anni di reclusione l'ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia.
Paola Pendino è stata invece in passato membro della Sezione Autonoma Misure di Prevenzione di Milano, e si è occupata anche di Mohammed Daki, il marocchino che era stato assolto dall'accusa di terrorismo internazionale dal giudice Clementina Forleo.
Ruby 1, chi sono le tre giudichesse che hanno condannato Berlusconi?
Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola De Cristofaro: sono i nomi dei tre giudici che hanno firmato la sentenza di condanna di Berlusconi a sette anni. La loro foto sta facendo il giro del web e tra numerosi commenti di stima e complimenti, spunta anche qualche offesa (perfino dal carattere piuttosto personale). L’aggettivo più ricorrente, inteso chiaramente in senso dispregiativo, è quello di “comuniste”. Federica De Pasquale le ha definite “il peggior esempio di femminismo” arrivando ad ipotizzare per loro il reato di stalking. Ma su twitter qualche elettore del Pdl non ha esitato a definirle come “represse” soppesandone il valore professionale con l’aspetto fisico e definendole “quasi più brutte della Bindi”. Ma cosa conta se il giudice è uomo/donna, bello/brutto?
Condanna a Berlusconi: giudici uomini sarebbero stati più clementi? Ma per qualcuno il problema non è tanto che si trattasse di “toghe rosse” quanto piuttosto di “giudici rosa”. Libero intitola l’articolo sulla sentenza di condanna alle “giudichesse”, sottolineando con un femminile forzato di questo sostantivo la natura di genere della condanna e quasi a suggerire che se i giudici fossero stati uomini la sentenza sarebbe stata diversa da quella che il giornale definisce “castrazione” e “ergastolo politico” del Cav. La natura rosa del collegio quindi avrebbe influenzato l’esito del giudizio a causa di un “dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi”. Eppure è lo stesso curriculum dei giudici interessati, sintetizzato sempre da Libero, a confermare la preparazione e la competenza delle tre toghe a giudicare con lucidità in casi di grande impatto mediatico.
Giulia Turri è nota come il giudice che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per Fabrizio Corona ma è anche la stessa che ha giudicato in qualità di gup due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro e che, nel 2010, ha disposto l’arresto di cinque persone nell’ambito dell’inchiesta su un giro di tangenti e droga che ha coinvolto la movida milanese, e in particolare le note discoteche Hollywood e The Club.
Orsola De Cristofaro è stata giudice a latere nel processo che si è concluso con la condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, nell’ambito dell’inchiesta sulla clinica Santa Rita.
Carmen D’Elia si è già trovata faccia a faccia con Berlusconi in tribunale: ha fatto infatti parte del collegio di giudici del processo Sme in cui era imputato.
A condannare Berlusconi sono state tre donne: la Turri, la De Cristofaro e la D'Elia che già lo aveva processato per la Sme. La presentazione è fatta da “Libero Quotidiano” con un articolo del 24 giugno 2013. A condannare Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione e all'interdizione a vita dai pubblici uffici nel primo grado del processo Ruby sono state tre toghe rosa. Tre giudichesse che hanno propeso per una sentenza pesantissima, ancor peggiore delle richieste di Ilda Boccassini. Una sentenza con cui si cerca la "castrazione" e l'"ergastolo politico" del Cav. Il collegio giudicante della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che è entrato a gamba tesa contro il governo Letta e contro la vita democratica italiana era interamente composto da donne, tanto che alcuni avevano storto il naso pensando che la matrice "rosa" del collegio avrebbe potuto avere il dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi.
A presiedere il collegio è stata Giulia Turri, arrivata in Tribunale dall'ufficio gip qualche mese prima del 6 aprile 2011, giorno dell'apertura del dibattimento. Come gup ha giudicato due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro, sequestrato e ucciso nel 2006, pronunciando due condanne, una all'ergastolo e una a 30 anni. Nel marzo del 2007 firmò l'ordinanza di arresto per il "fotografo dei vip" Fabrizio Corona, e nel novembre del 2008 ha rinviato a giudizio l'ex consulente Fininvest e deputato del Pdl Massimo Maria Berruti. Uno degli ultimi suoi provvedimenti come gip, e che è salito alla ribalta della cronaca, risale al luglio 2010: l'arresto di cinque persone coinvolte nell'inchiesta su un presunto giro di tangenti e droga nel mondo della movida milanese, e in particolare nelle discoteche Hollywood e The Club, gli stessi locali frequentati da alcune delle ragazze ospiti delle serate ad Arcore e che sono sfilate in aula.
La seconda giudichessa è stata Orsola De Cristofaro, con un passato da pm e gip, che è stata giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l'ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita e che proprio sabato scorso si è visto in pratica confermare la condanna sebbene con una lieve diminuzione per via della prescrizioni di alcuni casi di lesioni su pazienti.
Carmen D'Elia invece è un volto noto nei procedimenti contro il Cavaliere: nel 2002, ha fatto parte parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi. Dopo che la posizione del premier venne stralciata - per lui ci fu un procedimento autonomo - insieme a Guido Brambilla e a Luisa Ponti, il 22 novembre 2003 pronunciò la sentenza di condanna in primo grado a 5 anni per Cesare Previti e per gli altri imputati, tra cui Renato Squillante e Attilio Pacifico. Inoltre è stata giudice nel processo sulla truffa dei derivati al Comune di Milano.
Donna è anche Patrizia Todisco del caso Taranto. Ed è lo stesso “Libero Quotidiano” che la presenta con un articolo del 13 agosto 2012. Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva.
Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari che sabato 11 agosto ha corretto il tiro rispetto alla decisione del Tribunale di Riesame decidendo di fermare la produzione dell'area a caldo dell'Ilva si Taranto lasciando quindi a casa 11mila operai, è molto conosciuta a Palazzo di giustizia per la sua durezza. Una rigorosa, i suoi nemici dicono "rigida", una a cui gli avvocati che la conoscono bene non osano avvicinarsi neanche per annunciare la presentazione di un'istanza. Il gip è nata a Taranto, ha 49 anni, i capelli rossi, gli occhiali da intellettuale, non è sposata, non ha figli e ha una fama di "durissima". Come scrive il Corriere della Sera, è una donna che non si fermerà davanti alle reazioni alla sua decisione che non si aspetta né la difesa della procura tarantina né di quella generale che sulle ultime ordinanze non ha aperto bocca. Patrizia Todisco è entrata in magistratura 19 anni fa, e non si è mai spostata dal Palazzo di giustizia di Taranto, non si è mai occupata dell'Ilva dove sua sorella ha lavorato come segretaria della direzione fino al 2009. Non si è mai occupata del disastro ambientale dell'Ilva ma, vivendo da sempre a Taranto, ha osservato da lontano il profilo delle ciminiere che hanno dato lavoro e morte ai cittadini. La sua carriera è cominciata al Tribunale per i minorenni, poi si si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata e corruzione. Rigorosissima nell'applicazione del diritto, intollerante verso gli avvocati che arrivano in ritardo, mai tenera con nessuno. Sempre il Corriere ricorda quella volta che, davanti a un ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità. Fu assolto, come come dice un avvocato "lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali".
Ma anche Giusi Fasano per "Il Corriere della Sera" ne dà una definizione. Patrizia va alla guerra. Sola. Gli articoli del codice penale sono i suoi soldati e il rumore dell'esercito «avversario» finora non l'ha minimamente spaventata. «Io faccio il giudice, mi occupo di reati...» è la sua filosofia. Il presidente della Repubblica, il Papa, il ministro dell'Ambiente, il presidente della Regione, i sindacati, il Pd, il Pdl... L'Ilva è argomento di tutti. Da ieri anche del ministro Severino, che ha chiesto l'acquisizione degli atti, e del premier Mario Monti che vuole i ministri di Giustizia, Ambiente e Sviluppo a Taranto il 17 agosto, per incontrare il procuratore della Repubblica. Anna Patrizia Todisco «ha le spalle grosse per sopportare anche questa» giura chi la conosce. Ha deciso che l'Ilva non deve produrre e che Ferrante va rimosso? Andrà fino in fondo. Non è donna da farsi scoraggiare da niente e da nessuno: così dicono di lei. E nemmeno si aspetta la difesa a spada tratta della procura tarantina o di quella generale che sulle ultime ordinanze, comunque, non hanno aperto bocca. Ieri sera alle otto il procuratore generale Giuseppe Vignola, in Grecia in vacanza, ha preferito non commentare gli interventi del ministro Severino e del premier Monti «perché non ho alcuna notizia di prima mano e non me la sento di prendere posizione». È stato un prudente «no comment» anche per il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio. Nessuna affermazione. Che vuol dire allo stesso tempo nessuna presa di posizione contro o a favore della collega Todisco. Quasi un modo per studiare se prenderne o no le distanze. Lei, classe 1963, né sposata né figli, lavora e segue tutto in silenzio. La rossa Todisco (e parliamo del colore dei capelli) è cresciuta a pane e codici da quando diciannove anni fa entrò nella magistratura scegliendo e rimanendo sempre nel Palazzo di giustizia di Taranto. Dei tanti procedimenti aperti sull'Ilva finora non ne aveva seguito nessuno. Il mostro d'acciaio dove sua sorella ha lavorato fino al 2009 come segretaria della direzione, lo ha sempre osservato da lontano. Non troppo lontano, visto che è nata e vive a pochi chilometri dal profilo delle ciminiere che dev'esserle quantomeno familiare. Il giudice Todisco non è una persona riservata. Di più. E ovviamente è allergica ai giornalisti. «Non si dispiaccia, proprio non ho niente da dire» è stata la sola cosa uscita dalle sue labbra all'incrocio delle scale che collegano il suo piano terra con il terzo, dov'è la procura. Lei non parla, ma i suoi provvedimenti dicono di lei. Di quel «rigore giuridico perfetto» descritto con ammirazione dai colleghi magistrati, o dell'interpretazione meno benevola di tanti avvocati: «Una dura oltremisura, rigida che più non si può». Soltanto un legale che non la conosce bene potrebbe avvicinarla al bar del tribunale per dirle cose tipo «volevo parlarle di quell'istanza che vorrei presentare...». Nemmeno il tempo di finire la frase. «Non c'è da parlare, avvocato. Lei la presenti e poi la valuterò». E che dire dei ritardi in aula? La sua pazienza dura qualche minuto, poi si comincia, e poco importa se l'avvocatone sta per arrivare, come spiega inutilmente il tirocinante. Istanza motivata o niente da fare: si parte senza il principe del foro. La carriera di Patrizia Todisco è cominciata nel più delicato dei settori: i minorenni, poi fra i giudici del tribunale e infine all'ufficio gip dove si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata, corruzione. Qualcuno ricorda che la giovane dottoressa Todisco una volta fece marcia indietro su un suo provvedimento, un bimbetto di cinque anni che aveva tolto alla famiglia per presunti maltrattamenti. Una perizia medica dimostrò che i maltrattamenti non c'entravano e lei si rimangiò l'ordinanza. Mai tenera con nessuno. Nemmeno con il ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità: «alla fine fu assolto» racconta l'avvocato «ma lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali».
Donne sono anche le giudici del caso Scazzi. Quelle del tutti dentro anche i testimoni della difesa e del fuori onda. «Bisogna un po' vedere, no, come imposteranno...potrebbe essere mors tua vita mea». È lo scambio di opinioni tra il presidente della Corte d'assise di Taranto, Rina Trunfio, e il giudice a latere Fulvia Misserini. La conversazione risale al 19 marzo ed è stata registrata dai microfoni delle telecamere «autorizzate a filmare l'udienza». Il presidente della corte, tra l'altro, afferma: «Certo vorrei sapere se le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati tra loro e se si daranno l'uno addosso all'altro»; il giudice a latere risponde: «Ah, sicuramente». Infine il presidente conclude: «(Non è che) negheranno in radice».
Donne sono anche le giudici coinvolte nel caso Vendola. Susanna De Felice, il magistrato fu al centro delle polemiche dopo che i due magistrati che rappresentavano l'accusa nel processo a Vendola, Desirée Digeronimo (trasferita alla procura di Roma) e Francesco Bretone, dopo l'assoluzione del politico (per il quale avevano chiesto la condanna a 20 mesi di reclusione) inviarono un esposto al procuratore generale di Bari e al capo del loro ufficio segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del governatore, Patrizia.
Donna è anche il giudice che ha condannato Raffaele Fitto. Condannarono Fitto: giudici sotto inchiesta. Sentenza in tempi ristretti e durante le elezioni: Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura irrituale, non ci sono ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla procura. Ma contestualmente ha segnalato la vicenda al presidente della Corte d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone l'originalità non fosse altro perché si sta indagando su una sentenza della quella non si conoscono ancora le motivazioni. L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi - aveva spiegato per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è la volontà precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa, che è quella di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande di Fitto vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto prontamente l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale. Tra gli atti che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze: l'obiettivo è capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se tutto è stato svolto secondo le regole.
Donna è anche Rita Romano, giudice di Taranto che è stata denunciata da Antonio Giangrande, lo scrittore autore di decine di libri/inchieste, e da questa denunciato perchè lo scrittore ha chiesto la ricusazione del giudice criticato per quei processi in cui questa giudice doveva giudicarlo. La Romano ha condannato la sorella del Giangrande che si proclamava estranea ad un sinistro di cui era accusata di essere responsabile esclusiva, così come nei fatti è emerso, e per questo la sorella del Giangrande aveva denunciato l'avvocato, che aveva promosso i giudizi di risarcimento danni. Avvocato, molto amica di un pubblico ministero del Foro. La Romano ha condannato chi si professava innocente e rinviato gli atti per falsa testimonianza per la sua testimone.
E poi giudice donna è per il processo………
E dire che la Nicole Minetti ebbe a dire «Ovvio che avrei preferito evitarlo, ma visto che ci sarà sono certa che riuscirò a chiarire la mia posizione e a dimostrare la mia innocenza. Da donna mi auguro che a giudicarmi sia un collegio di donne o per lo meno a maggioranza femminile». Perché, non si fida degli uomini? «Le donne riuscirebbero a capire di più la mia estraneità ai fatti. Le donne hanno una sensibilità diversa».
Quello che appare accomunare tutte queste donne giudice è, senza fini diffamatori, che non sono donne normali, ma sono donne in carriera. Il lavoro, innanzi tutto, la famiglia è un bisogno eventuale. E senza famiglia esse sono. Solo la carriera per esse vale e le condanne sono una funzione ausiliare e necessaria, altrimenti che ci stanno a fare: per assolvere?!?
Ma quanti sono le giudici donna? A questa domanda risponde Gabriella Luccioli dal sito Donne Magistrato. La presenza delle donne nella Magistratura Italiana.
L'ammissione delle donne all'esercizio delle funzioni giurisdizionali in Italia ha segnato il traguardo di un cammino lungo e pieno di ostacoli. Come è noto, l'art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176 ammetteva le donne all'esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall'esercizio della giurisdizione. L'art. 8 dell'ordinamento giudiziario del 1941 poneva quali requisiti per accedere alle funzioni giudiziarie “essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al P.N.F.". Pochi anni dopo, il dibattito in seno all’Assemblea Costituente circa l’accesso delle donne alla magistratura fu ampio e vivace ed in numerosi interventi chiaramente rivelatore delle antiche paure che la figura della donna magistrato continuava a suscitare: da voci autorevoli si sostenne che “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento” (on. Cappi); che “ soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare” (on. Codacci); si ebbe inoltre cura di precisare che “non si intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile” (on. Molè). Più articolate furono le dichiarazioni dell’onorevole Leone, il quale affermò: “Si ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare con profitto là dove può far sentire le qualità che le derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possono mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”; e che pertanto alle donne poteva essere consentito giudicare soltanto in quei procedimenti per i quali era maggiormente avvertita la necessità di una presenza femminile, in quanto richiedevano un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare. Si scelse infine di mantenere il silenzio sulla specifica questione della partecipazione delle donne alle funzioni giurisdizionali, stabilendo all’art. 51 che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Si intendeva in tal modo consentire al legislatore ordinario di prevedere il genere maschile tra i requisiti per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, in deroga al principio dell’eguaglianza tra i sessi, e ciò ritardò fortemente l’ingresso delle donne in magistratura. Solo con la legge 27 dicembre 1956 n. 1441 fu permesso alle donne di far parte nei collegi di corte di assise, con la precisazione che almeno tre giudici dovessero essere uomini. La legittimità costituzionale di tale disposizione fu riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 56 del 1958, nella quale si affermò che ben poteva la legge “ tener conto, nell’interesse dei pubblici servizi, delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso, purchè non fosse infranto il canone fondamentale dell’eguaglianza giuridica”. Fu necessario aspettare quindici anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale perchè il Parlamento - peraltro direttamente sollecitato dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 33 del 1960, che aveva dichiarato parzialmente illegittimo il richiamato art. 7 della legge n. 1176 del 1919, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche - approvasse una normativa specifica, la legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che consentì l' accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura. Dall'entrata in vigore della Costituzione si erano svolti ben sedici concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state indebitamente escluse. Con decreto ministeriale del 3 maggio 1963 fu bandito il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne: otto di loro risultarono vincitrici e con d.m. 5 aprile del 1965 entrarono nel ruolo della magistratura. Da quel primo concorso l’accesso delle donne nell’ordine giudiziario ha registrato nel primo periodo dimensioni modeste, pari ad una media del 4% -5% per ogni concorso, per aumentare progressivamente intorno al 10% -20%“ dopo gli anni ’70, al 30% - 40% negli anni ’80 e registrare un’impennata negli anni successivi, sino a superare ormai da tempo ampiamente la metà. Attualmente le donne presenti in magistratura sono 3788, per una percentuale superiore al 40% del totale, e ben presto costituiranno maggioranza, se continuerà il trend che vede le donne vincitrici di concorso in numero di gran lunga superiore a quello degli uomini. Come è evidente, tale fenomeno è reso possibile dal regime di assunzione per concorso pubblico, tale da escludere qualsiasi forma di discriminazione di genere; esso è inoltre alimentato dalla presenza sempre più marcata delle studentesse nelle facoltà di giurisprudenza, superiore a quello degli uomini. Dal primo concorso ad oggi il profilo professionale delle donne magistrato è certamente cambiato. Alle prime generazioni fu inevitabile, almeno inizialmente, omologare totalmente il proprio ideale di giudice all’unico modello professionale di riferimento ed integrarsi in quel sistema declinato unicamente al maschile attraverso un processo di completa imitazione ed introiezione di tale modello, quale passaggio necessario per ottenere una piena legittimazione. Ma ben presto, una volta pagato per intero il prezzo della loro ammissione, superando la prova che si richiedeva loro di essere brave quanto gli uomini, efficienti quanto gli uomini, simili il più possibile agli uomini, e spesso vivendo in modo colpevolizzante i tempi della gravidanza e della maternità come tempi sottratti all’attività professionale, si pose alle donne magistrato il dilemma se continuare in una assunzione totale del modello dato, di per sé immune da rischi e collaudata da anni di conquistate gratificazioni, o tentare il recupero di una identità complessa, tracciando un approccio al lavoro, uno stile, un linguaggio, delle regole comportamentali sulle quali costruire una figura professionale di magistrato al femminile.
Certo che a parlar male di loro si rischia grosso. Ma i giornalisti questo coraggio ce l’hanno?
Certo che no! Per fare vero giornalismo forse è meglio non essere giornalisti.
PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON POSSONO ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO.
Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".
Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire solo quello dei giornalisti?
«Mi fa un po' sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame...».
Ti pesa ancora la bocciatura?
«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».
Bocciata agli orali per una domanda su Pannunzio.
«Non solo. Avrò risposto a tre domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».
Come certi parlamentari beccati dalle Iene fuori da Montecitorio...
«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».
Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.
«C'era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».
Mai più rifatto?
«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».
Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?
«Non so se c'è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».
Tornando al caso Ruby, logica vorrebbe che chi ha avuto la fortuna nella vita di fare tanti soldi dovrebbe sistemare innanzi tutto i propri figli. Fatto ciò, dovrebbe divertirsi e godersi la vita e se, altruista, fare beneficenza.
Bene. L’assurdità di un modo di ragionare sinistroide ed invidioso, perverso e squilibrato, pretenderebbe (e di fatto fa di tutto per attuarlo) che per i ricchi dovrebbe valere la redistribuzione forzosa della loro ricchezza agli altri (meglio se sinistri) e se a questo vi si accomuna un certo tipo di divertimento, allora vi è meretricio. In questo caso non opera più la beneficenza volontaria, ma scatta l’espropriazione proletaria.
Una cosa è certa. In questa Italia di m….. le tasse aumentano, cosi come le sanguisughe. I disservizi e le ingiustizie furoreggiano. Ma allora dove cazzo vanno a finire i nostri soldi se è vero, come è vero, che sono ancora di più gli italiani che oltre essere vilipesi, muoiono di fame? Aumenta in un anno l’incidenza della povertà assoluta in Italia. Come certifica l’Istat, le persone in povertà assoluta passano dal 5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012, un record dal 2005. È quanto rileva il report «La povertà in Italia», secondo cui nel nostro Paese sono 9 milioni 563 mila le persone in povertà relativa, pari al 15,8% della popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i poveri assoluti, cioè che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali per una vita dignitosa. Una situazione accentuata soprattutto al Sud. Nel 2012 infatti quasi la metà dei poveri assoluti (2 milioni 347 mila persone) risiede nel Mezzogiorno. Erano 1 milione 828 mila nel 2011.
Ed è con questo stato di cose che ci troviamo a confrontarci quotidianamente. Ed a tutto questo certo non corrisponde un Stato efficace ed efficiente, così come ampiamente dimostrato. Anzi nonostante il costo del suo mantenimento questo Stato si dimostra incapace ed inadeguato.
Eppure ad una mancanza di servizi corrisponde una Spesa pubblica raddoppiata. E tasse locali che schizzano all'insù. Negli ultimi venti anni le imposte riconducibili alle amministrazioni locali sono aumentate da 18 a 108 miliardi di euro, «con un eccezionale incremento di oltre il 500% ». È quanto emerge da uno studio della Confcommercio in collaborazione con il Cer (Centro Europa Ricerche) che analizza le dinamiche legate al federalismo fiscale a partire dal 1992. È uno studio del Corriere della Sera a riportare al centro del dibattito la questione delle tasse locali e della pressione fiscale sugli italiani. Con una interessante intervista a Luca Antonini, presidente della Commissione sul federalismo fiscale e poi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo Chigi, si mettono in luce le contraddizioni e il peso di “un sistema ingestibile”: “Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio) e crescono quelle locali (+500%). Così non può funzionare. Non c'è una regia, manca completamente il ruolo di coordinamento dello Stato”. Sempre dal 1992 la spesa corrente delle amministrazioni centrali (Stato e altri enti) è cresciuta del 53%. La spesa di regioni, province e comuni del 126% e quella degli enti previdenziali del 127%: il risultato è che la spesa pubblica complessiva è raddoppiata. «Per fronteggiare questa dinamica - sottolinea il dossier - si è assistito ad una esplosione del gettito derivante dalle imposte (dirette e indirette) a livello locale con un aumento del 500% a cui si è associato il sostanziale raddoppio a livello centrale. I cittadini si aspettavano uno Stato più efficiente, una riduzione degli sprechi, maggior responsabilità politica dagli amministratori locali. Non certo di veder aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle versate al Comune, alla Provincia e alla Regione. E invece è successo proprio così: negli ultimi vent'anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi locali sono aumentati addirittura cinque volte. Letteralmente esplosi. Tanto che negli ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono cresciute del 573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in alcuni casi oltre il 17%.
Nonostante che i Papponi di Stato, centrali e periferici, siano mantenuti dai tartassati ecco che è clamorosa l'ennesima uscita dell'assessore Franco D'Alfonso, lo stesso che voleva proibire i gelati dopo mezzanotte ricoprendo Milano di ridicolo e che si è ripetuto in versione giacobina accusando Dolce e Gabbana di evasione fiscale a iter giudiziario non ancora concluso. Provocando i tre giorni di serrata dei nove negozi D&G di Milano. E a chi avesse solo immaginato la possibilità di rinnegarlo, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia fa subito capire che il suo vero bersaglio non è D'Alfonso e il suo calpestare il più elementare stato di diritto, ma gli stilisti offesi. «Che c'entra “Milano fai schifo”? Sono molte - va all'attacco un durissimo Pisapia - le cose che fanno schifo, ma non ho mai visto chiudere i loro negozi per le stragi, le guerre, le ingiustizie». Ricordando che il fisco, le sue regole e le sanzioni contro le infrazioni, non sono materia di competenza del Comune. Giusto. Perché in quella Babilonia che è diventata il Comune tra registri per le coppie omosessuali, no-global che occupano e rom a cui rimborsare le case costruite abusivamente, nulla succede per caso. Intanto, però, i negozi, i ristoranti, i bar e l'edicola di Dolce e Gabbana sono rimasti chiusi per giorni. In protesta contro le indagini della Gdf e le sentenze di condanna in primo grado del Tribunale, dopo le dichiarazioni dell'assessore al Commercio, Franco D'Alfonso, sul non «concedere spazi pubblici a marchi condannati per evasione». «Spazi mai richiesti», secondo i due stilisti, che con l'ennesimo tweet hanno rilanciato la campagna contro il Comune.
Uomini trattati da animali dai perbenisti di maniera. Politici inetti, incapaci ed ipocriti che si danno alla zoologia.
Anatra – Alla politica interessa solo se è zoppa. Una maggioranza senza maggioranza.
Asino – Simbolo dei democrat Usa. In Italia ci provò Prodi con risultati scarsi.
Balena – La b. bianca fu la Dc. La sua estremità posteriore è rimasta destinazione da augurio.
Caimano – Tra le definizioni correnti di Berlusconi. Dovuto a un profetico film di Nanni Moretti.
Cignalum – Sistema elettorale toscano da cui, per involuzione, nacque il porcellum (v.).
Cimice – Di provenienza statunitense, di recente pare abbia invaso l’Europa.
Colomba – Le componenti più disponibili al dialogo con gli avversari. Volatili.
Coccodrillo – Chi piange sul latte versato. Anche articolo di commemorazione redatto pre-mortem.
Delfino – Destinato alla successione. Spesso è un mistero: a oggi non si sa chi sia il d. del caimano (v.).
Elefante – Simbolo dei republican Usa. L’e. rosso fu il Pci. La politica si muove “Come un e. in una cristalleria”.
Falco – Le componenti meno disponibili al dialogo con gli avversari. Amano le picchiate.
Gambero – Il suo passo viene evocato quando si parla della nostra economia.
Gattopardo – Da Tomasi di Lampedusa in poi segno dell’immutabilità della politica. Sempre attuale.
Giaguaro – Ci fu un tentativo di smacchiarlo. Con esiti assai deludenti.
Grillo – Il primo fu quello di Pinocchio. L’attuale, però, dice molte più parolacce.
Gufo – Uno che spera che non vincano né i falchi né le colombe.
Orango – L’inventore del Porcellum (vedi Roberto Calderoli Cecile Kyenge) ne ha fatto un uso ributtante confermandosi uomo bestiale.
Piccione – Di recente evocato per sé, come obiettivo di tiro libero, da chi disprezzò il tacchino (v.).
Porcellum – Una porcata di sistema elettorale che tutti vogliono abolire, ma è sempre lì.
Pitonessa – Coniato specificatamente per Daniela Santanchè. Sinuosa e infida, direi.
Struzzo - Chi non vuol vedere e mette la testa nella sabbia. Un esercito.
Tacchino – Immaginato su un tetto da Bersani, rischiò di eclissare il giaguaro.
Tartaruga – La t. un tempo fu un animale che correva a testa in giù. Ora dà il passo alla ripresa.
Ed a proposito di ingiustizia e “canili umani”. La presidente della Camera, Laura Boldrini, il 22 luglio 2013 durante la visita ai detenuti del carcere di Regina Coeli, ha detto: «Il sovraffollamento delle carceri non è più tollerabile, spero che Governo e Parlamento possano dare una risposta di dignità ai detenuti e a chi lavora. Ritengo che sia importante tenere alta l’attenzione sull’emergenza carceri e sono qui proprio per dare attenzione a questo tema, la situazione delle carceri è la cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese. La certezza del diritto è fondamentale: chi ha sbagliato deve pagare, non chiediamo sconti, ma è giusto che chi entra in carcere possa uscire migliore, è giusto che ci sia la rieducazione e in una situazione di sovraffollamento è difficile rieducare perché non si fa altro che tirare fuori il peggio dell’essere umano e non il meglio. Nel codice non c’è scritto che un’ulteriore pena debba essere quella del sovraffollamento. Costruire nuove strutture è complicato perché non ci sono risorse ma in alcuni carceri ci sono padiglioni non utilizzati e con un po’ di fondi sarebbe possibile renderli agibili. In più bisogna mettere in atto misure alternative e considerare le misure di custodia cautelare perché il 40% dei detenuti non ha una condanna definitiva. Bisogna ripensare, rivedere il sistema di custodia cautelare. Perché se quelle persone sono innocenti, il danno è irreparabile». «Dignità, dignità». Applaudono e urlano, i detenuti della terza sezione del carcere di Regina Coeli quando vedono arrivare il presidente della Camera Laura Boldrini, in visita ufficiale al carcere romano che ha una capienza di 725 unità e ospita, invece, più di mille persone. Urlano i detenuti per invocare «giustizia e libertà» che il sovraffollamento preclude non solo a loro, ma anche agli agenti di polizia penitenziaria costretti a turni insostenibili (a volte «c'è un solo agente per tre piani, per circa 250 detenuti» confessa un dipendente). “Vogliamo giustizia, libertà e dignità”, sono queste invece le parole che hanno intonato i detenuti durante la visita della Boldrini. I detenuti nell'incontro con il presidente della Camera hanno voluto sottolineare che cosa significa in concreto sovraffollamento: "Secondo la Corte europea di Giustizia ", ha detto uno di loro "ogni detenuto ha diritto a otto metri quadri di spazio, esclusi bagno e cucina. Noi abbiamo 17 metri quadri per tre detenuti, in letti a castello con materassi di gomma piuma che si sbriciolano e portano l'orma di migliaia di detenuti. Anche le strutture ricreative sono state ridotte a luoghi di detenzione. Questo non è un carcere ma un magazzino di carne umana". E' stata la seconda visita a un istituto carcerario italiano per Laura Boldrini da quando è diventata presidente della Camera dei deputati. A Regina Coeli, dove la capienza sarebbe di 725 detenuti, ve ne sono attualmente circa 1.050; le guardie carcerarie sono 460 ma ne sarebbero previste 614. «Ho voluto fortemente questo incontro, non avrebbe avuto senso la mia visita, sarebbe stata una farsa. Ora mi sono resa conto di persona della situazione nelle celle e condivido la vostra indignazione» ha replicato la Boldrini ai detenuti. Dici Roma, dici Italia.
Già!! La giustizia e le nostre vite in mano a chi?
«Antonio Di Pietro è il primo a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un ubriaco, quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.
«Per me fu una sconfitta terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera” -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che conservo della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».
Ma proprio questo è il punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro, Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?
«Le rispondo con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di arrestare un imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio Garampelli: mi sentii male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu lui a portarmi in ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993 ero preparato. Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e a Roma. Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia di Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome di qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le forze dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite. Purtroppo non è mai cominciata».
Partiamo dall'inizio. Il 20 luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in un sacchetto di plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.
«L'Eni aveva costituito con la Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare - è la ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era davvero convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla mangiatoia della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si impuntò: "Io vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila miliardi, e ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in carcere per la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai. Non si possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato. Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava. Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino; restavano da rintracciare 75 miliardi».
Chi li aveva presi?
«Qualcuno l'abbiamo trovato. Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire simili cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva non sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».
Craxi. Forlani. E Giulio Andreotti.
«Il vero capo la fa girare, ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in carcere, e a Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli, tra le due Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e per non farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho conosciuto là».
Torniamo a Gardini. E al 23 luglio 1993.
«Con Francesco Greco avevamo ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero l'investigatore. Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica alle malefatte che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli sulla scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di porcata. Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di Finanza, si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i conti correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria Flick e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era ancora stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto. Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».
E la pistola?
«Sul comodino. Ma solo perché l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra. Capii subito che sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva mormorare nei conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo dissi fin dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in quella casa mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore, qualcosa: nulla».
Scusi Di Pietro, ma spettava a lei indagare sulla morte di Gardini?
«Per carità, Borrelli affidò correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo neppure chi fosse, ma insomma un'idea me la sono fatta...».
Quale?
«Fu un suicidio d'istinto. Un moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che era lucido, razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si serviva di Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per me fu un colpo duro e anche un coitus interruptus».
Di Pietro, c'è di mezzo la vita di un uomo.
«Capisco, non volevo essere inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una svolta, per l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei mesi successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa, sono sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le carte decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai arrivate. Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia dell'istituto pontificio...».
Ancora i dossier?
«Vada a leggersi la relazione del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal capo della polizia Parisi a Craxi».
Lei in morte di Gardini disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».
«Può darsi che abbia detto davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è vero, come si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli parlare. Quando arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i soldi. E avevamo la fila di imprenditori disposti a parlare».
Altri capitani d'industria hanno avuto un trattamento diverso.
«Carlo De Benedetti e Cesare Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la Procura di Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni. Purtroppo, nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno abbiamo perso tutti».
Dopo 20 anni Di Pietro è senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro, allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio '93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco. Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se. E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.
Pomicino: il pm Di Pietro tentò di farmi incastrare Napolitano. L'ex ministro Cirino Pomicino: "Inventando una confessione, cercò di spingermi a denunciare una tangente all'attuale capo dello Stato, poi spiegò il trucco", scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. E mentre la truccatrice gli passa la spazzola sulla giacca, prima di entrare nello studio tv di Agorà, 'o ministro ti sgancia la bomba: «Di Pietro mi chiese: "È vero che Giorgio Napolitano ha ricevuto soldi da lei?". Io risposi che non era vero, ma lui insisteva. "Guardi che c'è un testimone, un suo amico, che lo ha confessato". "Se l'ha detto, ha detto una sciocchezza, perché non è vero" risposi io. E infatti la confessione era finta, me lo rivelò lo stesso Di Pietro poco dopo, un tranello per farmi dire che Napolitano aveva preso una tangente. Ma si può gestire la giustizia con questi metodi? E badi bene che lì aveva trovato uno come me, ma normalmente la gente ci metteva due minuti a dire quel che volevano fargli dire". "In quegli anni le persone venivano arrestate, dicevano delle sciocchezze, ammettevano qualsiasi cosa e il pm li faceva subito uscire e procedeva col patteggiamento. Quando poi queste persone venivano chiamate a testimoniare nel processo, contro il politico che avevano accusato, potevano avvalersi della facoltà di non rispondere. E quindi restavano agli atti le confessioni false fatte a tu per tu col pubblico ministero», aveva già raccontato Pomicino in una lunga intervista video pubblicata sul suo blog paolocirinopomicino.it. La stessa tesi falsa, cioè che Napolitano, allora presidente della Camera, esponente Pds dell'ex area migliorista Pci, avesse ricevuto dei fondi, per sé e per la sua corrente, col tramite dell'ex ministro democristiano, Pomicino se la ritrovò davanti in un altro interrogatorio, stavolta a Napoli. «Il pm era il dottor Quatrano (nel 2001 partecipò ad un corteo no global e l'allora Guardasigilli Roberto Castelli promosse un'azione disciplinare). Mi fece incontrare una persona amica, agli arresti, anche lì per farmi dire che avevo dato a Napolitano e alla sua corrente delle risorse finanziaria». La ragione di quel passaggio di soldi a Napolitano, mai verificatosi ma da confermare a tutti i costi anche col tranello della finta confessione di un amico (uno dei trucchi dell'ex poliziotto Di Pietro, "altre volte dicevano che se parlavamo avremmo avuto un trattamento più mite"), per Cirino Pomicino è tutta politica: «Obiettivo del disegno complessivo era far fuori, dopo la Dc e il Psi, anche la componente amendoliana del Pci, quella più filo-occidentale, più aperta al centrosinistra. Tenga presente che a Milano fu arrestato Cervetti, anch'egli della componente migliorista di Giorgio Napolitano, e fu accusata anche Barbara Pollastrini. Entrambi poi scagionati da ogni accusa». I ricordi sono riemersi di colpo, richiamati dalle «corbellerie» dette da Di Pietro al Corriere a proposito del suicidio di Raul Gardini, vent'anni esatti fa (23 luglio 1993). «Sono allibito che il Corriere della Sera dia spazio alle ricostruzioni false raccontate da Di Pietro. Ho anche mandato un sms a De Bortoli, ma quel che gli ho scritto sono cose private. Di Pietro dice che Gardini si uccise con un moto d'impeto, e che lui avrebbe potuto salvarlo arrestandolo il giorno prima. Io credo che Gardini si sia ucciso per il motivo opposto», forse perché era chiaro che di lì a poche ore sarebbe stato arrestato. Anche Luigi Bisignani, l'«Uomo che sussurra ai potenti» (bestseller Chiarelettere con Paolo Madron), braccio destro di Gardini alla Ferruzzi, conferma questa lettura: «Raul Gardini si suicidò perché la procura aveva promesso che la sua confessione serviva per non andare in carcere, ma invece scoprì che l'avrebbero arrestato». Processo Enimont, la «madre di tutte le tangenti», l'epicentro del terremoto Tangentopoli. «La storia di quella cosiddetta maxitangente, che poi invece, come diceva Craxi, era una maxiballa, è ancora tutta da scrivere. - Pomicino lo spiega meglio - Alla politica andarono 15 o 20 miliardi, ma c'erano 500 miliardi in fondi neri. Dove sono finiti? A chi sono andati? E chi ha coperto queste persone in questi anni? In parte l'ho ricostruito, con documenti che ho, sui fondi Eni finiti a personaggi all'interno dell'Eni. Ma di questo non si parla mai, e invece si pubblicano false ricostruzioni della morte tragica di Gardini».
Ieri come oggi la farsa continua.
Dopo 5 anni arriva la sentenza di primo grado: l'ex-governatore dell'Abruzzo Ottaviano del Turco è stato condannato a 9 anni e 6 mesi di reclusione dal Tribunale collegiale di Pescara nell'inchiesta riguardo le presunti tangenti nella sanità abruzzese. L’ex ministro delle finanze ed ex segretario generale aggiunto della Cgil all’epoca di Luciano Lama è accusato di associazione per delinquere, corruzione, abuso, concussione, falso. Il pm aveva chiesto 12 anni. Secondo la Procura di Pescara l’allora governatore avrebbe intascato 5 milioni di euro da Vincenzo Maria Angelini, noto imprenditore della sanità privata, all’epoca titolare della casa di cura Villa Pini.
«E' un processo che è nato da una vicenda costruita dopo gli arresti, cioè senza prove - attacca l'ex governatore dell'Abruzzo intervistato al Giornale Radio Rai -. Hanno cercato disperatamente le prove per 4 anni e non le hanno trovate e hanno dovuto ricorrere a una specie di teorema e con il teorema hanno comminato condanne che non si usano più nemmeno per gli assassini, in questo periodo. Io sono stato condannato esattamente a 20 anni di carcere come Enzo Tortora». E a Repubblica ha poi affidato un messaggio-shock: «Ho un tumore, ma voglio vivere per dimostrare la mia innocenza».
Lunedì 22 luglio 2013, giorno della sentenza, non si era fatto attendere il commento del legale di Del Turco, Giandomenico Caiazza, che ha dichiarato: «Lasciamo perdere se me lo aspettassi o no perchè questo richiederebbe ragionamenti un pò troppo impegnativi. Diciamo che è una sentenza che condanna un protagonista morale della vita politica istituzionale sindacale del nostro paese accusato di aver incassato sei milioni e 250 mila euro a titolo di corruzione dei quali non si è visto un solo euro. Quindi penso che sia un precedente assoluto nella storia giudiziaria perchè si possono non trovare i soldi ma si trovano le tracce dei soldi».
Nello specifico, Del Turco è accusato insieme all’ex capogruppo del Pd alla Regione Camillo Cesarone e a Lamberto Quarta, ex segretario generale dell’ufficio di presidenza della Regione, di aver intascato mazzette per 5 milioni e 800mila euro. Per questa vicenda fu arrestato il 14 luglio 2008 insieme ad altre nove persone, tra le quali assessori e consiglieri regionali. L’ex presidente finì in carcere a Sulmona (L'Aquila) per 28 giorni e trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. A seguito dell’arresto, Del Turco il 17 luglio 2008 si dimise dalla carica di presidente della Regione e con una lettera indirizzata all’allora segretario nazionale Walter Veltroni si autosospese dal Pd, di cui era uno dei 45 saggi fondatori nonchè membro della Direzione nazionale. Le dimissioni comportarono lo scioglimento del consiglio regionale e il ritorno anticipato alle urne per i cittadini abruzzesi.
Del Turco condannato senza prove. All'ex presidente dell'Abruzzo 9 anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità. Ma le accuse non hanno riscontri: nessuna traccia delle mazzette né dei passaggi di denaro, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. In dubio pro reo. Nel dubbio - dicevano i latini - decidi a favore dell'imputato. Duole dirlo, e non ce ne voglia il collegio giudicante del tribunale di Pescara, ma la locuzione dei padri del diritto sembra sfilacciarsi nel processo all'ex presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco. Processo che in assenza di prove certe s'è concluso come gli antichi si sarebbero ben guardati dal concluderlo: con la condanna del principale imputato e dei suoi presunti sodali. Qui non interessa riaprire il dibattito sulle sentenze da rispettare o sull'assenza o meno di un giudice a Berlino. Si tratta più semplicemente di capire se una persona - che su meri indizi è finita prima in cella e poi con la vita politica e personale distrutta - di fronte a un processo per certi versi surreale, contraddistintosi per la mancanza di riscontri documentali, possa beccarsi, o no, una condanna pesantissima a nove anni e sei mesi (non nove mesi, come ha detto erroneamente in aula il giudice). Noi crediamo di no. E vi spieghiamo perché. In cinque anni nessuno ha avuto il piacere di toccare con mano le «prove schiaccianti» a carico dell'ex governatore Pd di cui parlò, a poche ore dalle manette, l'allora procuratore capo Trifuoggi. Un solo euro fuori posto non è saltato fuori dai conti correnti dell'indagato eccellente, dei suoi familiari o degli amici più stretti, nemmeno dopo centinaia di rogatorie internazionali e proroghe d'indagini. E se non si sono trovati i soldi, nemmeno s'è trovata una traccia piccola piccola di quei soldi. Quanto alle famose case che Del Turco avrebbe acquistate coi denari delle tangenti (sei milioni di euro) si è dimostrato al centesimo esser state in realtà acquistate con mutui, oppure prima dei fatti contestati o ancora coi soldi delle liquidazioni o le vendite di pezzi di famiglia. Non c'è un'intercettazione sospetta. Non un accertamento schiacciante. Non è emerso niente di clamoroso al processo. Ma ciò non vuol dire che per i pm non ci sia «niente» posto che nella requisitoria finale i rappresentanti dell'accusa hanno spiegato come l'ex segretario della Cgil in passato avesse ricoperto i ruoli di presidente della commissione parlamentare Antimafia e di ministro dell'Economia, e dunque fosse a conoscenza dei «sistemi» criminali utilizzati per occultare i quattrini oltre confine. Come dire: ecco perché i soldi non si trovano (sic !). Per arrivare a un verdetto del genere i giudici, e in origine i magistrati di Pescara (ieri assolutamente sereni prima della sentenza, rinfrancati dalla presenza a sorpresa in aula del loro ex procuratore capo) hanno creduto alle parole del re delle cliniche abruzzesi, Vincenzo Maria Angelini, colpito dalla scure della giunta di centrosinistra che tagliava fondi alla sanità privata, per il quale i carabinieri sollecitarono (invano) l'arresto per tutta una serie di ragioni che sono poi emerse, e deflagrate, in un procedimento parallelo: quello aperto non a Pescara bensì a Chieti dove tal signore è sotto processo per bancarotta per aver distratto oltre 180 milioni di euro con operazioni spericolate, transazioni sospette, spese compulsive per milioni e milioni in opere d'arte e beni di lusso. Distrazioni, queste sì, riscontrate nel dettaglio dagli inquirenti teatini. Da qui il sospetto, rimasto tale, che il super teste possa avere utilizzato per sé (vedi Chieti) ciò che ha giurato (a Pescara) di avere passato ai politici. Nel «caso Del Turco» alla mancanza di riscontri si è supplito con le sole dichiarazioni dell'imprenditore, rivelatesi raramente precise e puntuali come dal dichiarante di turno pretendeva un certo Giovanni Falcone. Angelini sostiene che prelevava contanti solo per pagare i politici corrotti? Non è vero, prelevava di continuo ingenti somme anche prima, e pure dopo le manette (vedi inchiesta di Chieti). Angelini giura che andava a trovare Del Turco nella sua casa di Collelongo, uscendo al casello autostradale di Aiello Celano? Non è vero, come dimostrano i telepass, le testimonianze e le relazioni degli autisti, a quel casello l'auto della sua azienda usciva prima e dopo evidentemente anche per altri motivi. Angelini dice che ha incontrato Del Turco a casa il giorno x? Impossibile, quel giorno si festeggiava il santo patrono e in casa i numerosi vertici istituzionali non hanno memoria della gola profonda. Angelini porta la prova della tangente mostrando una fotografia sfocata dove non si riconosce la persona ritratta? In dibattimento la difesa ha fornito la prova che quella foto risalirebbe ad almeno un anno prima, e così cresce il giallo del taroccamento. Angelini corre a giustificarsi consegnando ai giudici il giaccone che indossava quando passò la mazzetta nel 2007, e di lì a poco la casa produttrice della giubba certifica che quel modello nel 2007 non esisteva proprio essendo stato prodotto a far data 2011. Questo per sintetizzare, e per dire che le prove portate da Angelini, che la difesa ribattezza «calunnie per vendetta», sono tutt'altro che granitiche come una sana certezza del diritto imporrebbe. Se per fatti di mafia si è arrivati a condannare senza prove ricorrendo alla convergenza del molteplice (il fatto diventa provato se lo dicono più pentiti) qui siamo decisamente oltre: basta uno, uno soltanto, e sei fregato. «Basta la parola», recitava lo spot di un celebre lassativo. Nel dubbio, d'ora in poi, il reo presunto è autorizzato a farsela sotto. Del Turco: "Ho un cancro, voglio vivere per provare la mia innocenza". «Da tre mesi so di avere un tumore, da due sono in chemioterapia. Domani andrò a Roma a chiedere al professor Mandelli di darmi cinque anni di vita, cinque anni per dimostrare la mia innocenza e riabilitare la giunta della Regione Abruzzo che ho guidato». A dichiararlo in una intervista a Repubblica è Ottaviano Del Turco, condannato a nove anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità privata abruzzese. «Mi hanno condannato senza una prova applicando in maniera feroce il teorema Angelini, oggi in Italia molti presidenti di corte sono ex pm che si portano dietro la cultura accusatoria. Il risultato, spaventoso, sono nove anni e sei mesi basati sulle parole di un bandito. Ho preso la stessa condanna di Tortora, e questo mi dà sgomento». Il Pd? «Ha così paura dei giudici che non è neppure capace di difendere un suo dirigente innocente», ha aggiunto Del Turco.
MA CHE CAZZO DI GIUSTIZIA E’!?!?
Funziona alla grande, la giustizia in Italia, scrive Marco Ventura su Panorama. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a punizioni esemplari, sentenze durissime nei confronti di fior di criminali. Castighi detentivi inflitti da giudici inflessibili. Due esempi per tutti. Il primo: Lele Mora e Emilio Fede condannati a 7 anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per aver “presentato” Ruby a Silvio Berlusconi. Il secondo: Ottaviano Del Turco condannato a 9 anni e 6 mesi per le tangenti sulla sanità in Abruzzo, anche se i 6 milioni di mazzette non sono mai stati trovati sui conti suoi o riconducibili a lui, e anche se il suo grande accusatore ha dimostrato in diverse occasioni di non essere attendibile nell’esibire “prove” contro l’ex governatore. In compenso, per cinque imputati del processo sul naufragio della Costa Concordia (32 i morti, più incalcolabili effetti economici, d’inquinamento ambientale e d’immagine internazionale dell’Italia), sono state accettate le richieste di patteggiamento. Risultato: a fronte di accuse come omicidio plurimo colposo e lesioni colpose, ma anche procurato naufragio, i cinque ottengono condanne che variano, a seconda delle responsabilità e dei reati contestati, da 1 anno e 8 mesi a 2 anni e 10 mesi. Tutto previsto dal codice. Tutto legale. Tutto giuridicamente ineccepibile. Ma avverto un certo disagio se poi faccio confronti. Se navigo nel web e scopro che mentre l’ex direttore del Tg4, Fede, subisce la condanna a 7 anni di carcere per il caso Ruby, la stessa pena viene inflitta a un tale che abusa della figlia di 8 anni e a un altro che, imbottito di cocaina, travolge e uccide una diciottenne sulle strisce pedonali. E non trovo altri colpevoli per crimini analoghi a quelli contestati a Fede a Milano, né personaggi che abbiano pagato (o per i quali sia valsa la fatica di provare a identificarli) per complicità nella pubblicazione di intercettazioni coperte da segreto come qualcuno ben noto agli italiani, che di intercettazioni pubblicate è vittima quasi ogni giorno. E temo pure che la percezione della pubblica opinione sia molto distante dalla scala di gravità dei tribunali, almeno stando a questi casi. Un anno e 8 mesi è un quarto della pena comminata a Fede. Ho ancora nella mente, negli occhi, la scena della “Costa Concordia” coricata col suo carico di morte per l’incosciente inchino al Giglio. E ricordo il massacro dei media di tutto il mondo sull’Italietta di Schettino (l’unico per il quale non ci sarà patteggiamento e che presumibilmente pagherà per intero le sue colpe). Nei paesi anglosassoni con una tradizione marinara, colpe come quelle emerse nella vicenda “Costa Concordia” sono trattate con la gravità che meritano: la sicurezza è una priorità assoluta. Ciascuno di noi ha esperienza diretta o indiretta di come funzioni la giustizia in Italia: della sua rapidità o lentezza, della sua spietatezza o clemenza, dei suoi pesi e delle sue misure. Une, doppie, trine. La lettera della legge e delle sentenze non combacia col (buon) senso comune. Sarà un caso che la fiducia nelle toghe, in Italia, risulti ai livelli più bassi delle classifiche mondiali?
Sul Foglio del del 24 luglio 2013 Massimo Bordin spiega bene che nel processo Del Turco la difesa ha dimostrato che in determinati giorni citati dai pm nel capo d'accusa, l'ex governatore abruzzese sicuramente non aveva potuto commettere il reato che gli era imputato. "E' vero" risponde l'accusa. Vorrà dire che cambieremo la data" Capito? Le date non corrispondono così le cambieranno, elementare. Perché Del Turco è, nella loro formazione barbarica, colpevole a prescindere. E quindi quel corpo lo vogliono, anche senza prove. Tutto per loro. Dunque, ecco a voi servita "l'indipendenza della magistratura". A me avevano insegnato che per essere indipendenti, bisogna prima esseri liberi. E per essere liberi, bisogna essere soprattutto Responsabili. A questi giudici gli si potrebbe sicuramente attribuire una certa inclinazione alla libertà, ma intesa come legittimazione a delinquere. E' vero, Del Turco non sarà Tortora. Ma il comportamento da canaglie di alcuni magistrati italiani - salvaguardato da sessant'anni da giornali e apparati - continua e continuerà ad avere, nel tempo, lo stesso tanfo di sempre. E che dire del Processo Mediaset. Un processo "assurdo e risibile", per di più costato ai contribuenti "una ventina di milioni di euro". I conti, e le valutazioni politiche, sono del Pdl che mette nero su bianco i motivi per cui "in qualunque altra sede giudiziaria, a fronte di decisioni consimili si sarebbe doverosamente ed immediatamente pervenuti ad una sentenza più che assolutoria. Ma non a Milano". "Il 'processo diritti Mediaset', così convenzionalmente denominato, è basato su una ipotesi accusatoria così assurda e risibile che in presenza di giudici non totalmente appiattiti sull'accusa e "super partes", sarebbe finito ancor prima di iniziare, con grande risparmio di tempo per i magistrati e di denaro per i contribuenti", si legge nel documento politico elaborato dal Pdl a proposito del processo "diritti Mediaset", "dopo una approfondita analisi delle carte processuali". "Basti pensare - scrive ancora il Pdl - che una sola delle molte inutili consulenze contabili ordinate dalla Procura è costata ai cittadini quasi tre milioni di euro. Non è azzardato ipotizzare che tra consulenze, rogatorie ed atti processuali questa vicenda sia già costata allo Stato una ventina di milioni di euro".
Del Turco come Tortora. Un punto di vista (di sinistra) contro la condanna dell'ex governatore Del Turco. Il caso Del Turco come il caso Tortora: Una condanna senza indizi né prove, scrive Piero Sansonetti il 23 luglio 2013 su “Gli Altri. Il problema non è quello della persecuzione politica o dell’accanimento. La persecuzione è lo spunto, ma il problema è molto più grave: se la cosiddetta “Costituzione materiale” si adatterà al metodo (chiamiamolo così) Del Turco-Minetti, la giustizia in Italia cambierà tutte le sue caratteristiche, sostituendosi allo stato di diritto. E ci rimetteranno decine di migliaia di persone. E saranno riempite le carceri di persone innocenti. Non più per persecuzione ma per “burocrazia” ed eccesso di potere. Il rischio è grandissimo perché, in qualche modo, prelude ad un salto di civiltà. Con le sentenze contro Minetti e, neppure sette giorni dopo, contro Del Turco, la magistratura ha maturato una svolta fondata su due pilastri: il primo è la totale identificazione della magistratura giudicante con la magistratura inquirente: tra le due magistrature si realizza una perfetta integrazione e collaborazione (non solo non c’è separazione delle carriere ma viene stabilita la unità e l’obbligo di lealtà e di collaborazione attiva); il secondo pilastro è la cancellazione, anzi proprio lo sradicamento del principio di presunzione di innocenza. Nel caso della Minetti (accusata di avere organizzato una festa e per questo condannata a cinque anni di carcere) al processo mancavano, più che le prove, il reato. E infatti i giudici, in assenza di delitti definibili giuridicamente, sono ricorsi al “favoreggiamento”. L’hanno condannata per aver “favorito” un festino. Nel caso di Del Turco il reato c’era, ma erano del tutto assenti le prove, e anzi – cosa più grave – i pochi indizi racimolati si sono rivelati falsi durante il processo. Non solo mancavano le prove, e persino gli indizi, ma mancava il corpo del reato. In questi casi è difficile la condanna anche in situazioni di dittatura. I giudici hanno deciso allora di usare questo nuovo principio: è vero che non ci sono né prove né indizi a carico dell’imputato, però la sua difesa ha mostrato solo indizi di innocenza e non una prova regina. E hanno stabilito che non sono consentite “assoluzioni indiziarie”, decidendo di conseguenza la condanna con una nuova formula: insufficienza di prove a discolpa. Avete presenti quei processi americani nei quali il giudice a un certo punto chiede ai giurati: “siete sicuri, oltre ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza dell’imputato?”. In America basta che un solo giurato dica: “no, io un piccolo dubbio ce l’ho ancora…” e l’imputato è assolto. Può essere condannato solo all’unanimità e senza il più piccolo dubbio. Con Del Turco si è fatto al contrario: i giurati hanno stabilito che a qualcuno (per esempio a Travaglio) poteva essere rimasto qualche ragionevole dubbio sulla sua innocenza. E gli hanno rifilato 10 anni di carcere, come fecero una trentina d’anni fa con Enzo Tortora. Con Tortora i Pm avevano lavorato sulla base di indizi falsi o del tutto inventati. In appello Tortora fu assolto, il mondo intero si indignò, ma i pubblici ministeri non ricevettero neppur una noticina di censura e fecero delle grandi carrierone. Sarà così anche con Del Turco. Per oggi dobbiamo però assistere allo spettacolo di uno dei protagonisti della storia del movimento operaio e sindacale italiano condannato sulla base esclusivamente dell’accusa di un imprenditore che probabilmente non aveva ottenuto dalla Regione quello che voleva.
Toghe impunite e fannullone: loro il problema della giustizia. Le condanne abnormi sono ormai quotidiane: da Tortora a Del Turco, è colpa dei magistrati. Ma non si può dire. Su Libero di mercoledì 24 luglio il commento di Filippo Facci: "Toghe impunite e fannullone. Così c'è un Del Turco al giorno". Secondo Facci le condanne abnormi sono ormai quotidiane: dal caso Tortora a oggi il problema giustizia, spiega, è colpa dei magistrati. Ma è vietato dirlo. I casi Del Turco durano un giorno, ormai: scivolano subito in una noia mediatica che è generazionale. La verità è che l’emergenza giustizia e l’emergenza magistrati (ripetiamo: magistrati) non è mai stata così devastante: solo che a forza di ripeterlo ci siamo sfibrati, e l’accecante faro del caso Berlusconi ha finito per vanificare ogni battaglia. E’ inutile girarci attorno: in nessun paese civile esiste una magistratura così, una casta così, una sacralità e un’intangibilità così.
Accade, nelle carceri italiani, che persone indagate per i reati più disparati vengano sbattute in cella per obbligarle a vuotare il sacco. Accade anche che le chiavi che danno la libertà vengano dimenticate in un cassetto per settimane, se non mesi. In barba al principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio. Tanto che il carcere preventivo diventa una vera e propria tortura ad uso e consumo delle toghe politicizzate. Toghe che con tipi loschi come gli stupratori si trasformano in specchiati esempi di garantismo. No alla custodia cautelare in carcere per il reato di violenza sessuale di gruppo qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, terzo periodo, del Codice di procedura penale. I «gravi indizi di colpevolezza». si legge nella motivazione, non rendono automatica la custodia in carcere. La decisione segue quanto già stabilito in relazione ad altri reati, tra cui il traffico di stupefacenti, l'omicidio, e delitti a sfondo sessuale e in materia di immigrazione. La norma “bocciata” dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.232 depositata il 23 luglio 2013, relatore il giudice Giorgio Lattanzi, prevede che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per il delitto di violenza sessuale di gruppo si applica unicamente la custodia cautelare in carcere. Ora la Consulta ha stabilito che, se in relazione al caso concreto, emerga che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, il giudice può applicarle. Nella sentenza, peraltro, la Corte conferma la gravità del reato, da considerare tra quelli più «odiosi e riprovevoli». Ma la «più intensa lesione del bene della libertà sessuale», «non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata», scrive la Corte. Alla base del pronunciamento una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni la Consulta ricorda in sentenza come «la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del “minore sacrificio necessario”: la compressione della libertà personale deve essere, pertanto, contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”, predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, e, dall’altra, a prefigurare criteri per scelte “individualizzanti” del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete». Sul punto si era pronunciata analogamente la Corte di Cassazione nel 2012, accogliendo il ricorso di due imputati per lo stupro subìto da una minorenne a Cassino. Il Tribunale di Roma aveva confermato il carcere nell'agosto 2011, ma la Cassazione motivò così la sua decisione: «L'unica interpretazione compatibile con i principi fissati dalla sentenza 265 del 2010 della Corte Costituzionale è quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse dalla custodia in carcere anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per il reato previsto all'art. 609 octies c.p.». In pratica recependo il dettato della Consulta del 2010 e l'indicazione della Corte di Strasburgo.
Da questo si evince che la Corte Costituzionale se ne infischia della violenza sessuale di gruppo. Oggi le toghe hanno, infatti, deciso che gli stupratori non dovranno scontare la custodia cautelare in carcere qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Nessuna preoccupazione, da parte dei giudici costituzionalisti, che le violenze possano essere reiterate. La beffa maggiore? Nella sentenza, della Corte costituzionale le toghe si premurano di confermare la gravità del reato invitando i giudici a considerarlo tra quelli più "odiosi e riprovevoli". Non abbastanza - a quanto pare - per assicurarsi che lo stupratore non commetta più la brutale violenza di cui si macchia. "La più intensa lesione del bene della libertà sessuale - si legge nella sentenza shock redatta dalla Corte - non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata". Alla base del pronunciamento della Consulta c'è una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni, la Consulta ricorda come la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del "minore sacrificio necessario". Già nel 2010 la Corte aveva bocciato le norme in materia di misure cautelari nelle parti in cui escludevano la facoltà del giudice di decidere se applicare la custodia cautelare in carcere o un altro tipo di misura cautelare per chi ha abusato di un minore. Insomma, adesso appare chiaro che il carcere preventivo sia una misura "cautelare" pensata ad hoc per far fuori gli avversari politici. Nemmeno per gli stupratori è più prevista.
Stupro, dalla parte dei carnefici: niente carcere (per un po’) per il branco. Firmato: Corte Costituzionale, scrive Deborah Dirani su Vanity Fair. C’era una volta, 3 anni fa, a Cassino, comune ciociaro di 33 mila anime (per la maggior parte buone), una ragazzina che non aveva ancora compiuto 18 anni ed era molto graziosa. Sgambettava tra libri e primi “ti amo” sussurrati all’orecchio del grande amore, e pensava che la vita fosse bella. Pensava che il sole l’avrebbe sempre scaldata, che le avrebbe illuminato la vita ogni giorno. Non pensava che il sole potesse scomparire, che potesse tramontare e non tornare più a riscaldarle la pelle, a illuminarle la vita. Ma un giorno, un giorno di 3 anni fa, il suo sole tramontò oscurato dal buio di due ragazzi del suo paese, due che la volevano e, dato che con le buone non erano riusciti a prenderla, quel giorno scuro decisero di ricordarle che la donna è debole e l’uomo è forte. Così, quei due maschi del suo paese, la stuprarono, assieme, dandosi il cambio, a turno. Lei non voleva, lei piangeva, lottava, mordeva e graffiava con le sue unghie dipinte di smalto. Lei urlava, ci provava, perché poi quelli erano in due e si ritrovava sempre con una mano sulla bocca che la faceva tacere, che non la faceva respirare. Ma gli occhi quella ragazzina li aveva aperti a cercare quelli di quei due, a chiedere pietà, a scongiurarli di ritirarsi su i pantaloni, di uscire da lei, che le facevano male, nel cuore, più ancora che tra le gambe. Raccontano che quella ragazzina oggi non viva più nel suo paese, che quella notte sia scesa sulla sua vita e ancora non l’abbia lasciata. Raccontano che non esca di casa, che soffra di depressione e attacchi di panico. Raccontano che il suo buio sia denso come il petrolio. Raccontano che sia come un cormorano con le ali zuppe di olio nero che non può più volare. Raccontano anche che quando, a pochi mesi dal giorno più brutto della sua vita, la Corte di Cassazione ha stabilito che i suoi due stupratori non dovessero stare in custodia cautelare in carcere, ma potessero (in attesa della sentenza definitiva) essere trattenuti ai domiciliari, lei abbia pensato che Rino Gaetano non avesse mica ragione a cantare che il cielo è sempre più blu. Secondo la Cassazione, la galera (prevista da una legge approvata dal Parlamento nel 2009 che stabiliva che dovesse stare in carcere chiunque avesse abusato di una minorenne) non era giusta per quei due bravi figlioli perché quella stessa legge del 2009 violava gli articoli 3 (uguaglianza davanti alla legge), 13 (libertà personale) e 27 (funzione rieducativa della pena) della Costituzione. Secondo i giudici, insomma, ci sono misure alternative al carcere (nella fattispecie gli arresti domiciliari) alle quali ricorrere in casi come questo. Questo che, per la cronaca, è uno stupro di gruppo. I giorni passano, la vita continua, le sentenze si susseguono e quella della Cassazione apre un’autostrada a 4 corsie per chi, in compagnia di un paio di amici, prende una donna le apre le gambe e la spacca a metà. Così la Corte Costituzionale, la Suprema Corte, con una decisione barbara, incivile, retrograda, vigliacca, pilatesca, giusto poche ore fa, ha dichiarato illegittimo l’articolo 275, comma 3, periodo terzo del Codice di Procedura Penale che prevede che gravi indizi di colpevolezza rendano automatica la custodia cautelare in carcere per chi commette il reato previsto all’articolo 609 octies del Codice Penale: lo stupro di gruppo (niente carcere subito per chi violenta in gruppo, non importa, dice la Corte Costituzionale). Fortuna che quella ragazzina, che lo stupro di gruppo lo ha provato sulla sua luminosa pelle di adolescente, non può guardare in faccia i giudici di quella che si chiama Suprema Corte che hanno sentenziato che i suoi stupratori in galera non ci debbano andare (almeno fino al terzo grado di giudizio), ma che possano beatamente starsene ai domiciliari. Che possano evadere dai domiciliari (fossero i primi), possano prendere un’altra ragazzina, un’altra donna, un’altra mamma, una vedova, una che comunque in mezzo alle gambe ha un taglio e abusarne a turno, per ore, per giorni. Fino a quando ne hanno voglia. E poi, ritirati su i pantaloni, possano tonarsene a casa, ai domiciliari, che il carcere chissà se e quando lo vedranno. Bastardi, loro, e chi non fa giustizia. Che una donna non è un pezzo di carne con un taglio tra le gambe. Questa ragazzina non era quello che quei due maschi avevano visto in lei: un pezzo di carne, giovane, con un taglio in cui entrare a forza. No, non era un pezzo di carne, era un essere umano, e la Corte Costituzionale, la CORTE COSTITUZIONALE, non un giudice qualunque oberato e distratto di carte e senza un cancelliere solerte, ha certificato che il suo dolore non meritava nemmeno la consolazione che si dovrebbe alle vittime, agli esseri umani umiliati e offesi. Chi ha negato a questa giovane donna il diritto a credere nel sole della giustizia non è in galera, oggi. Chi da oggi lo negherà a qualunque donna: a voi che mi leggete, alle vostre figlie, mamme, nonne, sorelle, non andrà in galera. Non ci andrà fino a quando l’ultimo grado di giudizio non avrà stabilito che sì, in effetti, un po’ di maschi che tengono ferma una donna e che a turno le entrano dentro al corpo e all’anima, sono responsabili del suo dolore, del buio in cui l’hanno sepolta. E allora, voglio le parole della presidente della Camera, del ministro per le Pari opportunità, voglio le parole di ogni donna: le voglio sentire perché non serve essere femministe e professioniste delle dichiarazioni per scendere in piazza, in tutte le piazze, e incazzarsi. Non ci vuole sempre un capo del Governo antipatico e discutibile per fare scendere in piazza noi donne. Perché: SE NON OGGI, QUANDO?
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!
LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.
Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro, apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche, sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14 vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento, mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono uguali davanti alla legge. La Legge che non sia uguale per tutti è pacifico. Invece è poco palese la sua conoscenza, specie se in Italia è tutto questione di famiglia. Famiglia presso cui si devono lavare i panni sporchi.
Quando anche per i comunisti è tutto questione di famiglia.
Luigi Berlinguer (ex ministro PD) è il cugino di Bianca Berlinguer (direttrice del Tg3 e figlia di Enrico) che è sposata con Luigi Manconi (senatore PD, fondatore e presidente dell’Associazione “A Buon Diritto”) che è cognato di Luca Telese (giornalista La7 e Canale 5) che è marito di Laura Berlinguer (giornalista MEDIASET) che è cugina di Sergio Berlinguer (consigliere di Stato), fratello di Luigi e cugino di Enrico.
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!
ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
La Commissione europea, la Corte Europea dei diritti dell’uomo e “Le Iene”, sputtanano. Anzi, “Le Iene” no!!
E la stampa censura pure…..
Pensavo di averle viste tutte.
La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. Qual è il problema per l'Ue? Si chiede “Libero Quotidiano”. Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. E, comunque, non pagano i giudici, paghiamo noi.
Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano.
La Convenzione e la Corte europea dei diritti dell’uomo ampliano il diritto di cronaca (“dare e ricevere notizie”) e proteggono il segreto professionale dei giornalisti. No alle perquisizioni in redazione! Il giudice nazionale deve tener conto delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo ai fini della decisione, anche in corso di causa, con effetti immediati e assimilabili al giudicato: è quanto stabilito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 19985 del 30/9/2011.
Cedu. Decisione di Strasburgo. Il diritto di cronaca va sempre salvato. Per i giudici l'interesse della collettività all'informazione prevale anche quando la fonte siano carte segretate, scrive Marina Castellaneta per Il Sole 24 Ore il 17/4/2012. La Corte europea dei diritti dell'uomo pone un freno alle perquisizioni nei giornali e al sequestro da parte delle autorità inquirenti dei supporti informatici dei giornalisti. Con un preciso obiettivo. Salvaguardare il valore essenziale della libertà di stampa anche quando sono pubblicate notizie attinte da documenti coperti da segreto. Lo ha chiarito la Corte dei diritti dell'uomo nella sentenza depositata il 12 aprile 2012 (Martin contro Francia) che indica i criteri ai quali anche i giudici nazionali devono attenersi nella tutela del segreto professionale dei giornalisti per non incorrere in una violazione della Convenzione e in una condanna dello Stato. A Strasburgo si erano rivolti quattro giornalisti di un quotidiano francese che avevano pubblicato un resoconto di documenti della Corte dei conti che riportavano anomalie nell'amministrazione di fondi pubblici compiute da un ex governatore regionale. Quest'ultimo aveva agito contro i giornalisti sostenendo che era stato leso il suo diritto alla presunzione d'innocenza anche perché erano stati pubblicati brani di documenti secretati. Il giudice istruttore aveva ordinato una perquisizione nel giornale con il sequestro di supporti informatici, agende e documenti annotati. Per i giornalisti non vi era stato nulla da fare. Di qui il ricorso a Strasburgo che invece ha dato ragione ai cronisti condannando la Francia per violazione del diritto alla libertà di espressione (articolo 10 della Convenzione). Per la Corte la protezione delle fonti dei giornalisti è una pietra angolare della libertà di stampa. Le perquisizioni nel domicilio e nei giornali e il sequestro di supporti informatici con l'obiettivo di provare a identificare la fonte che viola il segreto professionale trasmettendo un documento ai giornalisti compromettono la libertà di stampa. Anche perché il giornalista potrebbe essere dissuaso dal fornire notizie scottanti di interesse della collettività per non incorrere in indagini. È vero - osserva la Corte - che deve essere tutelata la presunzione d'innocenza, ma i giornalisti devono informare la collettività. Poco contano - dice la Corte - i mezzi con i quali i giornalisti si procurano le notizie perché questo rientra nella libertà di indagine che è inerente allo svolgimento della professione. D'altra parte, i giornalisti avevano rispettato le regole deontologiche precisando che i fatti riportati erano ricavati da un rapporto non definitivo. Giusto, quindi, far conoscere al pubblico le informazioni in proprio possesso sulla gestione di fondi pubblici.
Ed ancora. La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha accolto il ricorso presentato dall’autore di “Striscia la notizia”, Antonio Ricci, per violazione dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. Il ricorso era stato presentato in seguito alla sentenza con la quale, nel 2005, la Corte di cassazione – pur dichiarando la prescrizione del reato – aveva ritenuto integrato il reato previsto dall’art. 617 quater e 623 bis c.p., per avere “Striscia la notizia” divulgato nell’ottobre del 1996 un fuori onda della trasmissione di Rai3 “L’altra edicola”, con protagonisti il filosofo Gianni Vattimo e lo scrittore Aldo Busi che se ne dicevano di tutti i colori.
I fatti risalgono al 1996 e c'erano voluti 10 anni perchè la Cassazione ritenesse Ricci colpevole per la divulgazione del fuori onda di Rai Tre.
«Superando le eccezioni procedurali interposte dal Governo Italiano, che - dicono i legali di Ricci, Salvatore Pino e Ivan Frioni - ha provato a scongiurare una pronuncia che entrasse nel merito della vicenda, ha ottenuto l’auspicato risarcimento morale, sancito dalla Corte che – al termine di una densa motivazione – ha riconosciuto la violazione dell’art. 10 della Convenzione, posto a tutela della libertà d’espressione».
«La Corte – dopo aver riconosciuto che “il rispetto della vita privata e il diritto alla libertà d’espressione meritano a priori un uguale rispetto” – diversamente da quanto sostenuto dai giudici italiani, “che -spiega l’avvocato Salvatore Pino- avevano escluso la possibilità stessa di un bilanciamento – ha ritenuto che la condanna di Antonio Ricci abbia costituito un’ingerenza nel suo diritto alla libertà di espressione garantito dall’articolo 10 § 1 della Convenzione ed ha altresì stigmatizzato la sproporzione della pena applicata rispetto ai beni giuridici coinvolti e dei quali era stata lamentata la lesione».
«Sono felice per la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo - ha commentato Antonio Ricci, creatore di Striscia la notizia.- La condanna aveva veramente dell’incredibile, tra l’altro sia in primo che in secondo grado la Pubblica Accusa aveva chiesto la mia assoluzione. E' una vittoria di Antonio Ricci contro lo Stato italiano, per questo la sentenza di Strasburgo è molto importante». E' soddisfatto il patron di Striscia la notizia per quella che ritiene essere stata una vittoria di principio. «Il fatto che l'Europa si sia pronunciata a mio favore - ha dichiarato Ricci - implica che esiste una preoccupazione in merito alla libertà d'espressione nel nostro Paese». Una vittoria importante nella battaglia per la libertà d'espressione che segna un punto a favore di Ricci e che pone ancora una volta l'accento sui lacci e lacciuoli con i quali bisogna fare i conti in Italia quando si cerca di fare informazione, come spiega lo stesso Ricci nella video intervista. «Quante volte sono andati in onda dei fuori onda - si è chiesto Ricci - E nessuno è mai stato punito? Per questo sono voluto andare fino in fondo, la mia è stata una battaglia di principio».
Trattativa stato-mafia, Ingroia rientra nel processo come avvocato parte civile. Rappresenta l'associazione vittime della strage di via Georgofili. Si presenta con la sua vecchia toga, abbracciato dagli amici pm. Antonio Ingroia, nelle vesti di avvocato di parte civile. Il leader di Azione civile rappresenta l'associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, presieduta da Giovanna Maggiani Chelli. Ingroia sarà il sostituto processuale dell'avvocato Danilo Ammannato. Antonio Ingroia denunciato per esercizio abusivo della professione? Il rischio c'è. Il segretario dell’Ordine di Roma, dove Ingroia è iscritto, e il presidente del Consiglio di Palermo, dove sarebbe avvenuto l’esercizio abusivo della professione, ritengono "che prima di potere esercitare la professione l’avvocato debba giurare davanti al Consiglio".
Ed Ancora. Bruxelles avvia un'azione contro l'Italia per l'Ilva di Taranto. La Commissione "ha accertato" che Roma non garantisce che l'Ilva rispetti le prescrizioni Ue sulle emissioni industriali, con gravi conseguenze per salute e ambiente. Roma è ritenuta "inadempiente" anche sulla norma per la responsabilità ambientale. La Commissione europea ha avviato la procedura di infrazione sull’Ilva per violazione delle direttive sulla responsabilità ambientale e un’altra sul mancato adeguamento della legislazione italiana alle direttive europee in materia di emissioni industriali. Le prove di laboratorio «evidenziano un forte inquinamento dell'aria, del suolo, delle acque di superficie e delle falde acquifere, sia sul sito dell'Ilva, sia nelle zone abitate adiacenti della città di Taranto. In particolare, l'inquinamento del quartiere cittadino di Tamburi è riconducibile alle attività dell'acciaieria». Oltre a queste violazioni della direttiva IPPC e al conseguente inquinamento, risulta che «le autorità italiane non hanno garantito che l'operatore dello stabilimento dell'Ilva di Taranto adottasse le misure correttive necessarie e sostenesse i costi di tali misure per rimediare ai danni già causati».
Bene. Di tutto questo la stampa si guarda bene di indicare tutti i responsabili, non fosse altro che sono i loro referenti politici. Ma sì, tanto ci sono “Le Iene” di Italia 1 che ci pensano a sputtanare il potere.
Cosa????
Invece “Le Iene” ci ricascano. Tralasciamo il fatto che è da anni che cerco un loro intervento a pubblicizzare l’ignominia dell’esame forense truccato, ma tant’è. Ma parliamo di altro. La pubblicazione del video di Alessandro Carluccio denuncia la censura de “Le Iene” su Francesco Amodeo, quando Francesco ha parlato è stato censurato...non serve parlare !! il Mes, il gruppo Bilderberg ,Mario Monti, Enrico Letta, Giorgio Napolitano, il Signoraggio Bancario, la Guerra Invisibile,...e tanta truffa ancora!!! Alessandro Carluccio, il bastardo di professione .. "figlio di iene"….indaga,..spiegando che non è crisi.. è truffa..se accarezzi la iena rischi di esser azzannato...in quanto la iena approfitta delle prede facili...ma se poi dopo diventi il leone sono costrette a scappare...un faccia a faccia con Matteo Viviani e Pablo Trincia in arte LE IENE....con Francesco Amodeo.
Dopo questo, ci si imbatte nel caso di Andrea Mavilla, vittima di violenza e di censura. C’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro. “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive Francesca su “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 24 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.
Quando la tv criminalizza un territorio.
7 ottobre 2013. Dal sito di Striscia la Notizia si legge “Stasera a Striscia la notizia Fabio e Mingo documentano la situazione di drammatico degrado in cui vivono migliaia di persone nelle campagne di Foggia. Si tratta di lavoratori stranieri che vengono in Italia per raccogliere i pomodori e lavorano dalle 5 del mattino fino a notte per pochi euro. Il caso documentato da Striscia riguarda un gruppo di lavoratori bulgari che per otto mesi l'anno vivono con le loro famiglie in case improvvisate, senza acqua, gas e elettricità, in condizioni igieniche insostenibili, tra fango e rifiuti di ogni genere, tra cui anche lastre di amianto.”
In effetti il filmato documenta una situazione insostenibile. Certo, però, ben lontana dalla situazione descritta. Prima cosa è che non siamo in periodo di raccolta del pomodoro, né dell’uva. Nel filmato si vede un accampamento di poche famiglie bulgare, ben lontane dal numero delle migliaia di persone richiamate nel servizio. Famiglie senza acqua, luce e servizi igienici. Un accampamento immerso nell’immondizia e con auto di grossa cilindrata parcheggiate vicino alle baracche. «Scusate ma a me sembra un "normale" accampamento di Zingari, come ci sono ahimè in tutte le città italiane - scrive Antonio sul sito di Foggia Today - Purtroppo oggi la televisione per fare audience, deve proporre continuamente lo scoop, specialmente quando si tratta di televisione cosiddetta commerciale. Ma anche la televisione pubblica a volte non è esente da criticare a riguardo. Fare televisione oggi significa soprattutto speculare sulla notizia, e molte volte non ci si fa scrupoli di speculare anche sulle tragedie, pur di raggiungere gli agognati indici di ascolto. E tutto questo senza preoccuparsi minimamente, di quanto viene proposto agli spettatori, a volte paganti (vedi il canone Rai). Tanto a nessuno importa, perchè vige la regola: "Il popolo è ignorante".» Giovanni scrive: «quello è un campo nomadi e non il campo dei lavoratori agricoli stagionali».
Questo non per negare la terribile situazione in cui versano i lavoratori stagionali, a nero e spesso clandestini, che coinvolge tutta l’Italia e non solo il Foggiano, ma per dare a Cesare quel che è di Cesare.
In effetti di ghetto ne parla “Foggia Città Aperta”. Ma è un’altra cosa rispetto a quel campo documentato da Striscia. Una fetta di Africa a dodici chilometri da Foggia. Benvenuti nel cosiddetto Ghetto di Rignano, un villaggio di cartone sperduto fra le campagne del Tavoliere Dauno che ogni estate ospita circa 700 migranti. Tutti, o quasi, impegnati nella raccolta dei campi, in modo particolare dei pomodori. Dodici ore di lavoro sotto al sole e al ritorno neanche la possibilità di farsi la doccia. Attenzione si parla di Africani, non di Bulgari.
Sicuramente qualcuno mi farà passare per razzista, ma degrado e sudiciume illustrato da Striscia, però, sono causati da quelle persone che ivi abitano e non sono certo da addebitarsi all’amministrazione pubblica Foggiana, che eventualmente, per competenza, non ha ottemperato allo sgombero ed alla bonifica dei luoghi.
Ai buonisti di maniera si prospettano due soluzioni:
L’Amministrazione pubblica assicura ai baraccati vitto, alloggio e lavoro, distogliendo tale diritto ai cittadini italiani, ove esistesse;
L’Amministrazione pubblica assicura la prole ad un centro per minori, togliendoli alle famiglie; libera con forza l’accampamento abusivo e persegue penalmente i datori di lavori, ove vi sia sfruttamento della manodopera; chiede ai baraccati ragione del loro tenore di vita in assenza di lavoro, per verificare che non vi siano da parte loro atteggiamenti e comportamenti criminogeni, in tal caso provvede al rimpatrio coatto.
Colui il quale dalla lingua biforcuta sputerà anatemi per aver ristabilito una certa verità, sicuramente non avrà letto il mio libro “UGUAGLIANZIOPOLI L’ITALIA DELLE DISUGUAGLIANZE. L'ITALIA DELL'INDISPONENZA, DELL'INDIFFERENZA, DELL'INSOFFERENZA”, tratto dalla collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Opere reperibili su Amazon.it.
Alla fine della fiera, si può dire che stavolta Fabio e Mingo e tutta Striscia la Notizia per fare sensazionalismo abbiano toppato?
Che anche le toghe paghino per i loro errori: adesso lo pretende la Ue, chiede “Libero Quotidiano”. La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. All'Ue non sta bene, e il procedimento di infrazione non è un fulmine a ciel sereno. E' del novembre 2011 la condanna all'Italia da parte della Corte di Giustizia Ue per l'inadeguatezza della nostra normativa in materia di responsabilità civile dei giudici, mentre già nel settembre 2012 la Commissione aveva chiesto al governo aggiornamenti sull'applicazione del decreto di condanna. Ma non è bastato. In due anni i governi di Mario Monti e Enrico Letta non hanno adeguato la legge italiana a quella europea, e ora l'Ue passa ai provvedimenti sanzionatori. L'Italia è responsabile della violazione del diritto dell'Unione da parte di un suo organo (in questo caso giudiziario), e per questo sarà chiamata a pagare. Qual è il problema per l'Ue? Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. Interpellate da Bruxelles nel settembre 2012, le autorità italiane avevano risposto in maniera rassicurante: cambieremo la legge. In dodici mesi non si è mossa una foglia, e ora il Belpaese va incontro a un procedimento di infrazione, cioè a una cospicua multa. Insomma, non pagano i giudici, paghiamo noi.
La proposta di aprire una nuova procedura d'infrazione è stata preparata dal servizio giuridico della Commissione che fa capo direttamente al gabinetto del presidente Josè Manuel Barroso, scrive “La Repubblica”. Bruxelles si è in pratica limitata a constatare che a quasi due anni dalla prima condanna, l'Italia non ha fatto quanto necessario per eliminare la violazione del diritto europeo verificata nel 2011. La prima sentenza emessa dai giudici europei ha decretato che la legge italiana sulla responsabilità civile dei magistrati li protegge in modo eccessivo dalle conseguenze del loro operato, ovvero rispetto agli eventuali errori commessi nell'applicazione del diritto europeo (oggi circa l'80% delle norme nazionali deriva da provvedimenti Ue). Due in particolare le ragioni che hanno portato Commissione e Corte a censurare la normativa italiana giudicandola incompatibile con il diritto comunitario. In primo luogo, osservano fonti europee, la legge nazionale esclude in linea generale la responsabilità dei magistrati per i loro errori di interpretazione e valutazione. Inoltre, la responsabilità dello Stato scatta solo quando sia dimostrato il dolo o la colpa grave. Un concetto, quest'ultimo, che secondo gli esperti Ue la Cassazione ha interpretato in maniera troppo restrittiva, circoscrivendola a sbagli che abbiano un carattere “manifestamente aberrante”.
Ciò che l'Unione Europea contestava, e ancora contesta, è l'eccessiva protezione garantita alla magistratura italiana, scrive “Il Giornale”. Per eventuali errori commessi nell'applicare il diritto europeo, non è infatti prevista responsabilità civile, che entra in gioco per dolo o colpa grave, ma non per errori di valutazione o interpretazione. Una differenzia importante, se si considera che circa l'80% delle norme italiana deriva ormai da provvedimenti comunitari.
Pronta la replica delle toghe: guai a toccare i magistrati.
Nessun "obbligo per l'Italia di introdurre una responsabilità diretta e personale del singolo giudice": l'Europa "conferma che nei confronti del cittadino l'unico responsabile è lo Stato". Il vice presidente del Csm Michele Vietti commenta così la notizia dell'avvio di una procedura da parte dell'Ue. "L'Europa ha parlato di responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario; non entra invece nella questione della responsabilità personale dei giudici perché é un problema di diritto interno, regolato diversamente nei vari Stati membri", ha puntualizzato il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli, che sin da ora avverte: "Denunceremo ogni tentativo di condizionamento dei magistrati attraverso una disciplina della responsabilità civile che violi i principi di autonomia e indipendenza".
Tutti uguali davanti alla legge. Tutti uguali? Anche i magistrati? E invece no. I magistrati sono al di sopra della legge, ci si tengono - al di sopra - con pervicacia, si rifugiano sotto l’ombrello dell’autonomia, indipendenza dalla politica, in realtà tenendosi stretto il privilegio più anacronistico che si possa immaginare: l’irresponsabilità civile. O irresponsabilità incivile, scrive Marvo Ventura su “Panorama”. La Commissione Europea ha deciso di avviare una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per l’eccessiva protezione offerta dalle norme ai magistrati, per i limiti all’azione di risarcimento delle vittime di palesi e magari volute ingiustizie. Per l’irresponsabilità del magistrato che per dolo o colpa grave rovini la vita delle persone con sentenze chiaramente errate, se non persecutorie. Succede che in capo direttamente al presidente della Commissione UE, Barroso, è partita la proposta di agire contro l’Italia per aver totalmente ignorato la condanna del 2011 della Corte di Giustizia che fotografava l’inadeguatezza del sistema italiano agli standard del diritto europeo rispetto alla responsabilità civile delle toghe. Dov’è finita allora l’urgenza, la fretta, quel rimbocchiamoci le maniche e facciamo rispettare la legge e le sentenze, che abbiamo visto negli ultimi giorni, settimane, mesi, come una battaglia di principio che aveva e ha come bersaglio l’avversario politico Silvio Berlusconi. Perché dal 1987, anno del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, c’è stata solo una legge, la Vassalli dell’anno successivo, che serviva purtroppo per introdurre una qualche responsabilità ma non troppa, per non pestare i piedi alla magistratura, forte già allora di uno strapotere discrezionale nella sua funzione inquirente e nella sua vocazione sovente inquisitoria. Adesso che l’Europa ci bacchetta (e la minaccia è anche quella di farci pagare per l’irresponsabilità dei nostri magistrati, dico far pagare a noi contribuenti che sperimentiamo ogni giorno le inefficienze e i ritardi della giustizia civile e penale), l’Europa non è più quel mostro sacro che ha sempre ragione. Non è più neanche il depositario del bene e del giusto. È invece la fonte di una raccomandazione che merita a stento dichiarazioni di seconda fila. E l’Associazione nazionale magistrati stavolta non tuona, non s’indigna, non incalza. Si limita a scaricare il barile al governo, dice per bocca dei suoi vertici che la Commissione non ha infilzato i singoli magistrati ma lo Stato italiano per la sua inadempienza al diritto UE, comunitario. Come se i magistrati e la loro associazione corporativa non avessero avuto alcuna voce in capitolo nel tornire una legislazione che non è in linea con lo stato di diritto di un avanzato paese europeo. Come se in questo caso le toghe potessero distinguere le loro (ir)responsabilità da quelle di una parte della politica che ha fatto sponda alle correnti politiche giudiziarie e alla loro campagna ventennale. Come se i magistrati più in vista, più esposti, non avessero facilmente e disinvoltamente travalicato i confini e non si fossero gettati in politica facendo tesoro della popolarità che avevano conquistato appena il giorno prima con le loro inchieste di sapore “politico”. Ma quel che è peggio è l’odissea di tanti cittadini vittime di ingiustizia che si sono dovuti appellare all’Europa, avendo i soldi per farlo e il tempo di aspettare senza morire (a differenza di tanti altri). A volte ho proprio l’impressione di non trovarmi in Europa ma in altri paesi che non saprei citare senza peccare di presunzione. L’Italia, di certo, non appartiene più al novero dei paesi nei quali vi è certezza del diritto. Per quanto ancora?
Di altro parere rispetto a quello espresso dalle toghe, invece è il Presidente della Repubblica e capo del CSM. L’opposizione dei giudici alla riforma della giustizia è eccessiva, spiega “Libero Quotidiano”. Se ne è accorto anche Giorgio Napolitano che, il 20 settembre 2013 intervenendo alla Luiss per ricordare Loris D'Ambrosio, riflette sul rapporto tra magistratura e politica: entrambi i poteri sbagliano, ma la magistratura è troppo piegata sulle sue posizioni ed una rinfrescata ai codici sarebbe cosa buona. Secondo Napolitano, le critiche che le piovono addosso, vero, sono eccessive; ma ai punti a perdere sono i magistrati, sempre più convinti di essere intoccabili. La politica e la giustizia devono smettere di "concepirsi come mondi ostili, guidati dal sospetto reciproco", dice Napolitano che sogna, invece, l’esaltazione di quella "comune responsabilità istituzionale" propria dei due poteri. "Ci tocca operare in questo senso - precisa Napolitano - senza arrenderci a resistenze ormai radicate e a nuove recrudescenze del conflitto da spegnere nell'interesse del Paese". Per superare quelle criticità emerse con foga negli ultimi vent’anni (prendendo Tangentopoli come primo e vero momento di scontro tra politica e magistratura), secondo Napolitano, la soluzione si può trovare "attraverso un ridistanziamento tra politica e diritto" ma soprattutto non senza la cieca opposizione ad una riforma completa della magistratura. Il presidente della Repubblica sembra non sapersi spiegare perché proprio i magistrati siano sulle barricate per difendere il loro status. Tra i giudici, dice Napolitano, dovrebbe "scaturire un'attitudine meno difensiva e più propositiva rispetto al discorso sulle riforme di cui la giustizia ha indubbio bisogno da tempo e che sono pienamente collocabili nel quadro dei principi della Costituzione repubblicana". Sul Quirinale non sventola mica la bandiera di Forza Italia, ma bastano le lampanti criticità ad illuminare il discorso di Re Giorgio. "L'equilibrio, la sobrietà ed il riserbo, l'assoluta imparzialità e il senso della misura e del limite, sono il miglior presidio dell'autorità e dell'indipendenza del magistrato". Così Napolitano non si lascia sfuggire l’occasione di parlare indirettamente a quei magistrati che fanno del protagonismo la loro caratteristica principale. Pm, come Henry John Woodcock, o giudicanti, come il cassazionista Antonio Esposito, che si sono lasciarti sedurre da taccuini e telecamere quando, invece, avrebbero dovuto seguire quei dettami di "sobrietà e riserbo". Il presidente, poi, ricorda che nessun lavoro è delicato quanto quello del giudice perché sa che dalla magistratura dipende la vita (o la non-vita) degli indagati.
Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano. In sostanza, scrive Vittorio Feltri, i giudici continentali si sono limitati a dire ai tribunali italiani che i giornalisti non devono andare in galera per gli sbagli commessi nello svolgimento del loro lavoro, a meno che inneggino alla violenza o incitino all'odio razziale. Tutti gli altri eventuali reati commessi dai colleghi redattori vanno puniti, a seconda della gravità dei medesimi, con sanzioni pecuniarie. Perché la libertà di espressione non può essere compressa dal terrore dei giornalisti di finire dietro le sbarre. La Corte, per essere ancora più chiara, ha detto che il carcere collide con la Carta dei diritti dell'uomo. Inoltre, scrive “Panorama”, ha condannato lo Stato italiano a risarcire Belpietro - per il torto patito - con 10mila euro, più 5mila per le spese legali. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato lo Stato italiano a pagare a Maurizio Belpietro 10 mila euro per danni morali e 5 mila per le spese processuali a causa della condanna a 4 anni di carcere, inflittagli dai giudici d'appello di Milano, per aver ospitato sul suo giornale un articolo del 2004 ritenuto gravemente diffamatorio a firma Lino Jannuzzi, allora senatore PdL. Senza entrare nel merito della questione giudiziaria, la Corte ha cioè ribadito un principio assimilato da tutti i Paesi europei: il carcere per i giornalisti per il reato di diffamazione - previsto dal nostro codice penale - è un abominio giuridico incompatibile con i principi della libertà d'informazione. A questo tema, di cui si è occupato anche Panorama , è dedicato il fondo di Vittorio Feltri su Il Giornale intitolato E l'Europa ci bastona. Un orrore il carcere per i giornalisti . “La vicenda dell'attuale direttore di Libero è addirittura paradossale. Udite. Lino Jannuzzi scrive un articolo scorticante sui misteri della mafia, citando qualche magistrato, e lo invia al Giornale. La redazione lo mette in pagina. E il dì appresso partono le querele delle suddette toghe. Si attende il processo di primo grado. Fra la sorpresa generale, il tribunale dopo avere udito testimoni ed esaminato approfonditamente le carte, assolve sia Jannuzzi sia Belpietro. Jannuzzi perché era senatore ed era suo diritto manifestare le proprie opinioni, senza limitazioni. Belpietro perché pubblicare il pezzo di un parlamentare non costituisce reato. Ovviamente, i soccombenti, cioè i querelanti, ricorrono in appello. E qui si ribalta tutto. Il direttore si becca quattro mesi di detenzione, per non parlare della sanzione economica: 100mila e passa euro. Trascorrono mesi e anni, e si arriva in Cassazione - suprema corte - che, lasciando tutti di stucco, conferma la sentenza di secondo grado, a dimostrazione che la giustizia è un casino, dove la certezza del diritto è un sogno degli ingenui o dei fessi. Belpietro, allora, zitto zitto, inoltra ricorso alla Corte di Strasburgo che, essendo più civile rispetto al nostro sistema marcio, riconosce al ricorrente di avere ragione. Attenzione. Le toghe europee non se la prendono con i colleghi italiani che, comunque , hanno esagerato con le pene, bensì con lo Stato e chi lo guida (governo e Parlamento) che consentono ancora - non avendo mai modificato i codici - di infliggere ai giornalisti la punizione del carcere, prediletta dalle dittature più infami.”
Anche il fondo di Belpietro è dedicato alla storica decisione della Corte di Strasburgo che ha dato ragione a quanti, tra cui Panorama, sostengono che il carcere per i giornalisti sia una stortura liberticida del nostro sistema penale che un Parlamento degno di questo nome dovrebbe subito cancellare con una nuova legge che preveda la pena pecuniaria, anziché il carcere. Così ricostruisce la vicenda il direttore di Libero.
La questione è che per aver dato conto delle opinioni di un senatore su un fatto di rilevante interesse nazionale un giornalista è stato condannato al carcere. Ho sbagliato a dar voce a Iannuzzi? Io non credo, perché anche le opinioni sbagliate se corrette da un contraddittorio o da una rettifica contribuiscono a far emergere la verità. Tuttavia, ammettiamo pure che io sia incorso in un errore, pubblicando opinioni non corrette: ma un errore va punito con il carcere? Allora cosa dovrebbe succedere ai magistrati che commettono errori giudiziari e privano della libertà una persona? Li mettiamo in cella e buttiamo via la chiave? Ovvio che no, ma nemmeno li sanzioniamo nella carriera o nel portafoglio, a meno che non commettano intenzionalmente lo sbaglio. Naturalmente non voglio mettere noi infimi cronisti sullo stesso piano di superiori uomini di legge, ma è evidente che c’è qualcosa che non va. Non dico che i giornalisti debbano avere licenza di scrivere, di diffamare e di insultare, ma nemmeno devono essere puniti con la galera perché sbagliano. Altrimenti la libertà di stampa e di informare va a quel paese, perché nel timore di incorrere nei rigori della legge nessuno scrive più nulla. Tradotto in giuridichese, questo è quel che i miei avvocati hanno scritto nel ricorso contro la condanna presentato alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale proprio ieri ci ha dato ragione, condannando l’Italia a risarcirmi per i danni morali subiti e sentenziando che un omesso controllo in un caso di diffamazione non giustifica una sanzione tanto severa quale il carcere. Qualcuno penserà a questo punto che io mi sia preso una rivincita contro i giudici, ma non è così.
Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo, scrive Filippo Facci. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori del Fatto Quotidiano (il giornale di Marco Travaglio), a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente.
Tutt’altro trattamento, però, è riservato a Roberto Saviano. Ci dev'essere evidentemente un delirio nella mente di Saviano dopo la condanna per plagio, scrive Vittorio Sgarbi. Lo hanno chiamato per una occasione simbolico-folkloristica: guidare la Citroen Mehari che fu di Giancarlo Siani, un'automobile che rappresenta il gusto per la libertà di una generazione. All'occasione Saviano dedica un'intera pagina della Repubblica. Possiamo essere certi che non l'ha copiata, perché senza paura del ridicolo, di fronte alla tragedia della morte del giornalista, per il suo coraggio e le sue idee, che si potrebbero semplicemente celebrare ripubblicando i suoi articoli in un libro da distribuire nelle scuole (pensiero troppo facile) scrive: «Riaccendere la Mehari, ripartire, è il più bel dono che Paolo Siani (il fratello) possa fare non solo alla città di Napoli ma al Paese intero... la Mehari che riparte è il contrario del rancore, è il contrario di un legittimo sentimento di vendetta che Paolo Siani potrebbe provare». Eppure Roberto Saviano e la Mondadori sono stati condannati per un presunto plagio ai danni del quotidiano Cronache di Napoli, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno”. Editore e scrittore sono stati ritenuti responsabili di «illecita riproduzione» nel bestseller Gomorra di tre articoli (pubblicati dai quotidiani locali «Cronache di Napoli» e «Corriere di Caserta»). In particolare, Saviano e Mondadori , suo editore prima del passaggio con Feltrinelli, sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro. Questa la decisione del secondo grado di giudizio. Spetterà adesso ai giudici di Cassazione dire l'ultima parola su una querelle che si trascina da almeno cinque anni, da quando cioè la società Libra, editrice dei due quotidiani campani, imputò allo scrittore anticamorra di essersi appropriato di diversi articoli senza citare la fonte per redigere alcune parti di Gomorra (corrispondenti, sostiene Saviano, a due pagine).
Detto questo si presume che le ritorsioni su chi testimonia una realtà agghiacciante abbiano uno stop ed invece c’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web.
“Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Ma andiamo con ordine.
Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 25 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano da questa mattina sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.
Andrea Mavilla, blogger dallo spiccato senso civico, ha pubblicato su YouTube un filmato in cui pizzicava un’auto dei carabinieri in divieto di sosta, sulle strisce pedonali, in prossimità di un semaforo e controsenso, scrive “Blitz Quotidiano”. Oltre trecentomila contatti in poche ore e poco dopo un plotone di 30 carabinieri si precipita a casa sua, a Cavenago di Brianza, comune alle porte di Milano. Il video è stato girato domenica mattina, nel filmato intitolato “operazione pasticcini” il blogger insinua che i militari stessero comprando pasticcini all’interno della pasticceria accanto. Per svariati minuti il videoamatore resta in attesa dei carabinieri: ferma i passanti “signora guardi sono sulle strisce, in prossimità di un semaforo, saranno entrati a prendere i pasticcini in servizio”, commenta ironico “è scioccante”, “normale parcheggiare sulle strisce vero?”. Quando infine i carabinieri escono dalla pasticceria, con in mano un pacchetto, notano l’uomo con la telecamera in mano. Il blogger li bracca e chiede loro spiegazioni e i militari lo fermano per identificarlo. Il legale dei tre carabinieri, Luigi Peronetti, spiega che: “La realtà è un’altra. E lo dicono i documenti, non solo i miei assistiti. Il caso è agghiacciante e mostra come immagini neutre con un commentatore che insinua a e fa deduzioni malevole possano distorcere la realtà”. Sulla carta, in effetti, risulta che i carabinieri erano in quella pasticceria perché il proprietario aveva chiesto il loro intervento, hanno lasciato l’auto nel posto più vicino, come prevedono le disposizioni interne all’Arma in materia di sicurezza, hanno verificato richieste e problemi del pasticcere, hanno redatto un verbale, poi sono usciti. In mano avevano un pacchetto, è vero: “Ma certo. Solo che non l’avevano acquistato – continua l’avvocato Peronetti – in realtà i negozianti, per ringraziare i militari della gentilezza e della professionalità, hanno regalato loro alcune brioches avanzate a fine mattinata, da portare anche ai colleghi in caserma. I militari hanno rifiutato, e solo dopo alcune insistenze, hanno accettato il pacchetto. Al blogger bastava chiedere, informarsi prima di screditare così i miei assistiti!. Ora il blogger rischia guai grossi, perché i militari stanno valutando se procedere contro di lui legalmente per aver screditato la loro professionalità. Ma Andrea Mavilla non si arrende e controbatte: “Ho le prove che dimostrano i soprusi di cui sono stato vittima – annuncia – ho solo cercato di documentare un fatto che ho visto e ho ripreso per il mio blog, la mia passione. Ho visto quella che secondo me è una violazione al codice della strada, che in realtà è concessa ai carabinieri solo in caso di pericolo o emergenze. Poi hanno effettuato una perquisizione, ma i carabinieri non dovevano entrare in casa mia e la vicenda è in mano agli avvocati. Per questo motivo sono sotto choc, sconvolto e mi sento sotto attacco”.
Nel servizio de Le Iene, in onda martedì 25 settembre 2013, Andrea Mavilla è protagonista di un sequestro di beni non dovuto, a seguito di un video che documentava una macchina dei carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e in controsenso, davanti ad una pasticceria. Mavilla, già ospite a Pomeriggio 5 per via di un’altra vicenda, è stato poi convocato in questura dove, racconta a Matteo Viviani de Le Iene, sarebbe stato costretto a denudarsi mentre veniva insultato: dichiarazioni che tuttavia non sono supportate da registrazioni audio o video, e che quindi non possono essere provate. Un esperto di informatica, però, ha fatto notare che, in seguito al sequestro dei computer di Mavilla, i carabinieri avrebbero cancellato ogni cosa presente sul pc dell’autore del filmato incriminato.
Uno dei servizi più interessanti (e, a tratti, agghiaccianti) andati in onda nella prima puntata de Le Iene Show, è stato quello curato da Matteo Viviani che ha documentato un presunto caso di abuso di potere perpetrato dai Carabinieri nei confronti di Andrea Mavilla. L’uomo è molto famoso su internet e, ultimamente, è apparso anche in televisione ospite di Barbara D’Urso a Pomeriggio Cinque. Ecco cos’è accaduto nel servizio de Le Iene.
Andrea accoglie la Iena Matteo Viviani in lacrime: ha la casa a soqquadro, come se fosse stata appena svaligiata dai ladri. Ma la verità è ben diversa. Purtroppo. L’incubo comincia quando Andrea Mavilla filma, con il proprio cellulare, una volante dei Carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e davanti ad uno scivolo per disabili. L’auto rimane parcheggiata sulle strisce per circa venti minuti mentre i Carabinieri, presumibilmente, sono in pasticceria. Non appena gli agenti si accorgono di essere filmati, intimano ad Andrea di spegnere il cellulare e di mostrare loro i documenti. Poi inizia l’incubo. Il Comandante dei Carabinieri si sarebbe recato a casa di Andrea per intimargli di consegnargli tutto il materiale video e fotografico in suo possesso. Al rifiuto del ragazzo, gli agenti avrebbero iniziato a perquisire la sua casa alla ricerca di materiale compromettente. Matteo Viviani, nel suo servizio, ha riportato l’audio della la conversazione tra Andrea ed i carabinieri registrato tramite Skype da una collaboratrice di Andrea. Nel servizio andato in onda a Le Iene Show, poi, Andrea racconta quel che è accaduto dopo la presunta perquisizione: secondo Mavilla i Carabinieri lo avrebbero condotto in Caserma ed insultato pesantemente. Il giovane si sarebbe sentito poi male tanto da rendere necessario il suo ricovero in Ospedale. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro.
MALAGIUSTIZIA. PUGLIA: BOOM DI CASI.
C’è l’elettricista incensurato scambiato per un pericoloso narcotrafficante per un errore nella trascrizione delle intercettazioni; e ci sono i due poliziotti accusati di rapina ai danni di un imprenditore, sottoposti nel 2005 a misura cautelare per 13 mesi, spogliati della divisa e poi assolti con formula piena. Ma nel frattempo hanno perso il lavoro, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Sino alla drammatica storia di Filippo Pappalardi, ammanettato e rinchiuso in una cella con l’accusa - rivelatasi poi completamente sbagliata - di aver ucciso i suoi due figli, Francesco e Salvatore. E’ lungo l’elenco delle persone incastrate nelle maglie della malagiustizia, che hanno - loro malgrado - vissuto per mesi o per anni un incubo chiamato carcere. A Bari, secondo i dati ufficiali raccolti dal sito errori giudiziari.com, le richieste di risarcimento presentate per ingiusta detenzione, nell’ultimo anno, si sono più che raddoppiate: nel 2012 i giudici della Corte di appello hanno riconosciuto 29 errori da parte dei loro colleghi, condannando lo Stato a pagare complessivamente 911mila euro. A metà dell’ultimo anno i casi sono già passati a 64, valore totale degli indennizzi oltre 1,7 milioni. In aumento gli errori anche a Taranto, dove si è passati dai due risarcimenti riconosciuti nel 2012 ai sette del 2013. In controtendenza, invece, l’andamento nel distretto di Lecce: nel 2012 gli errori riconosciuti sono stati ben 97, quest’anno la statistica è ferma a 37. Spesso i mesi o addirittura gli anni trascorsi da innocente dietro le sbarre vengono "liquidati" con poche migliaia di euro, al danno così si unisce la beffa. Secondo quanto disposto dagli articoli 314 e 315 del codice penale e dalla Convenzione dei diritti dell’uomo, la persona diventata suo malgrado imputato ha diritto ad un’equa riparazione. La legge "Carotti" ha aumentato il limite massimo di risarcimento per aver patito un'ingiusta permanenza in carcere, passando da cento milioni di lire a 516mila euro, ma raramente viene riconosciuto il massimo. Per non parlare dei tempi per ottenere la riparazione: le cause durano anni, basti pensare che Filippo Pappalardi, giusto per fare un esempio, è ancora in attesa che venga discussa la sua richiesta. Ma il papà dei due fratellini di Gravina, i ragazzini morti dopo essere caduti accidentalmente in una cisterna, non è l’unico arrestato ingiustamente. Attenzione ingiusta detenzione da non confondere il risarcimento del danno per l’errore giudiziario causato da colpa grave o dolo. Eventi, questi, quasi mai rilevati dai colleghi magistrati contro i loro colleghi magistrati. Gianfranco Callisti conduceva una vita normale e portava avanti serenamente la sua attività di elettricista. Sino al giorno in cui, nel 2002, viene prelevato dai carabinieri e trasferito in carcere all’improvviso. La Procura e il Tribunale di Bari erano convinti che fosse coinvolto in un vasto traffico di droga, la storia poi stabilirà che si trattò di un tragico errore provocato da uno sbaglio nella trascrizione delle intercettazioni. Callisti da innocente fu coinvolto nella maxi inchiesta denominata "Operazione Fiume", come ci finì? Il suo soprannome, "Callo", fu confuso con il nome "Carlo", che era quello di una persona effettivamente indagato. Il telefono dell’elettricista non era sotto controllo, ma quello di un suo conoscente si, una casualità sfortunata che lo fece entrare nell’ordinanza di custodia cautelare. Si fece sei mesi in carcere, tre mesi ai domiciliari e tre mesi di libertà vigilata, prima che i giudici riconobbero il clamoroso abbaglio. Dopo 10 anni lo Stato gli ha riconosciuto un indennizzo di 50mila euro, nulla in confronto all’inferno vissuto.
Correva l'anno 1985 e Indro Montanelli, che a quel tempo direttore del Giornale, era ospite di Giovanni Minoli a Mixer, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. In un'intervista del 1985 il giornalista attacca le toghe. Dopo ventotto anni è ancora attuale: "C'è pieno di giudici malati di protagonismo. Chiedo ed esigo che la magistratura risponda dei suoi gesti e dei suoi errori spesso catastrofici"Un pezzo di modernariato, direte voi. Invece è una perfetta, precisa, lucida ma soprattutto attuale, fotografia della giustizia italiana. Sono passati ventotto anni. Si vede dai colori delle riprese, dagli abiti e anche dal format stesso della trasmissione. Ma solo da questo. In tutto il resto, il breve spezzone che vi riproponiamo, sembra una registrazione di poche ore fa. Attuale. Più che mai. Una prova della lungimiranza di Montanelli, ma anche la testimonianza dell'immobilità di un Paese che sembra correre su un tapis roulant: sempre in movimento, ma sempre nello stesso posto, allo stesso punto di partenza. Montanelli parla di giustizia e ci va giù pesante. Minoli lo interpella sul un articolo in cui aveva attaccato i giudici che avevano condannato Vincenzo Muccioli, fondatore ed allora patron di San Patrignano. Una presa di posizione che gli costò una querela. "Quello di Muccioli è uno dei più clamorosi casi in cui la giustizia si è messa contro la coscienza popolare", spiega Montanelli. Poi torna sulla sua querela: "Ne avrò delle altre. Non sono affatto disposto a tollerare una magistratura come quella che abbiamo in Italia". Montanelli continua attaccando il protagonismo delle toghe, puntando il dito in particolare contro il magistrato Carlo Palermo, e denunciando le degenerazioni di una stampa sempre più sensazionalistica e di una magistratura sempre più arrogante. Ma non solo. Il giornalista mette alla berlina i giudici che cavalcano le indagini per farsi vedere e poi, dopo aver rovinato uomini e aziende, non pagano per i loro errori. Parole profetiche. Sembra storia di oggi, invece è storia e basta. Insomma, una lezione attualissima. Una pagina sempreverde dell'infinita cronaca del Paese Italia. Purtroppo.
Libri. "Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno" di Trupia Flavia. Giusto per dire: con le parole fotti il popolo…che i fatti possono aspettare. Alcuni discorsi colpiscono; altri, invece, generano solo un tiepido applauso di cortesia. Dov'è la differenza? Cosa rende un discorso potente? Certamente l'argomento, l'oratore, il luogo e il momento storico sono fattori rilevanti. Ma non basta, occorre altro per dare forza a un discorso. Occorre la retorica. L'arte del dire non può essere liquidata come artificio ampolloso e manieristico. È, invece, una tecnica che permette di dare gambe e respiro a un'idea. È la persuasione la sfida affascinante della retorica. Quell'istante magico in cui le parole diventano condivisione, emozione, voglia di agire, senso di appartenenza, comune sentire dell'uditorio. Non è magia nera, ma bianca, perché la parola è lo strumento della democrazia. La retorica non è morta, non appartiene al passato. Fa parte della nostra vita quotidiana molto più di quanto immaginiamo. Siamo tutti retori, consapevoli o inconsapevoli. Tuttavia, per essere buoni retori è necessaria la conoscenza dell'arte oratoria. Ciò non vale solo per i politici ma per tutti coloro che si trovano nella condizione di pronunciare discorsi, presentare relazioni, convincere o motivare i propri interlocutori, argomentare sulla validità di una tesi o di un pensiero. Ecco allora un manuale che analizza le tecniche linguistiche utilizzate dai grandi oratori dei nostri giorni e ne svela i meccanismi di persuasione. Perché anche noi possiamo imparare a "lasciare il segno".
«Grillo è l'invidia», B. è l'inganno', dice Trupia a Rossana Campisi su “L’Espresso”.
Quali sono gli strumenti retorici dei politici? Un'esperta di comunicazione li ha studiati. E sostiene che il fondatore del M5S punta sulla rabbia verso chi sta in alto, mentre il capo del Pdl 'vende' sempre un sogno che non si realizzerà mai.
Che la nostra felicità dipendesse da un pugnetto di anafore, non ce lo avevano ancora detto. O forse si. «Gorgia da Lentini si godeva la Magna Grecia. Un bel giorno, smise di pensare e disse: la parola è farmacon. Medicina ma anche veleno». Flavia Trupia, ghostwriter ed esperta di comunicazione, ce lo ricorda. La storia dell'umanità, del resto, è lunga di esempi che lei ha ripreso in Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno (FrancoAngeli) e nel suo blog. «Spesso dimentichiamo il potere dell'arte della parola. La retorica insomma. Poi arrivano certi anniversari e tutti lì a prendere appunti».
Sono i 50 anni di I Have a Dream. Martin Luther King Jr., davanti al Lincoln Memorial di Washington, tiene il discorso conclusivo della marcia su Washington. Partiamo da qui?
«Sì, è uno di quelli che i linguisti non hanno mai smesso di studiare. Si tratta di un vero atto linguistico: le parole diventano azione. King aveva 34 anni, sarebbe morto dopo cinque anni. Quel 28 agosto del 1963 ha cambiato il mondo».
Con le sue parole?
«Chiamale parole. Lì dentro c'è tutto il mondo in cui credono ancora oggi gli americani: i riferimenti alla Bibbia, ne trovi una in ogni hotel e in ogni casa, quelli alle costituzioni e alle dichiarazioni nazionali, quelli ai motel, luogo tipico della cultura americana dove ti puoi riposare in viaggio. E poi ripeteva sempre "today": l'efficienza americana è da sempre impaziente».
Strategia dei contenuti.
«Magari fossero solo quelli. C'è il ritmo che è fondamentale. E poi cosa dire di quella meravigliosa anafora diventata quasi il ritornello di una canzone? "I Have a Dream" è ripetuto ben otto volte».
Il potere ha proprio l'oro in bocca.
«King ha cambiato il mondo rendendo gli uomini più uomini e meno bestie. Anche Goebbles faceva discorsi molto applauditi. Ma ha reso gli uomini peggio delle bestie».
Anche gli italiani hanno avuto bisogno di "discorsi" veri, no?
«Certo. Beppe Grillo è stato un grande trascinatore, ha emozionato le piazze, le ha fatte ridere e piangere. Il suo stile però è quello delle Filippiche. Inveire sempre. Scatenare l'invidia e l'odio per chi ha il posto fisso, per chi sta in Parlamento. Muove le folle ma costruisce poco».
Abbiamo perso anche questa occasione.
«King diceva di non bere alla coppa del rancore e dell'odio. Questa è una grande differenza tra i due. Il suo era in fondo un invito in fondo all'unità nazionale e la gente, bianca e nera, lo ha sentito».
Ma era anche un invito a sognare.
«Anche Berlusconi ha fatto sognare gli italiani. Indimenticabile il suo discorso d'esordio: "L'Italia è il paese che io amo". La gente aveva iniziato a pensare che finalmente si poteva fare politica in modo diverso e che si poteva parlare di ricchezza senza imbarazzi. Quello che propone però è un sogno infinito».
In che senso?
«Lo scorso febbraio ha fatto ancora promesse: non far pagare l'Imu. Lo ha fatto anche lui in termini biblici sancendo una sorta di alleanza tra gli italiani e lo Stato. Ma non è questo quello di cui abbiamo bisogno».
E di cosa?
«L'Imu da non pagare non basta. Aneliamo tutti a una visione diversa del paese dove viviamo, della nostra storia comune e personale».
Ci faccia un esempio.
«Alcide De Gasperi. Era appena finita la seconda guerra mondiale, lo aspettava la Conferenza di pace a Parigi. Partì per andare a negoziare le sanzioni per l'Italia che ne era uscita perdente. Questo piccolo uomo va ad affrontare letteralmente il mondo. Arriva e non gli stringono neanche la mano».
Cosa otterrà?
«Inizia il suo discorso così: "Avverto che in quest'aula tutto è contro di me...". Ha usato parole semplici ed educate. E' riuscito a far capire che l'Italia era ancora affidabile. Ha ottenuto il massimo del rispetto. Tutti cambiarono idea, capirono che il paese aveva chiuso col fascismo».
Sono passati un bel po' di anni.
«Solo dopo dieci quel discorso l'Italia divenne tra le potenze industriali più potenti del mondo».
La domanda «Perché oggi non ci riusciamo?» potrebbe diventare un'ennesima figura retorica: excusatio non petita accusatio manifesta.... Tanto vale.
STATO DI DIRITTO?
Berlusconi, il discorso integrale. Ecco l’intervento video del Cavaliere: «Care amiche, cari amici, voglio parlarvi con la sincerità con cui ognuno di noi parla alle persone alle quali vuole bene quando bisogna prendere una decisione importante che riguarda la nostra famiglia. Che si fa in questi casi? Ci si guarda negli occhi, ci si dice la verità e si cerca insieme la strada migliore. Siete certamente consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza precedenti, in una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai giovani, che angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere e il nostro futuro. Il peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo: occorre imboccare la strada maestra del liberalismo che, quando è stata percorsa, ha sempre prodotto risultati positivi in tutti i Paesi dell’Occidente: qual è questa strada? Meno Stato, meno spesa pubblica, meno tasse. Con la sinistra al potere, il programma sarebbe invece, come sempre, altre tasse, un’imposta patrimoniale sui nostri risparmi, un costo più elevato dello Stato e di tutti i servizi pubblici. I nostri ministri hanno già messo a punto le nostre proposte per un vero rilancio dell’economia, proposte che saranno principalmente volte a fermare il bombardamento fiscale che sta mettendo in ginocchio le nostre famiglie e le nostre imprese. Ma devo ricordare che gli elettori purtroppo non ci hanno mai consegnato una maggioranza vera, abbiamo sempre dovuto fare i conti con i piccoli partiti della nostra coalizione che, per i loro interessi particolari, ci hanno sempre impedito di realizzare le riforme indispensabili per modernizzare il Paese, prima tra tutte quella della giustizia. E proprio per la giustizia, diciamoci la verità, siamo diventati un Paese in cui non vi è più la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercé di una magistratura politicizzata, una magistratura che, unica tra le magistrature dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità, di una totale impunità. Questa magistratura, per la prevalenza acquisita da un suo settore, Magistratura Democratica, si è trasformata da “Ordine” dello Stato, costituito da impiegati pubblici non eletti, in un “Potere” dello Stato, anzi in un “Contropotere” in grado di condizionare il Potere legislativo e il Potere esecutivo e si è data come missione, quella - è una loro dichiarazione - di realizzare “la via giudiziaria” al socialismo. Questa magistratura, dopo aver eliminato nel ’92 - ’93 i cinque partiti democratici che ci avevano governati per cinquant’anni, credeva di aver spianato definitivamente la strada del potere alla sinistra. Successe invece quel che sapete: un estraneo alla politica, un certo Silvio Berlusconi, scese in campo, sconfisse la gioiosa macchina da guerra della sinistra, e in due mesi portò i moderati al governo. Ero io. Subito, anzi immediatamente, i P.M. e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli di Magistratura Democratica si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula piena, sette anni dopo. Cadde così il governo, ma da quel momento fino ad oggi mi sono stati rovesciati addosso, incredibilmente, senza alcun fondamento nella realtà, 50 processi che hanno infangato la mia immagine e mi hanno tolto tempo, tanto tempo, serenità e ingenti risorse economiche. Hanno frugato ignobilmente e morbosamente nel mio privato, hanno messo a rischio le mie aziende senza alcun riguardo per le migliaia di persone serie ed oneste che vi lavorano, hanno aggredito il mio patrimonio con una sentenza completamente infondata, che ha riconosciuto a un noto, molto noto, sostenitore della sinistra una somma quattro volte superiore al valore delle mie quote, con dei pretesti hanno attaccato me, la mia famiglia, i miei collaboratori, i miei amici e perfino i miei ospiti. Ed ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna condanna, si illudono di essere riusciti ad estromettermi dalla vita politica, con una sentenza che è politica, che è mostruosa, ma che potrebbe non essere definitiva come invece vuol far credere la sinistra, perché nei tempi giusti, nei tempi opportuni, mi batterò per ottenerne la revisione in Italia e in Europa. Per arrivare a condannarmi si sono assicurati la maggioranza nei collegi che mi hanno giudicato, si sono impadroniti di questi collegi, si sono inventati un nuovo reato, quello di “ideatore di un sistema di frode fiscale”, senza nessuna prova, calpestando ogni mio diritto alla difesa, rifiutandosi di ascoltare 171 testimoni a mio favore, sottraendomi da ultimo, con un ben costruito espediente, al mio giudice naturale, cioè a una delle Sezioni ordinarie della Cassazione, che mi avevano già assolto, la seconda e la terza, due volte, su fatti analoghi negando - cito tra virgolette - “l’esistenza in capo a Silvio Berlusconi di reali poteri gestori della società Mediaset”. Sfidando la verità, sfidando il ridicolo, sono riusciti a condannarmi a quattro anni di carcere e soprattutto all’interdizione dai pubblici uffici, per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola, rispetto agli oltre 10 miliardi, ripeto 10 miliardi di euro, quasi ventimila miliardi di vecchie lire, versati allo Stato, dal ’94 ad oggi, dal gruppo che ho fondato. Sono dunque passati vent’anni da quando decisi di scendere in campo. Allora dissi che lo facevo per un Paese che amavo. Lo amo ancora, questo Paese, nonostante l’amarezza di questi anni, una grande amarezza, e nonostante l’indignazione per quest’ultima sentenza paradossale, perché, voglio ripeterlo ancora, con forza, “io non ho commesso alcun reato, io non sono colpevole di alcunché, io sono innocente, io sono assolutamente innocente”. Ho dedicato l’intera seconda parte della mia vita, quella che dovrebbe servire a raccogliere i frutti del proprio lavoro, al bene comune. E sono davvero convinto di aver fatto del bene all’Italia, da imprenditore, da uomo di sport, da uomo di Stato. Per il mio impegno ho pagato e sto pagando un prezzo altissimo, ma ho l’orgoglio di aver impedito la conquista definitiva del potere alla sinistra, a questa sinistra che non ha mai rinnegato la sua ideologia, che non è mai riuscita a diventare socialdemocratica, che è rimasta sempre la stessa: la sinistra dell’invidia, del risentimento e dell’odio. Devo confessare che sono orgoglioso, molto orgoglioso, di questo mio risultato. Proprio per questo, adesso, insistono nel togliermi di mezzo con un’aggressione scientifica, pianificata, violenta del loro braccio giudiziario, visto che non sono stati capaci di farlo con gli strumenti della democrazia. Per questo, adesso, sono qui per chiedere a voi, a ciascuno di voi, di aprire gli occhi, di reagire e di scendere in campo per combattere questa sinistra e per combattere l’uso della giustizia a fini di lotta politica, questo male che ha già cambiato e vuole ancora cambiare la storia della nostra Repubblica. Non vogliamo e non possiamo permettere che l’Italia resti rinchiusa nella gabbia di una giustizia malata, che lascia tutti i giorni i suoi segni sulla carne viva dei milioni di italiani che sono coinvolti in un processo civile o penale. È come per una brutta malattia: uno dice “a me non capiterà”, ma poi, se ti arriva addosso, entri in un girone infernale da cui è difficile uscire. Per questo dico a tutti voi, agli italiani onesti, per bene, di buon senso: reagite, protestate, fatevi sentire. Avete il dovere di fare qualcosa di forte e di grande per uscire dalla situazione in cui ci hanno precipitati. So bene, quanto sia forte e motivata la vostra sfiducia, la vostra nausea verso la politica, verso “questa” politica fatta di scandali, di liti in tv, di una inconcludenza e di un qualunquismo senza contenuti: una politica che sembra un mondo a parte, di profittatori e di mestieranti drammaticamente lontani dalla vita reale. Ma nonostante questo, ed anzi proprio per questo, occorre che noi tutti ci occupiamo della politica. È sporca? Ma se la lasci a chi la sta sporcando, sarà sempre più sporca… Non te ne vuoi occupare? Ma è la politica stessa che si occuperà comunque di te, della tua vita, della tua famiglia, del tuo lavoro, del tuo futuro. È arrivato quindi davvero il momento di svegliarci, di preoccuparci, di ribellarci, di indignarci, di reagire, di farci sentire. È arrivato il momento in cui tutti gli italiani responsabili, gli italiani che amano l’Italia e che amano la libertà, devono sentire il dovere di impegnarsi personalmente. Per questo credo che la cosa migliore da fare sia quella di riprendere in mano la bandiera di Forza Italia. Perché Forza Italia non è un partito, non è una parte, ma è un’idea, un progetto nazionale che unisce tutti. Perché Forza Italia è l’Italia delle donne e degli uomini che amano la libertà e che vogliono restare liberi. Perché Forza Italia è la vittoria dell’amore sull’invidia e sull’odio. Perché Forza Italia difende i valori della nostra tradizione cristiana, il valore della vita, della famiglia, della solidarietà, della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari. Perché Forza Italia sa bene che lo Stato deve essere al servizio dei cittadini e non invece i cittadini al servizio dello Stato. Perché Forza Italia è l’ultima chiamata prima della catastrofe. È l’ultima chiamata per gli italiani che sentono che il nostro benessere, la nostra democrazia, la nostra libertà sono in pericolo e rendono indispensabile un nuovo, più forte e più vasto impegno. Forza Italia sarà un vero grande movimento degli elettori, dei cittadini, di chi vorrà diventarne protagonista. Una forza che può e che deve conquistare la maggioranza dei consensi perché, vi ricordo, che solo con una vera e autonoma maggioranza in Parlamento si può davvero fare del bene all’Italia, per tornare ad essere una vera democrazia e per liberarci dall’oppressione giudiziaria, per liberarci dall’oppressione fiscale, per liberarci dall’oppressione burocratica. Per questo vi dico: scendete in campo anche voi. Per questo ti dico: scendi in campo anche tu, con Forza Italia. Diventa anche tu un missionario di libertà, diffondi i nostri valori e i nostri programmi, partecipa ai nostri convegni e alle nostre manifestazioni, impegnati nelle prossime campagne elettorali e magari anche nelle sezioni elettorali per evitare che ci vengano sottratti troppi voti, come purtroppo è sempre accaduto. Voglio ripeterlo ancora: in questo momento, nella drammatica situazione in cui siamo, ogni persona consapevole e responsabile che vuol continuare a vivere in Italia ha il dovere di occuparsi direttamente del nostro comune destino. Io sarò sempre con voi, al vostro fianco, decaduto o no. Si può far politica anche senza essere in Parlamento. Non è il seggio che fa un leader, ma è il consenso popolare, il vostro consenso. Quel consenso che non mi è mai mancato e che, ne sono sicuro, non mi mancherà neppure in futuro. Anche se, dovete esserne certi, continueranno a tentare di eliminare dalla scena politica, privandolo dei suoi diritti politici e addirittura della sua libertà personale, il leader dei moderati, quegli italiani liberi che, voglio sottolinearlo, sono da sempre la maggioranza del Paese e lo saranno ancora se sapranno finalmente restare uniti. Sono convinto che mi state dando ragione, sono convinto che condividete questo mio allarme, sono convinto che saprete rispondere a questo mio appello, che è prima di tutto una testimonianza di amore per la nostra Italia. E dunque: Forza Italia! Forza Italia! Forza Italia! Viva l’Italia, viva la libertà: la libertà è l’essenza dell’uomo e Dio creando l’uomo, l’ha voluto libero.»
Lettera aperta al dr Silvio Berlusconi.
«Sig. Presidente, sono Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso. Diverso, perché, nell’informare la gente dell’imperante ingiustizia, i magistrati se ne lamentano. E coloro che io critico, poi, sono quelli che mi giudicano e mi condannano. Ma io, così come altri colleghi perseguitati che fanno vera informazione, non vado in televisione a piangere la mia malasorte.
Pur essendo noi, per i forcaioli di destra e di sinistra, “delinquenti” come lei.
Sono un liberale, non come lei, ed, appunto, una cosa a Lei la voglio dire.
Quello che le è capitato, in fondo, se lo merita. 20 anni son passati. Aveva il potere economico. Aveva il potere mediatico. Aveva il potere politico. Aveva il potere istituzionale. E non è stato capace nemmeno di difendere se stesso dallo strapotere dei magistrati. Li ha lasciati fare ed ha tutelato gli interessi degli avvocati e di tutte le lobbies e le caste, fregandosene dei poveri cristi. Perché se quello di cui si lamenta, capita a lei, figuriamoci cosa capita alla povera gente. E i suoi giornalisti sempre lì a denunciare abusi ed ingiustizie a carico del loro padrone. Anzi, lei, oltretutto, imbarca nei suoi canali mediatici gente comunista genuflessa ai magistrati. Non una parola sul fatto che l’ingiustizia contro uno, siffatto potente, è l’elevazione a sistema di un cancro della democrazia. Quanti poveri cristi devono piangere la loro sorte di innocenti in carcere per convincere qualcuno ad intervenire? Se è vero, come è vero, che se funzionari di Stato appartenenti ad un Ordine si son elevati a Potere, è sacrosanto sostenere che un leader politico che incarna il Potere del popolo non sta lì a tergiversare con i suoi funzionari, ma toglie loro la linfa che alimenta lo strapotere di cui loro abusano. Ma tanto, chi se ne fotte della povera gente innocente rinchiusa in canili umani.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente in Italia. Cose che nessuno a lei vicino le dirà mai. Non troverà le cose ovvie. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
Ad oggi, per esempio, sappiamo che lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più gli avversari politici; i magistrati di destra insabbiano di più le accuse contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.
Bene, dr Berlusconi, Lei, avendone il potere per 20 anni, oltre che lamentarsi, cosa ha fatto per tutelare, non tanto se stesso, i cui risultati sono evidenti, ma i cittadini vittime dell’ingiustizia (contro il singolo) e della malagiustizia (contro la collettività)?
Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere.
Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……»
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. È uno Stato di diritto che funziona quello che è costretto a sborsare ogni anno decine di milioni per rimborsare cittadini che hanno dovuto trascorrere giorni, mesi, anni in carcere da innocenti? È uno Stato di diritto quello in cui dove dovrebbero stare 100 detenuti ce ne stanno 142? È uno Stato di diritto quello in cui ogni quattro procedimenti già fissati per il dibattimento tre vengono rinviati per motivi vari?
Domande che con Andrea Cuomo su “Il Giornale” giriamo al premier Enrico Letta del Partito Democratico (ex PCI), che - in funzione chiaramente anti-Cav - ha giurato: «In Italia lo Stato di diritto funziona». Postilla: «Non ci sono persecuzioni». Chissà che cosa pensano in particolare di questa ultima affermazione categorica le tantissime vittime di errori giudiziari a cui il quotidiano romano Il Tempo ha dedicato un'inchiesta di cinque giorni che ha contrassegnato l'insediamento alla direzione del nostro ex inviato Gian Marco Chiocci, che di giornalismo giudiziario ne mastica eccome.
Tanti i dati sciorinati e le storie raccontate dal quotidiano di piazza Colonna. Secondo cui per il Censis, nel dopoguerra, sono stati 5 milioni gli italiani coinvolti in inchieste giudiziarie e poi risultati innocenti. Di essi circa 25mila sono riusciti a ottenere il rimborso per ingiusta detenzione a partire dal 1989, per un esborso totale di 550 milioni di euro in tutto: del resto per ogni giorno passato in carcere lo Stato riconosce all'innocente 235,83 euro, e la metà (117,91) in caso di arresti domiciliari. Il tetto massimo di rimborso sarebbe di 516.456,90 euro. Ma Giuseppe Gulotta, che con il marchio di duplice assassino impresso sulla pelle da una confessione estorta a forza di botte (metodo usato per tutti) ha trascorso in cella 22 anni per essere scagionato nel 2012, pretende 69 milioni. Tanto, se si pensa al tetto di cui sopra. Nulla se questo è il prezzo di una vita squartata, merce che un prezzo non ce l'ha. Per il caso Sebai, poi, è calata una coltre di omertà. I condannanti per i delitti di 13 vecchiette, anche loro menati per rendere una confessione estorta, sono ancora dentro, meno uno che si è suicidato. Questi non risultano come vittime di errori giudiziari, nonostante il vero assassino, poi suicidatosi, ha confessato, con prove a sostegno, la sua responsabilità. Lo stesso fa Michele Misseri, non creduto, mentre moglie e figlia marciscono in carcere. Siamo a Taranto, il Foro dell’ingiustizia.
E siccome i cattivi giudici non guardano in faccia nessuno, spesso anche i vip sono caduti nella trappola dell'errore giudiziario. Il più famoso è Enzo Tortora. Ma ci sono anche Serena Grandi, Gigi Sabani, Lelio Luttazzi, Gioia Scola, Calogero Mannino e Antonio Gava nel Who's Who della carcerazione ingiusta. Carcerazione che è a suo modo ingiusta anche per chi colpevole lo è davvero quando è trascorsa nelle 206 carceri italiane. La cui capienza ufficiale sarebbe di 45.588 persone ma ne ospitano 66.632. Lo dice il rapporto «Senza Dignità 2012» dell'associazione Antigone, vero museo degli orrori delle prigioni d'Italia. Il Paese secondo il cui premier «lo Stato di diritto è garantito». Pensate se non lo fosse.
Non solo ci è impedito dire “Italia di Merda” in base alla famosa sentenza della Corte di Cassazione. In questo Stato, addirittura, è vietato dire “Fisco di Merda”. Per gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana, con le motivazioni della sentenza del tribunale di Milano che il 19 luglio 2013 li ha condannati a un anno e otto mesi di reclusione per il reato di omessa dichiarazione dei redditi, è arrivata, dopo il danno, anche la beffa. La sentenza li obbliga a risarcire con 500mila euro il «danno morale» arrecato al Fisco italiano. Di cosa sono colpevoli? Da molti anni i «simboli» della moda italiana denunciano l’eccessiva pressione fiscale. All’indomani della sentenza avevano chiuso per protesta i negozi di Milano. E una critica, pare, può costare cara. La sentenza sembra quasi contenere una excusatio non petita: il danno, scrivono i magistrati, è dovuto «non tanto, ovviamente, per l’esposizione a legittime critiche in merito agli accertamenti, quanto per il pregiudizio che condotte particolarmente maliziose cagionano alla funzionalità del sistema di accertamento ed alla tempestiva percezione del tributo».
Ora venite a ripeterci che le sentenze non si discutono, scrive Filippo Facci. Gli stilisti Dolce & Gabbana sono già stati condannati a un anno e otto mesi per evasione fiscale, e pace, lo sapevamo. Ma, per il resto, chiudere i propri negozi per protesta è un reato oppure non lo è. E non lo è. Il semplice denunciare l’eccesso di pressione fiscale è un reato oppure non lo è. E non lo è. Comprare una pagina di giornale per lamentarsi contro Equitalia è un reato oppure non lo è. E non lo è. Rilasciare interviste contro il fisco rapace è un reato oppure non lo è. E non lo è. E se non lo è - se queste condotte non sono reati - la magistratura non può prendere questi non-reati e stabilire che nell’insieme abbiano inferto un «danno morale» al fisco italiano, come si legge nelle motivazioni della sentenza appena rese note. I giudici non possono stabilire che degli atti leciti «cagionano pregiudizio alla funzionalità del sistema di accertamento e alla tempestiva percezione del tributo». Ergo, i giudici non possono affibbiare a Dolce & Gabbana altri 500mila euro di risarcimento per «danno morale», come hanno fatto: perché significa che il diritto di critica è andato definitivamente a ramengo e che la sola cosa da fare è pagare e stare zitti, perché sennò la gente, sai, poi pensa male di Equitalia. Ecco perché occorre proteggerla da quella moltitudine di crudeli cittadini pronti a infliggerle terrificanti danni morali con le loro lagnanze. Siamo alla follia.
Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?
Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.
Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
CHI E’ IL POLITICO?
Ora lo dice anche la scienza: la politica manda fuori di testa. Incapace di accettare idee diverse e pronto a manipolare i dati a proprio comodo. Il cervello della casta secondo Yale, scrive “Libero Quotidiano”. Oramai c'è anche il sigillo della scienza: la politica rende intellettualmente disonesti. Lo dimostra uno studio condotto da Dan Kahan della Yale University: la passione politica compromette il funzionamento della mente e induce a distorcere logica e capacità di calcolo. Perché? Perché il cervello del politico, come risulta dallo studio, prova a ogni costo a modificare i dati reali per farli aderire alla propria visione del mondo.
L'esperimento, la prima parte - Tra i vari esperimenti che hanno composto lo studio (pubblicato col titolo “Motivated numeracy and Enlightened self-government”), ce n'è uno che illustra meglio di tutti il meccanismo di deformazione intellettuale dei politici. E' stato chiesto alle "cavie" di interpretare delle tavole numeriche relativa alla capacità di provocare prurito di alcune creme dermatologiche. Non avendo l'argomento implicazioni sociali, i politici sono stati in grado di eseguire correttamente i calcoli aritmetici.
L'esperimento, la seconda parte - In seconda battuta, allo stesso campione umano è stato chiesto di leggere tavole che per tema, però, avevano il rapporto tra licenze dei porti d'armi e variazione del tasso di criminalità. E i nodi sono venuti al pettine. Avendo l'argomento ovvia rilevanza politica, le cavie sono andate in tilt. Quando si trovavano a dover rispondere a quesiti aritmetici in contraddizione con le proprie convinzioni, sbagliavano in maniera inconscia anche calcoli semplici per non dover arrivare a una soluzione sgradita. Insomma: meglio andare fuori strada che imboccare una strada spiacevole.
Le conclusioni - Il prof della Yale non ha dubbi: la passione politica è una fatto congenito che però condiziona il cervello. Una volta che il politico fa sua una certa visione del mondo, non c'è dato o riscontro oggettivo che possa fargli cambiare idea.
CHI E’ L’AVVOCATO?
Chi è l’avvocato: fenomenologia di una categoria, spiega un anonimo sul portale “La Legge per tutti”.
O li si ama o li si odia: non esistono vie di mezzo per gli avvocati, una delle categorie professionali più contraddittorie e discusse dai tempi degli antichi greci.
“E il Signore disse: Facciamo Satana, così la gente non mi incolperà di tutto. E facciamo gli avvocati, così la gente non incolperà di tutto Satana”.
La battuta del comico statunitense, George Burns, è il modo migliore per aprire l’argomento su una delle professioni da sempre più discusse. Perché, diciamoci la verità, appena si parla di “avvocati” la prima idea che corre è quella di una “categoria“: non tanto nel senso di lobby, quanto di un mondo sociale a parte, con i suoi strani modi di essere e di pensare. Insomma, proprio come quando si pensa ad una razza animale.
Difensori dei diritti o azzeccagarbugli abili solo a far assolvere i colpevoli? Professionisti della logica o dotati retori? La linea di confine è così labile che l’immaginario collettivo li ha sempre collocati a cavallo tra la menzogna e il rigore.
Di tutto questo, però, una cosa è certa: gli avvocati formano un mondo a sé.
La parola “avvocato” deriva dal latino “vocatus“‘ ossia “chiamato”. Non nel senso, come verrebbe spontaneo pensare, che all’indirizzo di questa figura vengono rivolti irripetibili epiteti offensivi, ma nel significato che a lui ci si rivolge quando si ha bisogno di aiuto.
L’odio da sempre legato al legale va a braccetto con la parola “parcella“: un peso che ha trascinato questa categoria nel più profondo girone dantesco. Perché – la gente si chiede – bisogna pagare (anche profumatamente) per far valere i propri diritti? In realtà, la risposta è la stessa per cui bisogna remunerare un medico per godere di buona salute o aprire un mutuo per avere un tetto sotto cui dormire. Tuttavia, i fondamenti della difesa legale risalgono a quando, già dagli antichi greci, i soliti individui omaggiati di improvvisa ricchezza erano anche quelli inabissati di profonda ignoranza: costoro trovarono più conveniente affidare ai più istruiti la difesa dei propri interessi. E ciò fu anche la consegna delle chiavi di un’intera scienza. Perché, da allora, il popolo non si è più riappropriato di ciò che era nato per lui: la legge.
I primi avvocati erano anche filosofi, e questo perché non esistevano corpi legislativi definiti e certi. Erano, insomma, la classe che non zappava, ma guardava le stelle. Un’anima teorica che, a quanto sembra, è rimasta sino ad oggi.
Ciò che, però, si ignora è che, ai tempi dei romani, il compenso dell’avvocato era la fama, acquisita la quale si poteva pensare d’intraprendere la carriera politica. In quel periodo sussisteva il divieto di ricevere denaro in cambio delle proprie prestazioni professionali e la violazione di tale precetto era sanzionata con una pena pecuniaria. Il divieto, sin da allora e secondo buona prassi italica, veniva sistematicamente raggirato poiché era consentito – proprio come avviene oggi nei migliori ambienti della pubblica amministrazione – accettare doni e regalie da parte dei clienti riconoscenti. Da qui venne il detto: “ianua advocati pulsanda pede” (“alla porta dell’avvocato si bussa col piede”, visto che le mani sono occupate a reggere i doni).
“La giurisprudenza estende la mente e allarga le vedute”: una considerazione che, seppur vera, si scontra con la prassi. Il carattere di un avvocato, infatti, è permaloso e presuntuoso. Provate a fargli cambiare idea: se ci riuscirete sarà solo perché lui vi ha fatto credere così. In realtà, ogni avvocato resta sempre della propria idea. Giusta o sbagliata che sia. Ed anche dopo la sentenza che gli dà torto. A sbagliare è sempre il giudice o la legge.
L’avvocato è una persona abituata a fare domande e, nello stesso tempo, ad essere evasivo a quelle che gli vengono rivolte. È solito prendere decisioni e a prenderle in fretta (calcolate la differenza di tempi con un ingegnere e vedrete!). È dotato di problem solving e il suo obiettivo è trovare l’escamotage per uscire fuori dal problema, in qualsiasi modo possibile.
Inoltre, l’avvocato, nell’esercizio della propria professione, è un irriducibile individualista: se ne sta nel suo studio, a coltivare le sue pratiche, e l’idea dell’associativismo gli fa venire l’orticaria.
Egli considera ogni minuto sottratto al proprio lavoro una perdita di tempo. Il tempo appunto: ogni legale nasce con l’orologio al polso, e questo perché la vita professionale è costellata di scadenze. Tra termini iniziali, finali, dilatori, ordinatori, perentori, ogni avvocato considera la propria agenda più della propria compagna di letto.
Così come la caratteristica di ogni buon medico è quella di scrivere le ricette con una grafia incomprensibile, dote di ogni avvocato è parlare con un linguaggio mai chiaro per il cittadino. Tra latinismi, istituti, tecnicismi, concettualismi, astrazioni, teorie e interpretazioni, commi, articoli, leggi, leggine e sentenze, il vocabolario del legale è precluso ad ogni persona che non sia, appunto, un altro legale. E questo – a quanto sembra – gratifica infinitamente ogni avvocato che si rispetti.
Su tutto, però, l’avvocato è un relativista nell’accezione più pirandelliana del termine. La realtà non esiste (e chi se ne frega!): esiste solo ciò che appare dalle carte. Tutto il resto è mutevole, contraddittorio, variabile, volubile, capriccioso, instabile. Tanto vale non pensarci e accontentarsi di ciò che racconta il cliente.
Si dice che il problema dell’avvocatura sia il numero. Su 9.000 giudici, in Italia ci sono circa 220.000 avvocati. In realtà, il problema sarebbe di gran lunga più grave se di avvocati ve ne fossero pochi, circostanza che aprirebbe le porte alla scarsità e, quindi, a tariffe ancora più alte e a una certa difficoltà a poter difendere tutti.
La ragione di tale eccesso di offerta risiede nel fatto che la facilità con cui si accede, oggi, all’avvocatura ha fatto si che tale professione venisse considerata una sorta di area di transito in cui potersi parcheggiare in attesa di un lavoro più soddisfacente (e, di questi tempi, remunerativo). Poi, però, le cose non vanno mai come programmato e ciò che doveva essere un impegno momentaneo diventa quello di una vita (salvo tentare il classico concorso pubblico e inseguire la chimera del posto fisso a reddito certo).
Ci piace terminare con le parole di Giulio Imbarcati, pseudonimo di un collega che ha saputo prendere in giro la categoria, disegnandola anche finemente in un suo libro di successo.
“Il problema è che oggi nel campo dell’avvocatura (più che in altre professioni) non è il mercato a operare la selezione.
Se così fosse tutti saremmo più tranquilli e fiduciosi, perché questo vorrebbe dire qualità del servizio. E, come dovrebbe essere in qualsiasi sistema sociale che voglia definirsi giusto, dopo l’uguale allineamento ai nastri di partenza, i più dotati procedono veloci, i mediocri arrancano, gli inadatti si fermano.
Ma, nel mondo all’incontrario che abbiamo costruito con lungimirante impegno, le cose funzionano diversamente.
Capita che siano proprio i più dotati a soccombere e non solo davanti ai mediocri, ma anche rispetti agli inadatti.
Perché? Ma perché proprio i mediocri e gli inadatti sono quelli più disposti al compromesso e all’ipocrisia.
Proprio loro, cioè, per raggiungere gli obiettivi, e consapevoli della modesta dote professionale, hanno meno difficoltà a discostarsi da quelle coordinate di riferimento che i dotati continuano a considerare sacre e inviolabili.
L’effetto, nel settore dell’avvocatura, è dirompente e a pagarne gli effetti non sarà solo il fruitore immediato (ossia il cittadino), ma l’intero sistema giustizia.“
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
CHI E’ IL MAGISTRATO?
"Giustizia usata per scopi politici". Se lo dice anche la Boccassini... Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".
«Ognuno deve fare la sua parte, anche i politici, anche i giornalisti, ma in questi vent'anni lo sbaglio di noi magistrati è di non aver mai fatto un'autocritica o una riflessione. Perché si è verificato ed è inaccettabile che alcune indagini sono servite ad altro (per gli stessi magistrati, per carriere, per entrare in politica)». Alcuni suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro indagini grazie al "consenso sociale", cosa sbagliatissima, una "patologia", sia per lei, sia per Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, seduto al suo fianco. Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".
«Io - racconta Boccassini, che dopo trent'anni ha cambiato colore e taglio di capelli, è diventata bionda - durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi vivevano in hotel "bunkerizzati", con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E quando arrivavo a Milano, per salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a loro favore, "Forza mani pulite""». E non le piaceva, anzi "ho provato una cosa terribile" quando la folla scandiva i nomi dei magistrati, perché a muoverli "non dev'essere l'approvazione". «Non è il consenso popolare che ci deve dare la forza di andare avanti, ma il fatto di far bene il nostro mestiere. Ho sempre vissuto molto male gli atteggiamenti osannanti delle folle oceaniche degli anni di Mani pulite e delle stragi di mafia"». Intervenuta alla presentazione del libro di Lionello Mancini, "L'onere della toga", il 14 settembre 2013 il pm milanese Ilda Boccassini ha sottolineato gli atteggiamenti e le dinamiche che si sono sviluppate nella magistratura negli ultimi vent'anni. «Un'anomalia dalla quale dovremo uscire per forza di cose. Quello che rimprovero alla mia categoria è di non aver mai fatto una seria autocritica in tutti questi anni», ha concluso.
Come ha sottolineato Giuseppe Pignatone, una riflessione dovrebbe nascere in seguito al processo Borsellino: ci sono stati dei condannati sino alla cassazione, ma poi le confessioni di un collaboratore di giustizia hanno raccontato che la verità era un'altra: "Chi ha sbagliato in buona fede deve dirlo", perché i magistrati dell'accusa devono muoversi sempre sulle prove certe, invece, a volte, ripete Pignatone, "quando le prove non ci sono, alcune notizie vengono fatte uscire sui giornali, per una carica moralistica che non deve appartenere alla magistratura". Anzi, è il contrario. La parola che Pignatone usa di più è "equilibrio", sia per fermarsi, per evitare che persone finiscano nei guai senza prove, sia "per partire e andare sino in fondo quando le prove ci sono". Tutti e due hanno collaborato a lungo nelle inchieste che hanno decimato alcune tra le cosche più potenti della 'ndrangheta.
Sono entrambi - e lo dicono - in prima pagina dieci volte di più dei colleghi citati nel libro di Mancini, ma conoscono la "nausea" comune a chiunque debba fare un mestiere difficile, che ha a che fare con la vita, la morte, il dolore. E per questo, "se un giornalista ha una notizia che mette in pericolo la vita di una persona, non la deve dare", dice Boccassini, Pignatone concorda, De Bortoli e Mancini alzano gli occhi al cielo.
L’idolatria è il male endemico di una società debole. Ha come effetti il ridimensionamento della condizione civile del singolo, il suo declassamento da cittadino a cliente oppure a percettore di una identità e/o idealità passive, chiuse nel recinto di una tifoseria. Io sono con te, sempre e comunque. Non amo altro Dio all’infuori di te. Fa dunque bene Ilda Boccassini a denunciare la trasformazione sociale dell’identità del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, che nella storia recente della Repubblica è spesso assurto a stella del firmamento sociale, si è fatto, malgrado ogni sua buona e condivisibile intenzione, parte di una battaglia; ha goduto di un riconoscimento che magari esuberava dalle sue funzioni, dalla qualità di rappresentante della legge (“uguale per tutti”) che gli avrebbe dovuto far osservare l’obbligo di assoluta e rigorosa discrezione.
LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.
Ecco la prova: i giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli. «Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia». Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper - anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme. Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013». Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro (Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po' bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto, l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi, che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale, di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra: quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta. Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo: fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.
Questo libro va usato come uno strumento per capire chi sono i Rossi, la classe politica di centrosinistra chiamata a rinnovare il paese. Scritto come un viaggio in Italia, da nord a sud, regione per regione, città per città. I protagonisti, gli affari, gli scandali, le inchieste. Uomini chiave come l’ex capo della segreteria politica Pd Filippo Penati, accusato di aver imposto tangenti, o il tesoriere della fu Margherita Luigi Lusi, che ha fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Roccaforti rosse come l’Emilia investite da casi di malaffare e penetrazioni mafiose mai visti. Nel Comune di Serramazzoni (Modena) indagini su abusi edilizi e gare pubbliche. I 3 milioni di cittadini accorsi alle primarie per la scelta del leader sono un’iniezione di fiducia. Ma nella contesa manca un programma chiaro di riforme in termini di diritti, lavoro, crescita. La difesa del finanziamento pubblico ai partiti spetta al tesoriere dei Ds Ugo Sposetti da Viterbo. Sposetti blinda in una serie di fondazioni il “patrimonio comunista” prima della fusione con la Margherita. Il Pd continua a occuparsi di banche dopo la scalata illegale di Unipol a Bnl (caso Monte dei Paschi). Il sistema sanitario nelle regioni rosse è piegato agli interessi corporativi. Tutta una classe politica che per anni ha vissuto di inciuci con Berlusconi, ora si dichiara ripulita e finalmente pronta a governare. Ma i nomi sono gli stessi di sempre. Ma anche il sistema Ds prima e Pd poi in tutte le regioni d’Italia dove il governo si è protratto per anni e che tra sanità, cemento e appalti e municipalizzata , i conflitti di interesse dal Lazio alla Puglia all’Emilia si moltiplicano.
Così gli ex Pci condizionano le procure. Inchieste insabbiate, politici protetti, giudici trasferiti: le anomalie da Nord a Sud nel libro "Tramonto rosso", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il Pd e i suoi scandali, dal nord al sud d'Italia, dentro e fuori le Procure. Abusi, tangenti, speculazioni edilizie, scalate bancarie, interessi corporativi nel sistema sanitario, magistrati scomodi isolati, intimiditi, trasferiti. Potenti di turno miracolosamente soltanto sfiorati da certe indagini. È un libro che farà discutere quello scritto da Ferruccio Pinotti, giornalista d'inchiesta autore di numerosi libri di indagine su temi scomodi, e Stefano Santachiara, blogger del Fatto. Atteso e temuto Tramonto rosso, edito da Chiarelettere, sarà in libreria a fine ottobre 2013, nonostante le voci di un blocco, smentito dagli autori, e dopo un piccolo slittamento (inizialmente l'uscita era prevista a giugno 2013) dovuto, pare, ad un capitolo particolarmente spinoso su una forte influenza «rossa» che agirebbe all'interno di uno dei tribunali più importanti d'Italia, quello di Milano, dove indagini che imboccano direzioni non previste non sarebbero le benvenute mentre altre troverebbero la strada spianata. Il libro presenta un ritratto della classe politica di centrosinistra, quella che si dichiara pulita e pronta a prendere in mano le redini del Paese, ma che è sempre la stessa. Stessi nomi, stesse beghe, stessi affanni. Un partito, il Pd, per niente diverso dagli altri nonostante si proclami tale. Gli uomini chiave della sinistra troveranno molte pagine dedicate a loro. Ce n'è per tutti. Per il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, che ha blindato in una serie di fondazioni il «patrimonio comunista» prima della fusione con la Margherita, per l'ex componente della segreteria di Bersani, Filippo Penati, accusato di corruzione e di finanziamento illecito, per l'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, che avrebbe fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Gli autori passano dagli abusi edilizi e dalle infiltrazioni mafiose nell'Emilia rossa al pericoloso rapporto della sinistra con gli istituiti bancari, da Unipol a Monte dei Paschi. Molto è stato scritto sulla scalata Unipol-Bnl, sulla partecipazione ai vertici Ds e sul sequestro di 94 milioni di euro di azioni di Antonveneta disposto nel 2005 dal gip Clementina Forleo. Poco si sa, invece, su cosa è accaduto dopo al giudice che si è trovato tra le mani un fascicolo con i nomi di pezzi molto grossi del Pd. «Tramonto rosso» riordina alcuni fatti e segnala circostanze, talvolta inquietanti, che certamente fanno riflettere. Come le gravi intimidazioni subite dalla Forleo, le minacce, gli attacchi politici, le azioni disciplinari, l'isolamento. Fino al trasferimento per incompatibilità ambientale, nel 2008, poi clamorosamente bocciato da Tar e Consiglio di Stato. Il tutto nel silenzio dei colleghi per i quali i guai del gip erano legati al suo brutto carattere e non certo ai suoi provvedimenti sulle scalate bancarie. «Questa pervicacia contra personam è l'emblema dell'intromissione politica nella magistratura», si legge nel testo. Gli autori approfondiscono poi il noto salvataggio operato dalla Procura di Milano nei confronti di Massimo D'Alema e Nicola Latorre, descritti dalla Forleo nell'ordinanza del luglio 2007, finalizzata a chiedere il placet parlamentare all'uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, come concorrenti del reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte. Con la Forleo, sempre più nel mirino, oggetto di riunioni pomeridiane in cui alcuni colleghi milanesi avrebbero discusso la strategia contro di lei, come rivelato dal gip Guido Salvini. Per trovare un altro esempio di come riescono ad essere minimizzate le inchieste che coinvolgono il Pd basta scendere a Bari. Qui a fare le spese di un'indagine scomoda su alcuni illeciti nel sistema sanitario regionale è stato il pm Desirèe Digeronimo, duramente osteggiata dai colleghi fino al trasferimento.
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore». Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo» .
Per i magistrati è più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della sua famiglia.
Chi paga il pizzo per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una storia esemplare. Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo Stato”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di "collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro.
“La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”
Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.
«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»
Continua Antonio Giangrande.
«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"
“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
“Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”. Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.
Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie.
Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.
Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.
La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.
Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.
Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.
Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.
Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip».
Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».
Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.
Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.
Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.
I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.
Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.
a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;
b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;
c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;
d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;
e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.
Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.
Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?
PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.
La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).
Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.
LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.
LA FAMIGLIA ESPOSITO
Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto, su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.
Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.
Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!
Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.
LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.
La famiglia e le origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità. Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60. A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.
LA FAMIGLIA BORRELLI.
Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.
ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA BOCCASSINI.
Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
E quindi in tema di giustizia ed informazione. Lettera aperta a “Quarto Grado”.
Egregio Direttore di “Quarto Grado”, dr Gianluigi Nuzzi, ed illustre Comitato di Redazione e stimati autori.
Sono il Dr Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica. In tema di Giustizia per conoscere gli effetti della sua disfunzione ho scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it: “Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”; “Malagiustiziopoli”. Malagiustizia contro la Comunità”. Per conoscere bene coloro che la disfunzione la provocano ho scritto “Impunitopoli. Magistrati ed Avvocati, quello che non si osa dire”. Per giunta per conoscere come questi rivestono la loro funzione ho scritto “Concorsopoli. Magistrati ed avvocati col trucco”. Naturalmente per ogni città ho rendicontato le conseguenze di tutti gli errori giudiziari. Errore giudiziario non è quello conclamato, ritenuto che si considera scleroticamente solo quello provocato da dolo o colpa grave. E questo con l’addebito di infrazione da parte dell’Europa. Né può essere considerato errore quello scaturito solo da ingiusta detenzione. E’ errore giudiziario ogni qualvolta vi è una novazione di giudizio in sede di reclamo, a prescindere se vi è stata detenzione o meno, o conclamato l’errore da parte dei colleghi magistrati. Quindi vi è errore quasi sempre.
Inoltre, cari emeriti signori, sono di Avetrana. In tal senso ho scritto un libro: “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire” giusto per far sapere come si lavora presso gli uffici giudiziari locali. Taranto definito il Foro dell’Ingiustizia. Cosa più importante, però, è che ho scritto: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Tutti hanno scribacchiato qualcosa su Sarah, magari in palese conflitto d’interesse, o come megafono dei magistrati tarantini, ma solo io conosco i protagonisti, il territorio e tutto quello che è successo sin dal primo giorno. Molto prima di coloro che come orde di barbari sono scesi in paese pensando di trovare in loco gente con l’anello al naso e così li hanno da sempre dipinti. Certo che magistrati e giornalisti cercano di tacitarmi in tutti i modi, specialmente a Taranto, dove certa stampa e certa tv è lo zerbino della magistratura. Come in tutta Italia, d’altronde. E per questo non sono conosciuto alla grande massa, ma sul web sono io a spopolare.
Detto questo, dal mio punto di vista di luminare dell’argomento Giustizia, generale e particolare, degli appunti ve li voglio sollevare sia dal punto giuridico (della legge) sia da punto della Prassi. Questo vale per voi, ma vale anche per tutti quei programmi salottieri che di giustizia ne sparlano e non ne parlano, influenzando i telespettatori o da questi sono condizionati per colpa degli ascolti. La domanda quindi è: manettari e forcaioli si è o si diventa guardando certi programmi approssimativi? Perché nessuno sdegno noto nella gente quando si parla di gente rinchiusa per anni in canili umani da innocente. E se capitasse agli ignavi?
Certo, direttore Nuzzi, lei si vanta degli ascolti alti. Non è la quantità che fa un buon programma, ma la qualità degli utenti. Fare un programma di buon livello professionale, si pagherà sullo share, ma si guadagna in spessore culturale e di levatura giuridica. Al contrario è come se si parlasse di calcio con i tifosi al bar: tutti allenatori.
Il suo programma, come tutti del resto, lo trovo: sbilanciatissimo sull’accusa, approssimativo, superficiale, giustizialista ed ora anche confessionale. Idolatria di Geova da parte di Concetta e pubblicità gratuita per i suoi avvocati. Visibilità garantita anche come avvocati di Parolisi. Nulla di nuovo, insomma, rispetto alla conduzione di Salvo Sottile.
Nella puntata del 27 settembre 2013, in studio non è stato detto nulla di nuovo, né di utile, se non quello di rimarcare la colpevolezza delle donne di Michele Misseri. La confessione di Michele: sottigliezze. Fino al punto che Carmelo Abbate si è spinto a dire: «chi delle due donne mente?». Dando per scontato la loro colpevolezza. Dal punto di vista scandalistico e gossipparo, va bene, ma solo dalla bocca di un autentico esperto è uscita una cosa sensata, senza essere per forza un garantista.
Alessandro Meluzzi: «non si conosce ora, luogo, dinamica, arma, movente ed autori dell’omicidio!!!».
Ergo: da dove nasce la certezza di colpevolezza, anche se avallata da una sentenza, il cui giudizio era già stato prematuramente espresso dai giudici nel corso del dibattimento, sicuri di una mancata applicazione della loro ricusazione e della rimessione del processo?
E quello del dubbio scriminante, ma sottaciuto, vale per tutti i casi trattati in tv, appiattiti invece sull’idolatria dei magistrati. Anzi di più, anche di Geova.
Una cosa è certa, però. Non sarà la coerenza di questi nostri politicanti a cambiare le sorti delle nostre famiglie.
2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
«Perché ho scelto di porre un termine al governo Letta». Silvio Berlusconi, lettera a Tempi del 1 ottobre 2013. «Gentile direttore, non mi sfuggono, e non mi sono mai sfuggiti, i problemi che affrontano l’Italia che amo ed i miei concittadini. La situazione internazionale continua a essere incerta. I dati economici nazionali non sono indirizzati alla ripresa. E, nonostante le puntuali resistenze del centrodestra, un esorbitante carico fiscale continua a deprimere la nostra industria, i commerci, i bilanci delle famiglie». Inizia così la lunga lettera che Silvio Berlusconi ha scritto a Tempi. Berlusconi si chiede quanti danni abbia provocato all’Italia «un ventennio di assalto alla politica, alla società, all’economia, da parte dei cosiddetti “magistrati democratici” e dei loro alleati nel mondo dell’editoria, dei salotti, delle lobby? Quanto male ha fatto agli italiani, tra i quali mi onoro di essere uno dei tanti, una giustizia al servizio di certi obiettivi politici?». Berlusconi cita il caso dell’Ilva di Taranto, la cui chiusura è avvenuta «grazie anche a quella che, grottescamente, hanno ancora oggi il coraggio di chiamare “supplenza dei giudici alla politica”», e torna a chiedere: «Di quanti casi Ilva è lastricata la strada che ci ha condotto nell’inferno di una Costituzione manomessa e sostituita con le carte di un potere giudiziario che ha preso il posto di parlamento e governo? (…) Hanno “rovesciato come un calzino l’Italia”, come da programma esplicitamente rivendicato da uno dei pm del pool di Mani Pulite dei primi anni Novanta, ed ecco il bel risultato: né pulizia né giustizia. Ma il deserto». «Non è il caso Berlusconi che conta – prosegue -. Conta tutto ciò che, attraverso il caso Silvio Berlusconi, è rivelatore dell’intera vicenda italiana dal 1993 ad oggi. Il caso cioè di una persecuzione giudiziaria violenta e sistematica di chiunque non si piegasse agli interessi e al potere di quella parte che noi genericamente enunciamo come “sinistra”. Ma che in realtà è rappresentata da quei poteri e forze radicate nello Stato, nelle amministrazioni pubbliche, nei giornali, che sono responsabili della rapina sistemica e del debito pubblico imposti agli italiani. Berlusconi non è uno di quegli imprenditori fasulli che ha chiuso fabbriche o ha fatto a spezzatini di aziende per darsi alla speculazione finanziaria. Berlusconi non è uno di quelli che hanno spolpato Telecom o hanno fatto impresa con gli aiuti di Stato. (…) Berlusconi è uno dei tanti grandi e piccoli imprenditori che al loro paese hanno dato lavoro e ricchezza. Per questo, l’esempio e l’eccellenza di questa Italia che lavora dovevano essere invidiati, perseguitati e annientati (questo era l’obbiettivo di sentenze come quella che ci ha estorto 500 milioni di euro e, pensavano loro, ci avrebbe ridotto sul lastrico) dalle forze della conservazione». Il leader del centrodestra ripercorre poi le vicende politiche degli ultimi anni, ricordando il suo sostegno al governo Monti e, oggi, al governo Letta. Scrive Berlusconi: «Abbiamo contribuito, contro gli interessi elettorali del centrodestra, a sostenere governi guidati da personalità estranee – talvolta ostili – al nostro schieramento. Abbiamo dato così il nostro contributo perché la nazione tornasse a respirare, si riuscisse a riformare lo Stato, a costruire le basi per una nostra più salda sovranità, a rilanciare l’economia. Con il governo Monti le condizioni stringenti della politica ci hanno fatto accettare provvedimenti fiscali e sul lavoro sbagliati. Con il governo Letta abbiamo ottenuto più chiarezza sulle politiche fiscali, conquistando provvedimenti di allentamento delle tasse e l’impostazione di una riforma dello Stato nel senso della modernizzazione e della libertà». «Alla fine, però, i settori politicizzati della magistratura sono pervenuti a un’incredibile, ingiusta perché infondata, condanna di ultima istanza nei miei confronti. Ed altre manovre persecutrici procedono in ogni parte d’Italia». «Enrico Letta e Giorgio Napolitano – scrive l’ex presidente del Consiglio - avrebbero dovuto rendersi conto che, non ponendo la questione della tutela dei diritti politici del leader del centrodestra nazionale, distruggevano un elemento essenziale della loro credibilità e minavano le basi della democrazia parlamentare. Come può essere affidabile chi non riesce a garantire l’agibilità politica neanche al proprio fondamentale partner di governo e lascia che si proceda al suo assassinio politico per via giudiziaria?». «Il Pd (compreso Matteo Renzi) ha tenuto un atteggiamento irresponsabile soffiando sul fuoco senza dare alcuna prospettiva politica. Resistere per me è stato un imperativo morale che nasce dalla consapevolezza che senza il mio argine – che come è evidente mi ha portato ben più sofferenze che ricompense – si imporrebbe un regime di oppressione insieme giustizialista e fiscale. Per tutto questo, pur comprendendo tutti i rischi che mi assumo, ho scelto di porre un termine al governo Letta». Infine la conclusione: «Ho scelto la via del ritorno al giudizio del popolo non per i “miei guai giudiziari” ma perché si è nettamente evidenziata la realtà di un governo radicalmente ostile al suo stesso compagno di cosiddette “larghe intese”. Un governo che non vuole una forza organizzata di centrodestra in grado di riequilibrarne la sua linea ondivaga e subalterna ai soliti poteri interni e internazionali». Berlusconi dice di voler recuperare «quanto di positivo è stato fatto ed elaborato (per esempio in tema di riforme istituzionali) da questo governo che, ripeto, io per primo ho voluto per il bene dell’Italia e che io per primo non avrei abbandonato se soltanto ci fosse stato modo di proseguire su una linea di fattiva, di giusta, di leale collaborazione». Ma spiega anche di non averlo più voluto sostenere «quando Letta ha usato l’aumento dell’Iva come arma di ricatto nei confronti del mio schieramento ho capito che non c’era più margine di trattativa». «Non solo – aggiunge -. Quando capisci che l’Italia è un Paese dove la libera iniziativa e la libera impresa del cittadino diventano oggetto di aggressione da ogni parte, dal fisco ai magistrati; quando addirittura grandi imprenditori vengono ideologicamente e pubblicamente linciati per l’espressione di un libero pensiero, quando persone che dovrebbero incarnare con neutralità e prudenza il ruolo di rappresentanti delle istituzioni pretendono di insegnarci come si debba essere uomini e come si debba essere donne, come si debbano educare i figli e quale tipo di famiglia devono avere gli italiani, insomma, quando lo Stato si fa padrone illiberale e arrogante mentre il governo tace e non ha né la forza né la volontà di difendere la libertà e le tasche dei suoi cittadini, allora è bene che la parola ritorni al nostro unico padrone: il popolo italiano».
Sceneggiata in fondo a destra, scrive Stefania Carini su “Europa Quotidiano”. Nessuna sceneggiatura al mondo può batterci, perché noi teniamo la sceneggiata. Non ci scalfisce manco Sorkin con West Wing e The Newsroom (uno degli attori di quest’ultima serie era pure presente al Roma Fiction Fest per annunciarne la messa in onda su Raitre). Tze, nessun giornalista o politico sul piccolo schermo può batterci in queste ore. Bastava vedere oggi le prime pagine di due giornali dall’opposto populismo: per Il Giornale è tradimento, per Il Fatto è inciucio. Ah, la crisi secondo il proprio target di spettatori! E ‘O Malamente che dice? Ma come in tutti i melodrammi, i gesti sono più importanti. Vedere per capire. In senato prima arriva Alfano e si siede accanto a Letta, vorrà dire qualcosa? Poi arriva Berlusconi, e allora colpa di scena! Marcia indietro? Sardoni (sempre la più brava) racconta di un Bondi che si scrolla dalla pacca sulla spalla di Lupi. Non toccarmi, impuro! Biancofiore e Giovanardi litigano a Agorà, ma ieri sera già aleggiava una forza di schizofrenia sui nostri schermi. Sallusti e Cicchitto erano seduti a Ballarò dalla stessa parte, secondo solita partitura visiva del talk. Solo che invece di scannarsi con i dirimpettai, con quelli della sinistra, si scannavano fra di loro. Una grande sequenza comico-drammatica, riproposta pure da Mentana durante la sua consueta lunga maratona in mattinata.
A Matrix pure Feltri faceva il grande pezzo d’attore, andandosene perché: «Non ne posso più di Berlusconi, di Letta e di queste discussioni interminabili, come non ne possono più gli italiani». Oh, sì, gli italiani non ne possono più, ma davanti a un tale spettacolo come resistere? Siamo lì, al Colosseo pieno di leoni, e noi con i popcorn. Alla fine ‘O Malamente vota il contrario di quanto detto in mattinata, e il gesto plateale si scioglie in un risata farsesca per non piangere. Tze, Sorkin, beccati questo. Noi teniamo Losito. Solo che nella realtà non abbiamo nessuno bello come Garko.
COSA HA RIPORTATO LA STAMPA.
IL CORRIERE DELLA SERA - In apertura: “Resa di Berlusconi, ora il governo è più forte”.
LA REPUBBLICA - In apertura: “La sconfitta di Berlusconi”.
LA STAMPA - In apertura: “Fiducia a Letta e il Pdl si spacca”.
IL GIORNALE - In apertura: “Caccia ai berlusconiani”.
IL SOLE 24 ORE - In apertura: “Resa di Berlusconi, fiducia larga a Letta”.
IL TEMPO - In apertura: “Berlusconi cede ad Alfano e vota la fiducia al governo. Pdl sempre più nel caos”.
IL FATTO QUOTIDIANO – In apertura: “La buffonata”.
Il Financial Times titola a caratteri cubitali sulla "vittoria" del premier Letta al senato e sottolinea che l'Italia si è allontanata dal baratro dopo "l'inversione a U" di Berlusconi.
Sulla homepage di BBC News campeggia la foto di Berlusconi in lacrime con sotto il titolo "Vittoria di Letta dopo l'inversione a U di Berlusconi".
Apertura italiana anche per il quotidiano The Guardian, che evidenzia un piccolo giallo e chiede la partecipazione dei lettori. "Cosa ha detto Enrico Letta subito dopo l'annuncio di Berlusconi di votare per la fiducia al Governo"?. Passando alle testate spagnole, il progressista El Paìs pubblica in homepage una photogallery dal titolo "Le facce di Berlusconi" (tutte particolarmente adombrate) e titola il pezzo portante sulla crisi italiana dicendo che l'ex premier, "avendo avuto certezza di non poter vincere, ha deciso di non perdere".
Il conservatore El Mundo, invece, dedica l'apertura oltre che alla cronaca della giornata al Senato alla figura di Angelino Alfano, con un editoriale intitolato: "Il delfino che ha detto basta", nel quale si evidenzia la spaccatura profonda che ha minato l'integrità finora incrollabile del partito di Silvio Berlusconi.
E poi ci sono i quotidiani tedeschi. Lo Spiegel International titola a tutta pagina "Fallito il colpo di Stato in Parlamento. L'imbarazzo di Berlusconi". Lo Spiegel in lingua madre, invece, pone l'accento sulla "ribellione contro il Cavaliere, che sancisce la fine di un'epoca".
Foto con cravatta in bocca per Enrico Letta sul Frankfurter Allgemeine. Il quotidiano, da sempre molto critico nei confronti di Berlusconi, titola in apertura: "Enrico Letta vince il voto di fiducia" e poi si compiace che sia "stata scongiurata in Italia una nuova elezione" dopo una svolta a 180 gradi di Berlusconi.
Il New York Times dedica uno spazio in prima pagina a "Berlusconi che fa marcia indietro sulla minaccia di far cadere il governo".
Tra i giornali russi, il primo ad aprire sull'Italia è il moderato Kommersant, che dedica al voto di fiducia un articolo di cronaca con foto triste di Berlusconi, sottolineando che "L'Italia ha evitato nuove elezioni". Stessa cosa vale anche per il sito in lingua inglese di Al Jazeera, l'emittente del Qatar, che apre la sua edizione online con una foto di Enrico Letta che sorride sollevato "dopo la vittoria".
Telegrafico Le Monde, che titola: "Il governo Letta ottiene la fiducia. Dopo la defezione di 25 senatori del PdL, Silvio Berlusconi ha deciso di votare la fiducia all'esecutivo".
"Berlusconi cambia casacca" è invece il titolo scelto dal quotidiano di sinistra Liberation.
Infine Le Figaro, quotidiano sarkozysta, titola: "Il voltafaccia di Silvio Berlusconi risparmia all'Italia una crisi".
FARSA ITALIA. UNA GIORNATA DI ORDINARIA FOLLIA.
Tra le 12, quando Sandro Bondi scandisce in Aula “fallirete”, e le 13,30, quando Silvio Berlusconi si arrende e, con un sorriso tirato, annuncia il sì al governo, è racchiuso tutto il senso di una giornata che, senza enfasi, il premier Enrico Letta definirà storica. Per la prima volta, infatti, il Cavaliere è costretto a ripiegare e a cedere sovranità alla decisione imposta da Angelino Alfano, il delfino considerato come un figlio che ha ucciso il padre. Che per il Pdl sia stata una giornata convulsa è ormai chiaro a tutti. E lo dimostra anche questa dichiarazione di Renato Brunetta, il quale, uscendo dalla riunione dei parlamentari del partito a Palazzo Madama, annuncia convinto che il Pdl toglierà la fiducia al Governo Letta. Poco dopo, in aula, la retromarcia di Berlusconi. Mercoledì 2 ottobre intorno alle 13.32 Silvio Berlusconi ha preso la parola al Senato e ha detto a sorpresa che il PdL avrebbe confermato la fiducia al governo Letta. Poco prima, il capogruppo del PdL alla Camera Renato Brunetta aveva detto perentoriamente ad alcuni giornalisti che «dopo lunga e approfondita discussione» nel gruppo dei parlamentari PdL, «l’opzione di votare la sfiducia al governo è stata assunta all’u-na-ni-mi-tà dei presenti».
La cronaca della giornata comincia, infatti, molto presto.
2,30 del mattino, Angelino Alfano ha lasciato palazzo Grazioli dopo un lunghissimo faccia a faccia con il Cavaliere, concluso con una rottura dolorosa, ed una sfida, quella lanciata dal leader del centrodestra: "Provate a votare la fiducia a Letta e vedremo in quanti vi seguiranno".
9.30, “L’Italia corre un rischio fatale, cogliere o non cogliere l’attimo, con un sì o un no, dipende da noi”, ha esordito Letta, aggiungendo che "gli italiani ci urlano che non ne possono più di ‘sangue e arena’, di politici che si scannano e poi non cambia niente”, ma al tempo stesso ribadendo che “i piani della vicenda giudiziaria che investe Silvio Berlusconi e del governo, non potevano, né possono essere sovrapposti” e che ”il governo, questo governo in particolare, può continuare a vivere solo se è convincente. Per questo serve un nuovo patto focalizzato sui problemi delle famiglie e dei cittadini”.
Quando il presidente del Consiglio Letta ha cominciato a parlare in Senato, Giovanardi, Roberto Formigoni e Paolo Naccarato, i più decisi fra gli scissionisti, facevano circolare una lista di 23 nomi, aggiungendo però che al momento della conta il risultato finale sarebbe stato ancoro più corposo. "Siamo già in 25 - dice Roberto Formigoni parlando con i cronisti in Transatlantico della scissione dal gruppo Pdl - E' possibile che altri si aggiungano. Nel pomeriggio daremo vita a un gruppo autonomo chiamato 'I Popolari'. Restiamo alternativi al centrosinistra, collocati nel centrodestra". Questi i cognomi dei primi firmatari: Naccarato, Bianconi, Compagna, Bilardi, D'Ascola, Aielo, Augello, Caridi, Chiavaroli, Colucci, Formigoni, Gentile, Giovanardi, Gualdani, Mancuso, Marinello, Pagano, Sacconi, Scoma, Torrisi, Viceconte, L.Rossi, Quagliariello. Con questi numeri, come già aveva pensato anche il ministro Gaetano Quagliariello, il premier Letta aveva già raggiunto il quorum teorico al Senato. Infatti il presidente del Consiglio parte da una base di 137 voti (escluso quello del presidente del Senato che per tradizione non vota), ai quali si aggiungono i 5 dei senatori a vita ed i 4 annunciati dai fuoriusciti M5s. In questo modo il governo supera abbondantemente la fatidica ‘quota 161′ necessaria a Palazzo Madama assestandosi intorno a quota 170.
Berlusconi, che a seduta ancora in corso ha riunito i suoi per decidere il da farsi, ha detto che ''sarà il gruppo in maniera compatta a decidere cosa fare. Prendiamo una decisione comune per non deludere il nostro popolo''. Alla riunione non hanno partecipato i senatori considerati i ormai con le valigie in mano e una prima votazione si è chiusa con una pattuglia di 27 falchi schieratissimi sulla sfiducia al governo, mentre 23 erano per lasciare l'aula al momento del voto (al Senato l'astensione è equiparata al voto contrario) mentre solo due si sono comunque espressi per il voto di fiducia. Nonostante i no assoluti a Letta fossero quindi una netta minoranza rispetto al plenum del gruppo Pdl, Berlusconi ha tagliato corto "voteremo contro la fiducia", come il capo ufficio stampa del partito si è premurato di far sapere a tutti i giornalisti presenti nella sala antistante l'aula. Il Cavaliere dichiara: “voteremo no e resteremo in aula Se uscissimo fuori sarebbe un gesto ambiguo e gli elettori non lo capirebbero''. In aula al Senato è Sandro Bondi a schierarsi contro Enrico Letta con queste parole: “avete spaccato il Pdl ma fallirete.
11.30. Contrariamente a quanto si vociferava, non è Silvio Berlusconi ad intervenire in aula al Senato ma Sandro Bondi. Bondi ricorda a Letta di essere a Palazzo Chigi grazie anche al PdL; rimarca il passaggio di Letta circa il concetto di pacificazione e sostiene che per Letta, la pacificazione sta nell’eliminare politicamente Silvio Berlusconi. Bondi ricorda a Letta che il problema giudiziario di Berlusconi nasce anche da Tangentopoli quando la tempesta giudiziaria travolse anche la Democrazia Cristiana, partito d’origine del Premier. Intanto, il PdL ha deciso: voterà la sfiducia all’unanimità. Questo è il quanto alle 12.00.
Poco dopo le 12.10 Enrico Letta riprende la parola nell’aula del Senato. Parla di giornata storica ma dai risvolti drammatici e ricorda che il travaglio di molti senatori va rispettato. Esprime gratitudine e solidarietà alla Senatrice Paola De Pin, per l’intervento in aula e per aver rischiato un attacco fisico da parte dei suoi ormai ex colleghi del M5S e sottolinea, rivolgendosi ai Senatori grillini che il rispetto della persona è alla base della democrazia. Durante l’intervento di Letta, vibranti proteste contro Letta da parte del Senatore Scilipoti che viene zittito dal Presidente Grasso. Letta aggiunge che i numeri che sostengono il governo sono cambiati ma comunque è fiducioso circa il raggiungimento degli obiettivi di governo verso i quali si pone con le parole “chiari” e “netti”. Il presidente del Consiglio ringrazia chi ha votato prima per l’attuale maggioranza come chi, oggi ha deciso diversamente. Letta rimarca il ruolo importante dell’Italia nel contesto europeo per il quale auspica centralità ed il coinvolgimento del Parlamento per il semestre UE. Si conclude qui, la replica del presidente del Consiglio e si aprono le dichiarazioni di voto. Questo è il quanto alle 12,30.
13.32. Berlusconi, e non il capogruppo Renato Schifani, interviene per la dichiarazione di voto del Pdl. E in meno di tre minuti, con volto terreo, e senza fare nessun riferimento alle convulsioni dei giorni precedenti, ha rinnovato la fiducia a Letta "non senza travaglio". Il suo intervento al Senato è arrivato alle 13.32. Sottolinea che ad aprile ritenne di mettere insieme un governo di centrosinistra col centrodestra per il bene del Paese. Accettando tutte le volontà del presidente incaricato Enrico Letta, accettando di avere solo 5 ministri. “Lo abbiamo fatto con la speranza che potesse cambiare il clima del nostro Paese - ha sostenuto - andando verso una pacificazione. Una speranza che non abbiamo deposto. Abbiamo ascoltato le parole del premier sugli impegni del suo Governo e sulla giustizia. Abbiamo deciso di esprimere un voto di fiducia a questo governo”. Pone fine al proprio intervento, torna a sedersi e scoppia a piangere.
La fiducia al Governo Letta è passata con 235 voti a favore e 70 voti contrari.
Alle 16.00 il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha aperto il suo intervento alla Camera. Sostanzialmente è un rimarcare quanto già espresso stamattina in Senato. Intanto, nelle ore precedenti, si delinea la formazione del nuovo gruppo politico costituito da transfughi del PdL e capitanati da Fabrizio Cicchitto; sono ufficialmente 12 ma si conta di arrivare complessivamente a 26 Parlamentari. A margine della conferenza dei capigruppo alla Camera, la Presidenza ha dato il disco verde per la costituzione del nuovo gruppo che interverrà sin da oggi pomeriggio nel dibattito parlamentare che seguirà l’intervento di Letta.
Poco prima delle 21,30, la Camera ha espresso il proprio voto nei confronti del governo Letta. 435 favorevoli e 162 contrari. Termina qui, questa lunga giornata politica dalla quale il Paese esce con un governo confermato ma sostenuto da una nuova maggioranza.
Vittorio Feltri fa trapelare il suo malessere su Twitter: "Chi incendia la propria casa e poi spegne le fiamme è un incendiario, un pompiere o un pirla?".
ITALIA DA VERGOGNA.
Che Italia di merda. Anzi no, perché non si può dire. Un’Italia da vergogna, però sì. Se volete possiamo continuare ad enucleare le virtù dell’italica vergogna.
È proprio una storiaccia, scrive Nicola Porro. Beccare l’esattore che per quattro danari fa lo sconto sulle tasse da pagare, sembra un roba dell’altro secolo. Secondo la Procura di Roma è quanto facevano alcuni funzionari (ed ex colleghi) di Equitalia. Vedremo presto, si spera, se e quanto fosse diffuso il sistema. Una tangente per alleggerire il proprio carico fiscale fa ribollire il sangue. Equitalia è stata negli ultimi anni il braccio inflessibile della legge (assurda) tributaria. Inflessibile nei suoi atteggiamenti oltre che nelle sue regole. La prima reazione è di sdegno. Come per uno stupro, non si riesce a ragionare, a essere lucidi. Ad aspettare un processo. In galera i presunti delinquenti. Gli aguzzini che hanno rovinato la vita a migliaia di contribuenti in sofferenza. Nei confronti dei quali (i contribuenti, si intende) non hanno mai avuto pietà. Bene. Ora calmiamoci un po’. E ragioniamo. Il dito è l’indagine di ieri. La luna è il caso di oggi e di domani. Ci stiamo forse prendendo in giro? Qualcuno pensa veramente che il catasto sia un luogo di verginelle? Qualcuno ritiene sul serio che le amministrazioni comunali che forniscono licenze siano immacolate? Qualcuno si immagina davvero che le Asl e i relativi controlli che fanno alle imprese siano tutti puliti? La lista potrebbe diventare infinita. Ed è una lista che sarebbe comunque compilata per difetto. Non c’è giorno che la cronaca non ci regali uno scandaletto locale su funzionari o dipendenti pubblici che non svolgono con onestà il proprio lavoro e che si mettono in tasca un stipendio alternativo a quello fornito dalla mamma Stato. Il nostro non è un punto di vista rassegnato. E tanto meno un giudizio complessivo sull’amministrazione pubblica. Il nostro è un puro ragionamento economico, senza alcun intento moralistico. Questo lo lasciamo a chi legge. La cosa è semplice e ha a che fare con la burocrazia statale. Essa ha un potere immenso, a ogni suo livello. Che le deriva dalla legge e dalla possibilità di farla applicare grazie al monopolio della violenza (legale e giudiziaria) di cui lo Stato dispone. Il caso Equitalia è particolarmente odioso per il momento in cui ci troviamo. Ma la stecca sulle tasse era ben più consistente e diffusa prima della riforma tributaria. Il punto è dunque quello di guardare al principio e non al dettaglio. Troppo Stato e la troppa burocrazia che ne consegue vuol dire una cosa sola: incentivo alla corruzione. La nostra bulimia legislativa, normativa e amministrativa nasce dalla presunzione pubblicistica, per la quale i privati sono più o meno potenzialmente tutti dei mascalzoni e devono dunque essere preventivamente controllati. Ecco le norme, le regole, i controlli, le agenzie, i funzionari, le procedure, le carte. Quanto più sono numerose, quanto maggiore è la possibilità che un passaggio sia economicamente agevolato da una commissione di sveltimento/tangente. Niente moralismi: calcolo delle probabilità. Nell’assurda costruzione pubblicistica che ci ha ormai irrimediabilmente contagiati si è commesso un enorme refuso logico. E cioè: i privati sono dei furfanti e come tali debbono essere regolati. Il mercato è in fallimento e dunque deve essere sostituito dallo Stato. E mai si pensa (ecco il refuso) che altrettanti furfanti e fallimenti ci possono statisticamente essere in coloro che dovrebbero legiferare o controllare. La prima vera, grande rivoluzione di questo Paese è ridurre il peso dello Stato, non solo perché costa troppo, ma perché si presume, sbagliando, che sia migliore e più giusto del privato.
ITALIA BARONALE.
I concorsi truccati di un Paese ancora feudale.
Un sistema consolidato di scambio di favori che ha attraversato tutta la Penisola, da Nord a Sud, coinvolgendo otto atenei: Bari, Sassari, Trento, Milano Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Roma Tre, Europea di Roma. È quanto emerge da un'inchiesta condotta dalla procura di Bari, che ha indagato su possibili manipolazioni di 15 concorsi pubblici per incarichi di docenti ordinari e associati nelle università.
L’inchiesta di Bari coinvolge 38 docenti, tra cui i 5 "saggi" chiamati dal governo, ma svela ciò che tutti sanno: le università sono una lobby, scrive Vittorio Macioce su “Il Giornale”. Non servono i saggi per rispondere a questa domanda. Come si diventa professori universitari? Lo sanno tutti. Non basta fare il concorso. Quello è l'atto finale, la fatica è arrivarci con qualche possibilità di vincerlo. È una corsa con regole antiche, dove la bravura è solo una delle tante componenti in gioco. L'università è un mondo feudale. I baroni non si chiamano così per caso. Ognuno di loro ha vassalli da piazzare. Entri se sei fedele, se sei pure bravo tanto meglio. È la logica della cooptazione. Ti scelgo dall'alto, per affinità, per affidabilità, per simpatia, perché apparteniamo allo stesso partito, alla stessa lobby, allo stesso giro. I baroni si riproducono tagliando fuori i devianti, le schegge impazzite, i cani sciolti. Molti sono convinti che in fondo questo sia un buon modo per selezionare una classe dirigente. Magari hanno ragione, magari no e il prezzo che si paga è la «mummificazione». Fatto sta che sotto il concorso pubblico ufficiale ci sono trattative, accordi, arrivi pilotati, rapporti di forza, «questa volta tocca al mio», «tu vai qui e l'altro lo mandiamo lì». La stragrande maggioranza dei futuri accademici vive e accetta questa logica. È l'università. È sempre stato così. Perché cambiare? L'importante è mandare avanti la finzione dei concorsi. È la consuetudine e pazienza se è «contra legem». I concorsi in genere funzionano così e il bello è che non è un segreto. Poi ogni tanto il meccanismo si inceppa. Qualcuno per fortuna ha il coraggio di denunciare o i baroni la fanno davvero sporca. È quello che è successo con un'inchiesta che parte da Bari e tocca una costellazione di atenei: Trento, Sassari, Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Benevento, Roma Tre e l'Europea. Sotto accusa finiscono 38 docenti, ma la notizia è che tra questi ci sono cinque «saggi». Cinque costituzionalisti cari al Colle. Augusto Barbera, Lorenza Violini, Beniamino Caravita, Giuseppe De Vergottini, Carmela Salazar. Che fanno i saggi? Solo pochi illuminati lo hanno davvero capito. Forse qualcuno ancora se li ricorda. Sono quel gruppo di professori nominati da Enrico Letta su consiglio di Napolitano per immaginare la terza Repubblica. Sulla carta dovevano gettare le basi per cambiare la Costituzione. In principio erano venti, poi per accontentare le larghe intese sono diventati trentacinque, alla fine si sono aggiunti anche sette estensori, con il compito di mettere in italiano corrente i pensieri degli altri. Risultato: quarantadue. Il lavoro lo hanno finito. Quando servirà ancora non si sa. I cinque saggi fino a prova contraria sono innocenti. Non è il caso di metterli alla gogna. Il sistema feudale però esiste. Basta chiederlo in privato a qualsiasi barone. Ed è qui che nasce il problema politico. Questo è un Paese feudale dove chi deve cambiare le regole è un feudatario. Non è solo l'università. L'accademia è solo uno dei simboli più visibili. È la nostra visione del mondo che resta aggrappata a un eterno feudalesimo. Sono feudali le burocrazie che comandano nei ministeri, paladini di ogni controriforma. È feudale il sistema politico. Sono feudali i tecnici che di tanto in tanto si improvvisano salvatori della patria. È feudale il mondo della sanità, della magistratura, del giornalismo. È feudale la cultura degli eurocrati di Bruxelles. È feudale il verbo del Quirinale. È stato sempre così. Solo che il sistema negli anni è diventato ancora più rigido. Lo spazio per gli outsider sta scomparendo. L'ingresso delle consorterie è zeppo di cavalli di frisia e filo spinato. La crisi ha fatto il resto. Se prima era tollerata un quota di non cooptazione dall'alto, ora la fame di posti liberi ha tagliato fuori i non allineati. E sono loro che generano cambiamento. Il finale di questa storia allora è tutto qui. Quando qualcuno sceglie 42 saggi per pilotare il cambiamento non vi fidate. Nella migliore delle ipotesi sta perdendo tempo, nella peggiore il concorso è truccato. Il prossimo candidato vincente è già stato scelto. Si chiama Dc.
È una storia antica quanto i baroni. Ma i nomi e i numeri, stavolta, fanno più rumore. Hanno trafficato in cattedre universitarie, sostengono la Procura e la Finanza di Bari. In almeno sette facoltà di diritto, pilotando concorsi per associati e ordinari. Le indagini, spiega Repubblica, iniziano nel 2008 presso l’università telematica “Giustino Fortunato”, di Benevento, che grazie al rettore Aldo Loiodice divenne una succursale dell’università di Bari: “Tirando il filo che parte dalla “Giustino Fortunato”, l’indagine si concentra infatti sui concorsi di tre discipline — diritto costituzionale, ecclesiastico, pubblico comparato — accertando che i professori ordinari “eletti nell’albo speciale” e dunque commissari in pectore della Commissione unica nazionale sono spesso in realtà legati da un vincolo di “reciproca lealtà” che, di fatto, li rende garanti di vincitori già altrimenti designati dei concorsi che sono chiamati a giudicare. Non ha insomma alcuna importanza chi viene “sorteggiato” nella Commissione”. La prova, per la Finanza, sarebbero le conversazioni dei prof insospettiti, che citano Shakespeare e parlano in latino: “È il caso dell’atto terzo, scena quarta del Macbeth. «Ciao, sono l’ombra di Banco», ammonisce un professore, rivolgendosi ad un collega. Già, Banco: la metafora della cattiva coscienza”. Da una minuscola università telematica al Gotha del mondo accademico italiano, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una intercettazione dietro l’altra: così la Procura di Bari ha individuato una rete di docenti che potrebbe avere pilotato alcuni concorsi universitari di diritto ecclesiastico, costituzionale e pubblico comparato. I finanzieri del nucleo di polizia tributaria del comando provinciale di Bari avevano iniziato a indagare sulla «Giustino Fortunato» di Benevento. Gli accertamenti si sono poi estesi: basti pensare che i pm baresi Renato Nitti e Francesca Pirrelli stanno valutando le posizioni di un ex ministro, dell'ex garante per la privacy, di cinque dei 35 saggi nominati dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L’ipotesi è che qualcuno possa avere influenzato i concorsi. Tra i 38 docenti coinvolti nell'inchiesta che da Bari potrebbe fare tremare il mondo accademico italiano ci sono infatti Augusto Barbera (Università di Bologna), Beniamino Caravita di Toritto (Università La Sapienza Roma), Giuseppe De Vergottini (Università di Bologna), Carmela Salazar (Università di Reggio Calabria) e Lorenza Violini (Università di Milano), nominati da Napolitano per affiancare l’esecutivo sul terreno delle riforme costituzionali. La loro posizione, al pari di quella dell'ex ministro per le Politiche Comunitarie Anna Maria Bernini e di Francesco Maria Pizzetti, ex Garante della Privacy, è al vaglio della Procura di Bari che dovrà verificare se ci sono elementi per esercitare l’azione penale. Gli accertamenti non sono legati agli incarichi istituzionali dei docenti, ma riguardano la loro attività di commissari in concorsi da ricercatore e da professore associato e ordinario, banditi nel secondo semestre del 2008. Quella tessuta pazientemente nel tempo dalle fiamme gialle, coordinate dalla Procura di Bari, sarebbe stata una vera e propria «rete» che per anni avrebbe agito su tutto il territorio nazionale e che a Bari avrebbe avuto una sponda significativa. Quattro i professori baresi sui quali sono da tempo in corso accertamenti: Aldo Loiodice, all’epoca ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Bari, Gaetano Dammacco, ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Maria Luisa Lo Giacco e Roberta Santoro, ricercatrici di diritto ecclesiastico. Le ipotesi di reato a vario titolo sono associazione per delinquere, corruzione, abuso d'ufficio, falso e truffa. E’ una élite di studiosi di diritto che si conoscono da sempre, che si incontrano a seminari e convegni di studio e che, anche in quel contesto, pianificano i concorsi universitari in tutta Italia. Questa è l’ipotesi. Il quadro emerso dalle centinaia di intercettazioni e dalle decine di perquisizioni eseguite negli anni scorsi in abitazioni, studi professionali, istituzioni universitarie, da Milano a Roma, da Teramo a Bari è da tempo al vaglio della Procura. Nove gli Atenei coinvolti. Almeno una decina i concorsi universitari espletati tra il 2006 e il 2010 finiti sotto la lente d’ingrandimento delle Fiamme Gialle. A quanto pare non sarebbe emersa una vera e propria cabina di regia, quanto piuttosto una sorta di «circolo privato» in grado di decidere il destino di concorsi per professori di prima e seconda fascia in tre discipline afferenti al diritto pubblico. Gli investigatori ritengono che questi concorsi nascondano un sistema di favori incrociati. Dopo il sorteggio delle commissioni giudicatrici previsto dalla riforma Gelmini, sarebbe insomma scattato un patto della serie: «tu fai vincere il mio “protetto” nella tua commissione ed io faccio vincere il tuo nella mia». «Accordi», «scambi di favore», «sodalizi e patti di fedeltà» per «manipolare» l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche, bandite su tutto il territorio nazionale in quel quadriennio. Dall’accusa iniziale, evidenziata in uno dei decreti di perquisizione, in oltre due anni, si sarebbero aggiunti molti altri riscontri trovati dagli investigatori. E pensare che l’inchiesta era partita dagli accertamenti sull'università telematica «Giustino Fortunato », considerata dalla Finanza una sorta di «titolificio» dove si poteva diventare professori in men che non si dica. Dietro quella pagliuzza sarebbe spuntata una trave molto più grande.
Università, i baroni si salvano con la prescrizione. Grazie alla riforma voluta da Berlusconi, che garantisce l'impunità ai colletti bianchi, tre docenti dell'ateneo di Bari sono stati assolti dall'accusa di spartizione delle cattedre. Ma le intercettazioni hanno mostrato l'esistenza di una vera e propria cupola in tutta Italia, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. È stata l'inchiesta più clamorosa sulla spartizione delle cattedre, quella che aveva fatto parlare di una mafia che decideva le nomine a professore negli atenei di tutta Italia. E lo faceva nel settore più delicato: la cardiologia. Ma nove anni dopo la retata che ha scosso le fondamenta del mondo universitario, il tribunale di Bari ha assolto tre imputati chiave dall'accusa di associazione a delinquere. Erano innocenti? Il reato è stato dichiarato prescritto perché è passato troppo tempo: i fatti contestati risalgono al 2002. Una beffa, l'ennesima conferma sull'effetto delle riforme berlusconiane che hanno dilatato la durata dei processi e di fatto garantiscono l'impunità ai colletti bianchi. Il colpo di spugna arriva proprio mentre da Roma a Messina si torna a gridare allo scandalo per i concorsi pilotati negli atenei. L'istruttoria di Bari era andata oltre, radiografando quanto fosse diventato profondo il malcostume nel corpo accademico. Grazie alle intercettazioni finirono sotto indagine decine di professori di tutte le regioni. Nel suo atto di accusa il giudice Giuseppe De Benectis scrisse: «I concorsi universitari erano dunque celebrati, discussi e decisi molto prima di quanto la loro effettuazione facesse pensare, a cura di commissari che sembravano simili a pochi “associati” a una “cosca” di sapore mafioso». Stando agli investigatori, al vertice della rete che smistava cattedre e borse da di studio da Brescia a Palermo c'era Paolo Rizzon, trevigiano diventato primario nel capoluogo pugliese. Le intercettazioni lo hanno descritto come un personaggio da commedia all'italiana. È stato registrato mentre manovrava la composizione di una commissione d'esame che approvasse la nomina del figlio. Poi scopre che l'erede non riesce neppure a mettere insieme la documentazione indicata per l'esame da raccomandato («Ho guardato su Internet, non c'è niente») e si dà da fare per trovargli un testo già scritto. Nei nastri finisce una storia dai risvolti boccacceschi con scambi di amanti e persino l'irruzione della vera mafia. Quando un candidato non si piega alle trame della “Cupola dei baroni” e presenta un ricorso per vedere riconosciuti i suoi diritti, gli fanno arrivare questo avvertimento: «Il professore ha fatto avere il tuo indirizzo a due mafiosi per farti dare una sonora bastonata». Secondo gli inquirenti, non si trattava di millanterie. I rapporti con esponenti di spicco della criminalità locale sono stati documentati, persino nel «commercio di reperti archeologici». A uno di loro – che al telefono definisce «il boss dei boss» - il primario chiede di recuperare l'auto rubata nel cortile della facoltà. Salvo poi scoprire che la vettura non era stata trafugata: si era semplicemente dimenticato dove l'aveva parcheggiata. I magistrati sono convinti che tra la metà degli anni Novanta e il 2002 il professore avesse creato una macchina perfetta per decidere le nomine di cardiologia in tutta Italia: «Una vera organizzazione che vedeva Rizzon tra i capi e organizzatori, con una ripartizione di ruoli, regole interne e sanzioni per la loro eventuale inosservanza che consentiva ai baroni, attraverso il controllo dei diversi organismi associativi, di acquisire in ambito accademico il controllo esecutivo e di predeterminare la composizione delle commissioni giudicatrici e prestabilire quindi anche l´esito della procedura». Oggi la sentenza ha prosciolto per prescrizione dall'associazione per delinquere tre docenti di spicco che avevano scelto il rito abbreviato. Assoluzione nel merito invece per gli altri reati contestati. Nonostante le accuse, i tre prof sono tutti rimasti al loro posto e hanno proseguito le carriere accademiche. Uno si è persino candidato alla carica di magnifico rettore. Una tutela garantista nei loro confronti, ma anche un pessimo esempio per chiunque sogni di fare strada con i propri mezzi nel mondo dell'università senza essere costretto a emigrare. I codici etici negli atenei sono stati introdotti solo dopo gli ultimi scandali, ma in tutta la pubblica amministrazione non si ricordano interventi esemplari delle commissioni disciplinari interne: si aspetta la magistratura e la sentenza definitiva, che non arriva praticamente mai. Anche nel caso del professore Rizzon e di altri tre luminari per i quali è in corso il processo ordinario sembra impossibile che si arrivi a un verdetto. Dopo nove anni siamo ancora al primo grado di giudizio e pure per loro la prescrizione è ormai imminente. Una lezione magistrale per chi crede nel merito.
CASA ITALIA.
Case popolari solo a stranieri? Magari non è proprio così ma basta farsi un giro in certe zone per rendersi conto che la realtà sembra sempre di più penalizzare gli italiani. Il record delle case popolari. Una su due va agli stranieri. Ecco le graduatorie per avere accesso agli alloggi di edilizia residenziale. Più del 50% delle domande vengono da immigrati. E i milanesi aspettano, scrive Chiara Campo su “Il Giornale”. Ci sono Aba Hassan, Abad, Abadir. Ventisette cognomi su ventisette solo nella prima pagina (e almeno 17 idonei). Ma scorrendo il malloppo delle 1.094 pagine che in ordine alfabetico formano le graduatorie per accedere alle case popolari del Comune, almeno il 50% dei partecipanti è di provenienza straniera. Basta leggere i primi dieci fogli per avere l'impressione che, tra gli Abderrahman e gli Abebe, gli italiani siano dei «panda» in estinzione. Le graduatorie pubblicate da Palazzo Marino si riferiscono al bando aperto fino a fine giugno 2013 a chi ha bisogno di appartamenti di edilizia residenziale. Chi entra nell'elenco non ha automaticamente la casa perché la lista d'attesa è lunga, ma tra i criteri per avanzare in classifica ci sono ovviamente reddito (basso) e numero di figli (alto). Le proteste dei leghisti sono note: «Gli immigrati lavorano in nero e fanno tanti figli». Nel 2012 (sono dati del Sicet) su 1190 assegnazioni nel capoluogo lombardo 495, quasi la metà 455, sono state a favore di immigrati. A vedere gli elenchi l'impressione è che la percentuale possa alzarsi ancora, a scapito di tante famiglie milanesi che probabilmente versano tasse da più tempo e nella crisi avrebbero altrettanto bisogno di una casa a basso costo. «Sono per l'integrazione - commenta Silvia Sardone, consigliera Pdl della Zona 2 - ma questa non si può realizzare con una potenziale discriminazione per gli italiani. Probabilmente il sistema di costruzione delle graduatorie ha bisogno di essere reso più equo». Ci tiene a sottolineare: «Non sono razzista, non lo sono mai stata e non lo sarò. Non sono nemmeno perbenista né figlia di un buonismo di sinistra cieco della realtà. Ho molto amici italiani con cognomi stranieri, hanno un lavoro ed un mutuo sulla casa». Ma «nella prime pagine degli elenchi in ordine alfabetico si fa fatica a trovare un cognome italiano e complessivamente sono tantissimi i cognomi stranieri. Indipendentemente da chi ha studiato i criteri di partecipazione e assegnazione e di quando siano stati creati penso che oggi, nel 2013, debbano essere rivisti. Perché sono stanca di pagare delle tasse per servizi che spesso godono gli altri». Anche il capogruppo milanese della Lega torna a chiedere agli enti (Regione per prima) di rivedere i criteri di accesso, alzando ad esempio i 5 anni d residenza minima: «Serve una norma che difenda la nostra gente da chi, si dice, porta ricchezza, ma invece rappresenta un costo».
Laddove l’alloggio non viene assegnato, si occupa (si ruba) con il beneplacito delle Istituzioni.
Quando si parla di case occupate abusivamente o illegalmente, in genere la mente è portata a collegare tale fenomeno a quello dei centri sociali, scrive “Mole 24”. Un tema che di per sé sarebbe da approfondire, perché esistono centri sociali occupati da autonomi, altri da anarchici, altri ancora dai cosiddetti “squatter”, termine che deriva dall’inglese “to squat”, che non è solo un esercizio per rassodare i glutei ma significa anche per l’appunto “occupare abusivamente”. Ma l’occupazione abusiva delle case è in realtà un fenomeno assai nascosto e taciuto, praticamente sommerso. Un’anomalia che pochi conoscono, ancor meno denunciano o rivelano, essenzialmente perché non si sa come risolvere. Le leggi ci sono, o forse no, e se anche esistono pare proprio che le sentenze più attuali siano maggiormente orientate a tutelare gli interessi dell’occupante abusivo piuttosto che quelli del proprietario che reclama i suoi diritti da “esautorato”, sia che si parli del Comune in senso lato sia che si parli di un qualsiasi fruitore di case popolari che si ritrova il suo alloggio occupato da “ospiti” che hanno deciso di prenderne il possesso. Il fenomeno si riduce spesso ad essere una guerra tra poveri. Parliamo, per fare un esempio non così lontano dalla realtà, di un anziano pensionato costretto ad essere ricoverato in ospedale per giorni, settimane o anche mesi: ebbene, questo anziano signore, qualora fosse residente in un alloggio popolare, una volta dimesso potrebbe rischiare di tornare a casa e non riuscire più ad aprire la porta d’ingresso. Serratura cambiata, e l’amara sorpresa che nel frattempo alcuni sconosciuti hanno preso possesso dell’abitazione. Un problema risolvibile? Non così tanto. Anzi, potrebbe essere l’inizio di un lungo iter giudiziario, e se il nuovo o i nuovi occupanti, siano essi studenti cacciati di casa, extracomunitari, disoccupati o famiglie indigenti, dimostrano di essere alle prese con una situazione economica insostenibile o di non aver mai potuto accedere a bandi di assegnazione alle case popolari per vari motivi (ad esempio: non ne sono stati fatti per lunghi periodi), l’anziano in questione potrebbe rischiare di sudare le proverbiali sette camicie. Trattandosi di case popolari, la proprietà non è di nessuno ma del Comune. Questo vuol dire che quando qualcuno non è presente, fra gli altri bisognosi scatta una vera e propria corsa a chi arraffa la casa. Ci sarebbero sì le graduatorie per assegnare gli immobili, ma non mai vengono rispettate. Nel sud, affidarsi alla criminalità organizzata, pagando il dovuto, è il metodo più sicuro per assicurarsi una casa popolare. Chi pensa che questo sia un fenomeno di nicchia, si sbaglia di grosso. Le cifre infatti sono clamorose, anche se difficilmente reperibili. L’indagine più recente e affidabile da questo punto di vista è stata realizzata da Dexia Crediop per Federcasa sul Social Housing 2008. E parla di ben 40.000 case popolari occupate abusivamente in tutto lo Stivale, che se venissero assegnate a chi ne ha diritto permetterebbero a circa 100.000 persone di uscire da uno stato di emergenza.
L’onestà non paga. Ti serve una casa? Sfonda la porta e occupa, scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. L’appartamento di edilizia residenziale è abitato da una famiglia legittima assegnataria del diritto alla casa ottenuto attraverso un regolare quanto raro bando pubblico con relativo posto in graduatoria? Chi se ne fotte. Li cacci a calci in culo. E se non vogliono andare via, aspetti che escano e ti impossessi dell’abitazione. Con calma poi metti i loro mobili, vestiti e effetti personali in strada. Se malauguratamente qualcuno di loro ha la pazza idea di contattare le forze dell’ordine per sporgere denuncia, niente problema: li fai minacciare da qualche “cumpariello” inducendoli a dichiarare che quelle persone sono amici-parenti. Onde evitare però sospetti, con calma fai presentare un certificato di stato di famiglia dove i “signori occupanti” risultano dei conviventi. Il trucco è palese. Non regge l’escamotage dell’appartamento ceduto volontariamente. Certo. Gli investigatori non dormono. Questo è chiaro. Il solerte poliziotto esegue l’accertamento. I nodi alla fine vengo al pettine. La denuncia scatta immediata. La giustizia è lenta ma implacabile. Lo Stato vince. Gli occupanti abusivi in generale ammettono subito che sono abusivi. Quindi? Nei fatti c’è un organismo dello Stato – i verbali delle forze dell’ordine, le lettere di diffida degli enti pubblici gestori degli appartamenti – che certifica che a decorrere dal giorno x , dal mese x, dall’anno x, l’abitazione che era assegnata a tizio, caio e sempronio ora con la violenza e il sopruso è stato occupata da pinco pallino qualsiasi. La malapolitica trasversalmente e consociativamente per puri e bassi calcoli elettoralistici e non solo mascherati da esigenze sociali, di povertà, di coesione sociale e stronzate varie compulsando e piegando le istituzioni si attivano e varano con il classico blitz leggi, norme, regolamenti che vanno a sanare gli abusivi. Chi ha infranto la legge, chi ha prevaricato sul più debole, chi ha strizzato l’occhio al camorrista e al politiconzolo di turno, chi non mai ha presentato una regolare domanda di assegnazione, chi neppure ha i requisiti minimi per ottenere alla luce del sole un’abitazione si ritrova per "legge" un alloggio di proprietà pubblica a canone agevolatissimo. Accade in Campania e dove sennò in Africa?
Martedì 7 maggio 2013 è stato pubblicato sul Burc la nuova sanatoria per chi ha assaltato le case degli enti pubblici. La Regione Campania guidata dal governatore Stefano Caldoro ha varato all’interno della finanziaria regionale un provvedimento che regolarizza e stabilisce che può richiedere l’alloggio chi lo ha occupato prima del 31 dicembre 2010. Si badi bene che lo scorso anno era stato deciso con una legge simile che poteva ottenere la casa chi l’aveva assaltata entro il 2009. L’interrogativo sorge spontaneo: se puntualmente ogni anno varate una sanatoria per gli abusivi ma perché allora pubblicate i bandi di assegnazione con graduatoria se poi le persone oneste sono destinate ad avere sempre la peggio? Misteri regionali. C’è da precisare però che la nuova sanatoria contiene delle norme “innovative” e “rivoluzionarie” a tutela della legalità (non è una battuta!) per evitare che tra gli assegnatari in sanatoria ci siano pregiudicati e che le occupazione siano guidate dalla camorra. A questo punto c’è davvero da ridere. Le norme per entrare in vigore – però – hanno bisogno del “si” degli enti locali. Ecco il Comune di Napoli – ad esempio – ha detto “no”. Non è pragmatismo ma è guardare negli occhi il mostro. A Napoli non è solo malavita ci sono casi davvero di estrema povertà. Ma è facile adoperare, manipolare e nascondersi dietro questi ultimi per far proliferare camorra e fauna circostante. A Napoli i clan hanno sempre gestito le case di edilizia pubblica. Ad esempio a Scampia chi vive nei lotti di edilizia popolare sa bene che la continuità abitativa dipende dalle sorti del clan di riferimento. Chi perde la guerra, infatti, deve lasciare gli appartamenti ai nuovi padroni. Un altro esempio è il rione De Gasperi a Ponticelli. Qui il boss Ciro Sarno – ora fortunatamente dietro le sbarre a scontare diversi ergastoli – decideva le famiglie che potevano abitare negli appartamenti del Comune di Napoli. Una tarantella durata per decenni tanto che il padrino Ciro Sarno era soprannominato in senso dispregiativo ‘o Sindaco proprio per questa sua capacità di disporre di alloggi pubblici. Stesso discorso per le case del rione Traiano a Soccavo, le palazzine di Pianura, i parchi di Casavatore, Melito e Caivano.
Di cosa parliamo? Alle conferenze stampa ci si riempie la bocca con parole come legalità, anticamorra, lotta ai clan. Poi alla prima occasione utile invece di mostrare discontinuità, polso duro, mano ferma si deliberano norme che hanno effetti nefasti: alimentano il mercato della case pubbliche gestite dai soliti professionisti dell’occupazione abusiva borderline con i clan. Circola in Italia una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha, avendola occupata con la forza o l'astuzia.
E gli alloggi di proprietà?
Le Iene, 1 ottobre 2013: case occupate abusivamente.
23.40. L’associazione Action organizza occupazioni di case: prima erano per lo più extracomunitari, ora sempre più spesso esponenti del ceto medio che non riesce più a pagare il mutuo e viene sfrattata. Occupano così case vuote o sfitte. O, peggio, entrano in case abitate, cambiano la serratura e addio (un incubo per molti). Una signora, però, ha rioccupato la casa da cui è stata sfrattata.
23.48. Si racconta la storia di una ragazza non ancora trentenne, fiorista, che ha occupato una casa comprata da una famiglia, che ha acceso un mutuo e che ora si trova con un immobile svalutato e un ambiente ben diverso da quello residenziale che avevano scelto per far crescere i propri figli. “Si è scatenata una guerra tra poveri” dice una signora che vive qui ‘legalmente’, che va a lavorare tutti i giorni per pagare un mutuo per una casa che non rivenderà mai allo stesso prezzo. E’ truffata anche lei.
L’occupazione abusiva degli immobili altrui e la tutela delle vittime.
In sede civile, scrive Alessio Anceschi, chi si veda abusivamente privato del proprio immobile può certamente adire l’autorità giudiziaria al fine di rientrare nella disponibilità di esso da coloro che lo hanno illegittimamente occupato. In tal senso, potrà proporre l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), oppure, entro i termini previsti dalla legge, l’azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.). Il legittimo proprietario o possessore dell’immobile potrà anche agire al fine di ottenere il risarcimento dei danni sofferti, i quali si prestano ad essere molto ingenti, sia sotto il profilo patrimoniale, che esistenziale. In tutti i casi, tuttavia, in considerazione della lunghezza del procedimento civile e soprattutto del procedimento di esecuzione, il legittimo proprietario o possessore dell’immobile si trova concretamente privato della propria abitazione (e di tutti i beni che in essa sono contenuti) e quindi costretto a vivere altrove, da parenti o amici, quando và bene, in ricoveri o per la strada quando và male.
Sotto il profilo penale sono ravvisabili molti reati. Prima di tutti, il reato di invasione di terreni od edifici (art. 633 c.p.), ma anche altri reati contro il patrimonio funzionalmente collegati all’occupazione abusiva, quali il danneggiamento (art. 635 c.p.) ed il furto (artt. 624 e 625 c.p.). Il secondo luogo, colui che occupa abusivamente un immobile altrui commette il reato di violazione di domicilio (art. 614 c.p.). Anche in questo caso, tuttavia, la tutela postuma che consegue alla sentenza non si presta a tutelare adeguatamente la vittima. Infatti, il reato di cui all’art. 633 c.p., unica tra le ipotesi citate ad integrare un reato permanente, non consente l’applicazione né di misure precautelari, né di misure cautelari. Lo stesso vale per gli altri reati sopra indicati, soprattutto quando non vi sia stata flagranza di reato. La vittima dovrà quindi attendere l’interminabile protrarsi del procedimento penale ed anche in caso di condanna, non avrà garanzie sulla reintegrazione del proprio bene immobile, posto che l’esiguità delle pene previste per i reati indicati e le mille vie d’uscita che offre il sistema penale, si presta a beffare nuovamente la povera vittima, anche laddove si sia costituita parte civile. Laddove poi l’abusivo trascini nell’immobile occupato la propria famiglia, con prole minorenne, le possibilità di vedersi restituire la propria abitazione scendono drasticamente, in virtù dei vari meccanismi presenti tanto sotto il profilo civilistico, quanto di quello penalistico.
La mancanza di tutela per la vittima è evidente in tutta la sua ingiustizia. Essa diventa ancora più oltraggiosa quando le vittime sono i soggetti deboli, soprattutto, come accade spesso, gli anziani. Che fare ? Nell’attesa che ciò si compia, ove si ritenga che il nostro “Sistema Giudiziario” sembri tutelare solo i criminali, può osservarsi che esso può tutelare anche le vittime, laddove siano costrette a convertirsi, per “necessità” di sopravvivenza e per autotutela. In effetti, occorre osservare che, il nostro ordinamento penale, che di recente ha anche ampliato la portata applicativa della scriminante della legittima difesa nelle ipotesi di violazione di domicilio (art. 52 c.p., come mod. l. 13.2.2006 n. 59), non consente che una persona ultrasettantenne possa subire una misura custodiale in carcere (artt. 275 co. 4° c.p.p. e 47 ter, l. 354/1975). Conseguentemente, solamente laddove l’anziano ultrasettantenne, spinto dall’amarezza, trovasse il coraggio di commettere omicidio nei confronti di tutti coloro che, senza scrupoli, lo abbiano indebitamente spogliato della propria abitazione, potrebbe rientrare immediatamente nel possesso della propria abitazione, con la sicurezza che, il nostro sistema giudiziario, gli garantirebbe una doverosa permanenza in essa attraverso gli arresti o la detenzione domiciliare. Contraddizioni di questa nostra Italia !!!
"Esci di casa e te la occupano… e alla Cassazione va bene così" ha titolato un quotidiano commentando una sentenza della Cassazione che avrebbe di fatto legittimato l'occupazione abusiva degli alloggi. L'articolo riportava le affermazioni di un sedicente funzionario dell'ex Istituto autonomo case popolari (Iacp) che consigliava all'assegnatario di un alloggio di mettere una porta blindata perché "Se sua mamma e suo papa vanno in ferie un paio di settimane, poi arrivano degli abusivi, quelli sfondano, mettono fuori i mobili, ci mettono i loro, e nessuno ha il potere di sgomberarli… Non ci si crede, ma è così". Ed infatti non bisogna credergli… Non è così, scrive “Sicurezza Pubblica”. Gli ipotetici abusivi di cui sopra commettono il reato di violazione di domicilio, e la polizia giudiziaria deve intervenire d'iniziativa per "impedire che venga portato a conseguenze ulteriori" (art. 55 cpp) allontanando (anche con la forza) i colpevoli dai locali occupati contro la legge. Il secondo comma dell'art. 614 cp commina (cioè minaccia) la pena della reclusione fino a tre anni a chiunque si trattenga nell'abitazione altrui o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno. La pena è da uno a cinque anni (arresto facoltativo, dunque) e si procede d'ufficio se il fatto è commesso con violenza sulle cose o alle persone, o se il colpevole è palesemente armato. Il reato è permanente. Perciò possiamo andare tranquillamente in ferie perché se qualcuno viola il nostro domicilio forzando la porta o una finestra, la polizia giudiziaria è obbligata a liberare l'alloggio ed il colpevole può essere arrestato. Quali potrebbero essere le responsabilità della polizia giudiziaria, che eventualmente omettesse o ritardasse l'intervento? Secondo l'art. 55 c.p.p. la p.g. deve (obbligo giuridico) impedire che i reati vengano portati a ulteriori conseguenze, mentre secondo l'art, 40 comma 2 del c.p.: "Non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". Perciò le ulteriori conseguenze dell'occupazione potrebbero essere addebitate ai responsabili del ritardo o dell'omissione.
Cosa ha veramente la Cassazione?
L'equivoco è nato dalla errata lettura della sentenza 27 giugno - 26 settembre2007, n. 35580, in cui la suprema Corte ha trattato il caso di una persona che, denunciata per aver occupato abusivamente un alloggio ex Iacp vuoto, aveva invocato l'esimente dello stato di necessità previsto dall'art. 54 cp, ma era stata condannata. La Corte non ha affatto legittimato il reato, ma si è limitata ad annullare la sentenza d'appello con rinvio ad altro giudice, ritenendo che fosse stata omessa la dovuta indagine per verificare se l'esimente stessa sussistesse o meno. Nulla di rivoluzionario dunque, ma applicazione di un principio: quando il giudice ravvisa l'art. 54 cp, il reato sussiste, ma "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona". In quest'ottica, giova rammentare la sentenza 9265 del 9 marzo 2012, che ha definitivamente fatto chiarezza (qualora ce ne fosse stato bisogno). La Cassazione ha respinto il ricorso di una 43enne contro la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto la donna colpevole del reato di cui agli articoli 633 e 639 bis Cp per avere abusivamente occupato un immobile di proprietà dello Iacp di Palermo. La seconda sezione penale, confermando la condanna, ha escluso lo stato di necessità precisando che in base all’articolo 54 Cp per configurare questa esimente (la cui prova spetta all’imputato che la invoca), occorre che «nel momento in cui l’agente agisce contra ius - al fine di evitare un danno grave alla persona - il pericolo deve essere imminente e, quindi, individuato e circoscritto nel tempo e nello spazio. L’attualità del pericolo esclude quindi tutte quelle situazioni di pericolo non contingenti caratterizzate da una sorta di cronicità essendo datate e destinate a protrarsi nel tempo». Nell' ipotesi dell’occupazione di beni altrui, lo stato di necessità può essere invocato soltanto per un pericolo attuale e transitorio non certo per sopperire alla necessità di risolvere la propria esigenza abitativa, tanto più che gli alloggi Iacp sono proprio destinati a risolvere esigenze abitative di non abbienti, attraverso procedure pubbliche e regolamentate. In sintesi: una precaria e ipotetica condizione di salute non può legittimare, ai sensi dell’articolo 54 Cp, un’occupazione permanente di un immobile per risolvere, in realtà, in modo surrettizio, un’esigenza abitativa.
Sequestro preventivo dell'immobile occupato abusivamente.
La sussistenza di eventuali cause di giustificazione non esclude l'applicabilità della misura cautelare reale del sequestro preventivo. D'altronde la libera disponibilità dell'immobile comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato, che il sequestro preventivo mira invece a congelare. (Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza n. 7722/12; depositata il 28 febbraio). Il caso. Due indagati del reato di invasione e occupazione di un edificio di proprietà dell'Istituto Autonomo Case Popolari ricorrevano per cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale del Riesame di Lecce, che confermava il sequestro preventivo dell'immobile disposto dal GIP. A sostegno della loro tesi difensiva, gli indagati introducevano un elemento afferente il merito della responsabilità penale, sostenendo come fosse documentato lo stato di assoluta indigenza in cui versavano, tale da averli costretti ad occupare l'immobile per la necessità di evitare un danno maggiore alla loro esistenza e salute. In sostanza, invocavano lo stato di necessità che, secondo la tesi difensiva, avrebbe non solo giustificato l'occupazione, ma che avrebbe potuto determinare una revoca del provvedimento cautelare disposto…non opera per le misure cautelari reali. La Suprema Corte esamina la censura, ma la rigetta perché, nel silenzio della legge, non può applicarsi la regola - prevista dall'art. 273 comma 2 c.p.p. per le sole misure cautelari personali - che stabilisce che nessuna misura (personale) può essere disposta quando il fatto è compiuto in presenza di una causa di giustificazione, quale appunto l'invocato stato di necessità. L'ordinanza impugnata ha chiarito che i due indagati hanno abusivamente occupato un alloggio già assegnato ad altra persona, poi deceduta, e ha correttamente rilevato che è del tutto irrilevante la circostanza che nel lontano 1983 il B. sia stato assegnatario di un altro alloggio del cui possesso sarebbe stato spogliato. Se queste sono le circostanze di fatto non è ravvisabile alcuna violazione di legge, ma solo una diversa valutazione dei fatti stessi non consentita in questa sede di legittimità, per di più con riferimento a misure cautelari reali (art. 325, comma 1, c.p.p.). Per quanto concerne la sussistenza della dedotta causa di giustificazione, se è vero che, in tema di misure cautelari personali, ai sensi dall'art. 273, comma 2, cod. proc. pen., nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione, l'applicabilità di una analoga normativa con riferimento alle misure cautelari reali, in assenza di espressa previsione di legge, deve tenere conto dei limiti imposti al Tribunale in sede di riesame, nel senso che la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare reale da parte del tribunale del riesame non può tradursi in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale (per tutte: Sez. U, n. 7 del 23/02/2000, Bocedi, Rv. 215840). È evidente, pertanto, che una causa di giustificazione può rilevare nell'ambito del procedimento relativo a misure cautelari reali solo se la sua sussistenza possa affermarsi con un ragionevole grado di certezza. Anche sulla sussistenza del periculum in mora l'ordinanza impugnata, espressamente pronunciandosi sul punto, afferma che la libera disponibilità da parte degli indagati dell'immobile in questione comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato commesso. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Condotta e dolo specifico.
L'articolo 633 cp stabilisce che "Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o trame altrimenti profitto è punito a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa. Si procede d'ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata, o da più di dieci persone anche senz'armi". Si procede altresì d'ufficio (art. 638 bis c.p.) se si tratta di acque, terreni, fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. Perché sussista il reato, occorre che l'agente penetri dall'esterno nell'immobile (anche senza violenza) e ne violi l'esclusività della proprietà o del possesso per una apprezzabile durata, contro la volontà del titolare del diritto o senza che la legge autorizzi tale condotta. Questo reato non consiste nel semplice fatto di invadere edifici o terreni altrui, ma richiede il dolo specifico, cioè la coscienza e volontà di invaderli al fine di occuparli o trame altrimenti profitto. Non occorre neppure l'intenzione dell'occupazione definitiva, anche se essa deve avere una durata apprezzabile. In caso di immobile già invaso, è possibile il concorso successivo di persone diverse dai primi autori dell'invasione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 maggio 1975, n. 5459). Quanto al reato di violazione di domicilio, previsto dall'art. 614 del C.P., esso è ravvisabile anche "nella condotta di abusiva introduzione (o abusiva permanenza) nei locali di una guardia medica fuori dell'orario ordinario di apertura al pubblico per l'assistenza sanitaria. Infatti, se nell'orario ordinario di servizio la guardia medica è aperta al pubblico, nell'orario notturno l'acceso è limitato a quelli che hanno necessità di assistenza medica e che quindi sono ammessi all'interno dei locali della stessa. Pertanto in questo particolare contesto l'ambiente della guardia medica costituisce un'area riservata che può assimilarsi a quella di un temporaneo privato domicilio del medico chiamato a permanere lì durante la notte per potersi attivare, ove necessario, per apprestare l'assistenza sanitaria dovuta" (Cass. pen. Sez. III, sent. 6 giugno - 30 agosto 2012, n. 33518, in Guida al diritto n. 39 del 2012, pag. 88).
Flagranza e procedibilità d'ufficio.
Il reato d'invasione di terreno o edifici ha natura permanente e cessa soltanto con l'allontanamento del soggetto dall'edificio, o con la sentenza di condanna, dato che l'offesa al patrimonio pubblico perdura sino a che continua l'invasione arbitraria dell'immobile. Dopo la pronuncia della sentenza, la protrazione del comportamento illecito da luogo a una nuova ipotesi di reato, che non necessita del requisito dell'invasione, ma si sostanzia nella prosecuzione dell'occupazione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 dicembre 2003, n. 49169). Nella distinzione tra uso pubblico e uso privato, una recente pronuncia ha affermato che "l'alloggio realizzato dall'Istituto autonomo delle case popolari (lacp), conserva la sua destinazione pubblicistica anche quando ne sia avvenuta la consegna all'assegnatario, cui non abbia ancora fatto seguito il definitivo trasferimento della proprietà. Ne deriva che, in tale situazione, l'eventuale invasione ad opera di terzi dell'alloggio medesimo è perseguibile d'ufficio, ai sensi dell'art. 639 bis cp" (Cass. pen., Sez. Il, 12 novembre 2007, n. 41538). In caso di invasione arbitraria di edifici costruiti da un appaltatore per conto dell'ex lacp e non ancora consegnati all'Istituto, la persona offesa, titolare del diritto di querela è l'appaltatore. Ai fini della procedibilità d'ufficio del reato di cui all'art. 633 c.p., l'uso della disgiuntiva nell'art. 633-bis (edifici pubblici o destinati a uso pubblico) pone il carattere pubblico come di per sè sufficiente a configurare la procedibilità d'ufficio, nel senso che è sufficiente che l'edificio sia di proprietà di un ente pubblico. A tal fine, si devono considerare pubblici, secondo la nozione che il legislatore penale ha mutuato dagli articoli 822 e seguenti del Cc, i beni appartenenti a qualsiasi titolo allo stato o a un ente pubblico, quindi non solo i beni demaniali, ma anche quelli facenti parte del patrimonio disponibile o indisponibile degli enti predetti. Mentre, sempre per la procedibilità d'ufficio, sono da considerare "destinati a uso pubblico" quegli altri beni che, pur in ipo0tesi appartenenti a privati, detta destinazione abbiano concretamente ricevuto (Corte Appello di Palermo, sent. 20-22 giugno 2011,n. 2351 in Guida al diritto n. 46 del 19 novembre 2011).
L'art. 634 c.p. - Turbativa violenta del possesso di cose immobili.
Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo 633 c.p., turba, con violenza alla persona o con minaccia, l'altrui pacifico possesso di cose immobili, è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa da euro 103 a euro 309. Il fatto si considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci persone. La maggior parte della dottrina ritiene che l'unica distinzione possibile sia quella che fa perno sull'elemento soggettivo: mentre nell'art. 633 è previsto il dolo specifico, per l'art. 634 è sufficiente il dolo generico. Di conseguenza si dovrà applicare l'art. 634 qualora vi sia un'invasione non qualificata dal fine di occupare i terreno e gli edifici o di trarne altrimenti profitto. Viceversa sussisterà la fattispecie di cui all'art. 633 anche nel caso di invasione violenta finalizzata all'occupazione o al profitto. La turbativa di cui all'art. 634 postula un comportamento minimo più grave della semplice introduzione (art. 637) e meno grave dell'invasione (art. 633). La nozione di turbativa deve intendersi come una non pregnante compromissione dei poteri del possessore. La semplice violenza sulle cose, che non sia usata per coartare l'altrui volontà, non basta ad integrare il reato. Peraltro il comma 2 dell'art. 634, parifica alla violenza alla persona e alla minaccia, la presenza di un numero di persone (che commettono il fatto) superiore a dieci. Si discute se si tratti di un delitto istantaneo o permanente. Prevale l'opinione che ritiene trattarsi di reato istantaneo, potendo assumere connotazione permanente allorchè la perturbazione richieda l'esperimento di una condotta prolungata nel tempo, sostenuta da costante volontà del soggetto agente (Manzini).
Come agire?
Il delitto di violazione di domicilio è permanente ed ammette l'arresto facoltativo in flagranza (art. 381, lett. f-bis c.p.p.) Anche il delitto di invasione al fine di occupazione (art. 633 c.p.) è permanente: la condotta criminosa perdura per tutto il tempo dell'occupazione e deve essere interrotta dalla polizia giudiziaria, che anche di propria iniziativa deve impedire che i reati vengano portati a ulteriore conseguenze (art. 55 cpp). Non appena i titolari del diritto sull'alloggio danno notizia dell'avvenuta invasione agli organi di pg questi ultimi, se dispongono delle forze necessarie, debbono procedere allo sgombero, senza necessità di attendere il provvedimento dell'Autorità. In ambedue i casi spetta al giudice valutare poi l'esistenza di eventuali esimenti.
Inerente l'occupazione abusiva di un immobile, pare opportuno inserire una breve digressione sulle azioni a tutela dei diritti di godimento e del possesso. Il panorama si presenta alquanto vario; troviamo, infatti, le azioni concesse al solo proprietario, quelle esperibili dal titolare di un diritto di godimento su cosa altrui o dal possessore in quanto tale. Tali azioni vengono qualificate come reali, in quanto offrono tutela per il solo fatto della violazione del diritto.
L'azione di rivendicazione, rientrante fra le azioni petitorie, tende ad ottenere il riconoscimento del diritto del proprietario sul bene e presuppone la mancanza del possesso da parte dello stesso; è imprescrittibile e richiede la dimostrazione del proprio diritto risalendo ad un acquisto a titolo originario.
L'azione negatoria è concessa al proprietario al fine di veder dichiarata l'inesistenza di diritti altrui sulla cosa o la cessazione di turbative o molestie; in questo caso al proprietario si richiede soltanto la prova, anche in via presuntiva, dell'esistenza di un titolo dal quale risulti il suo acquisto.
L'azione di regolamento di confini mira all'accertamento del proprio diritto nel caso in cui siano incerti i confini dello stesso rispetto a quello confinante; in tale ipotesi la prova del confine può essere data in qualsiasi modo. Nell'azione di apposizione di termini, al contrario, ciò che si richiede al Giudice è l'individuazione, tramite indicazioni distintive, dei segni di confine tra due fondi confinanti.
L'azione confessoria è volta a far dichiarare l'esistenza del proprio diritto contro chi ne contesti l'esercizio, e a far cessare gli atti impeditivi al suo svolgimento.
A difesa del possesso incontriamo le categorie delle azioni possessorie e di enunciazione: le prime si distinguono nell'azione di reintegrazione, che mira a far recuperare il bene a chi sia stato violentemente o clandestinamente spogliato del possesso, da proporsi entro un anno dallo spoglio, e l'azione di manutenzione, proposta al fine di far cessare le molestie e le turbative all'esercizio del diritto.
L'azione di manutenzione, al contrario di quella di reintegrazione, ha una funzione conservativa, poiché mira alla cessazione della molestia per conservare integro il possesso, e una funzione preventiva, poiché può essere esperita anche verso il solo pericolo di una molestia. Diversamente dalle azioni a difesa della proprietà, che impongono la prova del diritto, il possessore ha soltanto l'onere di dimostrare il possesso (in quanto questo prescinde dall'effettiva titolarità del diritto). Le azioni di enunciazione, con le quali si tende alla eliminazione di un pericolo proveniente dal fondo vicino, si distinguono nella denunzia di nuova opera e di danno temuto; esse, infatti, vengono qualificate come azioni inibitorie, cautelari, che possono dar luogo a provvedimenti provvisori.
ITALIA. SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.
Ma come sono cari (e di sinistra) i professionisti dell'accoglienza. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Che si ripete senza soluzione, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Dietro l'orrore, la pietà, lo scandalo, il buonismo, le tragedie del mare nascondono il business che non t'aspetti. Il giro d'affari del primo soccorso e dell'accoglienza. Da una parte i milioni di euro stanziati dall'Europa e dall'Italia, dall'altra la pletora di personaggi in attesa di incassare. Onlus, patronati, cooperative, professionisti dell'emergenza, noleggiatori di aerei e traghetti, perfino i poveri operatori turistici di Lampedusa: abbandonati dai vacanzieri si rassegnano a riempire camere d'albergo, appartamenti e ristoranti con agenti, volontari, giornalisti, personale delle organizzazioni non governative, della Protezione civile, della Croce rossa. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Nel 2011, l'anno più drammatico, gli sbarchi provocati dalle sanguinose rivolte nordafricane sono costati all'Italia un miliardo di euro. Ogni giorno le carrette del mare da Libia e Tunisia hanno scaricato in media 1.500 persone. Il governo dovette aumentare le accise sui carburanti per coprire parte di queste spese. E a qualcuno che sborsa corrisponde sempre qualcun altro che incassa. Bisogna gestire la prima accoglienza: acqua, cibo, vestiti, coperte, farmaci. Vanno organizzati i trasferimenti sul continente ed eventualmente i rimpatri; si aggiungono spese legali, l'ordine pubblico, l'assistenza (medici, psicologi, interpreti, mediatori culturali). Ma questo è soltanto l'inizio, perché moltissimi rifugiati chiedono asilo all'Italia. E l'Italia se ne fa carico, a differenza della Spagna che ordina di cannoneggiare i barconi e di Malta che semplicemente abbandona i disperati al loro destino. Nel triennio 2011/13 le casse pubbliche (ministero dell'Interno ed enti locali) hanno stanziato quasi 50 milioni di euro per integrare 3000 persone attraverso il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati. A testa fanno più di 5.000 euro l'anno. L'Europa soccorre soltanto in parte. Il finanziamento più cospicuo arriva dal Fondo europeo per le frontiere esterne destinato alle forze di sicurezza di confine (capitanerie di porto, marina militare, guardia di finanza): 30 milioni annui. Altri 14,7 milioni arrivano dal Fondo per l'integrazione, non riservato all'emergenza. Dal Fondo per i rimpatri piovono 7 milioni di euro. Poi c'è il Fondo per i rifugiati, che nel 2012 ha stanziato 7 milioni in via ordinaria più altri 5 per misure di emergenza. Tutti questi denari vanno considerati come co-finanziamento: si aggiungono cioè ai soldi che l'Italia deve erogare. Il fondo più interessante è quello per i rifugiati, che è tale soltanto di nome perché i veri destinatari dei 12 milioni di euro (sono stati 10 milioni nel 2008, 4,5 nel 2009, 7,2 nel 2010 e addirittura 20 nel fatidico 2011) sono Onlus, Ong, cooperative, patronati sindacali e le varie associazioni umanitarie che si muovono nel settore dell'immigrazione. Dal 2008, infatti, l'Europa ha stabilito che quel fiume di contributi vada «non più all'attività istituzionale per l'accoglienza, ma ad azioni complementari, integrative e rafforzative di essa». Anche queste, naturalmente, co-finanziate dal governo italiano. Le organizzazioni operano alla luce del sole, sono autorizzate dal ministero dell'Interno che deve approvare progetti selezionati attraverso concorsi pubblici. I soldi finiscono in fondi spese destinati non ai disperati ma a vitto e alloggio delle truppe di volontari e professionisti. Per la felicità degli albergatori lampedusani. Gli operatori sociali spiegano ai nuovi arrivati i loro diritti. Li mettono in contatto con interpreti, avvocati, mediatori da essi retribuiti. Organizzano la permanenza, li aiutano a restare in Italia o a capire come proseguire il loro viaggio della speranza. Fanno compilare agli sbarcati, che per la legge sono clandestini, un pacco di moduli per avere assistenza legale d'ufficio. Pochissime organizzazioni, e tra queste Terre des hommes e Medici senza frontiere, si fanno bastare i denari privati. A tutte le altre i soldi italo-europei servono anche a sostenere i rispettivi apparati, come gli uffici stampa, gli avvocati e gli attivisti per i diritti umani, per i quali martellare i governi finanziatori è una vera professione. E magari usano l'emergenza immigrazione come trampolino verso la politica.
Destra, sinistra e solidarietà. Come ci segnala un articolo de Il Redattore Sociale, la presenza del Terzo Settore nelle liste dei candidati alle prossime elezioni è piuttosto significativa: presidenti e direttori di molte importanti organizzazioni si presentano nelle liste di PD, SEL, Ingroia e Monti. Questo scrive Gianni Rufini su “La Repubblica”. Gianni Rufini, esperto di aiuto umanitario, ha lavorato in missioni di assistenza in quattro continenti e insegna in numerose università italiane e straniere. Se saranno eletti, buona parte dell’associazionismo e del movimento cooperativo dovrà rinnovare i propri vertici. Molto meno forte, la presenza del mondo della solidarietà internazionale. Ci sono personalità di rilievo, come gli ottimi Laura Boldrini e Giulio Marcon, ma non abbastanza – temo – da far nascere all’interno del parlamento un nucleo significativo di deputati e senatori che possano promuovere un rinnovamento della politica italiana in questo senso. Ma speriamo bene. Tutte queste persone si candidano con partiti di sinistra o di centro, mentre la destra è completamente assente. Se è vero che la sinistra è sempre stata più attenta a questi temi, sono profondamente convinto che questioni come la cooperazione, l’aiuto umanitario o i diritti umani siano assolutamente trasversali. Possono esserci visioni diverse sulle politiche in questi campi, ma dovrebbe esserci un’intesa di fondo per questioni che riguardano tutti i cittadini, di qualunque orientamento, in ogni regime politico. Purtroppo non è così. In altri paesi, esiste un “conservatorismo compassionevole” che ritiene moralmente doveroso impegnarsi in questi ambiti; si trovano politiche estere di destra che vedono comunque nella cooperazione uno strumento fondamentale; ci sono politiche sociali conservatrici che promuovono il volontarismo per ridurre il peso dello Stato; ci sono visioni del capitalismo che ritengono centrali, per il suo sviluppo, i diritti umani. Nella destra italiana sembra invece prevalere una visione che definirei “cattivista”. Sembra che da noi, per essere di destra bisogna necessariamente coltivare cattivi sentimenti: l’irrisione per i poveri, l’avidità, lo sprezzo del senso civico, il calpestamento dei diritti altrui. Cosa particolarmente strana, in un paese che ha una forte cultura cattolica e una storia importante di solidarietà unitaria, per esempio nei grandi disastri. E’ difficile comprendere la mutazione che ha portato la destra italiana a questa deriva antropologica. Forse è un altro dei residuati tossici dell’ultimo ventennio. Questo è un problema per l’Italia, per due ragioni: la prima è che quando si parla di diritti, di umanità, di relazioni con il mondo, si parla dell’identità profonda di un paese, e questa dovrebbe essere in massima parte condivisa dalle forze politiche. E poi, perché le strategie in questo campo esigono tempi lunghi, per produrre risultati, tempi di decenni. E non possono scomparire e ricomparire ad ogni cambio di governo. Credo che il lavoro più importante che dovranno fare quei colleghi che hanno deciso di impegnarsi in politica sia promuovere un cambiamento culturale dentro la politica, dentro il parlamento. Perché certi principi e certi valori diventino un patrimonio condiviso, al di là delle differenze ideologiche.
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Il livore del PD, SEL, CGIL e di tutta la loro costellazione di sigle nel Lazio nei confronti dell’Associazione Caponnetto. Perché? Preferiscono forse un’antimafia del bon ton diversa dalla nostra di indagine e denuncia? O avrebbero voluto che ci etichettassimo politicamente assoggettandoci ai loro interessi e facendo un’antimafia soft, più retorica e commemorativa, di parata insomma? Questo di chiede l’Associazione antimafia “Antonino Caponnetto”. Non che ci dispiaccia. Anzi, è tutto il contrario perché più stiamo lontani da queste nomenclature politiche screditate e più guadagniamo in credibilità. Pur tuttavia certe cose vanno annotate per far comprendere ai più sprovveduti e disinformati fino a che punto arrivano la bassezza, la vuotaggine, l’insulsaggine, l’insignificanza e l’irresponsabilità della classe dirigente del PD e del suo accoliti nella provincia di Latina e nel Lazio. Sono oltre 10 anni che il PD del Lazio e della provincia di Latina fa la guerra all’Associazione Caponnetto mostrando, peraltro, in maniera sfacciata di voler privilegiare Libera e solo Libera ed il suo modo di fare antimafia. Non abbiamo mai capito le ragioni di tanta ostilità. Forse perché abbiamo sempre dichiarato la nostra assoluta indipendenza da tutto e da tutti mentre il PD voleva che noi ci fossimo etichettati politicamente ed assoggettati ai suoi interessi? O perché il PD preferisce un modello di antimafia tutto bon ton, all’acqua di rose, culturale e basta, commemorativo e parolaio e niente affatto di indagine e denuncia, nomi e cognomi, come facciamo noi dell’Associazione Caponnetto? Non lo sappiamo e, a questo punto, nemmeno ci interessa saperlo più perché abbiamo preso atto di un dato di fatto incontrovertibile e consolidato: il PD ed i suoi accoliti combattono l’Associazione Caponnetto e riconoscono come propria referente ed amica solo LIBERA. Bene così per il PD, per tutti i suoi accoliti e per Libera. Se questa è l’antimafia che vuole il PD vadano avanti così ma non osino più parlare di lotta alle mafie perché li talloneremo e gli rinfacceremo di volta in volta che la lotta alle mafie non si fa come fanno lor signori che si limitano solo a parlarne senza affrontare e risolvere i problemi veri della lotta alla criminalità mafiosa. Brutto segnale quello che viene da questo partito che dimostra palesemente di non volere l’antimafia reale, quella effettiva, la vera antimafia, ma solo quella di parata, delle commemorazioni, del racconto del passato e via di questo passo. La guerra all’Associazione Caponnetto viene da lontano, dai tempi della Giunta Marrazzo alla Regione Lazio quando la Presidente della Commissione Criminalità -la PD ex DS Luisa Laurelli – volle escludere dai vari organismi consultivi della Regione la nostra Associazione facendo, al contempo, entrarvi sigle assolutamente inconsistenti ed esistenti solo sulla carta ma etichettate PD, oltre ovviamente a Libera. Cosa che si è ripetuta puntualmente all’Amministrazione Provinciale di Roma sotto la gestione Zingaretti, altro campione dell’antimafia parolaia e non di quella reale dell’indagine e della denuncia. Non che le nostre ripetute esclusioni ci siano dispiaciute, vista l’assoluta inutilità ed inerzia di tali organismi che si sono appalesate a posteriori come delle sole sparate propagandistiche senza alcuna efficacia. Evitiamo, per non tediare coloro che ci seguono, di raccontare i dettagli, i continui tentativi di isolarci (dal convegno organizzato sempre dal PD con Piero Grasso durante l’ultima campagna elettorale, con la partecipazione della Fondazione nostra omonima, a sostegno della candidatura dell’ex Procuratore Nazionale antimafia, convegno che, pur avendo visto la nostra esclusione - e ne siamo stati lieti perché era un convegno elettorale e di partito -, i relatori si sono visti costretti ad esaltare proprio l’opera dell’Associazione Caponnetto!!!; all’ultima proprio di stamane 21 giugno con il convegno promosso a livello provinciale e sempre a Gaeta dal Sindacato Pensionati Italiani della CGIL sui problemi della legalità, un convegno che ha visto la partecipazione in massa di elementi di Libera e basta). Potremmo citare altri esempi della faziosità – e, peraltro, anche dell’ottusità politica- della classe dirigente del PD e dei suoi accoliti di SEL (vi risparmiamo di raccontarvi il comportamento inqualificabile di Zaratti uomo di punta di SEL il quale durante una seduta della Commissione criminalità della Regione Lazio della quale era Presidente dopo la Laurelli non spese una sola parola in difesa dell’Associazione Caponnetto aggredita violentemente dal suo vicepresidente, un consigliere di destra di cui non ricordiamo il nome, quasi a mostrare un malcelato piacere -, della CGIL e così via. Ma tutto ciò non ci duole affatto. Anzi, il contrario. Perché tutto questo livore nei nostri confronti da parte del PD, SEL e di tutta la loro costellazione di sigle e siglette nei nostri confronti sta a provare che agiamo bene, che colpiamo bene, senza lacci e lacciuoli e che sono sempre di più coloro che hanno paura di noi in quanto probabilmente sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. Questo ovviamente ci ha fatto accendere una lampadina e ci induce a porci la domanda del “perché” di tale comportamento… Quando il cane ringhia rabbioso a difesa di una tana vuol dire che là dentro nasconde qualcosa di importante, la nidiata, un pezzo di carne… Ci lavoreremo… per scoprirlo. Poi, però, non si dica che siamo… cattivi o, peggio, faziosi anche noi.
“LIBERA” di nome ma non di fatto. E’ solo un problema politico, scrive l'associazione antimafia "Casa della legalità e della cultura Onlus della sicurezza sociale". E' difficile che le cose che non funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una sorta di “santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i problemi, anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci dicono che qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici domande e dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di cronaca, per elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che solo guardando in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli errori che troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie ed all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è Libera...
Perché criticate “LIBERA”, che universalmente è riconosciuta, da destra a sinistra, quale grande organizzazione antimafia?
«Innanzitutto bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione e quindi una reazione. Quindi... Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche bene.»
Ma questo può essere solo un modo diverso di combattere la stessa battaglia...
«Non è un discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa, da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come “antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare... Libera, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta dei finanziamenti che da a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese. Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza.»
Può essere un caso, non si può confondere il tutto con un caso.
«Prima di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi... Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco: Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”. Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto, che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni, sono fatti.»
Ma due casi su scala nazionale sono un’eccezione, non la prassi..
«Drammaticamente non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone qualche altro...Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri... quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI... cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà, sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito, omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della sanità legati alla Sacra Corona Unita. A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania. A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di quest'opera, entrarci con i subappalti. Quest'anno è toccato a Genova... Don Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime.»
Ma Libera non è una struttura indipendente?
«No! Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino. Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra, quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera! Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il “locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di Alessandria. A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia. Vi era un bene confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie! Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un fallimento devastante! Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi, con una firmetta antimafioso! Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra. Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna, presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la “colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse di Catania. A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato. Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere “di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono: indipendenti...Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere provinciale dei “Riformisti”... Nella Piana sanno chi è questo imprenditore, Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non era meglio disertare tale “evento”? A Genova, in occasione delle ultime elezioni amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata, apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha risposto: “No, perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo direi.”. Ecco: come possono gli esponenti locali di Libera sostenere un candidato che non ha studiato il problema, in una città dove da anni ed anni, ormai, i nomi e cognomi, le imprese ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti? Se mi si dice che lo si sosteneva perché “politicamente” è della loro parte, va bene, ma lo si dica! Se mi si dice che invece no, perché sono indipendenti, e lo sostenevano perché con lui si può combattere le mafie, allora non ci siamo, non c'è onestà intellettuale... e non solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti, abbastanza significativi, crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la delega ai Lavori Pubblici, c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del Municipio Valpolcevera, lo è stato per dieci anni. Quel territorio è quello maggiormente e storicamente, più colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è palpabile. Bene, Crivello per anni ha cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare” la questione. Eppure sappiamo che negare e minimizzare sono due linee pericolosissime, devastanti negli effetti che producono. L'altro fatto che vi racconto è questo: tra gli sponsor di Doria vi è l'architetto Giontoni, responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso locale, nel settore edile, della Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una cessione alla Cooperativa “Primo Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di Boccadasse dell'azienda per il trasporto pubblico locale (finalizzata alla realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex sindaco Pericu ed altri sui uomini sono stati condannati pesantemente dalla Corte dei Conti per i danni alle casse pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo Consiglio di Amministrazione tal Raffa Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop è stato nominato nei Cda delle aziende del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato è il cugino dei FOTIA, la famiglia della 'ndrangheta, riferimento nel savonese della cosca dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri dell'Abit-Coop sono stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER (ora interdetta e per cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di Bordighera con la loro omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa della DIA). Doria è stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!»
Ma da Genova non poteva “scattare” l'occasione delle svolta, dove Libera riaffermava la sua indipendenza...
«A Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con ordine con 5 esempi di fatti:
1) Libera è nata in Liguria fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il fronte anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle mafie nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai porticcioli, e contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli appalti, è stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in Liguria. Noi ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste dicono che bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì quel gruppo con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore Andrea NUCERA che dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il sequestro che avevamo sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in bancarotta ed è latitante. Bella colpa vero?
2) Libera organizzò una fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che hanno tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti con pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il Pdl degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando, Vincenzi, Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia, SEL dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di Cosa Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata, c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.
3) Libera a Genova ha visto mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo l'arresto del suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che il Presidente Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano denuncia i silenzi, le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a Genova ha perso la vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di centrosinistra... della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici Comuni della Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di organizzare dei bei convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati e tanti bei volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo dal Comune, degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti attenzionati o addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e agevolazioni date ai MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non parliamo delle varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso Lido, che poi abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del gruppo imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la concessione, poi annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste cose a Genova Nando non le nota... pare che soffra di una grave patologia di “strabismo”, così, da un lato, da il “patentino” antimafia alle amministrazioni, come quella di cui è consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia pubblica, gratuitamente, senza più le decine di migliaia di euro annui), promuovendo tante belle iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.
4) Vi è poi la pantomima con 6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della Mele. So che la questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita della Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni occasione elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il boss a cui sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di iniziative pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una bella inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale devastante dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come si è dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI, CANFAROTTA e ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la regia di Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti a noi ed agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle indagini che hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha elaborato un bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo dai a chi vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi perché una bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si dirami e bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è socialmente utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete, in cui poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività fossero scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la comunità e rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo riprendere alla comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla rete di Libera.»
Sì, ma promuovere i prodotti delle terre confiscate non è importante?
«Premettiamo una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi: perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati? L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera. Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come “paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o complesso.»
Ma anche qui si tratta di un caso, o comunque di casi isolati... le cooperative funzionano o no?
«Quelli che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e, purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora) macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato! Anche sul fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia! Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati. Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica “Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo, è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio, in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché “monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie clientelari.»
Ma perché tanta acredine verso Libera? Degli errori si possono fare. Avete provato a parlare con don Ciotti?
«Non c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili, riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine, odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata effettivamente, al di là della facciata.»
Il vertice di Libera quindi le sa queste cose? Ad esempio quelle sulla Liguria...
«Sì, le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI... poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa. Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici” del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi, con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di un’area dei MAMONE.»
Ma perché secondo voi è così pericolosa la strada imboccata da Libera?
«La questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà, né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione. Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale, che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso, incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla mafia.»
In che senso “grande illusione”?
«Antonino Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione, prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative “mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità, connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare? Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe.»
Ma l'azione di Libera arriva a molte persone, alla massa. Le vostre iniziative se pur incisive nell'azione di contrasto civile e, nel vostro caso, anche giudiziario, alle organizzazioni mafiose, le conoscono in pochi.
«Questo è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo: visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni esempi...Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala. Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di mimetizzazione. Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente manifestazioni antimafia. Chiaro? Ed ancora: dove facevano le riunioni gli 'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e Borsellino”! Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! La linea “ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E' pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera... magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante si sono garantiti la pax.»
Ma allora Libera...
«Libera dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E', come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di “educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!»
Non siete stati alla manifestazione della “Giornata della Memoria e dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...
«No, come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter “abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da “paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete, non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono, si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo di riflettere su queste. Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede, per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto, oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il “nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.»
Ma siete gli unici a dire queste cose?
«Assolutamente no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti “indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti. Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si da voce a chi guarda e parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far vivere ed operare, svanisce.»
Ma proprio nulla va in Libera, pare impossibile...
«Sarebbe ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.»
Ma perché, visto che vi sta a cuore Libera, non vi confrontate con Libera?
«Anche qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli esempi concreti. Andiamo con ordine...A Bologna un’associazione che fa parte di Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata! A Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato” per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta, che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione… fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un “atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza, atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...Se non sei dei loro non esisti e non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che, essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante, significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del “faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata, una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come, Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono, coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra presenza o non si presentano loro?»
Cosa vi aspettate dopo questa pubblicazione?
«Vorremmo dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.»
ITALIA: PAESE ZOPPO.
Roberto Gervaso: terapie per un Paese zoppo. Il nuovo libro racconta l’ultimo secolo dell’Italia. Senza sconti a Grillo, Berlusconi, Renzi, Napolitano...La lezione è quella, come lo stesso Roberto Gervaso racconta a Stefania Vitulli di “Panorama”, appresa da Montanelli, Prezzolini, Buzzati, Longanesi. E quanto questa lezione sia ancora inedita e scomoda nell’Italia contemporanea lo dimostra il suo nuovo libro, Lo stivale zoppo. Una storia d’Italia irriverente dal fascismo a oggi. Nella lista dei nomi che ritroviamo alla fine del volume non manca nessuno: Abu Abbas, Agnelli e Alberto da Giussano aprono un elenco alfabetico che si conclude con Zaccagnini, Zeman e Zingaretti. Nel mezzo, l’ultimo secolo di storia di un Paese a cui Gervaso non risparmia ricostruzioni accurate dei fatti e verità dure da accettare.
Che cosa c’è di nuovo in questo libro?
«Le cose che ho sempre detto. Solo che ora le dico con furia. Perché, se non si fa una diagnosi spietata, l’Italia non avrà mai né terapia né prognosi.»
Filo conduttore?
«La storia di un Paese senza carattere, che sta ancora in piedi perché non sa da che parte cadere.»
Si parte dalla Conferenza di Versailles...
«Sì, perché l’Ottocento finisce nel 1919, e quell’anno getta il seme dei fascismi. Suggellò la Prima guerra mondiale, caddero quattro imperi, nacquero le grandi dittature e l’America soppiantò l’Europa nella leadership mondiale.»
E l’Italia?
«Ha vinto una guerra nelle trincee e sulla carta ma l’ha perduta in diplomazia, società, economia. Era divisa fra le squadracce nere all’olio di ricino e quelle rosse che volevano imporre i soviet. Partiti dilanianti e latitanti, i poteri forti scelsero i fasci nell’illusione di addomesticare Benito Mussolini.»
Che si affacciò al balcone...
«Tutto era a pezzi, tutto in vendita. Oggi la situazione non è certo migliore del 1922.»
Partiti dilanianti e latitanti?
«Non hanno mai litigato tanto. La sinistra è un’insalata russa senza maionese, la destra una macedonia di frutta con troppo maraschino giudiziario. Il Paese è a un bivio: il balcone o la colonia.»
Sarebbe a dire?
«O qualcuno si leva dalla folla interpretando l’incazzatura della gente, si affaccia al balcone e dichiara: «Il carnevale è finito», oppure diventiamo una colonia delle grandi potenze europee o di quelle emergenti, come la Cina. La moda italiana, tranne pochi del nostro Paese, si divide tra François Pinault e Bernard Arnault; l’alimentare è in mano ai francesi, la meccanica è dei tedeschi, gli alberghi diventano spagnoli...»
E gli italiani non se ne accorgono?
«Abbiamo un’ancestrale vocazione al servaggio. Gli italiani se ne infischiano della libertà, le hanno sempre anteposto il benessere. L’uguaglianza non esiste: è l’utopia dell’invidia.»
Ma che cosa ci deve capitare di ancora più grave?
«L’Italia ha sempre dato il meglio di sé in ginocchio, con le spalle al muro, l’acqua alla gola e gli occhi pieni di lacrime. Nell’emergenza risorgeremo.»
Come si chiama questa malattia?
«Mancanza di senso dello stato. Al massimo abbiamo il senso del campanile. L’italiano non crede in Dio ma in San Gennaro, Sant’Antonio, San Cirillo. A condizione che il miracolo non lo faccia agli altri ma a se stesso.»
La cura?
«Utopistica: che ognuno faccia il proprio dovere e magari sacrifici. Che devono cominciare dall’alto.»
E parliamo di chi sta in alto. Mario Monti?
«Un economista teorico, un apprendista politico che ha fatto un passo falso e fatale. Si fosse dimesso alla scadenza del mandato, sarebbe al Quirinale. Deve cambiare mestiere: la politica non è affar suo e temo che non lo sia nemmeno l’economia.»
Beppe Grillo?
«Un Masaniello senza competenza politica, collettore dei voti di protesta. Se si instaurasse una seria democrazia, sparirebbero i grillini, che vogliono la riforma della Costituzione senza averla letta.»
Enrico Letta?
«Un giovane vecchio democristiano, serio e competente, ma senza quel quid che fa di un politico un leader o uno statista, cosa che, fra l’altro, non ha mai preteso. Un buon governante.»
Matteo Renzi?
«Un pallone gonfiato sottovuoto spinto. Un puffo al Plasmon che recita una parte che vorrebbe incarnare ma non è la sua. Se lo si guarda bene quando parla e si muove, si vede che non c’è niente di spontaneo. Ha una virtù: il coraggio. Più teorico che pragmatico, però, perché oggi va a braccetto con Walter Veltroni. Non è un rottamatore, è un illusionista.»
Veltroni?
«Un perdente di successo, ormai attempato e fuori dai tempi. Che ha cercato di conciliare Kennedy e Che Guevara.»
Pier Luigi Bersani?
«Un paesano. Un contadino abbonato a Frate Indovino, che parla per proverbi.»
Massimo D’Alema?
«Un uomo di grandi intuizioni. Tutte sbagliate.»
Silvio Berlusconi?
«Un grande leader d’opposizione. Che sa vincere le elezioni e ama il potere. Ma non la politica.»
Giorgio Napolitano?
«Ottimo presidente della Repubblica. Che conserva una foto dei carri armati che invasero l’Ungheria nel ’56. La tiene in cassaforte e la mostra solo ai compagni.»
Cultura a sinistra, Paese a destra Una «strana» Italia divisa in due. Il vizio d'origine? Un'agenda politica, dettata da un antifascismo non sempre democratico, che trova riscontro solo nelle élite, scrive Roberto Chiarini su “Il Giornale”. Pubblichiamo qui uno stralcio della Premessa del nuovo saggio dello storico Roberto Chiarini Alle origini di una strana Repubblica. Perché la cultura politica è di sinistra e il Paese è di destra. Un libro che spiega i mali che affliggono l'Italia, risalendo alla formazione della democrazia a partire dalla caduta del fascismo. I tratti originari della nostra Repubblica hanno reso operante la democrazia ma, alla distanza, l'hanno anche anchilosata. L'antifascismo ha comportato l'operatività di una precisa sanzione costrittiva del gioco democratico, sanzione controbilanciata presto sul fronte opposto da una opposta e simmetrica, l'anticomunismo. Destra e sinistra si sono trovate in tal modo, invece che protagoniste - come altrove è «normale» - della dialettica democratica, solo comprimarie, stabilmente impedite da una pesante delegittimazione ad avanzare una candidatura in proprio per la guida del paese. Da ultimo, la configurazione di un «paese legale» connotato da una pregiudiziale antifascista e di un «paese reale» animato da un prevalente orientamento anticomunista ha comportato una palese, stridente assimetria tra una società politica orientata a sinistra in termini sia di specifico peso elettorale che di obiettivi proposti e un'opinione pubblica molto larga - una maggioranza silenziosa? - per nulla disposta a permettere svolte politiche di segno progressista. L'emersione nel 1994, grazie al passaggio a un sistema tendenzialmente bipolare, della «destra occulta» rimasta per un cinquantennio senza rappresentanza politica diretta ha risolto solo a metà il problema. È rimasta l'impossibilità per una forza politica mantenuta - e tenutasi - nel ghetto per mezzo secolo di esprimere di colpo una cultura, un disegno strategico, una classe dirigente all'altezza del ruolo di comprimaria della sinistra. Al deficit di maturità democratica ha aggiunto, peraltro, un'inclinazione a secondare posizioni vuoi etno-regionaliste (se non dichiaratamente separatiste) inconciliabili con l'ambizione di costruire una forza politica di respiro nazionale, vuoi populistico-plebiscitarie in aperta dissonanza con la destra liberale europea. Tutto ciò ha offerto il destro - e l'alibi - alla sinistra per persistere in una battaglia di demonizzazione dell'avversario, contribuendo in tal modo a rinviare una piena rigenerazione di questa «strana democrazia», normale a parole ma ancora in larga parte prigioniera di comportamenti ispirati alla delegittimazione del nemico. A pagarne le conseguenze continuano a essere non solo destra e sinistra, ma anche le istituzioni democratiche, ingessate come sono in un confronto polarizzato che ha finito con il comprometterne la capacità operativa, soprattutto sul fronte delle importanti riforme di cui il Paese ha un disperato bisogno. Il risultato è stato di erodere pesantemente la credibilità e persino la rappresentatività delle stesse forze politiche. Lo scontento e la disaffezione insorti per reazione non potevano non ridare nuova linfa a una disposizione stabilmente coltivata dall'opinione pubblica italiana, conformata a un radicato pregiudizio sfavorevole alla politica. Una disposizione che ha accompagnato come un fiume carsico l'intera vicenda politica repubblicana sin dal suo avvio, tanto da rendere «il qualunquismo (...) maggioritario nell'Italia repubblicana, sia presso il ceto intellettuale che presso l'opinione pubblica» (Sergio Luzzatto). Una sorta di controcanto, spesso soffocato, al predominio incontrastato dei partiti. S'è detto che la funzione dei partiti è cambiata nel tempo divenendo da maieutica a invalidante della democrazia, da leva per una politicizzazione della società a strumento di occupazione dello Stato e, per questa via, a stimolo dell'antipolitica così come la loro rappresentatività da amplissima si è progressivamente inaridita. Parallelamente anche le forme, i contenuti, gli stessi soggetti interpreti dell'antipolitica si sono trasformati nel corso di un sessantennio. Da Giannini a Grillo, la critica alla partitocrazia ha avuto molteplici voci (da Guareschi a Montanelli fino a Pannella) e solleticato svariati imprenditori politici a valorizzarne le potenzialità elettorali (dal Msi alla Lega, alla stessa Forza Italia, passando per le incursioni sulla scena politica di movimenti poi rivelatisi effimeri, come la Maggioranza Silenziosa dei primissimi anni settanta o i «girotondini» di pochi anni fa). Costante è stata la loro pretesa/ambizione di offrire una rappresentanza politica all'opinione pubblica inespressa e/o calpestata dai partiti, facendo leva sulla polarità ora di uomo qualunque vs upp (uomini politici professionali) ora di maggioranza silenziosa vs minoranza rumorosa, ora di Milano «capitale morale» vs Roma «capitale politica», ora di cittadini vs casta. Altro punto fermo è stato la denuncia dello strapotere e dell'invadenza dei partiti accompagnata spesso dall'irrisione demolitoria della figura del politico strutturato nei partiti, poggiante sull'assunto che la politica possa - anzi, debba - essere appannaggio di cittadini comuni. Un significativo elemento di discontinuità s'è registrato solo negli ultimi tempi. L'antipartitismo prima attingeva a un'opinione pubblica - e esprimeva istanze - marcatamente di destra, per quanto l'etichetta fosse sgradita. A partire dagli anni Novanta, viceversa, l'antipolitica mostra di attecchire anche presso il popolo di sinistra. Un'antipolitica debitamente qualificata come «positiva» e inserita in un «orizzonte virtuoso», comunque non meno accesamente ostile nei confronti della «nomenk1atura spartitoria», della «degenerazione della politica in partitocrazia», dell'«occupazione dello Stato e della cosa pubblica», dell'«arroccamento corporativo della professione politica». È l'antipolitica che ha trovato la sua consacrazione nel M5S, rendendo l'attacco al «sistema dei partiti» molto più temibile e imponendo all'agenda politica del paese l'ordine del giorno del superamento insieme dell'asimmetria storica esistente tra paese legale e paese reale e del ruolo protagonista dei partiti nella vita delle istituzioni.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
Lunedì 12 luglio 2010. Il tribunale di Milano condanna in primo grado il generale Giampaolo Ganzer a 14 anni di prigione, 65mila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici per traffico internazionale di droga, scrive Mario Di Vito su “Eilmensile”. Il processo andava avanti da cinque anni e nella sua storia poteva contare sul numero record di oltre 200 udienze. La sentenza racconta di un Ganzer disposto a tutto pur di fare carriera, in una clamorosa lotta senza quartiere al narcotraffico. Una lotta che – sostiene il tribunale – passava anche per l’importazione, la raffinazione e la vendita di quintali di droga. Il fine giustifica i mezzi, si dirà. Ma, intanto, l’accusa chiese 27 anni di prigione per il “grande servitore dello Stato”, che “dirigeva e organizzava i traffici”. L’indagine su Ganzer nacque per merito del pm Armando Spataro che, nel 1994, ricevette dal generalissimo l’insolita richiesta di ritardare il sequestro di 200 chili di cocaina. Il Ros sosteneva di essere in grado di seguire il percorso dello stupefacente fino ai compratori finali. Spataro firmò l’autorizzazione, ma i i carabinieri procedettero comunque, per poi non dare più notizia dell’operazione per diversi mesi, cioè fino a quando, di nuovo Ganzer se ne uscì con la proposta di vendere il carico di cocaina sequestrata a uno spacciatore di Bari. Spataro – verosimilmente con gli occhi fuori dalle orbite – ordinò la distruzione immediata di tutta la droga. Quasi vent’anni dopo, la procura di Milano avrebbe sostenuto che i carabinieri agli ordini di Ganzer fossero al centro di un traffico enorme e “le brillanti operazioni non erano altro che delle retate di pesci piccoli messe in atto per gettare fumo negli occhi dell’opinione pubblica”. La prima vera, grande, pietra miliare dell’inchiesta è datata 1997, cioè, quando il giudice bresciano Fabio Salamone raccolse la testimonianza di un pentito, Biagio Rotondo, detto “il rosso”, che gli raccontò di come alcuni agenti del Ros lo avvicinarono nel 1991 per proporgli di diventare una gola profonda dall’interno del mercato della droga. Rotondo si sarebbe poi suicidato in carcere a Lucca, nel 2007. Secondo l’accusa, i “confidenti del Ros” – reclutati a decine per tutti gli anni ’90 – erano degli spacciatori utilizzati come tramite con le varie organizzazioni malavitose. L’indagine – che negli anni è stata rimpallata tra Brescia, Milano, Torino, Bologna e poi di nuovo Milano, con centinaia di testimonianze e migliaia di prove repertate– sfociò nella condanna del generalissimo e di altri membri del Reparto, che, comunque, sono riusciti tutti ad evitare le dimissioni – e il carcere – poiché si trattava “solo” di una sentenza di primo grado. Il nome di Ganzer viene messo in relazione anche con uno strano suicidio, quello del 24enne brigadiere Salvatore Incorvaia che, pochi giorni prima di morire, aveva detto al padre Giuseppe, anche lui ex militare, di essere venuto a conoscenza di una brutta storia in cui erano coinvolti “i pezzi grossi”, addirittura “un maresciallo”. Incorvaia sarebbe stato ritrovato cadavere il 16 giugno 1994, sul ciglio di una strada, con un proiettile nella tempia che veniva dalla sua pistola di ordinanza. Nessuno ebbe alcun dubbio: suicidio. Anche se il vetro della macchina di Incorvaia era stato frantumato, e non dal suo proiettile – dicono le perizie – che correva nella direzione opposta. Altra brutta storia che vede protagonista Ganzer – questa volta salvato dalla prescrizione – riguarda un carico di armi arrivato dal Libano nel 1993: 4 bazooka, 119 kalashnikov e 2 lanciamissili che, secondo l’accusa, i Ros avrebbero dovuto vendere alla ‘ndrangheta. Zone d’ombra, misteri, fatti sepolti e mai riesumati. Tutte cose che ora non riguarderanno più il generale Giampaolo Ganzer, già proiettato verso una vecchiaia da amante dell’arte. Fuori da tutte quelle vicende assurde, ma “nei secoli fedele”.
«Traditore per smisurata ambizione». Questa una delle motivazioni per le quali i giudici dell’ottava sezione penale di Milano hanno condannato a 14 anni di carcere il generale del Ros Giampaolo Ganzer, all’interdizione dai pubblici uffici e alla sanzione di 65 mila euro, scrive “Il Malcostume”. Erano i giorni di Natale del 2010 quando arrivò questa incredibile sentenza di primo grado. Secondo il Tribunale, il comandante del Reparto operativo speciale dell’arma, fiore all’occhiello dei Carabinieri, tra il 1991 e il 1997 «non si è fatto scrupolo di accordarsi con pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia decine di chili di droga garantendo loro l’assoluta impunità», dunque «Ganzer ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di rispettare e fare rispettare la legge». Tutto questo possibile perché «all’interno del raggruppamento dei Ros c’era un insieme di ufficiali e sottufficiali che, in combutta con alcuni malavitosi, aveva costituito un’associazione finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso, al fine di fare una rapida carriera». La pm Maria Luisa Zanetti aveva chieso 27 anni per il generale Ganzer, ma il tribunale aveva ridotto la condanna a 14 anni, in quanto la Corte presieduta da Luigi Capazzo non ha riconosciuto il reato di associazione a delinquere. Ma non ha concesso nemmeno le attenuanti generiche all’alto ufficiale, in quanto «pur di tentare di sfuggire alle gravissime responsabilità della sua condotta, Ganzer ha preferito vestire i panni di un distratto burocrate che firmava gli atti che gli venivano sottoposti, dando agli stessi solo una scorsa superficiale». Secondo i giudici, inoltre «Ganzer non ha minimamente esitato a fare ricorso a operazioni basate su un metodo assolutamente contrario alla legge ripromettendosi dalle stesse risultati di immagine straordinari per sé stesso e per il suo reparto». 17 i condannati nel processo, tra cui il narcotrafficante libanese Jean Bou Chaaya (tuttora latitante) e molti carabinieri: il colonnello Mario Obinu (ai servizi segreti) con 7 anni e 10 mesi, 13 anni e mezzo a Gilberto Lovato, 10 anni a Gianfranco Benigni e Rodolfo Arpa, 5 anni e 4 mesi a Vincenzo Rinaldi, 5 anni e 2 mesi a Michele Scalisi, 6 anni e 2 mesi ad Alberto Lazzeri Zanoni, un anno e mezzo a Carlo Fischione e Laureano Palmisano. La clamorosa condanna del generale Ganzer fu accolta tra il silenzio dell’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa, la solidarietà dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni e la difesa dell’ex procuratore antimafia Pierluigi Vigna, benché questa brutta vicenda che “scuote l’arma” avrebbe dovuto portare alla sospensione della carica e quindi del servizio di Ganzer, in ottemperanza all’articolo 922 del decreto legislativo 15 marzo 2010, la cosiddetta “norma di rinvio” che dice: “Al personale militare continuano ad applicarsi le ipotesi di sospensione dall’impiego previste dall’art 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97” che attiene alle “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche” e che all’articolo 4 dice espressamente: “In caso di condanna, anche non definitiva, per alcuno dei delitti indicati all’articolo 3 comma 1, i dipendenti sono sospesi dal servizio”. Tra i delitti considerati c’è pure il peculato, reato contemplato nella sentenza a carico di Ganzer. Eppure, da allora, il generale Ganzer è rimasto in carica nonostante “I Carabinieri valutano il trasferimento“, malgrado i numerosi appelli alla responsabilità e all’opportunità delle dimissioni giunti da più parti. Ganzer non ha mai mollato la poltrona e nessun ministro (La Russa allora, Di Paola poi) gli ha fatto rispettare la legge, a parte un’interrogazione parlamentare del deputato radicale Maurizio Turco. Ganzer ha continuato a dirigere il Ros, ad occuparsi di inchieste della portata di Finmeccanica, degli attentatori dell’ad di Ansaldo Roberto Adinolfi, senza contare le presenze ai dibattiti sulla legalità al fianco dell’ex sottosegretario del Pdl Alfredo Mantovano, suo grande difensore. Proprio in questi giorni l’accusa in un processo parallelo, ha chiesto 8 anni di condanna per Mario Conte, ex pm a Bergamo che firmava i decreti di ritardato sequestro delle partite di droga per consentire alla cricca di militari guidati da Ganzer di poterla rivendere ad alcune famiglie di malavitosi. La posizione di Conte era stata stralciata per le sue precarie condizioni di salute. Ebbene, in attesa della sentenza e senza un solo provvedimento di rimozione dall’incarico anche a protezione del buon nome del Ros, ora Ganzer lascia il comando del Reparto. Non per l’infamante condanna. Ma “per raggiunti limiti d’età” . Ganzer lascerà il posto al generale Mario Parente per andare in pensione. Da «Traditore per smisurata ambizione» a fruitore di (smisurata?) pensione. Protetto dagli uomini delle istituzioni e alla faccia di chi la legge la rispetta.
E poi ancora. Sono stati arrestati dai loro stessi colleghi, per il più odioso dei reati, quello di violenza sessuale, ancora più odioso perché compiuto su donne sotto la loro custodia, una delle quali appena maggiorenne. A finire nei guai tre agenti di polizia in servizio a Roma raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dalla Procura della capitale ed eseguita dagli agenti della Questura.
Ed ancora. Erano un corpo nel corpo. Sedici agenti della Polizia Stradale di Lecce sono stati arrestati con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al falso ideologico e alla concussione ambientale. I poliziotti erano 20 anni che, stando alle accuse, omettevano i controlli ai mezzi di trasporto di circa 100 ditte del Salento in cambio di denaro e merce varia. Dalle intercettazioni telefoniche è emerso che ogni agente racimolasse da questa attività extra qualcosa come 40.000 euro ogni 3 anni . Il “leader” dell’ organizzazione sarebbe l’ ispettore capo Francesco Reggio, 57 anni, leccese. Nel corso di una telefonata intercettata Reggio si sarebbe complimentato con un suo collega che, grazie alle somme intascate, sarebbe andato anticipatamente in pensione. L’ indagine è partita solo quando sulla scrivania del procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, è arrivata una denuncia anonima contenente i nomi degli agenti e delle ditte coinvolte. Un’ altra lettera, questa volta non anonima, arrivata successivamente in Procura è partita invece proprio dall’interno della sezione di Polizia Stradale di Lecce.
Ed Ancora. Tre agenti di
polizia e cinque immigrati sono stati arrestati dalla Squadra Mobile della
Questura di
Venezia nell'ambito di un'inchiesta che ha accertato il rilascio di permessi di
soggiorno in mancanza di requisiti di legge, sulla base di documentazione
falsificata.
Ed Ancora. Arrestati due carabinieri nel Barese, chiedevano soldi per chiudere un occhio. Facevano coppia, sono stati bloccati dai loro colleghi del comando provinciale di Bari e della squadra mobile del capoluogo. A due ragazzi fermati durante un controllo anti-prostituzione avevano chiesto denaro prospettando una denuncia per sfruttamento.
Ecc. Ecc. Ecc.
G8 Genova. Cassazione: "A Bolzaneto accantonato lo Stato di Diritto". La Suprema corte rende note le motivazioni della sentenza dello scorso 14 giugno 2013. "Contro i manifestanti portati in caserma violenze messe in atto per dare sfogo all'impulso criminale". "Inaccoglibile", secondo la Quinta sezione penale, "la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle", scrive "Il Fatto Quotidiano". Un “clima di completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto”. La Cassazione mette nero su bianco quello che accadde nella caserma di Bolzaneto dove furono portati i manifestanti no global arrestati e percossi durante il G8 di Genova nel luglio del 2001: “Violenze senza soluzione di continuità” in condizioni di “assoluta percettibilità visiva e auditiva da parte di chiunque non fosse sordo e cieco”. Nelle 110 pagine depositate oggi dalla Suprema corte si spiega perché, lo scorso 14 giugno 2013, sono state rese definitive sette condanne e accordate quattro assoluzioni per gli abusi alla caserma contro i manifestanti fermati. La Cassazione ha così chiuso l’ultimo dei grandi processi sui fatti del luglio 2001. Nel precedente verdetto d’appello, i giudici avevano dichiarato prescritti i reati contestati a 37 dei 45 imputati originari tra poliziotti, carabinieri, agenti penitenziari e medici – riconoscendoli comunque responsabili sul fronte dei risarcimenti. Risarcimenti che però la sentenza definitiva ha ridotto. I giudici puntano il dito contro chi era preposto al comando: “Non è da dubitarsi che ciascuno dei comandanti dei sottogruppi, avendo preso conoscenza di quanto accadeva, fosse soggetto all’obbligo di impedire l’ulteriore protrarsi delle consumazioni dei reati”. Oltretutto, scrive la Cassazione “non risulta dalla motivazione della sentenza che vi fossero singole celle da riguardare come oasi felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la posizione vessatoria, non volassero calci, pugni o schiaffi al minimo tentativo di cambiare posizione, non si adottassero le modalità di accompagnamento nel corridoio (verso il bagno o gli uffici) con le modalità vessatorie e violente riferite” dai testimoni ascoltati nel processo. I giudici di piazza Cavour denunciano come il “compimento dei gravi abusi in danno dei detenuti si fosse reso evidente per tutto il tempo, data l’imponenza delle risonanze vocali, sonore, olfattive e delle tracce visibili sul corpo e sul vestiario delle vittime”. Ecco perché, osserva la Quinta sezione penale, è “inaccoglibile la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle, e anche nel corridoio durante gli spostamenti, ai danni di quei detenuti sui quali i sottogruppi avrebbero dovuto esercitare la vigilanza, anche in termini di protezione della loro incolumità”.
La Cassazione descrive inoltre i comportamenti inaccettabili di chi aveva il comando e non ha mosso un dito per fermare le violenze sui no global: “E’ fin troppo evidente che la condotta richiesta dei comandanti dei sottogruppi consisteva nel vietare al personale dipendente il compimento di atti la cui illiceità era manifesta: ciò non significa attribuire agli imputati una responsabilità oggettiva, ma soltanto dare applicazione” alla norma che regola “la posizione di garanzia da essi rivestita in virtù della supremazia gerarchica sugli agenti al loro comando”. Erano poi “ingiustificate” le vessazioni ai danni dei fermati “non necessitate dai comportamenti di costoro e riferibili piuttosto alle condizioni e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all’area dei no global”, si legge nelle motivazioni. Insomma, conclude la Suprema corte, le violenze commesse alla caserma di Bolzaneto sono state un “mero pretesto, un’occasione per dare sfogo all’impulso criminale“.
Scaroni, l'ultras reso invalido dalla polizia: "Dopo anni aspetto giustizia". Il giovane tifoso del Brescia il 24 settembre del 2005 è stato ridotto in fin di vita alla stazione di Verona dagli agenti. Nella sentenza di primo grado i giudici hanno stabilito la responsabilità delle forze dell'ordine ("hanno picchiato con il manganello al contrario"), ma nessuna possibilità di individuare le responsabilità personali. Per questo gli imputati sono stati tutti assolti, scrive David Marceddu su "Il Fatto Quotidiano". ”Sai cosa? Secondo me quel giorno alla stazione di Verona cercavano il morto”. Paolo Scaroni a otto anni esatti da quel pomeriggio di fine estate in cui la sua vita è totalmente cambiata, alcune idee le ha chiare. Sa che lui, che ne è uscito miracolosamente vivo, è uno dei pochi che può, e deve, raccontare. ”Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, me lo dice sempre: io posso essere quella voce che altri non hanno più”, spiega a ilfattoquotidiano.it. Per il giovane tifoso del Brescia, ridotto in fin di vita a colpi di manganello da agenti di polizia il 24 settembre 2005, per tragica coincidenza proprio la sera prima dell’omicidio di “Aldro” a Ferrara, la battaglia nelle aule di giustizia continua: il pubblico ministero della procura scaligera, Beatrice Zanotti ha presentato a fine aprile il ricorso in appello contro l’assoluzione di sette poliziotti del Reparto mobile di Bologna. Per la sentenza di primo grado a pestare l’ultras dopo la partita tra Hellas e Brescia furono sicuramente dei poliziotti, ma non c’è la prova che siano stati proprio Massimo Coppola, Michele Granieri, Luca Iodice, Bartolomeo Nemolato, Ivano Pangione, Antonio Tota e Giuseppe Valente, e non invece altri appartenenti alla Celere (l’ottavo imputato, un autista, è stato scagionato per non aver commesso il fatto). Erano 300 in stazione quel pomeriggio tutti in divisa, tutti col casco, irriconoscibili. Paolo Scaroni, 36 anni, fino al ”maledetto giorno” era un fiero allevatore di tori. Ora, invalido al 100%, dalla sua casa di Castenedolo dove abita con la moglie, lotta giorno per giorno per ritrovare una vita un po’ normale. Adesso potrà forse avere un risarcimento: ora che un giudice ha detto che quello fu un ”pestaggio gratuito”, ”immotivato rispetto alle esigenze di uso legittimo della forza, di un giovane, con danni gravissimi allo stesso”, avere qualcosa indietro dallo Stato potrebbe essere più facile. Il giudice infatti dice che non ci sono prove sull’identità dei poliziotti colpevoli, ma sulla responsabilità della Polizia non ci sono dubbi. ”E finora, anche se proprio in questi giorni lo Stato ha avviato con me una sorta di trattativa, non ho avuto neanche un euro”. Per tutti questi anni Scaroni è stato omaggiato da migliaia di tifosi in tutta Italia, che ne hanno fatto un simbolo delle ingiustizie subite dal mondo ultras. Lui, che ormai raramente va allo stadio, si gode questa vicinanza, ma lamenta la lontananza delle autorità: ”Solo il questore di Brescia mi ha fatto sentire la sua solidarietà. Avevo scritto a Roberto Maroni quando era ministro dell’Interno, persino al Papa. Niente”. Paolo porta sul suo corpo i segni di quel giorno. La diagnosi dei medici non lasciava molte speranze: ”Trauma cranio cerebrale. Frattura affondamento temporale destra. Voluminoso ematoma extradurale temporo parietale destro”. Una persona spacciata: ”Il medico legale si spaventò perché nonostante fossi in fin di vita non avevo un livido nel corpo. Avevano picchiato solo in testa”. E avevano picchiato, certifica il giudice Marzio Bruno Guidorizzi, ”con una certa impugnatura” del manganello ”al contrario”.
Diritti umani, governo Usa attacca l'Italia: “Polizia violenta, carceri invivibili, Cie, femminicidio…”. Un dossier governativo analizza la situazione di 190 Paesi. Nel nostro, sotto accusa forze dell'ordine, carceri, Cie, diritti dei rom, violenza sulle donne..., scrive “FanPage”. Secondo il Governo americano i “principali problemi risiedono nelle condizioni dei detenuti, con le carceri sovraffollate, la creazione dei Cie per i migranti, i pregiudizi e l'esclusione sociale di alcune comunità”. Senza dimenticare “l'uso eccessivo della forza da parte della polizia, un sistema giudiziario inefficiente, violenza e molestie sulle donne, lo sfruttamento sessuale dei minori, le aggressioni agli omosessuali, bisessuali e trans e la discriminazione sui luoghi di lavoro sulla base dell'orientamento sessuale”. Al sud, denunciati anche i casi di sfruttamento di lavoratori irregolari. Il prende in esame il caso di Federico Aldrovandi e quello di Marcello Valentino Gomez Cortes, entrambi uccisi a seguito di normali controlli di polizia. Ma si critica anche l'assenza del reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico e le violenze che subiscono autori di piccoli reati da parte di alcuni agenti. Sotto accusa anche i rimpatri forzati degli immigrati irregolari, oppure la loro detenzione nei centri di identificazione ed espulsione: “Il 24 maggio decine di detenuti in un centro di Roma sono stati coinvolti in una rivolta contro quattro guardie, che hanno utilizzato gas lacrimogeni per impedirne la fuga. L'episodio ha seguito le proteste della settimana precedente nei Cie di Modena e Bologna. Un rapporto del Comitato dei Diritti Umani del Senato ha denunciato la promiscuità tra adulti e minori, il sovraffollamento, i lunghi periodi di detenzione e l'inadeguato accesso di avvocati e mediatori culturali”. Sotto accusa anche le frequenti discriminazioni ai danni dei cittadini romanì: “Le violenze nei confronti di rom, sinti e camminanti rimangono un problema. Durante il 2012 le popolazioni rom sono state sottoposte a discriminazioni da parte di autorità comunali, soprattutto attraverso sgomberi forzati non autorizzati”. Naturalmente il report governativo non tralascia le violenze sulle donne, il femminicidio, l'antisemitismo e il lavoro nero.
Polizia violenta, la garanzia dell'anonimato. In Europa gli agenti portano un codice personale sulla divisa. In Italia no. E, in caso di abusi, non sono identificabili, scrive di Alessandro Sarcinelli su “Lettera 43. Sarebbero bastati tre numeri e tre lettere sulla divisa e sul casco dei poliziotti in tenuta anti-sommossa. Sarebbe bastato un semplice codice alfanumerico e Lorenzo Guadagnucci, giornalista del Quotidiano Nazionale, avrebbe potuto denunciare chi a manganellate gli spaccò entrambe le braccia, la notte del 21 luglio 2001 alla scuola Diaz durante il G8. Invece non ha mai saputo chi stava dietro la furia incontrollata dei manganelli. Dopo 12 anni in Italia nulla è cambiato e i poliziotti del reparto mobile non sono ancora identificabili. Per questo in caso di abusi, la magistratura non ha la possibilità di individuarne i responsabili. In tutto questo tempo ci sono state numerose petizioni e raccolte firme. Lo scorso febbraio durante l’ultima campagna elettorale, 117 candidati poi divenuti parlamentari hanno sottoscritto la campagna Ricordati che devi rispondere proposta da Amnesty International: il primo punto riguardava proprio la trasparenza delle forze di polizia. Tuttavia non si è mai arrivati neanche a una proposta di legge in parlamento. «Nel nostro Paese c’è una bassa consapevolezza su quali siano i limiti all’uso della forza dei pubblici funzionari. Viviamo nelle tenebre», ha attaccato Guadagnucci. L’articolo 30 del nuovo ordinamento di pubblica sicurezza del 1981 recita: «Il ministro dell’Interno con proprio decreto determina le caratteristiche delle divise degli appartenenti alla polizia di Stato nonché i criteri generali concernenti l’obbligo e le modalità d’uso». Se in fondo a questa legge si aggiungesse la formula «compresi i codici alfanumerici» la questione sarebbe risolta. In oltre 30 anni nessun ministro dell’Interno ha mai preso in considerazione questa modifica. Non è andata così invece nei principali paesi europei: i codici alfanumerici sulle divise delle forze dell’ordine sono infatti attualmente in uso in Inghilterra, Germania, Svezia, Spagna, Grecia, Turchia e Slovacchia. In Francia non esistono ancora ma qualche mese fa, Manuel Valls, attuale ministro dell’Interno, ne ha annunciato l'introduzione a breve. Inoltre, nel dicembre 2012 una risoluzione del parlamento Europeo ha chiesto esplicitamente ai paesi che non hanno ancora adottato i codici di avviare una riforma. Ciononostante, la politica italiana non ha mostrato particolare interesse sull’argomento: dei tre principali partiti solo il M5s si è detto completamente favorevole all’introduzione dei codici. Mentre Pd e Pdl non hanno trovato il tempo per esprimere la loro opinione. A causa di questo disinteresse è calato il silenzio sul tema. Ma ogni volta che la cronaca riaccende il dibattito l’opinione pubblica si divide tra chi è a favore della polizia e chi è a favore dei manifestanti. Posizioni intermedie non sembrano esistere. Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, l’arroccamento su queste posizioni è frutto di un malinteso: «In Italia introdurre norme riguardanti i diritti umani delle forze di polizia equivarrebbe a stigmatizzarne il comportamento. In realtà l’introduzione dei codici servirebbe a individuare solo i comportamenti penalmente rilevanti». In qualche modo quindi sarebbe uno strumento per tutelare il corpo di polizia nel suo insieme dalle azioni illegali dei singoli. Non la pensa così Nicola Tanzi, segretario generale Sap (Sindacato autonomo di polizia): «Il manifestante violento tramite il codice sulla divisa può risalire all’identità del poliziotto mettendo in pericolo l’incolumità sua e dei suoi familiari». È bene precisare, tuttavia, che per abbinare a un codice l’identità di un agente bisognerebbe avere un infiltrato all’interno della polizia che fornisse queste informazioni. Secondo molte realtà della società civile, l’uso (e l’abuso) della forza da parte della polizia non va affrontato solo da un punto di vista legislativo ma anche culturale. Guadagnucci è convinto che uno dei problemi principali sia la poca trasparenza: «All’interno della polizia si risente ancora di cultura militare e corporativa e non si è sviluppato un forte senso democratico», un’atmosfera da «non vedo, non sento, non parlo». I vertici del Sap, però, non ci stanno, dicendosi convinti che «non ci sia nel modo più assoluto un problema di trasparenza». Il primo in Italia a proporre i codici identificativi per le forze dell’ordine fu Giuseppe Micalizio, braccio destro dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Era il 22 luglio 2001 e Micalizio era stato inviato a Genova per fare una relazione dettagliata sull’irruzione alla scuola Diaz, ma i suoi consigli rimasero rimasti inascoltati da tutti, politica compresa. All’orizzonte non si intravede nessun cambiamento e, secondo Amnesty International, per questo si è interrotto il rapporto di fiducia tra cittadinanza e forze dell’ordine, fondamentale in uno stato democratico. Ma per Noury c’è qualcosa di ancora più grave: «Tutto ciò che ha consentito che la “macelleria messicana” della Diaz accadesse c’è ancora. Quindi potrebbe succedere ancora». A Genova o in qualsiasi altra città italiana.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?
Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.
Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
“Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.
DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.
“Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano.”
E’ chiaro e netto il pensiero di Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica ed autore della Collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che Siamo" edita su Amazon.it con decine di titoli.
Gli italiani non vogliono né l'indulto né l'amnistia. A mostrarlo e dimostrarlo il sondaggio Ispo per il Corriere: il 71 per cento degli intervistati ha detto no a ogni provvedimento di clemenza. Un vero e proprio plebiscito contro che unisce, trasversalmente, l'elettorato da sinistra a destra. Sempre secondo Ispo tra chi vota Pd è la maggioranza (il 67%) a essere contraria. Così come nell'elettorato del Pdl dove, nonostante ci sia di mezzo il futuro politico e non solo di Berlusconi, qualunque idea di "salvacondotto " non piace per nulla. Il 63 (% contro 35) dice no. Allineanti sulla linea intransigente anche gli elettori M5s: contrari 3 e su 4. Questi sondaggi impongono ai politicanti l'adozione di atti che nel loro interesse elettorale devono essere utili, più che giusti.
Da cosa nasce questo marcato giustizialismo italico?
Dall’ignoranza, dalla disinformazione o dall’indole cattiva e vendicativa dei falsi buonisti italici?
Prendiamo in esame tre fattori, con l’ausilio di Wikipedia, affinchè tutti possano trovare riscontro:
1. Parliamo dei giornalisti e della loro viltà a parlare addirittura delle loro disgrazie. Carcere per aver espresso la loro libertà di stampa scomoda per i potenti. Dice Filippo Facci: «Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori del Fatto Quotidiano, a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente». Bene. I giornalisti, censori delle loro disgrazie, possono mai spiegare bene cosa succede prima, durante e dopo i processi? Cosa succede nelle quattro mura delle carceri, laddove per paura e per viltà tutto quello che succede dentro, rimane dentro?
2. Parliamo dei politici e della loro ipocrisia.
Sovraffollamento e mancanza di dignità. «È inaccettabile, non più tollerabile, il sovraffollamento delle carceri italiane». La presidente della Camera Laura Boldrini visita Regina Coeli, nel quartiere di Trastevere, a Roma, dove lei vive. «Dignità, dignità», urlano i detenuti della terza sezione, le cui celle ospitarono durante il fascismo Pertini e Saragat, al passaggio della presidente della Camera denunciando le condizioni «insostenibili» di sovraffollamento in cui sono costretti a vivere. «Il tema carceri è una cruciale cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese», dice Boldrini, che si ferma ad ascoltare storie e istanze. «Chi ha sbagliato è giusto che paghi, non chiediamo sconti - aggiunge - ma che ci sia la rieducazione del detenuto: che chi entra in carcere possa uscirne migliore. E invece con il sovraffollamento, che è come una pena aggiuntiva, si crea tensione, abbrutimento, promiscuità e si tira fuori il peggio delle persone. Questo, come ha detto il presidente della Repubblica, è inaccettabile in un Paese come l'Italia». Boldrini invoca «quanto prima» una «risposta di dignità» per superare «una condizione disumana che non fa onore al Paese di Beccaria».
Innocenti in carcere. Ma soprattutto, secondo la presidente della Camera, bisogna «ripensare il sistema della custodia cautelare, perché non è ammissibile che più del 40% dei detenuti sia in attesa di condanna definitiva, con il rischio di danni irreparabili se innocenti. E bisogna pensare a misure alternative alle pene detentive».
3. Parliamo della sudditanza alla funzione giudiziaria e della convinzione della sua infallibilità.
Il giustizialismo. Nel linguaggio politico e giornalistico italiano indica una supposta ideologia che vede la funzione giudiziaria al pari di un potere e come tale il più importante e lo sostiene, o anche la presunta volontà di alcuni giudici di influenzare la politica o abusare del proprio potere. Esso si contrappone al garantismo, che invece è un principio fondamentale del sistema giuridico: le garanzie processuali e la presunzione di non colpevolezza hanno un valore prevalente su qualsiasi altra esigenza di esercizio e pubblicità dell'azione penale anche nella sua fase pre-giudiziale; tale principio è sancito anche dalla Costituzione: « La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.»
La negazione dell’errore giudiziario e la idolatria dei magistrati.
E’ certo che gli umani siano portati all’errore. E’ certo anche che gli italiani hanno il dna di chi è propenso a sbagliare, soprattutto per dolo o colpa grave. E' palese l'esistenza di 5 milioni di errori giudiziari dal dopo guerra ad oggi. E' innegabile che il risarcimento per l'ingiusta detenzione dei detenuti innocenti è un grosso colpo all'economia disastrata dell'Italia. Nonostante l'idolatria è risaputo che i magistrati italiani non vengono da Marte.
Sin dal Corpus iuris il reato di denegata giustizia era oggetto di previsione normativa. La novella 17 colpiva quei magistrati che obbligavano i sudditi ad andare ad implorare giustizia dall'imperatore, perché gli era stata negata dai magistrati locali. La novella 134 puniva con la multa di 3 libbre d'oro il giudice di quella provincia, che, malgrado avesse ricevuto lettere rogatorie, trascurasse l'arresto di un malfattore che si fosse rifugiato nella detta provincia; la medesima pena era comminata agli ufficiali del giudice. In tempi più recenti, nonostante il plebiscitario esito della consultazione referendaria tenutasi sul tema nel 1987, la legge n. 117 del 1989 di fatto snaturò e vanificò il diritto al conseguimento del risarcimento del danno per una condotta dolosa o colposa del giudice. Essa stravolse il risultato del referendum e il principio stesso della responsabilità personale del magistrato, per affermare quello, opposto, della responsabilità dello Stato: vi si prevede che il cittadino che abbia subìto un danno ingiusto a causa di un atto doloso o gravemente colposo da parte di un magistrato non possa fargli causa, ma debba invece chiamare in giudizio lo Stato e chiedere ad esso il risarcimento del danno. Se poi il giudizio sarà positivo per il cittadino, allora sarà lo Stato a chiamare a sua volta in giudizio il magistrato, che, a quel punto, potrà rispondere in prima persona, ma solo entro il limite di un terzo di annualità di stipendio, (di fatto è un quinto, oltretutto coperto da una polizza assicurativa che equivale intorno ai cento euro annui). Quella legge ha così raggiunto il risultato di confermare un regime di irresponsabilità per i magistrati. L'inadeguatezza della legge n. 117 del 1989 è dimostrata dal fatto che, a decenni dalla sua entrata in vigore, non si registra una sola sentenza di condanna dello Stato italiano per responsabilità colposa del giudice, nonostante le numerosissime sentenze con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ha acclarato inadempimenti dello Stato italiano. L'esigenza di rivedere la legge n. 117 del 1989 viene ora avvertita anche al fine di dare piena attuazione alla novella costituzionale approvata sul tema del giusto processo, nonché al fine di dare concreta esecuzione del principio consacrato dall'articolo 28 della Costituzione: tali norme subiscono ingiustificabili limitazioni in riferimento alla responsabilità dei giudici.
Il sistema della responsabilità civile dei magistrati in Italia deroga quindi alla "grande regola" della responsabilità aquiliana, secondo quanto è riconducibile agli altri pubblici funzionari (ai sensi dell'articolo 28 Cost. e con la possibilità di agire in regresso verso lo Stato). La peculiarità giustificata ai magistrati è quella della delimitazione al dolo ed alla colpa grave (articolo 3), e la garanzia di insindacabilità (articolo 2) che fu riconosciuta nella citata sentenza n. 18 del 1989, per la quale "l'autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l'imparziale interpretazione delle norme di diritto (…) non può dar luogo a responsabilità del giudice". Il rapporto tra questa peculiarità e la denegata giustizia è però assai problematico. La responsabilità civile del giudice sussiste in un giudizio procedurale, non del merito, ad esempio per la violazione di termini perentori per l'uso delle intercettazioni, custodia cautelare, notifica di atti o precetti, prescrizione dei reati. Stante questo vincolo, con la normativa attuale restano necessari comunque due procedimenti separati (coi relativi tre gradi di giudizio), uno per l'ammissibilità, perché la richiesta non deve sindacare l'autonomia del giudice, e uno vero e proprio per la richiesta di risarcimento.
Detto questo, cosa ne sa la massa di come si abilita alla funzione giudiziaria e quali siano le capacità, anche psicologiche di chi giudica? Cosa ne sa la massa di cosa significa errore giudiziario e questo riguarda prima o poi una persona (anche se stessi, non solo gli altri) e la sua dignità nella società ed in carcere, dove torture e violenze sono relegate all’oblio o al segreto del terrore? Cosa ne sa la massa se chi (i giornalisti), dovendo loro dare corretta e completa informazione, non sa tutelare nemmeno se stesso?
Ed ecco allora che l'ultimo sport dei giustizialisti è attaccare Balotelli.
Il commissario della Nazionale Prandelli ha deciso di portarlo ugualmente a Napoli, nonostante Balotelli fosse infortunato, per la sfida contro l'Armenia. Qualcuno ha scritto che ci sarebbe andato anche come testimonial anti-camorra perché prima del match l'Italia avrebbe giocato su un campo sequestrato ai clan. Senza dire questo qualcuno, però, come il campo sia stato assegnato ed a chi. Questo qualcuno si è arrogato il diritto di dare una funzione a Balotelli, senza che questo sia consultato. Lui ha letto e ha spiegato su Twitter: «Questo lo dite voi. Io vengo perché il calcio è bello e tutti devono giocarlo dove vogliono e poi c'è la partita». Questo è bastato a scatenare la reazione indignata di politici, parroci, pseudointellettuali. Tutti moralisti, perbenisti e giustizialisti. Perché, secondo loro, questa affermazione sarebbe scorretta, volgare non nella forma ma nella sostanza, perché ci si legge un sottotesto che strizza l'occhio ai clan.
Poi, naturalmente c’è chi va sopra le righe, per dovere di visibilità. Perche? Bisogna chiederlo a Rosaria Capacchione, senatrice Pd e giornalista che è stata la prima ad attaccarlo: «È un imbecille». Subito dopo al parroco don Aniello Manganiello: «Mi chiedo se Balotelli abbia ancora diritto a essere convocato nella Nazionale». Aggiungetevi una serie di insulti sui social network, le dichiarazioni dei politici locali e avrete il quadro della situazione. Napoli. In terra di Camorra spesso è difficile diversificare il camorrista da chi non lo è. C'è chi sparla e c'è chi tace; c'è chi spara e c'è chi copre. A voi sembra che meriti tutto questo (il bresciano Balotelli)? Si chiede Giuseppe De Bellis su “Il Giornale”. È tornato quello stanco ritornello dei personaggi popolari che devono essere da esempio. Dovere, lo chiamano. È un insulto all'intelligenza di chi queste frasi le dice.
C'è il legittimo sospetto che Balotelli sia soltanto uno straordinario capro espiatorio. Un bersaglio facile: lo attacchi e non sbagli, perché tanto qualche sciocchezza la fa di sicuro. Siamo alla degenerazione della critica: sparo su Balotelli perché così ho i miei trenta secondi di popolarità. È questo ciò che è accaduto. Lui sbaglia, eccome se sbaglia. In campo e fuori è già successo un sacco di volte. Questa sarà solo un'altra, devono aver pensato i professionisti dell'anticamorra: buttiamoci, perché noi siamo i giusti e lui è quello sbagliato. Coni, Federazione, Nazionale non hanno avuto nulla di meglio da dire che «Balotelli se le cerca», oppure, «poteva risparmiarsela». Avrebbero dovuto dire solo una cosa: non usate lo sport e gli sportivi per le vostre battaglie partigiane. Ci vuole coraggio per stare al proprio posto. A ciascuno il suo e l'anticamorra non spetta al centravanti della Nazionale. Lui vuole solo giocare a pallone. Lui deve solo giocare a pallone. Il resto è ipocrisia. Balotelli l'ha solo svelata una volta di più.
Cosa ne sanno gli italiani della mafia dell’antimafia, o degli innocenti in carcere. Gli italiani bevono l’acqua che gli danno ed è tutta acqua inquinata e con quella sputano giudizi sommari che sanno di sentenze.
E la colpa è solo e sempre di una informazione corrotta ed incompleta da parte di una categoria al cui interno vi sono rare mosche bianche.
Quindi, ecco perché "Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano".
Tanti sono gli esempi lampanti su come disfunziona la Giustizia in Italia.
Che dire, per esempio, dei 12 mesi di carcere di Scaglia, l'innocente. L'ex fondatore di Fastweb assolto per non aver commesso il fatto. Storia di ordinaria ingiustizia, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Alla fine sono stati assolti. Il pm aveva chiesto sette anni per Silvio Scaglia e per Stefano Mazzitelli, rispettivamente fondatore e presidente di Fastweb e amministratore delegato di Telecom Italia Sparkle. Entrambi accusati di una frode fiscale da circa 365 milioni di euro. Entrambi passati sotto il torchio delle manette preventive. Insieme a loro sono stati assolti gli ex funzionari di Tis Antonio Catanzariti e Massimo Comito, gli ex dirigenti di Fastweb Stefano Parisi, Mario Rossetti e Roberto Contin. Tutti innocenti per “non aver commesso il fatto” o perché “il fatto non costituisce reato”. Secondo i giudici della prima sezione penale del tribunale di Roma, i manager non sapevano quello che stava succedendo, mentre ad aver ideato e manovrato il sistema di megariciclaggio da due miliardi di euro era Gennaro Mokbel, faccendiere napoletano con un passato di attivismo nell’estrema destra. Su di lui adesso pende una condanna di primo grado a 15 anni di reclusione. “Il mondo è un posto imperfetto. Quando succedono cose di questo tipo ti senti una vittima. Poi però ti guardi attorno e scopri che non sei solo: in Italia ci sono decine di migliaia di innocenti che stanno dietro le sbarre”, è il commento a caldo di Scaglia, pochi minuti dopo la lettura del dispositivo della sentenza. La sua vicenda è solo la miniatura di una piaga ben più imponente: circa il 40 percento dei detenuti nelle galere italiane sono persone in attesa di un giudizio definitivo. Sono, letteralmente, imputati da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva, lo statuisce l’articolo 27 della nostra veneranda Costituzione. Oltre 12mila persone attendono un giudizio di primo grado. Tra questi c’era Scaglia, c’era Mazzitelli, la cui innocenza è stata adesso certificata da una sentenza giudiziaria. L’operazione Broker scatta il 23 febbraio 2010. Cinquantasei persone vengono arrestate nell’ambito di una inchiesta su una maxi operazione di riciclaggio e frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe i vertici di Fastweb e Telekom Sparkle. Tra le misure cautelari disposte dai magistrati romani, spicca il mandato di cattura per Scaglia, che trovandosi all’estero noleggia un aereo privato e dalle Antille atterra all’aeroporto romano di Fiumicino. I beni di Scaglia vengono posti sotto sequestro preventivo e i carabinieri traducono l’imprenditore nel carcere di Rebibbia, dove viene rinchiuso in una cella di otto metri quadrati al secondo piano, sezione G11. In regime di isolamento giudiziario non può avere contatti con nessuno, neppure col suo avvocato. Attende tre giorni per l’interrogatorio di garanzia e oltre quaranta per rispondere alle domande dei suoi accusatori, secondo i quali lui sarebbe membro di una associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale e a dichiarazione infedele mediante l’uso di fatture per operazioni inesistenti. Ora sono stati smentiti dai giudici. Ma dietro le sbarre Scaglia trascorre tre mesi prima di ottenere gli arresti domiciliari il 19 maggio 2010. In totale, collezionerà 363 giorni di detenzione da innocente. Ancora oggi viene da chiedersi quali fossero le esigenze cautelari nei confronti di un indagato, che non ricopriva più alcun incarico societario in Fastweb e che era montato su un aereo per farsi oltre diecimila chilometri e consegnarsi all’autorità giudiziaria italiana. Nei suoi confronti i giudici hanno rigettato il teorema dipietresco del “non poteva non sapere”. Ecco, sì, all’epoca dei fatti Scaglia era Presidente di Fastweb, ma poteva non sapere. Nel dibattimento dati, prove e testimonianze hanno dimostrato che Scaglia non sapeva, e neppure Mazzitelli sapeva. Si poteva evitare tutto questo? Che giustizia è quella che tratta i cittadini come presunti colpevoli? Arresti infondati, vite dilaniate e i riverberi economici di una vicenda che ha colpito, tra gli altri, il guru italiano della New Economy, l’uomo che il “Time” nel 2003 aveva annoverato nella lista dei quindici manager tech survivors, profeti dell’innovazione usciti indenni dalla bolla della New Economy. Ecco, della New Economy ma non della giustizia made in Italy.
Nel 2010, quando il gip di Roma ordina l’arresto di Silvio Scaglia, Stefano Parisi è amministratore delegato di Fastweb, continua Annalisa Chirico su “Panorama”. A ventiquattro ore dalla notizia dell’ordinanza di custodia cautelare, mentre Scaglia organizza il suo rientro dalle Antille con un volo privato, Parisi decide di convocare una conferenza stampa per spiegare urbi et orbi che Fastweb non ha commesso alcun reato e che gli ipotetici fondi neri non esistono. “A distanza di tre anni e mezzo posso dire che i giudici mi hanno dato ragione”. Parisi è stato solo lambito dall’inchiesta Fastweb – Telecom Italia Sparkle. Destinatario di un avviso di garanzia, la sua posizione è stata archiviata la scorsa primavera. “Avrebbero potuto archiviare nel giro di quindici giorni, invece ci sono voluti tre anni”. Ora che il Tribunale di Roma ha assolto l’ex presidente di Fastweb Scaglia e altri dirigenti della società di telecomunicazioni, Parisi prova un misto di soddisfazione e rabbia. “Mi chiedo perché accadano vicende come questa in un Paese civile. Le vite di alcuni di noi sono state letteralmente stravolte. La giustizia dovrebbe innanzitutto proteggere cittadini e imprese, non rendersi responsabile di errori simili”. Perché di errori si tratta. Quando nel 2007 su Repubblica compare il primo articolo da cui cui filtrano informazioni riservate sulle indagini condotte dalla procura di Roma su una presunta frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe Fastweb, l’azienda avvia immediatamente un audit interno per fare chiarezza. “A distanza di sei anni una sentenza conferma quanto noi abbiamo sostenuto e provato sin dall’inizio. Da quella analisi interna vennero fuori nel giro di un mese dati e informazioni che noi trasmettemmo subito alla procura perché sin dall’inizio ci fu chiaro che la truffa veniva ordita, con la complicità di due dirigenti infedeli (ora condannati in primo grado per corruzione, ndr), ai danni di Fastweb. Insomma noi eravamo la vittima di un raggiro che, come hanno certificato i giudici, ha sottratto circa 50 milioni di euro alla nostra società e 300 milioni a Tis”. Certo, dalle parole di Parisi trapela l’amarezza per quello che si poteva evitare e invece non si è evitato. “Purtroppo la stessa sentenza ha fatto chiarezza su un punto: c’erano dei delinquenti, che sono stati condannati, e degli innocenti perseguitati dalla giustizia”.
Scaglia dopo l'assoluzione: "Il carcere peggio di come lo raccontano". L'imprenditore assolto con formula piena dall'accusa di riciclaggio parla con Toberto Rho su “La Repubblica” dell'anno trascorso in stato di detenzione, prima a Rebibbia poi nella sua casa di Antagnod. "In cella meno spazio che per i maiali. Quel pm non voleva cercare la verità, ma ora so che in Italia la giustizia funziona". Silvio Scaglia, trecentosessantatré giorni, tre ore, trentacinque minuti, quaranta secondi. Ovvero, "la battaglia più dura che ho combattuto nella mia vita, ma sono contento di averla fatta e di non averla evitata, come avrei facilmente potuto". Il counter del sito che amici e sostenitori hanno aperto durante il periodo della sua detenzione per denunciarne pubblicamente l'assurdità, è ancora fermo su quelle cifre, che misurano il periodo che Silvio Scaglia, uno dei manager che hanno costruito il successo di Omnitel, l'imprenditore che è diventato miliardario (in euro) durante il periodo della New economy grazie all'intuizione di eBiscom-Fastweb, ha passato agli arresti. Prima a Rebibbia, tre mesi, poi altri nove rinchiuso nella sua casa di Antagnod, in cima alla Val d'Ayas, finestre affacciate sul gruppo del Monte Rosa. Le sue montagne, che però non poteva guardare: "Nei primi tempi degli arresti domiciliari non mi potevo affacciare, tantomeno uscire sul balcone, per disposizione dei giudici". Oggi che è stato assolto con formula piena dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata a quella che la Procura definì "la più grande frode mai attuata in Italia", Scaglia ripercorre l'anno più difficile della sua esistenza. A cominciare da quella notte in cui, alle Antille per affari, rispose alla telefonata della figlia, ventenne, che chiamava dalla loro casa di Londra. "Era stata svegliata dagli agenti inglesi, avevano in mano un mandato di cattura. Per noi era un mistero, non capivamo cosa stesse accadendo. Ho compreso la gravità delle accuse solo quando ho letto l'ordine di arresto con i miei avvocati".
Ha deciso di rientrare in Italia, subito.
«Sapevo esattamente quel che mi aspettava appena scesa la scaletta dell'aereo, ma immaginavo un'esperienza breve. Poche settimane, il tempo di spiegare che di quella vicenda avevo già parlato in un interrogatorio di tre anni prima, che da anni ero uscito da Fastweb, e che l'azienda e i suoi manager non erano gli artefici, ma le vittime di quella frode».
Come fu quella notte in volo tra i Caraibi e l'Italia, ingegner Scaglia?
«Presi una pastiglia per dormire, per non pensare. L'incubo cominciò a Ciampino, era notte fonda. Si rilegga i giornali di quei giorni, per capire quale era il peso che mi sono trovato addosso, all'improvviso, quale era la tensione, la pressione su di me e sulle aziende coinvolte».
Subito in carcere?
«Prima una lunghissima procedura di identificazione e notifica dell'arresto. Poi Rebibbia, in isolamento. Una cella lunga tre metri e larga uno e mezzo, il cesso in vista, intendo in vista anche dall'esterno. Ero nel braccio dei delinquenti comuni. Il carcere è un posto orribile, sporco, affollato all'inverosimile. C'è meno spazio di quello che le leggi prevedono per gli allevamenti dei maiali».
Quale è la privazione più dura?
«Più ancora della libertà, delle umiliazioni, dello spazio che manca, è il senso di impotenza, l'impossibilità di difendersi, di spiegare. Dopo cinque giorni di isolamento, venne il giudice per l'interrogatorio cosiddetto di garanzia. Fu una farsa. Poi, per due mesi, più nulla. Finalmente l'interrogatorio con il Pm: mi sembrava di aver spiegato, di aver dimostrato con il mio ritorno dai Caraibi di non aver alcun progetto di fuga, anzi il contrario. Quanto al possibile inquinamento delle prove, si trattava di fatti avvenuti anni prima, in un'azienda da cui ero uscito da anni. Invece, tornai in carcere. Quel Pm, evidentemente, non aveva interesse a capire».
Poi gli arresti domiciliari, un po' di respiro.
«Al contrario. Fu il periodo più duro. Ero chiuso nella mia casa di Antagnod, l'unica mia abitazione italiana, perché con la mia famiglia vivo da tempo a Londra. Ero completamente solo, non potevo neppure uscire sul balcone, vedevo solo la signora che mi procurava il cibo e la mia famiglia nel fine settimana. Nove mesi così, senza potermi difendere».
Cosa le resta addosso, di quell'anno?
«Certo non la voglia di dimenticare. È stata un'esperienza troppo forte per me e per le persone che mi vogliono bene. Semmai avverto l'urgenza di dire forte che queste cose non dovrebbero più succedere».
Cosa pensa della giustizia, oggi?
«Il mio caso dimostra che la giustizia, in Italia, funziona. Io ho avuto giustizia. Ma ci sono voluti troppo tempo e troppe sofferenze: il problema è la mancanza di garanzie per chi è in attesa di giudizio. Vede, in carcere ho parlato con tantissimi detenuti: la metà di loro erano in attesa di un processo. La metà della metà risulteranno innocenti, come me».
Mai rimpianto quel viaggio di ritorno dalle Antille a Roma, pendente un ordine di arresto, neppure nei giorni più duri?
«Mai, neppure per un secondo. Lo rifarei domattina. Era l'unico modo per reclamare la mia innocenza e cancellare ogni possibile ombra. Fu proprio quella scelta a rendere superflua ogni spiegazione alle persone che mi vogliono bene. La mia famiglia, le mie figlie si sono fidate del loro padre, della sua parola, dei suoi gesti. Non c'è stato bisogno d'altro».
Che ne è del Silvio Scaglia "mister miliardo", l'imprenditore lungimirante e spregiudicato, uno dei dieci uomini più ricchi e potenti d'Italia?
«Sono sempre qui. Faccio ancora quel che so fare, cioè l'imprenditore, pochi mesi fa ho acquistato un'azienda (La Perla, ndr). Certo, la mia reputazione ha subito danni pesanti. Ancora oggi non posso andare negli Stati Uniti, se compilo il modulo Esta mi negano il visto. Ma ad altri è andata peggio: vivendo a Londra, per la mia famiglia è stato relativamente più facile mantenere il distacco dall'onda di riprovazione che si accompagna ad accuse così gravi come quelle che ho subito. E poi, ai miei coimputati è stato sequestrato tutto, hanno vissuto per anni della generosità di amici e conoscenti».
Come vive le eterne polemiche italiane sulla giustizia?
«Con fastidio. Mi sembrano agitate strumentalmente per ottenere un vantaggio politico, non per risolvere i problemi reali delle migliaia di persone che vivono sulla loro pelle quel che ho vissuto io».
Ma il caso Fastweb (a proposito così è stato conosciuto da tutti come se Telecom non ci fosse, ingiustamente, anche lei) ha dimostrato in modo lampante come si debba ragionare seriamente sul funzionamento della giustizia, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Le tesi dell'accusa (come ha denunciato un'altra vittima dell'accanimento giudiziario, il generale Mario Mori) diventa immediatamente la tesi della verità. I media non pensano, non riflettono, non investigano, copiano gli atti dell'accusa. Gli indagati diventano subito colpevoli. Chiunque conoscesse le carte della difesa, sarebbe stato in grado in un secondo di verificare l'enormità dell'accusa. Ma andiamo oltre. Anche i pm hanno un obbligo legale di ricercare la verità. Come hanno potuto aver avuto così poco buon senso (sì sì certo, non c'è un articolo del codice che lo prevede) nell'applicare misure cautelari così dure? Gli imputati sono stati tosti. Hanno resistito al carcere e non hanno accettato sconti, patteggiamenti, ammissioni. Non sono passati per la strada più facile. Hanno pagato un prezzo altissimo dal punto di vista personale. Una piccola lezione, l'ennesima, ma forse la più clamorosa: una persona, un'azienda, un processo non si giudica solo dalla carte dell'accusa. Ma continuando a fare il nostro mestiere. Il processo Fastweb per il momento è finito. Un terzo della nostra popolazione carceraria è dietro alle sbarre senza una sentenza definitiva come Scaglia e soci. Forse prima dell'amnistia ci si potrebbe occupare di questa mostruosità giuridica.
FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.
Per tutti coloro che del giustizialismo fanno la loro missione di vita si deve rammentare la storia di Sofia Loren che non doveva finire in carcere. La Cassazione dà ragione alla Loren dopo 31 anni: "Non doveva finire in carcere". Dopo un iter giudiziario di 31 anni, la Suprema Corte dà ragione all'attrice finita in carcere nel 1982: l'attrice utilizzò correttamente il condono fiscale. Ha vinto Sofia Loren. Giunge al capolinea, dopo quasi 40 anni, una delle cause fiscali ancora aperte tra l’attrice due volte premio Oscar Sofia Loren - nata Scicolone (sorella della madre di Alessandra Mussolini, nipote di Benito), e rimasta tale all’anagrafe dei contribuenti - e l’ Agenzia delle Entrate. Dopo una così lunga attesa, per una vicenda legata alla presentazione a reddito zero del modello 740 della dichiarazione dei redditi del 1974, la Cassazione ha dato ragione alla Loren concedendole, a norma di quanto previsto dal condono del 1982, di pagare le tasse solo sul 60% dell’imponibile non dichiarato e non sul 70% di quei 920 milioni di vecchie lire sottratti alla tassazione e, invece, accertati dal fisco. Ma non è l'aspetto fiscale da tenere in considerazione, ma come sia facile finire dentro, anche per i big non protetti dal Potere. Sophia Loren aveva ragione e non doveva essere arrestata per evasione fiscale nel 1982. Ha perso la giustizia, ancora una volta. Lo ha riconosciuto, definitivamente, la Cassazione. A riconoscerlo, in maniera definitiva, dopo un iter giudiziario durato 31 anni, è stata la Corte di Cassazione. La sezione tributaria della Suprema Corte, con una sentenza depositata il 23 ottobre 2013, ha infatti accolto il ricorso dell’attrice contro una decisione della Commissione tributaria centrale di Roma risalente al 2006. L'attrice di Pozzuoli vince la causa contro il fisco per una dichiarazione dei redditi del 1974, poi sottoposta al condono 8 anni dopo. Il caso suscitò grande scalpore quando la stella del cinema si consegnò alla polizia a Fiumicino per essere arrestata. Lei finì in carcere 31 anni fa per 17 giorni con l'accusa di evasione fiscale. Il caso suscitò grande scalpore dopo che l'attrice decise di consegnarsi alla polizia all'aeroporto di Fiumicino di ritorno dalla Svizzera dove risiedeva con la famiglia. Le responsabilità della frode vennero poi attribuite al suo commercialista. Al centro del procedimento, la dichiarazione dei redditi per il 1974 che la Loren presentò, congiuntamente al marito Carlo Ponti, in cui si escludeva, per quell’anno, «l’esistenza di proventi e spese», poiché «per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi». Sofia Loren, nella dichiarazione dei redditi del 1974 presentata congiuntamente al marito, aveva escluso - ricorda il verdetto della Cassazione - «l’esistenza di proventi e spese per il detto anno e chiariva che per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi al 1974, in quanto per gli stessi era stata concordata una retribuzione pari al 50% dei ricavi provenienti dalla distribuzione dei film». Il fisco non ci ha creduto ed è andato a scovare quel quasi miliardo non dichiarato, tassato per poco più della metà del suo valore. Meno propensa all’applicazione delle ganasce soft era stata la Procura della Suprema Corte, rappresentata da Tommaso Basile, che aveva chiesto il rigetto del ricorso della Loren. Nel 1980 all’attrice venne notificato un avviso di accertamento, per un reddito complessivo netto assoggettabile all’Irpef per il 1974 pari a 922 milioni di vecchie lire (l’equivalente, valutando il potere d’acquisto che avevano allora quei soldi, di oltre 5.345.000 di euro di oggi). La Loren, dunque, usufruendo del condono fiscale previsto dalla legge 516/1982, aveva presentato una dichiarazione integrativa facendo riferimento a un imponibile di 552 milioni di vecchie lire, pari al 60% del reddito accertato, ma il Fisco aveva iscritto a ruolo un imponibile maggiore, pari a 644 milioni, sostenendo che la percentuale da applicarsi fosse quella del 70%, poiché la dichiarazione sul 1974 presentata dall’attrice, doveva considerarsi omessa, perché «priva degli elementi attivi e passivi necessari alla determinazione dell’imponibile». Le Commissioni di primo e secondo grado avevano dato ragione alla Loren, mentre la Commissione tributaria centrale di Roma aveva dichiarato legittima la liquidazione del condono con l’imponibile al 70%. Nonostante gli ermellini abbiano sconfessato la pretesa dei giudici fiscali di secondo grado di Roma di sottoporre a tassazione il 70% dei 920 milioni di lire non dichiarati nel 1974 (ossia di calcolare come imponibile 644 milioni anziché 552 milioni, come sostenuto dai legali della Loren che si sono battuti per un imponibile pari al 60% della cifra evasa), nulla dovrà essere ridato all’attrice perché il fisco - in questi tanti anni - le ha usato la cortesia di non chiederle quel 10% di differenza in attesa della decisione della Cassazione. Oltre alla certificazione, ora garantita dalla Suprema Corte, di aver presentato un condono fatto bene, alla Loren rimane anche la soddisfazione di vedere addossate all’Agenzia delle Entrate le spese legali dei suoi avvocati pari a settemila euro. La Loren si è detta "felice" per il verdetto della Cassazione: "Finalmente si chiude una storia che è durata quaranta anni". E Sophia commenta: «Il miracolo della giustizia: quando non ci credi più trova un modo di ridarti speranza. È una vicenda vecchia di 30 anni fa in cui ho avuto finalmente ragione». Interviene anche l‘avvocato Giovanni Desideri che ha difeso Sophia Loren nel ricorso in Cassazione: «È una vicenda kafkiana durata quaranta anni quella vissuta dalla signora Loren, per di più per delle tasse correttamente pagate: adesso la Cassazione ha reso, finalmente, il fisco giusto. Ma l’amministrazione tributaria, senza arrivare a disturbare la Cassazione, avrebbe potuto autocorreggersi da sola prendendo atto delle dichiarazioni in autotutela presentate dalla contribuente Loren anni orsono!».
Forse si sarebbero lasciati andare a qualche parola di più se non fossero ancora calde le polemiche sul gesto dell’ombrello rivolto da Maradona al fisco: chi conosce la Loren - madrina e testimonial di tanti eventi, dalle sfilate di moda al varo di navi da crociera - sa che non ci tiene a finire in compagnia dell’ex pibe de oro nel novero di chi si ritiene «vittima» delle tasse. Si sa in Italia: sono le stesse vittime di ingiustizie che si rendono diverse dai loro disgraziati colleghi e se ne distanziano. Questo perchè in Italia ognuno guarda ai cazzi suoi. Non si pensa che si sia tutti vittime della stessa sorte e per gli effetti fare fronte comune per combatterla. Intanto è polemica sulle dichiarazioni di Diego Armando Maradona a Che tempo che fa. L'ex "pibe de oro" ha parlato dei propri problemi fiscali e ha dichiarato: "Io non sono mai stato un evasore. Io non ho mai firmato contratto, lo hanno fatto Coppola e Ferlaino che ora possono andare tranquillamente in giro mentre a me hanno sequestrato l’orologio e l’orecchino, tanti volevano transare per me con fisco per farsi pubblicità, ma io ho detto no, io non sono un evasore, voglio andare in fondo. Equitalia si fa pubblicità venendo da me, perché il loro lavoro non è Maradona. Io non mi nascondo". Poi il gesto dell'ombrello rivolto a Equitalia. E ripartiamo dunque da Maradona che ha fatto il gesto dell'ombrello a Equitalia «che mi vuole togliere tutto: tié». Nessun commento da parte del conduttore Fabio Fazio. Il gesto invece non è piaciuto al viceministro dell'Economia, Stefano Fassina: "È un gesto da miserabile e credo che vada perseguito con grande determinazione, funzionari di Equitalia hanno notificato nei giorni scorsi a Diego Armando Maradona un avviso di mora da oltre 39 milioni di euro, stiamo parlando di quasi 40 milioni di euro, farebbe bene a imparare a rispettare le leggi", ha tuonato l'esponente del Pd a Mix 24 su Radio 24.
Diego Armando Maradona e il gesto dell’ombrello contro Equitalia. Ma perché il Pibe de oro ha reagito in modo così plateale e non educato durante la trasmissione di Fabio Fazio? Una possibile motivazione la dà il quotidiano di Napoli, il Mattino. Maradona sarebbe stato indispettito da quanto accaduto al suo arrivo in Italia: appena sceso dall’aereo sarebbe stato “ispezionato” da un funzionario di Equitalia per verificare se addosso avesse oggetti pignorabili come orecchini, anelli o affini. Memore di quanto accaduto nel 2010, quando gli fu sequestrato l’orecchino, Maradona si è presentato senza beni pignorabili. Ma spiega il Mattino, la visita degli ispettori, avvenuta davanti alla figlia Dalma e alla compagna Rocio, lo ha indispettito. E quindi, al sentir nominare Equitalia, Diego ha risposto con l’ombrello. Diego Armando Maradona non ci sta. Finito nel mirino di Equitalia, che lo accusa di aver evaso il fisco per la cifra di 39 milioni di euro, l'ex calciatore argentino ha deciso di reagire. E la controffensiva non si è limitata al gesto dell'ombrello verso l'agenzia di riscossione italiana durante la trasmissione di Fabio Fazio, che già di per se aveva smosso un marasma di polemiche. Il Pibe de Oro ha infatti annunciato un'azione legale nei confronti dell'ente tributario. La ragione? Gli agenti del fisco lo avrebbero perquisito al suo arrivo a Ciampino "davanti al suo legale Angelo Pisano, alla figlia Dalma e alla compagna Rocio", mettendogli le mani addosso per cercare presunti oggetti di valore da poter sequestrare. La denuncia è per "ingiusta attività esecutiva degli organi tributari". Un'offesa, un'umiliazione che il campione non ha sopportato. Soprattutto dopo che Equitalia continua a pretendere soldi che in realtà non sono giustificati sul piano sostanziale. Infatti, la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni.
Dopo il "tiè" al Fisco. Maradona ha ragione: non è un evasore scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Diego non fece ricorso nel '94 contro la presunta frode perché era all'estero: lo avrebbero scagionato. Il Fisco lo sa, ma non rinuncia a sequestri e show. Diego Armando Maradona non ha evaso al fisco italiano i 39 milioni di euro che continuano a chiedergli. Questo è certo, perché nemmeno il fisco italiano lo sostiene: la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni. E questo sarebbe un primo problema di equità per qualsiasi contribuente, anche per Maradona. Ma anche sui 13 miliardi di lire dell’epoca il fisco ha torto sul piano sostanziale e lo sa benissimo: per pretenderli ne fa esclusivamente una questione di forma. Il gruppo di finanzieri e di «messi» di Equitalia che notifica cartelle, avvisi di mora, e sequestra orecchini e orologi a Maradona ogni volta che questo entra in Italia, sa benissimo di avere torto sul piano sostanziale, anche se la forma consente questo show. Maradona è innocente, ma non si è difeso nei tempi e nei modi consentiti: quando lo ha fatto era troppo tardi, e la giustizia tributaria italiana non gli ha consentito di fare valere le sue ragioni (conosciute e indirettamente riconosciute da altre sentenze) perché era prescritta la possibilità di ricorrere e contestare le richieste del fisco. Quello di Maradona così è uno dei rarissimi casi in cui la prescrizione va a tutto danno dell’imputato. Il calciatore più famoso del mondo è finito nel mirino del fisco insieme alla società calcistica per cui aveva lavorato in Italia (il Napoli di Corrado Ferlaino), e a due giocatori dell’epoca: Alemao e Careca. Il fisco ha emesso le sue cartelle esattoriali, e la giustizia tributaria ha iniziato il suo processo quando Maradona era già tornato in Argentina, dove avrebbe ancora giocato quattro anni. Conseguenza naturale: le notifiche del fisco sono arrivate a chi era in Italia (Napoli calcio, Alemao e Careca), e naturalmente non a chi era in Argentina, perché né il fisco italiano né altri lo hanno comunicato laggiù. Il fisco si è lavato la coscienza appendendo le sue cartelle all’albo pretorio di Napoli. Oggi quell’albo è on line e in teoria uno che fosse curioso potrebbe anche guardarlo dall’Argentina (ma perché mai dovrebbe farlo?). Allora no: per conoscere quelle cartelle bisognava andare in comune a Napoli. Non sapendo nulla di quelle cartelle (fra cui per altro c’erano anche alcune multe prese per violazione al codice della strada), Maradona non ha potuto fare ricorso. Né conoscere il tipo di contestazione che veniva fatta. Riassunto in breve. I calciatori allora come oggi erano lavoratori dipendenti delle società per cui giocavano. Maradona, Careca e Alemao erano dipendenti del Napoli. Che pagava loro lo stipendio e fungeva da sostituto di imposta: tratteneva cioè l’Irpef dovuta per quei redditi e la versava al fisco. Tutti e tre i giocatori (e molti altri in Italia) oltre al contratto da dipendenti avevano anche una sorta di contratto ulteriore, con cui cedevano alla società calcistica i propri diritti di immagine anche per eventuali sponsorizzazioni e pubblicità. In tutti e tre i casi, come avveniva all’epoca con i calciatori di tutto il mondo e in tutto il mondo, non erano i calciatori ad incassare dal Napoli il corrispettivo di quei diritti, ma delle società estere di intermediazione (tre diverse nel caso di Maradona), che poi avrebbero dovuto dare ai giocatori gli utili di intermediazione. Secondo il fisco italiano quei diritti in realtà erano stipendio extra per Alemao, Maradona e Careca. Il Napoli quindi avrebbe dovuto versare al fisco trattenute simili a quelle operate sugli stipendi base. Non avendolo fatto il Napoli, avrebbero dovuto versare l’Irpef i singoli giocatori. Squadra di calcio, Alemao e Careca fanno ricorso (Maradona no, perché non ne sa nulla): in primo grado hanno torto. In secondo grado vedono riconosciute pienamente le loro ragioni, con una sentenza che per Careca e Alemao verrà confermata dalla Cassazione. Il Napoli calcio incassa la sentenza favorevole, ma quando la ottiene sta fallendo. Preferisce non allungare i tempi: aderisce a un condono fiscale e sana tutto il passato, pagando in misura ridotta anche l’Irpef che secondo le contestazioni non era stata versata a nome di Alemao, Careca e Maradona. In teoria il caso Maradona avrebbe dovuto considerarsi concluso con quel condono operato dal sostituto di imposta. Ma il fisco va avanti. Si deve fermare davanti a Careca e Alemao perché la sentenza tributaria di appello che verrà poi confermata prende a schiaffoni quelli che sarebbero diventati Agenzia delle Entrate ed Equitalia. La sentenza tributaria ricorda che in parallelo si era già svolto un processo penale sulla stessa materia, e che il pm aveva proposto e il Gip accolto l’archiviazione per Maradona, Alemao e Careca, escludendo «per tutti e tre i calciatori che i corrispettivi versati agli sponsor fossero in realtà ulteriori retribuzioni destinate ai calciatori». I giudici tributari poi accusano il fisco italiano di avere preso un abbaglio: avevano accusato tutti sulla base di norme che per altro sono entrate nel codice italiano con una legge di fine 1989: quindi al massimo si poteva contestare qualcosa solo per il 1990, non potendo essere retroattive le regole tributarie. Ma anche per il 1990 la contestazione non era motivata: nessuna prova che quei diritti fossero cosa diversa e si fossero trasformati in stipendi. Assolti e liberati dal fisco italiano dunque sia Alemao che Careca. Maradona no, perché non aveva fatto ricorso. Quando ha provato a farlo dopo la prima notifica del 2001, è stato respinto perché tradivo. Quindi Maradona ha ragione, ma non può avere ragione perché la sua ragione ormai è prescritta. Cose da azzeccagarbugli. Che però giustificano assai poco lo show che il fisco mette in onda ogni volta che Maradona atterra in Italia.
Maradona, l'avvocato su "La Gazzetta dello Sport": "Stufo dell'Italia: lo trattino come qualsiasi cittadino...". L'appello di Pisani, legale di Diego: "È un campione anche di pignoramenti. E il bello è che alle multinazionali del gioco con debiti di 2 miliardi e mezzo fanno lo sconto, a lui tolgono l'orologio. L'ombrello? Totò faceva la pernacchia..." L'ultima puntata del Maradona-show è un appello accorato di Angelo Pisani via etere. "Faccio un appello ai politici affinchè trattino Maradona come un qualsiasi cittadino", ha detto l'avvocato di Diego a "Radio Crc". La visita in Gazzetta, Roma-Napoli all'Olimpico e l'intervista di Fazio che ha scatenato le polemiche: Diego è andato via, l'onda lunga delle sue parole è rimasta. "In Italia chi è innocente viene perseguitato e chi invece è palesemente colpevole viene agevolato dalle leggi - spiega Pisani - Secondo Equitalia, che all'epoca dei fatti non esisteva, e quindi non secondo i giudici che hanno assolto il mio assistito, Maradona è responsabile di un'evasione di 6 milioni di euro e non 39 milioni, come appare sui giornali Quella cifra è la somma di interessi che non rappresentano evasione fiscale. Il paradosso è che le multinazionali del gioco e delle slot machine, del gioco d'azzardo, che hanno accumulato un debito enorme, pari a 2miliardi e 500milioni di euro relativi a tasse, concessioni e tributi non pagati, godranno di uno sconto. Pare che il Governo abbia inserito, nella legge sull'IMU, un provvedimento relativo allo sconto del 75% su questa somma enorme accumulata dalle multinazionali. È responsabile per un cavillo, viene perseguitato ed è l'unica persona al mondo alla quale viene sequestrato l'orologio e gli orecchini. Maradona è un campione anche nei pignoramenti ed è quasi stufo dell'Italia". Sul gesto dell'ombrello, definito "miserabile" da Fassina e mal valutato anche da Letta, Pisani ribatte: "Si lamentano del gesto di Maradona, di satira, quasi di soddisfazione per non essere vittima di un pignoramento ingiusto, per essere scampato da un agguato. Maradona non voleva offendere nessuno. Totò addirittura faceva la pernacchia che è un gesto goliardico, un gesto che fa parte dell'arte. Tra l'altro, se guardiamo le immagini, il gesto di Maradona era rivolto a se stesso".
ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.
Come non dare ragione al Papa. Il Papa prega per i detenuti: "Facile punire i più deboli, i pesci grossi nuotano". Il 23 ottobre 2013 prima dell'udienza generale il Pontefice ha incontrato 150 cappellani delle carceri italiane. "Anche Gesù è stato un carcerato". Poi rivela: "Chiamo spesso i reclusi di Buenos Aires". Il Papa ha voluto "far arrivare un saluto a tutti i detenuti" nelle carceri italiane, ricevendo i cappellani, prima dell'udienza generale che ha raccolto anche oggi circa 100mila persone. Gremite, oltre a piazza San Pietro, anche piazza Pio XII e le vie limitrofe, compreso il primo tratto di via Conciliazione. Il Pontefice ha parlato a braccio toccando diversi argomenti. "È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano" ha detto Bergoglio ai cappellani. "Ai detenuti - ha aggiunto - potete dire che il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore". Anche il Signore è stato "carcerato dai nostri egoismi, dai nostri sistemi, dalle tante ingiustizie. È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano". Parlando a braccio durante l'udienza, il Pontefice ha detto: "Recentemente avete parlato di una giustizia di riconciliazione, ma anche una giustizia di speranza, di porte aperte, di orizzonti, questa non è una utopia, si può fare, non è facile perché le nostre debolezze sono dappertutto, il diavolo è dappertutto, ma si deve tentare". Il Papa ha raccontato che spesso, soprattutto la domenica, telefona ad alcuni carcerati a Buenos Aires e che la domanda che gli viene in mente è: "Perché lui è lì e non io?". "Mi domando: perché lui è caduto e non io? Le debolezze che abbiamo sono le stesse... È un mistero che ci avvicina a loro". Poi ha detto ai cappellani di portare un messaggio da parte sua: "Ai detenuti, a nome del Papa, potete dire questo: il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, il suo amore paterno e materno arriva dappertutto". Il fondamento evangelico. Gesù stesso si riconosce nel carcerato: "ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi" (Mt.25,35-36). Gesù non giudica e non condanna come fanno i tribunali delle nostre società civili. Egli muore tra due ladri, non tra due innocenti condannati ingiustamente, e a uno dei due dice: "Oggi sarai con me nel paradiso" (Lc 23,43). Gesù insegna a non giudicare e a non condannare: "Non giudicate, per non essere giudicati…"(Mt.7,1).
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.
E poi ancora, neanche gli studenti si salvano da questo marasma. Imparare ad essere Casta sin dalle elementari. Pretendere presunti diritti e ignorare i sacrosanti doveri. Altro che proteste, gli studenti sono una Casta iniziatica a future corporazioni: magistrati, avvocati, notai, ecc. Costano molto più di quel che pagano, si laureano dopo i 27 anni, non si muovono da casa. E non azzeccano una battaglia, scrive Filippo facci su “Libero Quotidiano. Non è un Paese per studenti, questo: a meno che siano svogliati, viziati, rammolliti dalla bambagia familiare, cioè bamboccioni, iper-protetti dal familismo e da un welfare schizofrenico. Allora sì, ecco che questo diventa un Paese per studenti: purché siano quelli che sfilavano nel corteo romano, sabato, col fegato di sostenere che «gli stanno rubando il futuro», quelli che il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha sconsigliato dal laurearsi perché avrebbero meno probabilità di trovare lavoro, quelli che hanno scambiato la condizione studentesca per un parcheggio post-puberale, quelli, insomma, ai quali potete anche dirlo: che sono una casta. Loro rimarranno di sale, li farete imbestialire, ma lo sono e lo restano. Lo sono perché lo Stato gli chiede soltanto mille o duemila euro l’anno di tasse universitarie, mentre ne costano - allo stesso Stato - una media di settemila: soldi a carico nostro, della fiscalità generale, soldi pagati anche da chi magari i figli all’università non ce li può mandare, magari perché non può, perché non ce la fa. Una casta è proprio questo: il privilegio di una minoranza a spese di una maggioranza. Ma voi provate a dirglielo. Provate a spiegarglielo. Provate a spiegare a tanti coccolatissimi giovani, che per definizione hanno sempre ragione, che da una quarantina d’anni non hanno azzeccato una battaglia che sia una, spesso rincoglioniti dalla cultura bipolare e catastrofista dei loro cattivissimi maestri sessantottini: dediti, quest’ultimi, a condire il loro progressivo accomiatarsi con profezie di sciagura che hanno trasformato ogni futuro in un funerale sociale, ambientale, economico e tecnologico. Provate a dirglielo senza che vi saltino addosso: loro, i loro genitori e ovviamente la stampa conformista. Provate a dirgli che l’ex ministro Elsa Fornero, quando diceva che i giovani non devono essere schizzinosi all’ingresso nel mondo del lavoro, aveva ragione e basta. Provate a dirgli che Annamaria Cancellieri, quando parlò degli italiani «mammoni», aveva ragione pure lei, o, peggio, che ce l’aveva anche l’ex viceministro Michel Martone quando disse che un 28enne non ancora laureato è spesso uno sfigato. Oh certo, un laureato italiano resta sfigato a qualsiasi età, molte volte: perché manca il lavoro, perché la scuola non forma, e poi certo, perché un sacco di giovani si chiudono nelle università anche per prolungare una sorta di anticamera della vita reale, sfuggendo ogni minimo approccio col mondo del lavoro. Sta di fatto che gli studenti lavoratori in Italia restano una minoranza: c’è poco da sproloquiare. Da noi ci si laurea in media dopo i 27 anni quando in Europa non si arriva ai 24, con un mercato che ormai è senza confini e rende i giovani italiani dei potenziali ritardatari agli appuntamenti che contano. A sostenerlo ci sono tutti i dati del mondo, e il governatore di Bankitalia l’ha detto chiaro: il livello di istruzione dei nostri giovani è ancora ben distante da quello degli altri Paesi avanzati, c’è dispersione scolastica, un laureato italiano ha meno possibilità di trovare lavoro di un diplomato, c’è una percentuale spaventosa di analfabetismo funzionale e cioè un’incapacità diffusa, in sostanza, di usare efficacemente la lettura e la scrittura e il calcolo nelle situazioni quotidiane. Ma dire questo, politicamente, non serve: ci sono animi da non frustrare - ti spiegano. Teniamoci dunque la patetica casta degli studenti, questi poveracci che siamo riusciti a rovinare con la scusa di proteggerli. Non diciamogli che sono gli studenti con meno mobilità al mondo (l’80 per cento è iscritto nella regione di residenza) e che spesso la facoltà viene scelta secondo la distanza da casa, anche perché cinque giovani su dieci, dai 25 ai 34 anni, vivono ancora coi genitori. Non diciamogli che quello sciagurato e falso egualitarismo chiamato «valore legale del titolo di studio» ha prodotto milioni di false illusioni perché un pezzo di carta non insegna un lavoro né ti aiuta davvero a trovarlo, se nel frattempo non l’hai imparato e non hai capito che una professione e un’emancipazione non sono regali, non sono diritti, non sono pezzi di carta: sono una durissima conquista.
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi.
La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato?
«Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”.
E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”.
Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati.
Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno.
A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati.
Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?
Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465).
E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”.
E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima».
Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar.
Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio?
Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito.
Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme.
Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!
LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.
"Licenza di tortura". Ilaria Cucchi. La famiglia di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Riccardo Rasman. La nipote di Franco Mastrogiovanni. Parenti e amici di persone picchiate o uccise da forze dell'ordine, guardie penitenziarie, medici. La giovane fotografa Claudia Guido ha deciso di immortalare i loro volti. Per mostrare che potrebbe succedere ad ognuno di noi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Rudra Bianzino indossa una giacca blu, ha le mani in tasca, sullo sfondo le colline di Perugia. Suo padre, Aldo, è morto in carcere cinque anni fa. Era entrato in ottima salute. È uscito due giorni dopo in una bara. L'unica certezza che Rudra e i suoi fratelli hanno avuto dal processo, finora, è che il padre si sarebbe potuto salvare, se qualcuno avesse ascoltato le sue urla di dolore. Ma la guardia carceraria ch'era servizio non ha chiamato i soccorsi. Per questo l'agente è stata condannato a un anno e mezzo di reclusione: ma in carcere non ci andrà perché la pena è sospesa. Quella di Aldo Bianzino e dei suoi figli è una delle undici storie raccontate attraverso i ritratti dei parenti e dei “sopravvissuti” da Claudia Guido, giovane fotografa padovana che li ha raccolti in una mostra itinerante intitolata “ Licenza di tortura ”. Un progetto che, spiega l'autrice, è diventato anche una forma di protesta: «Per due anni ho vissuto con queste famiglie. Ho conosciuto le loro battaglie, lo sconforto, la difficoltà di arrivare non dico a una sentenza, alla punizione dei colpevoli, ma anche semplicemente al processo: che costa tanto, economicamente ed emotivamente. Con loro ho conosciuto anche la tortura quotidiana dell'abbandono e delle parole di chi accusa, deride o rilegge le loro storie senza pensare alla sofferenza che provano intere famiglie». Gli scatti della Guido sono frontali, scarni, senza forzature: «Non ho aggiunto elementi distintivi, non ho associato ai ritratti le immagini agghiaccianti delle vittime che abbiamo visto sui giornali», spiega l'autrice: «Perché quello che vorrei trasmettere è il sentimento che ho provato io stessa leggendo queste storie sui quotidiani: l'idea che quelle violenze sarebbero potute capitare a me. Quando mia madre ha visto la foto di Patrizia Moretti ha detto: “Potrei essere io”». Lucia Uva - sorella di Giuseppe. La notte tra il 13 e il 14 luglio 2008 Giuseppe Uva rimase per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Da lì fu trasferito in ospedale, dove morì. Il giudice di primo grado, Orazio Muscato, ha scritto che le cause del decesso andrebbero individuate "in una tempesta emotiva legata al contenimento, ai traumi auto e/o etero prodotti, nonché all'agitazione da intossicazione alcolica acuta". Se ha assolto i medici, il tribunale ha stabilito però che "permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta esser stato redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per disturbo della quiete pubblica, è prelevato e portato in caserma, così come tutt'ora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all'interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono alcune volanti di polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di un intervento particolarmente invasivo quale il trattamento sanitario obbligatorio". Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi , ucciso di botte da quattro poliziotti la notte del 25 settembre 2005, è stata uno dei primi contatti della ventinovenne padovana. Poi sono arrivati il padre e il fratello di Federico, insieme alle altre vittime che ora stanno girando per tutta Italia : la mostra arriverà a breve anche a Roma e a Milano. «Dopo undici casi mi son dovuta fermare: ero troppo coinvolta. Ma non escludo la possibilità di continuare: l'argomento è purtroppo sempre attuale». Nel frattempo, dall'aprile del 2011, la Guido ha portato davanti al suo obiettivo Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano , morto dopo esser stato arrestato, picchiato, e lasciato senza cure il 22 ottobre del 2009; la famiglia di Riccardo Rasman, il giovane con problemi psichici immobilizzato, colpito e asfissiato da tre agenti, a casa sua, il 27 ottobre del 2006; un sopravvissuto come Paolo Scaroni , il tifoso che nel 2005 finì in coma per le manganellate della polizia e dal suo risveglio ha avviato una battaglia legale per individuare i colpevoli; o come Stefano Gugliotta, menato da uomini in divisa il 5 maggio del 2010 e salvatosi da una condanna per “resistenza a pubblico ufficiale” solo grazie ai video girati col cellulare dagli abitanti della zona. Nella mostra ci sono poi Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovanni , il maestro morto il 4 agosto 2009 in un reparto psichiatrico dell'ospedale di Vallo della Lucania, dopo esser rimasto per ore legato a un letto senza cure né acqua. Si sono fatti ritrarre anche il padre, la madre e la sorella di Carlo Giuliani , il ragazzo di 23 anni ucciso da un proiettile della polizia il 20 luglio 2001 durante le contestazioni del G8 di Genova ; la figlia di Michele Ferrulli , il 51enne morto d'infarto mentre veniva arrestato il 30 giugno del 2011; Luciano Isidro Diaz , fermato la notte del 5 aprile del 2009 mentre guidava troppo forte e reso vittima di lesioni così gravi da causargli la perforazione di un timpano e il distacco della retina; e infine la sorella e il migliore amico di Giuseppe Uva , l'uomo morto in ospedale dopo esser stato trattenuto per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Ci sono i volti di tutti loro. Che interrogano, per primo, lo Stato. Perché non lasci ripetere quelle violenze.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?
Il perito non capisce il dialetto: tre anni in cella da innocenti. A causa di intercettazioni mal interpretate due fratelli pugliesi vengono scambiati per mafiosi e sbattuti in carcere. Ora chiedono allo Stato un milione di risarcimento, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. In Italia puoi essere sbattuto dentro e restarci tre anni perché il consulente incaricato di analizzare le intercettazioni è di Bologna e, non capendo il dialetto delle tue parti, interpreta fischi per fiaschi. In Italia puoi esser agguantato d’improvviso insieme a tuo fratello perché «promotori di un sodalizio mafioso» che ti costerà 36 e passa mesi di cella. È possibile questo e pure altro, tanto non accadrà nulla a nessuno: tranne che a te, alla tua famiglia e al tuo lavoro. Vecchia storia, solita storia. La stessa capitata ai fratelli Antonio e Michele Ianno, di San Marco in Lamis (Foggia) che un bel mattino si sono visti ammanettare dalla Dda di Bari. Saranno detenuti «cautelarmente» tre anni uno e tre anni e mezzo l’altro, salvo accorgersi poi che non c’entravano niente, che quel clan non l’avevano mai costituito e che il duplice omicidio in concorso di cui erano accusati non lo avevano compiuto. E neppure un altro tentato omicidio, il porto d’armi illegale, niente di niente. Insomma, si trattava di un gigantesco abbaglio giudiziario. Nel giugno del 2004 il gip del tribunale di Bari firma la richiesta di custodia cautelare del pm della Dda per Antonio e Michele Ianno, poco meno che 40enni all’epoca, di professione «mastri di cantiere», cioè piccoli imprenditori edili formatisi a botte di secchi di calce sulle spalle. Sono considerati promotori di una compagine malavitosa facente capo alle famiglie Martino-Di Claudio, operante nel contesto della così detta mafia garganica. Associazione mafiosa (il “mitico” art. 416 bis), concorso in tentato omicidio e in duplice omicidio, porto illegale di armi, il tutto con l’aggravante di voler favorire i clan. Una gragnuola di accuse da svenire solo a leggerne i capi d’imputazione, un fulmine che incendia la vita dei due. E non solo. La difesa, rappresentata dal prof. avv. Giuseppe Della Monica, prova a spiegare che stavano prendendo un granchio ma quando le cose prendono una certa piega raddrizzarle è impresa titanica. Sarà così tutto un crescendo di ricorsi e controricorsi, un supplizio di “calamandreiana” memoria. In queste storie, in genere o c’è un «pentito» che si ricorda di te oppure, intercettando a strascico in una certa area sensibile, si rischia di scambiare lucciole per lanterne. Se di sbagliato poi c’è anche la relazione di un consulente del pm che - chissà perché scovato a Bologna - fraintende il dialetto pugliese ecco che la faccenda si complica, fino a farsi kafkiana grazie a un’altra ordinanza che colpirà i fratelli, per giunta per gli stessi reati più un’estorsione che prima non c’era: un modo come un altro per mandare a farsi benedire il ne bis in idem. Negli atti si legge un po’ di tutto oltre al sangue versato: appalti del comune di San Marco in Lamis di esclusivo appannaggio degli Ianno mentre invece l’ente attesterà che non era vero esibendo l’elenco delle opere pubbliche; oppure il pericolo di fuga a giustificazione dell’arresto: per la Dda i due s’erano dati alla macchia per evitare lo Stub (il guanto di paraffina) ma la difesa riuscirà a provare che non era così perché un vigile urbano li aveva identificati su un cantiere per le proteste di un vicino disturbato dai rumori proprio il giorno del reato contestato. Siamo nel 2006, due anni sono già trascorsi intanto. La seconda ordinanza viene annullata totalmente in udienza preliminare e il giudice ordina la scarcerazione «se non detenuto per altro motivo». L’altro motivo, però, c’era ed era la prima ordinanza, i cui effetti erano ancora in itinere dinanzi alla Corte d’Assise di Foggia. Per farla breve, i giudici alla fine si accorgeranno dell’errore della procura e scarcereranno prima Michele e poi Antonio, a distanza di sei mesi uno dall’altro. Inutile dire delle conseguenze dirette ed indirette patite. Risultato? Lo stato prepari un bell’assegno circolare da un milione di euro: tanto hanno chiesto nel 2010 - quando tutto è passato in giudicato - cioè il massimo previsto dalla legge (500mila euro cadauno) per tanta gratuita tragedia. Ovviamente ancora aspettano.
Ed ancora. Correva l’anno 2006. Il 29 settembre, per l’esattezza, scrive di Walter Vecellio su “Libero Quotidiano”. Il luogo: Ruvo del Monte, comune, informano i manuali di geografia, in provincia di Potenza, «situato a 638 metri sul livello del mare, nella zona Nord Occidentale della Basilicata, ai confini con l’Irpinia». A Ruvo del Monte vivono circa milleduecento persone; è da credere si conoscano tutti. E più di tutti, i locali carabinieri, che con il locale sacerdote, evidentemente sono a conoscenza di tutto quello che accade, si fa, si dice. Dovrebbero, si suppone, anche conoscere due fratelli gemelli, Domenico e Sebastiano. Dovrebbero conoscerli bene, perché in paese non deve certo essere sfuggito il fatto che patiscono gravi ritardi mentali. Quando il 29 settembre del 2006 i carabinieri, frugando nella casa dei due fratelli trovano una rivoltella, hanno evidentemente fatto il loro dovere, sequestrandola. Ed è quello che prescrive la legge, quando viene redatto un rapporto che riassume l’accusa in un paio di righe: «Detenzione illegale di arma». I carabinieri si suppone conoscano le armi; se sostengono che si tratta di una pistola fabbricata prima del 1890, si suppone sappiano quello che dicono. E cosa si fa, in casi del genere? Si istruisce un processo; un processo per detenzione di arma illegale che si conclude nel 2012. La sentenza: «Non luogo a procedere». E come mai, nel 2006 la detenzione illegale di arma sei anni dopo diventa «non luogo a procedere»? Come mai, nei fatti e in concreto, il giudice di Melfi assolve pienamente i due fratelli? Perché la pistola non è una pistola; perché non si può detenere illegalmente un’arma che non è un’arma. Perché la pistola che si diceva «fabbricata prima del 1890» in realtà è una pistola giocattolo. I due fratelli l’avevano detto con tutto il fiato che avevano in gola: «Non è un’arma, è un giocattolo». Niente da fare. «Detenzione di arma illegale». Bastava guardarla, quell’«arma illegale»: «Si vedeva subito che era finta, con quella foggia bizzarra che ricalca quelle strette alla cintura dei conquistadores spagnoli del ‘500». Per i carabinieri era «un’arma illegale». I carabinieri come mai erano entrati a casa dei due fratelli? Cercavano oggetti sacri rubati al cimitero del paese. Qui si può immaginare la scena: chi può introdursi in un cimitero per rubare? Degli spostati. E in paese, tutti lo sanno, i due fratelli con la testa non ci sono del tutto. Allora andiamo da loro. Si bussa alla porta, loro aprono. «Si può?». «Prego, accomodatevi». Ecco. E lì, in bella vista «l’arma illegale». Subito in caserma, per l’interrogatorio di rito. Poi l’avviso di garanzia. Passano i giorni, le settimane e i mesi, e arriva l’imputazione: articolo 687 del codice di procedura penale, che punisce appunto la detenzione illegale di armi: dai tre ai dodici mesi, 371 euro di ammenda. Si chiudono le indagini preliminari, c’è il rinvio a giudizio. Finalmente qualcuno pensa di rivolgersi a un perito. Naturalmente è l’avvocato dei due fratelli, non ci pensano né i carabinieri né il Pubblico Ministero. Racconta l’avvocato: «All’apertura della busta contenente la presunta arma idonea a offendere, presenti io, il giudice e il perito tutto si è risolto in una risata. Non c’è stato nemmeno bisogno di una analisi approfondita: una colata unica, un simulacro da bancarella».
Ed Ancora. "Aspettavo questo momento da 36 anni". Giuseppe Gulotta, accusato ingiustamente di essere l'autore del duplice omicidio dei carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, avvenuto nella casermetta di Alcamo Marina il 27 gennaio 1976, lascia da uomo libero il tribunale di Reggio Calabria dove dopo esattamente 36 anni dal giorno del suo arresto (21 gli anni trascorsi in cella) è stato dichiarato innocente. Un nuovo macroscopico caso di malagiustizia, scrive “Libero Quotidiano”. Alla lettura della sentenza, al termine del processo di revisione che si è svolto a Reggio Calabria, Gulotta è scoppiato in lacrime, insieme alla sua famiglia. Accanto a lui c'erano gli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini che lo hanno assistito durante l'iter giudiziario. "Spero - ha dichiarato l'uomo parlando con i giornalisti - che anche per le famiglie dei due carabinieri venga fatta giustizia. Non ce l’ho con i carabinieri - ha precisato - solo alcuni di loro hanno sbagliato in quel momento". Giuseppe Gulotta, nonostante la complessa vicenda giudiziaria che lo ha portato a subire nove processi più il procedimento di revisione, non ha smesso di credere nella giustizia. "Bisogna credere sempre alla giustizia. Oggi è stata fatta una giustizia giusta", ha però aggiunto. Un ultimo pensiero va all’ex brigadiere Renato Olino, che con le sue dichiarazioni ha permesso la riapertura del processo: "Dovrei ringraziarlo perché mi ha permesso di dimostrare la mia innocenza però non riesco a non pensare che anche lui ha fatto parte di quel sistema". Il 26 gennaio 1976 furono trucidati i carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Ad accusare Gulotta della strage fu Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi nelle carceri di San Giuliano a Trapani, nell'ottobre del 1976 (era stato arrestato a febbraio). Gulotta, in carcere per 21 anni, dal 2007 godeva del regime di semilibertà nel carcere di San Gimignano (Siena). Venne arrestato il 12 febbraio 1976 dai militari dell'Arma dopo la presunta confessione di Vesco. Nel 2008 la procura di Trapani ha iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di sequestro di persona e lesioni aggravate alcuni carabinieri, oggi in pensione, che nel 1976 presero parte agli interrogatori degli accusati della strage di Alcamo Marina: il reato contestato agli agenti è quello di tortura nei confronti degli interrogati.
Dall’altra parte ci troviamo al paradosso. Il killer ha confessato 30 delitti e ha fatto luce su altri 50. Pentitosi di essere diventato un collaboratore di giustizia ha ricominciato dedicandosi allo spaccio di droga. Per questo era stato riammanettato e condannato a 20 anni di galera, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. C’è un signore che ha confessato trenta omicidi e ha fatto luce, con dichiarazioni ad hoc, su altri cinquanta. Era un «pentito» di camorra che, pentitosi del pentimento, ricominciò alla grande sbarcando in Emilia Romagna per dedicarsi alla spaccio internazionale di droga. Ovviamente, in associazione (a delinquere) con altri. Lo stesso signore, riammanettato e condannato a 20 anni nel secondo grado del nuovo giudizio, invece che starsene in gattabuia circola liberamente per le strade di Afragola, popoloso centro dell’hinterland napoletano celebre per essere anche la città d’origine di Antonio Bassolino. Si chiama Mauro Marra, è tecnicamente un libero cittadino perché i suoi giudici naturali non hanno trovato il tempo di rifargli il processo come aveva loro intimato la Corte di Cassazione: sono scaduti i così detti «termini di fase», non c’è più nulla da fare, se riuscite a fargli nuovamente il processo che spetta a ogni cittadino italiano indipendentemente dal reato commesso (si chiama civiltà giuridica) bene, altrimenti Marra deve starsene a casa, come per ora già sta facendo. È una storia incredibile ma vera, neanche tanto originale se si considera lo stato comatoso del servizio giustizia nel Paese. Ne ha scritto ieri il più antico quotidiano italiano, il Roma. Quando parli di Mauro Marra non ti appare il ragazzotto di Scampia, imbottito di cocaina scadente e pronto a sparare anche per 200 euro. No, parli di uno che non solo ha ucciso trenta avversari del clan nemico, non solo era nei programmi strategici per fare altrettanto con ulteriori 50 persone (cosa che si verificò) ma addirittura di uno dalla cieca fede in Raffaele Cutolo (l’ultimo, vero, padrino) e braccio destro di Pasquale Scotti, latitante da 28 anni che difficilmente qualcuno, ormai, prenderà. Sempre che sia vivo. Marra, poi, è ancora molto altro: è il super killer della Nco (Nuova camorra organizzata) che sbugiardò gli accusatori di Enzo Tortora aprendo uno squarcio su una delle punte massime del disonore del sistema giudiziario. «Hanno accusato un innocente» disse in aula il 25 settembre 1985, riferendosi alle «visioni» dei vari Barra, Melluso, Auriemma, Catapano, Pandico e Dignitoso. Anche grazie a quella presa di posizione per l’ex presentatore televisivo fu possibile risalire la china ed ottenere -diciamo- giustizia. Scansata la matematica sfilza di ergastoli grazie alla legge sul pentitismo, dopo una ventina d’anni riprese a delinquere e finì incarcerato nel 2006 mentre era in una località protetta del Nord. Il 26 marzo 2009 la I sezione penale lo condanna a 18 anni; in secondo grado la IV Corte d’Appello di Napoli gli aumenta la pena a venti. Siamo nel dicembre 2011. Il 21 novembre scorso la Cassazione ribalta tutto rinviando gli atti a Napoli per una nuova sentenza: i tre anni entro cui i magistrati avrebbero dovuto rendere definitiva la pena (i termini di fase) sono trascorsi vanamente e, pertanto, Marra deve essere scarcerato. Ovviamente il lavoro minuzioso di ricostruzione degli avvocati (Antonio Abet e Giuseppe Perfetto) è stato determinante. Da una settimana il pluriomicida è libero. Aspetta che la sentenza diventi definitiva. Non è scritto però da nessuna parte che i giudici di II grado lo condannino, così come è altrettanto probabile che ricorra, eventualmente, ancora in Cassazione. E il tempo passa. Ma sarà senz’altro colpa dei cancellieri che mancano, degli stenografi che non si trovano o della carta per fotocopie che scarseggia.
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
Storicamente, il populismo, ha rappresentato una delle più sofisticate manifestazioni politiche di disprezzo per il popolo. La premessa serve a fare gli elogi al discorso tenuto in Senato dalla capogruppo del M5S, Paola Taverna. Un discorso compatto, preciso, ricco di passione e ritmo, costruito impeccabilmente. “In dieci minuti quello che il Pd non ha detto per venti anni“, è stato scritto sulla rete. Lo ripropongo nello stenografico di Palazzo Madama (i puntini di sospensione segnalano le infinite, e stizzite, interruzioni da parte di Forza Italia).
«Signor Presidente, onorevoli colleghi, si chiude, oggi, impietosamente, una «storia italiana», segnata dal fallimento politico, dall’imbarbarimento morale, etico e civile della Nazione e da una pesantissima storia criminale. Storie che si intrecciano, maledettamente, ai danni di un Paese sfinito e che riconducono ad un preciso soggetto, con un preciso nome e cognome: Silvio Berlusconi. La sua lunga e folgorante carriera l’abbiamo già ricordata in passato: un percorso umano e politico costellato di contatti e rapporti mai veramente chiariti, che passano per società occulte, P2, corruzione in atti giudiziari, corruzione semplice, concussione, falsa testimonianza, finanziamento illecito, falso in bilancio, frode fiscale, corruzione di senatori, induzione alla prostituzione, sfruttamento della prostituzione e prostituzione minorile. Insomma un delinquente abituale, recidivo e dedito al crimine, anche organizzato, visti i suoi sodali. Ideatore, organizzatore e utilizzatore finale dei reati da lui commessi. Senatore Berlusconi, anzi signor Berlusconi, mi dispiace che lei non sia in Aula. Forse alcuni hanno dimenticato che la sua discesa in campo ha avuto soprattutto, per non dire esclusivamente, ragioni imprenditoriali: la situazione della Fininvest nei primi anni Novanta, con più di 5.000 miliardi di lire di debiti, parlava fin troppo chiaro; il rischio di bancarotta era dietro l’angolo. Alcuni suoi dirigenti vedevano come unica via d’uscita il deposito dei libri contabili in tribunale. La cura Forza Italia è stata fantastica per le sue finanze, perché – ricordiamolo – non è entrato in politica per il bene di questo Paese, come declamava da dietro una scrivania su tutte le sue televisioni. Le elezioni politiche del 1994 hanno segnato l’inizio di una carriera parlamentare illegittima, sulla base della violazione di una legge vigente sin dal 1957, la n. 361, secondo la quale Silvio Berlusconi era ed è palesemente ineleggibile. Quella legge non è mai stata applicata, benché fosse chiarissima, grazie alla complicità del centrosinistra di dalemiana e violantiana memoria. Per non parlare dell’eterna promessa, mai mantenuta, di risolvere il conflitto di interessi. E tutto ciò è avvenuto non per ragioni giuridiche – come ora qualcuno, mentendo, vorrebbe farci credere – ma per onorare patti scellerati, firmati sottobanco per dividersi le spoglie di un Paese. Forse qualcuno si indignerà, urlando che queste sono semplici illazioni. Lasciamo che sia la storia a rispondere! Camera dei deputati, 28 febbraio 2002, Resoconto stenografico della seduta n. 106 della XIV legislatura. Cito le parole dell’onorevole Luciano Violante, al tempo capogruppo dei Ds, oggi Pd, mentre si rivolge ad un collega dell’apparentemente opposto schieramento: «(…) l’onorevole Berlusconi (…) sa per certo che gli è stata data la garanzia piena – e non adesso, nel 1994, quando ci fu il cambio di Governo – che non sarebbero state toccate le televisioni.. Lo sa lui e lo sa l’onorevole Letta», zio. «Voi ci avete accusato di regime nonostante non avessimo fatto il conflitto di interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni (…). Durante i Governi di centrosinistra il fatturato di Mediaset è aumentato di 25 volte». Questa è storia! Come storia è la discesa in campo del senatore, fatta di promesse mai mantenute: dal taglio delle tasse al milione di posti di lavoro. Ma non era l’imprenditore illuminato che avrebbe salvato l’Italia, anzi l’azienda Italia? Quello che doveva pensare alla cosa pubblica? Dal discorso del senatore Berlusconi del 1994 cito: «La vecchia classe politica è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. (…) L’autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal debito pubblico e dal finanziamento illegale dei partiti, lascia il Paese impreparato e incerto nel momento difficile del rinnovamento e del passaggio ad una nuova Repubblica». Incredibile, ma vero: sono proprio sue parole. Potrà però sorgerci legittimamente il dubbio che si sia preso gioco di noi per vent’anni, e ancora adesso? Due mesi fa abbiamo visto diversi Ministri, in suo nome, presentare le dimissioni dando inizio al siparietto della prima crisi di un Governo nato precario, per non parlare della legge di stabilità che giaceva ormai da settimane nella 5a Commissione. Ma lo vogliamo dire agli italiani che la legge, che dovrebbe assicurare i conti ma soprattutto garantire la ripartenza economica del nostro Paese e la sua stabilità, è stata svilita e degradata a semplice espediente dilatorio per farle guadagnare qualche altro giorno in carica? Oppure vogliamo ricordare i due bei regali che riceverà a spese di tutti noi contribuenti? Assegno di solidarietà pari a circa 180.000 euro; assegno vitalizio di 8.000 euro mensili. C’è bisogno poi di ricordare perché ancora oggi qualcuno, nonostante l’evidenza dei fatti, nonostante una sentenza passata in giudicato, voglia un voto, uno stramaledetto voto per applicare una legge? Ha senso ribadire lo sfacelo di venti anni di indottrinamento fondato sull’apparire, sul dire e il non fare, sull’avere e non sull’essere? Anche nell’ultimo atto della sua storia parlamentare comunque il senatore riuscirà a segnare un record. L’illegittimità e l’indegnità della sua carica senatoriale sono addirittura triple: incandidabilità sopravvenuta, ineleggibilità e interdizione da pubblici uffici per indegnità morale. In sostanza, un vero e proprio capolavoro! Questo Senato poi sentirà un’enorme mancanza dell’operato parlamentare del signor Berlusconi. Ho sentito oggi riprendere i senatori a vita. Dall’inizio della legislatura i dati dimostrano la sua dedizione al lavoro in questa istituzione; dimostrano la passione con cui ha interpretato il proprio mandato nell’interesse del Paese: disegni di legge presentati zero; emendamenti presentati zero; ordini del giorno zero; interrogazioni zero; interpellanze zero; mozioni zero; risoluzioni zero (Applausi dal Gruppo M5S); interventi in Aula uno, per dare la fiducia a questo Governo (eppure oggi è all’opposizione); presenze in Aula 0,01 per cento! Quindi, di cosa stiamo discutendo? Della decadenza dalla carica di senatore di un personaggio che il suo mandato non lo ha mai neppure lontanamente svolto, di un signore che però ha puntualmente portato a Palazzo Grazioli e ad Arcore ben 16.000 euro al mese per non fare assolutamente nulla, se non godere dell’immunità parlamentare. In questi venti anni il signor Berlusconi è stato quattro volte Presidente del Consiglio dei ministri, Presidente del Consiglio dell’Unione europea, due volte Ministro dell’economia e delle finanze, una volta Ministro dello sviluppo economico, Ministro degli affari esteri, Ministro della salute ma, soprattutto, è stato il Presidente del Consiglio che ha mantenuto per più tempo la carica di Governo e che ha disposto della più ampia maggioranza parlamentare della storia. Un immenso potere svilito e addomesticato esclusivamente ai propri fini, cioè architettare reati e incrementare il suo personale patrimonio economico.… Quante cose avrebbe potuto fare per questo nostro Paese, se solo avesse anteposto il bene comune ai suoi interessi personali, le riforme strutturali alle leggi ad personam! E, invece, dopo tutto questo tempo ci troviamo con la disoccupazione al 40 per cento, pensionati a 400 euro mensili, nessun diritto alla salute, nessun diritto all’istruzione… un territorio devastato dalle Alpi alla Sicilia, le nostre città sommerse dalle piogge… e le nostre campagne avvelenate… Era il 1997 quando Schiavone veniva a denunciare dove erano stati sversati quintali di rifiuti tossici: lo stesso anno in cui questo Stato decise di segretare tali informazioni. Tutto ciò con l’IVA al 22 per cento e un carico fiscale che si conferma il più alto d’Europa, pari al 65,8 per cento dei profitti commerciali… e gli imprenditori… che si suicidano per disperazione, spesso nemmeno per debiti, ma per i crediti non pagati dalla pubblica amministrazione, cioè dallo Stato stesso! Di tutto questo il senatore Berlusconi non sembra preoccuparsi. La decadenza di un intero Paese sembra non interessargli minimamente, conta solo la sua. Giusto…Ha il terrore di espiare la propria pena ai servizi sociali, di svolgere mansioni che ritiene non alla sua altezza… Beh, sappia che quelli sono lavori che centinaia di migliaia di italiani perbene svolgono con dignità e onestà… Gli auguriamo che questa possa essere invece un’occasione per uscire dal suo mondo dorato, così forse potrà rendersi conto del disastro e del baratro in cui i cittadini normali si trovano a causa del sistema da lui generato e alimentato…Questo però non deve essere un discorso di rabbia. Questo vuole essere un discorso di speranza…Concludo, Presidente. La nostra presenza in quest’Aula oggi rappresenta un solo e semplice concetto: noi non vogliamo chiamarci politici, ma restituire il potere ai cittadini… Questa non è una vendetta. Qui non c’è nessuna ingiustizia o persecuzione. Qui ci sono solo cittadini italiani che vogliono riprendersi il proprio presente, altrimenti non avranno più un futuro.»
La decadenza di Berlusconi. Cronaca, frasi, retroscena di una giornata entrata nella storia della politica, scrive Paola Sacchi su “Panorama”. Aldo Cazzullo editorialista e commentatore del "Corriere della sera" inarca il sopracciglio e un po' sorride quando, in uno dei corridoi di Palazzo Madama, il verace senatore dalemiano Ugo Sposetti confessa: "La decadenza di Silvio Berlusconi è come la caduta del muro di Berlino, ma i miei ora devono stare attenti: quel muro in Italia venne addosso tutto a chi lo aveva preso a picconate, la Dc e il Psi....". Il senatore Pd, Stefano Esposito, anche lui di rito dalemiano a Panorama.it ammette chiaramente: "Sì, Berlusconi è decaduto, ma è uscito solo dalla vita parlamentare, non dalla politica. L'uomo è ancora vivo e vegeto e guai se il Pd lo dà per morto, commetterebbe lo stesso errore fatto con la sottovalutazione di Beppe Grillo". Se queste sono le grida d'allarme che vengono dalla sinistra (tendenza riformista), figuriamoci quelle che vengono da Forza Italia. "Sarà per loro un boomerang", dice secco il senatore Fi Altero Matteoli. E il vicepresidente del Senato (Fi) Maurizio Gasparri è caustico sulla conduzione dei lavori in aula da parte del presidente Pietro Grasso: "Lui è l'ultima rotella di un ingranaggio molto più vasto che voleva cacciare Berlusconi dal Parlamento a tutti i costi". Gasparri ricorre al Manzoni: "E' il piccolo untorello .... non sarà lui che spianta Milano". Quasi in contemporanea, con l'annuncio della sua decadenza da senatore, Silvio Berlusconi in Via del Plebiscito arringa la folla e annuncia dopo la "giornata di lutto per la democrazia", già il "primo appuntamento elettorale: l'8 dicembre riunione dei club di Fi di tutt'Italia", lo stesso giorno delle primarie del Pd. Rompe di fatto la tregua con Angelino Alfano. La folla urla: "Traditori" E il Cav: "Parole ruvide ma efficaci". Alfano in serata dirà: "Giornata nera per la democrazia". Ma "noi andremo avanti con il governo, in un rapporto di collaborazione-conflittualità", spiega a Panorama.it l'ex governatore lombardo e ora pezzo da novanta di Ndc, Roberto Formigoni. Che annuncia una formula di craxiana memoria e cioè "la collaborazione-competizione" del Psi con la Dc, in questo caso nelle parti del Pd. Sono le 17,40 quando Grasso annuncia con tono routinario, quasi fosse una pratica burocratica, la "non convalida dell'elezione a senatore di Silvio Berlusconi in Molise". Grasso ad un certo punto nel rush sembra ricorrere anche una celebre frase di Nanni Moretti. "E continuiamo così, continuiamo cosi...". Moretti concludeva "a farci del male". Ma quel "continuiamo così" non riguardava la mancata conoscenza della torta sacher. Era "la violazione del regolamento del Senato". Denunciato da Forza Italia con una valanga di ordini del giorno, ben nove, presentati da Fi (Elisabetta Alberti Casellati, ne ha presentati la maggioranza e a seguire Francesco Nitto Palma, Anna Maria Bernini e lo stato maggiore dei senatori azzurri. Si è invano chiesto il rispetto del regolamento del Senato tornando al voto segreto. Così come è previsto nelle votazioni che riguardano una singola persona. Grasso ha risposto picche anche a Pier Ferdinando Casini e al socialista Enrico Buemi, che hanno tentato di far passare la proposta di buon senso di aspettare almeno la decisione della Cassazione sulla richiesta di interdizione per Berlusconi da parte della Corte d'Appello di Milano. Niente da fare. Alla fine è stato Sandro Bondi ad avvertire tutti "gli amici di Fi" e i garantisti in generale a fermarsi: "Basta, inutile andare avanti, questa è una decisione già scritta. Lasciateli fare, lasciateli di fronte alle loro responsabilità". Poi stilettata ad Alfano: "E ora il Nuovo centrodestra che governi insieme con questi signori". E' l'inizio di un'opposizione durissima. E con numeri per la maggioranza meno robusti di quanto Enrico Letta abbia vantato. Sulla stabiliità c'è stato uno scarto di 36 voti. 171 sono stati quelli della maggioranza, 135 quelli dell'opposizione. Ma questo perché in realtà una decina di forzisti non si sarebbero presentati. Roberto Calderoli, vicepresidente del Senato, che di numeri si intende, a Panorama.it conferma: "Almeno sei non c'erano e ho visto anche qualche senatore a vita, mai visto di giorno, figuriamoci a quell'ora di notte". Era presente ieri per la prima volta Renzo Piano, incorrendo negli strali di Gasparri. Il leader dei lealisti di Fi Raffaele Fitto avverte: "E' incredibile che Letta faccia finta di nulla".
Decadenza Berlusconi. Le reazioni della stampa estera. Dalla Spagna al Brasile, passando per Francia, Usa, Germania, Gran Bretagna, Turchia e Qatar. Le prime pagine dei media mondiali aprono sul Cavaliere e in molti credono che non sia finita qui, scrive Anna Mazzone su “Panorama”. La decadenza di Silvio Berlusconi e la sua uscita dai palazzi ufficiali della politica è un vero e proprio caso internazionale. Praticamente tutti i media del pianeta pubblicano la notizia o corposi dossier sul Cavaliere sulle loro pagine online. Mancano all'appello solo i russi e gli asiatici, ma solo per questione di fuso orario. In Germania la Frankfurter Allgemeine titola subito dopo la grande coalizione tedesca su "Berlusconi espulso dal Senato". Sottolineando che con la decisione di un ramo del Parlamento italiano l'ex premier perde la sua carica politica più importante. "Fino a poco tempo fa - scrive la FAZ - Berlusconi e il suo partito avevano tentato di tutto per scongiurare l'espulsione dal Senato. I sostenitori di Berlusconi hanno dimostrato a Roma denunciando un golpe e la fine della democrazia". Lo stesso Berlusconi ha nuovamente gridato la sua innocenza davanti ai suoi seguaci, definendo quello di oggi "Un giorno amaro e un giorno di lutto per la democrazia". Die Welt mette prima Berlusconi di Angela Merkel nella priorità delle notizie e sottolinea che "L'ex premier italiano non reagisce in modo morbido all'espulsione dal Senato e annuncia un'opposizione serrata", e cita un duro attacco di Berlusconi alla sinistra italiana: "Oggi sono contenti perché hanno messo i loro avversari davanti al plotone di esecuzione. Sono euforici, perché aspettavano questo momento da 20 anni". Il quotidiano tedesco conclude con la frase del Cavaliere sulla scia delle parole dell'inno di Mameli: "Le parole ci Mameli le prendiamo come un dovere, siamo pronti a morire ..". Per Die Welt l'espulsione di Berlusconi dal Parlamento è un momento storico, che segna la fine della Seconda Repubblica italiana. Lo Spiegel non regala a Berlusconi la sua apertura online, ma mette la sua decadenza comunque in prima pagina. Nel sottolineare che l'ex premier non ha alcuna intenzione di arrendersi, il giornale tedesco pubblica un video che mostra i sostenitori di berlusconi assiepati fuori palazzo Grazioli a poche ore dal voto del Senato, in cui molti giovano dichiarano alle telecamere tedesche che "Loro devono decadere e non Silvio". Lo Spiegel poi affianca Berlusconi a Beppe Grillo, che guida il M5S pur stando fuori dal Parlamento, ma - comunque - scrive il quotidiano teutonico "Per il Cavaliere, in politica dal 1994, restare sulla cresta dell'onda da oggi in poi sarà molto difficile". E passiamo alla Gran Bretagna. Al momento in cui scriviamo la rivista finanziaria The Economist - che già aveva dedicato in passato copertine al vetriolo contro Berlusconi - non ha ancora pubblicato il suo commento sull'avvenuta decadenza. L'ultimo articolo dedicato alle cose della politica italiana risale al 21 novembre scorso a parla di "Una opportunità d'oro" per la politica italiana, dopo la decisione di un gruppo di ex fedelissimi di Berlusconi di passare dall'altra parte. "La divisione del partito di Berlusconi potrebbe rilanciare la coalizione di governo", scommette The Economist. Il Guardian apre la sua edizione online con la decadenza del Cavaliere e pubblica un ricco dossier sull'ex premier italiano, a cominciare da una dettagliata timeline dal titolo Ups and downs of Berlusconi's career - Alti e bassi della carriera di Berlusconi. Il quotidiano britannico, sempre molto duro nei confronti dell'ex presidente del Consiglio, sottolinea che "Con il loro leader sbattuto fuori dal Senato adesso i parlamentari di Forza Italia si cimenteranno in un'opposizione serrata e metteranno in pericolo le riforme istituzionali che il governo di Letta afferma di voler portare a termine". Immancabile la prima pagina del Financial Times che pubblica una foto scattata a Roma con un sostenitore di Berlusconi che agita un manifesto con il Cavlaiere sotto il simbolo delle Brigate Rosse e la scritta: "Prigioniero politico". Mentre il quotidiano conservatore di Londra, The Telegraph scrive nella sua apertura online: "Silvio Berlusconi, l'uomo che ha dato un nuovo significato alla parola 'faccia tosta', con aria di sfida ha promesso di rimanere al centro della politica italiana di ieri, nonostante sia stato ignominiosamente spogliato del suo seggio in parlamento a seguito di una condanna per massiccia frode fiscale". La versione in inglese di Al Jazeera , l'emittente del Qatar, mette Berlusconi nelle sue notizie di apertura, sottolineando che "L'ex primo ministro italiano è stato cacciato dal Senato in seguito alla sua condanna per frode fiscale". Ma - aggiunge Al Jazeera - "In molti credono che il 77enne possa risorgere ancora". Andiamo ora dall'altra parte dell'oceano. Berlusconi campeggia sulle homepage delle principali testate statunitensi. Sul Wall Street Journal la sua decadenza è la notizia di apertura. Il quotidiano della City americana titola sul "Voto per espellere il politico miliardario condannato per frode fiscale". La testata finanziaria sottolinea che la decadenza di Berlusconi "Ha segnato il culmine di quasi quattro mesi di furore politico che ha avuto inizio in agosto con la condanna per frode fiscale dell'uomo che ha dominato la vita politica italiana per due decenni". In più il WSJ pubblica la storia di Berlusconi e una sua gallery di foto. Il New York Times dà a Berlusconi la sua prestigiosa colonna di sinistra in homepage. L'articolo è firmato da Jim Yardley, che scrive che "L'ex primo ministro, un tempo molto potente, è stato allontanato dal Senato". Yardley prosegue dicendo che "Dopo aver speso mesi fabbricando ad arte ritardi procedurali o congiurando melodrammi politici con il fine di salvarsi, Silvio Berlusconi oggi ha dovuto accettare l'inevitabile: essere espulso dal Senato, un'espulsione tragica ed umiliante, mentre altri potenziali problemi si profilano al suo orizzonte". Il Washington Post preferisce invece aprire sulla politica interna americana e poi passare solo in seconda battuta al caso della decadenza del Cavaliere. E sulla "resistenza" di Berlusconi il giornale di Washington è possibilista: "Anche se Berlusconi non avrà più un seggio in Parlamento - scrive il giornalista - in molti si aspettano che resti comunque influente nella politica italiana". Grancassa decadenza sul quotidiano spagnolo El Pais, che dedica un'apertura a 8 colonne a Berlusconi e un corposo dossier che ricorda - passo dopo passo - tutta la storia del Cavaliere, dalla sua discesa in campo all'espulsione dal Senato. Corredano il dossier due gallery di immagini. L'incipit dell'articolo principale del quotidiano progressista spagnolo ha toni molto ironici: "Dicono che (Berlusconi) non dorma da molti giorni, che alterna momenti di depressione profonda con altri di un'euforia spropositata che lo porta a esclamare: "Giuro che tornerò a Palazzo Chigi [la sede del Governo]. Il sempre teatrale Silvio Berlusconi sta perdendo la bussola. E, a pensarci bene, questa non è una sorpresa". Meno ironico e più ottimista per le sorti del Cavaliere il quotidiano El Mundo , di area conservatrice. In un editoriale a firma di Miguel Cabanillas che commenta la notizia sulla decadenza pubblicata in apertura dell'edizione online, si definisce Berlusconi "Un'araba fenice con molti epitaffi politici sulle spalle". Un politico sempre pronto a sorprendere e a rinascere. "Come un'araba fenice che rinasce dalle sue cenerei quando tutti lo danno per politicamente morto, il magnate italiano - scrive Cabanillas - non rinuncia al pedigree della sua vita che, nelle ultime due decadi, lo ha trasformato in uno dei leader più popolari nel mondo, idolatrato da una parte e odiato dall'altra". Infine, El Pais riporta le parole dell'ex premier italiano che oggi ha dichiarato: "La battaglia non è ancora finita". Fuoco di fila contro Berlusconi sui quotidiani francesi. Le Monde titola in apertura: "L'Italia senza Berlusconi" e pubblica un corposo dossier che include "I suoi 20 anni di processi" e un articolo sui "Fedelissimi che lo hanno abbandonato passando all'opposizione". Liberation pubblica la notizia tra le prime ma non in apertura e sottolinea il j'accuse di Berlusconi che si dice "vittima di una persecuzione" politica e giudiziaria. Per Le Figaro (quotidiano conservatore) "Questo è l'ultimo atto di una discesa agli Inferi cominciata a novembre de 2011", quando Silvio Berlusconi fu "Attaccato dai mercati, umiliato al G20 di Cannes e congedato dal presidente Giorgio Napolitano che lo ha rimpiazzato al governo con l'economista Mario Monti. Apertura anche per O Globo , primo quotidiano brasiliano, che senza mezzi termini titola: "Il Senato italiano fa fuori Berlusconi" e poi pubblica un dossier che inizia con un articolo di commento che recita: "Berlusconi, la fine è arrivata", con fotografie di manifestanti anti-Cavaliere fuori dal Senato in attesa dell'esito della votazione. O Globo cita anche un twit di Beppe Grillo, che festeggia "cinguettando" la decadenza scrivendo: "Berlusconi è stato licenziato dal Senato. Uno di loro è fuori. Ora dobbiamo mandare a casa anche tutti gli altri". Infine, prima pagina per Berlusconi anche sui principali media turchi. Hurriyet scrive che "La decisione del Senato potrebbe essere uno spartiacque nella carriera del leader che ha dominato la politica italiana per due decenni". Il quotidiano di Ankara così commenta: "Il voto, che arriva dopo mesi di scontri politici, apre una fase incerta nella politica italiana, con il 77enne miliardario che si prepara a usare tutte le sue enormi risorse per attaccare la coalizione di Governo guidata dal premier Enrico Letta".
Urss, Kissinger, massoneria Ecco i misteri di Napolitano. Da dirigente Pci intrattenne rapporti riservati con Unione sovietica e Usa, dove andò durante il sequestro Moro. E da allora la "fratellanza" mondiale lo tratta con riguardo scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Il presidente Napolitano è stato sempre garante dei poteri forti a livello nazionale e degli equilibri internazionali sull'asse inclinato dal peso degli Stati Uniti» scrivono i giornalisti di inchiesta Ferruccio Pinotti (del Corriere della sera) e Stefano Santachiara (Il Fatto) in "I panni sporchi della sinistra" (ed. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano Chiarelettere). Il primo ritratto, di 60 pagine, è dedicato proprio al presidente della Repubblica («I segreti di Napolitano»), «l'ex ministro degli esteri del Pci» come lo definì Bettino Craxi interrogato dal pm Di Pietro nel processo Enimont. I rapporti con Mosca, quelli controversi con Berlusconi (il mensile della corrente migliorista del Pci, Il Moderno, finanziato da Fininvest, ma anche dai costruttori Ligresti e Gavio), e le relazioni oltreoceano, con Washington. Una storia complessa, dalla diffidenza iniziale del Dipartimento di Stato Usa e dell'intelligence americana («nel 1975 a Napolitano gli fu negato il visto, come avveniva per tutti i dirigenti comunisti»), alle aperture dell'ambasciata Usa a Roma, al «misterioso viaggio» di Napolitano negli Stati uniti nel '78, nei giorni del sequestro Moro, l'altro viaggio insieme a Occhetto nel 1989, fino «all'incontro festoso, molti anni dopo, nel 2001, a Cernobbio, con Henry Kissinger, ex braccio destro di Nixon, che lo saluta calorosamente: My favourite communist, il mio comunista preferito. Ma Napolitano lo corregge ridendo: Il mio ex comunista preferito!». Il credito di Napolitano presso il mondo anglosassone si dipana nel libro-inchiesta anche su un fronte diverso, che Pinotti segue da anni, la massoneria, e che si intreccia con la storia più recente, in particolare con le dimissioni forzate di Berlusconi nel 2011, a colpi di spread e pressioni delle diplomazie internazionali. Su questo terreno gli autori fanno parlare diverse fonti, tra cui una, di cui non rivela il nome ma l'identikit: «Avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti, figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd». Il quale racconta: «Già il padre di Giorgio Napolitano è stato un importante massone, una delle figure più in vista della massoneria partenopea» (proprio nei giorni successivi all'uscita del libro sarebbe spuntata, dagli archivi di un'associazione massonica di primo piano, la tessera numerata del padre di Napolitano). Tutta la storia familiare di Napolitano è riconducibile all'esperienza massonica partenopea, che ha radici antiche e si inquadra nell'alveo di quella francese...». Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (legatissimo al padre) non solo l'amore per i codici «ma anche quello per la fratellanza» si legge. E poi: «Per quanto riguarda l'attuale presidente, negli ambienti massonici si sussurra da tempo di simpatie della massoneria internazionale nei confronti dell'unico dirigente comunista che a metà anni Settanta, all'epoca della Guerra fredda, sia stato invitato negli Stati Uniti a tenere un ciclo di lectures presso prestigiosi atenei. Napolitano sarebbe stato iniziato, in tempi lontani, direttamente alla «fratellanza» anglosassone (inglese o statunitense)». Da lì il passo ad accreditare la tesi, molto battuta in ambienti complottisti, di un assist guidato a Mario Monti, è breve, e viene illustrata da un'altra fonte, l'ex Gran maestro Giuliano Di Bernardo («criteri massonici nella scelta di Mario Monti») e da uno 007 italiano. L'asse di Berlusconi con Putin - specie sul dossier energia - poco gradito in certi ambienti, entra in questo quadro (fantapolitica?). Con un giallo finale nelle pagine del libro, raccontato dalla autorevole fonte (senza nome): Putin avrebbe dato a Berlusconi delle carte su Napolitano. Se queste carte esistono, riguardano più i rapporti americani di Napolitano che quelli con i russi». Materiale per una avvincente spy story su Berlusconi, Napolitano, Monti, Putin, la Cia, il Bilderberg...
Il Cav fu costretto da Napolitano a dimettersi perché voleva che l'Italia uscisse dall'euro, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Alla luce delle recenti rivelazioni, si conferma che il 12 novembre 2011 Berlusconi fu costretto da Napolitano a dimettersi da presidente del Consiglio, pur in assenza di un voto di sfiducia del Parlamento, perché in seno ai vertici dell'Ue aveva ventilato la possibilità che l'Italia esca dall'euro. Di fatto fu un colpo di Stato ordinato dai poteri forti in seno all'Unione europea e alla Bce, innanzitutto la Germania di Angela Merkel, manovrando l'impennata dello spread (il differenziale tra Btp-Bund) che sfiorò i 600 punti alimentando un clima di terrorismo finanziario, politico e mediatico, con la connivenza dei poteri finanziari speculativi che determinarono il crollo delle azioni Mediaset in Borsa, realizzato con un comportamento autocratico di Napolitano che in quattro giorni ottenne le dimissioni di Berlusconi, nominò Mario Monti senatore a vita e lo impose a capo di un governo tecnocratico a cui lo stesso Berlusconi fu costretto a dare fiducia. Questo complotto contro il governo legittimo di uno Stato sovrano va ben oltre l'ambito personale. Lorenzo Bini Smaghi, membro del Comitato esecutivo della Bce dal giugno 2005 al 10 novembre 2011, a pagina 40 del suo recente libro Morire d'austerità rivela: «Non è un caso che le dimissioni del primo ministro greco Papandreou siano avvenute pochi giorni dopo il suo annuncio di tenere un referendum sull'euro e che quelle di Berlusconi siano anch'esse avvenute dopo che l'ipotesi di uscita dall'euro era stata ventilata in colloqui privati con i governi degli altri Paesi dell'euro». Hans-Werner Sinn, presidente dell'Istat tedesco, durante il convegno economico Fuehrungstreffen Wirtschaft 2013 organizzato a Berlino dal quotidiano Sueddeutsche Zeitung, ha rivelato negli scorsi giorni: «Sappiamo che nell'autunno 2011 Berlusconi ha avviato trattative per far uscire l'Italia dall'euro». Lo stesso Berlusconi, intervenendo sabato scorso a un raduno della Giovane Italia, ha rivelato: «Oggi operiamo con una moneta straniera, che è l'euro»; «Siamo nelle stesse condizioni dell'Argentina che emetteva titoli in dollari»; «Il Giappone ha un debito pubblico del 243% rispetto al Pil ma ha sovranità monetaria»; «Le mie posizioni nell'Ue hanno infastidito la Germania»; «La Germania ordinò alle sue banche di vendere i titoli italiani per far salire lo spread, provocando l'effetto gregge»; «Nel giugno 2011 Monti e Passera preparavano già il programma del governo tecnico»; «Nel 2011 ci fu una volontà precisa di far fuori il nostro governo»; «Al Quirinale mi dissero che per il bene del Paese avrei dovuto cedere la guida del governo ai tecnici». Nessuno si illude che la magistratura, ideologicamente schierata a favore della sinistra, interverrà per sanzionare Napolitano (che è il presidente del Csm) o per salvaguardare la sovranità nazionale dell'Italia dalla dittatura dell'Eurocrazia e della finanza globalizzata. Dobbiamo prendere atto che siamo in guerra. Abbiamo perso del tutto la sovranità monetaria, all'80% la sovranità legislativa e ci stanno spogliando della sovranità nazionale. Berlusconi, a 77 anni, limitato sul piano dell'agibilità politica, può oggi dare un senso alto alla sua missione politica contribuendo con tutto il suo carisma e le sue risorse al riscatto della nostra sovranità monetaria, legislativa, giudiziaria e nazionale dalla schiavitù dell'euro, dalla sudditanza di questa Ue alla Germania, ai banchieri e ai burocrati, dalla partitocrazia consociativa che ha ucciso la democrazia sostanziale e lo Stato di diritto, perpetuando uno Stato onerosissimo che impone il più alto livello di tassazione al mondo che finisce per condannare a morte le imprese. Ma bisogna rompere ogni indugio schierandosi con imprenditori, famiglie, sindaci e forze dell'ordine, promuovendo subito la rete di tutti coloro che condividono la missione di salvare gli italiani e far rinascere l'Italia libera, sovrana e federalista. Zapatero rivela: il Cav obiettivo di un attacco dei leader europei.
In un libro l'ex premier spagnolo svela i retroscena del G20 di Cannes nel 2011 e il pressing sull'Italia per accettare i diktat Fmi: "Si parlava già di Monti", scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Vorremmo dire «clamoroso», ma non è così perché sapevamo da tempo, e lo abbiamo più volte scritto, che non solo in Italia ma anche dall'estero arrivavano pesanti pressioni per far fuori Silvio Berlusconi. L'ultima prova, che conferma la volontà di rovesciare un governo democraticamente eletto, la rivela l'ex premier spagnolo Luis Zapatero, che nel libro El dilema (Il dilemma), presentato a Madrid, porta alla luce inediti retroscena sulla crisi che minacciò di spaccare l'Eurozona. Il 3 e 4 novembre 2011 sono i giorni ad altissima tensione del vertice del G-20 a Cannes, sulla Costa Azzurra. Tutti gli occhi sono puntati su Italia e Spagna che, dopo la Grecia, sono diventate l'anello debole per la tenuta dell'euro. Il presidente americano Barack Obama e la cancelliera tedesca Angela Merkel mettono alle corde Berlusconi e Zapatero, cercando di imporre all'Italia e alla Spagna gli aiuti del Fondo monetario internazionale. I due premier resistono, consapevoli che il salvataggio da parte del Fmi avrebbe significato accettare condizioni capestro e cedere di fatto la sovranità a Bruxelles, com'era già accaduto con Grecia, Portogallo e Cipro. Ma la Germania con gli altri Paesi nordici, impauriti dagli attacchi speculativi dei mercati, considerano il vertice di Cannes decisivo e vogliono risultati a qualsiasi costo. Le pressioni sono altissime. Zapatero descrive la cena del 3 novembre, con il tavolo «piccolo e rettangolare per favorire la vicinanza e un clima di fiducia». Ma l'atmosfera è esplosiva. «Nei corridoi si parlava di Mario Monti», rivela il premier spagnolo. Già, Monti. Che solo una settimana dopo sarà nominato senatore a vita da Napolitano e che il 12 novembre diventerà premier al posto di Berlusconi. Il piano era già congegnato, con il Quirinale pronto a soggiacere ai desiderata dei mercati e di Berlino. La Merkel domanda a Zapatero se sia disponibile «a chiedere una linea di credito preventiva di 50 miliardi di euro al Fondo monetario internazionale, mentre altri 85 sarebbero andati all'Italia. La mia risposta fu diretta e chiara: no», scrive l'ex premier spagnolo. Allora i leader presenti concentrano le pressioni sul governo italiano perché chieda il salvataggio, sperando di arginare così la crisi dell'euro. «C'era un ambiente estremamente critico verso il governo italiano», ricorda Zapatero, descrivendo la folle corsa dello spread e l'impossibilità da parte del nostro Paese di finanziare il debito con tassi che sfiorano il 6,5 per cento. Insomma, i leader del G-20 sono terrorizzati dai mercati e temono che il contagio possa estendersi a Paesi europei come la Francia se non prendono il toro per le corna. Il toro in questo caso è l'Italia. «Momenti di tensione, seri rimproveri, invocazioni storiche, perfino invettive sul ruolo degli alleati dopo la seconda guerra mondiale...», caratterizzano il vertice. «Davanti a questo attacco - racconta l'ex leader socialista spagnolo - ricordo la strenua difesa, un catenaccio in piena regola» di Berlusconi e del ministro dell'Economia Giulio Tremonti. «Entrambi allontanano il pallone dall'area, con gli argomenti più tecnici Tremonti o con le invocazioni più domestiche di Berlusconi», che sottolinea la capacità di risparmio degli italiani. «Mi è rimasta impressa una frase che Tremonti ripeteva: conosco modi migliori di suicidio». Alla fine si raggiunge un compromesso, con Berlusconi che accetta la supervisione del Fmi ma non il salvataggio. Ma tutto ciò costerà caro al Cavaliere. «È un fatto - sostiene Zapatero - che da lì a poco ebbe effetti importantissimi sull'esecutivo italiano, con le dimissioni di Berlusconi, dopo l'approvazione della Finanziaria con le misure di austerità richieste dall'Unione europea, e il successivo incarico al nuovo governo tecnico guidato da Mario Monti».
Un governo, ora sappiamo con certezza, eletto da leader stranieri nei corridoi di Cannes e non dalla volontà popolare degli italiani. Verrà un giorno in cui l’Italia troverà il coraggio e l’onestà di rileggere (alcuni, se la coscienza li soccorrerà, lo faranno non senza vergogna) la storia di questi giorni, prima ancora di dedicarsi all’analisi del cosiddetto ventennio di Silvio Berlusconi. Perché è da qui, dai giorni tristi e terribili dell’umiliazione del Diritto, che bisognerà partire per spiegare come sia stato possibile arrivare al sabbah giacobino contro il Cavaliere al Senato in barba a regole, buon senso e dignità, scrive Giorgio Mulè, direttore di “Panorama”, nel suo editoriale. Era cominciato tutto dopo la sentenza di condanna del 2 agosto emessa (prima anomalia) da una sezione feriale della Cassazione, presieduta da un magistrato chiacchierone (seconda anomalia) che non avrebbe dovuto giudicare l’ex premier. Una sentenza in palese contraddizione con i verdetti di due sezioni «titolari» della Suprema corte (terza anomalia) che avevano valutato le stesse identiche prove nella vicenda della compravendita dei diritti televisivi giungendo alla conclusione opposta, e cioè che l’ex premier era innocente. Ma innocente nel profondo, senza ombra di dubbio e senza nemmeno una formula dubitativa che, come un sigaro, non si nega mai a nessuno. Una classe politica prigioniera della sua mediocrità e ossessionata dalla presenza di Berlusconi non poteva far altro che cogliere l’occasione. A cominciare da Beppe Grillo e dai suoi accoliti, arrivati in Parlamento con l’ambizioso programma fondato sull’eliminazione del Cav. Così, dal 2 agosto, è iniziata una corsa orgiastica e forsennata per liberarsi dell’odiato Caimano. In prima fila, a battere il tamburo per la caccia grossa, ci sono stati sempre loro, gli avanguardisti della Repubblica con i cugini del Fatto quotidiano, la falange editoriale che tiene al guinzaglio la mejo sinistra e che ha sempre vissuto con il complesso di disfarsi del male assoluto incarnato nell’uomo di Arcore. Il tutto portato avanti con la solita tecnica becera delle inchieste da buco della serratura grazie all’ausilio di compiacenti magistrati (quarta anomalia), della lettura distorta degli atti, del moralismo ipocrita un tanto al chilo e a senso unico. Una sentina maleodorante spacciata per giornalismo nobile dove si sorvola se a finire accusato di gravissimi reati c’è Carlo De Benedetti. Chi poteva fermare questa ordalia non l’ha fatto. Avrebbe potuto e dovuto farlo Giorgio Napolitano, in virtù dell’alto ed esclusivo ruolo che gli assegna la Costituzione. Avrebbe dovuto usare la tanto sbandierata moral suasion (quinta anomalia) per ricondurre alla ragione i sanculotti del suo ex partito e provare nell’ardua impresa di riuscirci con gli attuali maggiorenti; a cominciare da Matteo Renzi che scimmiotta Fonzie, si indigna per una battuta in un cartone animato dei Simpson e non si rende conto di essere la copia spiccicata (per la profondità delle riflessioni…) del simpatico Kermit, il leader indiscusso dei pupazzi del Muppet show. E invece dal Colle sono venute fuori interpretazioni pelose delle procedure e più o meno pubblici risentimenti per le sacrosante lamentele espresse da un Berlusconi profondamente deluso. Bisogna prendere atto chiaramente che Napolitano poteva concedere la grazia al Cavaliere e non solo per la pena principale ma anche per quella accessoria, cioè l’interdizione dai pubblici uffici, eventualità da lui espressamente negata nella lunga nota del 13 agosto. Non è vero che per la concessione del beneficio fosse necessario aver accettato la sentenza o aver iniziato a espiare la pena (sesta anomalia). È una balla. Il 5 aprile di quest’anno, il Quirinale comunicava: «Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ai sensi dell’articolo 87, comma 11, della Costituzione, ha oggi concesso la grazia al colonnello Joseph L. Romano III, in relazione alla condanna alla pena della reclusione (7 anni, ndr) e alle pene accessorie (interdizione perpetua dai pubblici uffici, ndr) inflitta con sentenza della Corte d’Appello di Milano del 15 dicembre 2010, divenuta irrevocabile il 19 settembre 2012. La decisione è stata assunta dopo aver acquisito la documentazione relativa alla domanda avanzata dal difensore avvocato Cesare Graziano Bulgheroni, le osservazioni contrarie del procuratore generale di Milano e il parere non ostativo del ministro della Giustizia». Per la cronaca: il colonnello era fra gli imputati del rapimento e delle successive torture dell’imam Abu Omar, non si è presentato mai al processo, non ha mai confessato alcunché, non si è mai pentito del gesto, non ha chiesto scusa a nessuno, non ha mai scontato un giorno di carcere e per la giustizia italiana era un latitante al pari del superboss Matteo Messina Denaro. La grazia giunse dal Colle dopo appena 7 mesi dalla pronuncia definitiva della Cassazione e con il parere contrario dei magistrati. C’è ancora qualche anima bella o dannata disposta a sostenere la tesi che il presidente della Repubblica non poteva adottare lo stesso metodo nei confronti di Silvio Berlusconi? Chiamiamo le cose con il loro nome: è mancato il coraggio per concedere la grazia. Il provvedimento avrebbe aperto una fase nuova nella storia di questo Paese, sarebbe stato l’atto di non ritorno verso la pacificazione dopo vent’anni di guerra combattuta nel nome dell’eliminazione per via giudiziaria del Cavaliere il quale, statene certi, avrebbe abbandonato la politica attiva. Il capo dello Stato ha avuto l’opportunità di consegnarsi alla storia e non l’ha fatto. E solo quando giungerà quel famoso giorno in cui gli avvenimenti di oggi potranno essere riletti senza veli e senza partigianerie capiremo se al suo mancato gesto dovremo aggiungere i caratteri poco commendevoli del cinismo, della pavidità o del calcolo politico. Nel quadro tenebroso dell’oggi trova un posto nitido Enrico Letta, il presidente del Consiglio che ha conferito a questo Paese una stabilità degna di un cimitero, come ha giustamente notato il Wall Street Journal. Incapace di avviare le riforme oramai improcrastinabili per l’Italia, Letta non è stato neppure capace di imporre il più impercettibile distinguo sulla giustizia (settima anomalia) ed è rimasto avvinghiato al doroteismo stucchevole di una linea che voleva tenere distinte la vicenda di Berlusconi e le sorti dell’esecutivo quando anche un bambino ne coglieva l’intimo intreccio. Ma i bambini, si sa, hanno la vista lunga. E ora tutti sanno, anche quelli dell’asilo, che l’unico orizzonte di Letta non è quello di varare le riforme, giustizia compresa, ma quello di mantenere il potere. E infatti eccoci all’ottava anomalia, Angelino Alfano: ha mollato il Pdl per fondare il Nuovo centrodestra, che al momento si distingue solo per la fedeltà interessata al governo. Sarebbe toccato proprio ad Angelino costringere Napolitano e Letta a guardare la realtà, a spalancare gli occhi sullo scempio del diritto che si stava consumando, a denunciare con argomenti solidi e di verità l’inganno di una procedura interpretata in maniera torbida e manigolda. Come quella della retroattività della legge Severino sulla decadenza (nona anomalia), che una pletora di giuristi e politici di buon senso non affini ma certamente lontani dal mondo berlusconiano voleva affidare al vaglio della Corte costituzionale per un’interpretazione autentica. Anche per questo motivo il luogotenente del Cav avrebbe dovuto elevare il caso B a caso internazionale, avrebbe dovuto sfidare in campo aperto i satrapi dell’informazione truccata. E invece ha preferito chinarsi sulla propria poltroncina, talmente affascinato, e impaurito di perderla, da consumare lo strappo di ogni linea politica e di ogni rapporto umano con il proprio leader. Napolitano, Letta, Alfano: in questo triangolo delle Bermude, che si autoalimenta nel nome dello status quo e di un governo fatto solo di tasse e bugie, c’è finito Silvio Berlusconi. E la conclusione della storia è stata ovvia: l’hanno inghiottito, macinato ed espulso senza tanti complimenti. Neppure il colpo di reni finale hanno sfruttato i tre del triangolo mortale, quello offerto dalle nuove prove squadernate dall’ex premier per chiedere la revisione del processo. Un percorso perfettamente legalitario, quello del Cav, condotto all’interno del perimetro disegnato dal Codice di procedura penale e che avrebbe dovuto fermare la mannaia dell’espulsione dal Senato. Per mille motivi, ma soprattutto per una possibile e atroce beffa: se la Corte d’appello darà ragione al Cavaliere e lo proscioglierà, lui si troverà già fuori da Palazzo Madama. E nessuno potrà dirgli: «Prego, ci scusi, si accomodi e riprenda il suo posto». Con il corollario non secondario che, senza lo scudo da senatore, i picadores in toga potranno infilzare il Cav e compiere l’ultimo sfregio: l’arresto (decima anomalia). In questa cornice assai triste tocca togliersi il cappello di fronte al coraggio di Francesco Boccia, deputato del Pd di prima fila (almeno fino al 9 dicembre, quando Matteo «Kermit» si presenterà sul palco della segreteria del partito) che martedì 26 novembre, dopo aver visto gli elementi esposti da Berlusconi, ha dichiarato: «Se fosse così mi aspetto una revisione del processo come per qualsiasi altro cittadino». E ancora: «In un Paese normale si sarebbe aspettata la delibera della Corte costituzionale sull’interpretazione della legge Severino». Un Paese normale questo? È una battutona, ditelo a Matteo «Kermit», che magari se la rivende. Dovrà fare in fretta, però. Perché adesso inizia un’altra faida, che lo metterà contro Letta e Napolitano. I tre non possono convivere: i loro interessi non sono convergenti, i loro orizzonti non corrispondono. Per questo, già prima dell’8 dicembre, ne vedremo delle belle. Sarà il seguito della politica da avanspettacolo che ci hanno rifilato negli ultimi mesi. Successe più o meno la stessa cosa ai tempi di monsieur de Robespierre e dei giacobini. Fatto fuori il re, si illusero di avere la Francia in pugno. Manco per niente. Iniziarono a scannarsi l’un l’altro. Fin quando un giorno accompagnarono Robespierre, l’Incorruttibile, al patibolo. Gli gridavano dietro: «Morte al tiranno». Avete capito la storia?
Dopo gli Anni di piombo e le decine di magistrati uccisi dalle Brigate rosse e dall'eversione di destra e di sinistra la corrente di Md più vicina al Partito comunista scala le gerarchie della magistratura e impone il suo diktat, come racconta al Giornale un ex giudice di Md: «Serve una giurisprudenza alternativa per legittimare la lotta di classe e una nuova pace sociale». Ma serviva una legittimazione incrociata. Non dallo Stato né dal popolo, ma da quel Pci diventato Pds in crisi d'identità dopo il crollo del Muro di Berlino. Tangentopoli nacque grazie a un matrimonio d'interessi e un nemico comune: Bettino Craxi.
Quell'abbraccio tra Pci e Md che fece scattare Mani pulite. Magistratura democratica pianificò l'alleanza col Pds sul giustizialismo per ridare smalto alle toghe e offrire agli eredi del Pci il ruolo di moralizzatore contro la corruzione in Italia, scrive Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. «La piattaforma politico-programmatica elaborata per la nuova Magistratura democratica poteva convincere ed attirare buona parte dei giovani magistrati, cresciuti politicamente e culturalmente nel crogiolo sessantottino. Ma bisognava fornire a Md una base giuridica teorica che potesse essere accettata dal mondo accademico e da una parte consistente della magistratura. Ancora una volta fu la genialità di Luigi Ferrajoli a trovare una risposta: «La giurisprudenza alternativa (...) è diretta ad aprire e legittimare (...) nuovi e più ampi spazi alle lotte delle masse in vista di nuovi e alternativi assetti di potere (...). Una formula che configura il giudice come mediatore dei conflitti in funzione di una pace sociale sempre meglio adeguata alle necessità della società capitalistica in trasformazione». In qualunque democrazia matura la prospettiva tracciata da Ferrajoli non avrebbe suscitato altro che una normale discussione accademica tra addetti ai lavori: ma la verità dirompente era tutta italiana. Celato da slogan pseudorivoluzionari, il dibattito nel corpo giudiziario ad opera di Md negli anni '70 e '80 presentava questo tema fondamentale: a chi spetta assicurare ai cittadini nuovi fondamentali diritti privati e sociali? Al potere politico (e di quale colore) attraverso l'emanazione di norme (almeno all'apparenza) generali ed astratte, o all'ordine giudiziario con la propria giurisprudenza «alternativa»? Un dubbio devastante cominciò a infiltrarsi tra i magistrati di Md. Se la magistratura (o almeno la sua parte «democratica») era una componente organica del movimento di classe e delle lotte proletarie, allora da dove proveniva la legittimazione dei giudici a «fare giustizia»? Dallo Stato (come era quasi sempre accaduto), che li aveva assunti previo concorso e li pagava non certo perché sovvertissero l'ordine sociale? Dal popolo sovrano? Da un partito? Quelli furono anni tragici per l'Italia. Tutte le migliori energie della magistratura furono indirizzate a combattere i movimenti eversivi che avevano scelto la lotta armata e la sfida violenta allo Stato borghese: i giudici «democratici» pagarono un prezzo elevato, l'ala sinistra della corrente di Md rimase isolata mentre l'ala filo-Pci di Md mantenne un basso profilo. Dell'onore postumo legato al pesante prezzo di sangue pagato dai giudici per mano brigatista beneficiarono indistintamente tutte le correnti dell'ordine giudiziario, compresa Md e la magistratura utilizzò questo vernissage per rifarsi un look socialmente accettabile. Solo la frazione di estrema sinistra di Md ne fu tagliata fuori, e questo determinò - alla lunga - la sua estinzione. Alcuni furono - per così dire - «epurati»; a molti altri fu garantito un cursus honorum di tutto rispetto, che fu pagato per molti anni a venire (Europarlamento, Parlamento nazionale, cariche prestigiose per chi si dimetteva, carriere brillanti e fulminee per altri). Quelli che non si rassegnarono furono di fatto costretti al silenzio e poi «suicidati» come Michele Coiro, già procuratore della Repubblica di Roma, colpito il 22 giugno 1997 da infarto mortale, dopo essere stato allontanato dal suo ruolo (promoveatur ut amoveatur) dal Csm. L'ala filo Pci/Pds di Md, vittoriosa all'interno della corrente, non era né poteva diventare un partito, in quanto parte della burocrazia statale. Cercava comunque alleati per almeno due ragioni: difendere e rivalutare un patrimonio di elaborazione teorica passato quasi indenne attraverso il terrorismo di estrema sinistra e la lotta armata e garantire all'intera «ultracasta» dei magistrati gli stessi privilegi (economici e di status) acquisiti nel passato, pericolosamente messi in discussione fin dai primi anni '90. Questo secondo aspetto avrebbe di sicuro assicurato alla «nuova» Md l'egemonia (se non numerica certo culturale) sull'intera magistratura associata: l'intesa andava dunque trovata sul terreno politico, rivitalizzando le parole d'ordine dell'autonomia e indipendenza della magistratura, rivendicando il controllo di legalità su una certa politica e proclamando l'inscindibilità tra le funzioni di giudice e pubblico ministero. Non ci volle molto ad individuare i partiti «nemici» e quelli potenzialmente interessati ad un'alleanza di reciproca utilità. Alla fine degli anni '80 il Pci sprofondò in una gravissima crisi di identità per gli eventi che avevano colpito il regime comunista dell'Urss. Non sarebbe stato sufficiente un cambiamento di look: era indispensabile un'alleanza di interessi fondata sul giustizialismo, che esercitava grande fascino tra i cittadini, in quanto forniva loro l'illusione di una sorta di Nemesi storica contro le classi dirigenti nazionali, che avevano dato pessima prova di sé sotto tutti i punti di vista. La rivincita dei buoni contro i cattivi, finalmente, per di più in forme perfettamente legali e sotto l'egida dei «duri e puri» magistrati, che si limitavano a svolgere il proprio lavoro «in nome del popolo». Pochi compresero che sotto l'adempimento di un mero dovere professionale poteva nascondersi un nuovo Torquemada. Il Pci/Pds uscì quasi indenne dagli attacchi «dimostrativi» (tali alla fine si rivelarono) della magistratura che furono inseriti nell'enorme calderone noto come Mani Pulite: d'altronde il «vero» nemico era già perfettamente inquadrato nel mirino: Bettino Craxi. Chi scrive non è ovviamente in grado di dire come, quando e ad opera di chi la trattativa si sviluppò: ma essa è nei fatti, ed è dimostrata dal perfetto incastrarsi (perfino temporale) dei due interessi convergenti. Naturalmente esistono alleanze che si costituiscono tacitamente, secondo il principio che «il nemico del mio nemico è mio amico», e non c'è bisogno di clausole sottoscritte per consacrarle. Quando il pool graziò il Pds e i giudici diventarono casta. Mani pulite con la regia di Md sfiorò il partito per dimostrare che avrebbe potuto colpire tutti Il Parlamento si arrese, rinunciando all'immunità. E così consegnò il Paese ai magistrati - continua Sergio d'Angelo Per rendersi credibile alla magistratura, il tacito accordo tra Md e Pds avrebbe dovuto coinvolgere magistrati della più varia estrazione e provenienza politica e culturale. Nel 1989 era entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale che apriva la strada ad un'attività dell'accusa priva di qualunque freno, nonostante l'introduzione del Gip (giudice delle indagini preliminari), in funzione di garanzia dei diritti della difesa. C'è un significativo documento - intitolato I mestieri del giudice - redatto dalla sezione milanese di Md a conclusione di un convegno tenutosi a Renate il 12 marzo 1988, in casa del pm Gherardo Colombo. In quel testo l'allora pm di Milano Riccardo Targetti tracciò una netta distinzione tra «pm dinamico» e «pm statico», schierandosi naturalmente a favore della prima tipologia, come il nuovo codice gli consentiva di fare. Che cosa legava tra loro i componenti del pool Mani pulite? Nulla. Che Gerardo D'Ambrosio (chiamato affettuosamente dai colleghi zio Jerry) fosse «vicino» al Pci lo si sapeva (lui stesso non ne faceva mistero), ma non si dichiarò mai militante attivo di Md. Gherardo Colombo era noto per aver guidato la perquisizione della villa di Licio Gelli da cui saltò fuori l'elenco degli iscritti alla P2: politicamente militava nella sinistra di Md, anche se su posizioni moderate. Piercamillo Davigo era notoriamente un esponente di Magistratura indipendente, la corrente più a destra. Francesco Greco era legato ai gruppuscoli dell'estrema sinistra romana (lui stesso ne narrava le vicende per così dire «domestiche»), ma nel pool tenne sempre una posizione piuttosto defilata. Infine, Di Pietro, una meteora che cominciò ad acquistare notorietà per il cosiddetto «processo patenti» (che fece piazza pulita della corruzione nella Motorizzazione civile di Milano) e l'informatizzazione accelerata dei suoi metodi di indagine, per la quale si avvalse dell'aiuto di due carabinieri esperti di informatica. Il 28 febbraio 1993, a un anno dall'arresto di Mario Chiesa, cominciano a manifestarsi le prime avvisaglie di un possibile coinvolgimento del Pds nell'inchiesta Mani pulite con il conto svizzero di Primo Greganti alias «compagno G» militante del partito, che sembra frutto di una grossa tangente. Il 6 marzo fu varato il decreto-legge Conso che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti. Il procuratore Francesco Saverio Borrelli va in tv a leggere un comunicato: la divisione dei poteri nel nostro Paese non c'era più. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiuta di firmare il decreto, affossandolo. Alla fine di settembre il cerchio sembra stringersi sempre di più intorno al Pds, per tangenti su Malpensa 2000 e metropolitana milanese: tra smentite del procuratore di Milano Borrelli e timori di avvisi di garanzia per Occhetto e D'Alema, la Quercia è nel panico. Il 5 ottobre Il Manifesto titola I giudici scagionano il Pds: l'incipit dell'articolo - a firma Renata Fontanelli - è il seguente: «. La posizione di Marcello Stefanini, segretario amministrativo della Quercia e parlamentare, verrà stralciata e Primo Greganti (il «compagno G») verrà ritenuto un volgare millantatore. Il gip Italo Ghitti (meglio noto tra gli avvocati come «il nano malefico») impone alla Procura di Milano di indagare per altri quattro mesi poi il 26 ottobre come titola il Manifesto a pagina 4 titola D'Ambrosio si ritira dal pool per impedire speculazioni sui suoi rapporti «amicali» con il Pds. Quali indicazioni si possono trarre da questa vicenda? Il pool dimostrò che la magistratura sarebbe stata in grado di colpire tutti i partiti, Pds compreso; la Quercia era ormai un partito senza ideologia e il suo elettorato si stava fortemente assottigliando (era al 16%): c'era dunque la necessità di trovare un pensiero politico di ricambio, che poteva venire solo dall'esterno; nessuna forza politica avrebbe mai potuto modificare l'assetto istituzionale nonché l'ordinamento giudiziario senza il consenso della magistratura; alla magistratura fu fatto quindi comprendere che l'unico modo di conservare i propri privilegi sarebbe stato quello di allearsi con un partito in cerca di ideologia. Il Psi con Bettino Craxi, Claudio Martelli e Giuliano Amato avevano minacciato o promesso un drastico ridimensionamento dei poteri e privilegi dell'ordine giudiziario. Ma la reazione delle toghe fu tanto forte da indurre un Parlamento letteralmente sotto assedio e atterrito a rinunciare ad uno dei cardini fondamentali voluto dai costituenti a garanzia della divisione dei poteri: l'immunità parlamentare. A questo punto il pallino passò al Pds, che non tardò a giocarselo. Senza una vera riforma il Paese resterà ostaggio del potere giudiziario. I giudici sono scesi in guerra per non rinunciare ai privilegi, guidati dalla nuova "giustizia di classe" che Md è riuscita a imporre alle toghe. È arrivato il momento di tirare le somme su quanto è accaduto tra magistratura e politica negli ultimi venti anni. Magistratura democratica avrebbe dovuto rappresentare una componente del «movimento di classe» antagonista allo sviluppo capitalistico della società. L'ala filo-Pci della corrente fu decisamente contraria a questa scelta così netta, e per molti anni praticò una sorta di «entrismo» (né aderire né sabotare). La scelta di classe operata dalla sinistra di Md presentava rischi pesantissimi di isolamento all'interno della magistratura e tra le forze politiche egemoni nella sinistra, che la lotta armata delle brigate rosse evidenziò immediatamente nel corso degli anni '80 («né con lo Stato né con le Br? I brigatisti compagni che sbagliano?»). Alla fine degli Anni di piombo, in pratica l'ala «rivoluzionaria» della magistratura non esisteva già più, e quella filo-Pci ebbe campo libero. Il crollo dell'Urss gettò il partito egemone della sinistra nello sconcerto: il Pci non aveva più un'ideologia, né il cambiamento di sigla (Pds) poteva rivitalizzarlo. Al contrario, l'ala di Md filo Pci/Pds aveva costruito una immagine ed una ideologia di sé stessa - pagata anche col sangue di suoi aderenti di spicco - che poteva essere spesa su qualunque piazza, ma le mancava un alleato sotto la forma partito. L'interesse di entrambi era comunque troppo forte perché l'alleanza sfumasse, anche se non mancarono resistenze e ricatti reciproci: così, il Pci/Pds fu duramente minacciato (ed anche in piccola parte colpito) durante la stagione di Mani Pulite. Alla fine, intorno al 1994, l'alleanza andò in porto, e un partito senza ideologia accolse e fece propria (probabilmente senza salti di gioia) un'ideologia senza partito. Due ostacoli, tuttavia, si frapponevano tra questa alleanza e la conquista del potere: uno era il cosiddetto Caf (Craxi, Andreotti, Forlani); l'altro era interno alla magistratura, formato da tutti quei giudici che da sponde opposte si opponevano a questa operazione. Il primo ostacolo fu eliminato attraverso Mani pulite, al secondo si applicarono vari metodi; dal promoveatur ut amoveatur, ai procedimenti disciplinari, alla elevazione al soglio parlamentare eccetera. Così la magistratura più restia fu lusingata con l'obiettivo di mantenere i privilegi e la fetta di potere (anche economico) cui era stata abituata, al punto di farle accettare impunemente l'accordo che era sotto gli occhi di tutti. Il compito di questa Md era pressochè esaurito, in quanto il nemico principale (il Caf ma soprattutto Bettino Craxi) era stato abbattuto. Quando un nuovo nemico si presentò all'orizzonte, i cani da guardia dell'accordo (ora la magistratura nel suo complesso) non ci misero molto a tirar fuori zanne ed artigli, con l'appoggio del loro referente politico. Fantasie, opinioni personali, dirà qualcuno. Può darsi, ma certo occorre riflettere su tre punti cruciali dell'inchiesta Mani pulite, che sono - come tanti altri elementi - caduti nel dimenticatoio della Storia. Come abbiamo detto in precedenza, tra i membri del pool non c'era assolutamente nessuna identità culturale o «politica», e non può non destare perplessità la circostanza che essi furono messi insieme per compiere un'operazione così complessa e delicata: fu davvero per garantire il pluralismo e l'equidistanza fra i soggetti coinvolti o, come abbiamo sostenuto, per raccogliere e compattare tutte le diverse anime della magistratura? Quando esattamente fu costituito il pool? Al riguardo non abbiamo nessuna certezza, ma di sicuro esso esisteva già il 17 febbraio 1992, data dell'arresto di Mario Chiesa: chi, nei palazzi di giustizia milanesi e non solo, aveva la sfera di cristallo? L'allora console statunitense a Milano Peter Semler dichiarò di aver ricevuto da Antonio Di Pietro - nel novembre '91 - indiscrezioni sulle indagini in corso, il quale gli avrebbe anticipato l'arresto di Mario Chiesa (avvenuto nel febbraio '92) e l'attacco a Craxi e al Caf. In realtà, la magistratura nell'arco di oltre vent'anni e fino ai giorni nostri ha difeso sé stessa e il proprio status di supercasta: non già per motivi ideologico-politici bensì per autotutela da un nemico che appariva pericolosissimo. La casta, in altri termini, ha fatto e sempre farà quadrato a propria difesa, a prescindere dall'essere «toghe rosse» o di qualunque altro colore. L'accanimento contro Silvio Berlusconi riguarda - più che la sua persona - il ruolo da lui svolto ed il pericolo che ha rappresentato e potrebbe ancora rappresentare per la burocrazia giudiziaria e per gli eredi del Pci/Pds. Si può senz'altro convenire che i giudici Nicoletta Gandus (processo Mills), Oscar Magi (processo Unipol, per rivelazione di segreto istruttorio), Luigi de Ruggero (condanna in sede civile al risarcimento del danno per il lodo Mondadori in favore di De Benedetti) abbiano militato nella (ex) frazione di sinistra di Md, come pure il procuratore Edmondo Bruti Liberati (noto come simpatizzante del Pci/Pds): si può supporre che a quella corrente appartenga pure la presidente Alessandra Galli (processo di appello Mediaset). Nel novero dei giudici di sinistra si potrebbe anche ricomprendere la pm Boccassini: ma gli altri? Chi potrebbe attribuire in quota Md il giudice Raimondo Mesiano (primo processo con risarcimento del danno a favore di De Benedetti), il presidente Edoardo D'Avossa (I° grado del processo Mediaset), la presidente Giulia Turri (processo Ruby), il pm Fabio De Pasquale, il pm Antonio Sangermano, il presidente di cassazione Antonio Esposito e tutti gli altri che si sono occupati e si stanno occupando del «delinquente» Berlusconi? La verità è che la magistratura italiana da tempo è esplosa in una miriade di monadi fuori da qualunque controllo gerarchico e territoriale, essendo venuto meno (grazie anche al codice di procedura penale del 1989) perfino l'ultimo baluardo che le impediva di tracimare; quello della competenza territoriale, travolto dalla disposizione relativa alle cosiddette «indagini collegate» (ogni pm può indagare su tutto in tutto il Paese, salvo poi alla fine trasmettere gli atti alla Procura territorialmente competente). Ciascun pm è padrone assoluto in casa propria, e nessuno - nemmeno un capo dell'ufficio men che autorevole - può fermarlo. E la situazione non fa altro che peggiorare, come è sotto gli occhi di tutti coloro che sono interessati a vedere. La magistratura italiana - unica nel panorama dei Paesi occidentali democratici - è preda di un numero indeterminato di «giovani» (e meno giovani, ma anche meno sprovveduti) magistrati pronti a qualunque evenienza e autoreferenziali. Focalizzare l'attenzione solo su Magistratura democratica significa non cogliere appieno i pericoli che le istituzioni nazionali stanno correndo e correranno negli anni a venire, con o senza la preda Berlusconi.
L'ala «ex» comunista del Pd - dal canto suo - non può più abbandonare l'ideologia giustizialista, che ormai resta l'unica via che potrebbe portare quella forma-partito al potere. Una democrazia occidentale matura non può fare a meno di riflettere su questi temi, cercando una via di uscita dall'impasse politico-istituzionale in cui questo Paese si è infilato per la propria drammatica incoscienza, immaturità ed incapacità di governo: con buona pace di una ormai inesistente classe politica.» Sergio D'Angelo Ex giudice di Magistratura democratica.
A riguardo sentiamo il cronista che fa tremare i pm. "Sinistra ricattata dalle procure". Dopo 35 anni a seguire i processi nelle aule dei tribunali Frank Cimini è andato in pensione ma dal suo blog continua a svelare le verità scomode di Milano: "Magistrati senza controllo", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. «Antonio Di Pietro è meno intelligente di me»: nel 1992, quando i cronisti di tutta Italia scodinzolavano dietro il pm milanese, Frank Cimini fu l'unico cronista giudiziario a uscire dal coro. Sono passati vent'anni, e Cimini sta per andare in pensione. Confermi quel giudizio? «Confermo integralmente». Sul motivo dell'ubriacatura collettiva dei mass media a favore del pm, Cimini ha idee precise: «C'era un problema reale, la gente non ne poteva più dei politici che rubavano, e la magistratura ha colto l'occasione per prendere il potere. Di Pietro si è trovato lì, la sua corporazione lo ha usato. Mani pulite era un fatto politico, lui era il classico arrampicatore sociale che voleva fare carriera. Infatti appena potuto si è candidato: non in un partito qualunque, ma nelle fila dell'unico partito miracolato dalle indagini». Uomo indubbiamente di sinistra, e anche di ultrasinistra («ma faccio l'intervista al Giornale perché sennò nessuno mi sta a sentire») Cimini (ex Manifesto, ex Mattino, ex Agcom, ex Tmnews) resterà nel palazzo di giustizia milanese come redattore del suo blog, giustiziami.it. E continuerà, dietro l'usbergo dell'enorme barba e dell'indipendenza, a dire cose per cui chiunque altro verrebbe arrestato. Sulla sudditanza degli editori verso il pool di Mani Pulite ha idee precise: «Gli editori in Italia non sono editori puri ma imprenditori che hanno un'altra attività, e come tali erano sotto scacco del pool: c'è stato un rapporto di do ut des. Per questo i giornali di tutti gli imprenditori hanno appoggiato Mani pulite in cambio di farla franca. Infatti poi l'unico su cui si è indagato in modo approfondito, cioè Berlusconi, è stato indagato in quanto era sceso in politica, sennò sarebbe stato miracolato anche lui. C'è stato un approfondimento di indagine, uso un eufemismo, che non ha pari in alcun paese occidentale. Ma lui dovrebbe fare mea culpa perché anche le sue tv hanno appoggiato la Procura». Da allora, dice Cimini, nulla è cambiato: nessuno controlla i magistrati. «Il problema è che la politica è ancora debole, così la magistratura fa quello che vuole. Il centrosinistra mantiene lo status quo perché spera di usare i pm contro i suoi avversari politici ma soprattutto perché gran parte del ceto politico del centrosinistra è ricattato dalle procure. Basta vedere come escono le cose, Vendola, la Lorenzetti, e come certe notizie spariscono all'improvviso». Nello strapotere della magistratura quanto conta l'ideologia e quanto la sete di potere? «L'ideologia non c'entra più niente, quella delle toghe rosse è una cavolata che Berlusconi dice perché il suo elettorato così capisce. Ma le toghe rosse non ci sono più, da quando è iniziata Mani pulite il progetto politico che era di Borrelli e non certo di Di Pietro o del povero Occhetto è stata la conquista del potere assoluto da parte della magistratura che ha ottenuto lo stravolgimento dello Stato di diritto con la legge sui pentiti. Un vulnus da cui la giustizia non si è più ripresa e che ha esteso i suoi effetti dai processi di mafia a quelli politici. Oggi c'è in galera uno come Guarischi che avrà le sue colpe, ma lo tengono dentro solo perché vogliono che faccia il nome di Formigoni». Conoscitore profondo del palazzaccio milanese, capace di battute irriferibili, Cimini riesce a farsi perdonare dai giudici anche i suoi giudizi su Caselli («un professionista dell'emergenza») e soprattutto la diagnosi impietosa di quanto avviene quotidianamente nelle aule: «Hanno usato il codice come carta igienica, hanno fatto cose da pazzi e continuano a farle». Chi passa le notizie ai giornali? «Nelle indagini preliminari c'è uno strapotere della Procura che dà le notizie scientemente per rafforzare politicamente l'accusa». E i cronisti si lasciano usare? «Se stessimo a chiederci perché ci passano le notizie, i giornali uscirebbero in bianco».
"La politica ha delegato alla magistratura tre grandi questioni politiche, il terrorismo, la mafia, la corruzione, e alcuni magistrati sono diventati di conseguenza depositari di responsabilità tipicamente politiche". A dirlo è Luciano Violante, ex presidente della Camera e esponente del Partito democratico. Secondo il giurista, inoltre, "la legge Severino testimonia il grado di debolezza" della politica perché non è "possibile che occorra una legge per obbligare i partiti a non candidare chi ha compiuto certi reati". "È in atto un processo di spoliticizzazione della democrazia che oscilla tra tecnocrazia e demagogia", ha aggiunto, "Ne conseguono ondate moralistiche a gettone tipiche di un Paese, l’Italia, che ha nello scontro interno permanente la propria cifra caratterizzante". Colpa anche di Silvio Berlusconi, che "ha reso ancora più conflittuale la politica italiana", ma anche della sinistra che "lo ha scioccamente inseguito sul suo terreno accontentandosi della modesta identità antiberlusconiana". "Ma neanche la Resistenza fu antimussoliniana, si era antifascisti e tanto bastava", aggiunge. Quanto alle sue parole sulla legge Severino e la decadenza del Cavaliere, Violante aggiunge: "Ho solo detto che anche Berlusconi aveva diritto a difendersi. Quando ho potuto spiegarmi alle assemblee di partito ho ricevuto applausi, ma oggi vale solo lo slogan, il cabaret. Difficile andare oltre i 140 caratteri di Twitter". E sulle toghe aggiunge: "Pentiti e intercettazioni hanno sostituito la capacità investigativa. Con conseguenze enormi. Occorrerebbe indicare le priorità da perseguire a livello penale, rivedendo l’obbligatorietà dell’azione che è un’ipocrisia costituzionale resa necessaria dal fatto che i pubblici ministeri sono, e a mio avviso devono restare, indipendenti dal governo".
Io quelli di Forza Italia li rispetto, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Conoscendoli, singolarmente, li rispetto molto meno: ma nell'insieme potrebbero anche sembrare appunto dei lealisti, dei coerenti, delle schiene dritte, gente che ha finalmente trovato una linea del Piave intesa come Berlusconi, come capo, come leader, come rappresentante di milioni di italiani che non si può cancellare solo per via giudiziaria: almeno non così. Non con sentenze infarcite di «convincimenti» e prove che non lo sono. Dunque rispetto quelli di Forza Italia - anche se in buona parte restano dei cavalier-serventi - perché tentano di fare quello che nella Prima Repubblica non fu fatto per Bettino Craxi e per altri leader, consegnati mani e piedi alla magistratura assieme al primato della politica. Solo che, dettaglio, Forza Italia ha perso: ha perso quella di oggi e ha perso quella del 1994. E non ha perso ieri, o un mese fa, cioè con Napolitano, la Consulta, la legge Severino, la Consulta, la Cassazione: ha colpevolmente perso in vent'anni di fallimento politico sulla giustizia. Dall’altra c’è qualcuno che ha vinto, anche se elencarne la formazione ora è complicato: si rischia di passare dal pretenzioso racconto di un’ormai stagliata «jurecrazia» - fatta di corti che regolano un ordine giuridico globale - all'ultimo straccione di pm o cronista militante. Resta il dato essenziale: vent’anni fa la giustizia faceva schifo e oggi fa identicamente schifo, schiacciata com'è sul potere che la esercita; e fa identicamente schifo, per colpe anche sue, la giustizia ad personam legiferata da Berlusconi, che in vent'anni ha solo preso tempo - molto - e alla fine non s'è salvato. Elencare tutte le forzature palesi o presunte per abbatterlo, magari distinguendole dalle azioni penali più che legittime, è un lavoro da pazzi o da memorialistica difensiva: solo la somma delle assoluzioni - mischiate ad amnistie e prescrizioni - brucerebbe una pagina. Basti l'incipit, cioè il celebre mandato di comparizione che fu appositamente spedito a Berlusconi il 21 novembre 1994 per essere appreso a un convegno Onu con 140 delegazioni governative e 650 giornalisti: diede la spallata decisiva a un governo a discapito di un proscioglimento che giungerà molti anni dopo. L’elenco potrebbe proseguire sino a oggi - intralciato anche da tutte le leggi ad personam che Berlusconi fece per salvarsi - e infatti è solo oggi che Berlusconi cade, anzi decade. Ciò che è cambiato, negli ultimi anni, è la determinazione di una parte della magistratura - unita e univoca come la corrente di sinistra che ne occupa i posti chiave - a discapito di apparenze che non ha neanche più cercato di salvare. I processi per frode legati ai diritti televisivi non erano più semplici di altri, anzi, il contrario: come già raccontato, Berlusconi per le stesse accuse era già stato prosciolto a Roma e pure a Milano. Ciò che è cambiato, appunto, è la determinazione dei collegi giudicanti a fronte di quadri probatori tuttavia paragonabili ai precedenti: ma hanno cambiato marcia. Si poteva intuirlo dai tempi atipici che si stavano progressivamente dando già al primo grado del processo Mills, che filò per ben 47 udienze in meno di due anni e fece lavorare i giudici sino al tardo pomeriggio e nei weekend; le motivazioni della sentenza furono notificate entro 15 giorni (e non entro i consueti 90) così da permettere che il ricorso in Cassazione fosse più che mai spedito. Ma è il processo successivo, quello che ora ha fatto fuori Berlusconi, ad aver segnato un record: tre gradi di giudizio in un solo anno (alla faccia della Corte Europea che ci condanna per la lunghezza dei procedimenti) con dettagli anche emblematici, tipo la solerte attivazione di una sezione feriale della Cassazione che è stata descritta come se di norma esaminasse tutti i processi indifferibili del Paese: semplicemente falso, la discrezionalità regna sovrana come su tutto il resto. Il paradosso sta qui: nel formidabile e inaspettato rispetto di regole teoriche - quelle che in dieci mesi giudicano un cittadino nei tre gradi - al punto da trasformare Berlusconi in eccezione assoluta. Poi, a proposito di discrezionalità, ci sono le sentenze: e qui si entra nel fantastico mondo dell'insondabile o di un dibattito infinito: quello su che cosa sia effettivamente una «prova» e che differenza ci sia rispetto a convincimenti e mere somme di indizi. Il tutto sopraffatti dal dogma che le sentenze si accettano e basta: anche se è dura, talvolta. Quando uscirono le 208 pagine della condanna definitiva in Cassazione, in ogni caso, i primi commenti dei vertici piddini furono di pochi minuti dopo: un caso di lettura analogica. E, senza scomodare espressioni come «teorema» o «prova logica» o peggio «non poteva non sapere», le motivazioni della sentenza per frode fiscale appalesavano una gigantesca e motivata opinione: le «prove logiche» e i «non poteva non sapere» purtroppo abbondavano e abbondano. «È da ritenersi provato» era la frase più ricorrente, mentre tesi contrarie denotavano una «assoluta inverosimiglianza». Su tutto imperava l’attribuzione di una responsabilità oggettiva: «La qualità di Berlusconi di azionista di maggioranza gli consentiva pacificamente qualsiasi possibilità di intervento», «era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti fosse di interesse della proprietà», «la consapevolezza poteva essere ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema». Il capolavoro resta quello a pagina 184 della sentenza, che riguardava la riduzione delle liste testimoniali chieste dalla difesa: «Va detto per inciso», è messo nero su bianco, «che effettivamente il pm non ha fornito alcuna prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle modalità di appostare gli ammortamenti dei bilanci. Ne conseguiva l'assoluta inutilità di una prova negativa di fatti che la pubblica accusa non aveva provato in modo diretto». In lingua italiana: l’accusa non ha neppure cercato di provare che Berlusconi fosse direttamente responsabile, dunque era inutile ammettere testimoni che provassero il contrario, cioè una sua estraneità. Ma le sentenze si devono accettare e basta. Quando Berlusconi azzardò un videomessaggio di reazione, in settembre, Guglielmo Epifani lo definì «sconcertante», mentre Antonio Di Pietro fece un esposto per vilipendio alla magistratura e Rosy Bindi parlò di «eversione». Il resto - la galoppata per far decadere Berlusconi in Senato - è cronaca recente, anzi, di ieri, Il precedente di Cesare Previti - che al termine del processo Imi-Sir fu dichiarato «interdetto a vita dai pubblici uffici» - è pure noto: la Camera ne votò la decadenza ben 14 mesi dopo la sentenza della Cassazione. Allora come oggi, il centrosinistra era dell’opinione che si dovesse semplicemente prendere atto del dettato della magistratura, mentre il centrodestra pretendeva invece che si entrasse nel merito e non ci si limitasse a un ruolo notarile. Poi c’è il mancato ricorso alla Corte Costituzionale per stabilire se gli effetti della Legge Severino possano essere retroattivi: la Consulta è stata investita di infinite incombenza da una ventina d’anni a questa parte - comprese le leggi elettorali e i vari «lodi» regolarmente bocciati – ma per la Legge Severino il Partito democratico ha ritenuto che la Corte non dovesse dire la sua. Il 30 ottobre scorso, infine, la Giunta per il regolamento del Senato ha stabilito che per casi di «non convalida dell’elezione» il voto dovesse essere palese, volontà ripetuta ieri dal presidente del Senato: nessun voto segreto o di coscienza, dunque. Poi - ma è un altro articolo, anzi, vent'anni di articoli - ci sono le mazzate che il centrodestra si è tirato da solo. La Legge Severino, come detto. Il condono tombale offerto a Berlusconi dal «suo» ministro Tremonti nel 2002 - che l'avrebbe messo in regola con qualsivoglia frode fiscale – ma che al Cavaliere non interessò. Il demagogico inasprimento delle pene per la prostituzione minorile promosso dal «suo» ministro Carfagna nel 2008. Però, dicevamo, non ci sono solo gli autogol: c’è il semplice non-fatto o non-riuscito degli ultimi vent’anni. Perché nei fatti c’era, e c’è, la stessa magistratura. Non c’è la separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm, le modifiche dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, la responsabilità civile dei giudici, i limiti alle intercettazioni. Ci sono state, invece, le leggi sulle rogatorie, la Cirami, i vari lodi Maccanico-Schifani-Alfano, l’illegittimo impedimento: pannicelli caldi inutili o, per un po’, utili praticamente solo a lui. Per un po’. Solo per un po’. Fino al 27 novembre 2013.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
"Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".
"I mafiosi non sono solo i Riina o i Provenzano. I soggetti collusi con la mafia sono ovunque, sono nelle istituzioni pubbliche, siedono anche in Parlamento". Così il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta, al convegno “La mafia non è solo un problema meridionale”, organizzato a Palermo il 29 novembre 2013 dall'associazione Espressione Libre. "In mancanza di sanzioni, ma soprattutto in assenza di una autoregolamentazione deontologica, la responsabilità politica rimarrà impunita, nulla più che un pio desiderio, con la conseguenza che si è arrivati a candidare e fare eleggere a Palermo, politici sotto processo per concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso, come Marcello Dell'Utri e Calogero Lo Giudice" ha detto ancora Guarnotta al convegno. Il riferimento a Dell'Utri e Lo Giudice arriva nella parte della relazione di Leonardo Guarnotta, quando parla di lotta alla mafia perché "è indispensabile l'impegno della società civile perché la partita, cioè la lotta alla mafia, che non possiamo assolutamente permetterci di perdere, si gioca nella quotidianità", ha detto il presidente del Tribunale di Palermo. Guarnotta poi ha voluto rimarcare che questa lotta si gioca "nelle scelte, individuali e collettive, non escluse le scelte elettorali, cioè le scelte che vengono fatte dai segretari di partito nel selezionare i candidati, da inserire nelle liste e quelle che operano gli elettori nell'esercizio del diritto-dovere di designare i loro rappresentanti al Parlamento e nelle istituzioni".
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.
L’Italia dei figli di qualcuno e dei figli di nessuno, scrive Luigi Sanlorenzo su “Sicilia Informazioni”. Quel termometro, ancora per poco infrangibile, dell’indignazione degli italiani ha raggiunto in queste ore un nuovo picco alla notizia dell’intervento del Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri in favore della scarcerazione per motivi umanitari di Giulia Ligresti. Già ora montano polemiche roventi, immaginabili paragoni con vicende simili, richieste di dimissioni e promesse di giustificazioni che occuperanno i giornali e le televisioni in interminabili dietrologie, pindariche rievocazioni, ardite ipotesi. Ma non c’è da preoccuparsi, perché prima o poi, una cortina fumogena sarà sapientemente fatta posare sui fatti. Proprio per tale ragione, questo articolo ha la pretesa di soffermarsi su una diversa e più pressante preoccupazione degli italiani circa il diverso destino dei figli di nessuno e dei figli di qualcuno. E’ noto come il decantato benessere italiano, i cosiddetti anni del boom che interessarono gli anni ’50 e ’60, si fondò su due principali eventi sociali: la politica industriale sorretta dagli ingenti fondi del Piano Marshall nel centro nord del Paese e l’accesso ai ruoli della Pubblica Amministrazione – ed alle migliaia di enti collegati – di intere coorti di giovani del Mezzogiorno mediante centinaia di concorsi che rappresentarono in un Sud maggiormente scolarizzato, una risposta occupazionale e un inedito e rapido ascensore sociale. Grazie alla possibilità per milioni di diplomati e decine di migliaia di laureati di accedere ad un posto stabile e sicuro, anche se non sempre disponibile nella regione di nascita, la società italiana nel complesso passò nel volgere di un decennio dai bisogni ai desideri, alimentando consumi alti e medio alti e inaugurando stili di vita molto vicini a quelli dei Paesi europei più avanzati, se non, in molti casi, degli Stati Uniti del tempo. Per la prima volta nella storia, il figlio di un contadino poteva diventare qualcuno, rompendo così l’atavico destino riservato a chi lo aveva preceduto. Per la prima volta il neo dottore, diventato funzionario ministeriale, impiegato di una banca pubblica, medico della mutua o semplicemente, assolto l’obbligo scolastico, usciere alla Provincia o portantino in un ospedale, poteva a propria volta sognare un futuro ancora migliore per i figli che, numerosi, – i baby boomers – sarebbero venuti al mondo. Certo, dopo i primi anni, i concorsi divennero sempre più politicizzati e all’insegna della raccomandazione ma il “borghese piccolo piccolo” che alberga in tutti noi sapeva che far studiare un figlio avrebbe comunque portato prima o poi, alle soglie del fatidico concorso, varcate le quali altri sogni potevano diventare realtà: una famiglia, un sorriso assicurato da parte di una banca lieta di offrire un mutuo per la casa, l’autovettura di dimensioni crescenti in proporzione alla carriera, l’assistenza sanitaria, le ferie al mare o all’estero, magari, presto, la seconda casa per le vacanze. Con il crollo rovinoso di quel mondo, che pur in modo imperfetto e non sempre trasparente, sembrava voler realizzare i migliori auspici della Costituzione Repubblicana, i giovani italiani si sono trovati come coloro cui un uragano scoperchia la casa. Cresciuti ed educati nella prima parte della propria vita in famiglia e a scuola con la certezza delle opportunità garantite ai propri genitori, scelta una facoltà universitaria più con l’occhio al “concorso” che alla propria reale vocazione, si sono trovati davanti il vuoto. Mentre essi precipitavano nel baratro del precariato infinito del corpo e dell’anima, risuonavano da ogni possibile mezzo di comunicazione le ipocrisie di una classe dirigente farisaica e compromessa. Era giusto infatti che i ministri dei nuovi governi mettessero in guardia i giovani dall’illusione del posto fisso e li spronassero a mettersi in gioco. La doppiezza di tale morale emerge oggi quando si scopre, sempre più spesso, che proprio i figli di quei ministri avevano tutti già un posto fisso, grazie sicuramente all’influenza di mamma e papà. Mario Monti ha un figlio, Giovanni Monti, ora 39enne. Ripercorriamo la sua carriera: a 20 anni è già associato per gli investimenti bancari per la Goldman Sachs, banca d’affari in cui il padre ha ricoperto il ruolo di International Advisor. A 25 anni diventa consulente di direzione da Bain & company e ci rimane fino al 2001. Dal 2004 al 2009, ha lavorato a Citigroup e in Morgan & Stanley occupandosi in particolare di transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio Oriente e Africa, alle dipendenze dirette degli uffici centrali di New York. La figlia di Elsa Fornero – l’indimenticabile, sensibile fino alle lacrime, Ministro del Lavoro che dopo aver chiamato i giovani “choosy”, ovvero con poco spirito di adattamento e dopo aver consigliato a tutti di “tornare a lavorare la terra” tacciò gli italiani di essere “scansafatiche” – Silvia Deaglio, ha soli 24 anni quando ottiene un incarico presso un prestigioso college di Boston e 30 quando inizia ad insegnare medicina. Diventa associata all’università di Torino, l’università dove mamma e papà hanno la cattedra, a soli 37 anni. Il figlio di Annamaria Cancellieri per la quale gli italiani devono liberarsi dell’idea del posto fisso vicino ai genitori, Piergiorgio Peluso, appena laureato, inizia una carriera sfolgorante: dall’Arthur Andersen a Mediobanca, fino a Aeroporti di Roma, Credit Suisse, Unicredit e Fondiaria Sai, dove è direttore generale guadagnando circa 500mila euro all’anno. Il resto sarà cronaca dei prossimi giorni. Certamente i citati sono tutti giovani preparati e in gamba ma probabilmente ambiti da multinazionali anche per altre ragioni. Essi comunque non saranno stati certo delle menti così eccezionali rispetto a migliaia di altri coetanei preparati e volenterosi che ormai alle soglie dei 40 anni non avranno mai una famiglia propria, una casa o una pensione. In una democrazia i figli di “nessuno” come chi scrive, possono salire la scala sociale soltanto se messi alla prova del merito comparativo e dei meccanismi dei concorsi da reinventare modernamente nel nostro disperato Paese. Diverso è infatti il destino dei figli di qualcuno che, nella vita, “qualcuno” diventano comunque, spesso ben oltre le proprie reali capacità. Con qualche eccezione di chi, per sensibilità personale o scelta esistenziale, decide di rifiutare i privilegi a di rischiare una vita normale e di cui essere il vero, spesso drammatico, protagonista. La mattina del 15 novembre 2000 il corpo senza vita di Edoardo Agnelli, 46 anni, venne trovato da un pastore cuneese, Luigi Asteggiano, presso la base del trentacinquesimo pilone del viadotto autostradale Generale “Franco Romano” della Torino-Savona, nei pressi di Fossano. La sua Croma scura, con il motore ancora acceso e il bagagliaio socchiuso, era parcheggiata a lato della carreggiata del viadotto che sovrasta il fiume Stura di Demonte. La magistratura concluse presto le indagini formulando l’ipotesi del suicidio. Nelle rare interviste concesse alla stampa, il figlio del più noto Avvocato della storia italiana, aveva affermato di voler prendere le distanze dai valori del capitalismo e di volersi dedicare a studi di teologia. Edoardo Agnelli non nascondeva di simpatizzare per il marxismo-leninismo in chiave mistica e verso l’Iran sciita; secondo voci non confermate negli ultimi anni aveva cambiato persino nome, assumendo un nome islamico. Era comparso in pochissime occasioni pubbliche e in qualche manifestazione religiosa o antinuclearista. I tentativi di inserirlo in attività collaterali del grande gruppo aziendale di famiglia, tra cui anche una breve esperienza nel Consiglio d’Amministrazione della Juventus nel 1986, non avevano dato buon esito. Edoardo era diverso. La fine di Edoardo Agnelli, contrapposta all’aridità e all’egoismo di una borghesia che si auto perpetua non attraverso i meriti ma grazie alla fitta trama di relazioni ed alleanze che vanno ben oltre gli schieramenti ufficiali nella vita politica o delle cordate imprenditoriali, mi ha sempre ricordato la figura di Hanno Buddenbrook, la saga della cui famiglia fu il testo pretesto della mia tesi di laurea, nel lontano 1980. Hanno Buddenbrook è l’ultimo discendente dei Buddenbrook, fiorente famiglia della borghesia mercantile tedesca, di cui il romanzo racconta attraverso tre generazioni la progressiva decadenza che segna la decomposizione di un certo tipo di società. Hanno ne incarna l’epilogo, attraverso la sua inettitudine, che tanto più poeticamente risalta in quanto diviene icona di un’intera epoca che tramonta, schiacciata dal peso dei suoi riti, dei suoi mascheramenti, dei suoi valori opprimenti. Nei giorni scorsi Rachid Khadiri Abdelmoula, il 27enne marocchino torinese, dopo una vita passata a vendere accendini e fazzoletti tra Palazzo Nuovo e la Mole di giorno e a studiare di notte, si è laureato in ingegneria al Politecnico. Il “marocchino” (così definisce se stesso, scherzando su provenienza e senso dato in Italia al termine) più famoso d’Italia è tornato oggi a far parlare di sè per una scelta decisamente controcorrente. Rachid sta infatti resistendo in questi giorni alle lusinghe della televisione commerciale rispondendo con insistiti “no, grazie” alle reiterate proposte che arrivano da Endemol per partecipare all’edizione 2014 del Grande Fratello. Tra lo stupore di tutti ha dichiarato: “I miei valori sono altrove. Non mi riconosco neanche un po’ in una trasmissione che non trovo seria ed educativa. Cosa ci andrei a fare? A recitare? Il successo è un mondo di nicchia, lo stringono in pochissimi. Gli altri si illudono, poi rimangono spiazzati quando la fama svanisce. Ai sogni bisogna obbedire. Il mio è di fare l’ingegnere con la cravatta. Come mi vedo tra dieci anni? Spero di aver svoltato. Non in uno studio televisivo, ma in uno di progettisti.” Nel Capitolo 38 dedicato alle cause della decadenza di Roma , l’illuminista Edward Gibbon, autore de The History of the Decline and Fall of the Roman Empire (1776) ha scritto: “ essa fu conseguenza naturale della sua grandezza. La prosperità portò a maturazione il principio della decadenza…Invece di chiederci perché fu distrutto, dovremmo sorprenderci che abbia retto tanto a lungo”. Un monito estremamente contemporaneo che dovrebbe bastare ad una società come la nostra che ha smarrito da tempo anche il ricordo delle energie vitali da cui nacque e che sembra ogni giorno di più di intravedere nelle storie esemplari dei tanti figli di immigrati che, forse, rifaranno l’Italia.
E che dire ancora. Non ci sono anormali, ma normali diversi, scrive Michele Marzano su “La Repubblica”. Pochi giorni fa, il Tribunale dei Minori di Roma ha autorizzato una coppia ad adottare un bambino straniero, a patto però che il bimbo fosse "perfettamente sano". La decisione è stata subito contestata non solo dall'Aibi (l'associazione Amici dei bambini) - che intende presentare un esposto alla Procura generale della Cassazione - ma anche dal Presidente del Tribunale dei minori, Melita Cavallo, che spera che una cosa del genere "non si ripeta più". Ma al di là di queste contestazioni più che opportune, che cosa rivela l'utilizzo di questo tipo di espressioni? Chi di noi può definirsi "perfettamente sano"? All'epoca del mito della perfezione, sembra scontato ed evidente poter giudicare le persone e valutarle in base ad una serie di criteri reputati oggettivi. Come se l'intelligenza, la salute e la bellezza potessero essere veramente calcolate e misurate. Come se il valore di una persona dipendesse dalla sua capacità o meno di corrispondere a determinati criteri. E se tutto ciò fosse solo il retaggio di un determinismo biologico e genetico ormai desueto? Se il valore di una persona fosse altrove, non solo perché la perfezione non esiste, ma anche perché, molto spesso, sono proprio coloro che sembrano "oggettivamente sani" che poi si rivelano "soggettivamente malati"? Come spiegava bene Georges Canguilhem negli anni Sessanta, la salute non è un'entità fissa. Anzi, varia a seconda dei contesti e delle persone, e solo chi soffre può veramente valutare il proprio stato di salute. Ecco perché non esiste alcuna definizione oggettiva della normalità e dell'anormalità. Tanto più che le persone sono tutte differenti l'una dall'altra e che, inevitabilmente, ognuno presenta "un'anomalia" rispetto agli altri. "L'anormale non è ciò che non è normale", scrive in proposito Canguilhem, "ma è piuttosto un normale differente". Peccato che, nonostante tutto, la differenza continui ancora oggi ad essere identificata con l'inferiorità, e che persista un'insopportabile intolleranza nei confronti delle fragilità umane, al punto da illudersi che la felicità dipenda dal proprio essere "perfettamente sani". La fragilità, in sé, non è un problema. Anzi, è proprio nel momento in cui ci fermiamo un istante e cerchiamo di entrare in contatto con noi stessi, che ci rendiamo poi conto che questa nostra fragilità può diventare un punto di forza. Perché ci aiuta a crescere e a cambiare. Perché ci rivela qualcosa di noi che per tanto tempo, a torto, abbiamo fatto di tutto per ignorare. Soprattutto quando capiamo che l'essere umano non è una semplice somma di competenze più o meno sviluppate, e che i successi, come ricorda sempre Georges Canguilhem, sono spesso dei "fallimenti ritardati". Speriamo che lo capiscano anche i giudici quando autorizzano o meno una coppia ad adottare. Non solo perché l'essere "perfettamente sano" è un'espressione priva di senso, ma anche perché l'amore dei genitori non può certo dipendere dallo stato di salute dei propri figli.
E poi c’è l’anormalità fatta normalità con un commento di Susanna Tamaro. «La notizia dei tre miliardi sottratti allo Stato da parte di 5.000 dipendenti pubblici, che si aggiunge a quella dei finti poveri, dei falsi ciechi o dei turlupinatori di pensioni che ogni giorno vengono «scoperti» dalla Guardia di Finanza, non può che turbare - dove «turbare» è un eufemismo - le tante persone oneste di questo Paese, sempre più perseguitate da un Fisco che li ritiene gli unici «privilegiati» interlocutori. Non è populismo affermare che molti dei nostri problemi economici sarebbero in parte risolvibili con una bella e definitiva pulizia degli sprechi e degli assurdi privilegi che l’apparato statale permette e concede a tutti coloro che sono riusciti a infilarsi sotto le sue ali mafiosamente protettive. Com’è possibile, infatti, ci chiediamo noi contribuenti, che per dieci, venti, trent’anni una persona percepisca una pensione di invalidità come cieco pur essendo perfettamente vedente, mentre una nostra qualsiasi minima mancanza, che sia una multa o un mancato pagamento di un contributo, viene immediatamente sanzionata e punita con severità? Quanti ciechi ci vogliono per non vedere un finto cieco? Come ci interroghiamo anche - e purtroppo sappiamo già la risposta - su quanti di questi 5.073 dipendenti dello Stato che hanno rubato, truffato, corrotto avranno come conseguenza la perdita del loro posto di lavoro. Non sono un’esperta di amministrazione statale, ma temo che la risposta sia «nessuno». Questi uomini e donne che hanno tradito il patto di fiducia etico su cui si regge la società, hanno anche danneggiato i loro colleghi che lavorano con serietà e dedizione. Quali conseguenze avrà questo tradimento? Forse soltanto una multa o il trascinarsi in un processo che durerà anni e che finirà in una bolla di sapone. Il messaggio che ci viene costantemente dato dallo Stato è che in fondo le nostre azioni non sono influenti, che il comportarsi bene o male non cambia nulla, se si ha un posto garantito. Il messaggio che quindi passa alle generazioni future è quello che il merito e l’etica in Italia non hanno alcun peso, cosa che peraltro viene confermata in ogni ambito della nostra società, dall’università alla pubblica amministrazione. A volte, quando guardo i politici immersi nelle loro costanti e sterili polemiche televisive, mi domando: si rendono veramente conto dello stato di esasperazione della parte sana del nostro Paese? Credo proprio di no. Se si rendessero conto, infatti, agirebbero di conseguenza, senza timore dell’impopolarità, sfrondando, pulendo, liberandoci da tutto ciò che è inutile, offensivo e dannoso. È la mancanza di questa semplice azione a spingere sempre più italiani verso l’indifferenza, il cinismo, il disinteresse o tra le braccia dei movimenti che afferrano le viscere e le torcono, perché è lì che, alla fine, si annida la disperazione degli onesti. È su questo che riflettevo, andando in bicicletta per le colline umbre, desolata dallo spettacolo che ormai accompagna ogni mia escursione. Avevo appena superato la carcassa di un televisore abbandonato in mezzo ai rovi; doveva essere un lancio recente, dato che la settimana scorsa non c’era, come non c’era neppure il water di porcellana rovesciato in un fosso, sulla via del ritorno. Anche lui una new entry nel mio paesaggio ciclistico. Chi, come i nostri politici, viaggia sempre in automobile forse non sa che quasi la totalità dei bordi delle nostre strade e autostrade è costellato di rifiuti e spazzatura. Ogni metro quadrato è invaso da bottiglie di acqua minerale, lattine, scatole di sigarette, pannolini, preservativi, batterie di automobili, plastiche: tutto viene allegramente scaraventato fuori dai finestrini. Se poi si abbandonano le strade asfaltate e si imboccano quelle bianche, il panorama diventa ancora più orrendamente variegato: frigoriferi, lavatrici, pneumatici di tutte le dimensioni, reti da letto sfondate, materassi, divani, poltrone, computer, bidet, carcasse di biciclette o di motorino e spesso anche automobili senza targa, per non parlare delle lastre di amianto, residui di pollai e di stalle, maldestramente nascosti sotto pochi centimetri di terra. E tutto questo non accade soltanto nella terra dei fuochi, ma anche nella verde e felice Umbria. Bisogna aver il coraggio di dirlo apertamente: il nostro Paese - il meraviglioso giardino d’Europa - è una discarica a cielo aperto, di cui la «Terra dei fuochi» non è che la punta di un iceberg. Questo disprezzo per il luogo in cui viviamo, oltre a provocare un enorme danno all’ambiente e al turismo, è uno specchio fedele dell’assenza di senso civico che permea ormai tutto il Paese e di cui la classe politica è stata, fino ad ora, la garante. Dopo di me il diluvio, potrebbe assurgere a nostro motto nazionale. Il fatto che esistano, in ogni comune, delle isole ecologiche in cui smaltire ciò che non serve più cambia solo in parte le cose, perché questi luoghi hanno orari e leggi da rispettare, e perché mai dovrei rispettare un orario e una legge, se posso non farlo? Per anni, camminando in montagna, mi sono arrabbiata vedendo tutto quello che veniva abbandonato lungo i sentieri. Poi ho capito che quello sporco riguardava anche me, che arrabbiarsi e non fare niente mi rendeva complice del degrado. Così ho cominciato a raccogliere bottigliette di plastica, rifiuti e lattine come fossero fiori, riportandoli a valle con me. È questo che tutti noi dovremmo fare. Ciò che è fuori è sempre lo specchio di ciò che è dentro. L’immondizia che devasta il nostro Paese non è che la manifestazione del degrado etico che pervade ogni ambito della nostra società. Così, pedalando desolata, pensavo: come sarebbe se ogni comune, ogni quartiere di città, mettesse a disposizione di noi cittadini dei mezzi per permetterci di raccogliere in prima persona i rifiuti abbandonati criminalmente per strada o nei boschi. E poi sarebbe anche bello che tutta questa spazzatura, invece di venir immediatamente smaltita e dimenticata, lasciando spazio all’arrivo di nuova, venisse portata nelle piazze principali dei paesi e dei quartieri e affidata alle mani esperte di ragazzi diplomati alle varie Accademie di belle arti, per venir trasformata, grazie alla loro creatività, in temporanei monumenti alla nostra inciviltà. Così, durante la passeggiata domenicale, prendendo un caffè o conversando con gli amici, tutti noi potremmo ammirare per un anno gli oggetti che abbiamo abbandonato: guarda, la mia vecchia lavatrice, il mio bidet, il televisore della nonna! Sarebbe istruttivo che poi tutti questi precari monumenti al nostro degrado venissero fotografati e raccolti in un delizioso libretto dal titolo: «Ciò che eravamo, ciò che non vogliamo più essere». Susanna Tamaro».
LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.
La Terra dei Cachi (di Belisari, Conforti, Civaschi, Fasani) è la canzone cantata da Elio e le Storie Tese al Festival di Sanremo 1996, classificatasi al secondo posto nella classifica finale e vincitrice del premio della critica. Prima nelle classifiche temporanee fino all'ultima serata, il secondo posto nell'ultima provocò molte polemiche su presunte irregolarità del voto, confermate dalle indagini dei carabinieri che confermarono che La terra dei cachi era stata la canzone più votata. Il testo racconta la vita e le abitudini dell'Italia travolta da scandali su scandali (il pizzo, episodi criminali mai puniti, la malasanità) e piena di comportamenti che caratterizzano il cittadino italiano nel mondo, come la passione per il calcio, la pizza e gli spaghetti.
Parcheggi abusivi, applausi abusivi,
Villette abusive, abusi sessuali abusivi;
Tanta voglia di ricominciare abusiva.
Appalti truccati, trapianti truccati,
Motorini truccati che scippano donne truccate;
Il visagista delle dive è truccatissimo.
Papaveri e papi, la donna cannolo,
Una lacrima sul visto: Italia sì, Italia no.
Italia sì, Italia no, Italia bum, la strage impunita.
Puoi dir di sì, puoi dir di no, ma questa è la vita.
Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè:
C'è un commando che ci aspetta per assassinarci un pò.
Commando sì, commando no, commando omicida.
Commando pam, commando prapapapam,
Ma se c'è la partita
Il commando non ci sta e allo stadio se ne va,
Sventolando il bandierone non più il sangue scorrerà.
Infetto sì? Infetto no? Quintali di plasma.
Primario sì, primario dai, primario fantasma.
Io fantasma non sarò, e al tuo plasma dico no;
Se dimentichi le pinze fischiettando ti dirò:
"Fi fi fi fi fi fi fi fi, ti devo una pinza.
Fi fi fi fi fi fi fi fi, ce l'ho nella panza".
Viva il crogiuolo di pinze, viva il crogiuolo di panze. Eh
Quanti problemi irrisolti, ma un cuore grande così.
Italia sì, Italia no, Italia gnamme, se famo dù spaghi.
Italia sob, Italia prot, la terra dei cachi.
Una pizza in compagnia, una pizza da solo;
Un totale di due pizze e l'Italia è questa qua.
Fufafifi, fufafifi, Italia evviva.
Squerellerellesh, cataraparupai,
Italia perfetta, perepepè nainananai.
Una pizza in compagnia, una pizza da solo;
In totale molto pizzo ma l'Italia non ci sta.
Italia sì, Italia no, scurcurrillu currillo.
Italia sì: uè.
Italia no, spereffere fellecche.
Uè, uè, uè, uè,uè.
Perchè la terra dei cachi è la terra dei cachi.
«Una società sciapa e infelice in cerca di connettività».Così il Censis definisce la situazione sociale italiana nel suo 47mo illustrato a Roma dal direttore generale Giuseppe Roma e dal presidente Giuseppe De Rita. Una società, quella italiana, che sembra sempre ad un passo dal crollo ma che non crolla. «Negli anni della crisi - si legge nel rapporto del Censis - abbiamo avuto il dominio di un solo processo, che ha impegnato ogni soggetto economico e sociale: la sopravvivenza. C’è stata la reazione di adattamento continuato (spesso il puro galleggiamento) delle imprese e delle famiglie. Abbiamo fatto tesoro di ciò che restava nella cultura collettiva dei valori acquisiti nello sviluppo passato (lo «scheletro contadino», l’imprenditorialità artigiana, l’internazionalizzazione su base mercantile), abbiamo fatto conto sulla capacità collettiva di riorientare i propri comportamenti (misura, sobrietà, autocontrollo), abbiamo sviluppato la propensione a riposizionare gli interessi (nelle strategie aziendali come in quelle familiari). Siamo anche una «società sciapa e infelice» secondo il Censis «senza fermento e dove circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa». Di conseguenza siamo anche «infelici, perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali». A giudizio dei ricercatori del Censis si sarebbe «rotto il “grande lago della cetomedizzazione”, storico perno della agiatezza e della coesione sociale. Troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale. Da ciò nasce uno scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti». Ciò avrebbe determinato una vera e propria fuga all’estero. Nell’ultimo decennio il numero di italiani che hanno trasferito la propria residenza all’estero è più che raddoppiato, passando dai circa 50mila del 2002 ai 106mila del 2012. Ma è stato soprattutto nell’ultimo anno che l’aumento dei trasferimenti è stato particolarmente rilevante: (+28,8% tra il 2011 e il 2012). Una reazione al grave disagio sociale, all’ instabilità lavorativa e sottoccupazione che interessa il 25,9% dei lavoratori: una platea di 3,5 milioni di persone ha contratti a termine, occasionali, sono collaboratori o finte partite Iva. Ci sono poi 4,4 milioni di italiani che non riescono a trovare un’occupazione «pure desiderandola». Per il Censis «2,7 milioni sono quelli che cercano attivamente un lavoro ma non riescono a trovarlo, un universo che dallo scoppio della crisi è quasi raddoppiato (+82% tra il 2007 e il 2012)». Ci sono poi 1,6 milioni di italiani che, «pur disponibili a lavorare, hanno rinunciato a cercare attivamente un impiego perché convinti di non trovarlo». Cresce sempre più il disinteresse per la politica: il 56% degli italiani (contro il 42% della media europea) non ha attuato nessun tipo di coinvolgimento civico negli ultimi due anni, neppure quelli di minore impegno, come la firma di una petizione. Più di un quarto dei cittadini manifesta una lontananza pressoché totale dalla dimensione politica, non informandosi mai al riguardo. Al contrario, si registrano nuove energie difensive in tanta parte del territorio nazionale contro la chiusura di ospedali, tribunali, uffici postali o presidi di sicurezza. Tuttavia il Censis vede anche dei segnali positivi e di tenuta sociale. «Si registra una sempre più attiva responsabilità imprenditoriale femminile (nell’agroalimentare, nel turismo, nel terziario di relazione), l’iniziativa degli stranieri, la presa in carico di impulsi imprenditoriali da parte del territorio, la dinamicità delle centinaia di migliaia di italiani che studiano e/o lavorano all’estero (sono più di un milione le famiglie che hanno almeno un proprio componente in tale condizione) e che possono contribuire al formarsi di una Italia attiva nella grande platea della globalizzazione». Nuove energie si sprigionano inoltre in due ambiti che permetterebbero anche l’apertura di nuovi spazi imprenditoriali e di nuove occasioni di lavoro. «Il primo -si legge nel rapporto- è il processo di radicale revisione del welfare. Il secondo è quello della economia digitale: dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al commercio elettronico, dalla elaborazione intelligente di grandi masse di dati, dallo sviluppo degli strumenti digitali ai servizi innovativi di comunicazione, alla crescita massiccia di giovani “artigiani digitali”». Il nuovo motore dello sviluppo, secondo il Censis, potrebbe essere la connettività (non banalmente la connessione tecnica) fra i soggetti coinvolti in questi processi». Se infatti «restiamo una società caratterizzata da individualismo, egoismo particolaristico, resistenza a mettere insieme esistenze e obiettivi, gusto per la contrapposizione emotiva, scarsa immedesimazione nell’interesse collettivo e nelle istituzioni» avremmo anche raggiunto il punto più basso dal quale non potrà che derivare un progressivo superamento di questa «crisi antropologica». Per fare connettività, secondo il Censis, non si può contare sulle istituzioni «perché autoreferenziali, avvitate su se stesse, condizionate dagli interessi delle categorie, avulse dalle dinamiche che dovrebbero regolare, pericolosamente politicizzate, con il conseguente declino della terzietà necessaria per gestire la dimensione intermedia fra potere e popolo». Neanche la politica può sviluppare questa connettività perché «più propensa all’enfasi della mobilitazione che al paziente lavoro di discernimento e mediazione necessario per fare connettività, scivolando di conseguenza verso l’antagonismo, la personalizzazione del potere, la vocazione maggioritaria, la strumentalizzazione delle istituzioni, la prigionia decisionale in logiche semplificate e rigide». Se dunque, conclude il Censis, «istituzioni e politica non sembrano in grado di valorizzarla, la spinta alla connettività sarà in orizzontale, nei vari sottosistemi della vita collettiva. A riprova del fatto che questa società, se lasciata al suo respiro più spontaneo, produce frutti più positivi di quanto si pensi».
Quella che emerge è una nazione senza scrupoli, che lucra su ogni fonte di guadagno fregandosene delle leggi, della salute della gente e del territorio. Scorie tossiche nelle campagne, rigassificatori a un chilometro dai templi di Agrigento, la decadenza dei Sassi di Matera beneficiari di finanziamenti per la tutela di milioni di euro. L’annientamento di due giudici e dei loro tecnici, avviato e pianificato con precisione maniacale da politici e colleghi, e approvato senza batter ciglio da un Consiglio Superiore della Magistratura che anziché proteggerli dagli attacchi, li consegna agli sciacalli per voce di Letizia Vacca (non me ne voglia il bovino): “due cattivi magistrati”. Il “non sapevo” oggi non è più tollerato, perché se un giorno De Magistris sarà punito dal Csm nonostante la Procura di Salerno dice che contro di lui è in atto un complotto, se la Forleo perderà la funzione di Gip per aver fatto scoprire all’Italia gli alpinisti della sinistra, questo avverrà di fronte ad una nazione cosciente, che forse allora reagirà. Ignorantia legis non excusat.
La certezza della pena non esiste più. Ci troviamo in una situazione di «indulto quotidiano», in cui tutti parlano ma nessuno fa. Il capo della Polizia non usa mezzi termini per definire lo stato della certezza della pena in Italia. «Viviamo una situazione di indulto quotidiano - dice alle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia del Senato - di cui tutti parlano. Ma su cui non si è fatto nulla negli ultimi anni». La pena, aggiunge, «oggi è quando di più incerto esiste in Italia»; un qualcosa che rende «assolutamente inutile» la risposta dello Stato e «vanifica» gli sforzi di polizia e magistratura. «Non gioco a fare il giurista - prosegue il capo della Polizia - nè voglio entrare nelle prerogative del Parlamento, ma quella che abbiamo oggi è una situazione vergognosa. La criminalità diffusa in Italia ha un segmento di fascia delinquenziale ben identificato che si chiama immigrazione clandestina» ha aggiunto il capo della polizia. «Il 30 per cento degli autori di reato di criminalità diffusa sono immigrati clandestini, ma questa media nazionale del 30 per cento va disaggregata». Così, ha proseguito il capo della polizia, si scopre, che se al Sud i reati commessi da clandestini incidono relativamente poco («i reati compiuti da irregolari si attesta intorno al 30 per cento»), al Nord e in particolare nel Nord est «si toccano picchi del 60-70 per cento». La maggior parte degli immigrati clandestini entra in Italia non attraverso gli sbarchi ma con un visto turistico. «Solo il 10 per cento dei clandestini entra nel nostro Paese attraverso gli sbarchi a Lampedusa- dice il capo della polizia- mentre il 65-70 per cento arriva regolarmente e poi si intrattiene irregolarmente». E conclude: «Il 70 per cento di quei crimini commessi nel Nord est da irregolari è compiuta proprio da chi arriva con visto turistico e poi rimane clandestinamente sul nostro territorio». Per contrastare la clandestinità, riflette Manganelli, «occorre quindi non solo il contrasto all'ingresso, ma il controllo della permanenza sul territorio dei clandestini». Ma le randellate sono riservate anche alla polizia. "La polizia ha una cultura deviata delle indagini perché pensa che identificare una persona che partecipa a una manifestazione consenta, poi, di attribuirle tutti i reati commessi nell’ambito della stessa manifestazione". A sottolinearlo il sostituto procuratore generale della Cassazione Alfredo Montagna nella sua requisitoria del 27 novembre 2008 innanzi alla prima sezione penale della Cassazione nell’ambito dell’udienza per gli scontri avvenuti a Milano, l’11 marzo 2006 a corso Buenos Aires, durante una manifestazione antifascista non autorizzata promossa dalla sinistra radicale dei centri sociali e degli autonomi per protestare contro un raduno della formazione di estrema destra "Forza Nuova". Lo ha detto in contrarietà ai suoi colleghi dei gradi di giudizio precedenti.
"Quello affermato per la Diaz deve valere anche per i cittadini" "La Giustizia deve essere amministrata - ha proseguito Montagna - con equità e non con due pesi e due misure: quel che è stato affermato per i poliziotti della Diaz, nel processo di Genova, deve valere anche per il cittadino qualunque e non solo per i colletti bianchi. Se è vero, come è vero nel nostro ordinamento che è personale il principio della responsabilità penale, questo deve valere per tutti mentre ho l’impressione che nel nostro Paese oggi, si stia allargando la tendenza ad una minor tutela dei soggetti più deboli, come possono essere i ragazzi un pò scapestrati". Montagna ha aggiunto che "non può passare, alla pubblica opinione, un messaggio sbagliato per cui sui fatti della Diaz i giudici decidono in maniera differente rispetto a quando si trovano a giudicare episodi come quelli di corso Buenos Aires". Invece i giudici hanno deciso in modo differente: per i poliziotti e i loro dirigenti assoluzione quasi generale; per i ragazzi condanne confermate per tutti.
Ma le stoccate vengono portate su tutto il sistema. "Profili di patologie emergono nel settore dei lavori pubblici e delle pubbliche forniture, nonché nella materia sanitaria, fornendo un quadro di corruzione ampiamente diffuso". Lo ha sottolineato il procuratore generale della Corte dei Conti, nella Relazione all'apertura dell'anno giudiziario della magistratura contabile. Il Pg ha aggiunto che "in particolare l'accertamento del pagamento di tangenti è correlato ad artifici ed irregolarità connesse a fattispecie della più diversa natura, quali la dolosa alterazione di procedure contrattuali, i trattamenti preferenziali nel settore degli appalti d'opera, la collusione con le ditte fornitrici, la illecita aggiudicazione, la irregolare esecuzione o l'intenzionale alterazione della regolare esecuzione degli appalti di opere, forniture e servizi". Comportamenti illeciti di cui e' conseguenza "il pagamento di prezzi di gran lunga superiori a quelli di mercato o addirittura il pagamento di corrispettivi per prestazioni mai rese".
L’Italia non crede più nelle istituzioni che dovrebbero guidarla. Il potere "esercita il comando senza obiettivi e senza principi, perde ogni rapporto con la realtà del Paese", diventa autoreferenziale e alla fine forma "una società separata", con una sua lingua, le sue gazzette, i suoi clan, i suoi privilegi. Questa "società separata ha le finestre aperte solo su se stessa", denuncia il Rapporto Italia dell'Eurispes. In realtà, sottolinea l'Istituto di studi economici e sociali, la politica non c'è più: è estinta, grazie alla tenacia dei poliburocrati, i burocrati dei due poli, ora quasi tutti in "overdose", sopraffatti dai loro stessi abusi.
È una fotografia impietosa quella scattata dal Censis nel suo Rapporto sulla situazione sociale del Paese. L’Italia, secondo l’istituto di ricerca socioeconomica presieduto da Giuseppe De Rita, è un Paese apatico, senza speranza verso il futuro, nel quale sono sempre più evidenti, sia a livello di massa sia a livello individuale, «comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, prigionieri delle influenze mediatiche». Gli italiani si percepiscono, scrive il Censis, come «condannati al presente senza profondità di memoria e di futuro», vittime di fittizi «desideri mai desiderati» come l’ultimo cellulare alla moda e in preda spesso a «narcisismo autolesionistico», come è testimoniato dal fenomeno del «balconing». Quella italiana sarebbe, in sostanza, una società «pericolosamente segnata dal vuoto».
"Una mucillagine sociale che inclina continuamente verso il peggio".
Così il Censis descrive la realtà italiana, costituita da una maggioranza che resta "nella vulnerabilità, lasciata a se stessa", "più rassegnata che incarognita", in un'inerzia diffusa "senza chiamata al futuro".
La realtà diventa ogni giorno "poltiglia di massa - spiega il Rapporto sulla situazione sociale del paese - indifferente a fini e obiettivi di futuro, ripiegata su se stessa"; la società è fatta di "coriandoli" che stanno accanto per pura inerzia.
Una minoranza industriale, dinamica e vitale, continua nello sviluppo, attraverso un'offerta di fascia altissima del mercato, produzioni di alto brand, strategie di nicchia, investimenti all'estero; cresce così la voglia di successo degli imprenditori e il loro orgoglio rispetto al mondo di finanza e politica.
Ma "siamo dentro una dinamica evolutiva di pochi e non in uno sviluppo di popolo": "la minoranza industriale va per proprio conto, il governo distribuisce 'tesoretti'", ma lo sviluppo non filtra perché non diventa processo sociale e la società sembra adagiata in un'inerzia diffusa.
Lo sviluppo di una minoranza non ha saputo rilanciare i consumi e la maggioranza si orienta per acquisizioni low cost e su beni durevoli, senza un clima di fiducia.
L'italiano medio dovunque giri lo sguardo sembra pensare di fare esperienza del peggio: nella politica, nella violenza intrafamiliare, nella micro-criminalità e nella criminalità organizzata, nella dipendenza da droga e alcool, nella debole integrazione degli immigrati, nella disfunzione delle burocrazie, nella bassa qualità dei programmi tv.
La minoranza industriale, dinamica e vitale, non ce la fa a trainare tutti, visto che é concentrata sulla conquista di mercati ricchi e lontani, con prodotti a prezzo così alto che non possono scatenare effetto imitativo.
La pur indubbia ripresa - fa notare il Censis - rischia di essere malata se non si immette fiducia nel futuro.
La classe politica, scossa dalla ventata di antipolitica, non può fare da collettore di energie.
Solo delle minoranze "possono trovare la base solida da cui partire" e "sprigionare le energie necessarie per uscire dallo stallo odierno"; si tratta delle minoranze che fanno ricerca e innovazione, giovani che studiano all'estero, professionisti che esplorano nuovi mercati; chi ha scelto di vivere in realtà locali ad alta qualità della vita; minoranze che vivono l'immigrazione come integrazione, che credono in un'esperienza religiosa e sono attente alla persona, che hanno scelto di appartenere a gruppi, movimenti, associazioni, sindacati.
Le diverse minoranze dovranno gestire da sole una sfida faticosa, immaginando spazi nuovi di impegni individuali e collettivi: una sfida assolutamente necessaria - per il Censis - per allontanare l'inclinazione al peggio che "fa rasentare l'ignominia intellettuale e un'insanabile noia".
Il presidente del Censis, De Rita: “Italia rassegnata e furba senza senso del peccato. Lo Stato ha perso autorità morale e sta saltando.”
Nella reazione dell’opinione pubblica ai ripetuti scandali, c’è una sorta di rassegnazione al peggio, un atteggiamento diverso rispetto all’era Tangentopoli, eppure questo approccio non stupisce il presidente del Censis Giuseppe De Rita: «Sì, in giro c’è una rassegnazione vera, ma anche furba. Chiunque di noi può ascoltare grandi dichiarazioni indignate: “Qui sono tutti mascalzoni!”. La gente ragiona così: sento tutti parlare male di tutti e anche io faccio lo stesso. Dopodiché però non scatta la molla: e io che faccio? Non scatta per l’assenza di codici ai quali ubbidire. Non scatta perché non c’è più un vincolo collettivo. Tutto può essere fatto se io stesso ritengo giusto che sia fatto».
La profondità e l’autorevolezza della sua lettura della società e del costume italiano già da tempo hanno fatto di Giuseppe De Rita un’autorità morale, una dei pochissimi intellettuali italiani che è impossibile incasellare.
«Siamo passati dal grande delitto ai piccoli delitti. Dall’Enimont al piccolo appalto. Ma questa è la metafora del Paese. A furia di frammentare, anche i reati sono diventati più piccoli e ciascuno se li assolve come vuole. E’ entrato in crisi il senso del peccato, ma lo Stato che dovrebbe regolare i comportamenti sconvenienti, non ha più l’autorità morale per dire: quel reato è veramente grave. E allora salta lo Stato. Come sta accadendo adesso. Se sei un piccolo ladruncolo, cosa c’è di meglio che prendersela col grande ladro? Se fai illegalmente il secondo lavoro da impiegato pubblico, poter dire che quelli lì erano ladri e si sono mangiati tutto, non è un alibi, ma è una messa in canto della propria debolezza. Le formichine italiane hanno fatto il Paese, ma hanno preso tutto quello che era possibile dal corpaccione pubblico. Noi che predicavamo le privatizzazioni “alte”, non abbiamo capito che il modo italico di privatizzare era tradurre in interesse privato qualsiasi cosa. Un fenomeno di massa: ognuno si è preso il suo pezzetto di risorsa pubblica. La classe dirigente della Seconda Repubblica non è stata soltanto la “serie B” della Prima, ma le sono mancati riferimenti di autorità morale. Una classe dirigente si forma sotto una qualche autorità etica. De Gasperi si era formato nell’Austria-Ungheria, il resto della classe dirigente democristiana, diciamoci la verità, si è formata in parrocchia. La classe dirigente comunista si era formata in galera o nella singolare moralità del partito. Questa realtà di illegalità diffusa ha inizio con don Lorenzo Milani. Con don Milani e l’obiezione di coscienza. Ci voleva una autorità morale come la sua per dire che la norma della comunità e dello Stato è meno importante della mia coscienza. E’ da lì che inizia la stagione del soggettivismo etico. Un’avventura che prende tre strade. La prima: la libertà dei diritti civili. Prima di allora non dovevi divorziare, non dovevi abortire, dovevi fare il militare, dovevi obbedire allo Stato e poi sei diventato libero di fare tutto questo. Seconda strada: la soggettività economica, ciascuno ha voluto essere padrone della propria vita, non vado sotto padrone, mi metto in proprio. E’ il boom delle imprese. La terza strada, la più ambigua: la libertà di essere se stessi e quindi di poter giudicare tutto in base ad un criterio personale. Il marito è mio e lo cambio se voglio, il figlio è mio e lo abortisco se voglio. L’azienda è mia e la gestisco io. Io stesso, certe volte parlando con i miei figli, dico: il peccato è mio, me lo “gestisco” io».
Il Csm, è la convinzione del capo dello Stato nella cerimonia al Quirinale di commiato dai componenti del Csm uscenti e di saluto a quelli entranti, deve «contrastare decisamente oscure collusioni di potere ed egualmente esposizioni e strumentalizzazioni mediatiche, a fini politici di parte o a scopo di "autopromozione personale"». Il 31 luglio 2010 l'inquilino del Quirinale cita «fenomeni di corruzione di trame inquinanti che turbano e allarmano, apparendo essi tra l’altro legati all’operare di "squallide consorterie"».
Per il Colle è importante «alzare la guardia nei confronti di deviazioni che finiscono per colpire fatalmente quel bene prezioso che è costituito dalla credibilità morale e dall'imparzialità e dalla terzietà del magistrato». «Già nella risoluzione adottata dal Csm il 20 gennaio 2010 - ricorda Napolitano nel discorso di saluto dei nuovi componenti del Csm - si è mostrata consapevolezza della percezione da parte dell'opinione pubblica che, alcune scelte consiliari siano in qualche misura condizionate da logiche diverse, che possono talvolta affermarsi in "pratiche spartitorie", rispondenti ad "interessi lobbistici, logiche trasversali, rapporti amicali o simpatie e collegamenti politici"».
Nel documento base della ‘Settimana sociale’, di Agosto 2010, la Cei definisce l’Italia “un Paese senza classe dirigente”.Nel documento è possibile leggere: “L’Italia è un paese senza classe dirigente, senza persone che per ruolo politico, imprenditoriale, di cultura, sappiano offrire alla nazione una visione e degli obiettivi condivisi e condivisibili”.
L’Italia è un Paese «sfilacciato», addirittura ridotto «a coriandoli», che ha paura del futuro. È dirompente la radiografia che il presidente dei vescovi italiani, ha fatto aprendo i lavori del Consiglio permanente della Cei.
“La verità è che ‘il Paese da marciapiede’ i segni del disagio li offre (e in abbondanza) da tempo, ma la politica li toglie dai titoli di testa, sviando l’attenzione con le immagini del ‘Presidente spazzino’, l’inutile ‘gioco dei soldatini’ nelle città, i finti problemi di sicurezza, la lotta al fannullone”. Questo scrive Famiglia Cristiana. Ciò svia l’attenzione dai problemi economici del Paese, e con il rischio “di provocare una guerra fra poveri, se questa battaglia non la si riconduce ai giusti termini, con serietà e senza le ‘buffonate’, che servono solo a riempire pagine di giornali”.
Il Vaticano non recepisce più automaticamente, come fonte del proprio diritto, le leggi italiane. Tre i motivi principali di questa drastica scelta: il loro numero esorbitante, l'illogicità e l'amoralità di alcune norme. Lo riferisce l'Osservatore Romano all’atto di presentazione della nuova legge della Santa Sede sulle fonti del diritto firmata da Benedetto XVI, vigente dal primo gennaio 2009 e in sostituzione della legge del 7 giugno 1929.
E che dire della malattia dei politici. Poltronismo, poltronite. La malattia è presto definita: raccogliere sotto lo stesso corpo più incarichi possibili. La prima poltrona dà potere e visibilità. La seconda fiducia e tranquillità. Se casco lì, rimango in piedi qui. O viceversa.
La Prima Repubblica aveva molti difetti ma alcune virtù nascoste. Tra queste separare in modo indiscutibile la guida degli enti locali con l'impegno da parlamentare. Il divieto, contenuto in una legge del 1957 e limitato ai centri con più di ventimila abitanti e alle province, tutte, trovava fondamento nell'idea di offrire parità di condizioni ai candidati. Un deputato che fosse in corsa per fare il sindaco aveva più possibilità di captare voti. Dunque avrebbe violato la par condicio. Per anni norma osservata, e disciplina dei sensi unici assoluta. Con Tangentopoli il mercato della politica si è però ristretto. Molti presentabili sono divenuti impresentabili. Molti politici in carriera si sono ritrovati in panchina. Molti altri colleghi addirittura oltre le tribune, fuori dal gioco, alcuni dietro le sbarre.
Col favore delle tenebre, nel silenzio assoluto e nella distrazione collettiva, il 2 giugno del 2002 la Giunta per le elezioni, organo politico a cui sono affidati poteri giurisdizionali, cambia i sensi, inverte i passaggi. Chi fa il sindaco di una città che abbia più di ventimila abitanti o il presidente della Provincia non può candidarsi a deputato o senatore. Ma chi è parlamentare può. Senso inverso possibile. La cosa è piaciuta ai più: fare il sindaco-deputato è molto meglio che fare soltanto il sindaco. E se è vero che le indennità non sono cumulabili è certo che le prerogative invece lo sono. Esempio su tutte: l'immunità.
E quindi è iniziata la processione. Prima quello, poi quell'altro. Dopo di te io. E allora io. Un deputato è sindaco a Viterbo, un senatore è sindaco a Catania; una deputata è presidente della Provincia di Asti, un senatore presiede quella di Avellino. Un deputato è sindaco a Brescia, un collega è presidente a Napoli. E via così...
I più hanno trasmesso ai nuovi uffici la stessa foto di rappresentanza data agli uffici parlamentari. Quando serve siamo qui. Col tesserino. Quando non serve siamo lì. Con la fascia tricolore. E' un bel segno in questi tempi di crisi: più poltrone per tutti.
Da una ricerca emergono i difetti del “belpaese”. Italiani maleducati, arroganti e corrotti, con scarso rispetto per l'ambiente e le diversità. I più viziosi? Senza ombra di dubbio, i politici seguiti, a ruota, da sindacalisti, imprenditori e banchieri.
Inizia con in esclusiva dell'indagine, curata dal sociologo Enrico Finzi, che il 'Messaggero di “Sant’Antonio” ha commissionato ad Astra Ricerche, istituto di ricerca demoscopica di cui Finzi è presidente.
Uno zoom sui nuovi vizi dal quale emerge una radiografia 'in presa diretta' sull'Italia.
''Nell'anteprima dell'indagine pubblicata in questo numero della Rivista, si possono trovare le prime istantanee - afferma il direttore della rivista, padre Ugo Sartorio - ossia quali sono i nuovi vizi più diffusi, le cause e, soprattutto, l'identikit degli italiani più 'viziosi'''.
In testa alla classifica dei vizi ci sono i politici, secondo il 78% degli interpellati; seguono i sindacalisti al secondo posto, 40% circa, e poi i giovani, i giornalisti e gli immigrati, attorno al 35%. Tra i nuovi vizi più diffusi l'arroganza e la maleducazione, la corruzione, la disonestà, il consumismo, ma anche l'indifferenza e l'irresponsabilità.
Al primo posto, per quanto riguarda i vizi nella società, troviamo la maleducazione: ben nove su dieci abitanti del Belpaese puntano il dito contro questo vizio.
Al terzo posto, col 77% delle indicazioni, incontriamo il menefreghismo. In stretta connessione, con un valore di poco inferiore (74%), quel tipo di degenerazione etica che si traduce nella disonestà e anche nella corruzione.
Insomma, la più aspra preoccupazione della gente riguarda in generale l'imbarbarimento della vita e delle relazioni interpersonali, fondato sul trionfo dell''io isolato dagli altri' e sul venir meno dell'etica personale e collettiva.
Di diversa natura, ''ma in fondo non così dissimile'', è il quinto macro-difetto, lamentato dal 71% dei 18-79enni: ''lo scarso rispetto per la natura e per l'ambiente''.
Il 49% del campione indica come vizio più grave ''il carrierismo e la competizione senza regole e senza freni, essi stessi determinati dall'egoismo o dal considerare gli altri solo un mezzo per raggiungere i propri obiettivi. Al penultimo posto in questa triste classifica - rileva il presidente di Astra ricerche - ecco il dilagare tra gli italiani dell'immaturità e spesso dell'infantilismo.
Infine il 42% denuncia la crescita nella nostra società dell'intolleranza (a volte religiosa, a volte politica, spesso culturale, spessissimo sportiva): quell'incapacità di accettare e anzi di valorizzare la pluralità delle opinioni e dei comportamenti che rende democratica e civile, oltre che moralmente solida, qualunque civiltà.
Una fotografia, quella voluta dal 'Messaggero di sant'Antonio', che aiuta a rilevare attraverso un'ottica il più possibile imparziale i tratti di un Paese dai mille volti.
Un occhio agli italiani anche da parte straniera, e il risultato per noi non è proprio dei migliori.
Impietosa analisi del Belpaese dove regna "una dilagante impunità e uno standard di vita in declino".
"L'Italia è oggi una terra inondata da corruzione, decadenza economica, noia politica, dilagante impunità e uno standard di vita in declino".
E' l'impietosa analisi che fa del nostro Paese il Los Angeles Times in occasione delle elezioni politiche del 2008 per la scelta del "62esimo governo in 63 anni". Elezioni nelle quali gli elettori potranno scegliere fra "rei condannati" o "ballerine della tv". Il titolo dell'articolo di Tracy Wilkinson è: "In Italia il crimine paga e vi può far eleggere".
Il Los Angeles Times descrive l'Italia - un tempo "leggendaria icona di cultura" - come un Paese dove la gestione di un'impresa "è un'esperienza torbida e frustrante, a meno di non essere la Mafia, oggi il più grande business in Italia".
Un Paese dove "il sistema giudiziario raramente funziona", e "i parlamentari sono i più pagati d'Europa ma, secondo l'opinione di molti, i meno efficaci, una elite che si autoperpetua" e sembra "voler trascinare giù il Paese con sé".
Un' Italia ormai in ginocchio, con una classe politica "iper-pagata" preda dell' "immobilismo" e del "trasformismo" che sta inesorabilmente perdendo "legittimità"' tra i cittadini stanchi e disillusi. E' un quadro nero della Penisola, il Paese "peggio governato d'Europa", quello che il professor Martin Rhodes traccia nella pagina dei commenti del Financial Times.
I giornali lo dicono chiaramente: non siamo più emblema di stile, ma quintessenza della maleducazione. "Dimenticatevelo il Bel Paese. Musica rap strombazza da una radio portatile e un pallone rotola sul vostro asciugamano mentre una mamma italiana urla a suo figlio insabbiato. Questa è la vita da spiaggia, almeno alla maniera italiana" sentenzia il Sydney Morning Herald. Ma non solo: "un turista visto una sola volta viene considerato non una persona, bensì un’incombenza" (The Guardian), "nelle code ai musei ti ritrovi spinto addirittura da suore" si sostiene su travelpod.com. E ancora, "ci sono preservativi usati ovunque ad inquinare i parchi protetti" (italy.net), mentre in città "la colonna sonora simbolica dell'Italia è il ronzio del motore a due marce degli scooter che sfrecciano ignorando le regole tra il traffico impenetrabile" (New York Times).
Immagine italiana all'estero: sempre più opaca. È il quadro che emerge da una ricerca sulla stampa estera dell’Osservatorio Giornalistico Internazionale Nathan il Saggio (www.nathanilsaggio.com), reso noto dall’Agenzia KlausDavi, che ha monitorato le principali testate straniere (dal New York Times a Le Monde, dall’Herald Tribune al Der Spiegel) e i più importanti portali di informazioni turistiche sul tema "l’Italia vista dagli altri". Ne scaturisce un’analisi critica e a volte dura da parte della stampa estera che denota l’opacizzazione dell’immagine dello stile italiano all’estero.
"Che fine ha fatto la dolce vita?", il titolo di un articolo del Guardian, pare essere emblematico di questo cambiamento di percezione nei confronti del paese del sole. Da simpatici burloni, pronti ad accogliere con il sorriso gli ospiti e pieni del celeberrimo fascino Italian Style riconosciuto in tutto il mondo, gli italiani di oggi riempiono le colonne della stampa estera per maleducazione ed eccessi di arroganza e furbizia. Per strada sono sempre pronti a fischiare le ragazze, concentrati solo sul proprio aspetto fisico e gettano immondizia ovunque (The Sidney Morning Herald). Nella classifica compare la città di Viareggio, "invasa d’estate dalla solita calca italiana stravaccata sotto gli ombrelloni e sempre impegnata a far squillare i cellulari" (Times) e "meta di chi vuol esibire il proprio status" (Frankfurter Allgemeine Zeitung). Segue Rimini con le sue spiagge sovrappopolate e addirittura da evitare, secondo Liberation. Alberghi non accoglienti e infestati da ragni (Focus), valgono a Bibione la terza posizione in questa classifica. Chiudono Varigotti, perla della costa ligure che però è invasa da parcheggiatori e bagni abusivi (Abc), e Amalfi, dove strombazzate e insulti in auto sono la normalità (The Globe and Mail).
Questo per quanto riguarda l'Italia degli adulti. E i nostri figli ??
Cresce fra le ragazzine il fenomeno della microprostituzione: sesso a scuola e sul web per arrotondare la “paghetta”.
Ricordate, appena qualche anno fa, quando si parlava di immagini spinte che gli adolescenti facevano girare con i telefonini? Allora quel fenomeno, che era ai suoi albori, venne inquadrato in una specie di patologia “esibizionistica” imitativa fra teenagers. Capitarono anche casi di video “hard” di ragazzine, destinati all’auto-contemplazione all’interno della coppia o al ristretto giro delle amicizie più intime, diffusi, invece, sempre tramite i cellulari, ad intere scolaresche ed intercettati anche dagli allibiti genitori. Alcuni di questi episodi divennero casi di cronaca anche in Emilia, a Bologna e Modena, con povere ragazze messe in piazza in quel modo, e genitori costretti a rivolgersi ai carabinieri.
Si parlò poi di “bullismo elettronico”, quando, oltre alle scene di sesso precoce, vennero fatte circolare dai cellulari anche immagini girate a scuola di pestaggi (anche ai danni di minorati) o di “scherzi pesanti” a professori (ricordate il caso di Lecce della professoressa in perizoma, palpeggiata dagli alunni?). Ci si interrogò allora sul bisogno dei giovani di “apparire” a tutti i costi, di “visibilità” anche negativa, per esistere….
Ebbene a distanza di pochi anni, il fenomeno ha cambiato definizione e modalità: non più “esibizionismo”, non più “bullismo”, non più violenza gratuita, non più gratuita ostentazione… nel senso che le ragazzine continua a riprendersi o a farsi riprendere in situazioni “osè”, ma adesso pretendono di essere pagate. Il fenomeno si sta cioè convertendo in “microprostituzione” a scuola o tramite web. Una forma di prostituzione per così dire “under”, estemporanea, praticata per lo più fra coetanei (per questo la si chiama “micro”), ma è certo alta la possibilità che queste stesse ragazze possano diventare anche “prede” di adulti senza scrupoli, ed ovviamente più danarosi dei loro compagni di classe.
Il fenomeno è osservato ed in preoccupante espansione. Per molte ragazze sta diventando “normale” concedere prestazioni sessuali, o ritrarsi in pose erotiche tramite la webcam o gli stessi cellulari, in cambio di soldi per arrotondare la paghetta dei genitori. Paghetta che magari la crisi può aver un po’ ristretto.
E che dire delle leggi?
Guida pratica comune del Parlamento Europeo, del Consiglio e della Commissione destinata a coloro che partecipano alla redazione dei testi legislativi delle istituzioni europee.
La redazione degli atti deve essere:
chiara, facilmente comprensibile, priva di equivoci;
semplice, concisa, esente da elementi superflui;
precisa, priva di indeterminatezze.
Tale regola ispirata al buon senso è espressione di principi generali del diritto come i seguenti:
l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, nel senso che la legge deve essere accessibile e comprensibile a tutti;
la certezza del diritto, in quanto l’applicazione della legge deve essere prevedibile.
Invece in Italia così non è. L'aspirante dannunziano Roberto Calderoli ha fatto un miracolo: denunciata la presenza di 29.100 leggi inutili, ne ha bruciate in un bel falò 375.000, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Fatti i conti, lavorando 12 ore al giorno dal momento in cui si è insediato, più di una al minuto: lettura del testo compresa. Wow! Resta il mistero dell’ingombro di quelle appena fatte. Stando al «Comitato per la legislazione» della Camera, i soli decreti del governo attuale hanno sfondato la media di 2 milioni di caratteri l’uno: 56 decreti, 112 milioni di caratteri. Per capirci: l’equivalente di 124,4 tomi di 500 pagine l’uno. Dicono le rappresentanze di base dei vigili del fuoco che quella del ministro è stata «una sceneggiata degna del Ventennio». E c’è chi sottolinea che i roghi di carta, in passato, hanno sempre contraddistinto i tempi foschi. Per non dire delle perplessità sui numeri: se la relazione della commissione parlamentare presieduta da Alessandro Pajno e più volte citata da Calderoli aveva accertato «circa 21.000 atti legislativi, di cui circa 7.000 anteriori al 31 dicembre 1969», come ha fatto lo stesso Calderoli a contarne adesso 375.000? Al di là le polemiche, tuttavia, resta il tema: fra i faldoni bruciati ieri nel cortile di una caserma dei pompieri (lui avrebbe voluto fare lo show a Palazzo Chigi ma Gianni Letta, poco marinettiano, si sarebbe opposto...) c’erano soltanto antichi reperti burocratici quali l’enfiteusi o anche qualcosa di più recente? Prendiamo l’articolo 7 delle norme sul fondo perequativo a favore delle Regioni: «La differenza tra il fabbisogno finanziario necessario alla copertura delle spese di cui all’articolo 6, comma 1, lettera a), numero 1, calcolate con le modalità di cui alla lettera b) del medesimo comma 1 dell’articolo 6 e il gettito regionale dei tributi ad esse dedicati, determinato con l’esclusione delle variazioni di gettito prodotte dall’esercizio dell’autonomia tributaria nonché dall’emersione della base imponibile...». Il ministro Calderoli concorderà: un delirio. Il guaio è che non si tratta di una legge fatta ai tempi in cui Ferdinando Petruccelli della Gattina scriveva «I moribondi del Palazzo Carignano». È una legge del governo attuale, presa mesi fa ad esempio di demenza burocratese da un grande giornalista non certo catalogabile fra le «penne rosse»: Mario Cervi. Direttore emerito del Giornale berlusconiano. Eppure c’è di peggio. Nel lodevolissimo sforzo di rendere più facile la lettura e quindi il rispetto delle leggi, il governo approvò il 18 giugno 2009 una legge che aveva un articolo 3 titolato «Chiarezza dei testi normativi». Vi si scriveva che «a) ogni norma che sia diretta a sostituire, modificare o abrogare norme vigenti ovvero a stabilire deroghe indichi espressamente le norme sostituite, modificate, abrogate o derogate; b) ogni rinvio ad altre norme contenuto in disposizioni legislative, nonché in regolamenti, decreti o circolari emanati dalla pubblica amministrazione, contestualmente indichi, in forma integrale o in forma sintetica e di chiara comprensione, il testo...». Insomma: basta con gli orrori da azzeccagarbugli. Eppure, ecco il comma dell’articolo 1 dell’ultimo decreto milleproroghe del governo in carica: «5-ter. È ulteriormente prorogato al 31 ottobre 2010 il termine di cui al primo periodo del comma 8-quinquies dell’articolo 6 del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17, come da ultimo prorogato al 31 dicembre 2009 dall’articolo 47-bis del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31». Cioè? Boh...È questo il punto: che senso c’è a incendiare un po' di scatoloni di detriti burocratici che parlano di «concessioni per tranvia a trazione meccanica» o di «acquisto di carbone per la Regia Marina» se poi gli spazi svuotati da quelle regole in disuso vengono riempiti da nuove norme ancora più confuse, deliranti, incomprensibili? La risposta è in un prezioso libretto curato dal preside della facoltà di lettere e filosofia di Padova Michele Cortellazzo. Si intitola: Le istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione tradotte in italiano. Sottotitolo: Omaggio al ministero dell’Interno. Non fosse una cosa seria, potrebbe essere scambiata per satira: se le regole elettorali fossero comprensibili, perché mai dovrebbero essere «tradotte in italiano»? Anche negli armadi impolverati delle legislazioni straniere esistono mucchi di leggi in disuso. Un sito internet intitolato «gogna del legislatore scemo» ne ha steso un elenco irresistibile. In certi Stati del Far West americano è proibito «pescare restando a cavallo». Nell’Illinois chi abbia mangiato aglio può essere incriminato se va a teatro prima che siano trascorse quattro ore. A Little Rock dopo le 13 della domenica non si può portare a spasso mucche nella Main Street. Ogni tanto, senza farla tanto lunga, i legislatori svuotano i magazzini. Magari cercando di non fare gli errori sui quali, nello sforzo di fare in fretta, era incorsa la "ramazza" di Calderoli, la quale, come via via hanno segnalato i giornali consentendo di rimediare alle figuracce, aveva spazzato via per sbaglio anche il trasferimento della capitale da Firenze a Roma, l’istituzione della Corte dei Conti o le norme che consentono a un cittadino di non essere imputato per oltraggio a pubblico ufficiale se reagisce ad atti arbitrari o illegali. Ciò che più conta, però, è fare le leggi nuove con chiarezza. Se no, ogni volta si ricomincia da capo. Qui no, non ci siamo. E a dirlo non sono i «criticoni comunisti» ma il Comitato parlamentare per la legislazione presieduto dal berlusconiano Antonino Lo Presti. Comitato che due mesi fa spiegò che i decreti del governo Prodi, già gonfi di parole, numeri e codicilli, contenevano mediamente 1 milione e 128 mila caratteri. Quelli del governo Berlusconi, a forza di voler tener dentro tutto, hanno superato i 2 milioni. E sarebbe questa, la semplificazione? Ci siamo liberati delle ottocentesche norme sulla «riproduzione tramite fotografia di cose immobili» per tenerci oggi astrusità come i rimandi «all’articolo 1, comma 255, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, può essere prevista l’applicazione dell’articolo 11, comma 3, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, e dell’articolo 1, comma 853...»? Ma dai...
Non basta sono gli stessi legislatori ad essere illegittimi, quindi abusivi. Incostituzionalità della Legge elettorale n. 270/2005. Dal Palazzo della Consulta, 4 dicembre 2013. La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme della legge n. 270/2005 che prevedono l’assegnazione di un premio di maggioranza – sia per la Camera dei Deputati che per il Senato della Repubblica – alla lista o alla coalizione di liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e che non abbiano conseguito, almeno, alla Camera, 340 seggi e, al Senato, il 55% dei seggi assegnati a ciascuna Regione. La Corte ha altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che stabiliscono la presentazione di liste elettorali “bloccate”, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza. Le motivazioni saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Resta fermo che il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali.
Il Porcellum è illegittimo, dice la Corte costituzionale. Bocciato il premio di maggioranza, bocciate le liste bloccate. La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale delle norme sul premio di maggioranza, per Camera e Senato, attribuito alla lista o alla coalizione che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e non abbiano avuto almeno 340 seggi a Montecitorio e il 55 per cento dei seggi assegnati a ogni regione, a Palazzo Madama. Contrarie alla Carta anche le norme sulle liste «bloccate»,perché non consentono all’elettore di dare una preferenza. Accoglie in toto il ricorso contro la legge elettorale del 2005, l’Alta Corte. Ma nella lunga camera di consiglio è battaglia. Perché dopo il voto unanime sull’ammissibilità del ricorso e poi sull’eliminazione del premio di maggioranza, sulla terza questione ci si spacca 7 a 8. Sembra che i giudici più vicini alla sinistra, dal presidente Gaetano Silvestri a Sabino Cassese e Giuliano Amato (di nomina presidenziale), allo stesso Sergio Mattarella (scelto dal parlamento e padre del sistema precedente), volessero che l’Alta Corte affermasse che abolite le liste bloccate ci fosse la «reviviscenza» del vecchio sistema. Ma la manovra non sarebbe riuscita perché si sarebbero opposti lo stesso relatore Giuseppe Tesauro, il vicepresidente Sergio Mattarella, i giudici Paolo Maria Napolitano, Giuseppe Frigo e altri scelti da Cassazione e Consiglio di Stato.
GLI EFFETTI GIURIDICI INCONTESTABILI: SONO DA CONSIDERARSI INESISTENTI, QUINDI NON LEGITTIMATI A LEGIFERARE, A DECRETARE ED A NOMINARE CHI E’ STATO ELETTO CON UNA LEGGE INCOSTITUZIONALE, QUINDI INESISTENTE. INESISTENTI SONO, ANCHE, GLI ATTI DA QUESTI PRODOTTI: NORME GIURIDICHE O NOMINE ISTITUZIONALI.
L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrogazione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.
L'articolo 15 delle Preleggi delinea tre distinti casi di abrogazione: Art. 15 Abrogazione delle leggi. "Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore." Nel caso in cui la norma è abrogata, in tutto o in parte, mediante una legge posteriore con esplicito riferimento alla norma precedente si parla di "abrogazione espressa". Quando l'abrogazione deriva dall'incompatibilità delle precedenti norme con quelle emanate successivamente si parla di "abrogazione tacita". Infine, quando una nuova legge disciplina un'intera materia già regolamentata, conferendogli una nuova sistematicità logico-giuridica, le precedenti norme sono abrogate. In quest'ultimo caso si parla di "abrogazione implicita".
Abrogazione per incostituzionalità. Una norma giuridica può essere abrogata anche mediante sentenza di incostituzionalità pronunciata dalla Corte Costituzionale. Articolo 136 – Costituzione. "Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge [cfr. art. 134], la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali."
Abrogazione per referendum. Infine, un altro fenomeno estintivo di una norma giuridica previsto dal nostro ordinamento giuridico è dato dal referendum abrogativo. Articolo 75 – Costituzione. "E` indetto referendum popolare [cfr. art. 87 c. 6] per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge [cfr. artt. 76, 77], quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio [cfr. art. 81], di amnistia e di indulto [cfr. art. 79], di autorizzazione a ratificare trattati internazionali [cfr. art. 80]. Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati. La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. La legge determina le modalità di attuazione del referendum."
Abrogazione per desuetudine. Nell'ordinamento giuridico italiano non è valida l'abrogazione per desuetudine. L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrograzione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.
L'abrogazione è l'istituto mediante il quale il legislatore determina la cessazione ex nunc (non retroattiva) dell'efficacia di una norma giuridica. Si distingue dalla deroga (posta in essere da una norma speciale o eccezionale) in quanto una norma "derogata" resta in vigore per la generalità dei casi, mentre una norma abrogata cessa di produrre effetti giuridici. Si distingue dall'annullamento, che priva retroattivamente di efficacia una norma. Tutte le norme giuridiche si sviluppano necessariamente su due piani, quello temporale e quello spaziale. In questo scritto sarà la dimensione temporale ad essere presa in considerazione. Questo implica che si muovano i primi passi da una norma ulteriore rispetto a quelle citate in precedenza.
L'articolo 11 delle Preleggi disciplina il principio di irretroattività della legge: "la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo". Il significato di tale regola è che una norma non può essere applicata a situazioni di fatto o a rapporti giuridici sorti e conclusisi anteriormente alla sua entrata in vigore. Il principio di irretroattività, previsto dall'articolo 11 delle Preleggi, è ripreso dall'articolo 25 della Costituzione il quale lo codifica, meglio lo costituzionalizza, limitatamente all'ambito penale, disponendo, per assicurare un'esigenza di certezza ai comportamenti dei consociati, che "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". La previsione costituzionale del principio di irretroattività delle leggi, anziché definire, almeno in ambito penale, le problematiche sottese alla efficacia delle norme nel tempo apre delle problematiche ulteriori soprattutto quando viene letto in combinato con l'articolo 2 del codice penale. L'articolo 2 del codice penale statuisce che "nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile".
Quanto detto analiticamente vale per gli att. Per quanto riguarda le persone elette con norme abrogate perché ritenute incostituzionali?
Nel diritto la nullità è una delle massime sanzioni in quanto opera di diritto (ipso iure) cioè non è richiesto l'intervento del giudice: l'atto nullo è inefficace di diritto. Nel codice civile si ha un atto nullo quando manca di uno degli elementi essenziali o risulta in contrasto con norme imperative. Anche la nullità degli atti amministrativi è riconducibile a questa disciplina avendo però, ovviamente, elementi essenziali diversi e norme imperative differenti da rispettare. La conseguenza della nullità è la stessa: l’atto è come mai esistito. Le cause di nullità, quindi, sono:
- Casi previsti dalla legge, nel diritto amministrativo non basta il semplice contrasto con una norma ma occorre che tale norma preveda come conseguenza della sua inosservanza la nullità dell’atto. Ecco perché si parla più propriamente di casi previsti dalla legge.
- Inottemperanza alle sentenze, può essere considerato un sottoinsieme della categoria dei casi previsti dalla legge, in quanto una legge prevede che nel caso che un atto non si conformi ad un precedente giudicato sia nullo.
- Mancanza degli elementi essenziali, si cerca di applicare l’art. 1325 c.c. per individuare gli elementi degli atti amministrativi.
Partendo dal suddetto articolo la giurisprudenza ha individuato gli elementi essenziali degli atti amministrativi in:
- soggetto, è nullo l’atto il cui autore non sia identificabile;
- oggetto, è nullo l’atto avente un oggetto inesistente, indeterminato o indeterminabile, o inidoneo (espropriare un bene demaniale);
- forma, vige il principio di libertà della forma ma in alcuni casi si ritiene che sia essenziale una certa forma, perché richiesta da una disposizione espressa o dalla prassi. In tali casi il difetto di forma causa nullità dell’atto;
- contenuto, è nullo l’atto con contenuto indeterminato, indeterminabile, inidoneo o illecito (autorizzare ad uccidere, autorizzare un’attività non definita, ecc…);
- causa, si discute se sia elemento essenziale e quindi causa di nullità, o consista nell’interesse pubblico specifico che l’atto deve perseguire e in tal caso la sua violazione comporta illegittimità per eccesso di potere.
- Difetto assoluto di attribuzione (incompetenza assoluta), può essere considerato un sottoinsieme in quanto corrisponde alla mancanza di un elemento essenziale: il soggetto.
Si ha incompetenza assoluta quando l’atto emanato
era di competenza non-amministrativa oppure di altra amministrazione (Regione
che interviene in materie statali è incompetenza assoluta). La c.d. carenza di
potere, che non è prevista espressamente tra le cause di nullità, se ha quando
l’amministrazione adotta un atto senza che sussistessero i presupposti legali
che la autorizzassero ad emanarlo. Le conseguenze della nullità prevedono che
l’atto sia privo di efficacia giuridica in maniera retroattiva, cioè le
eventuali attività già svolte risultano prive di giustificazione.
Non è necessario che l’atto nullo sia eliminato, è sufficiente la sentenza
dichiarativa del giudice competente.
La nullità è assoluta (può essere chiesta da chiunque, anche d’ufficio) ed è
imprescrittibile.
Spiego meglio. Gli atti sono invalidi quando risultano difformi da ciò che la legge stabilisce. Possono essere: inesistenti (o nulli), o annullabili.
1. Inesistenza. È la mancanza di un elemento essenziale che comporta la totale nullità dell'atto. I principali casi sono:
a) inesistenza del soggetto; quando l'atto non può essere considerato espressione del pubblico potere poiché emanato da un soggetto non appartenente alla pubblica amministrazione;
b) incompetenza assoluta per territorio; quando l'atto è stato emanato da un organo della pubblica amministrazione ma al di fuori della sua sfera di competenza territoriale;
c) incompetenza assoluta per materia; è inesistente quello emanato da un organo della pubblica amministrazione in una materia che la legge attribuisce a un altro potere pubblico;
d) inesistenza dell'oggetto; è inesistente quando manca il destinatario o quando l'oggetto è indeterminato, indeterminabile o inidoneo: ad es., l'atto di matrimonio tra due persone dello stesso sesso;
e) inesistenza per mancanza di forma essenziale; si verifica quando la legge prevede che l'atto sia espresso in un certo modo (solitamente per iscritto) ed esso è emanato in modo diverso.
2. Annullabilità. L'atto amministrativo è annullabile quando, pur presentando tutti gli elementi essenziali previsti dall'ordinamento, è stato formato in modo diverso da quanto stabilito dalle norme sulla sua emanazione, ed è pertanto illegittimo; l'illegittimità deve riguardare uno dei suoi elementi essenziali. Mentre non esiste un testo normativo che indichi le cause di inesistenza dell'atto amministrativo, la legge rd 1024 26/6/1924 26 prevede espressamente i vizi di illegittimità che rendono l'atto annullabile: l'incompetenza relativa, l'eccesso di potere e la violazione di legge.
a) Incompetenza relativa. Mentre l'incompetenza assoluta si riscontra solo tra organi di diverse amministrazioni, e produce l'inesistenza dell'atto, quella relativa si verifica tra organi dello stesso settore di amministrazione e costituisce uno dei tre vizi di legittimità dell'atto che lo rendono annullabile. Essa si verifica nei seguenti casi:
- quando un organo gerarchicamente inferiore emana un atto di competenza di quello superiore;
- quando un organo esercita la potestà di un altro organo dello stesso settore di amministrazione;
- quando un organo emana un atto riservato all'ambito territoriale di un altro organo del medesimo ramo di amministrazione.
b) Eccesso di potere. Si riscontra nei casi in cui la pubblica amministrazione utilizza il potere di cui è dotata per conseguire uno scopo diverso da quello stabilito dalla legge, o quando il provvedimento appare illogico, irragionevole o privo di consequenzialità tra premesse e conclusioni. L'eccesso di potere è configurabile soltanto per gli atti discrezionali e mai per quelli vincolati.
c) Violazione di legge. Comprende tutte le cause di illegittimità non previste nei due punti precedenti: si verificano casi di violazione di legge quando, ad es., non sono rispettate le regole sul procedimento amministrativo, quando manca la forma prevista dalla legge, quando mancano i presupposti per l'emanazione dell'atto. L'atto illegittimo, fino a quando non viene annullato, è efficace e può essere eseguito. L'annullamento che ha efficacia retroattiva non si verifica di diritto ma dev'essere fatto valere dagli interessati ed essere pronunciato o con un provvedimento della pubblica amministrazione o con una sentenza del giudice amministrativo; in seguito a essi l'atto si considera come mai emanato e gli effetti eventualmente prodotti vengono annullati; anziché annullato può essere suscettibile di convalida o di sanatoria.
La inesistenza? L’ ultima parola, come sempre, alla giurisprudenza, scrive Sergio De Felice. Ancora una volta il diritto amministrativo mima e mutua le categorie giuridiche del provvedimento (in particolare, le sue invalidità) dal diritto civile e dal diritto romano, le madri di tutti i diritti. Si conferma l’assunto di quel grande autore secondo il quale il civile è il diritto, il penale è il fatto, l’amministrativo è il nulla, se non altro, perché esso deve rivolgersi alle altre branche del diritto per disciplinare le categorie patologiche (come dimostra il tentativo di costruzione negoziale del provvedimento).
E’ noto che la disciplina delle invalidità (in particolare della annullabilità, che richiede l’intervento del giudice) deriva dalla sovrapposizione, in diritto romano, dello jus civile e del diritto pretorio, e dalla integrazione, quindi, del diritto processuale con quello sostanziale. Quanto ai confini tra l’atto nullo e l’atto inesistente, ferma restando la chiara distinzione in teoria generale, tanto che l’una appartiene al mondo del giuridicamente rilevante, l’altra no, nella pratica, occorrerà vedere in quale categoria verranno comprese le fattispecie prima liquidate sotto la generale e onnicomprensiva “nullità-inesistenza” dell’atto amministrativo. Sotto tale aspetto, mentre non desteranno problemi pratici, i cosiddetti casi di scuola (atto emesso ioci o docendi causa, la violenza fisica), maggiori problemi, al limite tra nullità e inesistenza, creeranno altre fattispecie, come il caso dell’usurpatore di pubbliche funzioni (art. 347 c.p.), i casi più gravi di funzionario di fatto, i casi di imperfezione materiale (per non completamento della fattispecie), il difetto di sottoscrizione di un atto. Ancora una volta, sarà la giurisprudenza amministrativa a chiarire se residuano ipotesi di inesistenza, quali sono i requisiti essenziali dell’atto ai sensi dell’art. 21 septies e così via. Allo stesso modo, la giurisprudenza dovrà affrontare i nodi tra il rimedio della azione dichiarativa di nullità, il rapporto con la disapplicazione o inapplicazione, che considera l’atto tamquam non esset e non lo applica (e che perciò dovrebbe riguardare solo gli atti imperativi), ne prescinde, ma non lo espunge definitivamente dal sistema - mentre la nullità dichiara che l’atto è di diritto difforme dall’ordinamento. La giustizia amministrativa conferma ancora una volta, ed è chiamata a confermare, il suo ruolo di creatrice del diritto amministrativo. Essa è senz’altro giurisdizione (lo conferma la sentenza n.204/2004 della Corte Costituzionale); essa è amministrazione (judgér l’administration est administrer) quando compara interessi (nella fase cautelare) o quando entra in punto di contatto, annullando l’atto, o quando sostituisce un segmento di attività, nella giurisdizione di merito. Soprattutto, nella specie, la giurisprudenza si conferma il legislatore di fatto del diritto amministrativo, avendo, il legislatore nazionale ripreso dagli orientamenti consolidati in via giurisprudenziale le varie definizioni di invalidità, di nullità, conseguimento dello scopo, i casi di esecutorietà e così via. Resta la osservazione finale che sarà la giurisprudenza a completare (vel adiuvandi, vel supplendi, vel corrigendi) l’opera del legislatore del 2005. Venuta meno la fiducia nel mito della completezza della legge, è chiaro che il legislatore non è né completo, né perfetto (né, d’altronde, deve esserlo). Osservava la dottrina commercialistica a seguito della invenzione della categoria della inesistenza delle delibere assembleari (nata proprio per contrastare la rigida regola, voluta dal legislatore, della generale annullabilità a pena di decadenza, e la tassatività delle nullità delle delibere agli artt. 2377-2379 c.c.), che il legislatore non è onnipotente, ma è il giudice che adegua la norma al fatto, che trova il punto di equilibrio del sistema, unendo “ li mezzi alle regole e la teoria alla pratica”. La storia, e anche il futuro, della invalidità del provvedimento, ma in realtà tutto il diritto amministrativo, poggeranno ancora una volta, emulando una espressione della dottrina francese, sulle ginocchia del Consiglio di Stato.
Legge Elettorale: ITALIA allo sbando ! Il popolo non riconosce più l’autorità dello Stato ! Non sono un esperto di diritto Costituzionale ma, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale che ha stabilito l’illegittimità del Porcellum, immagino che qualsiasi semplice cittadino come il sottoscritto, si ponga numerosi interrogativi ai quali, almeno apparentemente, non risulta agevole trovare risposta, scrive Paolo Cardenà. Certo che, in prima istanza, una sentenza di questo genere stimolerebbe il dubbio se questa possa avere effetto retroattivo o meno. Perché, nel primo caso, si determinerebbero effetti sconvolgenti di difficile immaginazione. Ciò deriverebbe dal fatto che, a rigor di logica, essendo incostituzionale una legge elettorale, sarebbero illegittimi anche tutti gli effetti prodotti in virtù di una norma incostituzionale. Quindi, già da otto anni, i parlamentari eletti con questa legge avrebbero occupato una posizione in maniera illegittima, poiché in contrasto con lo spirito costituzionale e quindi con quanto affermato dalla Consulta. Ne deriverebbe che sarebbero illegittimi anche tutti gli atti normativi (e non solo) prodotti in questo periodo. Di conseguenza tutte le leggi varate e tutti gli atti compiuti dal Parlamento sarebbero affetti dal vizio di illegittimità.
Pensate: secondo questa logica sarebbe illegittima anche la semplice fiducia votata ai vari governi che si sono succeduti in questo periodo, che sarebbero essi stessi illegittimi, quindi naturalmente non abilitati a formare o porre in essere alcuna azione di governo: decreti compresi. Sarebbero illegittime leggi, modifiche costituzionali (Fiscal Compact compreso), nomine dei vari organi dello Stato di competenza del Parlamento, o la nomina stessa del Capo dello Stato e quant’altro prodotto da organi che, in tutto questo tempo, hanno operato per effetto di attribuzioni derivanti da atti parlamentari formati da un parlamento illegittimo, quindi fuori dal perimetro costituzionale. Pensate ancora agli effetti economici e sociali prodotti in tutto questo periodo. Tutto sarebbe affetto dal vizio di legittimità. Quanto affermato trova fondamento giuridico nel fatto che si suole farsi discendere detta efficacia retroattiva dal fatto che la norma caducata è viziata da nullità e quindi non può produrre ab origine alcun effetto giuridico. Tuttavia autorevoli commentatori e costituzionalisti avvertono come un’applicazione così radicale e generalizzata di tale principio possa determinare gravi inconvenienti. Potrebbero invero prodursi effetti profondamente sconvolgenti sul piano sociale, ovvero oneri economici insopportabili, rispetto a situazioni da molto tempo cristallizzate. In fattispecie del genere si afferma che la pronuncia costituzionale, nel suo concreto risultato, non aderirebbe affatto alla propria funzione, in quanto darebbe luogo ad un grave turbamento della convivenza. Facendo una semplice ricerca in rete, ci si accorgerebbe che quanto appena affermato trova sostegno in numerose sentenze della Cassazione, della Corte Costituzionale, del Consiglio di Stato e dei Tribunali di merito che sono stati chiamati dirimere la problematica relativa a rapporti costituitisi in base ad una norma dichiarata successivamente incostituzionale.
Ve ne riporto alcune:
“Mentre l’efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale è giustificata dalla stessa eliminazione della norma che non può più regolare alcun rapporto giuridico salvo che si siano determinate situazioni giuridiche ormai esaurite, in ipotesi di successione di legge – dal momento che la norma anteriore è pienamente valida ed efficace fino al momento in cui non è sostituita – la nuova legge non può che regolare i rapporti futuri e non anche quelli pregressi, per i quali vale il principio che la disciplina applicabile è quella vigente al momento in cui si p realizzata la situazione giuridica o il fatto generatore del diritto. (Cass. civile, sez. 28 maggio 1979, n. 311 in giustizia civile mass 1979 fasc. 5)”.
“L’efficacia retroattiva della sentenza dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di norma di legge non si estende ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che, sorti precedentemente alla pronuncia della Corte Costituzionale, abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate ed intangibili in virtù del passaggio in giudicato di decisioni giudiziali, della definitività di provvedimenti amministrativi non più impugnabili, del completo esaurimento degli effetti di atti negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o decadenza, ovvero del compimento di altri atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale. (Trib. Roma 14 febbraio 1995)”.
“Le pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale hanno effetto retroattivo, inficiando fin dall’origine la validità e l’efficacia della norma dichiarata contraria alla Costituzione, salvo il limite delle situazioni giuridiche “consolidate” per effetto di eventi che l’ordinamento giuridico riconosce idonei a produrre tale effetto, quali le sentenze passate in giudica, l’atto amministrativo non più impugnabile, la prescrizione e la decadenza. (Cass. civ. sez. III 28 luglio 1997 n. 7057).”
“La retroattività delle sentenze interpretative additive, pronunciate dalla Corte costituzionale, trova il suo naturale limite nella intangibilità delle situazioni e dei rapporti giuridici ormai esauriti in epoca precedente alla decisione della Corte ( Fattispecie nella quale il provvedimento di esclusione dai corsi speciali I.S.E.F. è stato impugnato in sede giurisdizionale e in quella sede è stato riconosciuto legittimo con sentenza passata in giudicato, con conseguente intangibilità del relativo rapporto) (Con. giust. amm. Sicilia 24 settembre 1993, n. 319).”
“Sebbene la legge non penale possa avere efficacia retroattiva, tale retroattività, specialmente nel settore della c.d. interpretazione legislativa autentica, incontra limiti nelle singole disposizioni costituzionali e nei fondamentali principi dell’ordinamento, tra i quali va annoverata l’intangibilità del giudicato, nella specie giudicato amministrativo, in quanto il suo contenuto precettivo costituisce un modo di essere non più mutabile della realtà giuridica; pertanto, l’amministrazione non può più esimersi ancorché sia intervenuta una nuova legge (nella specie, la l. 23 dicembre 1992 n. 498 art. 13) dall’ottemperare al giudicato, dovendosi anzi ritenere, onde il legislatore, adottando la norma d’interpretazione autentica, abbia comunque inteso escludere dalla sua applicazione le situazioni coperte dal giudicato. (Consiglio di Stato a. plen., 21 febbraio 1994, n. 4).”
“Il principio secondo il quale l’efficacia retroattiva delle pronunce della Corte Costituzionale recanti dichiarazione de illegittimità costituzionale incontra il limite della irrevocabilità degli effetti prodotti dalla norma invalidata nell’ambito dei rapporti esauriti, è applicabile alle sentenze così dette additive. (Consiglio di Stato sez. VI, 20 novembre 1995).
Quindi, tutto il ragionamento proposto, di fatto, a quanto sembra, risolve la questione degli effetti retroattivi della pronuncia della Corte Costituzionale. Ma se da una parte risulta risolta la questione della retroattività della pronuncia, non altrettanto può dirsi riguardo al da farsi, stante un quadro reso ancor più complesso dalla fragile condizione dell’Italia e dalla necessità di approvare la Legge di Stabilità al vaglio delle aule parlamentari. Infatti, sia la citata giurisprudenza che la stessa dottrina, sembrerebbero convergere sul fatto che siffatta pronuncia della Corte, dovrebbe produrre effetti sui rapporti futuri, quindi, a parer di chi scrive, su tutti gli atti e i fatti che dovrebbe compiere il parlamento in carica, dalla data di effetto della pronuncia della Corte. Tuttavia, secondo quanto si legge nella stampa nazionale sembrerebbe che la consulta abbia lasciato qualche margine di manovra al Parlamento. Secondo quanto riportato da Il Messaggero, l’efficacia delle novità decise dalla Corte si avrà dal momento in cui le motivazioni della sentenza saranno pubblicate e questo avverrà nelle prossime settimane. Un’indicazione offerta esplicitamente dalla Corte, il che indica che la Consulta ha in qualche modo voluto mettere in mora il Parlamento, affinchè si affretti a legiferare o a sanare i punti illegittimi dell’attuale legge. Resta fermo che le Camere possono approvare una nuova legge elettorale “secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali” sottolinea la Consulta. La corte ha respinto tutti e due i punti sottoposti al giudizio di costituzionalità: premio di maggioranza e preferenze. In ogni caso “L’efficacia della sentenza della Corte Costituzionale sulla legge elettorale decorrerà dal momento in cui le motivazioni saranno pubblicate». Le motivazioni della sentenza, informa una nota di Palazzo della Consulta, saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Da ciò, a parere di chi scrive, se ne deriverebbe che il Parlamento, dalla data di deposito delle motivazioni, decadrebbe dalla possibilità di legiferare in ogni materia, salvo la riforma della legge elettorale che superi la carenza di legittimità del Porcellum. Ma per un quadro di riflessione più ampio e concreto, bisognerà comunque attendere il deposito delle motivazioni. Il Parlamento è (dovrebbe essere) il tempio più elevato della democrazia popolare. Ancorché la giurisprudenza sani l’illegittimità degli atti consolidati, rimane comunque il fatto che questo Parlamento risulta illegittimo da un punto di vista sostanziale e morale rispetto ai principi di democrazia sanciti dalla Costituzione, e naturalmente appartenenti ad uno stato di diritto. Napolitano, anch’esso eletto in maniera illegittima, dopo gli strappi alla democrazia perpetrati in questi anni, dovrebbe rimuovere tutti gli elementi che compromettono l’esercizio libero della democrazia e quindi, dal momento di efficacia della sentenza, limitare l’azione del Parlamento alla sola riforma della legge elettorale da concludersi in tempi strettissimi. Dopodiché, sciogliere le camere e portare a nuove elezioni ristabilendo la democrazia di questo Paese. In mancanza di questo, il rischio è proprio quello che la popolazione non riconosca più l’autorità dello Stato, con tutte le imprevedibili e nefaste conseguenze che ne deriverebbero, che troverebbero terreno fertile in animi esasperati da anni di crisi e in questa classe politica.
Il Parlamento abusivo rischia l'arresto.
Dopo la bocciatura del Porcellum, associazioni e
sindacati pronti a bloccare le prossime leggi. Pioggia di ricorsi in arrivo,
scrive Antonio Signorini su “Il Giornale”. Illegittimo il sistema elettorale
che ha portato quasi mille parlamentari a Roma. Illegittime le leggi che hanno
approvato o che, più verosimilmente, approveranno in seguito. Il sospetto è al
momento quasi solo un argomento da accademia, materia per i giuristi. Ma il tema
c'è e su questo ragionamento stanno rizzando le antenne, avvocati, associazioni,
sindacati e, più in generale, tutti quelli che hanno qualche conto aperto con la
legge di Stabilità o con altri provvedimenti approvati o all'esame del
Parlamento. Per tutti questi soggetti, la decisione della Corte costituzionale
che ha dichiarato illegittimo il sistema elettorale, può diventare un argomento
da spendere in tribunale. Ad accennarlo per prima è stato il presidente emerito
della Corte costituzionale Pietro Alberto Capotosti. «In teoria - ha detto in
un'intervista a Qn - dovremmo annullare le elezioni due volte del presidente
della Repubblica, la fiducia data ai vari governi dal 2005, e tutte le leggi che
ha fatto un Parlamento illegittimo. Sennonché il passato si salva applicando i
principi sulle situazioni giuridiche esaurite».
Il futuro no, quindi. E se la questione venisse posta, spiega un avvocato, non
sarebbe respinta. Tra i provvedimenti che il Parlamento eletto con la legge
incostituzionale dovrà approvare c'è appunto la «finanziaria» del governo Letta.
I consumatori già affilano le armi. Il presidente di Adusbef Elio Lannutti
individua i temi sui quali dal suo punto di vista varrebbe la pena giocare la
carta della illegittimità. «Staremo a vedere, ma nella legge ci sono dei
provvedimenti che vanno a favore delle banche come la rivalutazione delle quote
Bankitalia. Una truffa. Poi ci sono 19,4 miliardi di euro per le banche e la
questione della Cassa depositi e prestiti, ormai diventata peggio dell'Iri».
«Se il Parlamento non fosse abilitato a fare le leggi ci troveremmo di fronte a
una situazione allucinante», aggiunge Rosario Trefiletti, presidente di
Federconsumatori. «Io ho sostenuto la nascita del governo delle larghe intese,
ma se la prospettiva è che ogni legge votata dalle Camere finisca al Tar, a
questo punto sarebbe meglio andare a elezioni».
Tutto dipende da cosa scriverà la Consulta nelle motivazioni. Ed è possibile che
alla fine i giudici costituzionali cerchino di salvare gli atti prodotti durante
la legislatura. «La Corte - spiega il presidente del Codacons Carlo Rienzi -
regola l'efficacia delle sentenze e dirà che l'efficacia vale dalla prossima
legislatura». Il nodo è politico, spiega Rienzi. La legge elettorale è
illegittima, i parlamentari dovrebbero approvarne una nuova. «Ma siccome nessuno
vuole farlo, alla fine si realizzerà quello che volevano Letta e Alfano». Cioè
che arrivare a fine legislatura con questo Parlamento e questa legge. Se
succederà una cosa è certa: gli avvocati dello Stato avranno molto lavoro.
Perché la sentenza è piombata in un momento che ad alcuni sarà sembrato
politicamente perfetto (per fare durare il governo e il mandato parlamentare),
ma pessimo per la politica economica. In piena sessione di bilancio, con diversi
capitoli della legge sui quali sono stati annunciati ricorsi. Ad esempio sul
capitolo pubblico impiego con gli insegnanti delle sigle autonome (dalla Gilda
allo Snals-Confsal all'Anief) sul piede di guerra per il blocco degli stipendi.
Poi le mancate rivalutazioni delle pensioni. Per non parlare del capitolo casa.
Tutti temi sui quali sarà chiamato a pronunciarsi un Parlamento - secondo la
Consulta - eletto con una legge illegittima.
Avete presente le nane bianche? La morte delle stelle che lascia nel cielo un lucore che a noi sembra una stella viva ed è invece la traccia di un astro “imploso” secoli fa? Bene, l’Italia è quest’illusione ottica, questo effetto visivo che è solo una truffa, scrive Marco Ventura su “Panorama”. È questa l’impressione che ho, l’associazione d’idee con la decisione della Corte Costituzionale sulla incostituzionalità del Porcellum. La legge elettorale con la quale siamo andati a votare nelle politiche degli ultimi otto-nove anni era fasulla, illegittima, contraria alla Costituzione. Bisognerebbe riavvolgere la pellicola a rifare tutto da capo. Barrare con un rigo le liste di eletti, la composizione dei Parlamenti, e poi le fiducie date ai governi. Uno, due, tre, quattro esecutivi. E tutto ciò che consegue dalla ripartizione dei seggi a Montecitorio e a Palazzo Madama. Comprese le nomine pubbliche e la composizione della Consulta che ha sancito l’illegittimità del Porcellum. Tutto per l’ennesima sentenza tardiva, per i tempi di una giustizia che non riesce a restaurare la legittimità perché non può modificare a ritroso gli effetti delle situazioni che riconosce, fuori tempo massimo, contro la legge. Contro la Carta fondamentale. È un po’ come le decisioni della Sacra Rota. Matrimonio nullo. È stato uno sbaglio.
Ma il problema non riguarda soltanto il Porcellum. È di pochi giorni fa la notizia che il procuratore del Lazio della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis, ha sollevato questione di legittimità davanti alla Consulta sul finanziamento pubblico dei partiti. “Tutte le disposizioni a partire dal 1997 e via via riprodotte nel 1999, nel 2002, nel 2006 e per ultimo nel 2012” hanno, scrive, “ripristinato i privilegi abrogati col referendum del 1993” grazie ad “artifici semantici, come il rimborso al posto del contributo; gli sgravi fiscali al posto di autentici donativi; così alimentando la sfiducia del cittadino e l’ondata disgregante dell’anti-politica”. Se la Consulta (tra quanti mesi o anni?) darà ragione alla Corte dei Conti, i partiti dovranno restituire quello che hanno continuato a intascare in tutti questi anni? Voi ci credete che succederà? Io no. E che dire delle eccezioni di costituzionalità che neppure arrivano alla Consulta, ma che si trascinano in un silenzio assordante finché qualcuno, sull’onda di qualche rivoluzione cultural-politica, solleverà il problema? Mi riferisco alla responsabilità civile dei magistrati, per la quale siamo stati condannati dall’Europa. E che è uno scandalo per un Paese che pretende di appartenere al novero delle culture giuridiche civili e liberali. Nel Paese nel quale il cavillo è elevato al rango di Discrimine Massimo, nella patria dei legulei e degli avvocati, nel paradiso della casta giudiziaria, il cittadino è senza difese, privo di tutele, schiavo dei tempi della giustizia che dalla piccola aula di tribunale fino alle sale affrescate della Consulta dispensa sentenze intempestive e controverse, contaminate dai tempi della politica. Col risultato che nella patria delle toghe che esercitano un potere superiore anche a quello del popolo e dei suoi rappresentanti, non c’è pace né giustizia, e le regole in vigore oggi domani potrebbero rivelarsi una truffa tra dieci anni. Sempre ai nostri danni. Chi mai ci risarcirà del Porcellum? Chi mai ci risarcirà della lentezza della giustizia e dell’irresponsabilità dei magistrati? Chi mai ci risarcirà dei soldi pubblici destinati a chi non ne aveva diritto?
Filippo Facci: La Casta? Siete solo dei pezzenti. Siete dei pezzenti, avete lasciato tutto in mano ai giudici e siete ancora lì a fare calcoli, a preventivare poltrone. I giudici arrestano o no, sequestrano conti, fermano cantieri, giudicano se stessi e cioè altri giudici, non pagano per i propri errori, decidono se questo articolo sia diffamatorio, se una conversazione debba finire sui giornali, se una cura sia regolare o no, se un bambino possa vedere il padre, se un Englaro possa terminare la figlia, se uno Welby possa terminare se stesso, i giudici fanno cose buone e colmano il ritardo culturale e legislativo che voi avete creato in vent’anni, ma i giudici fanno anche un sacco di porcate, e sono in grado di svuotare e piegare ogni leggina che voi gli offriate su un piatto d’argento. Ma siete voi pezzenti che glielo avete lasciato fare. Siete voi che avete lasciato sguarniti gli spazi dei quali loro - o l’Europa - non hanno potuto non occuparsi. E non è che captare il ritardo culturale e legislativo fosse impresa da rabdomanti: della necessità di cambiare il Porcellum lo sapevano tutti, anche i cani, il Porcellum lo odiano tutti, da anni, e voi esistereste solo per questo, per cambiarlo, siete in Parlamento espressamente per questo, e proprio per questo sareste stati eletti: se non fosse che non siete neanche degli eletti. Ma lo abbiamo già detto, che cosa siete. E, ormai, c’è una sola cosa che rende ingiustificata l’antipolitica: che non c’è più la politica. Ci siete voi.
Parlamento dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, anch’essa illegittima perché nominata dal Parlamento e dal Capo dello Stato, anch’esso nominato dal Parlamento Gli effetti sono che la sentenza di incostituzionalità del Parlamento è anch’essa illegittima, perché nominata proprio da un Organo abusivo.
Magari fosse incostituzionale solo il Parlamento, qui siamo tutti incostituzionali, compreso il Capo dello Stato (perchè eletto da un Parlamento illegittimo), e per lo stesso motivo tutte le leggi votate da organismi legislativi illegittimi, e la stessa Corte Costituzionale a rotazione. Paradossalmente, se la corte costituzionale è illegittima, la stessa sentenza di i incostituzionalità è illegittima: paradossale ma assolutamente vero. Mi pare uno dei paradossi filosofici, siamo senza organi istituzionali legittimi e quindi indirettamente nelle mani di chiunque abbia potere effettivo, visto che il potere formale non c'è più.
Elementare…….Watson! Il modo di dire più tipico attribuito ad Holmes è la frase "Elementare, Watson!" ("Elementary, my dear Watson!"), quando egli spiega, con una certa sufficienza, all'amico medico la soluzione di un caso.
Il governo dei giudici? Si chiede Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Dal Porcellum all'Ilva, da Stamina alle province e altro ancora. Ormai la magistratura ha preso il posto del Parlamento. Quando fu coniata, l'espressione descriveva l'atteggiamento delle toghe conservatrici della Corte Suprema degli Stati Uniti che per lungo tempo si opposero alle riforme di Roosvelt e del Congresso, ergendosi a impropria opposizione politica. A distanza di decenni, in Italia, la magistratura ha fatto passi da gigante e si è seduta direttamente sui banchi del governo. Parliamo in senso figurato, per carità, epperò l'immagine rispecchia fedelmente la fotografia degli ultimi anni della vita politica italiana. Complice, per non dire colpevole, un Parlamento inetto, incapace di legiferare di suo pugno (chi ricorda a quando risale l'ultima legge propugnata dal Transatlantico?) e svuotato da ogni funzione di rappresentanza, la magistratura – ora contabile ora amministrativa ora ordinaria – ha spesso dettato l'agenda politica, interpretato norme non scritte o financo imposto decisioni non suffragate da legittimità popolare e rappresentativa. L'ultima decisione della Consulta in materia di legge elettorale – arrivata peraltro dopo otto anni di vacatio decisionis – è solo la punta dell'iceberg. Basti citare il caso dell'Ilva di Taranto, dove i giudici hanno pure ammesso di aver preso il posto delle istituzioni. Emblematiche le dichiarazioni dell'Anm: “La vicenda dell’Ilva è un chiaro esempio del fallimento di altri poteri dello Stato, delle altre autorità che dovevano prevenire questa situazione. Non è che la magistratura si diverta a fare supplenza: è costretta a intervenire di fronte a certe ipotesi di reato con gli strumenti propri del codice". E che dire del taglio alle superpensioni? Bocciato dalla Corte Costituzionale, che ha salvato la casta dei pensionati ricchi, di quelli cioè che incassano pensioni da 90mila euro lordi l'anno (e tra questi ci sono anche i magistrati, guarda caso). Nessun taglio: si sarebbe trattato di un provvedimento discriminatorio perché toccava i redditi dei soli pensionati e non di tutti i lavoratori. Amen. Lo stesso dicasi per la Legge 40, approvata dal Legislatore e dalla volontà popolare. Stessa fine per spesometro e redditometro, cassati e corretti dalla Corte dei Conti, la stessa che si è opposta all'abolizione delle province (motivando la decisione con “basse possibilità di risparmio per gli enti e paventando il rischio di confusione amministrativa nel periodo transitorio”). Ha suscitato critiche anche la decisione sul metodo Stamina presa dal Tar del Lazio, accusato di essersi sostituito ai medici e al governo e di non aver preso in considerazione i pareri del comitato scientifico e di alcuni premi Nobel. Poi c'è la magistratura ordinaria che a volte è passata alle cronache per le diverse interpretazioni date a una legge. Solo per fare un esempio: a Genova un giudice ha pensato bene di non applicare la legge Bossi-Fini nei confronti di un immigrato. Motivazione? Contrasta – a suo dire - con una norma europea. E ancora: dall'affidamento di minori a coppie omosessuali, alle tematiche sul lavoro, passando per i temi etici e altro ancora, la magistratura è sempre lì, pronta a colmare il vuoto o il ritardo della politica, o ancora di più pronta a sostituirsi ad essa. Con buona pace della sovranità popolare.
«Abusivi». Li chiama proprio così, l’avvocato Gianluigi Pellegrino intervistato da Tommaso Montesano su “Libero Quotidiano”, i 148 deputati eletti a Montecitorio grazie al premio di maggioranza del Porcellum, dichiarato incostituzionale. Un premio contro cui lui, prima ancora della pronuncia della Corte costituzionale, già a marzo 2013 aveva presentato ricorso alla Giunta delle elezioni della Camera. Non ci sarebbe niente di particolare se Gianluigi Pellegrino, figlio del noto avvocato e politico leccese, Giovanni Pellegrino, più volte in Parlamento, non fosse che è il legale di fiducia del Partito Democratico. Gianluigi Pellegrino, come il padre, amministrativista di fama nazionale, è attivissimo nel campo del centrosinistra per aver condotto nelle aule giudiziarie battaglie sulla legge elettorale, sui quesiti referendari, perché si andasse a elezioni anticipate per il consiglio regionale. Fu lui, per esempio, a investire il Tar del Lazio per spingere l’ex presidente della Regione Lazio a rassegnare finalmente le dimissioni (gesto al quale era legata la tempistica per l’indizione del voto del 2013). E’ certo, però, che la famiglia Pellegrino non ha remore a lavorare con i fascisti. La prova è lì, sul cornicione all’ingresso: anno XII dell’Era Fascista. Era il 1934 e Benito Mussolini era in città a inaugurare questo sanatorio, lavori diretti dall’ingegnere Oronzo Pellegrino, padre del senatore Giovanni. Si parla a Lecce dell’ex ospedale Galateo. È questo l’ospedale che venne utilizzato per la cura della tubercolosi prima, per quella del cancro al polmone poi.
Adesso il giurista incalza: «La mancata convalida delle 148 elezioni è doverosa. Ho presentato in tal senso una memoria in Giunta».
Non sarebbe meglio attendere il deposito delle motivazioni della sentenza da parte della Corte?
«Ci sono già alcuni punti fermi che sono più che sufficienti».
Quali, avvocato?
«La Corte ha emesso una sentenza in parte additiva, cambiando il contenuto delle norme laddove ha previsto l’incostituzionalità del voto ai listoni bloccati senza la possibilità di esprimere almeno una preferenza. Una disposizione solo per il futuro».
E l’altra parte della sentenza, quella sul premio di maggioranza?
«Una pronuncia di tipo classico. Con la quale la Corte ha ritenuto illegittimi i commi da due a cinque dell’articolo 82 del testo unico sull’elezione della Camera così come modificato dal Porcellum. Quei commi sono stati cassati».
E questo che incidenza ha sul Parlamento attuale?
«Nel momento in cui la Giunta delle elezioni affronterà la convalida degli eletti, la procedura dovrà essere compiuta senza applicare i commi che sono stati eliminati dalla Corte».
Ma cosa succede se a Montecitorio, fiutato il pericolo, procedono alle convalide prima che la sentenza produca i suoi effetti?
«Sarebbe un atto indecoroso ed eversivo dinanzi al quale mi aspetterei l’intervento del presidente della Repubblica. E comunque non ci sarebbe il tempo. Devono ancora essere convalidate le elezioni di tutti i deputati. L’articolo 17 del regolamento della Camera stabilisce che alla convalida degli eletti provveda in via definitiva, alla fine di tutti i conteggi e dopo la proposta della Giunta, l’Aula».
Perché la convalida a tempo di record sarebbe un atto eversivo?
«Già a marzo ho impugnato l’elezione dei deputati promossi grazie al premio. E ora il premio è ufficialmente incostituzionale. Rigettare il ricorso ora è impossibile se non con un atto eversivo».
Come deve avvenire l’espulsione degli abusivi?
«Con lo stesso iter adottato per Silvio Berlusconi. La Giunta delle elezioni deve proporre all’Aula della Camera, e la Camera votare, la mancata convalida dei 148 deputati».
Al loro posto chi dovrebbe subentrare?
«Quei seggi andrebbero ripartiti in base ai voti ottenuti. La gran parte andrebbe a Forza Italia, poi, a cascata, al M5S, Scelta civica e così via. Una piccola parte andrebbe anche al Pd».
Un terremoto che avrebbe effetti sui numeri della maggioranza che sostiene il governo.
«Non è importante e non si tratta di una motivazione giuridica. Il rischio è un altro».
Che pericoli vede all’orizzonte?
«Si scatenerà una pressione sulla Corte costituzionale perché i giudici, in sede di stesura delle motivazioni della sentenza, dicano qualche parola in più a favore della salvezza dei deputati sub judice».
Quanto è alto il rischio che ci sia una valanga di ricorsi da parte dei possibili subentranti qualora il Parlamento non procedesse sulla strada delle mancate convalide?
«Premesso che sarebbe un imbroglio, so già che molti di loro si stanno muovendo. E potranno anche chiedere i danni puntando ad ottenere, oltre alla proclamazione, le rispettive indennità per i cinque anni di legislatura. Un ulteriore danno per le casse dello Stato».
LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
L’opinione di un saggista, Antonio Giangrande, che sul tema qualcosa ne sa.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?
Detto questo, quanto si risparmierebbe per le casse dello Stato a far cessare la farsa degli annuali esami di avvocato?
Gli emolumenti per migliaia di Commissari d’esame diversificati per gli esami scritti ed orali. Gli oneri per gli impiegati dello Stato. Le spese della transumanza dei compiti. Le spese di vitto, alloggio e trasferte per i candidati. Spese astronomiche per codici spesso inutili. Problemi psicologici non indifferenti per i candidati. Non sarebbe meglio, almeno una volta far decidere chi non ha interesse in conflitto e si estinguesse questa inutile prova che serve solo a far pavoneggiare chi non ha merito? I bravi, se sono bravi, si vedono sul campo. L’avvocato è tale solo se ha lo studio pieno di gente. Chi ha studiato tanti anni, che faccia un periodo di tirocinio con cause limitate, e poi sia valutato dal mercato, anziché farsi giudicare dai primi di questo mondo.
SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
Di seguito un comunicato dei Giuristi Democratici che entra nel merito delle modifiche che il governo Letta ha imposto col voto di fiducia sulla legge di stabilità. “Non se ne è parlato molto, ma nella nuova legge di stabilità sono state introdotte, e già approvate al Senato, alcune importanti variazioni economiche anche in materia di giustizia: innanzitutto la riduzione di un 30% dei compensi per i difensori (ma anche per i consulenti tecnici, gli ausiliari e gli investigatori autorizzati) dei soggetti ammessi al cosiddetto “gratuito patrocinio”. Le spettanze che possono essere liquidate per la difesa dei soggetti non abbienti, già ridotte perchè calcolate in base ai valori medi e decurtate del 50% subiscono così un'ulteriore drastica riduzione. Gli effetti sono facilmente prevedibili: sempre meno avvocati, consulenti, investigatori privati si renderanno disponibili a difendere chi si trova nelle condizioni per accedere al patrocinio a spese dello stato; si parla di persone che possono vantare il non invidiabile primato di percepire un reddito lordo di poco più di 10.000 euro di reddito l'anno. Sempre meno difesa per chi non può, sempre meno garanzie, sempre meno diritti. Verso il basso, ovviamente. Dal punto di vista dell'avvocatura, ovviamente, questa ulteriore riduzione dei compensi (che vengono materialmente erogati, lo ricordiamo per i profani, dopo qualche anno dalla conclusione dei procedimenti) rende la remunerazione di questa attività difensiva inferiore ad ogni limite dignitoso. Se lo Stato per difendere un poveraccio ti paga meno di un quarto di una parcella media quanti saranno i professionisti seri ad accettare la mancetta posticipata di alcuni anni dal lavoro svolto ? Altro che dignità della professione forense, altro che diritto alla difesa, altro che importanza del ruolo professionale... Aumentano poi i costi di notifica e, last but not least, viene chiarito che, in caso di ricorsi con i quali vengono impugnati più atti, il contributo unificato va conteggiato in relazione ad ogni singolo atto impugnato, anche in grado d'appello. Si tratta, tipicamente, dei ricorsi in materia amministrativa, in cui è ordinario impugnare l'atto principale unitamente ai presupposti. Quando si pensa che il contributo unificato, in queste materie, è normalmente di 600 euro, ben si comprende che la giustizia amministrativa diventa veramente un lusso per pochi. Come Giuristi Democratici riteniamo intollerabile questo continuo attacco alla giustizia sostanziale operata sempre verso il basso, a scapito dei soggetti più deboli che incappano nel sistema giustizia o che al sistema giustizia non possono accedere. Pensiamo cosa significa l'applicazione di questi tagli in danno delle migliaia di detenuti prodotto delle leggi criminogene di cui la legislazione ha fatto autentico abuso in questi anni, in materia di stupefacenti, in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri, in materia di recidiva. Pensiamo cosa significano questi aumenti per le centinaia di comitati di cittadini che si muovono contro grandi e piccole opere devastanti nei territori. Non possiamo quindi che esprimere una profonda e ragionata avversità alle misure economiche che il governo vuol mettere in campo nel settore giustizia e chiedere la cassazione senza rinvio di queste disposizioni, che rappresentano un vero e proprio attentato al diritto di giustizia dei cittadini meno abbienti.”
MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.
I deputati del Movimento 5 Stelle hanno usato espressioni altrettanto forti contro lo strapotere delle lobby in Parlamento. Scandaloso - hanno ribadito ancora in aula durante il voto per la legge di Stabilità del Governo Letta - che il Partito democratico si faccia comandare a bacchetta non dal segretario o dal premier bensì da abili lobbisti che hanno facile accesso alle stanze che contano. Nel ruolo del censore c'è questa volta Girgis Giorgio Sorial, il giovane deputato grillino che nel corso del dibattito in Aula ha usato più volte toni e parole tutt'altro che diplomatiche all'indirizzo del partito del premier. «Questo governo - ha aggiunto - è fallimentare e fallito perché permette agli squali di mettere mano ai conti dello Stato. Mentre lavoravamo in commissione c'erano in giro lobbisti di ogni genere. Mercanteggiavano e barattavano la sicurezza degli incarichi con la garanzia che i propri privilegi e interessi non sarebbero stati toccati». Sorial ha quindi ricordato il nome del relatore Maino Marchi (Pd), non casuale, a suo giudizio, «per una legge che deve essere chiamata marchetta». Sorial si è spinto oltre e ha rivelato il nome del presunto lobbista che avrebbe avuto l'impudenza di vantarsi al telefono, proprio nell'anticamera della commissione Bilancio, di aver «fatto bloccare l'emendamento che prevedeva il taglio delle pensioni d'oro». In Aula la protesta dei grillini non ha risparmiato nemmeno la faccia di Luigi Tivelli, ex funzionario della Camera e, secondo i parlamentari del Movimento 5 Stelle, lobbista di area Pd. Mentre Sorial stigmatizzava il dilagare dell'attività lobbista dentro le istituzioni, i suoi colleghi mostravano volantini con sopra la faccia dell'«indagato». Raggiunto al telefono dalle agenzie di stampa il diretto interessato ha smentito la sua «funzione», giustificando la sua presenza alla Camera per ricerche documentali per un libro. «Quelle parole al telefono? Con i miei amici siamo soliti usare ironia e iperboli, figure retoriche che i grillini non conoscono».
Proprio come uno stipendio. Con regolarità. Mensilmente, racconta Pier Francesco Borgia su “Il Giornale. Ad alcuni senatori e deputati arriverebbero ogni mese finanziamenti da parte di alcune multinazionali che farebbero attività di lobby sfruttando soprattutto l'ingordigia dei nostri rappresentanti politici. Questo almeno il senso dell'accusa lanciata dalla puntata delle Iene andata in onda su Italia Uno il 19 maggio 2013. Nel servizio si vede un assistente parlamentare ripreso di spalle che con la voce alterata racconta il sistema utilizzato da alcune multinazionali per far passare emendamenti «favorevoli». Il meccanismo, racconta la gola profonda, è semplice. «Ci sono multinazionali che hanno a libro paga alcuni senatori». Come funziona il meccanismo? «Semplice - spiega il portaborse - un emissario della società viene da noi a Palazzo Madama e ci consegna i soldi per i parlamentari per cui lavoriamo». Le cifre? Si tratterebbe di operazioni che prevedono addirittura una sorta di tariffario: «Per quel che mi riguarda - spiega l'intervistato - conosco due multinazionali, una del settore dei tabacchi e un'altra nel settore dei videogiochi e delle slot machine ed entrambe elargiscono dai mille ai duemila euro ogni mese». La tariffa, inoltre, cambia «a seconda dell'importanza del senatore e quindi, se è molto influente, sale fino a 5mila euro». Lo scopo è facile da intuire. Questi parlamentari si devono impegnare a far passare emendamenti favorevoli su leggi che interessano le stesse aziende. Per fare un esempio preciso, l'anonimo portaborse cita le sale Bingo per le quali «si sono formati due gruppi, partecipati sia da uomini del centro sinistra che da uomini del centro destra. I due gruppi fanno capo ad ex ministri del centro sinistra». Inutile precisare che questo tipo di attività di lobby non è corretta e, anzi, viola non solo codici morali ma anche le leggi scritte, nonché i patti con gli elettori. Immediata la reazione di Pietro Grasso, presidente dell'aula del Senato. «Dal servizio delle Iene - si legge in una nota di Palazzo Madama - emerge la denuncia di un comportamento che, se provato, sarebbe gravissimo. Purtroppo la natura di denuncia, anonima nella fonte e nei destinatari, rende difficile procedere all'accertamento della verità. Spero quindi che gli autori del servizio e il cittadino informato di fatti così gravi provvedano senza indugio a fare una regolare denuncia alla Procura, in modo da poter accertare natura e gravità dei fatti contestati». Il servizio delle Iene non si limita a questa grave denuncia. La trasmissione mostra, poi, il diffuso malcostume, da parte dei parlamentari, di rimborsare in nero i loro assistenti. Molti «portaborse» prenderebbero, a quanto riferiscono Le iene, 800 euro in nero al mese pur disponendo del regolare tesserino per entrare a Palazzo Madama. La confessione di questo sfruttamento e questo malcostume arriva ovviamente in forma anonima: «Il 70% dei colleghi si trova nelle mie stesse condizioni», racconta la gola profonda spiegando di lavorare in nero da circa dieci anni e di essere stato assistente «sia di un senatore di destra che di un senatore di sinistra». Tutta colpa dell'autodichìa, dice il questore del Senato ed esponente grillina Laura Bottici: «All'interno di Palazzo Madama, dove si approvano le leggi, non hanno validità le leggi stesse ma solo i regolamenti interni. È questo il vero problema». È vero che modificare i regolamenti parlamentari è altrettanto complicato che redigere nuove leggi. Tuttavia non è su questo aspetto che si focalizza l'attenzione del presidente del Senato. «Giorni fa ho evidenziato - ricorda Grasso - l'esigenza di una legge che disciplini, in maniera chiara e trasparente, l'attività lobbistica che al momento, seppur sempre presente, si muove in maniera nascosta».
LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.
In una sequela di corpi nudi, da quale particolare tra loro riconosceresti un indigente? Dai denti, naturalmente! Guardalo in bocca quando ride e quando parla e vedrai una dentatura incompleta, cariata e sporca.
In fatto di salute dentale gli italiani non si rivolgono alla ASL. I dentisti della ASL ci sono, eppure è solo l'8% degli italiani ad avvalersi dei dentisti pubblici. Nel 92% dei casi gli italiani scelgono un dentista privato. Più che altro ad influenzare la scelta per accedere a questa prestazione medica è perché alla stessa non è riconosciuta l’esenzione del Ticket. Ci si mette anche la macchinosità burocratica distribuita in più tempi: ricetta medica; prenotazione, pagamento ticket e finalmente la visita medica lontana nel tempo e spesso a decine di km di distanza, che si protrae in più fasi con rinnovo perpetuo di ricetta, prenotazione e pagamento ticket. La maggiore disponibilità del privato sotto casa a fissare appuntamenti in tempi brevi, poi, è la carta vincente ed alla fine dei conti, anche, la più conveniente. Ciononostante la cura dei denti ci impone di aprire un mutuo alla nostra Banca di fiducia.
Il diritto alla salute dei denti, in questo stato di cose, in Italia, è un privilegio negato agli svantaggiati sociali ed economici.
LA VULNERABILITA’ SOCIALE. Può essere definita come quella condizione di svantaggio sociale ed economico, correlata di norma a condizioni di marginalità e/o esclusione sociale, che impedisce di fatto l’accesso alle cure odontoiatriche oltre che per una scarsa sensibilità ai problemi di prevenzione e cura dei propri denti, anche e soprattutto per gli elevati costi da sostenere presso le strutture odontoiatriche private. L’elevato costo delle cure presso i privati, unica alternativa oggi per la grande maggioranza della popolazione, è motivo di ridotto accesso alle cure stesse anche per le famiglie a reddito medio - basso; ciò, di fatto, limita l’accesso alle cure odontoiatriche di ampie fasce di popolazione o impone elevati sacrifici economici qualora siano indispensabili determinati interventi.
Pertanto, tra le condizioni di vulnerabilità sociale si possono individuare tre distinte situazioni nelle quali l’accesso alle cure è ostacolato o impedito:
a) situazioni di esclusione sociale (indigenza);
b) situazioni di povertà:
c) situazioni di reddito medio – basso.
Perché il Servizio Sanitario Nazionale e di rimando quello regionale e locale non garantisce il paritetico accesso alle cure dentali? Perché a coloro che beneficiano dell’esenzione al pagamento del Ticket, questo non è applicato alla prestazione odontoiatrica pubblica?
Andare dal dentista gratis è forse il sogno di tutti, visti i conti che ci troviamo periodicamente a pagare e che non di rado sono la ragione per cui si rimandano le visite odontoiatriche, a tutto discapito della salute dentale. Come avrete capito, insomma, non è così semplice avere le cure dentistiche gratis e spesso, per averle, si devono avere degli svantaggi molto forti, al cui confronto la parcella del dentista, anche la più cara, non è nulla. E' però importante sapere e far sapere che, chi vive condizioni di disagio economico o ha malattie gravi, può godere, ma solo in rare Regioni, di cure dentistiche gratuite a totale carico del Sistema Sanitario Nazionale. Diciamo subito che non tutti possono avere questo diritto: le spese odontoiatriche non sono assimilabili a quelle di altre prestazioni mediche offerte nelle ASL, negli ospedali e nelle cliniche convenzionate di tutta Italia. Inoltre, qualora si rendano necessarie protesi dentarie o apparecchi ortodontici, questi sono a carico del paziente: vi sono però alcune condizioni particolari che permettono, a seconda dei regolamenti regionali, di ottenere protesi dentali gratuite e apparecchi a costo zero o quasi. Le regioni amministrano la sanità, e dunque anche le cure dentistiche, con larghe autonomie che a loro volta portano a differenze anche sostanziali da un luogo all'altro. Bisogna, quando si nasce, scegliersi il posto!
Alla fine del racconto, la morale che se ne trae è una. E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?
«Siamo un paese di gente che, presi uno ad uno, si definisce onesta. Per ogni male che attanaglia questa Italia, non si riesce mai a trovare il responsabile. Tanto, la colpa è sempre degli altri!». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
«Quando ho trattato il tema dell’odontoiatria, parlando di un servizio non usufruibile per tutti, non ho affrontato l’argomento sulla selezione degli odontoiatri. Non ho detto, per esempio, che saranno processati a partire dal prossimo 6 marzo 2014 i 26 imputati rinviati a giudizio dal gup del Tribunale di Bari Michele Parisi nell'ambito del procedimento per i presunti test di ingresso truccati per l'ammissione alle facoltà di odontoiatria e protesi dentaria delle Università di Bari, Napoli, Foggia e Verona, negli anni 2008-2009. Ho scritto solo un articolo asettico dal titolo eclatante.»
Questo articolo è stato pubblicato da decine di testate di informazione. E la reazione dei dentisti non si è fatta attendere, anche con toni minacciosi. Oggetto degli strali polemici è stato, oltre che Antonio Giangrande, il direttore di “Oggi”.
«I Dentisti non sono mafiosi bensì gli unici che si prendono cura dei cittadini». ANDI protesta con Oggi per una delirante lettera pubblicata. Così viene definito l’articolo. Il 14 gennaio 2014 sul sito del settimanale Oggi, nella rubrica “C’è posta per noi”, è stata pubblicata una missiva del dott. Antonio Giangrande presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie dal titolo “La lobby dei dentisti e la mafia odontoiatrica”. Nella nota Giangrande analizza il bisogno di salute orale e le difficoltà del servizio pubblico di dare le risposte necessarie chiedendosi se tutto questo non è frutto del lavoro della lobby dei dentisti talmente potente da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl e le decisioni del Parlamento. ANDI, per tutelare l’immagine dei dentisti liberi professionisti italiani, sta valutando se intraprendere azioni legali nei confronti dell’autore della lettera e del giornale. Intanto ha chiesto di pubblicare la nota che riportiamo sotto. La Redazione di Oggi ha scritto il 24.1.2014 alle 16:59, Il precedente titolo della lettera del Dottor Giangrande era fuorviante e di questo ci scusiamo con gli interessati. Qui di seguito l’intervento dell’Associazione Nazionale Dentisti italiani, a nome del Presidente Dott. Gianfranco Prada, in risposta allo stesso Dottor Giangrande. «A nome dei 23 mila dentisti italiani Associati ad ANDI (Associazione Nazionale Dentisti Italiani) che mi onoro di presiedere vorrei rispondere alla domanda che il dott. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro tutte le Mafie ha posto sul suo giornale il 14 gennaio. “E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?” La risposta è no. No, dott. Giangrande non c’è una lobby di dentisti così forte da influenzare le scelte della sanità pubblica. La causa di quanto lei scrive si chiama spending review o se vogliamo utilizzare un termine italiano dovremmo dire tagli: oltre 30 miliardi negli ultimi due anni quelli per la sanità. Poi io aggiungerei anche disinteresse della politica verso la salute orale che non ha portato, mai, il nostro SSN ad interessarsi del problema. Vede dott. Giangrande lei ha ragione quando sostiene che un sorriso in salute è una discriminante sociale, ma non da oggi, da sempre. Ma questo non per ragioni economiche, bensì culturali. Chi fa prevenzione non si ammala e non ha bisogno di cure. Mantenere sotto controllo la propria salute orale costa all’anno quanto una signora spende alla settimana dalla propria parrucchiera. Ed ha anche ragione quando “scopre” che le cure odontoiatriche sono costose, ma non care come dice lei. Fare una buona odontoiatria costa e costa sia al dentista privato che alla struttura pubblica, che infatti non riesce ad attivare un servizio che riesca a soddisfare le richieste dei cittadini. Inoltre, oggi, lo stato del SSN quasi al collasso, non consente investimenti nell’odontoiatria: chiudono i pronto soccorso o vengono negati prestazioni salva vita. Ma le carenze del pubblico nell’assistenza odontoiatrica non è neppure di finanziamenti, è di come questi soldi vengono investiti. Qualche anno fa il Ministero della Salute ha effettuato un censimento per capire le attrezzature ed il personale impiegato da Ospedali ed Asl nell’assistenza odontoiatrica e da questo è emerso che i dentisti impiegati utilizzano gli ambulatori pubblici in media per sole 3 ore al giorno. Ma non pensi sia per negligenza degli operatori, molto spesso è la stessa Asl che non può permettersi di attivare il servizio per più tempo. Non ha i soldi. Però poi succede anche che utilizzi le strutture pubbliche per dare assistenza odontoiatrica a pagamento e quindi per rimpinguare i propri bilanci. Come mai non ci indigna per questo? Il problema non è di carenza di attrezzature (mediamente quelle ci sono) sono i costi per le cure. Una visita odontoiatria è molto più costosa di una visita di qualsiasi altra branca della medicina. Pensi quando il suo dermatologo o cardiologo la visita e poi allo studio del suo dentista in termini di strumenti, attrezzature e materiali utilizzati. Anche con i pazienti che pagano il ticket l’Asl non riesce a coprire neppure una piccola parte dei costi sostenuti per effettuare la cure. Da tempo chiediamo ai vari Ministri che negli anni hanno trascurato l’assistenza odontoiatrica di dirottare quegli investimenti in un progetto di prevenzione odontoiatrica verso la fasce sociali deboli e i ragazzi. Una seria campagna di prevenzione permetterebbe di abbattere drasticamente le malattie del cavo orale, carie e malattia parodontale, diminuendo drasticamente la necessità di interventi costosi futuri come quelli protesici. Invece nelle nostre Asl e negli ospedali non si previene e non si cura neppure, perché costa troppo curare, così si estraggono solo denti… creando degli “sdentati” che avranno bisogno di protesi. Dispositivo che il nostro SSN non può erogare. Ma molto spesso lo fa a pagamento. Pensi, dott. Giangrande, siamo talmente lobbie che l’unico progetto di prevenzione pubblica gratuito attivo su tutto il territorio nazionale è reso possibile da 35 anni dai dentisti privati aderenti all’ANDI. Stesso discorso per l’unico progetto di prevenzione del tumore del cavo orale, 6 mila morti all’anno per mancata prevenzione. Per aiutare gli italiani a tutelare la propria salute orale nell’immediato basterebbe aumentare le detrazioni fiscali della fattura del dentista (oggi è possibile detrarre solo il 19%) ma questo il Ministero dell’Economia dice che non è possibile. Però da anni si permette ai cittadini di detrarre oltre il 50% di quanto spendono per ristrutturare casa o per comprare la cucina. Come vede, caro dott. Giangrande, il problema della salute orale è molto serio così come molto serio il problema della mafia. Ma proprio perché sono problemi seri, per occuparsene con competenza bisogna sforzarsi di analizzare il problema con serietà e non fare le proprie considerazioni utilizzando banali lunghi comuni. In questo modo insulta solo i dentisti italiani che sono seri professionisti e non truffatori o peggio ancora mafiosi. Fortunatamente questo i nostri pazienti lo sanno, ecco perché il 90% sceglie il dentista privato e non altre strutture come quelle pubbliche o i low cost. Perché si fida di noi, perché siamo seri professionisti che lavorano per mantenerli sani. Aspettiamo le sue scuse. Il Presidente Nazionale ANDI, Dott. Gianfranco Prada».
Antonio Giangrande, come sua consuetudine, fa rispondere i fatti per zittire polemiche strumentali e senza fondamento, oltre che fuorvianti il problema della iniquità sociale imperante.
Palermo. Morire, nel 2014, perché non si vuole - o non si può - ricorrere alle cure di un dentista. Da un ospedale all'altro: muore per un ascesso. Quando il dolore è diventato insopportabile ha deciso di rivolgersi ai medici, ma la situazione è precipitata, scrive Valentina Raffa su “Il Giornale”, martedì 11/02/2014. Una storia alla Dickens, con la differenza però che oggi non siamo più nell'800 e romanzi sociali come «Oliver Twist», «David Copperfield» e «Tempi difficili» dovrebbero apparire decisamente anacronistici. Eppure... Eppure succede che ai nostri giorni si possa ancora morire per un mal di denti. Un dolore a un molare che la protagonista di questa drammatica vicenda aveva cercato di sopportare. Difficile rivolgersi a un dentista, perché curare un ascesso avrebbe richiesto una certa spesa. E Gaetana, 18enne di Palermo, non poteva permettersela. Lei si sarebbe dovuta recare immediatamente in Pronto soccorso. Quando lo ha fatto, ossia quando il dolore era divenuto lancinante al punto da farle perdere i sensi, per lei non c'era più nulla da fare. È stata accompagnata dalla famiglia all'ospedale Buccheri La Ferla, di Palermo, dove avrebbe risposto bene alla terapia antibiotica, ma purtroppo il nosocomio (a differenza del Policlinico) non dispone di un reparto specializzato. Quando quindi la situazione si è aggravata, la donna è stata portata all'ospedale Civico. Ricoverata in 2^ Rianimazione, i medici hanno tentato il possibile per salvarle la vita. A quel punto, però, l'infezione aveva invaso il collo e raggiunto i polmoni. L'ascesso al molare era divenuto fascite polmonare. L'agonia è durata giorni. La vita di Gaetana era appesa a un filo. Poi è sopraggiunto il decesso. Le cause della morte sono chiare, per cui non è stata disposta l'autopsia. Nel 2014 si muore ancora così. E pensare che esiste la «mutua». Ma Gaetana forse non lo sapeva. Sarebbe bastato recarsi in ospedale con l'impegnativa del medico di base. è una storia di degrado, non di malasanità: ci sono 4 ospedali a Palermo con servizio odontoiatrico. Ma nella periferia tristemente famosa dello Zen questa non è un'ovvietà.
Morire di povertà. Gaetana Priola, 18 anni, non aveva i soldi per andare dal dentista scrive “Libero Quotidiano”. La giovane si è spenta all'ospedale civico di Palermo, dove era ricoverata dai primi giorni di febbraio 2014. A ucciderla, un infezione polmonare causata da un ascesso dentale mai curato. All'inizio del mese, la giovane era svenuta in casa senza più dare segni di vita. I medici le avevano diagnosticato uno choc settico polmonare, condizione che si verifica in seguito a un improvviso abbassamento della pressione sanguigna. Inizialmente, Gaetana era stata trasportata al Bucchieri La Ferla e, in seguito, era stata trasferita nel reparto di rianimazione del Civico. Le sue condizioni sono apparse da subito come gravi. I medici hanno provato a rianimarla ma, dopo una settimana di cure disperate, ne hanno dovuto registrare il decesso. Disperazione e dolore nel quartiere Zen della città, dove la vittima risiedeva insieme alla famiglia.
All'inizio era un semplice mal di denti, scrive “Il Corriere della Sera”. Sembrava un dolore da sopportare senza drammatizzare troppo. Eppure in seguito si è trasformato in un ascesso poi degenerato in infezione. Una patologia trascurata, forse anche per motivi economici, che ha provocato la morte di una ragazza di 18 anni, Gaetana Priolo. La giovane, che abitava a Palermo nel quartiere Brancaccio, non si era curata; qualcuno dice che non aveva i soldi per pagare il dentista. Un comportamento che le è stato fatale: è spirata nell'ospedale Civico per uno «shock settico polmonare». Le condizioni economiche della famiglia della ragazza sono disagiate ma decorose. Gaetana era la seconda di quattro figli di una coppia separata: il padre, barista, era andato via un paio di anni fa. Nella casa di via Azolino Hazon erano rimasti la moglie, la sorella maggiore di Gaetana, il fratello e una bambina di quasi cinque anni. Per sopravvivere e mantenere la famiglia la madre lavorava come donna delle pulizie. «È stata sempre presente, attenta, una donna con gli attributi», dice Mariangela D'Aleo, responsabile delle attività del Centro Padre Nostro, la struttura creato da don Pino Puglisi, il parroco uccisa dalla mafia nel '93, per aiutare le famiglie del quartiere in difficoltà. L'inizio del calvario per Gaetana comincia il 19 gennaio scorso: il dolore è insopportabile tanto da far perdere i sensi alla diciottenne. La ragazza in prima battuta viene trasportata al Buccheri La Ferla e visitata al pronto soccorso per sospetto ascesso dentario. «Dopo due ore circa, in seguito alla terapia, essendo diminuito il dolore, - afferma una nota della direzione del nosocomio - è stata dimessa per essere inviata per competenza presso l'Odontoiatria del Policlinico di Palermo». Dove però Gaetana non è mai andata. Si è invece fatta ricoverare il 30 gennaio al Civico dove le sue condizioni sono apparse subito gravi: in seconda rianimazione le viene diagnosticata una fascite, un'infezione grave che partendo dalla bocca si è già diffusa fino ai polmoni - dicono all'ospedale -. I medici fanno di tutto per salvarla, ma le condizioni critiche si aggravano ulteriormente fino al decesso avvenuto la settimana scorsa. Al momento non c'è nessuna denuncia della famiglia e nessuna inchiesta è stata aperta. «È un caso rarissimo - spiega una dentista - ma certo non si può escludere che possa accadere». Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. «L'11% degli italiani rinuncia alle cure perchè non ha le possibilità economiche, e nel caso delle visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% - denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi - In Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi un medico privato, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d'attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure».
“È un caso rarissimo – spiega una dentista – ma certo non si può escludere che possa accadere”, scrive “Canicattiweb”. Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. Il Codacons si è schierato subito al fianco dei familiari e dei cittadini indigenti. “Il caso della 18enne morta a Palermo a causa di un ascesso non curato per mancanza di soldi, è uno degli effetti della crisi economica che ha colpito la Sicilia in modo più drammatico rispetto al resto d’Italia”. “L’11% degli italiani rinuncia alle cure mediche perché non ha le possibilità economiche per curarsi, e nel caso delle le visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% – denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi – Ed in Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi cure private, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d’attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure. Tale stato di cose genera emergenze e situazioni estreme come la morte della ragazza di Palermo. E’ intollerabile che nel 2014 in Italia si possa morire per mancanza di soldi – prosegue Tanasi – Il settore della sanità pubblica deve essere potenziato per garantire a tutti le prestazioni mediche, mentre negli ultimi anni abbiamo assistito a tagli lineari nella sanità che hanno prodotto solo un peggioramento del servizio e un allungamento delle liste d’attesa”.
Bene, cari dentisti, gli avvocati adottano il gratuito patrocinio, ma non mi sembra che voi adottiate il “Pro Bono Publico” nei confronti degli indigenti. Pro bono publico (spesso abbreviata in pro bono) è una frase derivata dal latino che significa "per il bene di tutti". Questa locuzione è spesso usata per descrivere un fardello professionale di cui ci si fa carico volontariamente e senza la retribuzione di alcuna somma, come un servizio pubblico. È comune nella professione legale, in cui - a differenza del concetto di volontariato - rappresenta la concessione gratuita di servizi o di specifiche competenze professionali al servizio di coloro che non sono in grado di affrontarne il costo.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
Il 3 febbraio 2014 Cecile Malmstrom, commissario europeo per gli affari interni, presenta il primo rapporto sulla corruzione nell’Unione, stimata in 120 miliardi di euro, scrive Emilio Casalini su “Il Corriere della Sera” . Nel capitolo dedicato all’Italia si ricorda che la nostra Corte dei Conti ha valutato la corruzione italiana in 60 miliardi di euro. La maggior parte dei giornali, tg, agenzie di stampa ribatte a caratteri cubitali la notizia per cui metà della corruzione europea è in Italia. I due dati però non sono omogenei né sovrapponibili. Il nostro in particolare lo troviamo nel discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2012, dove a pagina 100 si legge che "Se l’entità monetizzata della corruzione annuale in Italia è stata correttamente stimata in 60 miliardi di euro dal Saet "... sarebbe un’esagerazione. Quindi nemmeno la Corte dei Conti ha mai fatto calcoli di prima mano, ma si riferisce, ritenendolo peraltro esagerato, al rapporto di un altro organismo, il Saet, ossia il Servizio Anticorruzione e Trasparenza. Quest'ultimo però, a pagina 10 nel suo rapporto del 2009, ha scritto esattamente l’opposto, ossia che “le stime che si fanno sulla corruzione, 50-60 miliardi l’anno, senza un modello scientifico, diventano opinioni da prendere come tali, ma che complice la superficialità dei commentatori e dei media, aumenta la confusione e anestetizza qualsiasi slancio di indignazione e contrasto”. Solo opinioni dunque. Il Servizio Anticorruzione negli anni successivi continua a spiegare che si tratta di cifre inventate e cita (a pagina 130) perfino il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, il quale “ha confermato l’infondatezza della fantasiosa stima di 60 miliardi di euro quale costo della corruzione ogni anno in Italia". Quella cifra sembra essere troppo alta perfino per noi! Ma da dove è nata allora questa cifra che da molti anni tutti ripetono come un mantra? Forse da un semplice calcolo, magari citato in un convegno. Nel 2004 la Banca Mondiale aveva pubblicato un rapporto in cui teorizzava che la corruzione del mondo fosse stimabile in mille miliardi di dollari. Considerato il Pil globale dell’epoca, la corruzione corrispondeva quindi ad oltre il 3% del Pil mondiale. Applicando la stessa percentuale al PIL italiano, ecco saltare fuori la cifra tonda di 60 miliardi. Una cifra inventata ma citata ormai anche dalle istituzioni comunitarie. Ma la cosa più grave, come dice il primo rapporto della Saet, è che un elemento che non si misura, non si gestisce, e quindi non si combatte, non si contrasta.
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
Quello che la gente non capisce……e quello che non si osa dire.
Colloquio con il dr Antonio Giangrande, scrittore e sociologo storico, noto per i suoi saggi d’inchiesta letti in tutto il mondo e per i suoi articoli pubblicati in tutta Italia, ma ignorato dai media generalisti foraggiati dallo Stato.
«Da anni racconto ai posteri ed agli stranieri quello che in Italia non si osa dire. In tema di Giustizia la gente si spella le mani ad osannare quelli che certa politica e certa informazione ha santificato: ossia, i magistrati. Dico questo senza alcun pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e magistrati che stimo ed ai quali questa percezione, che non credo sia mio esclusivo patrimonio, non rende il giusto merito. Bene. Io, nei miei testi e nei miei video, parlo di chi, invece da innocente non ha voce. Racconto le loro storie, affinchè in un’altra vita venga reso a loro quella giustizia che in questa realtà gli è negata. Un indennizzo o un risarcimento per quello che gli è stato tolto e mai più gli può essere reso. La dignità ed ogni diritto. Specialmente se poi le pene sono scontate nei canili umani. Cosa orrenda se io aborro questa crudeltà e perciò, addirittura, non ho il mio cane legato alle catene. Ogni città ha le sue storie di ingiustizie da raccontare che nessuno racconta. La mia missione è farle conoscere, pur essendo irriconoscenti le vittime. Parlo di loro, vittime d’ingiustizia, ma parlo anche delle vittime del reato. Parlo soprattutto dell’ambiente sociale ed istituzionale che tali vicende trattano. Vita morte e miracoli di chi ha il potere o l’indole di sbagliare e che, con i media omertosi, invece rimane nell’ombra o luccica di luce riflessa ed immeritata. Sul delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana, il mio paese, ho raccontato quello che in modo privilegiato ho potuto vedere, ma non è stato raccontato. Ma non solo di quel delitto mi sono occupato. Nel libro su Perugia mi sono occupato del delitto di Meredith Kercher. Per esempio.
FIRENZE. 30 gennaio 2014. Ore 22.00 circa. Come volevasi dimostrare. Ogni volta che un delitto si basa su indizi aleatori che si sottopongono a contrastanti interpretazioni, i magistrati condannano, pur sussistendo gravi dubbi che lasciano sgomenti l'opinione pubblica. Condannano non al di là del ragionevole dubbio e lo fanno per non recare sgarbo ai colleghi dell'accusa. I sensitivi hanno delle sensazioni e li palesano, spesso non creduti. I pubblici ministeri, in assenza di prove, anch’essi hanno delle sensazioni. Solo che loro vengono creduti dai loro colleghi. Sia mai che venga lesa l’aurea di infallibilità di chi, con un concorso all’italiana, da un giorno all’altro diventa un dio in terra. Osannato dagli italici coglioni, che pur invischiati nelle reti dell’ingiustizia, nulla fanno per ribellarsi.
«Grazie a quei giudici coscienziosi e privi di animosità politica che spero sempre di trovare - ha detto Silvio Berlusconi riferendosi ai suoi guai giudiziari - gli italiani potranno comprendere appieno la vera e propria barbarie giudiziaria in cui l’Italia è precipitata. Una degenerazione dei principali capisaldi del diritto - ha, infine, concluso - che ha riservato a me e alle persone che mi stimano e mi vogliono bene un’umiliazione e, soprattutto, un dolore difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di accuse tanto ingiuste quanto infondate».
Se lo dice lui che è stato Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana?
Silvio Berlusconi: «Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti».
Raffaele Sollecito: «Io sono innocente. Come mi sento? Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto. E’ così...».
Sabrina Misseri: «Io non c'entro niente, sono innocente».
Alberto Stasi: «Io sono innocente».
Queste sono solo alcune delle migliaia di testimonianze riportate nei miei saggi. Gente innocente condannata. Gente innocente rinchiusa in carcere. Gente innocente rinchiusa in carcere addirittura in attesa di un giudizio che arriverà con i tempi italici e rilasciato da magistrati che intanto si godono le loro ferie trimestrali.
Questo può bastare a dimostrare la mia cognizione di causa?
Quale altro ruolo istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è il giudice di se stesso?
Di questa sorte meschina capitata ai più sfortunati, la maggioranza dei beoti italici se ne rallegra. Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha definito come "delizia delle disgrazie altrui".
Ecco perché Antonio Giangrande è orgoglioso di essere diverso.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.
Al di là delle questioni soggettive è il sistema giustizia ed i suoi operatori (Ministri, magistrati, avvocati e personale amministrativo) che minano la credibilità di un servizio fondamentale di uno Stato di Diritto.
Noi, miseri umani, prima di parlare o sparlare dei nostri simili, facciamo come dice il nostro amico Raffaele Sollecito: “Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto”. Quindi, facciamolo! Solo allora si vedrà che la prospettiva di giudizio cambia e di conseguenza si possono cambiare le cose. Sempre che facciamo in tempo, prima che noi stessi possiamo diventare oggetto di giudizio. Ricordiamoci che quello che capita agli altri può capitare a noi, perché gli altri, spesso, siamo proprio noi. Oggi facciamo ancora in tempo. Basta solo non essere ignavi!»
LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
«Siamo un paese di truffatori, o, magari, qualcuno ha interesse a farci passare come tali». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
Evasione fiscale, buco di 52 miliardi nel 2013. In base alle indagini delle Fiamme Gialle, l'evasione fiscale italiana del 2013 è pari a 51,9 miliardi di euro, scrive Angelo Scarano su “Il Giornale”. Le evasioni fiscali in Italia sono all'ordine del giorno: niente scontrino, niente fatture, insomma, niente di niente. È così, oggi lo Stato italiano ha scoperto che nelle sue casse c'è un buco di 51,9 miliardi di euro non versati: colpa delle società italiane, che per non incappare nel Fisco hanno attuato i tanto famosi "trasferimenti di comodo", spostando le proprie residenze o le basi delle società nei cosiddetti paradisi fiscali - Cayman, Svizzera, Andorre -. Quanto agli oltre ottomila evasori totali scoperti, hanno occultato redditi al fisco per 16,1 miliardi, mentre i ricavi non contabilizzati e i costi non deducibili riferibili ad altri fenomeni evasivi - dalle frodi carosello ai reati tributari fino alla piccola evasione - ammontano a 20,7 miliardi, una cifra più che consistente. Il totale dell'IVA evasa dagli italiani sarebbe di circa 5 miliardi: un dato che non sorprende, se si considera che secondo una recente ricerca della Guardia di finanza su 400.000 controlli effettuati, il 32% delle attività almeno un paio di volte hanno emesso uno scontrino falso, o non lo hanno emesso proprio. Per frodi e reati fiscali, lo scorso anno sono state denunciate 12.726 persone, con 202 arresti. Nei confronti dei responsabili delle frodi fiscali, i finanzieri hanno avviato procedure di sequestro di beni mobili, immobili, valuta e conti correnti per 4,6 miliardi di euro. Oltretutto, in Italia sono presenti 14.220 lavoratori completamente in nero, scoperti nel 2013, e 13.385 irregolari, impiegati da 5.338 datori di lavoro. Con una media di una su tre società che non emette scontrini, non sorprende come l'evasione sia arrivata a cifre stellari, e come tendenzialmente è destinata ad aumentare col tempo.
I datori di lavoro versano i contributi (altrimenti è un reato). Lo stato il primo evasore fiscale: INPDAP non versa i contributi come fanno le aziende ordinariamente. Lo Stato è il primo evasore contributivo. Secondo stime attendibili (ma non ufficiali) il datore di lavoro di oltre 3 milioni di persone avrebbe mancato di versare circa 30 miliardi di contributi. Risultato? Un buco enorme nell'Inpdap che poi è stato scaricato sull'Inps con un'operazione di fusione alquanto discutibile. Non ha versato all'INPDAP i contributi previdenziali dei suoi dipendenti...
Cresce il buco nei conti dell'INPS. Nel 2015 lo Stato dovrà sborsare 100 miliardi per ripianare l'ammanco dell'istituto. Prendendoli da pensionati e contribuenti. Inps, Mastrapasqua al governo: "Allarme conti". Ma Saccomanni lo smentisce, scrive Il Fatto Quotidiano. Il presidente dell'istituto scrive ai ministri Saccomanni e Giovanni: "Valutare un intervento dello Stato per coprire i deficit dell'ex Inpdap, altrimenti le passività aumenteranno". L'ultimo bilancio segnava un rosso di quasi 10 miliardi. E a "La Gabbia" su La7 aveva detto: "Possiamo sopportare solo 3 anni di disavanzo". Angeletti: "Avvertimento tardivo" e Bonanni chiede di fare chiarezza.
Lo stato italiano non ha versato per anni i contributi pensionistici ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni e quindi li ha fatti confluire nell’Inps, ponendoli a carico di coloro che la sventura pose a lavorare nel comparto produttivo. Forse che i pensionati italiani non saranno solidali con i poveri dipendenti delle pubbliche amministrazioni?
Cerchiamo di raccontare la questione del presunto buco dell’Inps come se fossimo dei privati e non mamma Stato, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. La cosa in fondo è semplice. Un paio di anni fa il governo Monti ha deciso di fondere nella grande Inps, la più piccola Inpdap. È il fondo previdenziale che si occupa dei 2,8 milioni di pensionati pubblici. E ovviamente dei prossimi dipendenti statali che andranno in quiescenza. Il motivo formale era nobile: ridurre di 100 milioni il costo di queste burocrazie. In fondo, Inps e Inpdap facevano e fanno lo stesso mestiere: incassano i contributi sociali da lavoratori e datori di lavoro e pagano le pensioni. Si è rivelato, dobbiamo presumere senza malizia, come un modo di annacquare un gigantesco buco di bilancio. Se fossimo dei privati sarebbe una bancarotta, più o meno fraudolenta. E vi spieghiamo perché. L’Inpdap è nato nel 1994. Prima lo Stato italiano la faceva semplice e male. Non pagava i contributi per i propri dipendenti pubblici, ritenendola una partita di giro. Perché accantonare risorse per le future pensioni pubbliche, si saranno detti i furbetti della Prima repubblica? Paghiamo il dovuto, cioè apriamo la cassa, solo quando la pensione sarà maturata. Se volete si tratta di una variazione ancora peggiore rispetto allo schema Ponzi (dal grande truffatore italo americano) del metodo retributivo. Quando nel 1994 si crea l’ente previdenziale si pone dunque il problema. Come facciamo? Semplice, da oggi in poi la Pubblica amministrazione è costretta a pagare anno per anno i suoi contributi, così come tutti i datori privati lo fanno ogni mese con l’Inps, al suo fondo di riferimento: l’Inpdap, appunto. Il sistema diventa così corretto e identico a quello di un’azienda privata: il costo del personale pubblico, in questo modo, diventa fedele alla realtà e pari (anche in termini di cassa) a stipendio netto, più tasse e contributi sociali. Ma restava un problema. Cosa fare con i contributi che si sarebbero dovuti versare nel passato? La genialata se la inventa il governo Prodi nel 2006 insieme al ministro del lavoro Damiano. All’Inpdap (semplifichiamo per farci capire) lo Stato avrebbe dovuto dare più di 8 miliardi di euro di contributi non versati, ma maturati dai dipendenti pubblici. Una bella botta. E anche all’epoca avevamo bisogno di fare i fighetti con l’Europa. Per farla breve, lo Stato non ha trasferito gli 8 miliardi all’Inpdap, ma ha fatto come lo struzzo: ha anticipato volta per volta ciò che serviva per pagare i conti. Di modo che alla fine dell’anno i saldi con l’Europa quadrassero. I nodi vengono al pettine quando Monti decide di fondere l’Inps con l’Inpdap. Antonio Mastrapasqua, che è il super boss delle pensioni private, sa fare bene i suoi conti. E appena si accorge che gli hanno mollato il pacco inizia a tremare. Un imprenditore privato che omettesse di versare i contributi per i propri dipendenti, pur assumendosi l’impegno di pagare la pensione quando maturasse, verrebbe trasferito in un secondo a Regina Coeli o a San Vittore. In più, il medesimo imprenditore privato non dovendo versare ogni anno i contributi all’Inps, potrebbe fare il fenomeno con le banche o la Borsa, dicendo di avere molta più cassa di quanto avrebbe se dovesse andare a versare ogni mese il dovuto. Un mega falso in bilancio da 8 miliardi, questo è ciò che plasticamente è emerso fondendo l’Inpdap nell’Inps. Mastrapasqua resta un servitore dello Stato e, secondo il cuoco, non lo ammetterebbe neanche a sua nonna, ma la fusione dei due enti ha in buona parte compromesso molti degli sforzi fatti per mettere ordine nel suo carrozzone (che tale in buona parte purtroppo resta). Si è dovuto sobbarcare un’azienda fallita e non può prendersela più di tanto con il suo principale creditore: che si chiama Stato Italiano. La morale è sempre quella. Mentre i privati chiudono, falliscono, si disperano per pagare tasse e contributi sociali, lo Stato centrale se ne fotte. Come diceva il marchese del Grillo: «Io so io e voi nun siete un cazzo.»
C'è soltanto una categoria professionale che invece sta versando molti più contributi di quanto riceve in termini di assegni pensionistici, scrive Andrea Telara su “Panorama”. Si tratta degli iscritti alla Gestione Separata, cioè quel particolare fondo dell'Inps in cui confluiscono i versamenti previdenziali dei lavoratori precari (come i collaboratori a progetto) e dei liberi professionisti con la partita iva, non iscritti agli Ordini. Nel 2013, il bilancio della Gestione Separata sarà in attivo per oltre 8 miliardi di euro. Va detto che questo risultato ha una ragion d'essere ben precisa: tra i precari italiani e tra le partite iva senza Ordine, ci sono infatti molti giovani ancora in attività, mentre i pensionati di questa categoria sono pochissimi (il rapporto è di 1 a 6). Non si può tuttavia negare che, se non ci fossero i contributi della Gestione Separata, il bilancio dell'Inps sarebbe in una situazione ancor peggiore di quella odierna. In altre parole, oggi ci sono in Italia quasi 2 milioni di lavoratori precari e di partite iva che tengono in piedi i conti dell'intero sistema previdenziale e che pagano una montagna di soldi per mantenere le pensioni di altre categorie, compresi gli assegni d'oro incassati da qualche ex-dirigente d'azienda. tema dei «contributi pensionistici silenti», che vengono versati dai lavoratori precari, parasubordinati e libero professionisti privi di un ordine di categoria, alla gestione separata dell’Inps. Contributi che però non si trasformano in trattamenti previdenziali, poiché quei cittadini non riescono a maturare i requisiti minimi per la pensione: e che restano nelle casse dell’ente pubblico per pagare quelle degli altri. È un assetto che penalizza proprio i giovani e i precari, che con maggiore difficoltà raggiungono i 35 anni di anzianità, visto che nel mercato legale del lavoro si entra sempre più tardi e in modo intermittente. Anche quando si matura il minimo di contribuzione richiesto, la pensione non supera i 400-500 euro. Ad aggravare la condizione di questa fascia di popolazione è anche l’elevata aliquota dei versamenti, quasi il 27 per cento della retribuzione: una quota che per la verità fu stabilita nel 2006 dal governo di Romano Prodi su pressione dei sindacati. Peraltro il problema non tocca esclusivamente i lavoratori trentenni, sottoposti al regime contributivo, ma anche i più anziani, soggetti a quello retributivo, che richiede almeno vent’anni di attività per maturare la pensione.
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.
Vengo anch'io. No, tu no (1967 - Fo, Jannacci)
Inserita nell'album omonimo (che contiene una schidionata di brani indimenticabili: si va da "Giovanni, telegrafista" a "Pedro, Pedreiro", da "Ho visto un re" a "Hai pensato mai", quest'ultima versione in lingua della stupenda "Gastu mai pensà" di Lino Toffolo), "Vengo anch'io. No, tu no" (1967) porta Enzo Jannacci in cima alle classifiche di vendite, con esiti commerciali mai più ripetuti nel corso della sua lunga carriera. Assai accattivante nell'arrangiamento, attraversato da elementi circensi, la canzone divenne una sorta di inno di tutti gli esclusi d'Italia dai grandi rivolgimenti in atto - siamo, ricordiamolo, nel '68 - perchè snobbati dall'intellighenzia dell'epoca. Grazie a versi beffardi e surreali, scritti da Jannacci in sostituzione di quelli originariamente vergati perlopiù da Dario Fo e maggiormente ancorati al reale, il brano s'imprime nella memoria collettiva, diviene una sorta di tormentone nazionale, contribuisce in larga misura a far conoscere ad un pubblico più vasto la figura di un artista inclassificabile quanto geniale.
Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale
Vengo anch'io? No tu no
Per vedere come stanno le bestie feroci
e gridare "Aiuto aiuto e` scappato il leone"
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe andare tutti quanti ora che è primavera
Vengo anch'io? No tu no
Con la bella sottobraccio a parlare d'amore
e scoprire che va sempre a finire che piove
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore
Vengo anch'io? No tu no
Dove ognuno sia già pronto a tagliarti una mano
un bel mondo sol con l'odio ma senza l'amore
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale
Vengo anch'io? No tu no
per vedere se la gente poi piange davvero
e scoprire che è per tutti una cosa normale
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
No, no e 354 volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”. Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento. Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.
NO TAV, NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da compensare l’inevitabile impatto ambientale ed i costi da sostenere? E’ plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di sicurezza,soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente protagonista dell’Europa del futuro. NO?
Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.
«C’è un disegno, che lacera, scoraggia e divide e quindi è demoniaco, al quale non dobbiamo cedere nonostante esempi e condotte disoneste, che approfittano del denaro, del potere, della fiducia della gente, perfino della debolezza e delle paure. E’ quello di dipingere il nostro Paese come una palude fangosa dove tutto è insidia, sospetto, raggiro e corruzione. - Aprendo i lavori del parlamentino dei vescovi italiani del 27-30 gennaio 2014 , il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, rassicura sulla tenuta morale del paese e chiede a tutti – di reagire ad una visione esasperata e interessata che vorrebbe accrescere lo smarrimento generale e spingerci a non fidarci più di nessuno. L’Italia non è così - afferma il cardinale - nulla – scandisce – deve rubarci la speranza nelle nostre forze se le mettiamo insieme con sincerità. Come Pastori – rileva il porporato – non possiamo esimerci dal dire una parola sul contesto sociale che viviamo, consapevoli di dover dare voce a tanti che non hanno voce e volto, ma che sono il tessuto connettivo del Paese con il loro lavoro, la dedizione, l’onestà.»
L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.
Letta, Renzi e tutti i governi "non eletti". La "staffetta" non è certo una novità della politica italiana, tra ribaltoni e svolte di ogni tipo (che durano meno di un anno), scrive Sabino Labia su “Panorama”. E sono tre. Stiamo parlando del terzo governo, in tre anni o poco più, non eletto dal popolo ma creato, senza arte ne parte, nella segreteria di un partito con l’avallo autorevole del Quirinale. Già, perché con la nascita del governo Renzi (il sessantesimo della storia Repubblicana) che, a suo dire, mai sarebbe andato a Palazzo Chigi senza passare dalle urne, ma passando solo dalla sede del Pd, sembra di aver fatto l’ennesimo tuffo nel passato. E pensare che ci eravamo convinti che questo tipo di operazione appartenesse a una di quelle mitiche alchimie politiche che tanto deliziavano i partiti della Prima Repubblica, quando i governi non nascevano dalle consultazioni elettorali, ma nella segreteria della DC. E, invece, la Seconda Repubblica e, con ogni probabilità visti i presupposti, anche la Terza Repubblica si avvarrà della facoltà di stabilire l’inquilino di Palazzo Chigi sulla fiducia non dei cittadini ma dei nominati e, per non farci mancare nulla, anche dei non nominati visto che Renzi è soltanto il sindaco di Firenze. In fondo siamo passati da Piazza del Gesù a via del Nazareno. Elencare tutte quelle volte che, dal 1948 a oggi, si è stabilita la fine di un esecutivo, non basterebbe un libro. Per citarne solo alcuni:
- Governo Letta (2013) composto da un'ammucchiata di centro destra e centro sinistra, nato dopo lo sciagurato tentativo di Bersani di coinvolgere l’universo mondo.
- Governo Monti (2011), nato dopo il Friedman-gate dello spread che inseguiva Berlusconi.
- Governo D’Alema (1998), nato dopo il boicottaggio/sabotaggio al primo governo Prodi.
- Governo Dini (1995), nato dopo il ribaltone della Lega, alleata di Berlusconi.
- Governo Ciampi (1993), dopo il sacco dei conti correnti del governo D’Amato.
- Governo De Mita (1988), nato come la vera e unica staffetta, quella con il governo Craxi.
- Governi Rumor/Colombo (1970), Tra l’agosto del 1969 e l’agosto 1970 si ebbe il record di crisi e governi, ben quattro. Ma quelli erano anni veramente difficili.
- Governo Tambroni (1960), nato dopo la decisione presa all’interno della segreteria della Dc di far cadere il governo Segni.
E, proprio in questa occasione, il 25 febbraio 1960 il presidente del Senato, Cesare Merzagora, pronunciò a Palazzo Madama un durissimo discorso contro il Parlamento attaccando i partiti che sostenevano la maggioranza che, nel chiuso delle segreterie, avevano stabilito di far cadere il secondo Governo presieduto da Antonio Segni sostituendolo con un esecutivo guidato da Tambroni. Per di più, Segni, aveva deciso di dimettersi senza fare alcun passaggio dalle Camere. “Se i partiti politici, all’interno dei loro organi statutari, dovessero prendere le decisioni più gravi sottraendole ai rappresentanti del popolo, tanto varrebbe - lo dico, naturalmente, per assurdo – trasformare il Parlamento in un ristretto comitato esecutivo. Risparmieremmo tempo e denaro…". Se poi vogliamo aggiungere un po’ di statistica abbinata alla scaramanzia, che come si sa in Italia non guasta mai, ebbene tutti questi governi non hanno mai avuto una durata superiore a un anno. Prepariamoci ad aggiornare il pallottoliere.
Il Colpo di Stato continua: Renzi sarà il 27mo premier non eletto dal Popolo, scrive Giovanni De Mizio su “Ibtimes”. Mentre continua la sfilata di volti noti e meno noti della politica italiana nel palazzo del Quirinale per le consultazioni del presidente della (ancora per poco) Repubblica Giorgio "Primo" Napolitano e mentre Matteo Renzi, primo ministro in pectore, si riscalda a bordo campo facendo stretching in Piazza della Signoria a Firenze prima di recarsi (a piedi) a Roma, la politica al di fuori del Palazzo continua a rimarcare che il futuro ex-sindaco di Firenze sarà il terzo premier di seguito a non essere stato eletto dal popolo, e come tale privo di legittimazione democratica. Si tratta di un argomento, tuttavia, errato: Renzi non sarà il terzo, bensì il ventisettesimo premier scelto senza mandato popolare a legittimarlo. È un colpo di stato, senza dubbio alcuno, e, a giudicare dalla storia d'Italia del dopoguerra, si tratta di un colpo di stato che parte da lontano, con il chiaro intento di rovesciare la Repubblica per restaurare la Monarchia così come era prima dello Statuto Albertino, possibilmente completando lo svuotamento del Parlamento in atto già da diversi anni. Ne è la prova, fra le altre cose, la volontà di Renzi di mutare il Senato in una camera a parziale nomina regia, pardon, presidenziale. Il colpo di stato attualmente in atto nasce probabilmente a metà degli anni Cinquanta quando, nel corso della Seconda legislatura, si successero ben sei presidenti del Consiglio: De Gasperi, Pella, Fanfani, Scelba, Segni e Zoli. Curiosità: le elezioni si tennero in base alla legge elettorale "truffa" del 1953, che la Corte Costituzionale avrebbe potuto censurare (oppure no), se solo fosse stata istituita (sarebbe "nata" solo nel 1956). Tralasciando De Gasperi (che fallì nell'ottenere la fiducia a causa delle forze monarchiche, carbonare e amatriciane), il primo premier della seconda legislatura, Giuseppe Pella, è dichiaratamente un presidente tecnico, come lo è stato Mario Monti (entrambi, tra l'altro, sono stati ministri degli Esteri e del Bilancio ad interim, a confermare che il complotto, come la Storia, si ripete), e la sua squadra di governo era formata da numerosi ministri altrettanto tecnici. Siamo nel 1953 e Pella ha più o meno la stessa età che avrebbe avuto Monti anni più tardi: dubitiamo sia una coincidenza. Nel gennaio 1954 è Amintore Fanfani ad essere incaricato di formare un governo: anche Fanfani non aveva vinto le elezioni, neppure le primarie del proprio partito, visto che sarebbe stato eletto segretario della DC solo nel giugno successivo (peraltro da un congresso, e non attraverso regolari, libere e democratiche elezioni). Il tentativo delle forze reazionarie, comunque, non va a buon fine, poiché Fanfani non riesce a ottenere la fiducia. Un brutto presagio per il governo Renzi? Lo sapremo nei prossimi giorni. Ciò che avvenne dopo è ancora più disarmante: Mario Scelba riuscì poi a formare un governo, ma fu sostituito da Mario Segni quando fu eletto presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, grazie ai voti, guarda caso, dei monarchici. La Storia si ripeterà, abbastanza simile, anche in seguito, con il governo Tambroni. Ma gli esempi sono tanti anche nella storia successiva: le staffette e la nomina di presidenti del Consiglio che non hanno vinto le elezioni sono state a lungo una regola della Repubblica italiana, a testimonianza del fatto che si tratta di un tentativo ultradecennale di spogliare il popolo dei suoi diritti; basti pensare al fatto che in Italia vi sono stati 62 governi in 18 legislature (una media di 3,44 governi a legislatura), presieduti da 26 presidenti del consiglio (2,39 governi per premier). Solo due presidenti del Consiglio sono rimasti in carica (in più governi) dalle elezioni fino alla scadenza naturale della legislatura: De Gasperi e Berlusconi. Ciò dimostra non certo che il ricambio degli inquilini di palazzo Chigi è fisiologico data la natura del sistema politico italiano nonché il dettato costituzionale (sempre formalmente rispettato), bensì che il complotto per il ripristino della Monarchia in Italia ha più forza di quanto si pensi. Da dove nasce l'equivoco? Nasce dal fatto che, secondo la Costituzione, il presidente del Consiglio è nominato dal presidente della Repubblica e deve avere la fiducia delle Camere. Il popolo elegge il Parlamento ed è questi che decide se una persona può essere o meno il presidente del Consiglio, e può anche togliergli la fiducia per darla a un'altra persona, sempre nominata dal Capo dello Stato. I Padri Costituenti hanno insomma tolto al popolo il diritto di eleggere il proprio presidente del Consiglio sin dalla nascita della Repubblica: a ben guardare, insomma, la Repubblica italiana ha avuto ventisei presidenti del Consiglio (su ventisei) non eletti dal popolo, e Renzi, pertanto, si avvia ad essere non il terzo, bensì il ventisettesimo perpetuatore di questa ignobile tradizione che ormai da oltre sessant'anni infanga l'articolo 1 della Costituzione, secondo la quale, al secondo comma, la sovranità appartiene al Popolo, che viene sottratta ad ogni legislatura. Il complotto, insomma, continua. Nota per chi non se ne fosse accorto. Il presente articolo ha un chiaro intento satirico: l'articolo 1 della Costituzione prevede che la sovranità popolare sia esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione stessa. La carta fondamentale prevede che il presidente del Consiglio non abbia legittimazione popolare (non è eletto dal popolo), poiché l'Italia è una Repubblica parlamentare, ovvero il popolo è sovrano attraverso il Parlamento e non attraverso altri organi, men che meno monocratici. Asserire una presunta incostituzionalità (o peggio) delle nomine di Monti, Letta e (eventualmente) Renzi significa ignorare la storia d'Italia, la sua Costituzione e spingere (ulteriormente) verso un pericoloso presidenzialismo populista privo di un adeguato sistema di pesi e contrappesi che eviti derive ancora peggiori di quelle che l'Italia sta sperimentando da una trentina di anni, ovvero più o meno da quando il declino del Belpaese ha impiantato i propri semi nella penisola. Con questo non vogliamo dire che il presidenzialismo sia un male, ma solo che è necessario modificare l'equilibrio costituzionale per evitare gravi storture e menomazioni della democrazia italiana (come avvenute, per altre ragioni, negli ultimi decenni di quasi-presidenzialismo de facto). In sintesi. Un presidente del Consiglio (nella pienezza dei propri poteri) è tale se, e solo fin quando, ha la fiducia di una maggioranza parlamentare: solo per rifarsi alla storia recente, Berlusconi è caduto nel novembre 2011 perché ad ottobre, benché non sfiduciato, non aveva più una maggioranza in Parlamento, tanto che il rendiconto dello Stato fu approvato solo grazie all'assenza delle opposizioni; stesso discorso per Monti, che ha perso la fiducia dopo l'uscita dalla maggioranza del PDL, e per Letta, che ha perso l'appoggio del suo stesso partito, il PD. Queste situazioni sono state una costante nella storia italiana, se si considera che la prima crisi di governo scoppiata in Parlamento risale al primo governo Prodi: in tutti gli altri casi (tranne il Prodi II) la crisi si è sempre consumata fuori dal Parlamento. Allo stesso modo è stata rispettata la Costituzione nella formazione dei governi che si sono via via succeduti negli anni. La staffetta può non piacere, ma ciò che sta accadendo in queste ore è la regola, non l'eccezione, e che soprattutto si sta rispettando il dettato democratico espresso dalla Costituzione che tanti difensori all'amatriciana della Carta stessa continuano a dimenticare (così come non viola la Costituzione il non presentarsi alle consultazioni del Capo dello Stato). E provoca un senso di vergogna essere costretti a ripetere l'ovvio per via di una diffusa ignoranza delle regole costituzionali anche da chi dovrebbe conoscerle a memoria viste le poltrone su cui sono seduti. L'ignoranza è forza, pare.
Sono giorni che su Internet e nel Paese reale, il popolo protesta perché Renzi andrà a Palazzo Chigi senza elezioni, scrive Fabio Brinchi Giusti su “L’Inkiesta”. “Ma il premier non dovremmo eleggerli noi?” Si domanda la gente mormorando rabbiosa contro la democrazia scippata. A volte non sono solo le persone comuni, a volte si uniscono al coro anche coloro che dovrebbero aiutarli a capire come giornalisti e politici. “No ai premier nominati” “Il popolo deve scegliere” e magari per gettare benzina sul fuoco, si urla anche al golpe. Il guaio che è spesso le voci che urlano contro i governi non-eletti sono le stesse che poi urlano “Giù le mani dalla Costituzione” e “La Costituzione non si tocca”. Ma per difenderla la Costituzione prima andrebbe perlomeno letta. E capirla. Perché è la Costituzione ad aver dato all’Italia un sistema dove il Presidente del Consiglio non viene eletto dal popolo. Il popolo elegge il Parlamento e vota i partiti. Dopo le elezioni i partiti eletti vanno dal Presidente della Repubblica e il Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni ricevute nomina il Presidente del Consiglio. Se quest’ultimo perde il consenso della maggioranza dei parlamentari cade e il gioco di cui sopra si ripete. I partiti vanno dal Capo dello Stato e il Capo dello Stato cerca un nuovo nome (oppure lo stesso se quest’ultimo è in grado di riunire di nuovo una maggioranza). Se non si trova un nome si va ad elezioni anticipate. In tutto questo sistema il popolo non ha voce in capitolo. O meglio lo ha indirettamente tramite i suoi rappresentanti, ma non attraverso votazioni! È così dal 1948, anzi è così da sempre perché a livello nazionale il nostro Paese non ha mai conosciuto l’elezione diretta del capo del Governo. A partire dagli anni ’90 una serie di riforme ha introdotto l’elezione diretta dei sindaci o poi dei leader degli enti locali e il passaggio alla legge elettorale maggioritaria (il cosiddetto Mattarellum poi abolito nel 2005) ha favorito questa tendenza anche a livello nazionale dove le coalizioni di centrodestra e centrosinistra si sono sempre presentate agli elettori guidate da un leader-candidato che in caso di vittoria è poi andato a Palazzo Chigi. Ma non essendo cambiata la Costituzione, di fatto, la scelta del Presidente del Consiglio è rimasto un potere nelle mani del Parlamento e del Presidente della Repubblica. E gli elettori sulla scheda elettorale hanno continuato a sbarrare il simbolo di un partito e non il nome di una persona. I governi in Italia si formano così e dunque è perfettamente costituzionale e legittimo la nascita di un governo non votato dagli elettori. Lo è anche se si regge su una maggioranza completamente modificata da cambi di casacca e voltagabbana vari. Se non vi piace questo sistema, pensateci la prossima volta che urlate: “La Costituzione non si cambia!”.
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
«Non è possibile che nel 2014 gli indigenti muoiano per i denti o sono detenuti pur innocenti. Se i comunisti da 70 anni non lo hanno ancora fatto, propongo io la panacea di questi mali.»
Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
«Al fine di rendere effettivo l’accesso ai servizi sanitari e legali a tutti gli indigenti, senza troppi oneri per le categorie professionali interessate, presento ai parlamentari, degni di questo incarico, questa mia proposta di legge:
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI
PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO
“Per tutelare i diritti dei non abbienti si obbliga, a mo' di PRO BONO PUBLICO, gli esercenti un servizio di pubblica necessità, ai sensi dell'art.359 c.p., a destinare il 20 % della loro attività o volume di affari al servizio gratuito a favore degli indigenti.
E' indigente chi percepisce un reddito netto mensile non maggiore di 1.000 euro, rivalutato annualmente in base all’inflazione.
L'onere ricade sulla collettività, quindi, ai fini fiscali e contributivi, ogni attività pro bono publico, contabilizzata con il minimo della tariffa professionale, è dedotta dal reddito complessivo.
Le attività professionali svolte in favore degli indigenti sono esentati da ogni tributo o tassa o contributo.
Sono abrogate le disposizioni di legge o di regolamenti incompatibili con la presente legge.”
NON VI REGGO PIU’.
Il testo più esplicito e diretto di Rino dà il titolo all'album uscito nel 1978.
"Nuntereggaepiù" è un brillante catalogo dei personaggi che invadono radio, televisioni e giornali. Clamorosa la coincidenza con quello che succederà nel 1981, quando la magistratura scopre la lista degli affiliati alla P2 di Licio Gelli, loggia massonica in cui compaiono alcuni nomi citati nella filastrocca di Rino.
A dispetto del titolo, nel brano non c'è un briciolo di reggae. Il titolo gioca sull'assonanza fra il genere musicale giamaicano e la coniugazione romanesca del verbo reggere. Come già era accaduto in "Mio fratello è figlio unico", il finale è dissonante rispetto al tema trattato, con l'introduzione di una frase d'amore:
" E allora amore mio ti amo
Che bella sei
Vali per sei
Ci giurerei. "
È uno sfottò come un altro per
dire: "Vabbè, visto che vi ho detto tutte 'ste cose, visto che tanto la canzone
non fa testo politico, la canzone non è un comizio, il cantautore non è
Berlinguer né Pannella, allora a questo punto hanno ragione quelli che fanno
solo canzoni d'amore..". Possiamo immaginare che, oggi, sarebbero entrati di
diritto nella filastrocca Umberto Bossi o Antonio Di Pietro per la politica,
Fabio Fazio e Maria De Filippi o il Grande Fratello per la tivvù, calciatori
super pagati come Totti, Vieri e Del Piero e chissà quante altre invadenti
presenze del nostro quotidiano destinate a ronzarci intorno per altri vent'anni.
Quando incide la versione spagnola, che in ottobre scala le classifiche
spagnole, "Corta el rollo ya" ("Dacci un taglio”), inserisce personaggi di
spicco dell'attualità iberica, come il politico Santiago Carrillo, il calciatore
Pirri (che più avanti sarà vittima di un rapimento), la soubrette Susana Estrada
e altri.
Qui sta la grandezza di Rino Gaetano, se leggete oggi il testo di "Nun te reggae
più" vi accorgerete che i personaggi citati sono quasi tutti ancora sulla
breccia e, se scomparsi o ritirati dalla vita pubblica, hanno lasciato un segno
indelebile nel loro campo, si pensi a Gianni Brera o all'avvocato Agnelli, o a
Enzo Bearzot che, un anno dopo la dipartita del cantautore calabrese, regalerà
con la sua nazionale (Causio, Tardelli, Antognoni) il terzo mondiale di calcio
dopo quarantaquattro anni.
Abbasso e Alè (nun te reggae più)
Abbasso e Alè (nun te reggae più)
Abbasso e Alè con le canzoni
senza patria o soluzioni
La castità (Nun te reggae più)
La verginità (Nun te reggae più)
La sposa in bianco, il maschio forte,
i ministri puliti, i buffoni di corte
..Ladri di polli
Super-pensioni (Nun te reggae più)
Ladri di stato e stupratori
il grasso ventre dei commendatori,
diete politicizzate,
Evasori legalizzati, (Nun te reggae più)
Auto blu, sangue blu,
cieli blu, amori blu,
Rock & blues (Nun te reggae più!)
Eja-eja alalà, (Nun te reggae più)
DC-PSI (Nun te reggae più)
DC-PCI (Nun te reggae più)
PCI-PSI, PLI-PRI
DC-PCI, DC DC DC DC
Cazzaniga, (nun te reggae più)
avvocato Agnelli,
Umberto Agnelli,
Susanna Agnelli, Monti Pirelli,
dribbla Causio che passa a Tardelli
Musiello, Antognoni, Zaccarelli.. (nun te reggae più)
..Gianni Brera,
Bearzot, (nun te reggae più)
Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio
Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno,
Villaggio, Raffà e Guccini..
Onorevole eccellenza
Cavaliere senatore
nobildonna, eminenza
monsignore, vossia
cheri, mon amour!.. (Nun te reggae più!)
Immunità parlamentare (Nun te reggae più!)
abbasso e alè!
Il numero cinque sta in panchina
si e' alzato male stamattina
– mi sia consentito dire: (nun te reggae più!)
Il nostro è un partito serio.. (certo!)
disponibile al confronto (..d'accordo)
nella misura in cui
alternativo
alieno a ogni compromess..
Ahi lo stress
Freud e il sess
è tutto un cess
si sarà la ress
Se quest'estate andremo al mare
soli soldi e tanto amore
e vivremo nel terrore
che ci rubino l'argenteria
è più prosa che poesia...
Dove sei tu? Non m'ami più?
Dove sei tu? Io voglio, tu
Soltanto tu, dove sei tu? (Nun te reggae più!)
Uè paisà (..Nun te reggae più)
il bricolage,
il '15-18, il prosciutto cotto,
il '48, il '68, le P38
sulla spiaggia di Capo Cotta
(Cardin Cartier Gucci)
Portobello, illusioni,
lotteria, trecento milioni,
mentre il popolo si gratta,
a dama c'è chi fa la patta
a sette e mezzo c'ho la matta..
mentre vedo tanta gente
che non ha l'acqua corrente
e nun c'ha niente
ma chi me sente? ma chi me sente?
E allora amore mio ti amo
che bella sei
vali per sei
ci giurerei
ma è meglio lei
che bella sei
che bella lei
vale per sei
ci giurerei
sei meglio tu
nun te reg più
che bella si
che bella no
nun te reg più!
NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ...
LA LIBERTA' Giorgio Gaber (1972)
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Vorrei essere libero come un uomo.
Come un uomo appena nato che ha di fronte solamente la natura
e cammina dentro un bosco con la gioia di inseguire un’avventura,
sempre libero e vitale, fa l’amore come fosse un animale,
incosciente come un uomo compiaciuto della propria libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia
e che trova questo spazio solamente nella sua democrazia,
che ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare
e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche avere un’opinione,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come l’uomo più evoluto che si innalza con la propria intelligenza
e che sfida la natura con la forza incontrastata della scienza,
con addosso l’entusiasmo di spaziare senza limiti nel cosmo
e convinto che la forza del pensiero sia la sola libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche un gesto o un’invenzione,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
“LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE” – Dal testo di Gaber alla realtà che ci circonda. Così cantava il mitico Gaber in una delle sue canzoni “La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione.” Come rispondereste alla domanda “chi è colui che può definirsi libero?”, certamente molti diranno subito “colui che può fare ciò che vuole, esprimere le proprie opinioni, manifestare la propria fede e via discorrendo” … invece non proprio. Non proprio perché questa sarebbe anarchia o per lo meno la rasenterebbe; per capire meglio il significato di tale termine, allora, prendiamo in esame la frase di Gaber libertà è partecipazione: partecipare, filologicamente inteso significa “essere parte di …” e quindi essere inseriti in un dato contesto. Libertà non è dunque dove non esistono limitazioni ma bensì dove queste vigono in maniera armoniosa e, naturalmente, non oppressiva. Posso capire che la cosa strida a molti ma se analizzata in maniera posata si potrà evincere come una società senza regole sia l’antitesi di sé stessa. Dove sta la libertà, allora? Innanzitutto comincerei parlando di rispetto: rispetto per l’altro, per le sue idee, per la sua persona: se non ci rispettiamo vicendevolmente non otterremo mai un vivere civile e quindi alcuna speranza di libertà. La libertà è un diritto innegabile. Chi ha il diritto di stabilire quali libertà assegnare a chi? Pensiamo agli schiavi di ieri e , purtroppo, anche di oggi: perché negare loro le libertà? Per la pigrizia di chi gliele nega, chiaramente; su questo si basa il rapporto padrone-schiavo (anche quello hegeliano del servo-padrone), sulla forza ed il terrore, terrore non dell’asservito ma del servito. Dall’Antichità al Medioevo, dal Rinascimento ad oggi gli uomini hanno sempre tentato di esercitare la propria egemonia sugli altri, secondo diritti divini, di nobiltà di natali, tramite l’ostentazione della propria condizione economica e via discorrendo, falciando così in pieno il diritto alla libertà di alcuni. “Libertà è partecipazione”, tale frase continua a ronzarmi in testa e mi sprona ad esortare: rispettiamoci per essere liberi… a tali parole mi sovviene la seconda strofa del nostro inno nazionale (di cui pochi, ahime, conoscono l’esistenza, poiché molti ritengono che il nostro inno sia costituito d’una sola strofa):
“Noi fummo da secoli
calpesti, derisi,
perché non siam popolo,
perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica bandiera, una speme:
di fonderci insieme
già l’ora suonò.”
e quindi l’invito della terza strofa: “Uniamoci, amiamoci”
Dignità, rispetto dell’altro, partecipazione, lievi seppur necessarie limitazioni: questi sono gli ingredienti per un’ottima ricetta di libertà, non certo paroloni da politicanti come “lotta alla criminalità”, “lotta all’evasione fiscale”, “lotta alle cricche”, giusto per citare le più quotate in questi ultimi tempi. La libertà necessita di semplicità, non certo di pompose cerimonie: essa è bella come una ragazza a quindici-sedici anni (o per lo meno, rifacendomi allo Zibaldone leopardiano), tutta acqua e sapone e sempre con un sorriso gentile pronto per tutti. Forse è anche per questo che gli uomini raffigurano la Libertà come una giovane donna…!
IO SE FOSSI DIO di Giorgio Gaber – 1980
Io se fossi Dio
E io potrei anche esserlo
Se no non vedo chi.
Io se fossi Dio non mi farei fregare dai modi furbetti della gente
Non sarei mica un dilettante
Sarei sempre presente
Sarei davvero in ogni luogo a spiare
O meglio ancora a criticare, appunto
Cosa fa la gente.
Per esempio il cosiddetto uomo comune
Com'è noioso
Non commette mai peccati grossi
Non è mai intensamente peccaminoso.
Del resto poverino è troppo misero e meschino
E pur sapendo che Dio è il computer più perfetto
Lui pensa che l'errore piccolino
Non lo veda o non lo conti affatto.
Per questo io se fossi Dio
Preferirei il secolo passato
Se fossi Dio rimpiangerei il furore antico
Dove si amava, e poi si odiava
E si ammazzava il nemico.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Non sarei mica stato a risparmiare
Avrei fatto un uomo migliore.
Si, vabbè, lo ammetto
non mi è venuto tanto bene
ed è per questo, per predicare il giusto
che io ogni tanto mando giù qualcuno
ma poi alla gente piace interpretare
e fa ancora più casino.
Io se fossi Dio
Non avrei fatto gli errori di mio figlio
E specialmente sull'amore
Mi sarei spiegato un po' meglio.
Infatti voi uomini mortali per le cose banali
Per le cazzate tipo compassione e finti aiuti
Ci avete proprio una bontà
Da vecchi un po' rincoglioniti.
Ma come siete buoni voi che il mondo lo abbracciate
E tutti che ostentate la vostra carità.
Per le foreste, per i delfini e i cani
Per le piantine e per i canarini
Un uomo oggi ha tanto amore di riserva
Che neanche se lo sogna
Che vien da dire
Ma poi coi suoi simili come fa ad essere così carogna.
Io se fossi Dio
Direi che la mia rabbia più bestiale
Che mi fa male e che mi porta alla pazzia
È il vostro finto impegno
È la vostra ipocrisia.
Ce l'ho che per salvare la faccia
Per darsi un tono da cittadini giusti e umani
Fanno passaggi pedonali e poi servizi strani
E tante altre attenzioni
Per handicappati sordomuti e nani.
E in queste grandi città
Che scoppiano nel caos e nella merda
Fa molto effetto un pezzettino d'erba
E tanto spazio per tutti i figli degli dèi minori.
Cari assessori, cari furbastri subdoli altruisti
Che usate gli infelici con gran prosopopea
Ma io so che dentro il vostro cuore li vorreste buttare
Dalla rupe Tarpea.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio maledirei per primi i giornalisti e specialmente tutti
Che certamente non sono brave persone
E dove cogli, cogli sempre bene.
Signori giornalisti, avete troppa sete
E non sapete approfittare della libertà che avete
Avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate
E in cambio pretendete
La libertà di scrivere
E di fotografare.
Immagini geniali e interessanti
Di presidenti solidali e di mamme piangenti
E in questo mondo pieno di sgomento
Come siete coraggiosi, voi che vi buttate senza tremare un momento:
Cannibali, necrofili, deamicisiani, astuti
E si direbbe proprio compiaciuti
Voi vi buttate sul disastro umano
Col gusto della lacrima
In primo piano.
Si, vabbè, lo ammetto
La scomparsa totale della stampa sarebbe forse una follia
Ma io se fossi Dio di fronte a tanta deficienza
Non avrei certo la superstizione
Della democrazia.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Naturalmente io chiuderei la bocca a tanta gente.
Nel regno dei cieli non vorrei ministri
Né gente di partito tra le palle
Perché la politica è schifosa e fa male alla pelle.
E tutti quelli che fanno questo gioco
Che poi è un gioco di forze ributtante e contagioso
Come la febbre e il tifo
E tutti quelli che fanno questo gioco
C' hanno certe facce
Che a vederle fanno schifo.
Io se fossi Dio dall'alto del mio trono
Direi che la politica è un mestiere osceno
E vorrei dire, mi pare a Platone
Che il politico è sempre meno filosofo
E sempre più coglione.
È un uomo a tutto tondo
Che senza mai guardarci dentro scivola sul mondo
Che scivola sulle parole
E poi se le rigira come lui vuole.
Signori dei partiti
O altri gregari imparentati
Non ho nessuna voglia di parlarvi
Con toni risentiti.
Ormai le indignazioni son cose da tromboni
Da guitti un po' stonati.
Quello che dite e fate
Quello che veramente siete
Non merita commenti, non se ne può parlare
Non riesce più nemmeno a farmi incazzare.
Sarebbe come fare inutili duelli con gli imbecilli
Sarebbe come scendere ai vostri livelli
Un gioco così basso, così atroce
Per cui il silenzio sarebbe la risposta più efficace.
Ma io sono un Dio emotivo, un Dio imperfetto
E mi dispiace ma non son proprio capace
Di tacere del tutto.
Ci son delle cose
Così tremende, luride e schifose
Che non è affatto strano
Che anche un Dio
Si lasci prendere la mano.
Io se fossi Dio preferirei essere truffato
E derubato, e poi deriso e poi sodomizzato
Preferirei la più tragica disgrazia
Piuttosto che cadere nelle mani della giustizia.
Signori magistrati
Un tempo così schivi e riservati
Ed ora con la smania di essere popolari
Come cantanti come calciatori.
Vi vedo così audaci che siete anche capaci
Di metter persino la mamma in galera
Per la vostra carriera.
Io se fossi Dio
Direi che è anche abbastanza normale
Che la giustizia si amministri male
Ma non si tratta solo
Di corruzioni vecchie e nuove
È proprio un elefante che non si muove
Che giustamente nasce
Sotto un segno zodiacale un po' pesante
E la bilancia non l'ha neanche come ascendente.
Io se fossi Dio
Direi che la giustizia è una macchina infernale
È la follia, la perversione più totale
A meno che non si tratti di poveri ma brutti
Allora si che la giustizia è proprio uguale per tutti.
Io se fossi Dio
Io direi come si fa a non essere incazzati
Che in ospedale si fa morir la gente
Accatastata tra gli sputi.
E intanto nel palazzo comunale
C'è una bella mostra sui costumi dei sanniti
In modo tale che in questa messa in scena
Tutto si addolcisca, tutto si confonda
In modo tale che se io fossi Dio direi che il sociale
È una schifosa facciata immonda.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Vedrei dall'alto come una macchia nera
Una specie di paura che forse è peggio della guerra
Sono i soprusi, le estorsioni i rapimenti
È la camorra.
È l'impero degli invisibili avvoltoi
Dei pescecani che non si sazian mai
Sempre presenti, sempre più potenti, sempre più schifosi
È l'impero dei mafiosi.
Io se fossi Dio
Io griderei che in questo momento
Son proprio loro il nostro sgomento.
Uomini seri e rispettati
Cos'ì normali e al tempo stesso spudorati
Così sicuri dentro i loro imperi
Una carezza ai figli, una carezza al cane
Che se non guardi bene ti sembrano persone
Persone buone che quotidianamente
Ammazzano la gente con una tal freddezza
Che Hitler al confronto mi fa tenerezza.
Io se fossi Dio
Urlerei che questi terribili bubboni
Ormai son dentro le nostre istituzioni
E anzi, il marciume che ho citato
È maturato tra i consiglieri, i magistrati, i ministeri
Alla Camera e allo Senato.
Io se fossi Dio
Direi che siamo complici oppure deficienti
Che questi delinquenti, queste ignobili carogne
Non nascondono neanche le loro vergogne
E sono tutti i giorni sui nostri teleschermi
E mostrano sorridenti le maschere di cera
E sembrano tutti contro la sporca macchia nera.
Non ce n'è neanche uno che non ci sia invischiato
Perché la macchia nera
È lo Stato.
E allora io se fossi Dio
Direi che ci son tutte le premesse
Per anticipare il giorno dell'Apocalisse.
Con una deliziosa indifferenza
E la mia solita distanza
Vorrei vedere il mondo e tutta la sua gente
Sprofondare lentamente nel niente.
Forse io come Dio, come Creatore
Queste cose non le dovrei nemmeno dire
Io come Padreterno non mi dovrei occupare
Né di violenza né di orrori né di guerra
Né di tutta l'idiozia di questa Terra
E cose simili.
Peccato che anche Dio
Ha il proprio inferno
Che è questo amore eterno
Per gli uomini.
IL CONFORMISTA di Giorgio Gaber – 1996
Io sono un uomo nuovo
talmente nuovo che è da tempo che non sono neanche più fascista
sono sensibile e altruista
orientalista ed in passato sono stato un po' sessantottista
da un po’ di tempo ambientalista
qualche anno fa nell'euforia mi son sentito come un po' tutti socialista.
Io sono un uomo nuovo
per carità lo dico in senso letterale
sono progressista al tempo stesso liberista
antirazzista e sono molto buono
sono animalista
non sono più assistenzialista
ultimamente sono un po' controcorrente son federalista.
Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,
il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa
è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani
e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire
forse da buon opportunista si adegua senza farci caso
e vive nel suo paradiso.
Il conformista è un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza,
il conformista s'allena a scivolare dentro il mare della maggioranza
è un animale assai comune che vive di parole da conversazione
di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori
il giorno esplode la sua festa che è stare in pace con il mondo
e farsi largo galleggiando
il conformista
il conformista.
Io sono un uomo nuovo e con le donne c'ho un rapporto straordinario
sono femminista
son disponibile e ottimista
europeista
non alzo mai la voce
sono pacifista
ero marxista-leninista e dopo un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.
Il conformista non ha capito bene che rimbalza meglio di un pallone
il conformista aerostato evoluto che è gonfiato dall'informazione
è il risultato di una specie che vola sempre a bassa quota in superficie
poi sfiora il mondo con un dito e si sente realizzato
vive e questo già gli basta e devo dire che oramai
somiglia molto a tutti noi
il conformista
il conformista.
Io sono un uomo nuovo
talmente nuovo che si vede a prima vista
sono il nuovo conformista.
Una canzone molto ironica quella di Giorgio Gaber, un’analisi su chi sia veramente il conformista e proprio per questo proviamo prima di tutto a capire noi cosa sia il conformismo, perchè senza di quello non possiamo comprendere cosa ci voglia dire Gaber con questa canzone.
Il termine conformismo indica una tendenza a conformarsi ad opinioni, usi, comportamenti e regole di un determinato gruppo sociale. Attenzione però qui stiamo parlando di gruppo sociale qualunque e non per forza quello “dominante” (come in genere molti pensano) che sarebbe anche piuttosto difficile da identificare visto che la nostra società è molto grande, complessa ed esistono infinite sfumature. Questo vuol dire che se apparteniamo ad un gruppo sociale che accettiamo in modo assoluto allora siamo conformisti rispetto a quel gruppo. Il prete per esempio è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di preti che a loro volta fanno riferimento al Papa. Chi per esempio appartiene ad una famiglia malavitosa e fa il bullo a scuola insieme ad altri bulli suoi amici che disturbano, rubano ecc. è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di delinquenti. Molti giovani pensano ingenuamente che conformismo vuol dire solo mettersi giacca, cravatta e comportarsi bene, mentre anticonformismo vuol dire mettersi maglietta, jeans e comportarsi male, ma non è così.
Con questa canzone Gaber prende in giro il conformista, facendone notare tutte le sue possibili caratteristiche che lo contraddistinguono e allo stesso tempo ne fa emergere tutta una serie di contraddizioni: guardiamo per esempio alla prima strofa in cui il conformista nel giro di pochi anni passa prima ad essere “fascista“, per poi diventare “orientalista“, ricordandosi però di essere stato un “sessantottista” e da tempo anche “ambientalista” e pure “socialista“! Da subito quindi una forte critica implicita all’uomo conformista, che alla fine continuando a cambiare idea, risulta essere tutto tranne che conformista. Questa successione di cambio di idee improvvise, seguendo la massa a seconda di cosa sia più comodo e non secondo ciò in cui si creda veramente, porta Gaber a dare lui stesso la definizione del conformista moderno:
“Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,
il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa
è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani
e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire
forse da buon opportunista si adegua senza farci caso e vive nel suo paradiso”
La critica dunque è forte, un uomo che non è quasi più in grado di pensare con la sua testa, ma si adegua alle circostanze creandosi un mondo tutto suo in cui vivere senza problemi e senza lotte. Ma come è abituato a fare, Gaber lancia una frecciatina a tutti noi, perchè guardandoci in faccia, probabilmente i primi ad essere conformisti siamo proprio noi:“e devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi, il conformista“.
LA DEMOCRAZIA di Giorgio Gaber – 1997
Dopo anni di riflessione sulle molteplici possibilità che ha uno stato di organizzarsi ho capito che la democrazia... è il sistema più democratico che ci sia. Dunque c’è la dittatura, la democrazia e... basta. Solo due. Credevo di più. La dittatura chi l’ha vista sa cos’è, gli altri si devono accontentare di aver visto solo la democrazia. lo, da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per scelta, per nascita. Come uno che appena nasce è cattolico, apostolico, romano. Cattolico pazienza, apostolico non so cosa sia, ma anche romano... Va be’, del resto come si fa oggi a non essere democratici? Sul vocabolario c’è scritto che la parola "democrazia" deriva dal greco e significa "potere al popolo". L’espressione è poetica e suggestiva. Sì, ma in che senso potere alta popolo? Come si fa? Questo sul vocabolario non c’è scritto. Però si sa che dal ‘45, dopo il famoso ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto di voto. È nata così la “Democrazia rappresentativa” nella quale tu deleghi un partito che sceglie una coalizione che sceglie un candidato che tu non sai chi sia e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni. E che se io incontri ti dice: “Lei non sa chi sono io!” Questo è il potere del popolo. Ma non è solo questo. Ci sono delle forme ancora più partecipative. Per esempio il referendum è addirittura una pratica di “Democrazia diretta”... non tanto pratica, attraverso la quale tutti possono esprimere il loro parere su tutto. Solo che se mia nonna deve decidere sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio ha qualche difficoltà. Anche perché è di Venezia. Per fortuna deve dire un “Sì” se vuoi dire no e un “No” se vuoi dire sì. In ogni caso ha il 50% di probabilità di azzeccarla. Comunque il referendum ha più che altro un valore folkloristico, perché dopo aver discusso a lungo sul significato politico dei risultati tutto resta come prima. Un altro grande vantaggio che la democrazia offre a mia nonna, cioè al popolo, è la libertà di stampa. Nei regimi totalitari, per esempio durante il fascismo, si chiamava propaganda e tu non potevi mai sapere la verità. Da noi si chiama “informazione”, che per maggior chiarezza ha anche il pregio di esser pluralista. Sappiamo tutto. Sappiamo tutto, ma anche il contrario di tutto. Pensa che bello. Sappiamo che l’Italia va benissimo, ma che va anche malissimo. Sappiamo che l’inflazione è al 3, o al 4, o al 6, o anche al 10%. Che abbondanza! Sappiamo che i disoccupati sono il 12% e che aumentano o diminuiscono a piacere, a seconda di chi lo dice. Sappiamo dati, numeri, statistiche. Alla fine se io voglio sapere quanti italiani ci sono in Italia, che faccio? Vado sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio e li conto: Zzzz! Chi va al sud. Zzzz! Chi va al nord! Altro che Istat! Comunque è innegabile che fra un regime totalitario e uno democratico c’è una differenza abissale. Per esempio, durante il fascismo non ti potevi permettere di essere antifascista. In democrazia invece si può far tutto, tranne che essere antidemocratici. Durante il fascismo c’era un partito solo al potere. O quello o niente. In democrazia invece i partiti al potere sono numerosi e in crescita. Alle ultime elezioni, fra partiti, liste autonome, liste di area, gruppi misti, eccetera, ce ne sono stati duecentoquarantotto. Più libertà di cosi si muore! Del resto una delle caratteristiche della democrazia è che si basa esclusivamente sui numeri… come il gioco del Lotto, anche se è meno casuale, ma più redditizio. Più largo è il consenso del popolo, più la democrazia, o chi per lei, ci guadagna. Quello del popolo è sempre stato un problema, per chi governa. Se ti dà il suo consenso vuoi dire che ha capito, che è cosciente, consapevole, e anche intelligente. Se no è scemo. Comunque l’importante è coinvolgere più gente possibile. Intendiamoci, la democrazia non è nemica della qualità. È la qualità che è nemica della democrazia. Mettiamo come paradosso che un politico sia un uomo di qualità. Mettiamo anche che si voglia mantenere a livelli alti. Quanti lo potranno apprezzare? Pochi, pochi ma buoni. No, in democrazia ci vogliono i numeri, e che numeri. Bisogna allargare il consenso, scendere alla portata di tutti. Bisogna adeguarsi. E un’adeguatina oggi, un’adeguatina domani... e l’uomo di qualità a poco a poco ci prende gusto... e “tac”, un’altra abbassatina... poi ce n’è un altro che si abbassa di più, e allora anche lui... “tac”... “tac”... ogni giorno si abbassa di cinque centimetri. E così, quando saremo tutti scemi allo stesso modo, la democrazia sarà perfetta.
DESTRA-SINISTRA di Giorgio Gaber – 2001
Destra-Sinistra è un singolo di Giorgio Gaber, pubblicato nel 2001, tratto dall'album La mia generazione ha perso.
La canzone vuol mettere ironicamente in risalto le presunte differenze tra destra e sinistra politiche, delle quali è una bonaria critica. Tutta la canzone verte infatti su luoghi comuni anziché sulle differenze di tipo idealistico, ed è lo stesso Gaber a specificare che, attualmente, le differenze fra le due parti sono ormai minime, e che chi si definisce di una fazione rispetto ad un'altra lo fa per mera «ideologia», e per «passione ed ossessione» di una diversità che «al momento dove è andata non si sa». In altre parole, la differenza fra chi si definisce di una parte piuttosto che dall'altra è solamente ostentata, ed è nulla per quanto riguarda il lato pratico.
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa è nostra
è evidente che la gente è poco seria
quando parla di sinistra o destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Fare il bagno nella vasca è di destra
far la doccia invece è di sinistra
un pacchetto di Marlboro è di destra
di contrabbando è di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Una bella minestrina è di destra
il minestrone è sempre di sinistra
tutti i films che fanno oggi son di destra
se annoiano son di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Le scarpette da ginnastica o da tennis
hanno ancora un gusto un po' di destra
ma portarle tutte sporche e un po' slacciate
è da scemi più che di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
I blue-jeans che sono un segno di sinistra
con la giacca vanno verso destra
il concerto nello stadio è di sinistra
i prezzi sono un po' di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
I collant son quasi sempre di sinistra
il reggicalze è più che mai di destra
la pisciata in compagnia è di sinistra
il cesso è sempre in fondo a destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
La piscina bella azzurra e trasparente
è evidente che sia un po' di destra
mentre i fiumi, tutti i laghi e anche il mare
sono di merda più che sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
L'ideologia, l'ideologia
malgrado tutto credo ancora che ci sia
è la passione, l'ossessione
della tua diversità
che al momento dove è andata non si sa
dove non si sa, dove non si sa.
Io direi che il culatello è di destra
la mortadella è di sinistra
se la cioccolata svizzera è di destra
la Nutella è ancora di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Il pensiero liberale è di destra
ora è buono anche per la sinistra
non si sa se la fortuna sia di destra
la sfiga è sempre di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Il saluto vigoroso a pugno chiuso
è un antico gesto di sinistra
quello un po' degli anni '20, un po' romano
è da stronzi oltre che di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
L'ideologia, l'ideologia
malgrado tutto credo ancora che ci sia
è il continuare ad affermare
un pensiero e il suo perché
con la scusa di un contrasto che non c'è
se c'è chissà dov'è, se c'é chissà dov'é.
Tutto il vecchio moralismo è di sinistra
la mancanza di morale è a destra
anche il Papa ultimamente
è un po' a sinistra
è il demonio che ora è andato a destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
La risposta delle masse è di sinistra
con un lieve cedimento a destra
son sicuro che il bastardo è di sinistra
il figlio di puttana è di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Una donna emancipata è di sinistra
riservata è già un po' più di destra
ma un figone resta sempre un'attrazione
che va bene per sinistra e destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa è nostra
è evidente che la gente è poco seria
quando parla di sinistra o destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Basta!
IO NON MI SENTO ITALIANO di Giorgio Gaber – 2003
La canzone "Io non mi sento italiano" è tratta dall'omonimo album uscito postumo di Giorgio Gaber, nel gennaio 2003, titolo che all'apparenza è di forte impatto evocativo che sa di delusione, di rabbia, di denuncia. Ma poi, per ribilanciare l'affermazione, basta leggere la frase nel seguito, “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”, c'è un grande concetto all'interno, quello di appartenenza, a cui Gaber è legato, che lascia trasparire la sua dolcezza, nonostante il sentimento di sdegno di cui si fa portavoce. Stupisce, e non poco, a distanza di anni, la modernità del testo, l'attualità delle situazioni, che già allora Giorgio Gaber raccontava come quotidianità di quel paese, in quel periodo storico. Album registrato poco prima della sua scomparsa, fu scritto con Sandro Luporini, pittore di Viareggio, suo compagno di scrittura in tutte le sue produzioni più importanti musicali e teatrali. Giorgio Gaber, è il suo nome d'arte, si chiama in effetti Giorgio Gaberscik e nasce a Milano il 25 gennaio 1939 (scompare a Montemagno di Camaiore il 1º gennaio 2003), da padre di origine istriane-goriziano slovene e madre veneziania. Inizia a suonare la chitarra da bambino a 8-9 anni per curare un brutto infortunio ad un braccio. Diventa un ottimo chitarrista e, con le serate, da grande, si pagherà gli studi universitari. E' il 1970 l'anno della svolta artistica di Giorgio Gaber. Gaber è celebre ma si sente “ingabbiato”, costretto a recitare un ruolo nella parte di cantante e di presentatore televisivo. Rinuncia così alla grandissima notorietà, si spoglia del ruolo di affabulatore e porta "la canzone a teatro" (creando il genere del teatro canzone). Gaber si presenta al pubblico così com'è, ricomincia da capo. Per questo crea un personaggio che non recita più un ruolo, il «Signor G», recita se stesso. Quindi un signore come tutti, “una persona piena di contraddizioni e di dolori”.
TESTO - Io non mi sento italiano - parlato:
Io G. G. sono nato e vivo a Milano.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
non è per colpa mia
ma questa nostra Patria
non so che cosa sia.
Può darsi che mi sbagli
che sia una bella idea
ma temo che diventi
una brutta poesia.
Mi scusi Presidente
non sento un gran bisogno
dell'inno nazionale
di cui un po' mi vergogno.
In quanto ai calciatori
non voglio giudicare
i nostri non lo sanno
o hanno più pudore.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
se arrivo all'impudenza
di dire che non sento
alcuna appartenenza.
E tranne Garibaldi
e altri eroi gloriosi
non vedo alcun motivo
per essere orgogliosi.
Mi scusi Presidente
ma ho in mente il fanatismo
delle camicie nere
al tempo del fascismo.
Da cui un bel giorno nacque
questa democrazia
che a farle i complimenti
ci vuole fantasia.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Questo bel Paese
pieno di poesia
ha tante pretese
ma nel nostro mondo occidentale
è la periferia.
Mi scusi Presidente
ma questo nostro Stato
che voi rappresentate
mi sembra un po' sfasciato.
E' anche troppo chiaro
agli occhi della gente
che tutto è calcolato
e non funziona niente.
Sarà che gli italiani
per lunga tradizione
son troppo appassionati
di ogni discussione.
Persino in parlamento
c'è un'aria incandescente
si scannano su tutto
e poi non cambia niente.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
dovete convenire
che i limiti che abbiamo
ce li dobbiamo dire.
Ma a parte il disfattismo
noi siamo quel che siamo
e abbiamo anche un passato
che non dimentichiamo.
Mi scusi Presidente
ma forse noi italiani
per gli altri siamo solo
spaghetti e mandolini.
Allora qui mi incazzo
son fiero e me ne vanto
gli sbatto sulla faccia
cos'è il Rinascimento.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Questo bel Paese
forse è poco saggio
ha le idee confuse
ma se fossi nato in altri luoghi
poteva andarmi peggio.
Mi scusi Presidente
ormai ne ho dette tante
c'è un'altra osservazione
che credo sia importante.
Rispetto agli stranieri
noi ci crediamo meno
ma forse abbiam capito
che il mondo è un teatrino.
Mi scusi Presidente
lo so che non gioite
se il grido "Italia, Italia"
c'è solo alle partite.
Ma un po' per non morire
o forse un po' per celia
abbiam fatto l'Europa
facciamo anche l'Italia.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo
per fortuna o purtroppo
per fortuna
per fortuna lo sono.
Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Citazioni di Bertolt Brecht.
Povera Italia. Povera Calabria, scrive Luciano regolo, direttore de “L’Ora della Calabria”. Non sono renziano, ma neppure lettiano o berlusconiano o alfaniano o grillino. Anzi vi confesso che non voto da un bel po', specialmente da quando, dirigendo un settimanale nazionale popolare a vasta tiratura, ebbi modo di toccare con mano quali e quanti mali attraversino trasversalmente i nostri partiti e come difficilmente i vari leader del nostro scenario politico si tirino indietro dal lobbysmo che domina in Italia. Tuttavia trovo questa staffetta Letta-Renzi ancora più inquietante. Per mesi abbiamo sentito dire a destra e manca che Letta doveva restare in sella per emergenze basilari nella vita del nostro Paese, dalla crisi economica alla riforma elettorale. Ora invece si cambia registro. Ma non si va a nuove elezioni, la volontà popolare, in tutto questo, viene sempre più messa da parte. La scusa è che senza nuove regole per le elezioni si rischierebbe di avere nuovamente una maggioranza troppo risicata per garantire la stabilità governativa. Ma se non si è avuto fino ad ora quel certo senso di responsabilità necessario per mettere da parte gli interessi e i protagonismi personali per arrivare a questo (minimo) obiettivo perché mai le cose dovrebbero cambiare con Renzi premier? Non sarebbe stato più equo e più democratico chiedere agli elettori di andare alle urne, magari esercitando il proprio diritto di voto riflettendo un po' di più, visto quello che stiamo tuttora vivendo? Napolitano avrà pure le sue buone ragioni, anche se a volte riesce difficile condividerle. Però, lo spazio non se l'è preso da solo, gli è dato da tutta una situazione, da tutto un cecchinaggio diffuso e mirato al proprio tornaconto personale. Il sospetto è che il "cancro" della voglia sconfinata di poltrone oramai dilaghi e la faccia da padrona fino ad annientare anche il minimo rispetto per tutte quelle famiglie italiane che stanno versando in condizioni di gravissime difficoltà. La gente si toglie la vita per i debiti (di qualche giorno fa la drammatica scelta dell'editore Zanardi), la gente è disperata. Ma il palazzo continua imperterrito nelle sue logiche. E il male si riverbera dal centro alla periferia, con le stesse modalità. La Calabria ne è un esempio eclatante. Guerre intestine nella destra, guerre intestine a sinistra (difficile che queste sospirate primarie del Pd siano la panacea per vecchie e croniche conflittualità). Intanto i rifiuti ci sommergono, intanto la 'ndrangheta erode sempre più spazi della società civile, intanto la disoccupazione lievita, al pari della malasanità. Povera Italia, povera Calabria.
E poi c’è lei, la fonte di tutti i mali.
Magistratura, la casta e le degenerazioni, scrive Andrea Signini su “Rinascita”. “IMAGISTRATI SONO INCAPACI E CORROTTI, NE CONOSCO MOLTISSIMI”. Il Presidente Francesco Cossiga (Sassari, 26 Luglio 1928 – Roma, 17 Agosto 2010), appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati e lui stesso capo del Consiglio Superiore della Magistratura, intervistato dal giornalista Vittorio Pezzuto, disse: “La maggior parte dei magistrati attuali sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi leggerò il nuovo codice di procedura penale”. Nel corso della medesima intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Da Presidente della Repubblica inviò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli. Accadde nel 91, il 14 novembre, quando il presidente-picconatore ritirò la convocazione di una riunione del plenum nella quale erano state inserite cinque pratiche sui rapporti tra capi degli uffici e loro sostituti sull’assegnazione degli incarichi. Cossiga riteneva che la questione non fosse di competenza del plenum e avvertì che se la riunione avesse avuto luogo avrebbe preso «misure esecutive per prevenire la consumazione di gravi illegalità». I consiglieri del Csm si opposero con un documento e si riunirono. In piazza Indipendenza, alla sede del Csm, affluirono i blindati dei carabinieri e due colonnelli dell’Arma vennero inviati a seguire la seduta. Ma il caso fu risolto subito, perché il vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione. Invitato a dare una spiegazione sull’incredibile ed ingiustificato avanzamento di carriera toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti per aver condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato, la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione fattagli da un membro interno di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di magistratura democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci irresponsabili ed incriticabili crolla”! invitato a dare delle spiegazioni sul come mai il nostro sistema (comunemente riconosciuto come il migliore al Mondo) fosse così profondamente percorso da fatali fratture, Cossiga tuonò: “La colpa di tutto questo è della DC! Lì c’è stato chi, per ingraziarsi la magistratura, ha varato la famosa “Breganzola” che prevede l’avanzamento di qualifica dei magistrati senza demerito. Ci pronunciammo contro quella Legge in quattro: uno era l’Avvocato Riccio, il deputato che poi fu sequestrato ed ucciso in Sardegna; Giuseppe Gargani, io ed un altro. Fummo convocati alla DC e ci fu detto che saremmo stati sospesi dal gruppo perché bisognava fare tutto quello che dicevano di fare i magistrati altrimenti avrebbero messo tutti in galera”. Questo breve preambolo ci deve servire come metro per misurare, con occhio nuovo, quanto più da vicino possibile, l’attuale situazione italiana. Dal 1992 (mani pulite), ad oggi, di acqua sotto ai ponti ne è passata assai. E tutta questa acqua, per rimanere nel solco dell’allegoria, ha finito con l’erodere i margini di garanzia della classe politica (vedi perdita delle immunità dei membri del Parlamento – 1993) espandendo quelli dei membri della magistratura. Membri i quali, poco alla volta, hanno preferito fare il “salto della scimmia” passando da un ramo all’altro (dal ramo giudiziario a quello legislativo e/o esecutivo) e ce li siamo ritrovati in politica come missili (di Pietro, de Magistris, Grasso, Ingroia, Finocchiaro…). Pertanto, quella che da decenni a questa parte viene rivenduta al popolo italiano come una “stagione di battaglia contro la corruzione politica”, in realtà nascondeva e tutt’ora nasconde ben altro. Il potere legislativo (facente capo al Parlamento), quanto il potere esecutivo (facente capo al governo), si sono ritrovati in uno stato di progressiva sofferenza indotta dalla crescente ed inarrestabile affermazione del potere giudiziario (facente capo alla magistratura). Che le cose stiano così, è fuor di dubbio! E “La cosa brutta è che i giornalisti si prestino alle manovre politiche dei magistrati” [Cossiga Ibid.]. Ecco spiegato come mai ci si ostini a ritenere “mani pulite” una battaglia alla corruzione e non già una battaglia tra i tre poteri dello Stato. Ma, scusate tanto, e il POPOLO?!? No, dico, siamo o non siamo noi italiani ed italiane – e non altri popoli diversi dal nostro – a pagare sulla nostra pelle lo scotto generato dalle conseguenze di queste “scalate al potere”? Non siamo forse noi quelli/e che stanno finendo dritti in bocca alla rovina totale, alla disperazione ed al suicidio di massa? COSA CI STANNO FACENDO DI MALE E’ PRESTO DETTO. Innanzi tutto, il riflesso peggiore che ci tocca subìre è dato dal fatto che, dal precedente (prima di “mani pulite”) clima culturale in cui eravamo usi vivere sentendoci protetti dalla magistratura (vedi garanzia di presunzione d’ innocenza), ci siamo ritrovati catapultati in un clima orrido in cui è “la presunzione di colpevolezza” a dettare il ritmo. E, di conseguenza, tutto il discorso è andato a gambe all’aria e le nostre libertà, nonché le nostre sovranità sono andate in fumo. E poi, chi di voi può affermare di non aver mai sentito ripetere sino alla nausea frasi del tipo “Lo deve stabilire la magistratura”, oppure “Lo ha stabilito una sentenza” od anche “Lo ha detto in giudice”; e allora? Forse queste persone (che restano sempre impiegati statali al servizio dello Stato e di chi vi abita) discendono dallo Spirito Santo? Sono o non sono esseri umani? E se lo sono allora posso commettere degli sbagli, sì o no? E se sbaglia un magistrato le conseguenze sono letali, sì o no? E allora per quale ragione da 22 anni a questa parte si sta facendo di tutto per collocarli nell’olimpo della saggezza? Perché è possibile sputtanare un esponente del ramo legislativo o di quello esecutivo e GUAI se si fa altrettanto con uno del ramo giudiziario? L’ex magistrato ed ex politico Antonio Di Pietro (definito da Cossiga “Il famoso cretino… che ha nascosto cento milioni in una scatola delle scarpe” e “Ladro” che si è laureato “Probabilmente con tutti 18 e si è preso pure l’esaurimento nervoso per prepararsi la Laurea” quando era a capo dell’IDV ci ha assillato per anni, farcendo all’inverosimile i suoi discorsi con frasi come quelle succitate. E come lui, ma dall’altro lato della barricata, Silvio Berlusconi ha infarcito i suoi discorsi contro la magistratura corrotta e bla bla bla. Ci hanno fatto un vero e proprio lavaggio del cervello, arrivando a dividere la popolazione in due: una parte garantista ed una giustizialista. Il vecchio e amatissimo strumento del “dividi et impera” inventato dai nostri avi latini per esercitare il potere sulla massa ignorante. Ma se due terzi della medesima torta sono marci e putrescenti (il potere legislativo e quello esecutivo), possibile che il rimanente terzo (potere giudiziario) sia l’unico commestibile? Certo che non lo è, è ovvio! La corruzione, in magistratura è a livelli raccapriccianti, “E’ prassi dividere il compenso con il magistrato. Tre su quattro sono corrotti” confessa Chiara Schettini (nomen omen) impiegata statale con la qualifica di giudice presso il Tribunale dei Fallimenti di Roma, anzi ex, visto che le hanno messo le manette ai polsi e poi sbattuta in galera con gravissime accuse di corruzione e peculato. Ricostruiamo quello che la stampa di regime non osa nemmeno sfiorare. “SONO PIU’ MAFIOSA DEI MAFIOSI” DICE SPAVALDAMENTE IL GIUDICE DI ROMA. La gente normale, quella che lavora per guadagnare e consegnare il bottino allo Stato vampiro, lo sa molto bene: se si può, meglio non fare causa! Si perde tempo, si perdono soldi e non si sa se ti andrà bene. E, stando a quanto sta emergendo da una prodigiosa inchiesta di cui prima o poi anche la stampa di regime sarà costretta a parlare, l’impressione poggia su basi solidissime. E sarebbe bene prendere le distanze da certa gente… più pericolosa dei delinquenti veri. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo [l’Avvocato insistente Ndr.] ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi! Alla faccia delle parole del magistrato “che c’azzecckkhhA” Di Pietro colui il quale, dopo il salto della scimmia ci ha assillato ripetendo come un disco scassato che dobbiamo “affidarci alla magistratura”! come no! Si accomodi lei Di Pietro, prima di noi (senza balbettare come le accadde quando se la vide bruttina a Milano). Nell’articolo della Di Giovacchino leggiamo inoltre: “L’amico Massimo è in realtà l’avvocato Vita. Mai ricevuto minacce? “Non da Grisolia, però mi hanno telefonato persone con accento calabrese, consigli…”. Messaggi? “Mi dicevano lasci perdere la vecchietta…” La “vecchietta” è Diana Ottini, un tipo tosto, La giudice le consegnò 500 mila euro stipulando una promessa di vendita posticipata di 10 anni, affinché acquistasse la sua casa dal Comune. Ma venuto il momento lei la casa se l’è tenuta e il Tribunale le ha dato ragione. Non è andata altrettanto bene a Francesca Chiumento, altra cliente dell’avvocato Vita, che da anni si batte per riconquistare il “suo” attico in via Germanico: 170 metri quadri, terrazza su tre livelli, che il padre aveva acquistato dagli eredi di Aldo Fabrizi. La casa finì all’asta, nei salotti romani si parla ancora della polizia arrivata con le camionette. Anche quell’asta porta la firma della Schettini: la famiglia Chiumento era pronta a pagare, a spuntarla fu un medico del Bambin Gesù che offrì 50 mila euro di meno. L’appartamento di via Germanico alla fine fu rivenduto per 1 milione e 800 mila euro a una coppia importante. Lei figlia di un costruttore, che ha tirato su villaggi turistici tra Terracina e Sperlonga, lui avvocato della banca che aveva offerto il mutuo ai legittimi proprietari” [Il Fatto Ibid.]. E pensare che questa sguaiata stipendiata statale ha campato una vita sulle spalle di noi contribuenti ed ha potuto nascondere le sue malefatte per anni dietro la protezione del ruolo affidatole dallo Stato e di persone della sua medesima risma. Tutti suoi colleghi e colleghe. Allucinante. Semplicemente allucinante. Solamente dopo essersi impaurita a causa dei giorni trascorsi in prigione, ha confessato che il suo ex compagno “Trafficava anche con il direttore di una filiale di Unicredit su 900 mila euro gliene dava 200 mila” come stecca [malagiustizia. Ibid.]. L’organizzazione funzionava a gonfie vele, il timore di essere scoperti non li sfiorava nemmeno: ‘Non ti preoccupare [la rincuorava il compagno, quello della stecca all’Unicredit] sarà rimesso tutto perfettamente”. Suscita la ripugnanza leggere la storia di questa squallida persona la quale, nel frattempo, con lo stipendio da funzionario statale è riuscita ad accumulare un patrimonio di quasi 5 milioni di euro (quasi 10 miliardi di Lire) oltre ad attici a Parigi e Miami, ville a Fregene, un rifugio a Madonna di Campiglio… A proposito: il figlio della carcerata si è rivelato meno sveglio della mamma ma comunque fatto della medesima pasta! Infatti, mentre alla madre venivano serrati i polsi con le manette, lui riceveva l’sms in cui la madre stessa gli ordinava di fare “quello che sa” (Il Fatto, ibid.). Si avete proprio capito bene. Il figlio diciottenne, evidentemente al corrente delle attività della madre (e del padre) ed istruito a dovere su come agire in caso di necessità, si è prontamente attivato rendendosi complice della vicenda facendo sparire la valigetta col contante, frutto di una delle corruzioni cui la madre era avvezza. Solo che le sue limitate capacità hanno consentito, a chi ha effettuato la perquisizione, di ritrovare tutto all’istante. Ed il Consiglio Superiore della Magistratura dormiva in questi anni? Certo che no! Provvedeva, come fa spessissimo, a trasferirla presso la procura di l’Aquila per ragioni di incompatibilità ambientale. Non sarebbe male saperne di più su questa scelta curiosa. Che questa sia una vicenda riguardante un pugno di magistrati e non tutti i componenti della magistratura è lapalissiano, scontato ed evidente. E CI MANCHEREBBE ALTRO! Ma sappiate che il punto della questione non è arrivare a pronunciare frasi vuote quanto idiote del genere “Sono tutti uguali. Tra cani non si mordono…” qui c’è solo da fare una cosa: il POPOLO deve riconoscere il proprio ruolo di SOVRANO! E poi, non resta che risalire alla fonte del problema e, per farlo, NOI uomini e donne della cosiddetta “società civile” abbiamo il dovere di emanciparci. Se c’intendessimo (mi ci metto dentro anch’io – sebbene non sia un tifoso) di finanza e Stato come di calcio e cucina, con l’aiuto dei nostri veri angeli custodi seri (ed in magistratura ce ne sono eccome), il nostro futuro sarebbe radioso. Ripartire da un punto fermo è cogente. Tale punto risiede nella battaglia “persa contro la magistratura che è stata perduta quando abbiamo abrogato l’immunità parlamentare, che esistono in tutto il Mondo, ovvero quando Mastella, da me avvertito, si è abbassato il pantalone ed ha scritto sotto dittatura di quell’associazione sovversiva e di stampo che è l’Associazione Nazionale Magistrati” – F. Cossiga, Di Pietro… Ibid.
Non dimentichiamoci che di magistrati parliamo e delle loro ambizioni.
Il giudice "pagato" con prostitute di lusso. Quell'ambizione: «Dovevo fare il mafioso». Il profilo di un magistrato finito nell'occhio del ciclone per i suoi rapporti molto stretti con il boss Lampada, già condannato a quattro anni di carcere e sospeso dal servizio, scrive “Il Quotidiano Web”. Il giudice Giancarlo Giusti, arrestato e posto ai domiciliari il 14 febbraio 2014 dalla squadra mobile di Reggio Calabria, era stato condannato dal gup di Milano a 4 anni di reclusione il 27 settembre 2012 ed il giorno successivo aveva tentato il suicidio nel carcere milanese di Opera in cui era detenuto. Soccorso dalla polizia penitenziaria, era stato poi ricoverato in ospedale in prognosi riservata. Successivamente aveva ottenuto gli arresti domiciliari. Giusti, dal 2001 giudice delle esecuzioni immobiliari a Reggio Calabria e poi dal 2010 gip a Palmi, era stato arrestato per corruzione aggravata dalle finalità mafiose il 28 marzo 2012 nell’ambito di una inchiesta della Dda di Milano sulla presunta cosca dei Valle-Lampada e, in particolare, in un filone relativo alla cosiddetta "zona grigia". La Dda di Milano gli ha contestato di essere sostanzialmente a “libro paga” della 'ndrangheta. In particolare, i Lampada, sempre secondo l’accusa, non solo gli avrebbero offerto ''affari”, ma avrebbero anche appagato quella che il gip di Milano, nell’ordinanza di custodia cautelare, aveva definito una vera e propria “ossessione per il sesso”, facendogli trovare prostitute in alberghi di lusso milanesi. Per il giudice di Palmi il clan organizzava viaggi nel nord Italia e incontri con alcune escort. Una ventina di fine settimana di piacere al Nord, in cui gli venivano messe a disposizione prostitute con le quali avrebbe intrattenuto rapporti in un hotel della zona del quartiere San Siro. L’inchiesta che scoperchia qualche figura della “zona grigia” che protegge, favorisce, aiuta o in qualche modo è amica della ‘ndrangheta tra Milano e Reggio Calabria allinea numerosi episodi, e ovviamente si avvale di alcune intercettazioni telefoniche e ambientali. Eccone una che riguarda proprio Giancarlo Giusti, invitato a Milano, all’hotel Brun. La toga non paga mai. Per lui il conto è saldato da un boss del calibro di Giulio Lampada, per una spesa totale di 27mila euro. Senza parlare di quanto costavano le ragazze, tutte identificate. C’era la ceca Jana, quarantenne, le russe Zhanna 36 anni, ballerina al Rayto de Oro, a La Tour, al Venus, e altri night di Milano e del nord, ed Elena, 41 anni, la kazaca Olga, 34 anni, e la slovena Denisa, 27 anni. Giusti, per telefono, si lascia andare: «... Dovevo fare il mafioso, non il giudice...» Giusti e Lampada sono ovviamente in ottimi rapporti, il magistrato gli dice che arriva a Milano «la settimana che entra o la prossima... Dipende dal cugino del tuo caro amico medico!... di Giglio!! no?!», e Giglio sta per Vincenzo, il collega magistrato, presidente del tribunale per le misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria, come conferma lo stesso Lampada. Parlando del “medico”, che si chiama pure lui Vincenzo Giglio. Ecco uno stralcio delle intercettazioni:
LAMPADA (riferendosi al magistrato Vincenzo Giglio): «...Del nostro Presidente, dobbiamo dire!!... Il Presidente delle misure di prevenzione di tutta Reggio Calabria! Sai che dobbiamo fare?.....».
GIUSTI: «... che facciamo, che facciamo??».
LAMPADA: «lo convochiamo qualche giorno su a Milano e lo invitiamo... come la vedi tu?».
GIUSTI: «... minchia!! guarda!! dobbiamo parlarne col medico!!!...(ride)...».
LAMPADA: «Non dirgli nulla che ti ho detto che è un mese che non ci sentiamo!».
GIUSTI: «... Tu ancora non hai capito chi sono io... sono una tomba, peggio di.. ma io dovevo fare il mafioso, non il Giudice... però l’idea di portarci il Presidente a Milano non è male, sai?!... Lo vorrei vedere di fronte ad una steccona!!».
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!
Italiani del Cazzo, sì. Italiani che, anzichè prender a forconate i potenti impuniti, responsabili della deriva italica, per codardia le loro ire le rivolgono a meridionali ed extracomunitari. D’altro canto, per onestà intellettuale, bisogna dire che i meridionali questi strali razzisti se li tirano, perchè nulla fanno per cambiare le loro sorti di popolo occupato ed oppresso dalle forze politiche ed economiche nordiche.
Radio Padania. Radio Vergogna. Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania“, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.
Questa è la mia proposta di riforma costituzionale senza intenti discriminatori.
PRINCIPI COSTITUZIONALI
L'ITALIA E' UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA E FEDERALE FONDATA SULLA LIBERTA'. I CITTADINI SONO TUTTI UGUALI E SOLIDALI.
I RAPPORTI TRA CITTADINI E TRA CITTADINI E STATO SONO REGOLATI DA UN NUMERO RAGIONEVOLE DI LEGGI, CHIARE E COERCITIVE.
LE PENE SONO MIRATE AL RISARCIMENTO ED ALLA RIEDUCAZIONE, DA SCONTARE CON LA CONFISCA DEI BENI E CON LAVORI SOCIALMENTE UTILI.
E' LIBERA OGNI ATTIVITA' ECONOMICA, PROFESSIONALE, SOCIALE, CULTURALE E RELIGIOSA. IL SISTEMA SCOLASTICO O UNIVERSITARIO ASSICURA L'ADEGUATA COMPETENZA. LE SCUOLE O LE UNIVERSITA' SONO RAPPRESENTATE DA UN PRESIDE O UN RETTORE ELETTI DAGLI STUDENTI O DAI GENITORI DEI MINORI. IL PRESIDE O IL RETTORE NOMINA I SUOI COLLABORATORI, RISPONDENDO DELLE LORO AZIONI PRESSO LA COMMISSIONE DI GARANZIA.
LO STATO ASSICURA AI CITTADINI OGNI MEZZO PER UNA VITA DIGNITOSA.
IL LAVORO SUBORDINATO PUBBLICO E PRIVATO E' REMUNERATO SECONDO EFFICIENZA E COMPETENZA. LE COMMISSIONI DISCIPLINARI SONO COMPOSTE DA 2 RAPPRESENTANTI DEI LAVORATORI E PRESIEDUTE DA UN DIRIGENTE PUBBLICO O AZIENDALE.
LO STATO CHIEDE AI CITTADINI IL PAGAMENTO DI UN UNICO TRIBUTO, SECONDO IL SUO FABBISOGNO, SULLA BASE DELLA CONTABILITA' CENTRALIZZATA DESUNTA DAI DATI INCROCIATI FORNITI TELEMATICAMENTE DAI CONTRIBUENTI, CON DEDUZIONI PROPORZIONALI E DETRAZIONI TOTALI. AGLI EVASORI SONO CONFISCATI TUTTI I BENI. LO STATO ASSICURA A REGIONI E COMUNI IL SOSTENTAMENTO E LO SVILUPPO.
E' LIBERA LA PAROLA, CON DIRITTO DI CRITICA, DI CRONACA, D'INFORMARE E DI ESSERE INFORMARTI.
L'ITALIA E' DIVISA IN 30 REGIONI, COMPRENDENTI I COMUNI CHE IVI SI IDENTIFICANO.
IL POTERE E' DEI CITTADINI. IL CITTADINO HA IL POTERE DI AUTOTUTELARE I SUOI DIRITTI.
I SENATORI E I DEPUTATI, IL CAPO DEL GOVERNO, I MAGISTRATI, I DIFENSORI CIVICI SONO ELETTI DAI CITTADINI CON VINCOLO DI MANDATO. ESSI RAPPRESENTANO, AMMINISTRANO, GIUDICANO E DIFENDONO SECONDO IMPARZIALITA', LEGALITA' ED EFFICIENZA IN NOME, PER CONTO E NELL'INTERESSE DEI CITTADINI. ESSI SONO RESPONSABILI DELLE LORO AZIONI E GIUDICATI DA UNA COMMISSIONE DI GARANZIA CENTRALE E REGIONALE.
GLI AMMINISTRATORI PUBBLICI NOMINANO I LORO COLLABORATORI, RISPONDENDONE DEL LORO OPERATO.
LA COMMISSIONE DI GARANZIA, ELETTA DAI CITTADINI, E' COMPOSTA DA UN SENATORE, UN DEPUTATO, UN MAGISTRATO, UN RETTORE, UN DIFENSORE CIVICO CON INCARICO DI PRESIDENTE. LA COMMISSIONE CENTRALE GIUDICA IN SECONDO GRADO E IN MODO ESCLUSIVO I MEMBRI DEL GOVERNO. ESSA GIUDICA, ANCHE, SUI CONTRASTI TRA LEGGI E TRA FUNZIONI.
IL DIFENSORE CIVICO DIFENDE I CITTADINI DA ABUSI OD OMISSIONI AMMINISTRATIVE, GIUDIZIARIE, SANITARIE O DI ALTRE MATERIE DI INTERESSE PUBBLICO. IL DIFENSORE CIVICO E' ELETTO IN OCCASIONE DELLE ELEZIONI DEL PARLAMENTO, DEL CONSIGLIO REGIONALE E DEL CONSIGLIO COMUNALE.
I 150 SENATORI SONO ELETTI PROPORZIONALMENTE, CON LISTE REGIONALI, TRA I MAGISTRATI, GLI AVVOCATI, I PROFESSORI UNIVERSITARI, I MEDICI, I GIORNALISTI.
I 300 DEPUTATI SONO ELETTI, CON LISTE REGIONALI, TRA I RESTANTI RAPPRESENTANTI LA SOCIETA' CIVILE.
IL PARLAMENTO VOTA E PROMULGA LE LEGGI PROPOSITIVE E ABROGATIVE PROPOSTE DAL GOVERNO, DA UNO O PIÙ PARLAMENTARI, DA UNA REGIONE, DA UN COMITATO DI CITTADINI. IL GOVERNO, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANA I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE FEDERALE. LE REGIONI, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANANO I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE REGIONALE.
LA PRESENTE COSTITUZIONE SI MODIFICA CON I 2/3 DEL VOTO DELL’ASSEMBLEA PLENARIA, COMPOSTA DAI MEMBRI DEL PARLAMENTO, DEL GOVERNO E DAI PRESIDENTI DELLE GIUNTE E DEI CONSIGLI REGIONALI. ESSA E' CONVOCATA E PRESIEDUTA DAL PRESIDENTE DEL SENATO.
Invece c'è chi vuole solamente i meridionali: föra,o foeura, di ball.
L'Indipendentismo padano, da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La bandiera della Padania proposta dalla Lega Nord, con al centro il Sole delle Alpi. L'indipendentismo padano o secessionismo padano è un'ideologia politica nata negli anni novanta del XX secolo e promossa storicamente dal partito politico Lega Nord, che cita testualmente nel proprio statuto l'indipendenza della Padania. L'ideologia è stata sostenuta o è sostenuta anche da altri partiti, come la Lega Padana, alternativa alla Lega Nord, da essi considerata filo-romana, e da figure, afferenti nella loro storia politica alla Lega Nord, come lo scrittore Gilberto Oneto, il politologo Gianfranco Miglio e Giancarlo Pagliarini. La Padania per alcuni geografi economici di inizio Novecento, corrispondeva al territorio italiano sito a nord degli Appennini. Gli indipendentisti padani di fine Novecento affermano che un territorio comprensivo di gran parte dell'Italia settentrionale (la Lega Padana teorizza una Padania formata da quattro nazioni: Subalpina, Lombarda, Serenissima e Cispadana) o centro-settentrionale (la Lega Nord estende più a sud tale confine), di estensione territoriale differentemente definita dai partiti stessi, e da essi stessi ribattezzato "Padania" (toponimo sinonimo di val padana, la valle del fiume Po, in latino Padus), sarebbe abitato da popoli distinti per lingua, usi, costumi e storia, chiamati nazioni della Padania e riconducibili, nelle loro differenze, a un unico popolo padano e che sarebbero stati resi partecipi contro la loro volontà del Risorgimento e, conseguentemente, dello Stato italiano; pertanto propugnano la secessione di queste nazioni dalla Repubblica Italiana e la creazione di una repubblica federale della Padania rispettosa delle peculiarità di ciascuna di esse. A fronte di alcuni geografi che ad inizio XX secolo solevano dividere il Regno d'Italia in Padania ed Appenninia, sino agli anni ottanta il termine Padania era principalmente usato con significato geografico per la pianura Padana, ma anche con accezione poetica, come dimostra l'opera dello scrittore Gianni Brera e nell'ambito di studi linguistici ed etnolinguistici nonché socio-economici. Il termine acquisisce, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, un significato politico - ovverosia comincia a essere utilizzato per indicare la Padania come, a seconda delle posizioni, reale o pretesa entità politica -, grazie al suo utilizzo costante da parte degli esponenti e dei simpatizzanti del partito politico Lega Nord, nato il 22 novembre 1989 dall'unione di vari partiti autonomisti dell'Italia settentrionale originatesi nel decennio precedente, tra i quali la Lega Lombarda, fondata il 10 marzo 1982 da Umberto Bossi, che diviene guida del nuovo movimento politico. Grazie al successo politico del partito e ai mezzi di comunicazione di massa, tale accezione politica del termine è entrata da allora a far parte della lingua corrente e del dibattito politico. La Lega propose inizialmente un'unione federativa della macro-regione Padania, dotata di autonomia, con le restanti parti dello Stato italiano, come forma di riconoscimento e tutela delle peculiarità etnico-linguistiche delle nazioni della Padania. Fallito il progetto e raggiunto un successo elettorale considerevole promosse il concetto di secessione della Padania dall'Italia, proclamata il 15 settembre 1996 a Venezia. La secessione è stata, successivamente al Congresso di Varese, messa parzialmente da parte a favore della Devoluzione, ovverosia del trasferimento di parte significativa delle competenze legislative e amministrative dallo Stato centrale alle regioni, e del federalismo fiscale. Una prima riforma della costituzione verso una maggiore autonomia delle regioni è stata approvata nel 2001. Una seconda riforma sempre in questo senso del 2005 è stata invece bocciata con il referendum costituzionale del 2006.
« Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: la Padania è una Repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore.» (Umberto Bossi, dichiarazione d'indipendenza della Padania, 15 settembre 1996)
Il 15 settembre 1996 a Venezia, nel corso di una manifestazione della Lega Nord, Umberto Bossi ha proclamato, al culmine della politica secessionista del partito, l'indizione di un referendum per l'indipendenza della Padania e ha battezzato il nuovo soggetto istituzionale con il nome di Repubblica Federale della Padania. Il 25 maggio 1997 si è svolto il "Referendum per l'Indipendenza della Padania". Oltre al SI/NO per il referendum, si è votato anche per il Presidente del "Governo Provvisorio della Repubblica Federale della Padania" e per sei disegni di legge di iniziativa popolare da presentare al Parlamento italiano. La Lega Nord ha predisposto i seggi elettorali in tutti i Comuni della supposta Padania. La Repubblica Federale della Padania non è stata mai riconosciuta formalmente da alcuno stato sovrano, né dalle altre forze politiche italiane. L'unico supporto in tal senso è venuto dal partito svizzero della Lega dei Ticinesi. In seguito alla dichiarazione d'indipendenza furono avviate delle inchieste giudiziarie a Venezia, Verona, Torino, Mantova e Pordenone per attentato all'unità dello stato, poi archiviate, e si ebbero scontri tra forze dell'ordine e militanti leghisti in Via Bellerio a Milano, sede della Lega Nord. Per quanto la dichiarazione di secessione non abbia comportato la reale separazione della Padania dall'Italia, la Lega Nord ha da allora promosso e continua a promuovere attivamente la concezione della Padania come entità politica attraverso la creazione e il mantenimento di strutture e organi rappresentativi delle Nazioni della Padania nonché attraverso la promozione di iniziative sportive e sociali di carattere indipendentista o quantomeno autonomista: ha costituito un Governo padano con un proprio parlamento, ha designato Milano capitale della Padania, il Va, pensiero di Giuseppe Verdi suo inno ufficiale, il Sole delle Alpi verde in campo bianco sua bandiera ufficiale, il verde come colore nazionale, ha creato le lire padane e i francobolli padani, una propria Guardia Nazionale, un proprio ente sportivo riconosciuto nel CONI sport Padania e, come organi di stampa ufficiali, il quotidiano La Padania, il settimanale Il Sole delle Alpi, l'emittente radiofonica Radio Padania Libera e l'emittente televisiva TelePadania. Vi fu anche la formazione spontanea, tra i militanti leghisti, delle cosiddette camicie verdi. La Lega Nord ha anche creato una Nazionale di calcio della Padania, non riconosciuta né a livello italiano, né a livello internazionale. Questa selezione Padana ha vinto per 3 volte consecutive il mondiale per le nazioni non riconosciute, la VIVA World Cup, battendo la selezione del Samiland (2008), quella del Kurdistan (2009) e quella della Lapponia (2010). Inoltre il partito padano sponsorizza il concorso di bellezza Miss Padania, aperto a tutte le giovani donne residenti in una regione della Padania da almeno 10 anni consecutivi e di età compresa tra i 17 e i 28 anni. Tra i requisiti necessari per partecipare al concorso vi è anche l'obbligo di non rilasciare dichiarazioni non in linea con gli ideali dei movimenti che promuovono la Padania. Nel 2009 la Lega Nord, in particolare tramite Umberto Bossi, promosse la realizzazione del film storico Barbarossa, coprodotto dalla Rai. Il film, incentrato sulle vicende della Lega Lombarda nel XII secolo, non ebbe buon riscontro né di critica né di pubblico. Il 2011 ha visto la prima edizione dell'evento ciclistico Giro di Padania. Il 26 ottobre 1997 la Lega Nord organizzò le prime elezioni per i 210 seggi del Parlamento Padano. Circa 4 milioni di Italiani residenti nelle regioni settentrionali, 6 secondo il Partito, si recarono ai seggi e scelsero tra diversi partiti padani. Il Parlamento della Padania, creato nel 1996 e oggi denominato Parlamento del Nord, ha sede nella Villa Bonin Maestrallo di Vicenza, che ha sostituito l'originale sede a Bagnolo San Vito in Provincia di Mantova. Si affianca al Governo della Padania, con sede a Venezia, che, storicamente, è stato guidato prima da Giancarlo Pagliarini (1996-97), da Roberto Maroni (1997-98), da Manuela Dal Lago (1998-99) ed è attualmente guidato da Mario Borghezio (dal 1999). Nell'esecutivo presieduto da Pagliarini, Fabrizio Comencini era Ministro degli esteri, subito dimessosi fu sostituito da Enrico Cavaliere, Giovanni Fabris della Giustizia, Alberto Brambilla del Bilancio e Giovanni Robusti, capo dei Cobas del latte, dell'Agricoltura. Nel governo presieduto da Maroni, il cui vice era Vito Gnutti, è stato introdotto un Ministero dell'Immigrazione, presieduto da Farouk Ramadan. L'esecutivo guidato da Manuela Dal Lago comprendeva Giancarlo Pagliarini come vice presidente e Ministro dell'Economia, Giovanni Fabris alla Giustizia, Alessandra Guerra agli Esteri, Flavio Rodeghiero alla Cultura e all'Istruzione, Giovanni Robusti all'Agricoltura, Roberto Castelli ai Trasporti, Francesco Formenti all'Ambiente, Sonia Viale agli Affari Sociali e della Famiglia, Alfredo Pollini, presidente della Guardia Nazionale Padana, alla Protezione Civile, Francesco Tirelli, del CONI sport Padania, allo Sport e Roberto Faustinelli, presidente di Eridiana Records, allo Spettacolo. Secondo l'art. 2 dello Statuto 2012, la Lega Nord considera il Movimento come una Confederazione delle Sezioni delle seguenti Nazioni: La Lega afferma dunque che il progetto della Padania comprende tutte le otto regioni dell'Italia settentrionale più le regioni dell'Italia centrale Toscana, Umbria e Marche, mentre al 2011 la sua attività si è estesa anche in Abruzzo e Sardegna. Il territorio rivendicato dalla Lega Nord come costituente la Padania comprende 160.908 km² di Italia, ossia il 53,39% del territorio dell'Italia (di 301.340 km²) e il 56,15% della sua popolazione (vedere tabella sottostante). Le rivendicazioni politiche padane ricomprendono quindi un territorio maggiore di quello riconducibile al significato geografico del termine Padania, che è geograficamente riferito alla sola Pianura Padana. La linea apertamente secessionista fatta propria dalla Lega Nord portò, tra il 1996 e il 2000, a un isolamento del movimento nel panorama politico italiano, col risultato che, nelle zone dove il radicamento leghista era minore, i suoi candidati alle elezioni amministrative erano nettamente svantaggiati rispetto a quelli di centrodestra e di centrosinistra, generalmente appoggiati da più liste. Per cercare di rimediare a questa situazione, nel settembre del 1998 Bossi lanciò il cosiddetto Blocco padano, una coalizione formata dalla Lega Nord con diverse liste in rappresentanza di varie categorie sociali e produttive del territorio. Già alle elezioni amministrative dell'aprile 1997 altre liste che si richiamavano apertamente all'indipendentismo avevano affiancato la Lega Nord: Agricoltura padana; Lavoratori padani; Padania pensione sicura; Non chiudiamo per tasse! - Artigianato, commercio, industria. Il risultato di queste liste fu complessivamente molto modesto, e nella maggior parte dei casi esse non riuscirono a portare i candidati leghisti al ballottaggio. Le ultime tre liste ottennero complessivamente l'1,1% al comune di Milano e lo 0,8% al comune di Torino. L'Agricoltura padana ebbe l'1,9% alla provincia di Pavia e i Lavoratori padani lo 0,9% alla provincia di Mantova. Un risultato di un certo rilievo fu però ottenuto dai Lavoratori padani nell'autunno dello stesso anno al comune di Alessandria, dove con il 4,4% contribuirono alla rielezione del sindaco uscente Francesca Calvo ed ebbero diritto a tre consiglieri. Nel 1998 il Blocco padano, di cui il coordinatore doveva essere il parlamentare europeo ed ex sindaco di Milano Marco Formentini, fu annunciato come costituito fondamentalmente da cinque partiti, oltre alla Lega: Terra (evoluzione di Agricoltura padana, con a capo Giovanni Robusti, portavoce dei Cobas del latte); Lavoratori padani; Pensionati padani (evoluzione di Padania pensione sicura, con a capo Roberto Bernardelli); Imprenditori padani (evoluzione di Non chiudiamo per tasse!); Cattolici padani (già presentatosi alle elezioni per il Parlamento della Padania del 1997, con a capo Giuseppe Leoni). A questi si unirono a seconda dei casi anche liste civiche di portata locale, che talvolta ebbero maggior fortuna: a Udine Sergio Cecotti raggiunse il ballottaggio e fu poi eletto sindaco grazie all'apporto di due liste civiche, senza che i partiti "regolari" del Blocco padano fossero presenti. La coalizione nel suo complesso risentì del calo di consensi generalizzato subito dalla Lega Nord, tanto che dopo il 1999 non fu più ripresentata se non in maniera sporadica, anche perché la Lega Nord, entrando a pieno titolo nella Casa delle Libertà, trovò alleati di maggiore consistenza elettorale.
Lega secessionista: ora vuole il Veneto indipendente, scrive "Globalist". L'1 e il 2 marzo 2014 i gazebo per la raccolta firme. Dopo oltre vent'anni di lotta per la Padania, ancora in Italia, ora il Carroccio riparte dal Nord Est. Che la voglia di secessione della Lega non si sia mai placata, è cosa nota. A volte viene messa da parte, per lasciare spazio ad altre battaglie come quella contro l'euro o contro lo ius soli, ma comunque è sempre lì, appesa alla mente del segretario Matteo Salvini e dei suoi compagni. E così ogni tanto torna a galla, come in questi giorni. E se tutto il Nord non si può staccare, almeno ci si può provare con una sua parte. Come il Veneto, ad esempio. "La Lega corre, la Lega c'è. La voglia d'indipendenza è tanta, sia da Roma, sia da Bruxelles" ha detto Salvini, intervendo a Verona con i vertici regionali del Carroccio per presentare la raccolta firme per il referendum per l'indipendenza del Veneto, che si terrà sabato e domenica in tutta la regione. "L'indipendenza da Bruxelles - ha aggiunto - è necessaria perchè fuori dall'euro riparte la speranza, riparte il lavoro, ripartono gli stipendi. L'indipendenza da Roma perchè sostanzialmente l'Italia ormai è un Paese fallito". Ogni anno, è la considerazione del segretario, "il Veneto regala 21 miliardi allo stato italiano ricevendo in cambio servizi da poco o niente". Dopo oltre 20 anni di tentativi secessionisti, dunque, la Lega riparte dal Nord-Est. Perché magari, potrebbe essere il pensiero, l'indipendenza si può ottenere a piccoli passi visto che la Padania, nonostante il loro impegno, continua a restare in Italia. "I veneti sono uniti da una lingua e da una cultura e hanno diritto alla propria autodeterminazione - ha detto la senatrice leghista, Emanuela Munerato -. Solo compatti e votando sì a questo referendum potremo fare scuola e aprire la strada anche alle altre regioni decretando l'inizio della fine del centralismo romano che sta uccidendo la nostra cultura e la nostra economia".
Non solo legisti.....
Grillo chiama gli italiani alla secessione. Sul suo blog il comico contro «l'arlecchinata» dei mille popoli, scrive Barbara Ciolli “Lettera 43”. Altro che Lega Nord, anche Beppe Grillo, leader del Movimento 5 Stelle, archiviate le espulsioni dal partito, grida alla secessione. Peggio ancora, al big bang, all'«effetto domino di un castello di carta», alla diaspora dei mille «popoli, lingue e tradizioni che non hanno più alcuna ragione di stare insieme» e «non possono essere gestiti da Roma». «Un'arlecchinata» bella e buona, a detta del comico ligure che ha postato sul suo blog l'ennesima e forse maggiore provocazione: «E se domani l'Italia si dividesse, alla fine di questa storia, iniziata nel 1861, funestata dalla partecipazione a due guerre mondiali e a guerre coloniali di ogni tipo, dalla Libia all'Etiopia» scrive il Beppe, suo malgrado, nazionale, parafrasando ironicamente - e populisticamente - la canzone di Mina? Sotto, il testo apparso l'8 marzo 2014 in Rete: «Italia, incubo dove la democrazia è scomparsa. Non può essere gestita da Roma». «Quella iniziata nel 1861 è una storia brutale, la cui memoria non ci porta a gonfiare il petto, ma ad abbassare la testa. Percorsa da atti terroristici inauditi per una democrazia assistiti premurosamente dai servizi deviati (?) dello Stato. Quale Stato? La parola "Stato" di fronte alla quale ci si alzava in piedi e si salutava la bandiera è diventata un ignobile raccoglitore di interessi privati gestito dalle maitresse dei partiti. E se domani, quello che ci ostiniamo a chiamare Italia e che neppure più alle partite della Nazionale ci unisce in un sogno, in una speranza, in una qualunque maledetta cosa che ci spinga a condividere questo territorio che si allunga nel Mediterraneo, ci apparisse per quello che è diventata, un'arlecchinata di popoli, di lingue, di tradizioni che non ha più alcuna ragione di stare insieme? La Bosnia è appena al di là del mare Adriatico. Gli echi della sua guerra civile non si sono ancora spenti. E se domani i Veneti, i Friulani, i Triestini, i Siciliani, i Sardi, i Lombardi non sentissero più alcuna necessità di rimanere all'interno di un incubo dove la democrazia è scomparsa, un signore di novant'anni decide le sorti della Nazione e un imbarazzante venditore pentole si atteggia a presidente del Consiglio, massacrata di tasse, di burocrazia che ti spinge a fuggire all'estero o a suicidarti, senza sovranità monetaria, territoriale, fiscale, con le imprese che muoiono come mosche. E se domani, invece di emigrare all'estero come hanno fatto i giovani laureati e diplomati a centinaia di migliaia in questi anni o di "delocalizzare" le imprese a migliaia, qualcuno si stancasse e dicesse "Basta!" con questa Italia, al Sud come al Nord? Ci sarebbe un effetto domino. Il castello di carte costruito su infinite leggi e istituzioni chiamato Italia scomparirebbe. È ormai chiaro che l'Italia non può essere gestita da Roma da partiti autoreferenziali e inconcludenti. Le regioni attuali sono solo fumo negli occhi, poltronifici, uso e abuso di soldi pubblici che sfuggono al controllo del cittadino. Una pura rappresentazione senza significato. Per far funzionare l'Italia è necessario decentralizzare poteri e funzioni a livello di macroregioni, recuperando l'identità di Stati millenari, come la Repubblica di Venezia o il Regno delle due Sicilie. E se domani fosse troppo tardi? Se ci fosse un referendum per l'annessione della Lombardia alla Svizzera, dell'autonomia della Sardegna o del congiungimento della Valle d'Aosta e dell'Alto Adige alla Francia e all'Austria? Ci sarebbe un plebiscito per andarsene. E se domani...» Si attendono reazioni.
ADDIO AL SUD.
"Addio al sud" di Angelo Mellone, scrive Paolo Tripaldi su “Il Corriere Romano”. Verrà un giorno in cui tutti i meridionali d'Italia, sparsi un po' ovunque, faranno rientro in patria per sconfiggere definitivamente tutti i mali che hanno affossato per anni il Sud. "Addio al Sud", poema dello scrittore tarantino Angelo Mellone, non è una resa bensì una voglia di rinascita, una chiamata alle armi contro il Sud malato e incapace di riscatto. Un poema che parla al cuore e allo stomaco di ogni meridionale e che cerca di farla finita con ogni stereotipo, con il piangersi addosso e con il pensare che le colpe siano sempre degli altri. "Il punto di vista di questa voce narrante - scrive Andrea Di Consoli nella prefazione di Addio al Sud - è il punto di vista di chi è scampato a un naufragio, cioè di chi, senza sapere bene da cosa, si è salvato da un male ineffabile". Mellone ci ricorda però che anche se lontani il Sud continua a chiamare: "Tu, chiunque sarai, i vestiti e i profumi e l'accento che saprai sfoggiare, sempre da lì vieni. Da lì. Lì dove la salsedine non dà tregua e l'umido fa sudare d'inverno e sconfigge qualsiasi acconciatura e il sole, quando c'è, e si fa tramonto, ti uccide di bellezza". Lo sapeva bene Leonida di Taranto, poeta del III secolo a.c., che aveva scelto l'esilio dalla propria patria per non essere schiavo dei romani e che aveva scritto in un suo celebre epitaffio: "riposo molto lontano dalla terra d'Italia e di Taranto mia Patria e ciò m'è più amaro della morte". L'Addio al Sud di Angelo Mellone è un addio ai mali del meridione: alla criminalità, all'assistenzialismo, alla industrializzazione selvaggia che ha inquinato i territori, al nuovo fenomeno del turismo predatorio. E' un invito anche ad abbandonare il 'pensiero meridiano' del sociologo Franco Cassano. "Smettiamola con la follia del pensiero meridiano - scrive Mellone - questa scemenza dell'attesa, dell'andare lento, della modernità differente, della sobrietà della decrescita", tutte scusanti "al difetto meridionale dell'amor fati". Mellone passa in rassegna tutti gli episodi che negli ultimi anni hanno affossato ancora di più il Sud: il fenomeno del caporalato, i fatti di Villa Literno, gli omicidi di camorra. Il racconto ci consegna immagini di una sottocultura del sud che partendo dall'omicidio di Avetrana giunge fino ai fenomeni populisti di Luigi de Magistris e Nichi Vendola. "Voglio tornare a Sud a fare la guerra - scrive Angelo Mellone - senza quartiere, senza paese, senza tregua, senza compromessi, con le micce del carbonaro di patria folle, con le ruspe spianando strade a un esercito che si tiene per mano, con la sola divisa dipinta dell'amore infedele che testardamente continui ad amare”. Addio al Sud, che nel sottotitolo e’ chiamato “un comizio furioso del disamore”, è in realtà un atto d’amore per una terra che è sempre nel centro del cuore.
Perché è impossibile dire addio al Sud. Il Meridione ha ancora la forza per rialzarsi, scrive Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”. Di Sud, in Italia, si parla tanto e si ragiona poco. E così le domande che si ponevano i grandi meridionalisti - i Cuoco, i Salvemini, i Fortunato - da decenni restano senza risposta: perché il Meridione italiano, terra di assoluta bellezza e di immense potenzialità, continua a galleggiare nel sottosviluppo e non impedire che i suoi figli migliori, quelli che Piercamillo Falasca ha definito «Terroni 2.0», facciano la valigia per emigrare (anche con un pizzico di risentimento)? A questa domanda prova a rispondere un poema civile scritto da Angelo Mellone, Addio al Sud, definito nel sottotitolo «un comizio furioso del disamore» (Irradiazioni, pp. 80, 8, prefazione di Andrea Di Consoli), una sorta di orazione civile tecno-pop congegnata come reading teatrale. Mellone ribalta due cliché dominanti. Il primo è quello del brigantaggio: qui l'autore trova il coraggio, da meridionale, di ammettere - in quanto «fottuto nazionalista» - che avrebbe scelto di arruolarsi con l'esercito italiano per combattere i Carmine Crocco e i Ninco Nanco, per «piantare tricolori su antiche maledizioni». Il secondo oggetto polemico di Addio al Sud è il nuovo meridionalismo, ovvero quel «pensiero meridiano» - sostenuto, ad esempio, dal sociologo Franco Cassano - che vorrebbe un Sud lento, sobrio, canicolare, che cammina a piedi e ammicca al mito della decrescita o all'idea del Meridione italiano come avanguardia di un'improbabile «alternativa allo sviluppo». Al contrario, il Sud di Mellone anela alla velocità, alla modernità, sia pure a una modernità intrisa di miti antichi e di antichi caratteri comunitari. Scrive Di Consoli nella prefazione: «Questo poema è, in definitiva, una dolorosa "possibilità di prendere congedo", ma è anche una possibilità della rifondazione di un patto "oscuro", ancestrale, e che dunque può essere tramandato nei tempi come accade in tutte le comunità che hanno conosciuto la diaspora, o il suo fantasma». Mellone infatti non sigla una lettera di abbandono dall'identità meridionale, ma rilancia la sfida immaginando che il Sud migliore - emigrato ovunque negli ultimi anni - a un certo punto decida di tornare a casa. In quel momento, dice l'autore, il Sud potrà finalmente essere salutato:
«Finita la guerra prenderò congedo
e solo allora dirò a mia figlia
e solo allora dirò a mio figlio:
tu questo sei.
Anche tu porti cenere, ulivo e salsedine.
Adesso anche tu vieni da Sud».
Quasi un congedo militare, anche se "i fuoriusciti" e i figli saranno chiamati, allorquando terminerà la fatica di Sisifo dell'eterno rientro - che è quasi un giorno d'attesa biblica - a una guerra civile contro il male del Sud: il fatalismo, il degrado, l'incuria del territorio, la dissoluzione del legame sociale, l'accettazione di un modello predatorio di turismo che rischia di distruggere nel breve periodo le bellezze meridionali. Difficile da argomentare, ma questo testo è un "addio" ed è anche un foglio di chiamate alle armi, e in questa contraddizione c'è tutta la modernità della posizione ineffettuale, e dunque estetizzante, di Mellone, che alla maniera di Pasolini si considera, rispetto al Sud, «con lui e contro di lui». Il suo è un appassionato "addio" al Mezzogiorno del rancore, della malavita, dell'inciviltà, della subcultura televisiva. È però anche un disperato e struggente ricordo di una giovinezza meridionale, al cui centro c'è Taranto, della quale Mellone ricorda le icone (il calciatore Erasmo Jacovone), le tragedie (l'Ilva, la mattanza criminale degli anni '80), gli aspetti più "privati" (la prematura morte del padre, la vendita della casa di famiglia). La narrazione scorre per icone, fotogrammi, eventi: dal delitto di Avetrana al matrimonio di Sofia Coppola, dai nuovi populismi (Vendola, de Magistris) alla camorra, dal caso Claps alla piaga del caporalato, Mellone attraversa e scandaglia con straordinaria velocità, e con alternarsi di registro basso e alto, l'immaginario contemporaneo collettivo del Meridione. Scrive per esempio su Sarah Scazzi: «Prendete tutta questa pornografia dell'incubo d'amore simboleggiata dallo scarto incolmabile tra il viso di Sarah Scazzi e il piercing, ripeto: il piercing, della cugina culona Sabrina Misseri di anni venti e due che forse a Taranto e nemmeno a Lecce sarà mai andata ma a Uomini e donne ha conosciuto il piercing che al padre dovrà essere parso roba da bestie all'aratro e non da esseri umani oggi le borgate di Pasolini sono i paesi del Sud in entroterra come Avetrana, tuguri dischiusi al mondo solo grazie all'antenna parabolica». Pugliese trapiantato a Roma, giornalista, scrittore, ora dirigente Rai, Angelo Mellone fa parte di quella generazione nata nei primi anni ’70 che da un giorno all’altro si sono ritrovati senza luoghi del dibattere e del confronto. Caduti i muri e le cortine, con essi sono crollati anche le sezioni e i partiti, luoghi simbolo del confronto e della sfida dialettica. E per chi aveva qualcosa da dire o da scrivere la strada è improvvisamente diventata ripida e scoscesa. Ma impegno e determinazione premiano sempre e se i luoghi non esistono, chi vuol farcela se li crea. La notorietà raggiunta nella capitale non gli ha fatto dimenticare le origini pugliesi, tarantine per la precisione. Una città che negli ultimi anni è balzata agli onori delle cronache prima per un tremendo dissesto di bilancio, poi per una sconsiderata gestione degli impianti industriali presenti sul territorio. E per dimostrare l’amore a l’attaccamento alla sua terra, Mellone ha ideato e messo in scena due monologhi poetici che andranno a far parte di una trilogia dedicata a Taranto: “Addio al Sud” e “Acciaiomare”. Quest’ultimo in particolare è una lunga requisitoria, (J’accuse!, direbbe Zola) nei confronti di un lembo di terra che oltre ad avergli offerto la vita lo ha costretto troppo presto a fare i conti con la morte. Ma quello scritto e cantato per la città di Taranto rimanendo pur sempre un eroico canto d’amore. «Acciaiomare. Il canto dell’industria che muore» (Marsilio Editore), tributo di amore e rabbia verso la propria terra martoriata. Un racconto impetuoso e rutilante, dedicato ai 500 caduti del siderurgico di Taranto, che diventa anche l’occasione per un reading teatrale che, mescolando parole, musica, immagini e rumori industriali, alza il sipario sull’industria morente del Sud che ha nell’ILVA il suo occhio del ciclone. Con lui sul palco, Raffaella Zappalà, Dj set Andrea Borgnino e Video di Marco Zampetti. Dopo il successo di «Addio al Sud. Un comizio furioso del disamore», Angelo Mellone scrive il secondo capitolo di una trilogia sulla sua terra, sempre nella forma di monologo poetico, di comizio civile e lirico. «AcciaioMare» è, in particolare, un canto funebre e peana d’amore, ma anche requisitoria e arringa al tempo stesso, invettiva ed engagez-vous, per un Sud e per una città (Taranto) al centro di uno dei più grandi casi economico-industriali al mondo. Mellone, in un caleidoscopio di immagini e ricordi, di luoghi e persone, di visioni ed emozioni, «scioglie all’urna un cantico» che ha la rabbia di una rivendicazione e l’amore di un figlio, il respiro della planata e la precisione del colpo secco. Perché "acciaio" a Taranto vuol dire tante, troppe cose, per chi ci vive e per chi da lì proviene. Lo scrittore (anche giornalista e dirigente di Radio Rai) concluderà la sua trilogia nel 2014, ma questo suo secondo lavoro è senz’altro quello più «doloroso»: con queste pagine Mellone si augura, infatti, di risvegliare «un minimo di coscienza» sul dramma del declino industriale italiano, nell’illusione di trasformare il Belpaese in una nazione di terziario avanzato, dimenticando così la Fabbrica e gli operai. Ma ora quei 500 e più eroi e martiri dell’acciaio (tra i quali c’è anche il papà di Mellone) hanno grazie a questo libro il loro "canto corale" e un sentito risarcimento alla loro memoria. Pagine toccanti dedicate soprattutto a suo padre, che Mellone accende di passione e rabbia, laddove racconta «di quando acciaio chiamava mare e su questa costa di Sparta nasceva l’industria della navi d’Impero e dei toraci siderurgici. Voglio raccontarti una storia d’amore. D’amore che muore». Così, che lo scorso mese d’agosto 2013 Mellone prese subito le difese «di un orgoglio siderurgico impacchettato in fretta e furia» per far posto «all’ondata ambientalqualunquista». E trasfromò le sue vacanze in un’indagine del suo passato. C’era una volta un ragazzino che quando a pranzo c’erano fave e cicoria restava digiuno. Sua madre voleva a tutti costi che le mangiasse, altrimenti pancia vuota. Oggi quel ragazzino mangerebbe tutti i giorni a pranzo e a cena il piatto principe della cucina pugliese. Che cosa è cambiato? Del piatto nulla, solo che allora gli era imposto oggi è una libera scelta.
Il vero Sud lo riscopri solo dal finestrino del treno. "Meridione a rotaia". Angelo Mellone conclude la sua trilogia lirica sul Meridione italiano, giungendo anche all’ultima fermata di un viaggio che è un canto appassionato e dolente, ma al tempo stesso un grido di rabbia, per la sua terra. Un ritorno nella propria terra, che è stata abbandonata anni prima con rabbia. Un ritorno a Meridione, compiuto con il mezzo che più associamo al viaggio: il treno. Sui treni sono partiti i primi emigrati meridionali, sulle carrozze di treni locali scassati, regionali in perenne ritardo, Intercity improbabili, l’Autore fa macchina indietro e, da Roma, arriva a Taranto. In mezzo a partenza e arrivo si alternano situazioni grottesche, aneddoti, ricordi, memorie dolorose, persino una pagina dedicata ai fanti meridionali mandati al massacro nella Prima guerra mondiale. Tutte queste pagine, che Mellone ci regala con lo stile consueto delle sue “orazioni civile”, accostano il tema tradizionale del ritorno a quello, nuovo per l’autore, di una riflessione sull’amore, che viaggia a ritroso attraverso due figure femminili e una singolare disquisizione sui tacchi... E dunque, se l’amore è contesto, radici, terra, e «Meridione tiene sempre i piedi per terra», per trovare amore autentico a Sud bisogna tornare. E questo fa, Meridione a rotaia, nelle scorribande tra paesini, locomotori diesel, vagoni stipati di varia umanità, stazioni metropolitane e stazioncine di montagna. Offrendo, alla fine, un affresco di meridionalità divertente, surreale, commuovente. Un tempo si tornava in rotaia per restare, oggi per ripartire. Ma il lento viaggio verso casa porta alle radici e invita a trovare la propria strada, scrive Giuseppe De Bellis I treni che vanno a Sud sono diversi. D'aspetto, d'odore, d'umore. Non hanno niente di professionale. Non hanno cravatte e collane di perle. Il professionista che dal Nord sale su un treno verso casa, la vecchia casa del padre, è come Clark Kent che toglie l'abito di Superman. Via il vestito da lavoro nobile, su quello dell'essere umano così com'è. Perché è un viaggio nell'anima, quello che si sta per fare. È incredibile quanto il ritorno a Sud sia ancora nel 2014 legato al treno. Controintuitivo e persino antistorico. Da Milano a Bari ci vogliono più di otto ore, contro un'ora e un quarto d'aereo. Da Roma a Reggio Calabria, sei ore di treno contro le... Eppure chi è del Sud sa che in una conversazione con un altro meridionale arriverà a questo punto. - «Sai che “vado giù?”? Solo sabato e domenica». - «Come, ti fai tutto quel viaggio in treno per stare solo due giorni?». Il viaggio in treno è dato per scontato, perché ancestralmente è ormai sinonimo di trasferimento Nord-Sud. Puoi «salire» come vuoi, ma sembra che tu debba sempre «scendere» in treno. Perché è ricordo, memoria, passato che torna, è emigrazione e immigrazione. Noi terroni siamo legati alla ferrovia anche al di là della nostra volontà. Angelo Mellone lo sa perché appartiene alla categoria: professionista meridionale che per obbligo, passione e capacità è stato costretto a lasciare casa e andare verso Nord. Ha portato la testa e il corpo a Roma, ha mantenuto l'anima a Taranto. È uno degli intellettuali sudisti che meglio ha raccontato in questi ultimi anni la nuova questione meridionale, espressione tanto abusata quanto inevitabile. Lo fa anche ora, con il suo Meridione a rotaia (Marsilio, pagg. 92, euro 10), che chiude quella che lui stesso ha definito «trilogia delle radici». Il treno è il mezzo per tornare e tornando raccontare che cos'è il Sud e soprattutto com'è il rapporto tra quelle radici e chi le ha dovute lasciare superficialmente e poi scopre di avercele comunque attaccate al corpo e allo spirito: «Noi meridionali siamo fatti così. Amiamo la terra che abbiamo abbandonato quando la lasciamo, e la odiamo se ci costringe a restare o ci rende impossibile partire. In questo ha ragione Mario Desiati: la letteratura presuppone sempre una partenza. Un momento di straniamento, un distacco, una mancanza. Nel mio caso un'irrequietezza che è tutto il mio riassunto di meridionale atipico, innamorato di una terra ma distante, antropologicamente, dall'“andare lento” meridionalista. Preferisco viaggiare, consumare suole e bruciare le radici che poi voglio conservare. In questo sentimento pendolare sta il senso di Meridione a rotaia. Che è, a suo modo, un ritorno. Un viaggio a ritroso trasognato, surreale, infelice, virile, spavaldo, intimista, appresso alla memoria, dove si incontrano donne, amici, nemici, loschi figuri, personaggi improbabili, odori, panorami, sfondi e valigie di ricordi». Mellone parte da una casa posticcia di Roma per tornare a Taranto, dove è nato, cresciuto, l'Ilva gli ha tolto il padre, dandogli un dolore che nessuno potrà mai placare, ma nonostante il quale non ha ceduto all'idea che quello stabilimento fosse solo morte e non anche vita per tanta gente. È lì che torna a bordo di questo treno che è reale e onirico allo stesso tempo. Sceglie la formula del poema per rendere magico e però duro questo viaggio. Cita luoghi, paesaggi, facce, pensieri che sono familiari a ciascun meridionale che quel viaggio l'ha fatto davvero o anche con la fantasia. Perché è un dovere tornare, anche quando non si ha voglia. Perché è inevitabile farlo. Un viaggio che non è come gli altri, perché non porta a scoprire nulla che non si sappia già, ma è un modo per trovare la strada. La propria: «Meridione restituisce sempre/ ciò che avevi smarrito...». «Ritorno a Sud allora/ è condizione necessaria/ polvere a polvere, sasso a sasso/ tratturo a tratturo, chianca a chianca/ complanare a complanare, binario a binario specialmente/ al momento in cui il corpo sudato/ in discesa puzza/ e l'alito impasta/ la lingua assetata/ per riacciuffare i brandelli di tutto quello/ che ho abbandonato». È un libro malinconico, come dice Mellone, è l'ammissione della sconfitta di chi ha combattuto se stesso pensando di poter essere meridionale senza fare ritorno al Sud. Ecco, dal Sud non si può scappare, anche quando si emigra: te lo porti dentro esattamente come i settentrionali si portano dentro il Nord. Ciò che contraddistingue le nuove generazioni di fuggiaschi da una terra che non può dare non perché non abbia, ma perché è schiava dei propri vizi, è un orgoglio differente: prima si tornava per rimanere, per dire «ce l'ho fatta, ho combattuto lontano, ho vinto, adesso torno dalla mia amata». Era lo stesso spirito di un soldato mandato al fronte con l'unico obiettivo di riabbracciare una ragazza diventata donna o bambini diventati adolescenti. Ora si torna per ripartire, per tenersi agganciati, emigrati con l'elastico che ti riporta indietro fisicamente o idealmente. La sconfitta di Mellone è in un certo senso una vittoria. Perché ammettere di non riuscire a sganciarsi dalle proprie radici è una forza spacciata per debolezza solo per un gioco di forze che fa leva sulla maledizione della nostalgia. Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te. «Amore fatto di terra», dice Mellone. «Amore per la terra».
Ciononostante i nordisti, anzichè essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
“Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficiato”. Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati "beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La "sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece, cosciente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo, l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i danni e usarla addirittura per rafforzarsi.
La culla dell'ingratitudine. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più». Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui, quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.
QUALCHE PROVERBIO AFORISMO
Amico beneficato, nemico dichiarato.
Avuta la grazia, gabbato lo santo.
Bene per male è carità, male per bene è crudeltà.
Chi non dà a Cristo, dà al fisco.
Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.
Comun servizio ingratitudine rende.
Dispicca l’impiccato, impiccherà poi te.
Fate del bene al villano, dirà che gli fate del male.
Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.
Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio.
Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone.
L’ingratitudine converte in ghiaccio il caldo sangue.
L’ingratitudine è la mano sinistra dell’egoismo.
L’ingratitudine è un’amara radice da cui crescono amari frutti.
L’ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.
L’ingratitudine taglia i nervi al beneficio.
Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente.
Non c’è cosa più triste sulla terra dell’uomo ingrato.
Non far mai bene, non avrai mai male.
Nutri il corvo e ti caverà gli occhi.
Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno.
Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.
Render nuovi benefici all’ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.
Tu scherzi col tuo gatto e l’accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi
Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti.
In amore, chi più riceve, ne è seccato: egli prova la noia e l’ingratitudine di tutti i ricchi.
Philippe Gerfaut
L’ingratitudine è sempre una forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati.
Johann Wolfgang Goethe, Massime e riflessioni, 1833 (postumo)
Spesso l’ingratitudine è del tutto sproporzionata al beneficio ricevuto.
Karl Kraus, Di notte, 1918
Ci sono assai meno ingrati di quanto si creda, perché ci sono assai meno generosi di quanto si pensi.
Charles de Saint-Evremond, Sugli ingrati, XVII sec.
Il cuore dell’uomo ingrato somiglia alle botti delle Danaidi; per quanto bene tu vi possa versare dentro, rimane sempre vuoto.
Luciano di Samosata, Scritti, II sec.
Un solo ingrato nuoce a tutti gli infelici.
Publilio Siro, Sentenze, I sec. a.c.
Quando di un uomo hai detto che è un ingrato, hai detto tutto il peggio che puoi dire di lui.
Fenomenologia rancorosa dell'ingratitudine. La rabbia dell'ignorare il beneficio ricevuto. Le relazioni d'aiuto contraddistinguono i diversi momenti del ciclo vitale di una persona e ne favoriscono l'autonomia e l'indipendenza. Esiste tuttavia la possibilità che nella sottile dinamica di dipendenza/indipendenza, caratterizzante questo tipo di rapporto, alla gratitudine per un beneficio ricevuto si sostituisca un sentimento d'ingratitudine, di rancore e di rabbia verso il "benefattore". Questo lavoro di Andrea Brundo prende in esame i fenomeni connessi alle relazioni d'aiuto e i processi collegati alla costruzione della personalità nel corso dell'età evolutiva (a partire dall'iniziale rapporto diadico madre-figlio). In base a questa ipotesi, chi prova rancore non ha avuto la possibilità di sperimentare, aggregare ed elaborare contenuti affettivi significativi nelle prime fasi della vita. Ignora, quindi, l'esistenza di autentiche relazioni d'affetto. È incapace di viverle, proprio per la mancanza di informazioni e per la carenza dei relativi schemi cognitivi. Il "rancoroso", pur potendo ammettere l'aiuto ricevuto, non è in grado di essere riconoscente perché ignora i contenuti affettivi che sono dietro la relazione di aiuto. Non potendoli riconoscere in se stesso non li può trovare neanche negli altri. L'incapacità di provare gratitudine è sostenuta da una generale difficoltà a condividere sentimenti e contenuti psichici. Nelle relazioni che instaura, la condivisione non è mediata dalla sfera affettiva, ma dalle prevalenti esigenze dell'io. Chi manca delle informazioni atte a soddisfare le proprie necessità può ricorrere all'aiuto dell'altro che le possiede. Ciò comporta, sul piano relazionale, il riconoscimento dell’autorevolezza e del relativo "potere" di chi dispone le conoscenze. Nel momento in cui si deve predisporre ad accettare le informazioni, il beneficiato, con prevalente modalità narcisistica va incontro ad una serie di difficoltà legate a:
non sapere;
essere in una posizione subordinata di "potere";
fidarsi e considerare giusta l'informazione ricevuta;
disporsi a ridefinire i propri schemi cognitivi e stili comportamentali;
vivere il disagio provocato dal contenuto affettivo associato all'informazione-aiuto.
Nel caso in cui le informazioni risultino troppo complesse rispetto alla rappresentazione della realtà del soggetto, lo sforzo per elaborarle e integrarle nei propri schemi mentali è eccessivo. A questo punto tale soggetto preferisce ricorrere a una modalità più semplice, quale è quella antagonista, e si mette contro la persona che lo sta aiutandolo. E ancora. Quando il divario tra l'immagine di sé (in termini di sistema di credenze, schemi cognitivi, stili comportamentali, ecc.) e le implicazioni di mutamento insite nelle informazioni-aiuto si rivela insostenibile, il beneficiato non può accettare di cambiare e il peso di questa difficoltà viene proiettato sul beneficiante. L'informazione donata e non elaborata rimane a livello dell'io, ristagna e diventa un qualcosa di stantio, di "rancido", di inespresso che risulta insopportabile. Un qualcosa che alimenta un incessante rimuginio, sostenuto anche dalla vergogna e dal senso di colpa. Nasce l'esigenza di eliminare il fastidio e il senso di oppressione, esigenza che conduce all'odio verso la causa (il beneficiante) di tanto "dolore". Si instaura così un circolo vizioso nel pensiero a cui solo gli sfoghi rabbiosi possono dare un minimo, seppur temporaneo, sollievo. Gli eccessi di rabbia costituiscono l'unica soluzione per tentare una comunicazione (impossibile) attraverso la naturale via dell'affettività. Pertanto, il rancore trova un’auto giustificazione in quanto permette di manifestare al mondo e alla persona beneficante contenuti mentali che non trovano altre modalità espressive.
Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012. Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000.
E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto.
Polentoni (mangia polenta o come dicono loro po' lentoni, ossia lenti di comprendonio) e terroni (cafoni ignoranti) sono pregiudizi da campagna elettorale inventati ed alimentati da chi, barbaro, dovrebbe mettersi la maschera in faccia e nascondersi e tacere per il ladrocinio perpetrato anche a danno delle stesse loro popolazioni.
Ma si sa parlar male dell'altro, copre le proprie colpe.
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
Il sud? Una palla al piede? “La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale” è il libro di Antonino De Francesco. Declinata in negativo, è tornata a essere un argomento ricorrente nei discorsi sulla crisi della società italiana. Sprechi di risorse pubbliche, incapacità o corruzione delle classi dirigenti locali, attitudini piagnone delle collettività, forme diffuse di criminalità sono stati spesso evocati per suggerire di cambiare registro nei riguardi del Mezzogiorno. I molti stereotipi e luoghi comuni sono di vecchia data e risalgono agli stessi anni dell'unità, ma quel che conta è la loro radice propriamente politica. Fu infatti la delusione per le difficoltà incontrate nel Mezzogiorno all'indomani dell'unificazione a cancellare presto l'immagine di un Sud autentico vulcano di patriottismo che nel primo Ottocento aveva dominato il movimento risorgimentale. Da allora lo sconforto per una realtà molto diversa da quella immaginata avrebbe finito per fissare e irrobustire un pregiudizio antimeridionale dalle tinte sempre più livide ogni qual volta le vicende dello stato italiano andarono incontro a traumatici momenti di snodo. Il libro rilegge la contrapposizione tra Nord e Sud dal tardo Settecento sino ai giorni nostri. Si capisce così in che modo il pregiudizio antimeridionale abbia costituito una categoria politica alla quale far ricorso non appena l'innalzamento del livello dello scontro politico lo rendesse opportuno. Per il movimento risorgimentale il Mezzogiorno rappresentò sino al 1848 una terra dal forte potenziale rivoluzionario. Successivamente, la tragedia di Pisacane a Sapri e le modalità stesse del crollo delle Due Sicilie trasformarono quel mito in un incubo: le regioni meridionali parvero, agli occhi della nuova Italia, una terra indistintamente arretrata. Nacque così un'Africa in casa, la pesante palla al piede che frenava il resto del paese nel proprio slancio modernizzatore. Nelle accuse si rifletteva una delusione tutta politica, perché il Sud, anziché un vulcano di patriottismo, si era rivelato una polveriera reazionaria. Si recuperarono le immagini del meridionale opportunista e superstizioso, nullafacente e violento, nonché l'idea di una bassa Italia popolata di lazzaroni e briganti (poi divenuti camorristi e mafiosi), comunque arretrata, nei confronti della quale una pur nobile minoranza nulla aveva mai potuto. Lo stereotipo si diffuse rapidamente, anche tramite opere letterarie, giornalistiche, teatrali e cinematografiche, e servì a legittimare vuoi la proposta di una paternalistica presa in carico di una società incapace di governarsi da sé, vuoi la pretesa di liberarsi del fardello di un mondo reputato improduttivo e parassitario. Il libro ripercorre la storia largamente inesplorata della natura politica di un pregiudizio che ha condizionato centocinquant'anni di vita unitaria e che ancora surriscalda il dibattito in Italia. I meridionali sono allegri e di buon cuore ma anche «oziosi, molli e sfibrati dalla corruzione». Sono simpatici e affettuosi, è un altro giudizio sempre sulla gente del Sud, ma pure «cinici, superstiziosi, pronti a rispondere con la protesta di piazza a chi intende disciplinarli». A separare il barone di Montesquieu e Giorgio Bocca, (sono dette da loro queste opinioni sul Mezzogiorno), vi sono circa 250 anni. Eppure nemmeno i secoli contano e fanno la differenza quando si tratta di sputar sentenze sul meridione. Così scrive Mirella Serri su “La Stampa”. Già, proprio così. Credevamo di esser lontani anni luce dall’antimeridionalismo (il suo viaggio nell’Inferno del Sud, Bocca lo dedica alla memoria di Falcone e di Borsellino), pensavamo di essere comprensivi e attenti alle diversità? Macché, utilizziamo gli stessi stereotipi di tantissimi lustri fa: è questa la provocazione lanciata dallo storico Antonino De Francesco in un lungo excursus in cui esamina tutte le dolenti note su "La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale". La nascita dei pregiudizi sul Sud si verifica, per il professore, nel secolo dei Lumi, quando numerosi viaggiatori europei esplorarono i nostri siti più incontaminati e selvaggi. E diedero vita a una serie di luoghi comuni sul carattere dei meridionali che si radicarono dopo l’Unità d’Italia e che hanno continuato a crescere e a progredire fino ai nostri giorni. E non basta. A farsi portavoce e imbonitori di questa antropologia negativa sono stati spesso artisti, scrittori, registi, giornalisti, ovvero quell’intellighentia anche del Sud che l’antimeridionalismo l’avrebbe dovuto combattere accanitamente.
Uno dei primi a intuire questa responsabilità degli intellettuali fu il siciliano Luigi Capuana. Faceva notare a Verga che loro stessi, i maestri veristi, avevano contribuito alla raffigurazione del siculo sanguinario con coltello e lupara facile. E che sulle loro tracce stava prendendo piede il racconto di un Mezzogiorno di fuoco con lande desolate, sparatorie, sgozzamenti, rapine, potenti privi di scrupoli e plebi ignare di ordine e legalità. Ad avvalorare questa narrazione che investiva la parte inferiore dello Stivale dettero il loro apporto anche molti altri autori, da Matilde Serao, che si accaniva sui concittadini partenopei schiavi dell’attrazione fatale per il gioco del lotto, a Salvatore di Giacomo, che dava gran rilievo all’operato della camorra in Assunta Spina. Non fu esente dall’antimeridionalismo nemmeno il grande Eduardo De Filippo che in Napoli milionaria mise in luce il sottomondo della città, fatto di mercato nero, sotterfugio, irregolarità. Anche il cinema neorealista versò il suo obolo antisudista con film come Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, testimonial dei cruenti e insondabili rapporti familiari e sociali dei meridionali. Pietro Germi, ne In nome della legge, e Francesco Rosi, ne Le mani sulla città, vollero denunciare i mali del Sud ma paradossalmente finirono per evidenziare i meriti degli uomini d’onore come agenzia interinale o società onorata nel distribuire ai più indigenti lavori e mezzi di sussistenza, illegali ovviamente. A rendere la Sicilia luogo peculiare del trasformismo politico che contaminerà tutto lo Stivale ci penserà infine il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. In generale prevale il ritratto di un Sud antimoderno e clientelare, palla al piede del Nord. Milano, per contrasto, si fregerà dell’etichetta di «capitale morale», condivisa tanto dal meridionalista Salvemini quanto da Camilla Cederna, non proprio simpatizzante del Sud. Quest’ultima, per attaccare il presidente della Repubblica Giovanni Leone, reo di aver fatto lo scaramantico gesto delle corna in pubblico, faceva riferimento alla sua napoletanità, sinonimo di «maleducazione, smania di spaghetti, volgarità». «L’antimeridionalismo con cui ancora oggi la società italiana si confronta non è così diverso da quello del passato», commenta De Francesco. Non c’è dubbio.
Benvenuti al Sud, che di questi antichi ma persistenti pregiudizi ha lanciato la parodia, si è posizionato al quinto posto nella classifica dei maggiori incassi in Italia di tutti i tempi. Come un vigile che si materializza nell’ora di punta o un poliziotto che sopraggiunge nel vivo della rissa. Dopo le polemiche sugli afrori dei napoletani, dopo le dispute sul bidet dei Borbone e sulle fogne dei Savoia, mai libro è arrivato più puntuale. Edito da Feltrinelli, «La palla al piede» di Antonino De Francesco è, infatti, come recita il sottotitolo, «una storia del pregiudizio antimeridionale». E come tale non solo capita a proposito, ma riesce anche a dare ordine a una materia per molti versi infinita e dunque inafferrabile. Cos’è del resto l’antimeridionalismo? «È — spiega l’autore a Marco Demarco su “Il Corriere della Sera” — un giudizio tanto sommario quanto inconcludente, che nulla toglie e molto (purtroppo) aggiunge ai problemi dell’Italia unita, perché favorisce il declino nelle deprecazioni e permette alle rappresentazioni, presto stereotipate, di prendere il sopravvento». Non solo. «Ed è — aggiunge De Francesco — anche un discorso eversivo, perché corre sempre a rimettere in discussione il valore stesso dell’unità italiana». Fin qui la quarta di copertina, ma poi, all’interno, pagina dopo pagina, ecco i testi, le tesi, i personaggi che hanno affollato la scena dello scontro tra meridionalisti e antimeridionali: da Boccaccio a Matilde Serao, da Montesquieu a Prezzolini, passando per Cuoco e Colletta, per Lauro e Compagna, per Mastriani e Totò. Fino a Indro Montanelli, che commentando il milazzismo picchia duro sui siciliani e scrive che «se in Italia si compilasse una geografia dell’abbraccio ci si accorgerebbe che più si procede verso le regioni in cui esso rigogliosamente fiorisce, e più frequente si fa l’uso del coltello e della pistola, della lettera anonima e dell’assegno a vuoto»; o a Camilla Cederna, che addirittura mette in forse la religiosità del presidente Leone: «Tutt’al più — scrive in piena campagna per le dimissioni — il suo è un cristianesimo di folclore...». Materiali preziosi, alcuni noti e altri no, ma tutti riletti all’interno di uno schema molto chiaro. Che è il seguente: negli anni di fuoco a ridosso dell’unità d’Italia, l’antimeridionalismo nasce molto prima del meridionalismo, non ha lasciato testimonianze meritevoli di interesse sotto il profilo culturale, ma, «ha svolto un preciso ruolo normativo nell’immaginario sociale del mondo». Ha creato, cioè, categorie mentali, visioni e schemi interpretativi che hanno condizionato politiche e strategie, alleanze e scelte di campo. In questo senso, l’antimeridionalismo si è rivelato per quello che davvero è: niente altro che uno strumento della lotta politica. L’antimeridionalismo appare e scompare, va e viene, morde e fugge, ma sempre secondo le convenienze del momento storico, del contesto. Così a Masaniello può accadere una volta di assurgere a simbolo del riscatto meridionale e di essere messo sullo stesso asse rivoluzionario che porta fino al ’99, quando del Sud serve l’immagine tutta tesa al riscatto liberatorio; un’altra di precipitare a testimonianza del velleitarismo plebeo, di un ribellismo pari a quello dei briganti, quando del Sud bisogna dare invece l’idea di un mostro da abbattere. Sulla stessa altalena possono salirci anche interi territori, come la Sicilia. Quella pre-garibaldina immaginata dalle camicie rosse è tutto un ribollire di passioni civili e di ansie anti borboniche; quella post-garibaldina descritta dai militari piemontesi è violenta, barbara, incivile. È andata così anche con il Cilento di Pisacane: prima dello sbarco, era la terra promessa del sogno risorgimentale; dopo, la culla del tradimento e del popolo imbelle. Perfino la considerazione della camorra cambia secondo il calcolo politico. Nel 1860 la stampa piemontese, prova ne è «Mondo illustrato», arriva perfino a elogiarla, ritenendola capace di dare organizzazione ai lazzaroni favorevoli al cambio di regime. Ma poi la scena si ribalta. Con Silvio Spaventa comincia l’epurazione del personale sospetto inserito negli apparati statali e la «Gazzetta del Popolo» prontamente plaude. Come strumento della battaglia politica, l’antimeridionalismo non viene usato solo nello scontro tra Cavour e Garibaldi, ma diventa una costante. Liberali e democratici lo usano per giustificare le rispettive sconfitte. E come alibi usano sempre il popolo, che di colpo diventa incolto, superstizioso, asociale, ingovernabile. Ai socialisti succede di peggio. Negli anni del positivismo, arrivano, sulle orme di Lombroso, a cristallizzare il razzismo antimeridionale. Niceforo parla di due razze, la peggiore, la maledetta, è naturalmente quella meridionale; mentre Turati, in polemica con Crispi, vede un Nord tutto proiettato nella modernità e un Sud che è «Medio Evo» e «putrefatta barbarie». Prende forma così quel dualismo culturale che vede ovunque due popoli, uno moderno e l’altro arretrato, dove è chiaro che il secondo, come già ai tempi di Cuoco, giustifica il primo. Ma questo dualismo finisce per mettere in trappola anche la produzione culturale. I veristi, ad esempio, raccontano con passione la vita degli ultimi, della minorità sociale. Ma come vengono lette a Milano queste storie? Chi fa le dovute differenze? Il dubbio prende ad esempio Luigi Capuana quando decide di polemizzare con Franchetti e Sonnino per come hanno descritto la Sicilia. Capuana addebita addirittura a se stesso, a Federico De Roberto e soprattutto all’amico Giovanni Verga, la grave responsabilità di aver favorito, con i loro racconti e con i loro romanzi, la ripresa dei luoghi comuni sull’isola. Credevamo di produrre schiette opere d’arte — scrive avvilito a Verga — «e non abbiamo mai sospettato che la nostra sincera produzione, fraintesa o male interpretata, potesse venire adoperata a ribadire pregiudizi, a fortificare opinioni storte, a provare insomma il contrario di quel che era nostra sola intenzione rappresentare alla fantasia dei lettori». E in effetti, commenta De Francesco, l’opera di Verga, nel corso degli anni Settanta, aveva liquidato l’immagine di una Sicilia esotica e mediterranea a tutto vantaggio della costruzione di potenti quadri di miseria e di atavismo. Il libro si chiude con il caso Bocca, forse il più emblematico degli ultimi anni. Inviato nel Sud sia negli anni Novanta, sia nel 2006. Racconta sempre la stessa Napoli, persa tra clientele, degrado e violenza criminale, ma la prima volta piace alla sinistra; la seconda, invece, la stessa sinistra lo condanna senza appello. La ragione? Prima Bassolino era all’opposizione, poi era diventato sindaco e governatore.
Ed a proposito di Napoli. “Il libro napoletano dei morti” di Francesco Palmieri. Bella assai è Napoli. E non nel senso sciuè sciuè. E’ bella perché sta archiviando una menzogna: quella di essere costretta allo stereotipo e infatti non ha più immondizia per le strade. Non ha più quella patina di pittoresco tanto è vero che il lungomare Caracciolo, chiuso al traffico, è come un ventaglio squadernato innanzi a Partenope. C’è tutto un brulicare di vita nel senso proprio della qualità della vita. Ovunque ci sono vigili urbani, tante sono le vigilesse in bici, sono sempre più pochi quelli che vanno senza casco e quelli che li indossano, i caschi, anche integrali, non hanno l’aria di chi sta per fare una rapina. E’ diventata bella d’improvviso Napoli. Sono uno spasso gli ambulanti abusivi che se ne scappano per ogni dove inseguiti dalla forza pubblica e se qualcuno crede che il merito sia di De Magistris, il sindaco, si sbaglia. Se Napoli è tornata capitale – anche a dispetto di quella persecuzione toponomastica che è la parola “Roma”, messa dappertutto per marchiare a fuoco la sconfitta dell’amato Regno – il motivo è uno solo: Francesco Palmieri ha scritto “Il Libro napoletano dei Morti” e le anime di don Ferdinando Russo e quelle dei difensori di Gaeta hanno preso il sopravvento sui luoghi comuni. Dall'Unità d'Italia alla Prima guerra mondiale, Napoli vive il suo periodo più splendido e più buio. Un'epopea di circa sessant'anni non ancora raccontata e che ne ha segnato il volto attuale. Le vicende avventurose dei capitani stranieri, arrivati per difendere la causa persa dei Borbone, s'intrecciano con quelle di camorristi celebri e dei loro oscuri rapporti con il nuovo Stato italiano. L'ex capitale si avvia verso il Novecento tra contraddizioni storiche e sociali risolte nel sangue o in un paradossale risveglio culturale. Ma, quando calerà il sipario sul drammatico processo Cuocolo, un clamoroso assassinio in Galleria rivelerà che la camorra non è stata sconfitta. E il "prequel" della futura Gomorra. Narratore dell'intera vicenda è il poeta Ferdinando Russo. Celebre un tempo e amato dalle donne, da giornalista ha coraggiosamente denunciato la malavita ma è stato attratto dai codici antichi di coraggio della guapparia. Russo cerca il fil rouge che collega i racconti dei cantastorie napoletani alla tragica fine dei capitani borbonici: questo nesso lo ritrova nell'ineffabile enigma della Sirena Partenope, la Nera, l'anima stessa di Napoli, che si rivela nel coltello dei camorristi o irretisce incarnata in quelle sciantose di cui fu vittima egli stesso, prima con un grande amore perso poi sposando un'altra che invece non amò.
“Il libro napoletano dei morti” è un viaggio alle radici di Gomorra, scrive Luca Negri su “L’Occidentale”. Esiste un antico Libro egiziano dei morti, anche uno tibetano. In poche parole, si tratta di affascinanti manuali di sopravvivenza per l’anima nei regni dell’oltretomba. La versione italica, universalmente nota per l’altissimo valore poetico, è la Commedia di Dante. Commedia appunto perché il finale è lieto: l’anima non si perde negli inferi, fra demoni, ma ascende a Dio, come pressappoco succede nelle versioni egizia e tibetana. Ora il lettore italiano ha a disposizione anche “Il libro napoletano dei morti” (Mondadori, nella collana Strade Blu), che non è un manuale per cittadini partenopei ed italiani prossimi alla fine. O forse sì, lo è. Soprattutto se consideriamo la città sotto il Vesuvio come paradigmatica dei nodi irrisolti della nostra esausta storia patria. Comunque, è un romanzo, un grande romanzo, il migliore uscito quest’anno, a nostro giudizio. Per lo stile felicissimo che combina momenti lirici, squarci storici, immagini cinematografiche. E poi riesce a toccare temi universali, partendo da un luogo e da un tempo ben precisi: Napoli negli anni che corrono dalla conquista garibaldina all’avvento del fascismo.
L’autore si chiama Francesco Palmieri, è un maestro di Kung Fu napoletano che nella vita fa il giornalista e si occupa di economia e Cina. Uno che conosce bene misteri d’oriente, vicende e canzoni della sua città e come va la vita. Per raccontare il suo libro dei morti, Palmieri è entrato nell’esistenza e nella lingua di Ferdinando Russo, poeta, giornalista, romanziere e paroliere di canzoni (la più nota è “Scetate”) nato ovviamente a Napoli nel 1866 e morto nel 1927. Russo era amico di d’Annunzio, firma di punta del quotidiano il Mattino, partenopeo verace che detestava la napoletanità di maniera delle commedie di Eduardo Scarpetta e nelle cantate di Funiculì funicolà. Per lui, come per l’amico-nemico Libero Bovio (autore di “Reginella”), le canzoni con il mandolino rappresentavano il Romanticismo esploso a Napoli con cinquant’anni di ritardo sul resto d’Europa, non roba da cartolina. Russo era una persona seria ed onorata, un guappo, cultore di Giordano Bruno e conoscitore di molti camorristi ma sempre spregiatore della camorra. E con i suoi occhi e le sue parole vere e immaginarie, in versi e prosa, Palmieri ci racconta proprio la degenerazione della camorra: dalla confraternita fondata e regolata nel 1842 nella Chiesa di Santa Caterina a Formello, figlia di “semi spagnoli e nere favole mediterranee” alle spietate bande di “malavitosi senza norma e senza morale”. Al guappo armato solo di scudiscio e coltello, talvolta della sola minacciosa presenza, si sostituiscono “facce patibolari” bramose di soldi e potere, vigliacche al punto da imbracciare solo armi da fuoco, che male modellano le mani di chi le usa. Russo, fin da bambino, si ispirava al teatrino dei Pupi, si sentiva un paladino, un Rinaldo sempre in lotta contro il male: il traditore Gano di Magonza. E vide gli antichi paladini reincarnati negli stranieri che combatterono per la causa persa dei Borbone contro i Piemontesi invasori. Non solo per il piacere di “tirare una sassata sulla faccia di liberali biondi”, ma per difendere “più che un principe, un principio”. Franceschiello diventava un novello Carlo Magno, sconfitto, però da un’imponente macchina bellica che nemmeno schifava il fomentare odi e delazioni e l’ammazzare cristiani appena sospettati di simpatia per l’insorgenza, per i “briganti”. A proposito, Palmieri e Russo ci ricordano che lo Stato risorgimentale si servì proprio della camorra per garantire l’ordine nel regno conquistato ed assicurarsi il successo nel plebiscito del 1860. Il processo di corruzione dell’”Onorata Società” ben s’accompagnò a quello del neonato Regno d’Italia; anzi, i rapporti si fecero sempre più stretti, i fili più inestricabili, al di là di tutte le repressioni di facciata e della professione retorica di antimafia. Sconfitti zuavi e lealisti, non rimarrà che cercare la “presenza dei paladini nelle notti scugnizze”, fra i guappi non ancora degenerati in spietati assassini ed avidi imprenditori senza scrupoli e freni. Ma è sempre più difficile, la cavalleria scompare, i proiettili uccidono anche gli innocenti. La camorra, circondata da una nazione irrisolta e corrotta, svela il suo volto, la sua dipendenza dal “perenne problema demoniaco” legato alla doppia natura della Sirena Partenope che come vuole la tradizione giace sotto Napoli; creatura bellissima e mostruosa “che fu madre di quei pezzenti tarantati, di cantanti e sciantose, di camorristi” e poeti come Russo. Siamo allora sull’orlo del baratro, sotto il vulcano, a Gomorra, come epicentro delle tensioni italiche. E allora serve più che mai “una mano capace di trasformare qualsiasi cosa in Durlindana”, in spada da paladino. Con la consapevolezza evangelica che fare il crociato, “crociarsi”, significa saper portare la propria croce. Ed aiutare i propri simili in questo “strabiliante Purgatorio umano che ci avvampa tra merda e sentimenti”.
"Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?" Così Pino Aprile inizia, nel modo provocatorio che gli è congeniale, questo suo pamphlet, che affronta l'annosa e scontata Questione meridionale da un'angolatura completamente diversa. In un mondo che sta cambiando a incredibile velocità, ha ancora senso definire la realtà in base a criteri geografici, come quelli di Nord e Sud, che nell'interpretazione dei più portano con sé una connotazione meritocratica ormai superata? E possibile utilizzare ancora definizioni di questo tipo quando internet, la Rete, sta tracciando una mappa che non tiene più conto dei vecchi confini, anzi se ne è liberata per ridisegnare uno spazio davvero globale, senza Sud e senza Nord, di cui fa parte la nuova generazione, tutta, figli dei "terroni" compresi? No, dice Aprile, tutto questo è irrimediabilmente finito, passato, travolto dal vento delle nuove tecnologie che, spinto da molte volontà, sta creando un futuro comune, un futuro che unisce, invece di dividere. Forse i padri non se ne sono ancora accorti, ma i figli sì, lo sanno, così come sanno che quella che hanno imboccato è una strada di non ritorno. "Il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta." Ma nello spazio virtuale, lo spazio dei giovani di tutti i paesi, le direzioni non esistono più. Boom di vendite, dice Antonino Cangemi su “Sicilia Informazioni”. E’ quasi una regola: ogni libro di Pino Aprile scatena un boom di vendite e un mare di polemiche.
Così è accaduto con “Terroni” e con “Giù al Sud”. Nel primo il giornalista raccontava, all’anniversario del secolo e mezzo dell’Unità d’Italia, stragi, violenze, saccheggi, sottaciuti dalla storiografia ufficiale, commessi dal Settentrione contro il Meridione per accentuarne la subalternità, provocando le ire dei “nordisti” e le perplessità della maggior parte degli storici accademici. Nel secondo il meridionalista Aprile ribadiva le denunce contro i soprusi subiti dal Sud Italia, ma nello stesso tempo individuava nel Meridione le risorse migliori per “salvare l’Italia”. Nelle librerie “Mai più terroni”, un pamphlet edito da Piemme che già dal sottotitolo, “La fine della questione meridionale”, preannuncia dibattiti accesi.
Molti si chiederanno: come mai Pino Aprile paladino delle ragioni dei “terroni”, che non ha esitato a denunciare, in modo eclatante, i torti subiti dalla gente del Sud per opera di governi filosettentrionali, adesso cambia registro sino a sostenere che la questione meridionale non esiste più? Che cosa è successo nel giro di pochi anni? Lo si scopre leggendo l’agile saggio. Che sostiene una teoria piuttosto originale. E, secondo alcuni, azzardata. Nell’era industriale la distanza tra Nord e Sud si accentuava perché rilevava la posizione geografica dei luoghi dove si produceva ricchezza. Poiché le fabbriche, o la stragrande maggioranza di esse, si trovavano nel Settentrione, i meridionali erano costretti a spostarsi per lavorare e, con l’emigrazione, a vivere in un rapporto di sudditanza. Tutto è ora cambiato con l’avvento di internet. Nella stagione che si è da ultimo avviata, definita da Aprile l’era del Web, la geografia dei territori non assume più rilievo. La rete ha annullato le distanze geografiche, e non importano più dove sono collocate le imprese, la condizione delle sovrastrutture, se le autostrade o le ferrovie funzionano nel Nord e sono dissestate nel Meridione, tanto non occorre percorrerle grazie alla magia telematica. Almeno per i giovani, che a colpi di clic possono cambiare la realtà, dare sfogo al proprio estro creativo, inventare nuove fonti di ricchezza. Non a caso, sostiene l’autore, oggi l’omologazione del web ha fatto sì che tanta ricchezza sia concentrata in Paesi del Sud del mondo, quali ad esempio la Cina e l’India. D’altra parte, secondo Aprile “il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta”. Non vi sarà perciò più Sud e non vi saranno più “terroni” per effetto della rete che permette di viaggiare restando seduti e di superare ogni barriera geografica. Niente più sopraffazioni e prevaricazioni. Alla fine la spunta, nella competizione democratica del web, chi è più creativo. Ipse dixit Aprile. E’ proprio cosi, o le sue analisi peccano di superficialità? La discussione è aperta. Da "Terroni" a "Mai più terroni", spiega Lino Patruno su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Dal sottotitolo del primo libro («Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali») al sottotitolo di questo («La fine della questione meridionale»). È l’itinerario di Pino Aprile: dalla denuncia di 150 anni ai danni del Sud, alla profezia che fra poco il Sud non sarà più Sud e che gli italiani del Sud non saranno più figli di una patria minore. Ci si chiede cosa sia successo in due soli anni. E come il giornalista-scrittore pugliese dai libri tanto vendutissimi quanto contestatissimi possa passare dalla rabbia per le verità nascoste sulla conquista del Sud, alla convinzione che nonostante tutto il Sud è entrato nella nuova era della parità di condizioni di partenza. Esagerazione ora o prima?La risposta è nelle stesse parole di Aprile: «Per condannare i meridionali a uno stato di minorità civile ed economica, sono state necessarie prima le armi e i massacri, poi è bastato isolarli. Ma il web è viaggiare senza percorrere spazi: scompare, così, lo svantaggio di ferrovie mai fatte e treni soppressi, di autostrade e aeroporti mancanti. Il Sud è, da un momento all’altro, alla pari. E può prendere il largo, su quella pista, perché per la prima volta, dopo 150 anni, è nelle stesse condizioni dei concorrenti». Dire web è dire Internet. Che annulla le distanze: tu puoi stare in un qualsiasi posto del mondo e lavorare per qualsiasi altro posto del mondo. E con Internet vale il tuo talento davanti al computer e basta, anche se stai, chessò, a Matera, unica città italiana senza il treno delle Ferrovie dello Stato. In questo senso Internet annulla anche le differenze di opportunità fra i territori. Con un computer un cittadino in Bangladesh ha le stesse possibilità di lavoro di un cittadino degli Stati Uniti. Così Internet può cancellare anche l’attuale svantaggio del Sud, la sua perifericità geografica: che lo Stato in 150 anni ha accentuato invece di ridurla.
Come? Creando un divario nelle infrastrutture fra Centro Nord e Sud che supera 1140 per cento. E non solo infrastrutture materiali (dalle autostrade agli aeroporti, appunto), ma anche immateriali (ricerca, formazione, sicurezza) e sociali (scuole, ospedali, assistenza). Ecco perché il terrone per la prima volta in 150 anni potrà cessare di emigrare. Facendo da casa ciò che finora può fare soltanto andando via. E dimostrandosi, se lo è, bravo quanto un privilegiato italiano del Centro Nord che finora ha avuto più possibilità di lui perché la produzione di oggetti e il lavoro crescono dove ci sono più mezzi a disposizione: a cominciare dalle infrastrutture. Il «capitale sociale», beni pubblici alla base di qualsiasi sviluppo. Aprile ci ha abituato allo sguardo lungo. Dopo quello all’indietro sulle bugie storiche verso il Sud, ecco ora quello immaginifico su un futuro possibile a favore del Sud. Col superamento di un ritardo tanto tenace e mortificante quanto mai affrontato con leggi e mezzi necessari. E col sospetto che si fingesse di cambiare qualcosa per lasciare tutto come prima. In poche parole: la ricchezza di una parte del Paese basata sulla minore ricchezza dell’altra. Con Internet oggi si fanno la metà dei lavori del mondo. E se finora il vantaggio del Nord era sfornare merci, ora il vantaggio del Sud è poter sfornare idee. E di idee i giovani terroni scoppiano: ecco la grande occasione comunicata con la perentorietà della rivelazione. Ovvio che non tutto spunti per magia: anche i computer sono meno al Sud, e non c’è in Italia quella banda larga che li faccia funzionare da computer e non da catorci. Ma la forza evocativa, la visione di Aprile è contagiosa e irresistibile anche quando suona più controversa e forse (stavolta) troppo ottimistica. Ma col pessimismo non si fa nulla. E poi leggiamo questa sua sorta di libro-testamento: ci sono racconti su ciò che fanno i giovani sudisti proiettati nel domani tecnologico da convincere che il futuro d’Italia è proprio qui. Cose entusiasmanti che nessuno avrebbe potuto immaginare (soprattutto in Puglia), meno che mai chi non guarda, sentenzia. Come nessuno avrebbe potuto immaginare, conclude Aprile, che ciò che non è riuscito ai padri, può riuscire ai figli. Cosicché presto sarà solo un ricordo che per un secolo e mezzo fummo terroni. “Giù al Sud. Perché i terroni salveranno l’Italia” di Pino Aprile è il racconto di un’Italia ancora spaccata in due, di rancori non sopiti, di ferite non rimarginate, dove i ricordi di un passato di sudditanza e soprusi non sono stati cancellati. Ma è anche la storia di nuove generazioni, colte ed intraprendenti, che fanno ribaltare atavici pregiudizi. Già autore di "Terroni", l’autore conosce bene la Storia e si è documentato con serietà e rigore prima di stendere denunce e dare aggiornamenti sulle nuove risorse. In questo viaggio giù al sud si incontrano realtà inattese, che stimolano e inorgogliscono. Il libro può essere letto per capitoli separati, ognuno spunto di riflessione. Lucida ed interessante l’analisi della nuova generazione di trentenni meridionali, colti, scaltri e fantasiosi, affamati di storia, di ricostruzione dell’identità meridionale, avvertita come risorsa economica e personale. Esenti da quel senso di inferiorità che spesso ha frenato e ancora frena i loro padri, si sentono e sono cittadini del mondo, un mondo in cui si muovono sicuri. Forte è l’interesse per l’antropologia in Calabria: è una necessità di sapere di sé, è un “bisogno di passato”, di recupero di un terreno perduto.
Come l’Odisseo omerico, il cui futuro è nella sua radice: ha già fatto il viaggio e ora torna a casa, per essere completo. Hanno desiderio e capacità di riscatto, usano i problemi come risorse, hanno idee, e le portano avanti con creatività e fiducia. Sono interessati alla riscoperta di nomi e bellezze, di luoghi e di cose, dalla toponomastica all’agricoltura, alla produzione di olii, vini, pani; forte l’orgoglio e il senso di appartenenza, per una terra “ritrovata”, per la forza fisica e morale delle sue donne, per la musica che si miscela alla poesia di antichi testi grecanici, che i giovani studiano e tramandano. In questo viaggio si incontra la Murgia, “giardino di ulivi, ricamo di vigne, regione di orgoglio” grazie alla tenacia dei suoi abitanti, che dalla sterile roccia hanno fatto emergere terra grassa e feconda. E poi la Puglia, dove “un deserto si è fatto un orto” a prezzo di un lavoro disumano. Benessere e convivenza anche a Riace, altra tappa di questo percorso, dove nel convivere e condividere di Calabresi ed extra-comunitari integrati, o di passaggio, si evidenzia un forte senso di ospitalità e umanità, e così a Sovereto, luogo di accoglienza per stranieri e tossicodipendenti, luogo di rinascita fisica e morale. Esaltanti le tante storie di giovani coraggiosi, ricchi di ingegno ed iniziative, che restano nella loro terra, rendendola migliore. Di contro, altri emigrati sembrano voler prendere le distanze dai luoghi natii, rinnegando le proprie origini, disprezzando ciò che si è perso e sopravalutando ciò che si è acquisito, in una sorta di “amputazione della memoria”.
La minorità del Calabrese è atavica, è un senso di inferiorità non scalfito dal tempo. Le privazioni subite, l’espoliazione delle antiche ricchezze, hanno costruito ed alimentato la minorità meridionale.
Ma bisogna reagire, esorta l’autore, cercando la solidarietà e l’appoggio di tutti al Nord, perché tutti sappiano, perché si raggiunga un equilibrio perduto. I testi di Pino Aprile sono il tentativo di un riscatto storico, quello di un’Italia che 160 anni fa aveva una propria identità di stato e che dopo l’Unità l’ha persa, col dominio del Nord sul Sud; sono un’esortazione, soprattutto per i giovani, al recupero di questa identità. Questo testo è una guida, ricca, aggiornata, colta, che va al di là ed oltre i luoghi e la Storia, è un compendio di storie personali e familiari, che si intersecano col territorio, sino a trasformarlo, ad arricchirlo, a renderlo appetibile. Le pagine più belle sono quelle descrittive, in cui i luoghi fisici si trasformano in luoghi dell’anima; Vieste e il suo faraglione, la cui sommità uno stilita rubava ad un gabbiano; Aliano, in Lucania, nella valle dell’Agri, “fra due marce muraglie di terra lebbrosa, tagliata dal fiume e dai suoi affluenti, disciolta dalla pioggia, butterata dal sole, che asciuga e svuota gli alveoli di creta.” … e la loro struggente bellezza si fonde nella malinconia dell’abbandono, mentre l’animo si perde nel sublime di fronte ai calanchi “orridi, belli e paurosi”. La presenza di elementi naturali, come il mare, il vento e l’energia che da essi si crea, conferisce forza e pathos ai movimenti dell’uomo sulla terra, rendendo le vicende umane grandiose. Lo sguardo dell’autore ha il privilegio della lontananza, che consente una visione d’insieme, quindi più completa e reale. Le sue parole trasudano orgoglio di appartenenza, ampiezza di orizzonti, fisici e mentali. Sono arrivato alla fine del libro, ma non sono riuscito a trovare una risposta alla domanda che mi ero fatta leggendo il sottotitolo del libro: perché i terroni dovrebbero salvare l'Italia? Così commenta Rocco Biondi. Non vedo un motivo plausibile che dovrebbe spingere i meridionali, che per 150 anni sono stati annientati dalla cultura e dall'economia nordista, ad avere un qualsiasi interesse ad impegnarsi in un qualche modo per risollevare le sorti dell'Italia cosiddetta unita. Questa convinzione mi proviene dall'attenta lettura fatta a suo tempo di "Terroni" ed ora di "Giù al Sud". I due libri di Pino Aprile sono accomunati dal riuscito tentativo di indicare possibili strade di "guerriglia culturale" per far uscire i meridionali dalla minorità cui sono stati condannati dagli artefici della malefica unità. La strada maestra è stata ed è la ricerca della "propria storia denigrata e taciuta". E questa fame di storia è avvertita come risorsa economica e personale. Si cercano i documenti, si scrive l'altra storia, quella della stragrande maggioranza degli abitanti del Sud che dopo il 1860 si sono opposti alla invasione piemontese. Si scoprono i nostri padri briganti, che hanno lottato e sono morti per la loro terra, le loro famiglie, la loro patria. Si dà vita a progetti artistici che hanno come protagonista il proprio passato, del quale non ci si vergogna più. Per andare avanti bisogna ripartire da quel che eravamo e da quel che sapevamo. I nostri antenati subirono e si auto-imposero la cancellazione forzosa della verità storica. Bisogna riscoprirla questa verità se vogliamo diventare quello che meritiamo di essere. Nel Sud i guai arrivarono con l'Unità. Le tasse divennero feroci per «tenere in piedi la bilancia dei pagamenti del nuovo Stato e concorsero a finanziare l'espansione delle infrastrutture nel Nord».A danno del Sud, dove le infrastrutture esistenti vennero smantellate. Messina, perno commerciale dell'intera area dello Stretto, perse il privilegio di porto franco, con scomparsa di molte migliaia di posti di lavoro. La Calabria, che oggi appare vuota e arretrata, era partecipe di fermenti e traffici della parte più avanzata d'Europa. In Calabria si producevano bergamotto, seta, gelsomino, lavanda, agrumi, olio, liquirizia, zucchero di canna. Per favorire l'industria del Nord si provocò il crollo dell'agricoltura specializzata del Sud, chiudendo i suoi mercati che esportavano oltralpe. Scrive Pino Aprile: «L'Italia non è solo elmi cornuti a Pontida, pernacchie padane e bunga bunga».L'Italia è anche la somma di tantissime singolarità positive esistenti nel Sud. E il suo libro è la narrazione, quasi resoconto, degli incontri avuti con queste realtà nei suoi viaggi durati tre anni dopo l'uscita di "Terroni". Pino Aprile si chiede ancora: «Perché la classe dirigente del Sud non risolve il problema del Sud, visto che il Nord non ha interesse a farlo?». E risponde: perché la classe dirigente nazionale è quasi tutta settentrionale, perché il Parlamento è a trazione nordica, perché le banche sono tutte settentrionali o centrosettentrionali, perché l'editoria nazionale è quasi esclusivamente del Nord, perché la grande industria è tutta al Nord e solo il 7,5 per cento della piccola e media industria è meridionale. E allora che fare? «Finché resterà la condizione subordinata del Sud al Nord - scrive Pino Aprile -, la classe dirigente del Sud avrà ruoli generalmente subordinati. Quindi non "risolverà", perché dovrebbe distruggere la fonte da cui viene il suo potere delegato. Si può fare; ma si chiama rivoluzione o qualcosa che le somiglia. E può essere un grande, pacifico momento di acquisizione di consapevolezza, maturità. Succede, volendo».E non ci si può limitare alla denuncia, bisogna lasciarsi coinvolgere direttamente e personalmente, per governare questi fenomeni.
Negli Stati Uniti d'America i persecutori hanno saputo pacificarsi con le loro vittime indiane, riconoscendo il loro sacrificio ed onorandole. In Italia questo non è ancora avvenuto, gli invasori piemontesi non hanno ancora riconosciuto le motivazioni della rivolta contadina e dei briganti. Noi meridionali dobbiamo pretendere questo riconoscimento. Noi meridionali l'unità l'abbiamo subita, non vi è stata un'adesione consapevole. Nei fatti essa unità è consistita nel progressivo ampliamento del Piemonte, con l'applicazione forzata delle sue leggi, strutture, tasse e burocrazia. Il Sud, ridotto a colonia, doveva smettere di produrre merci, per consumare quelle del Nord: da concorrente, a cliente. Non è vero che la mafia esiste solo al Sud. Milano è la principale base operativa per 'ndrangheta e mafia siciliana, dove si trasforma il potere criminale in potere economico, finanziario, politico. Stiamo per uscire dalla minorità, dopo un sonno di un secolo e mezzo, il Sud sembra aprire gli occhi. Lo sconfitto smette di vergognarsi di aver perso e recupera il rispetto per la propria storia. L'interesse primario dei meridionali non deve essere quello di salvare l'Italia, ma quello di valorizzare se stessi. Solo indirettamente e conseguentemente, forse, potrà avvenire il salvataggio dell'Italia intera.
SE NASCI IN ITALIA…
Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.
Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui, con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.
Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.
DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.
In Italia, spesso, ottenere giustizia è una chimera. In campo penale, per esempio, vige un istituto non previsto da alcuna norma, ma, di fatto, è una vera consuetudine. In contrapposizione al Giudizio Perenne c’è l’Insabbiamento.
Rispetto al concorso esterno all’associazione mafiosa, un reato penale di stampo togato e non parlamentare, da affibbiare alla bisogna, si contrappone una norma non scritta in procedura penale: l’insabbiamento dei reati sconvenienti.
A chi è privo di alcuna conoscenza di diritto, oltre che fattuale, spieghiamo bene come si forma l’insabbiamento e quanti gradi di giudizio ci sono in un sistema che a livello scolastico lo si divide con i fantomatici tre gradi di giudizio.
Partiamo col dire che l’insabbiamento è applicato su un fatto storico corrispondente ad un accadimento che il codice penale considera reato.
Per il sistema non è importante la punizione del reato. E’ essenziale salvaguardare, non tanto la vittima, ma lo stesso soggetto amico, autore del reato.
A fatto avvenuto la vittima incorre in svariate circostanze che qui si elencano e che danno modo a più individui di intervenire sull’esito finale della decisione iniziale.
La vittima, che ha un interesse proprio leso, ha una crisi di coscienza, consapevole che la sua querela-denuncia può recare nocumento al responsabile, o a se stessa: per ritorsione o per l’inefficienza del sistema, con le sue lungaggini ed anomalie. Ciò le impedisce di proseguire. Se si tratta di reato perseguibile d’ufficio, quindi attinente l’interesse pubblico, quasi sempre il pubblico ufficiale omette di presentare denuncia o referto, commettendo egli stesso un reato.
Quando la denuncia o la querela la si vuol presentare, scatta il disincentivo della polizia giudiziaria.
Ti mandano da un avvocato, che si deve pagare, o ti chiedono di ritornare in un secondo tempo. Se poi chiedi l’intervento urgente delle forze dell’ordine con il numero verde, ti diranno che non è loro competenza, ovvero che non ci sono macchine, ovvero di attendere in linea, ovvero di aspettare che qualcuno arriverà………
Quando in caserma si redige l’atto, con motu proprio o tramite avvocato, scatta il consiglio del redigente di cercare di trovare un accordo e poi eventualmente tornare per la conferma.
Quando l’atto introduttivo al procedimento penale viene sottoscritto, spesso l’atto stanzia in caserma per giorni o mesi, se addirittura non viene smarrito o dimenticato…
Quando e se l’atto viene inviato alla procura presso il Tribunale, è un fascicolo come tanti altri depositato su un tavolo in attesa di essere valutato. Se e quando….. Se il contenuto è prolisso, non viene letto. Esso, molte volte, contiene il nome di un magistrato del foro. Non di rado il nome dello stesso Pubblico Ministero competente sul fascicolo. Il fascicolo è accompagnato, spesso, da una informativa sul denunciante, noto agli uffici per aver presentato una o più denunce. In questo caso, anche se fondate le denunce, le sole presentazioni dipingono l’autore come mitomane o pazzo.
Dopo mesi rimasto a macerare insieme a centinaia di suoi simili, del fascicolo si chiede l’archiviazione al Giudice per le Indagini Preliminari. Questo senza aver svolto indagini. Se invece vi è il faro mediatico, allora scatta la delega delle indagini e la comunicazione di garanzia alle varie vittime sacrificali. Per giustificare la loro esistenza, gli operatori, di qualcuno, comunque, ne chiedono il rinvio a giudizio, quantunque senza prove a carico.
Tutti i fascicoli presenti sul tavolo del Giudice per l’Udienza Preliminare contengono le richieste del Pubblico Ministero: archiviazione o rinvio a giudizio. Sono tutte accolte, a prescindere. Quelle di archiviazione, poi, sono tutte accolte, senza conseguire calunnia per il denunciante, anche quelle contro i magistrati del foro. Se poi quelle contro i magistrati vengono inviate ai fori competenti a decidere, hanno anche loro la stessa sorte: archiviati!!!
Il primo grado si apre con il tentativo di conciliazione con oneri per l’imputato e l’ammissione di responsabilità, anche quando la denuncia è infondata, altrimenti la condanna è già scritta da parte del giudice, collega del PM, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. La difesa è inadeguata o priva di potere. Ci si tenta con la ricusazione, (escluso per il pm e solo se il giudice ti ha denunciato e non viceversa), o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe della Cassazione.
Il secondo grado si apre con la condanna già scritta, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. Le prove essenziali negate in primo grado, sono rinegate.
In terzo grado vi è la Corte di Cassazione, competente solo sull’applicazione della legge. Spesso le sue sezioni emettono giudizi antitetici. A mettere ordine ci sono le Sezioni Unite. Non di rado le Sezioni Unite emettono giudizi antitetici tra loro. Per dire, la certezza del diritto….
Durante il processo se hai notato anomalie e se hai avuto il coraggio di denunciare gli abusi dei magistrati, ti sei scontrato con una dura realtà. I loro colleghi inquirenti hanno archiviato. Il CSM invece ti ha risposto con una frase standard: “Il CSM ha deliberato l’archiviazione non essendovi provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare, trattandosi di censure ad attività giurisdizionale”.
Quando il processo si crede che sia chiuso, allora scatta l’istanza al Presidente della Repubblica per la Grazia, ovvero l’istanza di revisione perchè vi è stato un errore giudiziario. Petizioni quasi sempre negate.
Alla fine di tutto ciò, nulla è definitivo. Ci si rivolge alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che spesso rigetta. Alcune volte condanna l’Italia per denegata giustizia, ma solo se sei una persona con una difesa capace. Sai, nella Corte ci sono italiani.
Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. Secondo i dati su 1.545 denunce per maltrattamento in famiglia (articolo 572 del Codice penale) presentate da donne nel 2012 a Milano, dal Pubblico ministero sono arrivate 1.032 richieste di archiviazione; di queste 842 sono state accolte dal Giudice per le indagini preliminari. Il che significa che più della metà delle denunce sono cadute nel vuoto. Una tendenza che si conferma costante nel tempo: nel 2011 su 1.470 denunce per maltrattamento ci sono state 1.070 richieste di archiviazione e 958 archiviazioni. Nel 2010 su 1.407 denunce, 542 sono state archiviate.
«La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio».
Scarsa anche la presa in considerazione delle denunce per il reato di stalking (articolo 612 bis del codice penale). Su 945 denunce fatte nel 2012, per 512 è stata richiesta l’archiviazione e 536 sono state archiviate. Per il reato di stalking quel che impressiona è che le richieste di archiviazione e le archiviazioni sono aumentate, in proporzione, negli anni. In passato, infatti, la situazione era migliore: 360 richieste di archiviazione e 324 archiviazioni su 867 denunce nel 2011, 235 richieste di archiviazione e 202 archiviazioni su 783 denunce nel 2010. Come stupirsi, dunque, che ci sia poca fiducia nella giustizia da parte delle donne? Manuela Ulivi, presidente Cadmi ricorda che soltanto il 30 per cento delle donne che subiscono violenza denuncia. Una percentuale bassa dovuta anche al fatto che molte, in attesa di separazione, non riescono ad andarsene di casa ma sono costrette a rimanere a vivere con il compagno o il marito che le maltrattata. Una scelta forzata dettata spesso dalla presenza dei figli: su 220 situazioni di violenza seguite dal Cadmi nel 2012, il 72 per cento (159) ha registrato la presenza di minori, per un totale di 259 bambini.
Non ci dobbiamo stupire poi se la gente è ammazzata per strada od in casa. Chiediamoci quale fine ha fatto la denuncia presentata dalla vittima. Chiediamoci se chi ha insabbiato non debba essere considerato concorrente nel reato.
Quando la giustizia è male amministrata, la gente non denuncia e quindi meno sono i processi, finanche ingiusti. Nonostante ciò vi è la prescrizione che per i più, spesso innocenti, è una manna dal cielo. In queste circostanze vien da dire: cosa hanno da fare i magistrati tanto da non aver tempo per i processi e comunque perché paghiamo le tasse, se non per mantenerli?
GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.
Giustizia da matti. L'ultima follia delle toghe: un'indagine sul morso di Suarez, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Una giornata come un’altra, quella di ieri 8 luglio 2014: assolvono i vertici di una delle prime aziende italiane (Mediaset) dopo aver però condannato il fondatore, condannano intanto il pluri-governatore dell’Emilia Romagna che perciò si dimette, aprono un’inchiesta surreale sul morso di Suarez a Chiellini - non l’inchiesta della Fifa: un'altra inchiesta tutta italiana - e per finire la magistratura apre, di passaggio, anche un’indagine sul concorso per magistratura. Questo senza contare le polemiche per gli sms inviati da un sottosegretario alla giustizia (un magistrato) i quali invitavano a votare un candidato per le elezioni del Csm, e senza contare, appunto, le elezioni del Csm, e senza contare, ancora, le dure parole del procuratore generale milanese Manlio Minale in polemica con l’archiviazione dell’esposto del procuratore aggiunto Alfredo Robledo contro il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati per presunte irregolarità nelle assegnazioni - prendete respiro - dopodiché Bruti Liberati ha provveduto a nuove assegnazioni che hanno portato a un nuovo esposto del procuratore aggiunto Robledo: tutto chiaro, no? Una giornata come un’altra, quella di ieri: e non dite che la magistratura sia un potere ormai incontrollabile e irresponsabile, perché potrebbero punirvi e togliervi i benefici di legge, non dite che la magistratura occupi ormai tutta la scena e, ormai priva di contrappesi, si stia cannibalizzando e al tempo stesso respinga qualsiasi riforma che possa farla riassomigliare a qualcosa di normale: non fate i berlusconiani, non fate i renziani travestiti. Da che cosa dovremmo incominciare? Quanto dovrebbe essere lungo, questo articolo, se davvero volessimo approfondire i vari addendi della giornata di ieri? Anche perché è la somma che lascia storditi. La Procura di Roma ha aperto un’indagine sul morso di Suarez durante Uruguay-Italia: l’ipotesi è violenza privata. Che dire? Come commentare? Cioè: davvero in questo preciso momento c’è un pubblico dipendente - ciò che è un magistrato - che sta occupandosi di questa sciocchezza per via di una denuncia del Codacons? E che gliene frega, al Codacons, del morso degli uruguaiani? Ma soprattutto: che ce ne frega, a noi, in un Paese che affoga nelle cause arretrate e dove gli imprenditori rinunciano ai contenziosi perché durerebbero 15 anni?
Poi c’è l’indagine della magistratura sul concorso per magistratura: e qui, invece, che cosa dovremmo pensare? Già è assurdo che basti un pubblico concorso, subito dopo gli studi universitari, per trascorrere tutta la vita da magistrato e percorrere automaticamente tutte le tappe di una lunga carriera: ma - domanda - è solo una battuta chiedersi che razza di magistrati possano uscire da un concorso truccato? Il concorso è quello del 25 e 26 e 27 giugno scorsi: un candidato ha denunciato una serie di irregolarità, il solito impiccione di un Codacons ha chiesto l’accesso ai verbali della commissione, c’è stata un’interrogazione parlamentare bipartisan, su un banco hanno trovato tre codici vidimati e timbrati dalla commissione nonostante il regolamento ne vietasse l’utilizzo: non male. Una candidata è stata scoperta mentre scriveva un tema prima ancora che la traccia venisse dettata: e questa ragazza, se passerà il concorso, finirà sino alla Cassazione. Stiamo facendo i brillanti e gli spiritosi? Rischiamo di scivolare, dite, nel qualunquismo anticasta? Ovunque rischiamo di scivolare, in verità, ci siamo già scivolati: è da almeno vent’anni che questo Paese è subordinato all’azione sempre più discrezionale delle magistrature: procure e tribunali avanzano in territori che appartenevano alla politica e l’imprigionano come i laccetti che imbrigliavano Gulliver. Quando non ci sarà più nessun mediocre politico con cui prendercela, forse, sarà a tutti più chiaro.
Strage Borsellino, errori o depistaggi? Ecco la storia “Dalla parte sbagliata”. In libreria nei primi giorni di luglio 2014 il volume di Rosalba De Gregorio, legale di sette imputati ingiustamente condannati nel primo processo su via D'Amelio, e Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico. La redazione de “Il Fatto Quotidiano” ne anticipa un brano. “Chi si nasconde dietro quel tanto vituperato «terzo livello» che ha legato mafia e pezzi delle Istituzioni attraverso il «papello», ha verosimilmente lo stesso profilo di chi ha ucciso il giudice Borsellino e di chi per 22 anni ci ha dato in pasto una storia da due lire, alla quale abbiamo voluto credere per sedare la diffusa ansia di giustizia che ha scosso il Paese nell’immediato dopo strage”, scrivono l’avvocato Rosalba Di Gregorio e la giornalista Dina Lauricella nel libro “Dalla parte sbagliata”, edito da Castelvecchi, con prefazione del magistrato Domenico Gozzo.Tre processi, 15 anni di indagini, 11 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e un nuovo processo, il “borsellino quater” che sta rimettendo tutto in discussione. Che cosa sappiamo oggi della strage di via d’Amelio e della morte di Paolo Borsellino? Davvero poco se consideriamo che la procura di Caltanissetta ha chiesto la revisione del vecchio processo. Un nuovo pentito, Gaspare Spatuzza, ha rimescolato le carte e oggi in aula, chi stava sul banco degli imputati, siede fra le parti civili. È il caso “dell’avvocato di mafia” Rosalba Di Gregorio, che da oltre vent’anni grida al vento le anomalie di un processo che si è basato sulle affermazioni di uno dei pentiti più anomali che i nostri tribunali abbiano mai visto, Vincenzo Scarantino. Per tutti e tre i gradi di giudizio ha inutilmente difeso 7 degli imputati condannati all’ergastolo (oggi tornati in libertà grazie alle dichiarazioni di Spatuzza), e nel libro racconta, con l’impeto e la passione che le è propria, in una sorta di diario di bordo, questi lunghi anni di processi e sentenze. Dina Lauricella, inviata di Servizio Pubblico, riavvolge il nastro di questa oscura storia del nostro Paese provando a riguardarla da una nuova prospettiva. I due punti di osservazione speciale sono quelli dell’ex pentito Vincenzo Scarantino e dell’avvocato Di Gregorio, legale di numerosi boss di Cosa Nostra, tra cui Bernardo Provenzano, Michele Greco e Vittorio Mangano. “Un racconto che parte dal basso, sicuramente di parte, dalla parte sbagliata, per costringerci all’esercizio di tornare indietro nel tempo, per sbarazzarci della confusione accumulata negli anni e, atti alla mano, rimettere al posto giusto le poche pedine certe”. Le stesse sulle quali, a 22 anni di distanza, è tornata ad indagare la procura di Caltanissetta. Seri e rodati cronisti, formati nell’aula bunker di Palermo durante il maxi processo, arrivati per primi sulle macerie e sui corpi dilaniati di via d’Amelio, hanno una fitta al cuore al pensiero che nei successivi 15 anni di vicende giudiziarie hanno visto, sentito e raccontato una storia che è crollata all’improvviso mostrandosi in tutta la sua fragilità. È stato l’ex procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato a chiedere che i processi «Borsellino» e «Borsellino bis» venissero revisionati a seguito delle rivelazioni del nuovo collaboratore, Gaspare Spatuzza. È per questo che tre anni fa, undici imputati, di cui sette condannati all’ergastolo, sono tornati in libertà. Clamoroso errore giudiziario o vile depistaggio che sia, la storia è da riscrivere e chi ha penna non dovrebbe risparmiare inchiostro. Ne serve molto per raccontare fedelmente i punti salienti dei tre processi che dal 1996 al 2008 hanno indagato sull’omicidio Borsellino. Sarebbe una semplificazione giornalistica dire che dobbiamo buttare all’aria tutti questi anni per colpa di Scarantino o di chi ha creduto in lui. Le sentenze del Borsellino ter, infatti, sopravvivono al terremoto Spatuzza, ma non è un caso: in questo processo Scarantino non ha alcun ruolo. Carcere a vita per l’allora latitante Bernardo Provenzano e per altri 10 imputati di grosso calibro, nessuno dei quali tirato in ballo da Scarantino. Questo troncone scaturisce infatti dalle dichiarazioni di mafiosi doc come Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante o Calogero Ganci. Il processo che la Procura di Catania dovrà revisionare, quando Caltanissetta stabilirà se Scarantino è o meno un calunniatore, come emerso dalle dichiarazioni di Spatuzza, è il Borsellino bis. È qui che Enzino fa da pilastro. Faticherà a distinguere i nomi dei mafiosi che coinvolge, non li riconoscerà in foto, talvolta si contraddirà, ma a fronte di un’informativa del Sisde che metteva in luce la sua parentela con il boss Salvatore Profeta, ha goduto di una fiducia che si è rivelata a dir poco esagerata.
Mostri a prescindere. Misteri e depistaggi. Finti pentiti e inchieste sballate. La strage palermitana di via Mariano D’Amelio, dove il 19 luglio 1992 morirono Paolo Borsellino e 5 agenti di scorta, non è soltanto uno dei peggiori drammi italiani: è anche uno dei più velenosi ingorghi giudiziari di questo Paese, scrive Rosalba Di Gregorio su “Panorama”. Tre processi, decine d’imputati, 7 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e tenute in carcere 18 anni per le false verità (incassate senza riscontri dai magistrati) del pentito Vincenzo Scarantino. Poi una nuova inchiesta, partita nel giugno 2008, ha iniziato a ribaltare tutto grazie alle rivelazioni (stavolta riscontrate) di Gaspare Spatuzza. Nel marzo 2013, a Caltanissetta, è iniziato un nuovo procedimento, con nuovi imputati: il "Borsellino quarter". Da oltre 21 anni Rosalba Di Gregorio, avvocato di Bernardo Provenzano e altri boss di Cosa nostra, contesta nei tribunali le anomalie di una giustizia che si è mostrata inaffidabile come alcuni dei suoi peggiori collaboratori. Con Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico, la penalista cerca adesso di riannodare i fili di una delle vicende più sconcertanti della nostra giustizia e lo fa in un libro difficile e duro, ma spietatamente onesto: Dalla parte sbagliata (Castelvecchi editore, 190 pagine, 16,50 euro). Per capire la portata del disastro d’illegalità di cui si occupa il libro, bastano poche righe della prefazione scritta da Domenico Gozzo, procuratore aggiunto a Caltanissetta: "Non ha funzionato la polizia. Non ha funzionato la magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm (...). Solo un avvocato di mafia ha gridato le sue urla nel vuoto". Urla che non sono bastate a evitare mostruosi errori giudiziari, per i quali nessun magistrato pagherà, e sofferenze indicibili per le vittime di tanta malagiustizia. Panorama pubblica ampi stralci del diario di una visita dell’avvocato Di Gregorio a un cliente sottoposto al "regime duro" del 41 bis nel carcere di Pianosa, appena un mese dopo via D’Amelio. Piombino, agosto 1992. Sotto il sole, all’imbarco, fa caldissimo anche se sono le 8 del mattino. Consegno i documenti e aspetto, ci sono altri due o tre colleghi e dobbiamo imbarcarci per Pianosa. Passano due ore di attesa e io cerco di capire perché mi sento ansiosa: in fondo, al carcere, ci vado da tanti anni. Alcuni colleghi mi hanno detto di vestirmi con abiti che possono essere buttati via, perché a Pianosa c’è troppa sporcizia, e ho indossato zoccoletti di legno, pantaloni di cotone e una maglia: tutto rigorosamente senza parti metalliche e sufficientemente brutto. Aspettiamo ancora, sotto il sole, e non si capisce perché. Tutte le autorizzazioni per i colloqui sono in regola e, infastidita dall’attesa, vado al posto di polizia per capire. "È per colpa sua se ancora non si parte". Non avevano previsto avvocati donne! Stanno convocando il personale femminile che si occupa dei colloqui dei detenuti con i parenti. Si parte. Il panorama è unico e spettacolare. Siamo arrivati a Pianosa e ci accolgono poliziotti e grossi cani che si lanciano ad annusarci appena scesi da una traballante passerella di legno. Meno male che non soffro di vertigini e non ho paura dei cani! Benvenuti a Pianosa. Sbarcati sull’isola, ci informano che è vietato avvicinarsi al mare, che non potremo acquistare né acqua, né altro: dovremo stare digiuni e assetati fino alle 17 sotto il sole, perché non c’è "sala avvocati", né luogo riparato ove attendere, né è consentito andare allo "spaccio delle guardie". (...) La perquisizione per me non è una novità, penso per rassicurarmi. E sbaglio. Nella stanzetta lurida, spoglia, vengo controllata col metal detector. Non suona perché non ho nulla di metallico addosso e allora sto per andarmene. Mi intimano di fermarmi, bisogna perquisire. Ma che significa? La perquisizione manuale non ha senso visto che non ho oggetti metallici. Chiedo a una delle due donne addette alla perquisizione perché ha indossato i guanti di lattice. Le due si guardano e una bisbiglia: "No, forse a lei no, perché fa l’avvocato". Ma che vuol dire? Ho imparato subito e ho sperimentato anche in successive visite, che a Pianosa nessuno sorride, tutti sembrano incazzati, gli avvocati sono i difensori dei mostri e quindi sembra che l’ordine sia di trattarli male: loro sono lo Stato e noi i fiancheggiatori dell’antistato. Questa etichetta, nei processi per le stragi del ’92, ce la sentiremo addosso, ma in modo diverso, forse più subdolo, certamente più sfumato: a Pianosa, invece, è proprio disprezzo. (...) Finalmente esco da quella stanzetta, sudata, anche innervosita, e passo nell’altra stanza a riprendermi il fascicolo di carte processuali, le sigarette e la penna per prendere appunti. O, almeno, pensavo di riprendere queste cose, ma la mia penna è "pericolosa" e mi danno una bic trasparente. Le mie sigarette resteranno lì, perché, per perquisire il pacchetto, sono state tutte tirate fuori e sparse sul bancone sporchissimo. Le mie carte processuali vengono lette, giusto per la sacralità del diritto di difesa. Sono di nuovo con i miei colleghi e sono nervosissima. Ci fanno salire su una jeep, con due del Gom, il Gruppo operativo mobile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che, seduti davanti a noi, ci puntano i mitra in faccia, lungo tutto il percorso che va dal punto di approdo alla "Agrippa". Terra battuta, campetti coltivati dai detenuti: gli altri detenuti di Pianosa, non quelli del 41 bis. (...) Entriamo nella "sala colloqui", se così può definirsi quella stanza stretta, divisa in due, per tutta la sua lunghezza, da un muro di cemento ad altezza di tavolino, sormontato dal famoso "vetro del 41 bis". Come sedile c’è un blocco di cemento, alle nostre spalle c’è il "blindato" che viene chiuso rumorosamente. I rumori di Pianosa sono particolari: non senti parlare nessuno, la consegna pare sia il silenzio, senti solo rumori metallici, forti, sinistri, nel silenzio dell’isola. Non parlano nemmeno i 5 detenuti che ci portano dall’altro lato del vetro. I "boss" – fra loro c’erano anche incensurati, ma questo si scoprirà con 19 anni di ritardo – hanno lo sguardo terrorizzato, si limitano ad abbassare la testa, entrano già con la testa bassa e alle loro spalle viene rumorosamente chiuso il "blindato". Provo a chiedere, per educazione, come stiano, ma nessuno risponde. Io sono uscita da lì senza aver sentito la voce di nessuno di loro. Ma che succede? Perché, anziché guardare me o ascoltarmi, questi guardano, verso l’alto, alle mie spalle? Mi giro di scatto e vedo che lo sportellino del blindato dietro di me, quello che era stato chiuso al mio ingresso, è stato aperto e una guardia del Gom li osserva. No, forse è più giusto dire che li terrorizza con lo sguardo. (...) Torno sulla jeep e sono sconvolta. Per pochi minuti di non-colloquio, sono stata trattata come un delinquente. (...) Ho parlato con giornalisti, con colleghi, con magistrati, al mio ritorno da Pianosa e mi sono sentita dire che, in fondo, non ero obbligata ad andarci e che la mafia aveva fatto le stragi. Inutile ribattere che alcuni di quelli che erano a Pianosa erano presunti innocenti, persone in attesa di giudizio: in tempo di guerra le garanzie costituzionali vengono sospese. (...) "In ogni caso" mi ha detto un avvocato civilista illuminato "se hanno arrestato loro, vuol dire che, come minimo, si sono messi nelle condizioni di essere sospettati". E già... Un vantaggio estetico, però, c’è stato sicuramente. Alla mia seconda visita a Pianosa ho trovato i miei assistiti in forma fisica migliore: tutti magri, asciutti, quasi ossuti, direi. Il cibo razionato e immangiabile ha la sua influenza sulla dieta. (...) Nel ’94 sono stati arrestati, grazie a Vincenzo Scarantino, anche i futuri condannati (oggi scarcerati) del processo Borsellino bis: tra questi, Gaetano Murana, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso e Antonino Gambino erano incensurati e furono accusati da Scarantino di concorso nella strage di via D’Amelio. Di questi solo Nino Gambino sarà assolto dalla grave accusa d’aver partecipato al massacro del 19 luglio ’92. Gli altri, assolti in primo grado dopo la ritrattazione di Scarantino, saranno condannati e poi riarrestati a seguito dell’ulteriore ritrattazione della ritrattazione del "pentito a corrente alternata". Oggi, dopo Gaspare Spatuzza, sono scarcerati. Tutti, comunque, erano stati amorevolmente accolti nelle carceri di Pianosa e Asinara. Uno di questi, a Pianosa, ha subìto una lesione alla retina, per lo "schiaffo" di una guardia del Gom. A un altro sono state fratturate le costole. (...) Racconta, oggi, Tanino Murana: "Appena entrato a Pianosa dopo l’interrogatorio del gip, mi hanno portato alla “discoteca". La discoteca è il nome che i detenuti hanno dato alle celle dell’isolamento, perché li si balla per le percosse e per la paura. "Eppure" dice Tanino "so che dal ’92 al ’94, che è quando arrivai io, si stava peggio. Alcuni detenuti mi hanno detto, poi, quando li ho incontrati in altre carceri, che all’inizio il trattamento era peggiore". E perché non glielo hanno raccontato subito, mentre eravate a Pianosa? "Lì non si poteva parlare: si doveva stare in silenzio nelle celle a tre, o quattro posti. Le guardie del Gom non ci volevano sentire neppure bisbigliare. Ma questo vale da quando ci portavano in sezione. Alla discoteca si stava in cella singola". Era l’isolamento. L’accoglienza al supercarcere prevedeva, per iniziare, che il detenuto si spogliasse completamente e, nudo, iniziasse a fare le flessioni sulle gambe... tante, fino a non avere più fiato e, nel frattempo, veniva preso a botte dalle guardie, cinque, sei, otto... "Non lo so quanti erano... a un certo punto non capivi più nulla e trascinandoti di peso, ti portavano, nudo e stremato, fino alla cella, in discoteca, scaraventandoti dentro la stanzetta spoglia e sporca". Qui iniziava la seconda parte del trattamento: perquisizioni, flessioni, acqua e brodaglia razionati, botte, di giorno e di notte, per non farti dormire. "Appena ti addormentavi entravano le guardie, alcune pure incappucciate, spesso ubriache e davano pugni, calci, schiaffi... Dopo un po’ di tempo ho chiesto che mi uccidessero, non ce la facevo più". (...) Ma cosa vi davano da mangiare? "Una pagnotta al giorno, due tetrapak di acqua e poi se riuscivi a mangiarlo, il piatto del giorno". Cosa sarebbe? "Una brodaglia in cui, accanto a qualche pezzetto, o filo di pasta, galleggiava roba di qualunque genere". E cioè? "Io una volta ho trovato pure un preservativo". Ecco perché erano tutti magri e asciutti. Ecco perché, quando Scarantino, nel corso del processo Borsellino, il 15 settembre ’98, ha raccontato il suo trattamento a Pianosa, i detenuti sono rimasti impassibili e noi avvocati avevamo voglia di vomitare. All’epoca, non volendo prestare fede a Scarantino, neppure in ritrattazione, ho cercato di documentarmi. Ho trovato una sentenza del pretore di Livorno10, a carico di due guardie del Gom, processate a seguito della denuncia di un ex ospite di Pianosa, per fatti accaduti in quell’isola "dal luglio ’92 all’08/01/94". (...)
La sentenza (...) riporta il racconto del denunciante, giunto a Pianosa il 20 luglio ’92. "Manganellate, strattoni, pedate, sputi e schiaffi", sia all’entrata, sia all’uscita per andare all’aria. E se "all’aria" non ci andavi, il "trattamento" ti veniva fatto in cella. Il tragitto lungo il corridoio era scivoloso (cera, o detersivo, secondo altre fonti), così si cadeva a terra, diventando bersaglio del "cordone " di 10 o 20 uomini del Gom, che si schieravano nel corridoio, a dare libero sfogo al comportamento "animalesco". Racconta il denunciante – ma non è solo lui, oggi, a riferirlo – che nello shampoo si trovava l’olio, nell’olio si trovava lo shampoo e la pasta era a volte "condita" con i detersivi. Nessuno all’epoca denunciava nulla, perché avevano tutti paura di essere uccisi. Preferivano sopportare le angherie, le botte, gli scherzi, "l’inutile crudeltà" come dice la sentenza. (...) A cosa serviva tanta violenza? Scarantino, che narra d’averla subita tutta quella violenza, sostiene d’essersi determinato a fare il "falso" pentito, perché non era capace più di resistere e non solo alle costrizioni fisiche. Oggi, e nel tempo, ascoltando i racconti di ex detenuti di Pianosa, ti accorgi che il ricordo più vivo sembra quello delle torture psicologiche: le percosse hanno certamente segnato quei corpi, ma te le narrano in modo quasi distaccato. Le hanno subite e, sembra, ormai quasi metabolizzate.
Presentazione su “La Valle dei Templi di Nico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio”. Un boato, sei morti, tanti misteri. Il 19 luglio del 1992 un’autobomba esplodeva in via D’Amelio uccidendo Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. A ventidue anni di distanza, nonostante le inchieste, i processi, le condanne e le successive assoluzioni, oggi ne sappiamo tanto quanto prima, tranne che per il fatto di aver preso coscienza che molto di più, rispetto la strage mafiosa, si cela dietro quell’evento criminale che ha visto falsi pentiti autori di depistaggi che ci hanno portati sempre più lontani dalla verità. Fallimenti dell’apparato investigativo e giudiziario, carenze e incongruenze che emergono sempre più chiare dalle carte processuali, che ci obbligano a fare i conti con una realtà che vorremmo inconsciamente ignorare e che ci mettono dinanzi ad una domanda alla quale non abbiamo una risposta da dare: furono soltanto madornali errori giudiziari o qualcosa di diverso e molto più grave si cela dietro le tante anomalie che hanno caratterizzato l’intera vicenda? “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio” è il libro della giornalista palermitana Dina Lauricella e dell’avvocato Rosalba Di Gregorio che racconta questi venti anni di indagini e processi, partendo dalle dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino, ambigua figura le cui dichiarazioni sono spesso state smentite, per arrivare ad una certa antimafia parolaia e spesso fine a sé stessa alla quale forse poco importa che venga una volta per tutte fatta chiarezza sull’attentato che il 19 luglio del 1992 provocò la morte del Giudice Paolo Borsellino e di altri cinque innocenti caduti nell’adempimento del loro dovere. Non avrei mai pensato di dover scrivere dell’ “Avvocato del diavolo” – come ignominiosamente viene definita Rosalba Di Gregorio – difensore di fiducia di imputati dai cognomi “pesanti” quali Bontate,Pullarà, Vernengo, Marino Mannoia, Mangano, per finire con Provenzano, se non fosse stato per questo libro e per la coltre di silenzio con cui è stata artatamente coperta ogni sua presentazione. Ho conosciuto personalmente l’Avvocato Rosalba Di Gregorio e l’ho conosciuta in quelle aule giudiziarie laddove era in corso un processo per strage contro i vertici di Cosa Nostra. Lei “dalla parte sbagliata”, difensore di fiducia del boss o ex tale, io per scriverne “dalla parte giusta”, accanto ai familiari di vittime innocenti di mafia. In quell’aula non c’erano gli antimafiosi di professione, né, purtroppo, i tanti giornalisti che oggi artatamente ignorano la Di Gregorio. È facile fare antimafia così. Facile come porre il marchio di mafiosità a chi per ragioni professionali si trova a difendere “la parte sbagliata”, il “mostro”. Senza entrare nel merito del diritto, del codice deontologico della professione e su quel sacrosanto diritto alla difesa che è consentito ad ogni imputato, dell’Avvocato Di Gregorio ho avuto modo di apprezzare la professionalità, le doti umane e il contegno mantenuto durante le udienze che – a differenza di tanti difensori di cosiddette “persone per bene” che ho avuto modo di incontrare in questi anni – non l’hanno mai spinta ad andare oltre quella che era la difesa del proprio assistito avendo rispetto per l’altrui dolore e per il lavoro e la professionalità del rappresentante legale della controparte. Se questo libro dovesse servire anche a mettere un solo tassello al posto giusto per cercare di ricostruire quello che realmente accadde nel ‘92, sarebbe molto più di quanto tanti di coloro che si professano antimafiosi hanno dato come contributo ad una Verità che forse in molti vorrebbero venisse taciuta per sempre. Se si è alla ricerca della Verità, perchè ignorare o censurare chi può dare un contributo? Perchè non conoscere o voler non fare conoscere le opinioni di chi per ragioni professionali ha seguito le vicende osservandole da un’ottica diversa ma non per questo meno valida o totalmente non rispondente a verità? Del resto – piaccia o meno -, ad oggi, la ricostruzione più verosimile di quei tragici eventi sembra essere proprio quella che emerge dal libro la cui esistenza si vorrebbe fosse ignorata. La prossima manifestazione in cui si parlerà del libro si terrà a Trieste il 12 luglio, organizzata da Libera, che da due anni è riuscita a coinvolgere i parenti di Walter Cosina, morto anche Lui nella strage del 19/7/92. Questi parenti dimenticati, di Vittime trattate come se fossero di serie” b”, hanno tanta fame anche Loro di Verità.
Questa la prefazione di Domenico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, al libro “Dalla parte sbagliata”, di Rosalba Di Gregorio e Dina Lauricella, edito da Castelvecchi: “Normalmente chi scrive la prefazione ha piena conoscenza del libro. Io ammetto di non averla, e per questo la mia è una «prefazione anomala». Ma conosco le autrici. E di loro parlerò. Conosco la vicenda, di cui non parlo, ma penso di avere il dovere, dopo le prime sentenze vicine al giudicato, di stimolare una riflessione che sino ad oggi è, incredibilmente, mancata. E allora, parlando in primis delle autrici, dico che Dina Lauricella mi è sembrata una giornalista indipendente e autonoma. Non fa parte di cordate, e pensa con la sua testa. Qualità rare e importanti. Quanto all’avvocato Di Gregorio, «l’avvocato del Diavolo», cosa dire? Rosalba è una persona che ha una faccia sola. Ha sempre detto, ostinatamente, le stesse cose sul processo di via D’Amelio. Ha sempre detto le stesse cose sui collaboratori. A viso aperto, sopportando, secondo me, conseguenze che l’hanno fatta diventare «un avvocato di mafia», del Diavolo, appunto. Rosalba non è un avvocato di mafia. È un avvocato. E la parola «avvocato» non dovrebbe sopportare ulteriori specifiche. A meno che non si voglia indicare, con quel termine, che si occupa soprattutto di processi di mafia. Il che farebbe anche di principi del Foro antimafia «avvocati di mafia». E a Milano, chi difende i corruttori, come dovremmo chiamarli? «Avvocati della corruzione»? La verità è che la «colpa» di Rosalba è di difendere, e bene, i mafiosi. Ma è una colpa questa? E può essere all’origine di una «messa all’indice» professionale? La verità è che dovremmo limitarci ad ammettere i nostri errori. Dopo le sentenze già intervenute sulBorsellino quater, e senza discutere di prove, dobbiamo o no discutere di questa giustizia, di questa stampa, di questa società, che secondo me, negli anni Novanta, hanno, almeno in parte, fallito? Dobbiamo discutere di chi ha consegnato per 17 anni le chiavi della vita di sette persone innocenti per il reato di strage ad un falso pentito, Scarantino? Dobbiamo avere il coraggio di discutere di una regola, quella della «frazionabilità» delle dichiarazioni dei collaboranti, che forse andrebbe ripensata, perché consente a «collaboranti» scarsamente credibili in via generale di essere utilizzati «per ciò che serve», aprendo il fianco a possibili strumentalizzazioni probatorie? Dobbiamo discutere del fatto che, pur con tutte le considerazioni contenute nelle passate tre sentenze sulla poca credibilità di Scarantino – il processo basato sulle sue dichiarazioni è arrivato sino all’ultimo grado, ed è stato approvato anche in Cassazione? Cosa non ha funzionato? Abbiamo il dovere di chiedercelo. Perché io penso che in questa triste storia nessuno dei relè dello Stato democratico ha funzionato a dovere. Non ha funzionato la Polizia. Non ha funzionato la Magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm. Non ha funzionato la cosiddetta Dottrina. Ma, soprattutto, non ha funzionato la «libera stampa», che dovrebbe essere, e non lo è stata, il vero cane da guardia di una democrazia. Solo un «avvocato di mafia» ha gridato le sue urla nel vuoto. Sin quando, fortunatamente, grazie a nuove prove, la stessa Giustizia ha avuto il coraggio di autoriformarsi. Ma alti sono i prezzi pagati per questo, soprattutto all’interno delle forze dell’ordine. È accettabile tutto questo? Sono accettabili questi 17 anni? E, soprattutto, dobbiamo chiederci con trepidazione: potrebbe nuovamente accadere, magari sta già riaccadendo, quanto è avvenuto in quella occasione? E allora, per evitarlo, devono assisterci i principi generali delle democrazie cosiddette «occidentali». Il diritto di difesa non è un optional. È un principio cardine delle democrazie, per l’appunto, «di diritto». Il difensore di un mafioso non può divenire, per il solo fatto di difendere un mafioso, inattendibile e pericoloso. La verità la può dire un famoso procuratore antimafia, come anche un «avvocato di mafia». Come tutti e due possono andare dietro ad abbagli. Tutto questo, lo capisco, ci costringe a una fatica immane: non ragionare per schemi (buono-cattivo; mafioso-antimafioso) ma ragionare con la nostra testa. Criticando. Leggendo. Facendoci le nostre personali idee. Ma in questo deve aiutarci una stampa autenticamente indipendente. Una stampa che non si schieri né a favore «a priori», né contro «a priori». E necessitiamo di una magistratura aperta ad essere criticata (se le critiche non sono preconcette), e rispettosa dei diritti della difesa. Perché il processo, ricordiamocelo, è, come dicevano i romani, actus trium personarum, è un rito che richiede il necessario intervento di tre persone: il Giudice, il Pubblico Ministero, e la Difesa. Solo così, tenendo in debito conto tutti questi attori, si può arrivare ad accertare una «verità processuale» che assomigli il più possibile alla Verità. In ultimo, qualche breve considerazione, permettetemi, sul cosiddetto fronte antimafia: ilmovimento antimafia, che è di importanza basilare in uno Stato democratico, deve però essere anch’esso democratico, e rispettoso delle opinioni di tutti. «Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere», diceva qualcuno più saggio di me. Isoliamo gli intolleranti per mestiere. Perché dobbiamo viverci tutti insieme, in questo nostro Stato. E dobbiamo edificarlo tutti insieme, su solide basi di verità, anche a costo di ammettere verità scomode. È un debito, questo della verità, che tutti dobbiamo pagare a chi, in quegli anni, perse la vita per una idea di Giustizia e di antimafia.
Rosalba Di Gregorio. Si laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo nel 1979. Nel periodo di praticantato fa esperienza politica nel Partito radicale. L’esperienza più impegnativa dell’inizio della professione sarà il primo maxiprocesso di Palermo, dove, assieme all’avv. Marasà, difenderà una decina di imputati, tra i quali Vittorio Mangano. Dall’esperienza del maxiprocesso e dall’«incontro» in aula con i primi pentiti nascerà il libro L’altra faccia dei pentiti (La Bottega di Hefesto, 1990).
Dina Lauricella. Palermitana «doc», vive a Roma da 14 anni. Ha scritto per diversi quotidiani e settimanali. Nel 2007 entra a far parte della squadra di inviati di Annozero. Per Michele Santoro firma diversi speciali, tra cui La Mafia che cambia, nella quale parla in tv per la prima volta Angelo Provenzano, il figlio del super boss. Stato criminale, la puntata di Servizio Pubblico con ospite Vincenzo Scarantino, trae spunto da questo libro.
Bombe, omicidi e stragi in Sicilia: ecco tutte le accuse a “faccia da mostro”. Pentiti lo additano, quattro procure lo indagano: Giovanni Aiello, ex poliziotto col volto sfregiato, sarebbe in realtà un sicario per delitti ordinati da pezzi deviati dello Stato, oltre che dai padrini. Dall'eversione nera degli anni '70 all'uccisione di Falcone e Borsellino: la storia scritta da Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. Ci sono almeno quattro uomini e una donna che l'accusano di avere ucciso poliziotti come Ninni Cassarà e magistrati come Falcone e Borsellino, di avere fornito telecomandi per le stragi, di avere messo in giro per l'Italia bombe "su treni e dentro caserme". Qualcuno dice che a Palermo ha assassinato pure un bambino. Su di lui ormai indagano tutti, l'Antimafia e l'Antiterrorismo. Sospettano che sia un sicario per delitti su commissione, ordinati da Cosa Nostra e anche dallo Stato. Lo chiamano "faccia da mostro" e ha addosso il fiato di un imponente apparato investigativo che vuole scoprire chi è e che cosa ha fatto, da chi ha preso ordini, se è stato trascinato in un colossale depistaggio o se è davvero un killer dei servizi segreti specializzato in "lavori sporchi". Al suo fianco appare di tanto in tanto anche una misteriosa donna "militarmente addestrata ". Nessuno l'ha mai identificata. Forse nessuno l'ha mai nemmeno cercata con convinzione. Vi raccontiamo per la prima volta tutta la storia di Giovanni Aiello, 67 anni, ufficialmente in servizio al ministero degli Interni fino al 1977 e oggi plurindagato dai magistrati di Caltanissetta e Palermo, Catania e Reggio Calabria. Vi riportiamo tutte le testimonianze che l'hanno imprigionato in una trama che parte dal tentativo di uccidere Giovanni Falcone all'Addaura fino all'esplosione di via Mariano D'Amelio, in mezzo ci sono segni che portano al delitto del commissario Cassarà e del suo amico Roberto Antiochia, all'esecuzione del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie Ida, ai suoi rapporti con la mafia catanese e quella calabrese, con terroristi della destra eversiva come Pierluigi Concutelli. E con l' intelligence . Anche se, ufficialmente, "faccia da mostro" non è mai stato nei ranghi degli 007. Negli atti del nuovo processo contro gli assassini di Capaci — quello che coinvolge i fedelissimi dei Graviano — che sono stati appena depositati, c'è la ricostruzione della vita e della carriera di un ex poliziotto dal passato oscuro. La sua scheda biografica intanto: "Giovanni Pantaleone Aiello, nato a Montauro, provincia di Catanzaro, il 3 febbraio del 1946, arruolato in polizia il 28 dicembre 1964, congedato il 12 maggio 1977, residente presso la caserma Lungaro di Palermo fino al 28 settembre 1981, sposato e separato con l'ex giudice di pace.., la figlia insegna in un'università della California". Reddito dichiarato: 22 mila euro l'anno (ma in una recente perquisizione gli hanno sequestrato titoli per un miliardo e 195 milioni di vecchie lire), ufficialmente pescatore. Sparisce per lunghi periodi e nessuno sa dove va, racconta a tutti che la cicatrice sulla guancia destra è "un ricordo di uno scontro a fuoco in Sardegna durante un sequestro di persona", ma nel suo foglio matricolare è scritto che "è stata causata da un colpo partito accidentalmente dal suo fucile il 25 luglio 1967 a Nuoro". Il suo dossier al ministero dell'Interno, allora: qualche encomio semplice per avere salvato due bagnanti, un paio di punzioni, per molti anni una valutazione professionale "inferiore alla media", un certificato sanitario che lo giudicano "non idoneo al servizio per turbe nevrotiche post traumatiche ". Dopo il congedo è diventato un fantasma fino a quando, il 10 agosto del 2009, è stato iscritto nel registro degli indagati "in riferimento all'attentato dell'Addaura e alle stragi di Capaci e di via D'Amelio". Il 23 novembre del 2012 tutte le accuse contro di lui sono state archiviate. Ma dopo qualche mese "faccia da mostro" è scivolato un'altra volta nel gorgo. È sotto inchiesta per una mezza dozzina di delitti eccellenti in Sicilia e per alcuni massacri, compresi attentati ai treni e postazioni militari. Le investigazioni — cominciate dalla procura nazionale antimafia di Pietro Grasso — ogni tanto prendono un'accelerazione e ogni tanto incomprensibilmente rallentano. Forse troppe prudenze, paura di toccare fili ad alta tensione. Ma ecco chi sono tutti gli accusatori di Giovanni Aiello e che cosa hanno detto di lui. Il primo è Vito Lo Forte, picciotto palermitano del clan Galatolo. La sintesi del suo interrogatorio: "Ho saputo che ci ha fatto avere il telecomando per l'Addaura, ho saputo che era coinvolto nell'omicidio di Nino Agostino e che era un terrorista di destra amico di Pierluigi Concutelli, che ha fatto attentati su treni e caserme, che ha fornito anche il telecomando per via D'Amelio". Poi Lo Forte parla del clan Galatolo che progettava intercettazioni sui telefoni del consolato americano di Palermo, ricorda "un uomo con il bastone" amico di Aiello che è un pezzo grosso dei servizi, che ogni tanto a "faccia da mostro" regalavano un po' di cocaina. Dice alla fine: "Era un sanguinario, non aveva paura di uccidere". E racconta che Aiello, il 6 agosto 1985, partecipò anche all'omicidio di Ninni Cassarà e dell'agente Roberto Antiochia: "Me lo riferì Gaetano Vegna della famiglia dell'Arenella. Dopo, alcuni uomini d'onore erano andati a brindare al ristorante di piazza Tonnara. Insieme a loro c'era anche Aiello, che aveva pure sparato al momento dell'omicidio, da un piano basso dell'edificio". Il secondo accusatore si chiama Francesco Marullo, consulente finanziario che frequentava Lo Forte e il sottobosco mafioso dell'Acquasanta. Dichiara: "Ho incontrato un uomo con la cicatrice in volto nello studio di un avvocato palermitano legato a Concutelli... Un fanatico di estrema destra... dicevano che quello con la cicatrice fosse uomo di Contrada (il funzionario del Sisde condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr) ". Il terzo che punta il dito contro Giovanni Aiello è Consolato Villani, 'ndranghetista di rango della cosca di Antonino Lo Giudice, boss di Reggio Calabria: "Una volta lo vidi... Mi colpì per la particolare bruttezza, aveva una sorta di malformazione alla mandibola... Con lui c'era una donna, aveva capelli lunghi ed era vestita con una certa eleganza". E poi: "Lo Giudice mi ha parlato di un uomo e una donna che facevano parte dei servizi deviati, vicini al clan catanese dei Laudani, gente pericolosa. In particolare, mi diceva che la donna era militarmente addestrata, anche più pericolosa dell'uomo ". E ancora: "Lo Giudice aggiunse pure che questi soggetti facevano parte del gruppo di fuoco riservato dei Laudani, e che avevano commesso anche degli omicidi eclatanti, tra cui quello di un bambino e di un poliziotto e che erano implicati nella strage di Capaci". Il quarto accusatore, Giuseppe Di Giacomo, ex esponente del clan catanese dei Laudani, di "faccia da mostro" ne ha sentito parlare ma non l'ha mai visto: "Il mio capo Gaetano Laudani aveva amicizie particolari… In particolare con un tale che lui indicava con l'appellativo di “ vaddia” (guardia, in catanese, ndr). Laudani intendeva coltivare il rapporto con “ vaddia” in quanto appartenente alle istituzioni ". Per ultima è arrivata la figlia ribelle di un boss della Cupola, Angela Galatolo. Qualche settimana fa ha riconosciuto Aiello dietro uno specchio: "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino". Tutte farneticazioni di pentiti che vogliono inguaiare un ex agente di polizia? E perché mai un pugno di collaboratori di giustizia si sarebbero messi d'accordo per incastrarlo? Fra tanti segreti c'è anche quello di un bambino ucciso a Palermo. Ogni indizio porta a Claudio Domino, 10 anni, assassinato il 7 ottobre del 1986 con un solo colpo di pistola in mezzo agli occhi. Fece sapere il mafioso Luigi Ilardo al colonnello dei carabinieri Michele Riccio: "Quell'uomo dei servizi di sicurezza con il viso sfigurato era presente quando fecero fuori il piccolo Domino". Poi uccisero anche il mafioso: qualcuno aveva saputo che voleva pentirsi. La figlia ribelle di un boss della Cupola ha incastrato l'uomo misterioso che chiamano "faccia da mostro". L'ha indicato come "un sicario" al servizio delle cosche più potenti di Palermo. È un ex poliziotto, forse anche un agente dei servizi segreti. Ed è sospettato di avere fatto stragi e delitti eccellenti in Sicilia. "Ne sono sicura, è lui", ha confermato Giovanna Galatolo dietro un vetro blindato. Così le indagini sulla trattativa Stato-mafia, sulle uccisioni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino - ma anche quelle sul fallito attentato all'Addaura e probabilmente sugli omicidi di tanti altri funzionari dello Stato avvenuti a Palermo - dopo più di vent'anni di depistaggi stanno decisamente virando verso un angolo oscuro degli apparati di sicurezza italiani e puntano su Giovanni Aiello. Ufficialmente è solo un ex graduato della sezione antirapine della squadra mobile palermitana, per i magistrati è un personaggio chiave "faccia da mostro" - il volto sfigurato da una fucilata, la pelle butterata - quello che ormai si ritrova al centro di tutti gli intrighi e di tutte le investigazioni sulle bombe del 1992. "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari che dovevano restare molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino", ha confessato Giovanna Galatolo, l'ultima pentita di Cosa Nostra, figlia di Vincenzo, mafioso del cerchio magico di Totò Riina, uno dei padrini più influenti di Palermo fra gli anni 80 e 90, padrone del territorio da dove partirono gli squadroni della morte per uccidere il consigliere Rocco Chinnici e il segretario regionale del partito comunista Pio La Torre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il commissario Ninni Cassarà. "È lui", ha ripetuto la donna indicando l'ex poliziotto dentro una caserma della Dia. Un confronto "all'americana", segretissimo, appena qualche giorno fa. Da una parte lei, dall'altra Giovanni Aiello su una piattaforma di legno in mezzo a tre attori che si sono camuffati per somigliargli. "È lui, non ci sono dubbi. Si incontrava sempre in vicolo Pipitone (il quartiere generale dei Galatolo, ndr) con mio padre, con mio cugino Angelo e con Francesco e Nino Madonia", ha raccontato la donna davanti ai pubblici ministeri dell'inchiesta-bis sulla trattativa Stato-mafia Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Un riconoscimento e poi qualche altro ricordo: "Tutti i miei parenti lo chiamavano "lo sfregiato", sapevo che viaggiava sempre fra Palermo e Milano... ". La figlia del capomafia - che otto mesi fa ha deciso di collaborare con la giustizia rinnegando tutta la sua famiglia - aveva con certezza identificato Giovanni Aiello come amico di Cosa Nostra anche in una fotografia vista in una stanza della procura di Caltanissetta, quella che indaga sulle uccisioni di Falcone e Borsellino. Dopo tante voci, dopo tanti sospetti, adesso c'è qualcuno che inchioda lo 007 dal passato impenetrabile, scivolato in un gorgo di inchieste con le ammissioni di qualche altro pentito e di alcuni testimoni. Sembra finito in una morsa, da almeno un anno Giovanni Aiello è indagato dai magistrati di quattro procure italiane - quella di Palermo e quella di Caltanissetta, quella di Catania e quella di Reggio Calabria - che tentano di ricostruire chi c'è, oltre ai boss di Cosa Nostra, dietro i massacri dell'estate siciliana del 1992. E anche dietro molti altri delitti importanti degli anni Ottanta. Ora, con le nuove rivelazioni di Giovanna Galatolo, la posizione dell'ex poliziotto è diventata sempre più complicata. Questa donna è la depositaria di tutti i segreti del suo clan, per ordine del padre faceva la serva ai mafiosi, cucinava, stirava, spesso lavava anche gli abiti sporchi di sangue, sentiva tutto quello che dicevano, vedeva entrare e uscire dalla sua casa i boss. E anche Giovanni Aiello. Giovanna Galatolo parla pure del fallito attentato dell'Addaura, 56 candelotti di dinamite che il 21 giugno del 1989 dovevano far saltare in aria Giovanni Falcone sugli scogli davanti alla sua villa. Erano appostati lì gli uomini della sua famiglia, i Galatolo. C'era anche Giovanni Aiello? E "faccia da mostro" è coinvolto nell'uccisione di Nino Agostino, il poliziotto assassinato neanche due mesi dopo il fallito attentato dell'Addaura - il 5 agosto - insieme alla moglie Ida? Il padre di Nino Agostino ha sempre raccontato che "un uomo con la faccia da cavallo" aveva cercato suo figlio pochi giorni prima del delitto. Era ancora Giovanni Aiello? La sua presenza è stata segnalata sui luoghi di tanti altri omicidi palermitani. Tutti addebitati ai Galatolo e ai Madonia. Lui, l'ex agente della sezione antirapine (quando il capo della Mobile era quel Bruno Contrada condannato per i suoi legami con la Cupola) ha sempre respinto naturalmente ogni accusa, affermando anche di non avere più messo piede in Sicilia dal 1976, anno nel quale si è congedato dalla polizia. Una dichiarazione che si è trasformata in un passo falso. Qualche mese fa la sua casa di Montauro in provincia di Catanzaro - dove Giovanni Aiello è ufficialmente residente - è stata perquisita e gli hanno trovato biglietti recenti del traghetto che da Villa San Giovanni porta a Messina, appunti in codice, lettere, titoli per 600 milioni di vecchie lire, articoli di quotidiani che riportavano notizie su boss come Bernardo Provenzano e su indagini del pool antimafia palermitano, assegni. Dopo quella perquisizione, gli hanno notificato a casa un ordine di comparizione per il confronto con la Galatolo, ha accettato presentandosi con il suo avvocato. Il riconoscimento di Giovanni Aiello segue di molti anni le confidenze di un mafioso al colonnello dei carabinieri Michele Riccio. Il confidente si chiamava Luigi Ilardo e disse: "Noi sapevamo che c'era un agente a Palermo che faceva cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro". Era il 1996. Poco dopo quelle rivelazioni Luigi Ilardo - tradito da qualcuno che era a conoscenza del suo rapporto con il colonnello dei carabinieri - fu ucciso. Anche lui parlava di Giovanni Aiello? Le confessioni della Galatolo stanno aprendo una ferita dentro la Cosa Nostra palermitana. Non solo misteri di Stato e connivenze ma anche un terremoto all'interno di quel che rimane delle famiglie storiche della mafia siciliana. "Come donna e come persona non posso essere costretta a stare con uomini indegni, voglio essere libera e non appartenere più a quel mondo, per questo ho deciso di dire tutto quello che so", così è cominciata la "liberazione" di Giovanna Galatolo che una mattina dell'autunno del 2013 si è presentata al piantone della questura di Palermo con una borsa in mano. Ha chiesto subito di incontrare un magistrato: "Ho 48 anni e la mia vita è solo mia, non me la possono organizzare loro". Del suo passato, la donna ha portato con sé solo la figlia. L'uomo del mistero che chiamano "faccia da mostro" l'abbiamo trovato in un paese della Calabria in riva al mare. È sospettato di avere fatto omicidi e stragi in Sicilia, come killer di Stato. È un ex poliziotto di Palermo, ha il volto sfregiato da una fucilata. Vive da eremita in un capanno, passa le giornate a pescare. Quando c'è mare buono prende il largo sulla sua barca, "Il Bucaniere". Ogni tanto scompare, dopo qualche mese torna. Nessuno sa mai dove va. Sul suo conto sono girate per anni le voci più infami e incontrollate, accusato da pentiti e testimoni "di essere sempre sul luogo di delitti eccellenti" come ufficiale di collegamento tra cosche e servizi segreti. È davvero lui il sicario a disposizione di mafia e apparati che avrebbe ucciso su alto mandato? È davvero lui il personaggio chiave di tanti segreti siciliani? L'uomo del mistero nega tutto e per la prima volta parla: "Sono qui, libero, mi addossano cose tanto enormi che non mi sono nemmeno preoccupato di nominare un avvocato per difendermi". Ha 67 anni, si chiama Giovanni Aiello e l'abbiamo incontrato ieri mattina. Abita a Montauro, in provincia di Catanzaro. Da questo piccolo comune ai piedi delle Serre - il punto più stretto d'Italia dove solo trentacinque chilometri dividono il Tirreno dallo Jonio - sono ripartite le investigazioni sulle stragi del 1992. L'ex poliziotto trascinato nel gorgo di Palermo l'abbiamo incontrato ieri mattina, davanti al suo casotto di legno e pietra sulla spiaggia di contrada Calalunga. Sotto il canneto la sua vecchia Land Rover, in un cortile le reti e le nasse. "La mia vita è tutta qui, anche mio padre e mio nonno facevano i pescatori", ricorda mentre comincia a raccontare chi è e come è scivolato nella trama. È alto, muscoloso, capelli lunghi e stopposi che una volta erano biondi, grandi mani, una voce roca. Dice subito: "Se avessi fatto tutto quello di cui mi accusano, lo so che ancora i miei movimenti e i miei telefoni sono sotto controllo, dovrei avere agganci con qualcuno al ministero degli Interni, ma io al ministero ci sono andato una sola volta quando dovevo chiedere la pensione d'invalidità per questa". E si tocca la lunga cicatrice sul lato destro della sua faccia, il segno di un colpo di fucile. Tira vento, si chiude il giubbotto rosso e spiega che quello sfregio è diventata la sua colpa. Inizia dal principio, dal 1963: "In quell'anno mi sono arruolato in polizia, nel 1966 i sequestratori della banda di Graziano Mesina mi hanno ridotto così durante un conflitto a fuoco in Sardegna, trasferito a Cosenza, poi a Palermo". Commissariato Duomo, all'anti-rapine della squadra mobile, sezione catturandi. Giovanni Aiello fa qualche nome: "All'investigativa c'era Vittorio Vasquez, anche Vincenzo Speranza, un altro funzionario. Comandava Bruno Contrada (l'ex capo della Mobile che poi è diventato il numero 3 dei servizi segreti ed è stato condannato per mafia, ndr) e poi c'era quello che è morto". Di quello "che è morto", Boris Giuliano, ucciso il 21 luglio del 1979, l'ex poliziotto non pronuncia mai il nome. Giura di non avere più messo piede a Palermo dal 1976, quando ha lasciato la polizia di Stato. Dice ancora: "Tutti quegli omicidi e quelle stragi sono venuti dopo, mai più stato a Palermo neanche a trovare mio fratello". Poliziotto anche lui, congedato nel 1986 dopo che una bomba carta gli aveva fatto saltare una mano. Giovanni Aiello passeggia sul lungomare di Montauro e spiega quale è la sua esistenza. Mare, solitudine. Pochissimi amici, sempre gli stessi. Sarino e Vito. L'ex poliziotto torna alla Sicilia e ai suoi orrori: "So soltanto che mi hanno messo sott'indagine perché me l'hanno detto amici che sono stati ascoltati dai procuratori, anche mio cognato e la mia ex moglie. E poi tutti frastornati a chiedermi: ma che hai fatto, che c'entri tu con quelle storie? A me non è mai arrivata una carta giudiziaria, nessuno mi ha interrogato una sola volta". Ha mai conosciuto Luigi Ilardo, il mafioso confidente che accusa un "uomo dello Stato con il viso deturpato" di avere partecipato a delitti eccellenti? "Ilardo? Non so chi sia". Mai conosciuto Vito Lo Forte, il pentito dell'Acquasanta che parla della presenza di "faccia da mostro" all'attentato all'Addaura del giugno 1989 contro il giudice Falcone? "Mai visto". Mai conosciuto il poliziotto Nino Agostino, assassinato nell'agosto di quello stesso 1989? "No". E suo padre Vincenzo, che dice di avere visto "un poliziotto con i capelli biondi e il volto sfigurato" che cercava il figlio qualche giorno prima che l'uccidessero? "Non so di cosa state parlando". L'uomo del mistero si tira su la maglia e fa vedere un'altra cicatrice. Una coltellata al fianco destro. "Un altro regalo che mi hanno fatto a Palermo". E ancora: "Tutti parlano di me come faccia da mostro, ma non credo di essere così brutto". Continua a raccontare, del giorno che passò la visita per entrare in Polizia: "Pensavo di essere stato scartato, invece una mattina mi portarono in una caserma fuori Roma e mi accorsi che io, con il mio metro e 83 di altezza, ero il più basso". Estate 1964. "Molto tempo dopo ho saputo che tutti noi, 320 giovanissimi poliziotti ben piantati, eravamo stati selezionati come forza di supporto - non so dove - per il golpe del generale Giovanni De Lorenzo". La famosa estate del "rumore di sciabole" contro il primo governo di centrosinistra, il "Piano Solo". Il primo intrigo dove è finito Giovanni Aiello. Forse non l'ultimo. Forse. Di certo è che su di lui oggi indagano, su impulso della direzione nazionale antimafia, quattro procure italiane. Quelle di Palermo e Caltanissetta per le bombe e la trattativa, quelle di Reggio Calabria e Catania per i suoi presunti contatti con ambienti mafiosi. I dubbi su "faccia da mostro" sono ancora tanti. Non finiscono mai.
Quando di un’inchiesta si appropriano i mass media, vincono le illazioni, i sospetti, i teoremi su una colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun giudice si è pronunciato. Il libro diventa un circostanziato atto d’accusa contro il circuito infernale che da troppi anni lega parte della magistratura a pezzi dell’informazione. Il dr Antonio Giangrande, cittadino avetranese, autore di decine di saggi, tra cui i libri su Sara Scazzi, denuncia in tutta Italia: ora basta questa barbarie !!!
Maurizio Tortorella, vicedirettore di “Panorama”, discute con tempi.it del rapporto fra procure e redazioni: «Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco». Carcerazione preventiva e giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì, all’incontro “Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano, hanno avuto profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e di Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con la stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana. Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).
Quando nascono i primi processi a mezzo stampa?
«Tutto comincia con Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni, perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero. Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile. Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo, né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non è ancora stabilita la colpevolezza».
Perché si è modificata la procedura penale?
«Si intendeva migliorare le nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche arretrate, ben lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è stata peggiore della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo infernale funziona anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare l’interrogatorio. È il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei virgolettati di un interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa, perché la difesa ha rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è necessario sentire soltanto l’accusa per redigere un articolo».
La “gogna” mediatica colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso un colore politico?
«Il garantismo non è un’idea molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la sinistra a essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più galera, pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il centrodestra ha un orientamento garantista».
Pubblicare stralci di documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?
«Si dovrebbero ascoltare più voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati. Trovo mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla procura arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello stesso colore politico del magistrato in questione».
La carcerazione preventiva e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?
«Certo. Nello Rossi, procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica, ammette che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado. Perché? Sul piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una sentenza, che impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più segue i processi – come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si svolgono sui giornali. Il vero processo è di carta.
Sbattere il mostro in prima pagina: quando l’orco è uno di noi, scrive in un suo editoriale Raffaella De Grazia. Massimo e Carlo, padri di famiglia realizzati e felici. Massimo e Carlo, lavoratori stacanovisti dalla vita senza ombre. Sono i vicini di casa ideali, i mariti fedeli, coloro ai quali affidereste volentieri i vostri figli, gli amici di mille bevute al bar, mentre si guarda l’ennesima partita di calcio. Se è vero ciò che sostiene Goya – e cioè che “Il sonno della ragione genera mostri” – allora Massimo e Carlo sono gli esempi più eclatanti di come, spesso, la ricerca dell’esecutore di crimini tanto efferati quanto immotivati che macchiano di sangue il nostro Bel Paese debba essere indirizzata poco lontano dalle sempre meno rassicuranti mura domestiche, più vicino a quella che l’uomo medio, erroneamente, denomina la “zona sicura”. Il “mostro”, identificato comunemente come lo sconosciuto, lo “straniero” che porta via la serenità ad una piccola comunità pare essere, invece, sempre più spesso un componente della stessa. E’ inserito perfettamente nel tessuto sociale del paese che gli ha dato i natali, contribuisce all’economia autoctona, conosce tutto di tutti. Nessuno dei suoi parenti o amici ha però idea del suo “lato oscuro”, delle sue perversioni inconfessabili, nemmeno nell’attimo stesso in cui il mostro le confessa, lasciando attoniti persino i più diffidenti tra i suoi conterranei. Il caso di Avetrana ha fatto tristemente “scuola” in tal senso. Come dimenticare lo sgomento di parenti, amici e vicini di casa nel conoscere la vera, presunta natura della famiglia Misseri, umili braccianti fuori le mura domestiche ma, al contempo, spietati killer di una 15enne, peraltro loro stretta parente? Eventi drammatici come il caso di Sarah Scazzi hanno catalizzato l’attenzione mediatica, generando un’ondata di morboso interesse attorno a simili crimini dettati dall’odio. Nello stesso periodo in cui le indagini sull’omicidio della piccola Sarah proseguivano – tra dichiarazioni ufficiali e smentite mezzo stampa – un’altra piccola, innocente creatura spariva, inghiottita dal nulla. Si trattava della 13enne Yara Gambirasio, grande sorriso e voglia di vivere appieno la sua adolescenza, oramai alle porte. Il mostro che ha privato la 13enne Yara del suo bene più prezioso – il diritto alla vita – è stato cercato ovunque. Sin dagli istanti successivi alla sua sparizione, però, il dito dell’intera comunità di Brembate di Sopra e non solo era stato puntato solo contro un operaio extracomunitario. Qual era la sua colpa? Ai compaesani di Yara era forse sembrato più facile “sbattere in prima pagina” un “corpo estraneo” alla propria comunità? Erano tanti i dubbi che circolavano attorno ad un caso così complesso, con pochi reperti a disposizione. Di certo c’è che mai nessun abitante di Brembate avrebbe immaginato di dover cercare il mostro proprio vicino a casa propria, di identificarlo nelle vesti dell’ uomo qualunque, sposato, incensurato e papà di tre figli piccoli. Ancora più cruenta è stata la svolta nel terribile, triplice omicidio di Motta Visconti. Cristina, Giulia e Gabriele hanno perso la vita per mano di una persona talmente vicina a loro da risultare assolutamente insospettabile. Ricordiamo, quasi sempre, più facilmente i nomi dei killer che delle proprie vittime, quando non dovrebbe essere così. Difficilmente, però, dimenticheremo quei volti, visibilmente felici nelle foto di rito, la cui esistenza è stata strappata via per motivi tanto futili quanto squallidi. Voleva un’altra donna il “papà-mostro” che, nella notte d’esordio “mondiale” della nostra Nazionale, ha ucciso senza pietà sua moglie ed i suoi due piccoli bimbi, di appena 5 anni e 20 mesi. Una storia raccapricciante che, man mano che il tempo passa, si arricchisce di orpelli sempre più orridi. Un altro mostro dalla faccia pulita, che sorride beffardo abbracciando sua moglie. Un altro mostro da sbattere in prima pagina, per non dimenticare l’orrore perpetrato dall’uomo comune.
Di che ci stupiamo?
Yara, fermato un uomo. E’ già il killer, scrive “Il Garantista”. Non è detto che sia la fine del giallo iniziato quattro anni fa ma di sicuro, dopo mesi di stasi apparente nelle indagini, si configura come una svolta cruciale l’arresto di uomo di quaranta anni accusato di essere l’assassino di Yara Gambirasio. A riferire della cattura del presunto colpevole è il ministro dell’Interno in persona: «Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara Gambirasio. E’ una persona dello stesso paese dove viveva la vittima»- annuncia Alfano. Ad incastrare l’uomo, un muratore della provincia di Bergamo, sposato e padre di tre figli, sarebbe stata l’analisi del suo Dna che è stato ritenuto dagli esperti sovrapponibile con le tracce biologiche ritrovate sul corpo di Yara ( che era astato rinvenuto il 21 febbraio 2011 dopo quasi un anno di estenuanti ricerche). Per maggiori dettagli Alfano invita ad essere pazienti e aspettare le prossime ore. Pazienza di cui però il ministro e la maggior parte dei media non hanno dato prova additando un uomo che non è nemmeno ancora stato messo sotto processo come inequivocabilmente colpevole.
Caso Yara, così la stampa sbatte il mostro in prima pagina, scrive Angela Azzaro su “Il Garantista”. Un presunto colpevole – al solito – che diventa senza dubbio l’assassino. Un fermato che viene dato – al solito – in pasto alla rabbia del popolo. Le indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio sono diventate una brutta pagina di giornalismo e politica, e stavolta non è colpa della magistratura. Anzi, la procura di Bergamo, a poche ore dal fermo di Massimo Giuseppe Borsetti, è dovuta intervenire in polemica con il ministro dell’Interno. Perché Alfano aveva dato la notizia parlando di “assassino”. Sentenza già emessa. Il procuratore Francesco Dettori si è sentito obbligato a intervenire, per correggere: «Volevamo il massimo riserbo. Questo anche a tutela dell’indagato in relazione al quale, rispetto alla Costituzione, esiste la presunzione di innocenza». Il capo del Viminale – ex ministro della Giustizia – questi dettagli del diritto non li conosce bene. Perciò ha tuonato, mettendo da parte ogni dubbio: il popolo italiano «aveva il diritto di sapere e ha saputo per essere rassicurato». L’intervento di Alfano ha provocato un vero e proprio linciaggio. Rafforzati dall’intervento del ministro, quasi tutti i giornali, sia nella versione cartacea ma soprattutto in quella on line, hanno dato libero sfogo alla caccia al mostro. Il muratore fermato è diventato immediatamente il reietto, la sua foto sbattuta in prima pagina. Con facebook ci vogliono pochi secondi, si entra nei profili, si prende l’immagine e si fa girare con scritto: è lui il killer. Ma è facile anche prendere altre foto, come quelle con i tre figli, due bambine e un bambino, o quelle con la moglie, adesso chiusi in casa per paura di ripercussioni. La caccia al mostro: giornali all’assalto. Tra i titoli peggiori letti ieri, spicca quello di Repubblica. “E’ lui l’assassino di Yara”, dove le virgolette servono formalmente per riprendere la dichiarazione di Alfano, sostanzialmente sono un modo per condannare ma salvandosi la coscienza. Senza ipocrisie, Libero (“Preso l’assassino di Yara”) e il Giornale che mette insieme Yara e il caso di Motta Visconti (“Schifezze d’uomini”). Su molti quotidiani campeggiava la foto del “colpevole” e vicino, quasi citazione di un mondo che fu, la parola “presunto”. A non mettere in prima pagina la foto del mostro solo pochi giornali, tra cui il Corriere (che la pubblica all’interno, ma l’aveva pubblicata sull’home-page dell’on line) e l’Unità. Per il resto un lancio di pietre virtuali e l’indicazione della via dove abita la famiglia del fermato, fosse mai che qualcuno voglia provare a farla pagare a loro. Un caso esemplare di gogna mediatica. Certo, non è la prima volta che assistiamo a processi sommari di questo tipo. Sempre più spesso in Italia la presunzione di innocenza è un valore costituzionale di cui vergognarsi. Sono tanti i casi soprattutto di cronaca che diventano processi pubblici, senza né primo, né secondo, né terzo grado di giudizio. La sentenza è immediata, la condanna certa. E poco importa se poi nelle aule di tribunale mancano le prove certe. Questa volta però è accaduto qualcosa di più grave: un ministro dell’Interno che dovrebbe far rispettare le regole è stato il primo a “tradirle” in nome del clamore e della pubblicità personale che avrebbe potuto ricavare dalla vicenda. Del resto, bisogna dire che non è la prima volta che i giornali annunciano la cattura dell’assassino di Yara. Con la stessa certezza di oggi descrissero come mostro un ragazzetto egiziano, arrestato 24 ore dopo l’omicidio, e che – si seppe dopo un paio di settimane – con l’omicidio non c’entrava niente di niente ed era stato fermato per un clamoroso errore degli inquirenti. Proprio un caso come questo, così estremo, ci aiuta a capire ancora meglio come il rispetto delle regole sia fondamentale. Tutto fa pensare che Massimo Giuseppe Borsetti sia colpevole, ma proprio per questo dobbiamo essere cauti, per far sì che il processo si svolga nel migliore dei modi, senza interferenze e senza decidere al posto dei giudici. Solo così si può garantire una giustizia giusta e non processi sommari. Ma soprattutto solo in questo modo possiamo evitare di diventare meno umani, più incivili. Il sangue richiama sangue. La parola assassino solletica gli istinti peggiori. Dopo l’arresto del presunto assassino di Yara e dopo la confessione di Carlo Lissi di aver ucciso lui la moglie e due figli a Motta Visconti, sul web è partita una gara a chi la sparava più grande. Dall’ergastolo alle pene corporali. Fino alla richiesta di ripristinare la pena di morte, avanzata da Stefano Pedica, esponente della direzione del Pd, e dal suo compagno di partito, il senatore Stefano Esposito.
Yara: l'oscenità della giustizia-spettacolo, scrive Marco Ventura su “Panorama”. La cattura del presunto killer doveva avvenire senza clamori, proteggendo innocenti e minori. Invece, nel tritacarne, ci sono finiti tutti. Uno spettacolo immondo, inaccettabile, folle. Senza nulla di umano, di corretto, di giustificato. È la vicenda-spettacolo della cattura del presunto assassino di Yara Gambirasio. Una storia terribile, data in pasto senza le dovute cautele - complici autorità e giornalisti - a una pubblica opinione insieme respinta e attratta, attonita ma anche, forse, perversamente golosa dei particolari raccapriccianti, addirittura piccanti, di uno dei più clamorosi delitti di cronaca degli ultimi anni: Yara, la ragazzina di 13 anni uccisa il 26 novembre 2010 e ritrovata dopo tre mesi. Questa tragedia è diventata un thriller, un giallo, uno show, un noir, una gara a chi annuncia per primo la chiusura del caso (che non c’è). A chi ricama meglio. Sui giornali, in televisione, su Twitter. Senza ritegno, senza alcun rispetto per le famiglie coinvolte. Un intreccio sul quale ha improvvidamente alzato il sipario il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, quando secondo i magistrati non erano ancora concluse le operazioni di convalida del fermo del presunto assassino, Massimo Giuseppe Bossetti. Da dove cominciare per dire quanto dovremmo provare disagio per noi stessi, per questo paese, per chi ha gestito la vicenda? Potrei cominciare da un’ipotesi che oggi pare assurda ma che troppi errori giudiziari inducono a non considerare così improbabile: l’ipotesi che l’arrestato sia innocente. A dispetto delle notizie trapelate sul test del Dna confrontato con la macchia di sangue rinvenuta sugli slip della vittima. A dispetto delle convinzioni degli inquirenti (i primi però a invitare alla cautela, perché la prova del Dna non è certa al mille per mille, parliamo sempre di probabilità). L’altro elemento è la quantità di vite umane gettate nel tritacarne di una troppo affrettata divulgazione delle indagini. Adulti e minori, padri e patrigni, figli e figlie, gemelli, fratelli e fratellastri, madri, amanti, cugini, suoceri, amici... Ormai sappiamo tutto (dell’accusa). Il carpentiere sarebbe figlio illegittimo della relazione tra un autista morto (e riesumato) e una donna sposata. L’autista ha una vedova e tre figli (che non c’entrano nulla ma si ritrovano sulle prime pagine dei giornali: un imprenditore “di successo”, una madre “felice” e un idraulico “stimato”). I cronisti di “Repubblica” scrivono che tacciono, “introvabili dietro i loro citofoni nel centro di Clusone”. Già. L’assedio è cominciato, chissà quanto dovrà durare. C’è la madre del presunto assassino, che nega la relazione clandestina ma nessuno le crede e viene descritta come “la donna dei misteri”, barricata dietro le persiane della sua casa di Terno d’Isola. Addirittura i giornalisti abbozzano sentenze: lei assicura che Massimo “è figlio naturale di mio marito”, e così “tenta di salvarlo dalle accuse che lo hanno travolto”. Ecco i sospetti, nascosti dietro punti interrogativi. Lei cerca “di difendere anche di fronte all’evidenza quel segreto inconfessabile che solo gli esami del Dna hanno potuto svelare? E soprattutto: è stata lei negli ultimi mesi più consapevole del figlio che il cerchio delle indagini si stava stringendo attorno a Massimo?”. Già, perché tutti a chiedersi se Massimo sapesse, a sua volta, di essere figlio illegittimo di un altro padre. E con lui la sorella gemella. Poi c’è il terzo figlio, fratellastro di Massimo, di nome e di fatto del padre che non sa più se credere alla moglie e affronta il rovello di un possibile adulterio di oltre quarant’anni fa. Poi ci sono i figli del presunto omicida. Che sono piccoli, hanno 13, 10 e 8 anni. Da chi hanno saputo che il padre è accusato di un delitto così efferato? Come potranno proteggersi se l’altro giorno, durante il primo interrogatorio di Bossetti, tutti sapevano tutto e qualcuno pensava al linciaggio? C’è la moglie del presunto assassino, e madre dei tre bambini (la madre, suocera dell’arrestato, viene fotografata mentre si affaccia a una finestra col cane). Ovviamente diventa titolo sui giornali che lei non fornisca un alibi al marito. Dice di non ricordare. “È strano, molto strano”, osserva il “Corriere della Sera”. “Perché quel 26 novembre del 2010 quando Yara sparì all’improvviso, la notizia circolò velocemente. E già durante la notte cominciarono le ricerche diventate poi mobilitazione di centinaia di persone per giorni e giorni”. Fino al 26 febbraio 2011, quando fu ritrovata. “Possibile che una persona della zona, per di più mamma, non ricordi che cosa ha fatto quella sera?”. Io dico: è possibile eccome. “Che non abbia tenuto a mente ogni dettaglio e spostamento del marito, dei figli, degli altri familiari. Il dubbio è che lei sappia tutto, ma abbia così deciso di marcare la distanza dall’uomo diventato il mostro”. Ma se sono passati tre anni e mezzo! Ma come si fa a tranciare sospetti così. Non mi è piaciuto neppure l’incontro del Procuratore di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, con i giornalisti, quelle risate sull’adulterio e sulla gemella di Bussetti come “complicazione” per le indagini. Tutto assurdo, tutto fuori luogo. E dire che invece il questore di Bergamo, Fortunato Finolli, ha correttamente e ripetutamente precisato che il caso non è per nulla chiuso, che bisogna ancora fare accertamenti e che poi dovrà tenersi il processo, “con le dovute risultanze e il dovuto contraddittorio”. Era tanto difficile mantenere questa linea? Infine, la parte più tragica, quella dei genitori di Yara, costretti a leggere dopo tanti anni che nelle tre pagine con cui il pubblico ministero dispone il fermo di Bossetti ci sono quelle righe che fanno titolo sui giornali: “con l’aggravante di avere adoperato sevizie e avere agito con crudeltà”. Sì, i genitori di Yara sono i più cauti e taciturni. Gli unici, quasi, all’altezza di questo mare di sofferenze. E sono quelli che hanno sofferto (e soffrono) di più. Non spetta a un ministro condannare un indagato, scrive Riccardo Arena su “Il Post”. l processo penale si celebra solo nelle aule di giustizia (e non sui giornali). La sentenza di condanna viene pronunciata solo da un giudice (e non da un Ministro dell’Interno). Ogni imputato è presunto non colpevole fino a condanna definitiva. Sono questi concetti ovvi per un Paese che si dice civile. Concetti che evidentemente non sembrano così ovvi per il Ministro dell’Interno Angelino Alfano. Ministro che si è affrettato ad emettere la sua condanna definitiva nei confronti di un indagato. “Le forze dell’ordine” ha sentenziato Alfano “hanno individuato l’assassino di Yara”. Una frase categorica capace di superare la necessità di celebrare un processo. Un’affermazione lapidaria che si è sostituita a tre gradi di giudizio: Corte d’Assise, Corte d’Appello e Corte di Cassazione. Eppure nessuna norma attribuisce al Ministro dell’Interno il compito di emettere sentenze né di diffondere notizie che riguardano esclusivamente le attività istituzionali dei magistrati. Attività dei magistrati che, soprattutto quando riguardano casi che sono nella fase delle indagini, necessitano del massimo riserbo. Riserbo che se violato potrebbe nuocere alle indagini stesse. Ma c’è dell’altro. La gogna politica di Alfano ha prodotto anche una gogna mediatica su tanti giornali. Una gogna mediatica fatta di titoli in prima pagina che hanno riportato tra le virgolette la sentenza emessa da Alfano: “Yara, preso l’assassino”. È la contaminazione dell’errore. È l’epidemia del decadimento. Resta infine un ultima perplessità: perché il ministro Alfano si è spinto tanto oltre? Al momento non è dato saperlo, anche se è preferibile non pensare al peggio. Ovvero che lo abbia fatto per ragioni di visibilità. Approfittare dell’omicidio di una tredicenne per andare sui giornali sarebbe una condotta davvero inqualificabile. Forse anche peggiore che fingersi giudice.
Caso Scazzi. La pubblica opinione è la "Cavia" di chi ha il potere di trasmettere formule retoriche elementari e ripetitive..., scrive Gilberto Migliorini. Alla fine il topolino partorisce la montagna. Forse l’opera strapperà il primato À la recherche du temps perdu in sette volumi di Marcel Proust. Non tanto per la lunghezza quanto per il tema della rievocazione come oeuvre cathédrale, con quella memoria spontanea e creativa. Come era del tutto logico prevedere, tutto un sistema di sillogismi (teoremi) può risultare una corposa esercitazione di verità apodittiche e dimostrazioni congetturali. Quando ci si avventura sulla strada delle inferenze induttive, quando si dimenticano i fatti e si introducono interpretazioni senza metterle al vaglio di altri fatti, quando non si tiene conto che i testimoni sono suggestionabili dal sistema mediatico e che più ci si allontana nel tempo da un evento tanto più subentrano fisiologicamente mille cose a inquinare e deformare la memoria… si finisce per dar credito alle fantasie, alle illazioni e alle deduzioni senza base empirica, scambiando per prove quelli che sono solo indizi lacunosi e inconsistenti, ricostruzioni di fantasia. Ne nasce un mastodontico zibaldone da leggere come una prolissa inventio di accadimenti, magari anche avvincente, ma priva di quella che si suole chiamare verosimiglianza. Il caso ricorda il feuilleton, quel romanzo d’appendice pubblicato a episodi e rivolto a un pubblico di massa, di bocca buona. I detrattori direbbero di un sottogenere letterario che anticipa certi moderni rotocalchi o le novelle di riviste prevalentemente femminili. Non a caso una delle opere più famose è i Misteri di Parigi (Les Mystères de Paris), di Eugène Sue, romanzo pubblicato a puntate, fra il 1842 e il 1843 su Le Journal des Débats. Non è da dimenticare che dai Misteri di Parigi trarrà ispirazione Victor Hugo con la prima versione de I miserabili (intitolata Les mystères) e Alexandre Dumas (padre), con il suo Edmond Dantès. Il romanzo d'appendice inaugura quella letteratura di massa che ai giorni nostri è andata annacquandosi nel genere dei rotocalchi e soprattutto nei format televisivi nazional-popolari. L’attuale romanzo d’appendice televisivo ha perso qualsiasi velleità letteraria per diventare soltanto un sistema di gossip salottiero con divagazioni psico-sociologiche da accatto, connotate da una sorta di narcisismo retorico da libro cuore (Les Mystères de Paris conservava invece ispirazione e perfino denuncia dei mali sociali, contro la società del suo tempo, contro un sistema giudiziario ed economico incapace di punire i veri colpevoli, anticipando le più complesse e approfondite analisi del naturalismo dei fratelli Goncourt, di Zola e del verismo italiano). Tutta la storia relativa al caso di Avetrana è ricca di misteri, cominciando dalle strane confessioni di Michele, ma nello stesso tempo risulta un caso senza capo né coda, un insieme di fotogrammi spaiati e senza logica. Nulla che abbia la parvenza di un mosaico dove le tessere si embricano con naturale verosimiglianza, sembra piuttosto un collage dove tutto ha l’apparenza di un quadro surreale, quasi un sogno con un incubo al risveglio. Evidentemente c’è un’altra verità che sfugge alla comprensione. Solo un’indagine che riparta da zero può riuscire a mettere insieme le tessere del puzzle senza pregiudizi e senza teoremi, con esiti che potrebbero risultare del tutto imprevedibili, forse perfino ribaltando ruoli e status dei personaggi. Di certo e assodato, c’è solo il corpo della povera ragazza in fondo al pozzo e quelle strane narrazioni di Michele, con un carattere vagamente onirico, e quei sogni che fanno da contraltare a una vicenda avvolta in una sorta di fantasia spettrale. Tanti operatori del settore criminologico (omicidi irrisolti) che affollano gli studi televisivi dimostrano notevoli capacità dialettiche quando discettano di cold case. Un florilegio di analisi e di affermazioni fondate su fantasticherie, dicerie, astruserie, pressapochezze… i classici ragionamenti per assurdo, sillogismi formulati senza il ben che minimo riscontro, tutto sulle spalle di poveri cristi messi alla berlina e senza che nessun settore del parlamento italiano abbia niente da ridire, rappresentanti politici solitamente così pronti ad attivarsi quando si invocano i diritti inalienabili della difesa per uno di loro fino al completamento di tutto l’iter giudiziario. Due imputate sono tenute in galera con motivazioni a dir poco sorprendenti in attesa dei successivi gradi di giudizio. Ovvio che due donne di estrazione contadina - che tutto un sistema massmediatico ha provveduto a rappresentare come diaboliche e perverse assassine - sono in grado con la loro rete di connivenze e di conoscenze non solo di inquinare le prove servendosi del loro mostruoso sistema di supporto e di protezione, ma, fidando su relazioni internazionali distribuite in vari paesi, possono proditoriamente sottrarsi con la fuga in qualche paradiso fiscale dove hanno accumulato cospicue risorse finanziarie grazie alla loro attività come bracciante agricola e estetista a tempo perso. Un sistema di linciaggio morale nei confronti di altri presunti colpevoli di omicidio (fino a sentenza definitiva), o semplicemente di persone entrate per caso in qualche cold case, va avanti ormai da anni (salvo qualche meritoria eccezione di opinionisti garantisti) in trasmissioni televisive che fanno illazioni e ricavano teoremi non già attraverso inchieste basate su dei fatti - mediante una meticolosa e obiettiva ricerca di riscontri, magari sul modello della controinchiesta tesa a sottolineare i dubbi e le incongruenze a favore del più debole o del meno ‘simpatico e fotogenico’ - ma su delle interpretazioni capziose con l’unico fine di creare audience indipendentemente da criteri di verità, obiettività e trasparenza. A questo si aggiungono sedicenti esperti che forniscono interpretazioni scientifiche senza indicare alcun criterio epistemologico, ma solo sulla base di considerazioni empiriche o semplicemente di impressioni soggettive. Semplificazioni che farebbero inorridire qualunque investigatore serio abituato a esercitare il dubbio e a relativizzare le conclusioni in ragione della complessità della realtà investigativa (con tutte le sue implicazioni giuridiche e metodologiche). Si tratta dei limiti di qualsiasi stereotipo di indagine applicato a situazioni che non sono mai quelle di laboratorio in cui si possono individuare con assoluta certezza le variabili (dipendenti e indipendenti) in una situazione controllata. Programmi con opinionisti che parlano spesso senza cognizione di causa, senza veri strumenti interpretativi, senza esperienza sul campo… ma influenzando e orientando un’opinione pubblica educata alla superficialità. Un processo di retroazione che finisce per determinare una sorta di profezia che si autoadempie attraverso l’individuazione di colpevoli sulla base esclusivamente di una influenza mediatica che nei casi più estremi diventa psicosi collettiva e ricerca di un capro espiatorio. Tutto questo avviene soprattutto in periodi di crisi, quando le difficoltà socio-economiche delle famiglie e la ricerca di compensazioni alle frustrazioni e all’angoscia del futuro determinano situazioni di stress e il bisogno di scaricare tensioni e difficoltà emozionali attraverso identificazioni proiettive e protagonismi per interposta persona. Da anni si effettua una sorta di teatro dell’assurdo con giudizi sommari attraverso format ammantati di approfondimento informativo con un circo di opinionisti dall’aria da Sherlock Holmes, armati vuoi di un armamentario da detective improvvisato e vuoi con teorie vagamente neo-lombrosiane, frenologiche, o vuoi semplicemente con il supporto dell’autorevolezza presenzialista di volti da sempre incorniciati nel rettangolo del televisore. La locuzione in dubbio pro reo assume un valore puramente teorico se non entra a far parte dei processi di inferenza logica già nella fase preliminare delle indagini, come forma mentis, in caso contrario, una volta presa una strada è come viaggiare sui binari della ferrovia andando in capo al mondo (un mondo per lo più inventato attraverso teoremi fantasiosi e prove(tte) abborracciate con molta fantasia e zero riscontri. Il dubbio investigativo dovrebbe costituire l’abito mentale di qualsiasi ricerca in qualsiasi ambito. Quel dubbio metodico che consente di tornare continuamente sui propri passi per verificare che qualche perverso particolare possa aver messo l’indagine su una strada sbagliata. Con l’avvento delle prove scientifiche, armi notoriamente a doppio taglio se usate come verifica, e non come falsificatori potenziali, si possono davvero fare danni notevoli. Alcuni sanno lavorare con metodo e consapevolezza, ma altri scambiano un indizio per un passepartout che in quattro e quattr’otto risolve un caso miracolosamente. Siamo tutti in pericolo di errore giudiziario, e senza voler fare di ogni erba un fascio, perché il lavoro dell’inquirente e del giudice è duro, difficile e oneroso (e in qualche caso molto pericoloso quando si ha a che fare con la delinquenza organizzata come la storia del nostro paese dimostra con veri eroi che hanno pagato con la vita l’abnegazione e il servizio alla collettività). Occorre però dire che spesso si ha l’impressione che la categoria si chiuda a riccio in una autodifesa, a prescindere, quando qualcuno dei suoi rappresentanti non si dimostra all’altezza...Il caso di Michele Misseri è poi emblematico. Si tratta di un contadino che in più di un’occasione ha dimostrato di trovarsi in un grave stato confusionale, che ha accumulato una serie di confessioni (narrazioni) diverse, contraddittorie e inattendibili, un teste che porta indizi senza prove, che dichiara cose senza riscontri (nessun elemento che attesti che nella casa di via Deledda sia avvenuto un delitto, nessun elemento che dimostri che la sua auto abbia trasportato un cadavere, nessun elemento che provi che lui abbia infilato il cadavere nel pozzo, nessuna prova che la povera Sarah abbia raggiunto la casa di via Deledda. L’uomo, in palese stato di sofferenza psichica, non viene sottoposto a perizia psichiatrica per capire qualcosa di più della sua personalità, se per caso non sia stato invece semplice testimone di qualcosa che lo ha sconvolto emotivamente. Tornando ai mass media e alla loro utilizzazione, occorre dire che l’influenza sull’opinione pubblica è tale da determinarne l’orientamento e da influenzarne l’interesse puntando sulla spettacolarizzazione e facendo leva sulla curiosità morbosa e sul giudizio di pancia, abituando il target a dare valutazioni basate sull’emotività e sul disimpegno. Tale atteggiamento è tanto più diseducativo quanto più trasforma l’audience in un modello di elettore sempre meno informato e che offre risposte pavloviane. Non a caso i cold case, in quanto casi irrisolti e problematici, rappresentano un test di influenza e un banco di prova su un target sprovvisto di autonomi e adeguati strumenti interpretativi, sempre più influenzabile attraverso l’uso di format che ne orientano le scelte e le modalità di reazione, con input emozionali programmati secondo il vecchio e inossidabile modello SR. Il caso in parola risulta emblematico, dal punto di vista mediatico, della facilità con la quale l’opinione pubblica può essere influenzata utilizzando una comunicazione basata su formule retoriche elementari e ripetitive e senza mai mettere in dubbio i contenuti espressi dall’autorevolezza del mezzo televisivo…
Quando la giustizia semina morti si chiama ingiustizia: Mimino Cosma è uno dei tanti uccisi dalla malagiustizia? Scrive Massimo Prati sul suo Blog, Volando Controvento. Per tanti di noi è difficile capire cosa significhi vivere nello stress e cosa lo stress porti in dote al fisico umano. Parlo in special modo dei giovani, di quelli fortunati che non hanno mai avuto a che fare con le disgrazie e vivono ancora nella leggerezza della loro età senza mai essere passati fra quelle brutte esperienze che cambiano il modo di vedere la vita. Inoltre, non tutte le persone soffrono in maniera cruenta lo stress: questo perché non siamo tutti uguali, non tutti reagiamo alla stessa maniera e non tutti siamo costretti a vivere quelle tragedie familiari che stroncano il pensiero e marciscono la speranza. Eppure i periodi stressanti esistono e prima o poi toccano a tutti noi. Chi non trova lavoro e non sa come andare avanti soffre di stress. Chi ha una famiglia e non sa come mantenerla soffre di stress. Una donna incinta che non si sente pronta a diventare madre soffre di stress. Suo marito, a cui un figlio cambierà radicalmente la vita, soffrirà di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un padre o di una madre, perdendo un punto di riferimento importante, soffre di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un figlio, perdendo quanto di più caro aveva al mondo, soffre di stress. Lo stress è sempre dietro l'angolo, pronto a colpire chiunque nei momenti meno attesi. Anche le persone a cui pare andare tutto bene. Per capire a cosa portino i periodi stressanti, possiamo far riferimento a diversi studi scientifici. Ad esempio il Brain and Mind Research Institute dell'Università di Sydney, ha pubblicato una ricerca sul Medical Journal of Australia in cui stabilisce che l'infarto è provocato dallo stress che eventi diversi possono scatenare nell'uomo. Ma non è lo stress da lavoro che uccide, non è quello che si prova in ufficio o in una catena di montaggio. No, a uccidere è quello provocato da fatti imprevisti, straordinari, e da tragedie familiari. Un altro studio, questa volta dei ricercatori della Ohio State University, pubblicato sul "Journal of Clinical Investigation" nell'agosto del 2013, ha cercato di stabilire come i tumori possano svilupparsi in caso di stress. Da tempo immemore la scienza ha ipotizzato una correlazione fra stress e cancro, senza però mai individuare un nesso concreto che portasse a una conferma della supposizione. Ma la ricerca non ha smesso di studiare e sperimentare, ed ora gli scienziati statunitensi hanno trovato nel gene ATF3 la possibile chiave per lo sviluppo e la diffusione delle metastasi, con la conseguente morte per cancro. In particolare si può dire che il gene era già conosciuto e già si sapeva che si attivava in condizione di stress. Ciò che gli esperimenti hanno dimostrato è che il gene non solo uccide le cellule sane, ma agendo in modo irregolare aiuta anche la proliferazione delle metastasi. "Se il corpo è in perfetto equilibrio - ha affermato lo scienziato Tsonwin Hai - non è un gran problema. Quando il corpo è sotto stress, però, cambia il sistema immunitario. E il sistema immunitario è una lama a doppio taglio". Detto questo c'è da star certi che l'essere indagati in un caso criminale dal grande profilo pregiudizievole, e dalla grande eco mediatica (essere indagati da una procura, ormai si è capito, significa anche essere additati dai compaesani a causa del pregiudizio iniettato nel popolo da giornalisti e opinionisti sapientoni), porta stress al fisico che più facilmente può subire un infarto o una malattia incurabile. Per averne conferma si potrebbe cadere nella tentazione di ricordare sin da subito il compianto Enzo Tortora, morto di tumore dopo anni di tortura mediatica e pregiudizi. Ma non serve scomodare il caso più eclatante della nostra stampa, perché tanti più gravi (ma meno pubblicizzati) stanno a dimostrare che chi viene indagato, se innocente, soffre in maniera esponenziale di stress, quello stress che può portare alla morte. Prendiamone alcuni e partiamo da Don Giorgio Govoni, che dal '97 al 2000 fu perseguitato dai magistrati che lo additavano a pedofilo-satanista. Nell'ultima udienza a cui assistette, il pubblico ministero lo dipinse come un rifiuto della società, come capo di una setta perversa, e chiese per lui 14 anni di carcere. Il giorno dopo Don Giorgio, agitatissimo, si presentò nello studio del suo legale: aveva bisogno di sfogarsi e di sentire una voce amica. Ma non riuscì a parlargli perché morì di infarto in sala d'attesa. Fu condannato da morto Don Giorgio. Per il giudice, dopo 57 udienze e 300 testimoni (un processo costosissimo), era lui a dire messa nei cimiteri della zona, era lui l'uomo vestito di nero che diceva "diavolo nostro", invece che Padre nostro, mentre i satanisti in maschera lanciavano bambini per aria o li sgozzavano gettandoli nel fiume. Ma c'erano davvero satanisti in quei cimiteri? No, non c'erano satanisti e non c'erano abusi. Tutto venne allestito da un Pm che si basò su quanto stabilito da una psicologa dei servizi sociali di Modena. Ma i procuratori si accanirono e quella brutta storia rovinò la vita anche ad altri. Parlo di una madre che quando le portarono via il figlio si gettò dalla finestra, parlo anche dei coniugi Covezzi che nel '98 se ne videro portar via 4 di figli dai magistrati. L'assoluzione definitiva per loro è giunta nel 2013, ma Delfino Covezzi non se l'è goduta perché subito dopo è morto senza poter rivedere i quattro figli strappatigli dalla giustizia e dati in adozione quindici anni prima del verdetto definitivo (solo in primo grado fu condannato). Storie allucinanti di sofferenza e stress incessante che portano anzitempo alla morte e crescono solo per il propagarsi del pregiudizio, lo stesso che ancora oggi fa dire a tanti italiani che Enzo Tortora qualcosa aveva fatto, altrimenti non sarebbe stato indagato. Storie allucinanti come quella di Giovanni Mandalà che assieme a Giuseppe Gullotta fu condannato per aver ucciso due carabinieri (strage di Alcamo Marina). Giovanni si è sempre proclamato innocente, come Giuseppe a cui la stampa l'anno passato ha dedicato tante parole perché ha chiesto allo Stato 69 milioni di euro per aver trascorso 22 anni in carcere da innocente. Ma il signor Mandalà non è riuscito ad arrivare alla sentenza di assoluzione. Lui è morto nel '98. Morto dopo aver subito il dolore assoluto, vittima di un tumore. Come in carcere è morto Michele Perruzza, un uomo incastrato in una storia che ha attinenze con quella di Avetrana. Forse non la ricorderete, perché contemporanea al delitto di via Poma (Simonetta Cesaroni) e perché in pochi giorni i magistrati dissero di aver scoperto la verità: e come sempre i giornalisti si defilarono senza approfondire né chiedersi se le accuse mosse dalla procura fossero reali. Michele Perruzza nel 1990 abitava in una piccola frazione di Balsorano, provincia de L'Aquila, dove viveva anche sua nipote, la piccola Cristina Capoccitti di soli sette anni. Il 23 agosto, dopo cena, Cristina uscì di casa per giocare all'esterno. Ma quando sua madre la chiamò perché si stava facendo buio, la bimba non rispose. Le ricerche si protrassero per tutta la notte, poi arrivò l'alba e il corpo di Cristina venne visto: la bimba era svestita e aveva la testa spaccata. Due giorni dopo un ragazzo di 13 anni, Mauro Perruzza (figlio di Michele e cugino di Cristina), confessò l'omicidio. Stavano facendo un gioco, disse, quasi erotico. Poi lei cadde sbattendo la testa su una pietra e lui, per paura, la strangolò. Ma gli inquirenti non gli credettero, non ce lo vedevano ad uccidere la cugina e così lo interrogarono per ore fino a fargli dire che era stato suo padre a uccidere e che lui lo aveva visto perché si trovava a 50 metri dal luogo del crimine. Ma questa fu solo la sua seconda versione, nel tempo ne fornì 17 e tutte diverse. Però non appena inserì suo padre, un'auto corse fino alla sua casa per arrestarlo: era l'alba del 26 agosto e nessuno verificò le parole del ragazzo. Quando in caserma gli passò davanti in manette, i giornalisti lo sentirono urlare: "Scusami papà, sono stato costretto!". In effetti il ragazzo, si scoprirà poi, era stato intimidito di brutto. In ogni caso suo padre non fece più ritorno a casa. Ma mai accusò il figlio per quel crimine. Così anche sua moglie che mai ha detto qualcosa contro suo figlio. Come sempre se non ci sono prove si ragiona di pregiudizio usando il solito ragionamento del: "Perché un figlio dovrebbe incolpare il padre se non è colpevole?". Che equivale al moderno: "Perché un padre dovrebbe incolpare la figlia se non è colpevole?". Così, basandosi su un pregiudizio, in un processo in cui l'avvocato del sempliciotto muratore Perruzza era lo stesso che difendeva suo figlio, inconcepibile, il 15 marzo del '91 ci fu una prima condanna all'ergastolo. In paese ormai tutti erano certi della colpevolezza del Perruzza e quella sera si festeggiò la condanna coi fuochi d'artificio. Il pregiudizio della gente era nato da un obbrobrio investigativo e giudiziario in cui non mancava neppure un'audiocassetta scomparsa (era quella di un interrogatorio in cui, si dice, si sentivano distintamente i colpi di un pestaggio). Alcuni giornalisti, solo un paio a dire il vero, muovendosi con sapienza cercarono di entrare nella verità. Ma non era facile e Gennaro De Stefano (uno dei pochi giornalisti veri, purtroppo morto anni fa) venne anche intimidito grazie a un poliziotto che mise della droga nella sua auto prima di una perquisizione (sei mesi dopo il fatto De Gennaro, per nulla intimidito, fu scagionato e risarcito con tante scuse). Tralasciando il resto di questa infame storia che procurò solo dolore, arrivo alla fine. Le Perizie stabilirono che il figlio, da dove aveva detto di trovarsi non poteva vedere il padre uccidere Cristina. Ma sia in appello che in cassazione le accuse della procura tennero e nel settembre del '92 la condanna divenne definitiva. Lo sconcerto subentrò poi, quando in un processo parallelo (celebrato a Sulmona e non a L'Aquila) si scoprì che sulle mutandine di Cristina c'era il dna del cugino Mauro, non dello zio. Per cui la giustizia si trovò agli estremi: la cassazione nel '92 aveva stabilito che Michele era colpevole oltre ogni ragionevole dubbio, ma nel '98 un giudice, grazie a buone perizie, certificava nelle sue motivazioni l'innocenza di Michele Perruzza. Si poteva a quel punto rifare il processo, ma la procura del capoluogo abruzzese si oppose e alla fine vinsero i procuratori (fra l'altro, il giudice che aveva condannato all'ergastolo il Perruzza in quel periodo era diventato procuratore generale de L'Aquila). Comunque lo strazio e lo stress accesero in maniera esponenziale la sofferenza di Michele Perruzza quando questi capì che nessuno avrebbe fatto nulla per aiutarlo. Morì nel gennaio del 2003 a causa di un infarto e le sue ultime parole furono: "Dite a tutti che non ho ucciso io Cristina". Le disse in punto di morte ai medici dell'ambulanza che inutilmente cercarono di salvargli la vita. Storie di ordinaria follia? Casi rari che non fanno testo e non gettano ombre su una giustizia da decenni malata? Una giustizia spesso falsa e coadiuvata dai media che iniettano il pregiudizio delle procure nelle vene del popolo? In Italia ci sono sacerdoti con le palle. Uno si chiama Don Mario Neva e col suo gruppo (Impsex) da tempo cerca di salvare le ragazze costrette a battere sulle strade. Lui dieci anni fa disse: "Nel ’600 si credeva di combattere la peste uccidendo gli 'untori', innocenti accusati di spargere unguenti mortiferi. Un rito crudele quanto inutile che solo dopo 200 anni ebbe giustizia e cessò. Oggi sta succedendo lo stesso. In buona fede allora, in buona fede oggi: ma è una buona fede che mette radici profonde e diventa madre di ogni inquisizione". Ed è proprio così. Nulla è peggio del pregiudizio e nulla è peggio dello stress che uccide chi sa di essere vittima di una ingiustizia giudiziaria. La vergogna non vive in chi non ha cuore, ma si amplifica in chi il cuore lo ha più grande. Ed arrivo a Cosimo Cosma, morto a causa di un tumore che nessuno può dire lo avrebbe certamente colpito senza lo stress dovuto alle accuse della procura di Taranto. Mimino non era un santo, ma con lui la giustizia si è sbizzarrita e ha dimostrato di avere una doppia personalità (e una doppia morale), perché mentre veniva condannato a Taranto per aver occultato il corpo di una ragazzina di 15 anni (Sarah Scazzi), a Brindisi subiva la medesima sorte per qualcosa che risulta essere l'esatto contrario: per aver messo le mani addosso a chi aveva violentato una ragazza di 16 anni (questa è l'accusa a cui la difesa ha risposto chiedendo al giudice di riconoscere che il violentatore al momento del fatto non era in grado di intendere e volere). Un po' come dire che per la nostra giustizia un missionario può con una mano dare a un bimbo un pezzo di pane e con l'altra mollargli uno schiaffo. Non c'è logica in certe accuse, lo so, ma fin quando non si metteranno paletti e regole vere da rispettare, tutto e il contrario di tutto potrà essere dimostrato dal potere giuridico consolidato. Perché a tutt'oggi c'è chi può iniziare indagando A ed arrivare a condannare C senza alcun problema. Perché se non convince la versione di A si gira la frittata e si manda in galera B. E e se non è possibile incastrare solo B si gira la pentola in verticale e si condanna anche C. Basta volere e con sogni e veggenze alla fine si può anche dire che non era una frittata ma una paella, così da mettere in atto un gioco di prestigio buono per condannare chiunque. Il problema è che, tranne i soliti noti (e sono pochi), nessuno protesta: la maggioranza dei media sparge il pregiudizio e anche grazie a loro, con nulla in mano se non pochi indizi, c'è chi può indagare e condannare chiunque e credere, e far credere, di essere nel giusto. E se qualche avvocato in gamba dimostra che non è zuppa quanto portato dai procuratori in tribunale, per i pubblici ministeri c'è sempre la possibilità giuridica di cambiare la formula e le ricostruzioni e far credere zuppa il pan bagnato. Questo perché quando si entra nella categoria degli indagati, per i magistrati e la pubblica opinione non si è più persone e il dolore che si prova quando nessuno ti crede non figura essere dolore per chi accusa: in fondo, possono soffrire i numeri? L'essere umano per certe istituzioni non esiste e il dolore che una accusa fondata su congetture lascia in dote, come lo stress che si prova nel sentirsi già giudicati prima del processo finale, passa in secondo piano. Ma non solo gli indagati sono numeri. Forse non vi rendete conto che tutti noi siamo solo stupidi numeri scritti in sequenza su una qualche cartella o documento: sia per la sanità che per la giustizia che per i comuni e il governo. Numeri da allevare in provetta per gli scopi altrui, tifosi che vengono plagiati dalle istituzioni e vogliono solo vincere, nei campi di calcio come nella politica e nei tribunali, e a cui non importa di come si giochi la partita, se si fanno entrate oltre il limite, se agli avversari che giocano in inferiorità numerica saltano caviglia e perone, se l'arbitro non si dimostra imparziale, se qualcuno muore. Fin quando non toccherà a noi di subire tutto va bene, anche lo sport che non è più sport, la politica che non è più politica e la giustizia che non è più giustizia. Tanto la pubblica opinione alla fine darà ragione a chi comanda preferendo mettere in campo la volgarità dell'offesa. Tanto i media non daranno risalto alla notizia scomoda e nessuno si indignerà se i carcerati che si proclamano innocenti si suicidano dopo aver perso la speranza, se gli imputati che si proclamano innocenti muoiono di infarto o di tumore a causa di uno stress infinito, se chi ha mandato in carcere gli innocenti, morti e non, invece di venir cacciato dalla magistratura continua a incassare i suoi 100.000 euro all'anno e a far carriera...
Nicola Izzo: "Così i pm mi hanno rovinato". L’intervista di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. In questi giorni in Parlamento si sta discutendo di riforma della giustizia e responsabilità civile dei magistrati. Sono migliaia in Italia le persone rovinate dagli errori giudiziari delle toghe. E sicuramente uno dei casi più celebri è quello del prefetto Nicola Izzo. Da qualche mese è in pensione, ma sino al novembre 2012 era il vicecapo vicario della Polizia, quasi il comandante in pectore vista la battaglia contro la malattia che stava conducendo l’allora numero uno Antonio Manganelli. Un gruppo di agguerriti pm napoletani gli ha stroncato la carriera indagandolo per turbativa d’asta nell’ambito di un’inchiesta sull’appalto per il Centro elaborazione dati della Polizia. Lo scorso maggio il gip di Roma, dove il fascicolo era stato trasferito per competenza, ha prosciolto Izzo da ogni accusa. Lui ora resta alla finestra, in attesa che qualcuno lo risarcisca per un danno tanto grande.
Dottor Izzo, quanti milioni di euro dovrebbero darle per ripagarla di questo clamoroso errore giudiziario?
«Non saprei cosa risponderle. Si parla, ormai da troppi anni, dei malanni della giustizia senza trovare un rimedio. Io comunque ho sempre pensato che chi sbaglia deve rispondere: l’irresponsabilità crea i presupposti per aumentare gli errori e formare il convincimento in chi li commette di esercitare un potere incontrollato».
Il gip che ha archiviato il procedimento contro di lei e altri 14 indagati vi ha prosciolti senza ombre. Non fa male avere questo riconoscimento dopo aver lasciato la Polizia?
«Fa male perché in tutto il procedimento ci sono una serie di “travisamenti” che avrebbero, se valutati correttamente e con accertamenti approfonditi, consentito, anziché immaginifiche ricostruzioni giudiziarie, l’immediata archiviazione del tutto, senza creare danni irreparabili. L’inesistenza di qualsiasi ipotesi collusiva tra noi indagati era di un’evidenza solare».
I pm sembra che non abbiano brillato in precisione. Per esempio siete stati accusati di aver fatto vincere aziende senza Nos (nullaosta di sicurezza), mentre in realtà tutte ne erano in possesso. Come è possibile mettere nero su bianco un’accusa del genere senza averla verificata?
«Questa, al pari di alcune altre accuse, è una delle cose più strabilianti e gravi. Come si fa a riportare tra i capi di imputazione fatti neanche accertati, ma solo frutto della propria immaginazione? C’era da fare un semplice accertamento cartaceo, lo stesso che hanno fatto le difese. Bastava consultare gli archivi degli enti deputati al rilascio del Nos».
L’inchiesta è stata trasferita a Roma per competenza. Ma non era chiaro sin dall’inizio che quella presunta turbativa d’asta, se mai ci fosse stata, era stata consumata nella Capitale (dove si tenne la gara) e non a Napoli?
«Dico solo che dal 20 dicembre del 2012, data in cui la Procura Generale della Cassazione aveva individuato la competenza della Procura di Roma, abbiamo dovuto attendere il luglio 2013 per la trasmissione di tutti gli atti da Napoli, con la conseguenza che la procura di Roma ha dovuto emettere due distinti decreti di chiusura indagini per la “rateizzazione”, forse dovuta, mi passi il termine, a “dimenticanze” nella trasmissione dei documenti».
Certi pm sono innamorati dei loro fascicoli e se ne separano mal volentieri. Non vorrei infierire, ma per il giudice della Capitale «tutte le condizioni necessarie al regolare svolgimento della gara erano state seguite». Ma allora perché tenervi sotto processo per tanti anni?
«Non voglio infierire neanche io, credo solo che in questo clamoroso caso di malagiustizia ci siano, per chi ha la responsabilità di farlo, sufficienti elementi per accertare l’inconsistenza e la fantasia dei capi di imputazione e la leggerezza con cui è stata condotta l’indagine».
Pensa che qualcuno risponderà di questo svarione?
«Spero di scoprirlo presto».
In questa vicenda anche i media hanno contribuito al suo calvario. Per esempio hanno dato ampio risalto alla lettera anonima di un “corvo” che collegava il suicidio di un suo stretto collaboratore alle pressioni gerarchiche che avrebbe subito per alterare le procedure di gara. Ma la vicenda processuale ha raccontato un’altra verità.
«La morte del collega, anche per l’affetto che nutrivo per lui, è la vera tragedia nel contesto di questa vicenda. I verbali delle nostre riunioni di lavoro raccontano una verità molto diversa da quella immaginata dal “corvo”, verbali da cui emergono le richieste del mio collaboratore di maggiori risorse economiche per finanziare imprevisti progettuali e le mie pressanti pretese di giustificazioni per questi nuovi costi. Nell’ultima riunione il collega ammetteva di non conoscere il progetto a suo tempo elaborato, ma di essere convinto che avremmo dovuto ricorrere a inconsueti ampliamenti dei contratti, con l’ utilizzo di ulteriori risorse economiche».
Di fronte a tale affermazione come ha reagito?
«Nonostante fossi convinto della sua buona fede, lo richiamai molto fermamente a essere più attento e a documentarsi prima di reclamare altri fondi, anche perché qualsiasi superficialità poteva causare dei dispiaceri. È questo in sintesi il prologo della tragedia sulla quale ho sempre tenuto il più stretto riserbo per non ledere l’immagine di una persona onesta e perbene».
In questa storia c’è stata anche un’altra morte prematura. Per qualcuno pure in questo caso si sarebbe trattato di suicidio…
«Questa notizia non è un refuso di stampa, viene da un’affermazione del Gip di Napoli che a proposito di un dirigente di polizia ha scritto: «anch’egli recentemente deceduto in circostanze oggetto di accertamento, come emerso nel corso degli interrogatori». Di questi accertamenti e interrogatori non ho trovato traccia, se non nell’affermazione falsa, «si è suicidato», fatta dal pm nel corso dell’interrogatorio di un teste. Il figlio del compianto funzionario ha dovuto smentire la circostanza «assurda» con due comunicati in cui dichiarava che il padre era deceduto naturalmente, «stroncato da un infarto».
Perché secondo lei la lettera del “corvo” spunta sui giornali 3-4 mesi dopo la sua spedizione? Secondo lei c’era un piano dietro a quella strana fuga di notizie?
«Il ministro dell’Interno, all’epoca Anna Maria Cancellieri, non ha ritenuto di disporre alcuna inchiesta per scoprire questi motivi e quindi non posso avere certezze sul punto. Di certo, però, quell’azione va contestualizzata: nell’estate del 2012 ci trovavamo in un grave momento di crisi del vertice della Pubblica Sicurezza e vi erano grandi fermenti per la sua sostituzione. Gli artefici della lettera non erano dei passanti: hanno potuto manipolare i documenti sull’attività del Ministero di cui erano in possesso, falsandone i contenuti, e hanno diffuso la lettera utilizzando tecnologie così sofisticate da rendere non identificabili i mittenti neanche per i tecnici della Polizia delle comunicazioni».
Il “corvo” ha trovato anche spazio sui giornali…
«Quel documento anonimo è stato accolto con favore in importanti redazioni che hanno così dato risalto mediatico a una realtà travisata e falsa. Tanto falsa che oggi vi sono tre direttori di testate nazionali e vari giornalisti rinviati a giudizio per diffamazione, ma questo a differenza delle farneticazioni di un anonimo sembra che non sia una notizia degna di nota».
Potremmo definirla una “congiurina” contro la sua eventuale candidatura forte a Capo della Polizia?
«Certo i malpensanti possono opinare che vi sia dietro un vile, ma astuto manovratore, qualche puffo incapace di altro che possa aver ordito un qualche “disegno” per bruciare il mio nome per la successione di Manganelli, ma io non sono un malpensante e quindi mi ostino a credere che sia stato il “fato”».
Subito dopo le notizie di stampa che facevano riferimento al “corvo”, lei ha deciso di presentare le dimissioni. Qualcuno ha fatto pressioni per ottenere quel suo passo indietro?
«Assolutamente no, tutt’altro. Il ministro Cancellieri le respinse. Ma io non sono un personaggio da operetta, come ce ne sono molti in questo Paese, che presenta le dimissioni per incassarne il rigetto. In quel momento c’era un’ombra su di me ed era giusto fare un passo indietro. Per senso dello Stato».
Che cosa le ha fatto più male in questa vicenda, dal punto di vista umano? Di fronte a quelle ricostruzioni fantasiose, non ha avuto la sensazione di essere prigioniero di un castello kafkiano?
«Ho avuto modo in questo periodo di approfondire Kafka, e posso risponderle prendendo in prestito una frase “del traduttore”, Primo Levi: «Si può essere perseguiti e puniti per una colpa non commessa, ignota, che il “tribunale” non ci rivelerà mai; e tuttavia, di questa colpa si può portar vergogna, fino alla morte e forse anche oltre». Tutto questo lo sto provando sulla mia pelle. E nessuno vi potrà porre mai rimedio».
Lo scandalo del Viminale. Il corvo fa dimettere Izzo, ma la Cancellieri dice no. Il ministro dell'Interno ha respinto le dimissioni del vice di Manganelli dopo l'esposto anonimo su appalti pilotati, scrive “Libero Quotidiano”. Il ministro dell'Interno: "Abbiamo preso molto seriamente la vicenda. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”. Aperta un'inchiesta. Si è dimesso il vice capo della Polizia, prefetto Nicola Izzo, chiamato in causa dal corvo nell’inchiesta sui presunti appalti truccati al Viminale. Izzo ha inviato questa mattina una email al Capo della Polizia, prefetto Antonio Manganelli e al ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri che però ha ha respinto le dimissioni, perché "credo, ha detto il ministro, che una persona non possa essere giudicata sulla base di un esposto anonimo sul quale non abbiamo ancora riscontri". Intanto la Procura di Roma procede nell'inchiesta partita in seguito dell’esposto anonimo inviato nei giorni scorsi al ministro dell’Interno dove si faceva riferimento a presunte violazioni e illeciti nel conferimento di appalti per l’acquisto di apparecchiature tecnologiche. L'inchiesta è stata avviata dal procuratore capo, Giuseppe Pignatone, che ha affidato il fascicolo all’aggiunto Francesco Caporale, che guida da poco il pool dei magistrati per i reati contro la pubblica amministrazione. L’esposto anonimo, composto da una ventina di pagine, indica episodi circostanziati e diversi illeciti che sarebbero stati compiuti dall’ufficio logistico del Viminale, incaricato delle gare d’appalto per l’acquisto degli impianti tecnologici. Da parte sua, nelle scorse ore, Izzo si era difeso da ogni accusa:"Diffamato per fatti che mi sono estranei: da vicecapo vicario non mi occupo della gestione di appalti". In una nota ha scritto: "Sono citato ignominiosamente in un esposto anonimo, che potrebbe essere redatto a carico di chiunque e con qualsiasi contenuto - scrive Izzo - per acquisti di cui ho conoscenza solo per la funzione strategica dei beni e non delle procedure per la loro materiale acquisizione. Chi ha costruito l’anonimo, si è nascosto abilmente, dimostrando la sua conoscenza delle tecnologie avanzate e del settore degli appalti, usando la mail di persone ignare; e tale modalità forse merita qualche riflessione sui nobili intenti dell’autore". Prosegue Izzo: "Nello scritto, l’anonimo segnala anomalie sulle procedure amministrative adottate, procedure per le quali, in alcuni casi e per quanto mi consta, le stazioni appaltanti, diverse tra loro e non solo interne al dipartimento della Ps, si sono consultate con gli organi istituzionali preposti e in tutti i casi, a conclusione degli appalti, sono state sottoposte al vaglio e registrate, senza alcun rilievo, dalla Corte dei Conti". Izzo conclude che "nonostante la natura anonima dell’esposto non dovrebbe dare luogo a seguiti e in presenza di un quadro di sostanziale regolarità, l’Amministrazione ha trasmesso gli atti alla Procura per gli eventuali approfondimenti. La morte del compianto Saporito per le sue tragiche modalità merita solo dolore e rispetto e non vili e strumentali insinuazioni. Per il Cen sono stato interrogato circa due anni e mezzo fa e attendo fiducioso il giudizio della magistratura". “Il corvo? Ci piacerebbe conoscerlo, vedere se sono uno, due o quanti sono”, sostiene il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri ribadendo che oltre all’inchiesta della magistratura, “di cui attendiamo gli esiti” sono in corso accertamenti all’interno del Viminale: “Abbiamo preso molto seriamente la vicenda -conclude- perchè non sappiamo chi volesse colpire” il corvo, “forse aveva anche un interesse personale. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”.
Lo dice anche il capo della polizia. "I magistrati sono dei cialtroni". Manganelli al telefono col prefetto Izzo: "Vergognoso che le notizie sui processi vengano passate ai giornali per fare clamore", scrive “Libero Quotidiano”. "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Si lamenta, Manganelli, della fuga di notizie a proposito del caso degli appalti per il centro elettronico e per gli altri interventi previsti dal patto per la sicurezza, indagine condotta dalla procura di Napoli e che portò a una serie di provvedimenti tra cui l'arresto del prefetto Nicola Fioriolii e l'interdizione dai pubblici uffici per i prefetti Nicola Izzo e Giovanna Iurato.
L’ANTIMAFIA DEI RECORD.
Il pm Antimafia della Procura di Bari Isabella Ginefra ha chiesto 58 condanne, 35 assoluzioni e un non luogo a procedere per prescrizione nei confronti dei 103 imputati (gli altri 9 deceduti) nel processo chiamato «Il canto del cigno» su una presunta associazione mafiosa operante sulla Murgia barese tra Gravina e Altamura negli anni Novanta, finalizzata a traffico e spaccio di droga, detenzione di armi ed esplosivi, estorsioni, 8 tentati omicidi, ferimenti e conflitti a fuoco tra clan rivali, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il procedimento penale fu avviato nel 1997 dall'allora pm antimafia barese Leonardo Rinella quando, nel corso del processo alla mafia murgiana denominato «Gravina» nei confronti di oltre 160 persone, alcuni imputati decisero di collaborare con la giustizia rivelando nuovi particolari sulle attività illecite dei clan Mangione e Matera-Loglisci, all'epoca - secondo la Procura - in stretto contatto con i gruppi criminali baresi di Savino Parisi, Antonio Di Cosola, Giuseppe Mercante, Andrea Montani ed altri. Tra i capi di questa presunta associazione mafiosa c'erano, secondo l'accusa, Vincenzo Anemolo, ritenuto un «figlioccio» del boss Savinuccio, e suo fratello Raffaele, il defunto Francesco Biancoli (il camorrista che avrebbe battezzato Parisi), Bartolo D'Ambrosio (ucciso nel 2010) e il suo ex alleato, poi rivale, Giovanni Loiudice (processato e assolto per l'omicidio del boss), Emilio Mangione e suo nipote Vincenzo, Nunzio Falcicchio, soprannominato «Lo scheletro». L'indagine, ereditata negli anni successivi dai pm Antimafia Michele Emiliano ed Elisabetta Pugliese, portò nel marzo 2002 all'arresto di 131 persone. Per oltre 200 fu poi chiesto il rinvio a giudizio ma soltanto 94 sono ancora imputate per quei fatti. Gli altri sono stati giudicati con riti alternativi o prosciolti. A quasi vent'anni dai fatti contestati sulla base degli accertamenti dei Carabinieri di Bari e Altamura, la Procura chiede ora condanne comprese fra 10 e 4 anni di reclusione per 58 di loro. Tra i reati ritenuti ormai prescritti ci sono due tentati omicidi del 1994 e del 1997 e alcuni episodi di spaccio. Stando all'ipotesi accusatoria quella murgiana era una vera e propria «associazione armata di stampo mafioso-camorristico» promossa e organizzata da «padrini e figliocci». Agli atti del processo, durato oltre sette anni, ci sono prove dei «battesimi», le cerimonie di affiliazione, e l'esatta ricostruzione dei ruoli all'interno del clan sulla base di una precisa ripartizione territoriale per la gestione delle attività illecite. Le discussioni dei difensori sono fissate per le udienze del 16 luglio e del 29 settembre, data in cui è prevista la sentenza.
Niente sentenza per 17 anni. Imputati morti e prescritti. Il pm chiede le condanne per un'inchiesta antimafia del 1997. Ma alla sbarra di 200 ne restano solo 58, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. A Bari, il processo alla cosca? Dopo 17 anni arrivano le richieste di condanna in primo grado. L'antimafia dei record è pugliese. Il primato, però, non è di quelli di cui andar fieri: per un procedimento penale nato da indagini avviate nel 1997, e relative a fatti verificatisi agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, soltanto adesso la Procura ha avanzato davanti ai giudici richiesta di pena nei confronti degli imputati. La storia ha un nome simbolico, uno di quelli che tanto solleticano le cronache ed i giornalisti quando scattano i blitz: «Il canto del cigno». È il 2 settembre del 2002: i magistrati della Dda barese Elisabetta Pugliese e Michele Emiliano (proprio lui: l'ex sindaco di Bari) chiudono con un'ordinanza di custodia cautelare a carico di 131 persone il troncone investigativo fiorito 5 anni prima per gemmazione da un altro maxi-processo. Nel mirino della Direzione distrettuale finiscono gli appartenenti ad una presunta organizzazione criminale attiva sull'altopiano delle Murge, nei Comuni di Altamura e Gravina in Puglia, ed i loro collegamenti con i clan del capoluogo di regione. All'attivo estorsioni, detenzione d'armi, traffico di droga e ferimenti. Finalizzati, secondo gli inquirenti, all'affermazione di un'associazione armata di stampo mafioso-camorristico. «Quest'operazione dimostra come la criminalità barese, dalla fine degli anni '80 ad oggi, abbia creato dei cloni in tutta la provincia», commenta in quei giorni coi cronisti Emiliano, esprimendo soddisfazione per il lavoro portato a termine. Ma i processi sono un'altra cosa. Ed in Tribunale il cigno canterà solo a settembre 2014. Quando il collegio giudicante si determinerà in primo grado sulle richieste di pena avanzate l'altro ieri - a quasi vent'anni dall'apertura dell'inchiesta - dal pm antimafia Isabella Ginefra. Che la sua requisitoria l'ha conclusa sollecitando condanne oscillanti tra i 10 e i 4 anni di reclusione nei riguardi di 58 degli oltre 200 imputati: gli altri sono stati prosciolti o processati con riti alternativi. O sono morti. Alcuni per vecchiaia. Qualcuno per piombo, come Bartolo D'Ambrosio, crivellato a colpi di fucile e pistola nel 2010. Ed il passar del tempo, oltre agli uomini, ha spazzato via con la ramazza della prescrizione anche molti dei reati contestati, come un paio di tentati omicidi risalenti al 1994. Farà notizia? No, a giudicare dagli echi di cronaca che arrivano da Palermo, dove il presidente del tribunale del riesame, Giacomo Montalbano, con un'ordinanza ha disposto il rinvio d'ufficio a settembre di tutti i procedimenti che non riguardino detenuti in carcere o ai domiciliari: pochi i magistrati in organico, troppi i ricorsi che si prevede arriveranno dopo l'arresto, il 22 giugno, di 91 persone considerate affiliate ai mandamenti mafiosi di Resuttana e San Lorenzo. La chiamano giustizia. Pare una barzelletta.
LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.
Dopo aver affermato qualche mese fa che se nel nostro Paese si fanno troppe cause la colpa è del numero eccessivo di avvocati, ora l’illustre magistrato Giorgio Santacroce, presidente della Corte di Cassazione, interviene per chiarire (agli avvocati, ovviamente) come vanno redatti i ricorsi da presentare alla Suprema Corte onde non incorrere in possibili declaratorie di inammissibilità. Lo ha fatto con una lettera inviata al Presidente del CNF Guido Alpa dopo il Convegno “Una rinnovata collaborazione tra magistratura e avvocatura nel quadro europeo” organizzato dal Consiglio Consultivo dei Giudici Europei del Consiglio d’Europa, dal CSM e dal CNF. Prendendo spunto dal dibattito scaturito in quella circostanza, il Dott. Santacroce ha preso carta e penna ed ha scritto una lettera al Consiglio Nazionale Forense per confermare alcune direttive, ora finalmente rese “ufficiali” dall’organo deputato a riceverle. Richiamando quanto già espresso in precedenza sia dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (la quale ha previsto tra le indicazioni pratiche relative alla forma e al contenuto del ricorso di cui all'art. 47 del Regolamento che «nel caso eccezionale in cui il ricorso ecceda le 10 pagine il ricorrente dovrà presentare un breve riassunto dello stesso») e dal Consiglio di Stato (che ha suggerito di contenere nel limite di 20-25 pagine la lunghezza di memorie e ricorsi, e, nei casi eccedenti, di far precedere l’esposizione da una distinta sintesi del contenuto dell’atto estesa non più di 50 righe), il primo Presidente della Corte ha affermato che anche gli atti dei giudizi di cassazione dovranno trovare applicazione criteri similari. “Ben potrebbe ritenersi congruo – scrive il Presidente Santacroce nella lettera indirizzata al CNF - un tetto di 20 pagine, da raccomandare per la redazione di ricorsi, controricorsi e memorie. Nel caso ciò non fosse possibile, per l'eccezionale complessità della fattispecie, la raccomandazione potrà ritenersi ugualmente rispettata se l'atto fosse corredato da un riassunto in non più di 2-3 pagine del relativo contenuto. Sembra, altresì, raccomandabile che ad ogni atto, quale ne sia l'estensione, sia premesso un breve sommario che guidi la lettura dell'atto stesso. Allo stesso modo è raccomandabile che le memorie non riproducano il contenuto dei precedenti scritti difensivi, ma, limitandosi ad un breve richiamo degli stessi se necessario, sviluppino eventuali aspetti che si ritengano non posti adeguatamente in luce precedentemente, così anche da focalizzare su tali punti la presumibile discussione orale”. Attenendosi a tali criteri di massima si potrebbe superare, secondo il primo Presidente - in molti casi quello scoglio che è l’inammissibilità del ricorso “non già per la mancanza di concretezza dei motivi del ricorso, ma per la modalità con cui questo viene presentato, che non rispondono ai canoni accettati dalla Cassazione”, tra i quali appunto la sinteticità degli atti presentati a sostegno della presa in esame del dibattimento arrivato a sentenza in Appello”. Lo spirito dell’iniziativa del Dott. Santacroce è certamente propositivo e positivo, così come lo è il clima di collaborazione che il Magistrato ha auspicato in tal senso. Di certo però andrà conciliato con un altro principio - quello dell’autosufficienza dell’atto - che non poco ha turbato il sonno degli avvocati in questi ultimi mesi, ossia l’esigenza posta a carico del ricorrente di inserire nel ricorso o nella memoria la specifica indicazione dei fatti e dei mezzi di prova asseritamente trascurati dal giudice di merito, nonché la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori con eventuale trascrizione dei passi salienti. Un requisito (l’autosufficienza) che i giudici della Corte non hanno ritenuto affatto assolto mediante la allegazione di semplici fotocopie, e questo perché, si è detto, non è compito della Corte individuare tra gli atti e documenti quelli più significativi e in essi le parti più rilevanti, “comportando una siffatta operazione un'individuazione e valutazione dei fatti estranea alla funzione del giudizio di legittimità”. Da qui la redazione di atti complessi ed articolati, e dunque anche lunghi, nel timore di non vedere considerato dal parte del Giudice un qualche aspetto o un qualche documento essenziale ai fini del decidere. Ora, insomma, gli avvocati avranno un compito in più: conciliare il criterio della brevità dell’atto con quello dell’autosufficienza. Mica roba da poco….
La conseguenza è.........La Cassazione boccia un ricorso perché "troppo prolisso".Sotto accusa l'atto degli avvocati dell'Automobile club d'Ivrea contro una sentenza della Corte d'Appello di Torino:"Tante pagine inutili". Ma diventa un modello: massimo venti pagine, scrive Ottavia Giustetti su “la Repubblica”. La dura vita del giudice di Cassazione: presentate pure il ricorso, avvocati, ma fate in modo che sia sintetico. Altrimenti state pur certo che sarà respinto. Poche pagine per spiegare i fatti, niente che comporti uno sforzo inutile per chi legge. Insomma «non costringeteci» a esaminare pagine e pagine se volete avere qualche speranza di vincere. Nero su bianco, tra le righe del testo di una recente sentenza della terza sezione sul ricorso contro una decisione della Corte d’appello di Torino, i giudici supremi hanno vergato il vademecum della sintesi estrema. Altrimenti: bocciatura assicurata. Qualche tempo fa lo avevano fatto a proposito dei ricorsi di legittimità legati al fisco. «La pedissequa riproduzione dell’intero, letterale, contenuto degli atti processuali - scrivono i magistrati al primo capoverso che illustra le motivazioni del rigetto del ricorso - è del tutto superfluo ed equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre che sia informata) la scelta di quanto rileva. La conseguenza è l’inammissibilità del ricorso per Cassazione». E, a quanto pare, è solo un esempio dei pronunciamenti di questo tenore che in questi mesi agitano le acque nell’ambiente degli avvocati. I forum sul diritto sono zeppi di commenti taglienti sulla «preziosa risorsa» del giudice che va «salvaguardata a tutti i costi». Tempi sterminati della giustizia, necessità di smaltire migliaia di procedimenti arretrati, prescrizione sempre in agguato: è nell’ambito della lotta a questi ormai cronici problemi del Paese il vademecum del giudice all’avvocato per evitare sbrodolamenti inutili. E non si può dire che sia nuova la tendenza a inibire il difensore che non si trasformi ogni volta in un Marcel Proust del diritto quando chiede giustizia. Ma respingere un ricorso perché un legale non è stato capace di sintesi da bignami appare come una novità giuridica importante, dicono gli avvocati. Nel caso della terza sezione civile sulla sentenza della Corte d’appello di Torino l’oggetto del contendere erano le spese di gestione dell’Automobile club di Ivrea. Una vicenda relativamente di poco conto. Ma analoghe prescrizioni si fanno strada e rischiano di diventare obbligo previsto per legge se sarà approvato uno specifico emendamento del decreto di riforma della giustizia in discussione in questi mesi in Parlamento. Il punto che è già stato approvato dalla commissione affari costituzionali della Camera finisce col prevedere la necessità per gli avvocati amministrativisti di scrivere i ricorsi e gli altri atti difensivi entro le esatte dimensioni che sono in via di definizione e sono stabilite con un decreto del Presidente del Consiglio di Stato. Saranno venti pagine al massimo i ricorsi d’ora in poi, mentre quel che sconfina è destinato per sempre all’oblio. Brevità della trattazione, che va in direzione opposta all’abitudine di molti legali che, con il timore di rientrare nei canoni dell’inammissibilità, finiscono per presentare ricorsi-fiume.
Ed ancora: “Inammissibile, prolisso e ripetitivo”. Così i giudici del Consiglio di Stato di Lecce hanno giudicato il ricorso d’appello presentato dai tredici proprietari dei terreni interessati dai lavori di allargamento della tanto contestata s.s. 275. Oltre a riconfermare quanto rilevato dal Tribunale amministrativo leccese, il Consiglio di Stato ha deciso di condannare gli appellanti al rimborso delle spese di lite, con la sanzione prevista per la violazione del principio di sinteticità degli atti processuali, introdotta dall’art. 3 del nuovo Codice del processo amministrativo. “Si deve tener conto – si legge in sentenza – dell’estrema prolissità e ripetitività dell’appello in esame (di 109 pagine)”. Il rispetto del dovere di sinteticità, ha sottolineato il Giudice, “costituisce uno dei modi – e forse tra i più importanti – per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace”. Gli appellanti dovranno rimborsare, dunque, le spese alla Provincia di Lecce, alla Regione Puglia, al Consorzio Asi, alla Prosal, al CIPE, all’Anas, al Ministero delle Infrastrutture, al Ministero dell’Ambiente e al Ministero dei Rapporti con la Regione.
Eh, sì! Proprio così : lo affermano la Suprema Corte con sentenza n. 11199 del 04.07.2012 e, di recente, il Tribunale di Milano con sentenza del 01.10. 2013, scrive l’Avv. Luisa Camboni. "Viola il giusto processo l'avvocato che trascrive nel proprio atto processuale le precedenti difese, le sentenze dei precedenti gradi, le prove testimoniali, la consulenza tecnica e tutti gli allegati; il giusto processo richiede trattazioni sintetiche e sobrie, anche se le questioni sono particolarmente tecniche o economicamente rilevanti". I Giudici di Piazza Cavour dicono "NO" agli avvocati prolissi. Perché? Perché, a dire dei Giudici con la toga di ermellino, si violerebbe uno dei principi cardine, uno dei pilastri fondamentali su cui poggia il nostro sistema giuridico: il principio del giusto processo, ex art. 111 Cost. "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. [...]". Uno dei tanti significati insiti nel menzionato principio, difatti, è quello di garantire la celerità del processo, celerità che si realizza anche attraverso atti brevi, ma chiari e precisi nel loro contenuto ( c.d. principio di sinteticità). Il caso, su cui i Giudici si sono pronunciati, riguardava un ricorso di oltre 64 pagine e una memoria illustrativa di ben 36 pagine, il cui contenuto reiterava quello del ricorso. Il principio cui hanno fatto riferimento per dare un freno, uno STOP a Noi Avvocati, molto spesso prolissi, è il principio del giusto processo. Difatti, hanno precisato che un atto processuale eccessivamente lungo, pur non violando alcuna norma, non giova alla chiarezza e specificità dello stesso e, nel contempo, ostacola l'obiettivo di un processo celere. Il cosiddetto giusto processo, tanto osannato dalla nostra Carta Costituzionale, infatti, richiede da Noi Avvocati atti sintetici redatti in modo chiaro e sobrio: "nessuna questione, pur giuridicamente complessa", a dire della Suprema Corte, "richiede atti processuali prolissi". L'atto processuale, dunque, deve essere completo e riportare in modo chiaro la descrizione delle circostanze e degli elementi di fatto, oggetto della controversia. Ancora una volta la Suprema Corte ha richiamato l'attenzione di Noi Avvocati specificando quali sono i principi che ogni operatore di diritto, nella specie l'Avvocato, deve tener presente nel redigere gli atti: specificità, completezza, chiarezza e precisione. Nel caso, dunque, di violazione del principio di sinteticità, ovvero di redazione di atti sovrabbondanti, il giudice può tenerne conto, in sede di liquidazione delle spese processuali, condannando la parte colpevole ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c.. Per Noi Avvocati, sulla base di quanto affermato dai Giudici di Piazza Cavour, non ha valore alcuno il motto latino "Ripetita iuvant", in quanto le cose ripetute non giovano alla nostra attività professionale che si estrinseca, nei giudizi civili, in attività di difesa negli atti, i quali devono essere chiari, sintetici e precisi. Un'attività di difesa non dipende dalla lungaggine dell'atto, ma dall'ingegno professionale, ingegno che consiste nell'individuare la giusta strategia difensiva per ottenere i migliori risultati sia per il cliente, sia per lo stesso professionista.
"Avvocati siete troppo prolissi, se volete ottenere giustizia per i vostri assistiti dovete imparare il dono della sintesi": la Cassazione ormai lo scrive nel testo delle sentenze. Ecco il parere di un principe del foro torinese, l'avvocato Andrea Galasso, protagonista nelle battaglie tra Margherita Agnelli e la sua famiglia e nel processo a Calciopoli.
Avvocato, i suoi colleghi sono contrari e allarmati, lei cosa ne pensa?
«Da un certo punto di vista i giudici mi trovano d'accordo perché so che spesso quando ci si dilunga e si sbrodola volentieri sui fatti è perché si teme di non poter argomentare bene in punto di diritto. Quindi la Cassazione ha ragione a ritenere che sia necessaria una buona dote di sintesi anche per non appesantire una attività che è diventata sempre più pressante».
Quindi, secondo lei, un bravo avvocato è capace di rimanere nei limiti che la Cassazione considera legittimi per presentare un ricorso?
«In linea di massima ritengo di sì. Poi, ovviamente, ci sono casi diversi. La sintesi deve essere una indicazione generale. poi ogni processo ha la sua storia».
Però sentenze recenti scrivono proprio nero su bianco che il ricorso può essere respinto perché è troppo prolisso e costringe la Corte a leggere elementi inutili. Lei crede che sia corretto?
«No, questo no. Siamo in un caso di cattiveria intellettuale. Di malcostume alla rovescia».
Tra l'altro queste indicazioni di brevità estrema condizioneranno sempre di più il lavoro degli avvocati. È in via di approvazione un emendamento che stabilisce un tetto di venti pagine per i ricorsi al Tar.
«Questo è un problema serio che riguarda il rapporto degli avvocati con i consigli dell'Ordine che evidentemente non sono in grado di far sentire la propria voce quanto dovrebbero».
Lei crede che la categoria dovrebbe essere più ascoltata, insomma?
«Beh sì. Quando si trasformano in legge regole che condizionano così profondamente il nostro lavoro sarebbe opportuno avere un Ordine degli avvocati capace di proporsi come interlocutore valido. E invece, evidentemente non è così».
Ma all'inaudito non c'è mai fine....
Il giudice: "Troppi testimoni inutili? Pena più alta". E gli avvocati milanesi scioperano. Gli avvocati si asterranno dalle udienze il 17 luglio 2014 perché ritengono che siano stati stravolti "alcuni principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova", scrive “La Repubblica”. Non sono andate giù agli avvocati penalisti milanesi le parole pronunciate in aula da un giudice che, in sostanza, di fronte ai legali di un imputato ha detto che se si insiste per ascoltare testimoni inutili, i magistrati poi ne tengono conto quando si tratta di calcolare la pena. E così la Camera penale di Milano, prendendo una decisione clamorosa e dura, anche sulla base di quel grave "caso processuale" che lede il diritto di difesa, hanno deciso di proclamare una giornata di astensione nel capoluogo lombardo per il prossimo 17 luglio. Come si legge in una delibera del consiglio direttivo della Camera penale,"lo scorso 20 giugno, nell'ambito di un'udienza dibattimentale celebratasi avanti a una sezione del tribunale di Milano, il presidente del collegio ha affermato" a proposito dell'esame di testimoni: "Non mi stancherò mai di ripetere che secondo me quando in un processo si insiste a sentire testi che si rivelano inutili, ovviamente si può essere assolti, ma se si è condannati il tribunale ne tiene sicuramente conto ai fini del comportamento processuale" (che influisce sulla pena). E ha aggiunto: "E mi dispiace che sugli imputati a volte ricadano le scelte dei difensori". Il giudice che ha usato quelle parole in udienza sarebbe Filippo Grisolia, presidente dell'undicesima sezione penale. Il giudice, secondo la Camera penale, ha così violato "l'autonoma determinazione del difensore nelle scelte processuali, il quale deve essere libero di valutare l'opportunità o meno di svolgere il proprio controesame". In più il magistrato ha violato le norme che "riconducono la commisurazione della pena esclusivamente a fattori ricollegati alla persona dell'imputato", oltre a manifestare "non curanza per alcuni dei principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova". I penalisti milanesi, dunque, preso atto che "le segnalazioni agli uffici giudiziari" fatte in passato "non hanno ottenuto" lo scopo di "neutralizzare" i comportamenti lesivi del diritto di difesa, e ritenuta "la gravità del fenomeno che il caso processuale riportato denuncia", hanno deciso di astenersi dalle udienze e da "ogni attività in ambito penale" per il 17 luglio prossimo. Con tanto di "assemblea generale" convocata per quel giorno per discutere "i temi" della protesta. "Questo fenomeno della violazione del diritto di difesa - ha spiegato il presidente della Camera penale milanese, Salvatore Scuto - è diffuso ed è emerso con virulenza in questo caso specifico, ma non va ridotto al singolo giudice che ha detto quello che ha detto. Questa è una protesta - ha aggiunto - che non va personalizzata, ma che pone l'indice su un problema diffuso e che riguarda le garanzie dell'imputato e il ruolo della difesa". La delibera è stata trasmessa anche al presidente della Repubblica, al presidente del consiglio dei ministri, al ministero della Giustizia e al Csm, il Consiglio superiore della magistratura.
IL SUD TARTASSATO.
Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.
C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.
Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io...
Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.
(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)
Lasciatemi votare
con un salmone in mano
vi salverò il paese
io sono un norvegese…
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?
Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.
Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.
Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;
2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.
L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.
LECCE E LE SUE UTOPIE: CULTURALI, SPORTIVE, GIUDIZIARIE.
Pubblicato il report: ecco perché per Lecce la capitale europea della cultura è "utopia". Resa nota la relazione finale della commissione che ha vagliato le sei candidature e che alla fine ha premiato Matera. Bocciate le "utopie" e la previsione di impiego delle risorse finanziarie. Ok la partecipazione e il tema dell'accessibilità, scrive Gabriele De Giorgi su “Lecce prima”. Seconda, terza o quarta non lo si saprà mai. Ma i punti deboli della candidatura di Lecce a Capitale europea della cultura adesso sono chiari: è stato pubblicato infatti il report finale della commissione di 13 esperti che hanno valutato le 6 proposte giunte in finale (in allegato in calce all'articolo). Il documento, di una ventina di pagine, non dice nulla di più sulla votazione finale, se non la conferma che Matera è stata la più suffragata già in prima istanza con 7 voti, ma fa ben intendere quali aspetti sono parsi convincenti e quali, invece, no.
La prima bocciatura è per l’impianto teorico del programma, costruito attorno ai temi propri della European Academy of human potential e quindi alle 8 utopie che la commissione ha considerato troppo complesse per essere fatte proprie dall’opinione pubblica e per essere promosse sia a livello locale che internazionale. Pollice verso anche per il piano di impiego delle risorse: solo il 20 per cento del budget previsto appare giustificato dai principali programmi messi in evidenza nel bid book. Nemmeno in sede di “esame” a Roma – viene aggiunto - la delegazione salentina (guidata da Airan Berg, il coordinatore, e dal sindaco, Paolo Perrone) ha saputo offrire indicazioni rassicuranti sul resto della previsione di investimento per il 2019. A tal proposito è utile mettere in relazione questo rilievo con un aspetto che invece i commissari hanno apprezzato nella proposta di Matera: il fatto che circa il 70 per cento dei fondi fosse già stato opportunamente indirizzato attraverso un’apposita fondazione. D’altra parte, proseguono i commissari nella loro relazione, i criteri di diversità culturali e i tratti comuni (alla dimensione europea) sono stati sottovalutati nonostante la previsione di programmi come “Olive Route”, Adriatic Connection and Mediterranean Metamorphosis” and “ArcLatinistan”. Gli esperti mettono in evidenza anche come le questioni dell’eredità culturale (quello che il progetto complessivo lascerebbe alla città) non siano state sufficientemente spiegate nel dossier e nemmeno nella presentazione. Secondo la commissione, infine, cauti sono stati gli impegni di spesa, sia sul versante pubblico che su quella privato. Nella sua proposta, Lecce aveva preventivato di spendere 38,8 milioni di euro così suddivisi: 28,3 nelle attività; 5,4 in marketing e 5,1 per lo staff e la gestione. I finanziamenti sarebbero così stati assicurati: 5 milioni dal bilancio comunale, 5 di contributo statale; 6,8 dai privati; 1 milione dalla Regione; 4,3 da altri enti (Università, Comune di Brindisi); 14,5 di fondi strutturali europei e 2,1 di altri fondi comunitari. Su questo aspetto, fondamentale, risalta la differenza con Matera che aveva garantito la copertura del 70 per cento del bilancio (52 milioni) con un accordo quadro e con una dotazione di 30,2 milioni alla fondazione creata allo scopo nel settembre scorso, indipendentemente dall’esito della competizione. Giudizio positivo anche per l’ampiezza e l’innovazione dell’approccio artistico. Tornando a Lecce apprezzamento, invece, è stato manifestato per il forte sostegno della Regione Puglia, della città di Brindisi e della maggiori parte dei comuni del territorio e per la decisione di vincolare gli investimenti, a prescindere dall’attribuzione del riconoscimento, ad una prospettiva che conferisce alla cultura un ruolo trainante nella trasformazione della comunità. La commissione ha sottolineato anche di aver colto la natura fortemente partecipativa del dossier e l’inclusione del tema dell’accessibilità come parte integrante e attiva dei vari programmi piuttosto che come tema a parte e di essere rimasta favorevolmente colpita dalla cooperazione con gli artisti e i paesi delle altre nazioni e dai programmi in connessione l'area del Mediterraneo.
«Forse il Bari avrebbe perso lo stesso ma il derby è stato venduto»: con questa motivazione il pm del tribunale di Bari Ciro Angelillis aveva chiesto il massimo della pena per i tre imputati (fino a due anni di reclusione). Secondo la procura di Bari, infatti, il derby fu comprato dal club salentino per 200mila euro in una tranche da 70mila, quattro da 20mila e un'altra da 50mila euro. Patteggiamento anche per i due presunti complici, Gianni Carella e Fabio Giacobbe. Proprio per loro, al termine della requisitoria, il pm aveva chiesto la restituzione dei verbali di interrogatorio nel processo, per valutare l'ipotesi di falsa testimonianza. I due, infatti, avrebbero «mentito cambiando versione, da veri furbetti levantini».
Bari – Lecce fu comprato: tifosi risarciti ed ex presidente salentino condannato, scrive F. Q. su “Il Fatto Quotidiano”. Secondo il giudice il derby di Serie A del 2011 (perso dai biancorossi 2-0) fu acquistato dai salentini per 200mila euro. 200 spettatori del match truccato riceveranno 400 euro ciascuno. Un anno e sei mesi di reclusione per Pierandrea Semeraro. La sentenza e le condanne erano nell’aria. Ma le pene per la combine del derby pugliese Bari-Lecce rappresentano un precedente storico per la giustizia sportiva e calcistica in particolare: non era mai successo prima, infatti, che i protagonisti dell’imbroglio fossero condannati a risarcire i tifosi. Una decisione che apre scenari mica da poco per i supporters, che si sono sentiti traditi dai loro beniamini. Perché quello andato in scena il 15 maggio 2011 fu un derby comprato. Lo ha stabilito il Tribunale di Bari, secondo cui i salentini pagarono 200mila euro per vincere la partita. Condannato, per questo motivo, l’ex presidente del Lecce calcio Pierandrea Semeraro e l’imprenditore salentino Carlo Quarta a un anno e sei mesi di reclusione. A questa pena, i due dovranno aggiungere una multa di 10mila euro. Nove mesi di reclusione e 5mila euro da pagare anche per Marcello Di Lorenzo, amico dell’ex calciatore biancorosso Andrea Masiello, che ha patteggiato la pena nell’ambito dello stesso procedimento insieme agli amici e “scommettitori” Gianni Carella e Fabio Giacobbe. Masiello, per la cronaca, giocava nel Bari e, nella partita dello scandalo, mise a segno appositamente un’autorete per permettere il buon esito della combine. Per tutti il giudice Valeria Spagnoletti ha disposto la sospensione della pena e l’interdizione per sei mesi dagli uffici direttivi della società con “divieto di accedere ai luoghi dove si svolgono competizioni sportive o si accettano scommesse”. Risarcimento di 400 euro ciascuno anche nei confronti di oltre 200 tifosi di Bari e Lecce, che si sono costituiti parte civile nel processo. “Una sentenza storica perché per la prima volta c’è il riconoscimento di un danno in favore dei tifosi” ha detto l’avvocato Giuseppe Milli in rappresentanza dei tifosi del Lecce. “Quello che non ha fatto il Comune di Lecce lo hanno fatto i supporters salentini costituendosi parte civile nel processo – ha aggiunto il legale Giacinto Epifani – noi rappresentiamo un’intera città che è stata danneggiata da questi fatti”. Nella requisitoria, il pm che ha coordinato le indagini baresi sul calcioscommesse, Ciro Angelillis, e che aveva chiesto per i tre imputati condanne a due anni di reclusione, ha sottolineato che questa vicenda dimostra come non ci sia stato “alcun rispetto per tutti quei bambini che vanno a dormire con la maglia della squadra dei loro beniamini”. Il magistrato ha ripercorso i contatti telefonici e gli incontri tra “il gruppo dei baresi e quello dei leccesi” fino alla “concretizzazione dell’accordo con l’assegno da 200mila euro consegnato in garanzia da Quarta a Carella” e alla “firma sotto quel derby truccato rappresentata dall’autogol di Masiello“. Per Figc e Confconsumatori – anche loro parte civile nel processo – il risarcimento dovrà essere quantificato in sede civile, ma il giudice al momento ha condannato gli imputati al pagamento di 5mila e mille euro.
Guerra tra Procure. Da Lecce "Do coiu, coiu". Il procuratore Dda perde la sua "guerra" contro Brindisi: annullata sanzione disciplinare per Dinapoli. "Cassata senza rinvio la sentenza". Così il procuratore della Dda di Lecce, Cataldo Motta, perde non una battaglia, ma la guerra dichiarata alla procura di Brindisi, conflitto che ha provocato non pochi strascichi nella quotidiana gestione delle inchieste e imbarazzi nel rapporto con le forze dell'ordine, scrive Roberta Grassi su “Brindisireport”. La Corte di Cassazione a Sezioni unite accogliendo il ricorso della difesa ha annullato la sanzione disciplinare della “censura” inflitta dal Csm al procuratore della Repubblica di Brindisi, Marco Dinapoli. Si chiude così una vicenda in sede disciplinare, nata da una inchiesta penale archiviata, che aveva avuto avvio nel 2012, subito dopo l’individuazione e il fermo di Giovanni Vantaggiato, l’autore reo confesso dell’attentato davanti alla scuola Morvillo Falcone di Brindisi del 19 maggio in cui perse la vita la studentessa 16enne Melissa Bassi e rimasero ferite altre nove persone tra studenti e passanti. Le incolpazioni per Dinapoli traevano origine dalla denuncia del procuratore della Dda di Lecce, Cataldo Motta, tanto alla Procura della Repubblica di Potenza che aveva archiviato il procedimento quanto al “tribunale delle toghe”. Al Palazzo dei Marescialli il 22 novembre del 2013 si era deciso per attribuire al procuratore di Brindisi una delle forme più lievi di sanzione previste, ossia la censura, che equivale a una nota di biasimo. Secondo il procuratore Motta, Dinapoli, fornendo via mail al gip Ines Casciaro che avrebbe dovuto esprimersi sulla convalida del fermo di Giovanni Vantaggiato, materiale di giurisprudenza e dottrina, avrebbe pensato di condizionare lo stesso giudice, così interferendo nell’attività della Dda di Lecce, nelle sue valutazioni sulla sussistenza dell’aggravante della finalità terroristica, contestazione che aveva determinato il trasferimento dell’inchiesta da Brindisi a Lecce. Inizialmente era stato chiesto per Dinapoli il trasferimento in via cautelare, ma il Csm aveva opposto un rigetto. Senza macchia, quindi, la carriera del magistrato che è a capo della procura di Brindisi. Egli stesso, dopo la progressiva disarticolazione dell’accusa in sede disciplinare a suo carico, si era detto fiducioso in un annullamento complessivo. Non avrebbe agito per fini personali, sostiene la Suprema Corte, a quanto si è appreso, ma avrebbe agito legittimamente nell’ambito di un normalissimo confronto tra magistrati nell’ambito del quale non era tra l’altro stato sollevato alcun conflitto.
Quella guerra tra procure che Brindisi subisce e il "garbo" di Dinapoli: "Sempre stato sereno", scrive Roberta Grassi su ”Brindisi Report”. Glielo ha riconosciuto la Suprema Corte, ma gli osservatori attenti avevano già avuto modo nei due anni trascorsi di osservare il “garbo” con cui Marco Dinapoli, il procuratore della Repubblica di Brindisi, si è difeso da una guerra in sede giudiziaria e disciplinare che la Dda di Lecce gli aveva dichiarato. Profilo basso “massima collaborazione con la Dda” sempre e comunque, anche nei momenti più difficili. Pure quando, sebbene il procuratore della Dda Cataldo Motta l’avesse spuntata e fosse quindi rimasta a Lecce l’inchiesta sulla strage di Brindisi, l’interlocuzione con una collega magistrato, il gip Ines Casciaro, gli ha fatto rischiare una macchia indelebile sulla carriera, oltre che sulla fedina penale. La censura, sanzione disciplinare delle più lievi che possono essere attribuite a un magistrato, è stata annullata dalla Cassazione a Sezioni unite che ha “cassato senza rinvio” la decisione della sezione disciplinare del Csm. Il ‘tribunale delle toghe” aveva già alleggerito di molto il carico, rispetto a quanto richiesto: aveva opposto un ‘no’ secco all’ipotesi di trasferimento in via cautelare, poi aveva deciso, nel novembre scorso per la nota di biasimo. Dinapoli già all’epoca si era detto sicuro di poter affermare che le incolpazioni rimaste erano pure infondate. Annunciò ricorso per Cassazione, lo ha fatto, con il suo legale. E ha ottenuto quel che sperava, quel che gli era dovuto. Il procedimento disciplinare era partito contestualmente all’avvio di un’inchiesta dalla Procura di Potenza che fu archiviata due giorni dopo l’apertura del fascicolo. La notizia di reato era stata recapitata dal procuratore Motta ai pm che per competenza si occupano dei colleghi brindisini. Prosciolto Dinapoli, poi solo “censurato”, infine uscito a testa alta da un pastrocchio che ha dato una pessima immagine dell’Italia nel mondo. Sì, perché nel 2012, quando una bomba esplose davanti alla scuola Morvillo Falcone, gli occhi di tutti erano puntati su Brindisi. E non solo i media italiani facevano rimbalzare tra le breaking news gli aggiornamenti sull’indagine che riguardava la strage. L’estremo lembo del tacco d’Italia apparve come una terra litigiosa, uno spicchio di Belpaese in cui perfino le toghe guerreggiavano, nonostante dolore e alla ferita profonda inferta da un “folle” dalla lucidità esecutiva inappuntabile. Giovanni Vantaggiato, imprenditore di Copertino, confessò di aver posizionato un ordigno davanti alla Morvillo Falcone. Il suo “mea culpa” fu la conferma che forse Dinapoli aveva avuto ragione a convocare qualche giorno prima una conferenza stampa in cui spiegava alla popolazione, allo scopo di far calare il polverone e di infondere fiducia nell’operato degli inquirenti, oltre che di quietare l'angoscia che impediva i genitori di mandare serenamente i figli a scuola, che quel boato che aveva fatto tremare Brindisi alle 7.42 di un sabato mattina altro non era che l’azione di un uomo fuori di testa. Un “pazzo” isolato. Sì, un pazzo isolato. Ché l’autore di un gesto tanto infido non può essere certo riconosciuto come persona "normale", per quanto fosse certamente capace di intendere e volere al momento del fatto e poi anche di stare a processo, tanto quanto era in grado di fabbricare pipe-bomb e ordigni “micidiali”. Nonostante ciò, seppure in due gradi di giudizio abbia retto il movente (che non ci convince ancora oggi neppure un po’) consegnato da Vantaggiato agli inquirenti, ossia che la strage di Brindisi fosse una vendetta contro i giudici per una sentenza per truffa non ritenuta congrua alle proprie aspettative, si è ritenuto che quell’azione fosse aggravata dalle finalità terroristiche. E' una guerra che ha provocato conseguenze tangibili nella quotidianità. Delle conferenze stampa che costringono i giornalisti Brindisini a recarsi a Lecce, perché in procura a Brindisi non si possono indire, non importa nulla a nessuno. Ma gli imbarazzi che si vivono nelle segrete stanze in cui decine di investigatori cercano, senza preoccuparsi di quale sia la competenza, di fare il proprio lavoro, quelli sono tangibili. Brindisi, terra messa al margine e dipinta come culla di una Sacra Corona Unita che sembrerebbe ancorata a vecchie dinamiche, ha vinto stavolta. Il “garbo” di Dinapoli, che è simbolicamente il “garbo” della procura tutta in questo conflitto, è stato riconosciuto dalla Suprema Corte. Gli ermellini sono stati chiari. “Il dottor Dinapoli – scrivono – non ha agito per un interesse privato bensì nell’interesse del suo Ufficio alla corretta applicazione della legge nella determinazione della Procura competente allo svolgimento delle indagini preliminari”. Dinapoli, oltretutto non ha “utilizzato maniere invadenti o aggressive, risultando al contrario che egli ha inviato il materiale in questione solo dopo averne ottenuto il permesso, previamente richiesto alla destinataria, né ha dato risalto mediatico o pubblicità alla propria iniziativa”. “I magistrati – si legge ancora – assai spesso interloquiscono discutono e si confrontano durante l’attività lavorativa, che li vede talora in contatto per molte ore al giorno”. Questa non è una “ingiustificata interferenza nell’attività giudiziaria di altri magistrati”. Non fu neppure formalmente sollevato un conflitto: il procuratore di Brindisi si limitò a parlarne prima con il procuratore distrettuale di Lecce e poi con il procuratore generale, oltre che con il gip, non prima d’aver chiesto il permesso. “Si è dimostrato che ogni accusa era infondata. Si trattava solo di una legittima interlocuzione tra magistrati. Era tutto privo di fondamento”: ha commentato il procuratore Dinapoli. “Ho atteso con estrema tranquillità, mi sono difeso nel merito”. Su quanto la “guerra” abbia potuto nuocere, Dinapoli naturalmente non si esprime. “La Procura di Brindisi ha mantenuto un atteggiamento composto. Ha continuato a collaborare con la Dda di Lecce”. Così come si deve fare. Guai a censurare il confronto in punto di diritto fra magistratura requirente e giudicante. E’ legittimo il confronto di idee ed è davvero troppo ipotizzare che dallo stesso un giudice possa sentirsi condizionato.
AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO
Facile dire: sono avvocato. In Italia dove impera la corruzione e la mafiosità, quale costo intrinseco può avere un appalto truccato, un incarico pubblico taroccato, od una falsificata abilitazione ad una professione?
Ecco perché dico: italiani, popolo di corrotti! Ipocriti che si scandalizzano della corruttela altrui.
Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Concorsopoli ed esamopoli” che tratta degli esami e dei concorsi pubblici in generale. Tutti truccati o truccabili. Nessuno si salva. Inoltre, nel particolare, nel libro “Esame di avvocato, lobby forense, abilitazione truccata”, racconto, anche per esperienza diretta, quello che succede all’esame di avvocato. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno, neanche ai silurati a quest’esame farsa: la fiera delle vanità fasulle. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma la cronistoria di questi anni la si deve proprio leggere, affinchè, tu italiano che meriti, devi darti alla fuga dall’Italia, per poter avere una possibilità di successo.
Anche perché i furbetti sanno come cavarsela. Francesco Speroni principe del foro di Bruxelles. Il leghista Francesco Speroni, collega di partito dell’ing. Roberto Castelli che da Ministro della Giustizia ha inventato la pseudo riforma dei compiti itineranti, a sfregio delle commissioni meridionali, a suo dire troppo permissive all’accesso della professione forense. È l’ultima roboante voce del curriculum dell’eurodeputato leghista, nonché suocero del capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni, laureato nel 1999 a Milano e dopo 12 anni abilitato a Bruxelles. Speroni ha avuto un problema nel processo di Verona sulle camicie verdi, ma poi si è salvato grazie all’immunità parlamentare. Anche lui era con Borghezio a sventolare bandiere verdi e a insultare l’Italia durante il discorso di Ciampi qualche anno fa, quando gli italiani hanno bocciato, col referendum confermativo, la controriforma costituzionale della devolution. E così commentò: “Gli italiani fanno schifo, l’Italia fa schifo perché non vuole essere moderna!”. Ecco, l’onorevole padano a maggio 2011 ha ottenuto l’abilitazione alla professione forense in Belgio (non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria) dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. Speroni dunque potrà difendere “occasionalmente in tutta Europa” spiega lo stesso neoavvocato raggiunto telefonicamente da Elisabetta Reguitti de “Il Fatto quotidiano”.
Perché Bruxelles?
Perché in Italia è molto più difficile mentre in Belgio l’esame, non dico sia all’acqua di rose, ma insomma è certamente più facile. Non conosco le statistiche, ma qui le bocciature sono molte meno rispetto a quelle dell’esame di abilitazione in Italia”.
In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastelalla Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini.
La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare? ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino. E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”. Geronimo è amante delle auto d’epoca, ha partecipato a due storiche millemiglia. E infatti è anche vicepresidente dell’Aci di Milano. “Sono stato eletto, e allora?”. Nutre rispetto per il mattone. Siede nel consiglio di amministrazione della Premafin, holding di Ligresti, anche della Finadin, della International Strategy. altri gioiellini del del costruttore. Geronimo è socio dell’immobiliare di famiglia, la Metropol srl. Detiene la nuda proprietà dei cespiti che per parte di mamma ha nel centro di Riccione. Studioso e s’è visto. Ricco si è anche capito. Generoso, pure. Promuove infatti insieme a Barbara Berlusconi, Paolo Ligresti, Giulia Zoppas e tanti altri nomi glamour Milano Young, onlus benefica. Per tanti cervelli che fuggono all’estero, eccone uno che resta.
Geronimo, figlio di cotanto padre tutore di lobby e caste, che sa trovare le soluzioni ai suoi problemi.
Vittoria delle lobby di avvocati e commercialisti: riforma cancellata, scrive Lucia Palmerini. “…il governo formulerà alle categorie proposte di riforma.” con questa frase è stata annullata e cancellata la proposta di abolizione degli ordini professionali. Il Consiglio Nazionale Forense ha fatto appello ai deputati-avvocati per modificare la norma del disegno di legge del Ministero dell’Economia che prevedeva non solo l’eliminazione delle restrizioni all’accesso, ma la possibilità di diventare avvocato o commercialista dopo un praticantato di 2 anni nel primo caso e 3 nel secondo, l’abolizione delle tariffe minime ed il divieto assoluto alla limitazione dello svolgimento della professione da parte degli ordini. La presa di posizione degli avvocati del PdL ha rischiato di portare alla bocciatura la manovra economica al cui interno era inserita la norma su avvocati e commercialisti. Tra questi, Raffaello Masci, deputato-avvocato che ha preso in mano le redini della protesta, ha ottenuto l’appoggio del Ministro La Russa e del Presidente del Senato Schifani, tutti accomunati dalla professione di avvocato. La norma, apparsa per la prima volta ai primi di giugno, successivamente cancellata e nuovamente inserita nei giorni scorsi è stata definitivamente cancellata; il nuovo testo quanto mai inutile recita: “Il governo formulerà alle categorie interessate proposte di riforma in materia di liberalizzazione dei servizi e delle attività economiche si legge nel testo, e inoltre – trascorso il termine di 8 mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ciò che non sarà espressamente regolamentato sarà libero.” La situazione non cambia e l’Ordine degli avvocati può dormire sogni tranquilli. Ancora una volta gli interessi ed i privilegi di una casta non sono stati minimamente scalfiti o messi in discussione.
GLI ANNI PASSANO, NULLA CAMBIA ED E’ TUTTO TEMPO PERSO.
Devo dire, per onestà, che il mio calvario è iniziato nel momento in cui ho incominciato la mia pratica forense. A tal proposito, assistendo alle udienze durante la mia pratica assidua e veritiera, mi accorgevo che il numero dei Praticanti Avvocato presenti in aula non corrispondeva alla loro reale entità numerica, riportata presso il registro tenuto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi accorsi, anche, che i praticanti, per l’opera prestata a favore del dominus, non ricevevano remunerazione, o ciò avveniva in nero, né per loro si pagavano i contributi. Chiesi conto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi dissero “Fatti i fatti tuoi. Intanto facci vedere il libretto di pratica, che poi vediamo se diventi avvocato”. Controllarono il libretto, contestando la veridicità delle annotazioni e delle firme di controllo. Non basta. Nonostante il regolare pagamento dei bollettini di versamento di iscrizione, a mio carico venne attivata procedura di riscossione coattiva con cartella di pagamento, contro la quale ho presentato opposizione, poi vinta. Di fatto: con lor signori in Commissione di esame forense, non sono più diventato avvocato. A dar loro manforte, sempre nelle commissioni d’esame, vi erano e vi sono i magistrati che io ho denunciato per le loro malefatte.
Sessione d’esame d’avvocato 1998-1999. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce mi accorgo di alcune anomalie di legalità, tra cui il fatto che 6 Avetranesi su 6 vengono bocciati, me compreso, e che molti Commissari suggerivano ai candidati incapaci quanto scrivere nell’elaborato. Chi non suggeriva non impediva che gli altri lo facessero. Strano era, che compiti simili, copiati pedissequamente, erano valutati in modo difforme.
Sessione d’esame d’avvocato 1999-2000. Presidente di Commissione, Avv. Gaetano De Mauro, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Sul Quotidiano di Lecce il Presidente della stessa Commissione d’esame dice che: “il numero degli avvocati è elevato e questa massa di avvocati è incompatibile con la realtà socio economica del Salento. Così nasce la concorrenza esasperata”. L’Avv. Pasquale Corleto nello stesso articolo aggiunge: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. L’abuso del potere della Lobby forense è confermato dall’Antitrust, che con provvedimento n. 5400, il 3 ottobre 1997 afferma: “ E' indubbio che, nel controllo dell'esercizio della professione, si sia pertanto venuto a determinare uno sbilanciamento tra lo Stato e gli Ordini e che ciò abbia potuto favorire la difesa di posizioni di rendita acquisite dai professionisti già presenti sul mercato.”
Sessione d’esame d’avvocato 2000-2001. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. La percentuale di idonei si diversifica: 1998, 60 %, 1999, 25 %, 2000, 49 %, 2001, 36 %. Mi accorgo che paga essere candidato proveniente dalla sede di esame, perché, raffrontando i dati per le province del distretto della Corte D’Appello, si denota altra anomalia: Lecce, sede d’esame, 187 idonei; Taranto 140 idonei; Brindisi 59 idonei. Non basta, le percentuali di idonei per ogni Corte D’Appello nazionale variano dal 10% del Centro-Nord al 99% di Catanzaro. L’esistenza degli abusi è nel difetto e nell’eccesso della percentuale. Il TAR Lombardia, con ordinanza n.617/00, applicabile per i compiti corretti da tutte le Commissioni d’esame, rileva che i compiti non si correggono per mancanza di tempo. Dai verbali risultano corretti in 3 minuti. Con esperimento giudiziale si accerta che occorrono 6 minuti solo per leggere l’elaborato. Il TAR di Lecce, eccezionalmente contro i suoi precedenti, ma conforme a pronunzie di altri TAR, con ordinanza 1394/00, su ricorso n. 200001275 di Stefania Maritati, decreta la sospensiva e accerta che i compiti non si correggono, perché sono mancanti di glosse o correzioni, e le valutazioni sono nulle, perché non motivate. In sede di esame si disattende la Direttiva CEE 48/89, recepita con D.Lgs.115/92, che obbliga ad accertare le conoscenze deontologiche e di valutare le attitudini e le capacità di esercizio della professione del candidato, garantendo così l'interesse pubblico con equità e giustizia. Stante questo sistema di favoritismi, la Corte Costituzionale afferma, con sentenza n. 5 del 1999: "Il legislatore può stabilire che in taluni casi si prescinda dall'esame di Stato, quando vi sia stata in altro modo una verifica di idoneità tecnica e sussistano apprezzabili ragioni che giustifichino l'eccezione". In quella situazione, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame presso la Procura di Bari e alla Procura di Lecce, che la invia a Potenza. Inaspettatamente, pur con prove mastodontiche, le Procure di Potenza e Bari archiviano, senza perseguirmi per calunnia. Addirittura la Procura di Potenza non si è degnata di sentirmi.
Sessione d’esame d’avvocato 2001-2002. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. L’on. Luca Volontè, alla Camera, il 5 luglio 2001, presenta un progetto di legge, il n. 1202, in cui si dichiara formalmente che in Italia gli esami per diventare avvocato sono truccati. Secondo la sua relazione diventano avvocati non i capaci e i meritevoli, ma i raccomandati e i fortunati. Tutto mira alla limitazione della concorrenza a favore della Lobby. Addirittura c’è chi va in Spagna per diventare avvocato, per poi esercitare in Italia senza fare l’esame. A questo punto, presso la Procura di Taranto, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame di Lecce con accluse varie fonti di prova. Così fanno altri candidati con decine di testimoni a dichiarare che i Commissari suggeriscono. Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Lo stesso Ministero della Giustizia, che indice gli esami di Avvocato, mi conferma che in Italia gli esami sono truccati. Non basta, il Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, propone il decreto legge di modifica degli esami, attuando pedissequamente la volontà del Consiglio Nazionale Forense che, di fatto, sfiducia le Commissioni d’esame di tutta Italia. Gli Avvocati dubitano del loro stesso grado di correttezza, probità e legalità. In data 03/05/03, ad Arezzo si riunisce il Consiglio Nazionale Forense con i rappresentanti dei Consigli dell’Ordine locali e i rappresentanti delle associazioni Forensi. Decidono di cambiare perché si accorgono che in Italia i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati abusano del loro potere per essere rieletti, chiedendo conto delle raccomandazioni elargite, e da qui la loro incompatibilità con la qualità di Commissario d’esame. In data 16/05/03, in Consiglio dei Ministri viene accolta la proposta di Castelli, che adotta la decisione del Consiglio Nazionale Forense. Ma in quella sede si decide, anche, di sbugiardare i Magistrati e i Professori Universitari, in qualità di Commissari d’esame, prevedendo l’incompatibilità della correzione del compito fatta dalla stessa Commissione d’esame. Con D.L. 112/03 si stabilisce che il compito verrà corretto da Commissione territorialmente diversa e i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere più Commissari. In Parlamento, in sede di conversione del D.L., si attua un dibattito acceso, riscontrabile negli atti parlamentari, dal quale scaturisce l’esistenza di un sistema concorsuale marcio ed illegale di accesso all’avvocatura. Il D.L. 112/03 è convertito nella Legge 180/03. I nuovi criteri prevedono l’esclusione punitiva dei Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati dalle Commissioni d’esame e la sfiducia nei Magistrati e i Professori Universitari per la correzione dei compiti. Però, acclamata istituzionalmente l’illegalità, si omette di perseguire per abuso d’ufficio tutti i Commissari d’esame. Non solo. Ad oggi continuano ad essere Commissari d’esame gli stessi Magistrati e i Professori Universitari, ma è allucinante che, nelle nuove Commissioni d’esame, fanno parte ex Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati, già collusi in questo stato di cose quando erano in carica. Se tutto questo non basta a dichiarare truccato l’esame dell’Avvocatura, il proseguo fa scadere il tutto in una illegale “farsa”. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Durante la trasmissione “Diritto e Famiglia” di Studio 100, lo stesso Presidente dell’Ordine di Taranto, Egidio Albanese, ebbe a dire: “l’esame è blando, l’Avvocatura è un parcheggio per chi vuol far altro, diventa avvocato il fortunato, perché la fortuna aiuta gli audaci”. Si chiede copia del compito con la valutazione contestata. Si ottiene, dopo esborso di ingente denaro, per vederlo immacolato. Non contiene una correzione, né una motivazione alla valutazione data. Intanto, il Consiglio di Stato, VI sezione, con sentenza n.2331/03, non giustifica più l’abuso, indicando l’obbligatorietà della motivazione. Su queste basi di fatto e di diritto si presenta il ricorso al TAR. Il TAR, mi dice: “ dato che si disconosce il tutto, si rigetta l’istanza di sospensiva. Su queste basi vuole che si vada nel merito, per poi decidere sulle spese di giudizio?”
Sessione d’esame d’avvocato 2003-2004. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Galluccio Mezio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. I candidati continuano a copiare dai testi, dai telefonini, dai palmari, dai compiti passati dai Commissari. I candidati continuano ad essere aiutati dai suggerimenti dei Commissari. I nomi degli idonei circolano mesi prima dei risultati. I candidati leccesi, divenuti idonei, come sempre, sono la stragrande maggioranza rispetto ai brindisini e ai tarantini. Alla richiesta di visionare i compiti, senza estrarre copia, in segreteria, per ostacolarmi, non gli basta l’istanza orale, ma mi impongono la tangente della richiesta formale con perdita di tempo e onerose spese accessorie. Arrivano a minacciare la chiamata dei Carabinieri se non si fa come impongono loro, o si va via. Le anomalie di regolarità del Concorso Forense, avendo carattere generale, sono state oggetto della denuncia formale presentata presso le Procure Antimafia e presso tutti i Procuratori Generali delle Corti d’Appello e tutti i Procuratori Capo della Repubblica presso i Tribunali di tutta Italia. Si presenta l’esposto al Presidente del Consiglio e al Ministro della Giustizia, al Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia e Giustizia del Senato. La Gazzetta del Mezzogiorno, in data 25/05/04, pubblica la notizia che altri esposti sono stati presentati contro la Commissione d’esame di Lecce (vedi Michele D’Eredità). Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2004-2005. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Marcello Marcuccio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Durante le prove d’esame ci sono gli stessi suggerimenti e le stesse copiature. I pareri motivati della prova scritta avvenuta presso una Commissione d’esame vengono corretti da altre Commissioni. Quelli di Lecce sono corretti dalla Commissione d’esame di Torino, che da anni attua un maggiore sbarramento d’idoneità. Ergo: i candidati sanno in anticipo che saranno bocciati in numero maggiore a causa dell’illegale limitazione della concorrenza professionale. Presento l’ennesima denuncia presso la Procura di Potenza, la Procura di Bari, la Procura di Torino e la Procura di Milano, e presso i Procuratori Generali e Procuratori Capo di Lecce, Bari, Potenza e Taranto, perché tra le altre cose, mi accorgo che tutti i candidati provenienti da paesi amministrati da una parte politica, o aventi Parlamentari dello stesso colore, sono idonei in percentuale molto maggiore. Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2005-2006. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Raffaele Dell’Anna. Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Addirittura i Commissari dettavano gli elaborati ai candidati. Gente che copiava dai testi. Gente che copiava dai palmari. Le valutazioni delle 7 Sottocommissioni veneziane non sono state omogenee, se non addirittura contrastanti nei giudizi. Il Tar di Salerno, Ordinanza n.1474/2006, conforme al Tar di Lecce, Milano e Firenze, dice che l’esame forense è truccato. I Tar stabiliscono che i compiti non sono corretti perché non vi è stato tempo sufficiente, perché non vi sono correzioni, perché mancano le motivazioni ai giudizi, perché i giudizi sono contrastanti, anche in presenza di compiti copiati e non annullati. Si è presentata l’ulteriore denuncia a Trento e a Potenza. Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2006-2007. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Giangaetano Caiaffa. Principe del Foro di Lecce. Presente l’Ispettore Ministeriale Vito Nanna. I posti a sedere, negli anni precedenti assegnati in ordine alfabetico, in tale sessione non lo sono più, tant’è che si sono predisposti illecitamente gruppi di ricerca collettiva. Nei giorni 12,13,14 dicembre, a dispetto dell’orario di convocazione delle ore 07.30, si sono letti i compiti rispettivamente alle ore 11.45, 10.45, 11.10. Molte ore dopo rispetto alle ore 09.00 delle altre Commissioni d’esame. Troppo tardi, giusto per agevolare la dettatura dei compiti tramite cellulari, in virtù della conoscenza sul web delle risposte ai quesiti posti. Commissione di correzione degli scritti è Palermo. Per ritorsione conseguente alle mie lotte contro i concorsi forensi truccati e lo sfruttamento dei praticanti, con omissione di retribuzione ed evasione fiscale e contributiva, dopo 9 anni di bocciature ritorsive all’esame forense e ottimi pareri resi, quest’anno mi danno 15, 15, 18 per i rispettivi elaborati, senza correzioni e motivazioni: è il minimo. Da dare solo a compiti nulli. La maggior parte degli idonei è leccese, in concomitanza con le elezioni amministrative, rispetto ai tarantini ed ai brindisini. Tramite le televisioni e i media nazionali si promuove un ricorso collettivo da presentare ai Tar di tutta Italia contro la oggettiva invalidità del sistema giudiziale rispetto alla totalità degli elaborati nel loro complesso: per mancanza, nelle Sottocommissioni di esame, di tutte le componenti professionali necessarie e, addirittura, del Presidente nominato dal Ministero della Giustizia; per giudizio con motivazione mancante, o illogica rispetto al quesito, o infondata per mancanza di glosse o correzioni, o incomprensibile al fine del rimedio alla reiterazione degli errori; giudizio contrastante a quello reso per elaborati simili; giudizio non conforme ai principi di correzione; giudizio eccessivamente severo; tempo di correzione insufficiente. Si presenta esposto penale contro le commissioni di Palermo, Lecce, Bari, Venezia, presso le Procure di Taranto, Lecce, Potenza, Palermo, Caltanissetta, Bari, Venezia, Trento. Il Pubblico Ministero di Palermo archivia immediatamente, iscrivendo il procedimento a carico di ignoti, pur essendoci chiaramente indicati i 5 nomi dei Commissari d’esame denunciati. I candidati di Lecce disertano in modo assoluto l’iniziativa del ricorso al Tar. Al contrario, in altre Corti di Appello vi è stata ampia adesione, che ha portato a verificare, comparando, modi e tempi del sistema di correzione. Il tutto a confermare le illegalità perpetrate, che rimangono impunite.
Sessione d’esame d’avvocato 2007-2008. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Massimo Fasano, Principe del Foro di Lecce. Addirittura uno scandalo nazionale ha sconvolto le prove scritte: le tracce degli elaborati erano sul web giorni prima rispetto alla loro lettura in sede di esame. Le risposte erano dettate da amici e parenti sul cellulare e sui palmari dei candidati. Circostanza da sempre esistita e denunciata dal sottoscritto nell’indifferenza generale. Questa volta non sono solo. Anche il Sottosegretario del Ministero dell’Interno, On. Alfredo Mantovano, ha presentato denuncia penale e una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia, chiedendo la nullità della prova, così come è successo per fatto analogo a Bari, per i test di accesso alla Facoltà di Medicina. Anche per lui stesso risultato: insabbiamento dell’inchiesta.
Sessione d’esame d’avvocato 2008-2009. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Pietro Nicolardi, Principe del Foro di Lecce. E’ la undicesima volta che mi presento a rendere dei pareri legali. Pareri legali dettati ai candidati dagli stessi commissari o dai genitori sui palmari. Pareri resi su tracce già conosciute perché pubblicate su internet o perché le buste sono aperte ore dopo rispetto ad altre sedi, dando il tempo ai candidati di farsi passare il parere sui cellulari. Pareri di 5 o 6 pagine non letti e corretti, ma dichiarati tali in soli 3 minuti, nonostante vi fosse l’onere dell’apertura di 2 buste, della lettura, della correzione, del giudizio, della motivazione e della verbalizzazione. Il tutto fatto da commissioni illegittime, perché mancanti dei componenti necessari e da giudizi nulli, perché mancanti di glosse, correzioni e motivazioni. Il tutto fatto da commissioni che limitano l’accesso e da commissari abilitati alla professione con lo stesso sistema truccato. Da quanto emerge dal sistema concorsuale forense, vi è una certa similitudine con il sistema concorsuale notarile e quello giudiziario e quello accademico, così come le cronache del 2008 ci hanno informato. Certo è che se nulla hanno smosso le denunce del Ministro dell’Istruzione, Gelmini, lei di Brescia costretta a fare gli esami a Reggio Calabria, e del Sottosegretario al Ministero degli Interni, Mantovano, le denunce insabbiate dal sottoscritto contro i concorsi truccati, mi porteranno, per ritorsione, ad affrontare l’anno prossimo per la dodicesima volta l’esame forense, questa volta con mio figlio Mirko. Dopo essere stato bocciato allo scritto dell’esame forense per ben 11 volte, che ha causato la mia indigenza ho provato a visionare i compiti, per sapere quanto fossi inetto. Con mia meraviglia ho scoperto che il marcio non era in me. La commissione esaminatrice di Reggio Calabria era nulla, in quanto mancante di una componente necessaria. Erano 4 avvocati e un magistrato. Mancava la figura del professore universitario. Inoltre i 3 temi, perfetti in ortografia, sintassi e grammatica, risultavano visionati e corretti in soli 5 minuti, compresi i periodi di apertura di 6 buste e il tempo della consultazione, valutazione ed estensione del giudizio. Tempo ritenuto insufficiente da molti Tar. Per questi motivi, senza entrare nelle tante eccezioni da contestare nel giudizio, compresa la comparazione di compiti identici, valutati in modo difforme, si appalesava la nullità assoluta della decisione della commissione, già acclarata da precedenti giurisprudenziali. Per farmi patrocinare, ho provato a rivolgermi ad un principe del foro amministrativo di Lecce. Dal noto esponente politico non ho meritato risposta. Si è di sinistra solo se si deve avere, mai se si deve dare. L’istanza di accesso al gratuito patrocinio presentata personalmente, dopo settimane, viene rigettata. Per la Commissione di Lecce c’è indigenza, ma non c’è motivo per il ricorso!!! Nel processo amministrativo si rigettano le istanze di ammissione al gratuito patrocinio per il ricorso al Tar per mancanza di “fumus”: la commissione formata ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2 magistrati del Tar e da un avvocato, entra nel merito, adottando una sentenza preventiva senza contraddittorio, riservandosi termini che rasentano la decadenza per il ricorso al Tar.
Sessione d’esame d’avvocato 2009-2010. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Angelo Pallara, Principe del Foro di Lecce. Nella sua sessione, nonostante i candidati fossero meno della metà degli altri anni, non ci fu notifica postale dell’ammissione agli esami. E’ la dodicesima volta che mi presento. Questa volta con mio figlio Mirko. Quantunque nelle sessioni precedenti i miei compiti non fossero stati corretti e comunque giudicate da commissioni illegittime, contro le quali mi è stato impedito il ricorso al Tar. Le mie denunce penali presentate a Lecce, Potenza, Catanzaro, Reggio Calabria, e i miei esposti ministeriali: tutto lettera morta. Alle mie sollecitazioni il Governo mi ha risposto: hai ragione, provvederemo. Il provvedimento non è mai arrivato. Intanto il Ministro della Giustizia nomina ispettore ministeriale nazionale per questa sessione, come negli anni precedenti, l’avv. Antonio De Giorgi, già Presidente di commissione di esame di Lecce, per gli anni 1998-99, 2000-01, 2001-02, e ricoprente l’incarico di presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. Insomma è tutta una presa in giro: costui con la riforma del 2003 è incompatibile a ricoprire l’incarico di presidente di sottocommissione, mentre, addirittura, viene nominato ispettore su un concorso che, quando lui era presidente, veniva considerato irregolare. Comunque è di Avetrana (TA) l’avvocato più giovane d’Italia. Il primato è stabilito sul regime dell’obbligo della doppia laurea. 25 anni. Mirko Giangrande, classe 1985. Carriera scolastica iniziata direttamente con la seconda elementare; con voto 10 a tutte le materie al quarto superiore salta il quinto ed affronta direttamente la maturità. Carriera universitaria nei tempi regolamentari: 3 anni per la laurea in scienze giuridiche; 2 anni per la laurea magistrale in giurisprudenza. Praticantato di due anni e superamento dell’esame scritto ed orale di abilitazione al primo colpo, senza l’ausilio degli inutili ed onerosi corsi pre esame organizzati dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Et Voilà, l’avvocato più giovane d’Italia. Cosa straordinaria: non tanto per la giovane età, ma per il fatto che sia avvenuta contro ogni previsione, tenuto conto che Mirko è figlio di Antonio Giangrande, noto antagonista della lobby forense e della casta giudiziaria ed accademica. Ma nulla si può contro gli abusi e le ritorsioni, nonostante che ogni anno in sede di esame tutti coloro che gli siedono vicino si abilitano con i suoi suggerimenti. Volontariato da educatore presso l’oratorio della parrocchia di Avetrana, e volontariato da assistente e consulente legale presso l’Associazione Contro Tutte le Mafie, con sede nazionale proprio ad Avetrana, fanno di Mirko Giangrande un esempio per tanti giovani, non solo avetranesi. Questo giustappunto per evidenziare una notizia positiva attinente Avetrana, in alternativa a quelle sottaciute ed alle tante negative collegate al caso di Sarah Scazzi. L’iscrizione all’Albo compiuta a novembre nonostante l’abilitazione sia avvenuta a settembre, alla cui domanda con allegati l’ufficio non rilascia mai ricevuta, è costata in tutto la bellezza di 650 euro tra versamenti e bolli. Ingenti spese ingiustificate a favore di caste-azienda, a cui non corrispondono degni ed utili servizi alle migliaia di iscritti. Oltretutto oneri non indifferenti per tutti i neo avvocati, che non hanno mai lavorato e hanno sopportato con sacrifici e privazioni ingenti spese per anni di studio. Consiglio dell’Ordine di Taranto che, come riportato dalla stampa sul caso Sarah Scazzi, apre un procedimento contro i suoi iscritti per sovraesposizione mediatica, accaparramento illecito di cliente e compravendita di atti ed interviste (Galoppa, Russo e Velletri) e nulla dice, invece, contro chi, avvocati e consulenti, si è macchiato delle stesse violazioni, ma che, venuto da lontano, pensa che Taranto e provincia sia terra di conquista professionale e tutto possa essere permesso. Figlio di famiglia indigente ed oppressa: il padre, Antonio Giangrande, perseguitato (abilitazione forense impedita da 12 anni; processi, senza condanna, di diffamazione a mezzo stampa per articoli mai scritti e di calunnia per denunce mai presentate in quanto proprio le denunce presentate sono regolarmente insabbiate; dibattimenti in cui il giudice è sempre ricusato per grave inimicizia perché denunciato). Perseguitato perché noto antagonista del sistema giudiziario e forense tarantino, in quanto combatte e rende note le ingiustizie e gli abusi in quel che viene definito “Il Foro dell’Ingiustizia”. (insabbiamenti; errori giudiziari noti: Morrone, Pedone, Sebai; magistrati inquisiti e arrestati). Perseguitato perché scrive e dice tutto quello che si tace.
Sessione d’esame d’avvocato 2010-2011. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Maurizio Villani, Principe del Foro di Lecce. Compresa la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo. Presente anche il Presidente della Commissione Centrale Avv. Antonio De Giorgi, contestualmente componente del Consiglio Nazionale Forense, in rappresentanza istituzionale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del distretto della Corte di Appello di Lecce. Tutto verificabile dai siti web di riferimento. Dubbi e critica sui modi inopportuni di nomina. Testo del Decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, recante modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense, è convertito in legge con le modificazioni coordinate con la legge di conversione 18 Luglio 2003, n. 180: “Art. 1-bis: ….5. Il Ministro della giustizia nomina per la commissione e per ogni sottocommissione il presidente e il vicepresidente tra i componenti avvocati. I supplenti intervengono nella commissione e nelle sottocommissioni in sostituzione di qualsiasi membro effettivo. 6. Gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni sono designati dal Consiglio nazionale forense, su proposta congiunta dei consigli dell'ordine di ciascun distretto, assicurando la presenza in ogni sottocommissione, a rotazione annuale, di almeno un avvocato per ogni consiglio dell'ordine del distretto. Non possono essere designati avvocati che siano membri dei consigli dell'ordine…”. Antonio De Giorgi è un simbolo del vecchio sistema ante riforma, ampiamente criticato tanto da riformarlo a causa della “Mala Gestio” dei Consiglieri dell’Ordine in ambito della loro attività come Commissari d’esame. Infatti Antonio De Giorgi è stato a fasi alterne fino al 2003 Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e contestualmente Presidente di sottocommissioni di esame di quel Distretto. Oggi ci ritroviamo ancora Antonio De Giorgi, non più come Presidente di sottocommissione, ma addirittura come presidente della Commissione centrale. La norma prevede, come membro di commissione e sottocommissione, la nomina di avvocati, ma non di consiglieri dell’Ordine. Come intendere la carica di consigliere nazionale forense indicato dal Consiglio dell’Ordine di Lecce, se non la sua estensione istituzionale e, quindi, la sua incompatibilità alla nomina di Commissario d’esame. E quantunque ciò non sia vietato dalla legge, per la ratio della norma e per il buon senso sembra inopportuno che, come presidente di Commissione centrale e/o sottocommissione periferica d’esame, sia nominato dal Ministro della Giustizia non un avvocato designato dal Consiglio Nazionale Forense su proposta dei Consigli dell'Ordine, ma addirittura un membro dello stesso Consiglio Nazionale Forense che li designa. Come è inopportuno che sia nominato chi sia l’espressione del Consiglio di appartenenza e comunque che sia l’eredità di un sistema osteggiato. Insomma, qui ci stanno prendendo in giro: si esce dalla porta e si entra dalla finestra. Cosa può pensare un candidato che si sente dire dai presidenti Villani e De Giorgi, siamo 240 mila e ci sono quest’anno 23 mila domande, quindi ci dobbiamo regolare? Cosa può pensare Antonio Giangrande, il quale ha denunciato negli anni le sottocommissioni comprese quelle presiedute da Antonio De Giorgi (sottocommissioni a cui ha partecipato come candidato per ben 13 anni e che lo hanno bocciato in modo strumentale), e poi si accorge che il De Giorgi, dopo la riforma è stato designato ispettore ministeriale, e poi, addirittura, è diventato presidente della Commissione centrale? Cosa può pensare Antonio Giangrande, quando verifica che Antonio De Giorgi, presidente anche delle sottocommissioni denunciate, successivamente ha avuto rapporti istituzionali con tutte le commissioni d’esame sorteggiate, competenti a correggere i compiti di Lecce e quindi anche del Giangrande? "A pensare male, spesso si azzecca..." disse Giulio Andreotti. Nel procedimento 1240/2011, in cui si sono presentati ben 8 motivi di nullità dei giudizi (come in allegato), il TAR rigetta il ricorso del presente istante, riferendosi alla sentenza della Corte Costituzionale, oltre ad addurre, pretestuosamente, motivazioni estranee ai punti contestati (come si riscontra nella comparazione tra le conclusioni e il dispositivo in allegato). Lo stesso TAR, invece, ha disposto la misura cautelare per un ricorso di altro candidato che contestava un solo motivo, (procedimento 746/2009). Addirittura con ordinanza 990/2010 accoglieva l’istanza cautelare entrando nel merito dell’elaborato. Ordinanza annullata dal Consiglio di Stato, sez. IV, 22 febbraio 2011, n. 595. TENUTO CONTO CHE IN ITALIA NON VI E' GIUSTIZIA SI E' PRESENTATO RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI. Qui si rileva che la Corte di Cassazione, nonostante la fondatezza della pretesa, non ha disposto per motivi di Giustizia e di opportunità la rimessione dei processi dell’istante ai sensi dell’art. 45 ss. c.p.p.. Altresì qui si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.
Sessione d’esame d’avvocato 2011-2012. Tutto come prima. Spero che sia l'ultima volta. Presidente di Commissione, Avv. Nicola Stefanizzo, Principe del Foro di Lecce. Foro competente alla correzione: Salerno. Dal sito web della Corte d’Appello di Lecce si vengono a sapere le statistiche dell'anno 2011: Totale Candidati iscritti 1277 di cui Maschi 533 Femmine 744. Invece le statistiche dell'anno 2010: Totale Candidati inscritti 1161 di cui Maschi 471 Femmine 690. Ammessi all'orale 304; non Ammessi dalla Commissione di Palermo 857 (74%). Si è presentata denuncia penale a tutte le procure presso le Corti d'Appello contro le anomalie di nomina della Commissione centrale d'esame, oltre che contro la Commissione di Palermo, in quanto questa ha dichiarato falsamente come corretti i compiti del Dr Antonio Giangrande, dando un 25 senza motivazione agli elaborati non corretti. Contestualmente si è denunciato il Tar di Lecce che ha rigettato il ricorso indicanti molteplici punti di nullità al giudizio dato ai medesimi compiti. Oltretutto motivi sostenuti da corposa giurisprudenza. Invece lo stesso Tar ha ritenuto ammissibili le istanze di altri ricorsi analoghi, per giunta valutando il merito degli stessi elaborati. Antonio Giangrande, l’alfiere contro i concorsi truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il conto. Anzi il rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a benpensanti e poi sono i primi a fottere la legge ed i loro conterranei. Un giudizio sull’operato di un certo giornalismo lo debbo proprio dare, tenuto conto che è noto il mio giudizio su un sistema di potere che tutela se stesso, indifferente ai cambiamenti sociali ed insofferente nei confronti di chi si ribella. Da anni sui miei siti web fornisco le prove su come si trucca un concorso pubblico, nella fattispecie quello di avvocato, e su come si paga dazio nel dimostrarlo. Nel tempo la tecnica truffaldina, di un concorso basato su regole di un millennio fa, si è affinata trovando sponda istituzionale. La Corte Costituzionale il 7 giugno 2011, con sentenza n. 175, dice: è ammesso il giudizio non motivato, basta il voto. Alla faccia della trasparenza e del buon andamento e della legalità. Insomma dove prima era possibile contestare ora non lo è più. D'altronde la Cassazione ammette: le commissioni sbagliano ed il Tar può sindacare i loro giudizi. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. L’essere omertosi sulla cooptazione abilitativa di una professione od incarico, mafiosamente conforme al sistema, significa essere complici e quindi poco credibili agli occhi dei lettori e telespettatori, che, come dalla politica, si allontana sempre più da un certo modo di fare informazione. Il fatto che io non trovi solidarietà e sostegno in chi dovrebbe raccontare i fatti, mi lascia indifferente, ma non silente sul malaffare che si perpetra intorno a me ed è taciuto da chi dovrebbe raccontarlo. Premiale è il fatto che i miei scritti sono letti in tutto il mondo, così come i miei video, in centinaia di migliaia di volte al dì, a differenza di chi e censorio. Per questo è ignorato dal cittadino che ormai, in video o in testi, non trova nei suoi servizi giornalistici la verità, se non quella prona al potere. Dopo 15 anni, dal 1998 ancora una volta bocciato all’esame di avvocato ed ancora una volta a voler trovare sponda per denunciare una persecuzione. Non perché voglia solo denunciare l’esame truccato per l’abilitazione in avvocatura, di cui sono vittima, ma perché lo stesso esame sia uguale a quello della magistratura (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni), del notariato (tracce già svolte), dell’insegnamento accademico (cattedra da padre in figlio) e di tanti grandi e piccoli concorsi nazionali o locali. Tutti concorsi taroccati, così raccontati dalla cronaca divenuta storia. Per ultimo si è parlato del concorso dell’Agenzia delle Entrate (inizio dell’esame con ore di ritardo e con il compito già svolto) e del concorso dell’Avvocatura dello Stato (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni). A quest’ultimi candidati è andata anche peggio rispetto a me: violenza delle Forze dell’Ordine sui candidati che denunciavano l’imbroglio. Non che sia utile trovare una sponda che denunci quanto io sostengo con prove, tanto i miei rumors fanno boato a sè, ma si appalesa il fatto che vi è una certa disaffezione per quelle categorie che giornalmente ci offrono con la cronaca il peggio di sé: censura ed omertà. Per qualcuno forse è meglio che a me non sia permesso di diventare avvocato a cause delle mie denunce presentate a chi, magistrato, oltre che omissivo ad intervenire, è attivo nel procrastinare i concorsi truccati in qualità di commissari. Sia chiaro a tutti: essere uno dei 10mila magistrati, uno dei 200mila avvocati, uno dei mille parlamentari, uno dei tanti professori o giornalisti, non mi interessa più, per quello che è il loro valore reale, ma continuerò a partecipare al concorso forense per dimostrare dall’interno quanto sia insano. Chi mi vuol male, per ritorsione alle mie lotte, non mi fa diventare avvocato, ma vorrebbe portarmi all’insana esasperazione di Giovanni Vantaggiato, autore della bomba a Brindisi. Invece, questi mi hanno fatto diventare l’Antonio Giangrande: fiero di essere diverso! Antonio Giangrande che con le sue deflagrazioni di verità, rompe l’omertà mafiosa. L’appoggio per una denuncia pubblica non lo chiedo per me, che non ne ho bisogno, ma una certa corrente di pensiero bisogna pur attivarla, affinché l’esasperazione della gente non travolga i giornalisti, come sedicenti operatori dell’informazione, così come già avvenuto in altri campi. E gli operatori dell’informazione se non se ne sono accorti, i ragazzi di Brindisi sono stati lì a ricordarglielo. Si è visto la mafia dove non c’è e non la si indica dove è chiaro che si annida. Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.). Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti). La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo. Quindi abolizione dei concorsi truccati e liberalizzazione delle professioni. Che sia il libero mercato a decidere chi merita di esercitare la professione in base alle capacità e non in virtù della paternità o delle amicizie. Un modo per poter vincere la nostra battaglia ed abolire ogni esame truccato di abilitazione, c'è! Essere in tanti a testimoniare il proprio dissenso. Ognuno di noi, facente parte dei perdenti, inviti altri ad aderire ad un movimento di protesta, affinchè possiamo essere migliaia e contare politicamente per affermare la nostra idea. Generalmente si è depressi e poco coraggiosi nell'affrontare l'esito negativo di un concorso pubblico. Se già sappiamo che è truccato, vuol dire che la bocciatura non è a noi addebitale. Cambiamo le cose, aggreghiamoci, contiamoci attraverso facebook. Se siamo in tanti saremo appetibili e qualcuno ci rappresenterà in Parlamento. Altrimenti ci rappresenteremo da soli. Facciamo diventare questo dissenso forte di migliaia di adesioni. Poi faremo dei convegni e poi delle manifestazioni. L'importante far sapere che il candidato perdente non sarà mai solo e potremo aspirare ad avere una nuova classe dirigente capace e competente.
Sessione d’esame d’avvocato 2012-2013. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Flascassovitti, Principe del Foro di Lecce, il quale ha evitato la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo con una semplice soluzione: il posto assegnato. Ma ciò non ha evitato l’espulsione di chi è stato scoperto a copiare da fonti non autorizzate o da compiti stilati forse da qualche commissario, oppure smascherato perché scriveva il tema sotto dettatura da cellulare munito di auricolare. Peccato per loro che si son fatti beccare. Tutti copiavano, così come hanno fatto al loro esame gli stessi commissari che li hanno cacciati. Ed è inutile ogni tentativo di apparir puliti. Quattromila aspiranti avvocati si sono presentati alla Nuova Fiera di Roma per le prove scritte dell'esame di abilitazione forense 2012. I candidati si sono presentati all'ingresso del secondo padiglione della Fiera sin dalle prime ore del mattino, perchè a Roma c'è l'obbligo di consegnare i testi il giorno prima, per consentire alla commissione di controllare che nessuno nasconda appunti all'interno. A Lecce sono 1.341 i giovani (e non più giovani come me) laureati in Giurisprudenza. Foro competente alla correzione: Catania. Un esame di Stato che è diventato un concorso pubblico, dove chi vince, vince un bel niente. Intanto il mio ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro la valutazione insufficiente data alle prove scritte della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione, non ha prodotto alcun giudizio, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito del ricorso, a ben altre due sessioni successive, il cui esito è identico ai 15 anni precedenti: compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar è stati costretti di presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Dall’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Ormai l’esame lo si affronta non tanto per superarlo, in quanto dopo 15 anni non vi è più soddisfazione, dopo una vita rovinata non dai singoli commissari, avvocati o magistrati o professori universitari, che magari sono anche ignari su come funziona il sistema, ma dopo una vita rovinata da un intero sistema mafioso, che si dipinge invece, falsamente, probo e corretto, ma lo si affronta per rendere una testimonianza ai posteri ed al mondo. Per raccontare, insomma, una realtà sottaciuta ed impunita. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992. Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome. A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. A questo punto mi devono spiegare cosa centra, per esempio, la siciliana Anna Finocchiaro con la Puglia e con Taranto in particolare. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti? QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME? Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi. La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato? «Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”. E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”. Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati. Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati. Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più? Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465). E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”. E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima». Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar. Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio? Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito. Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme. Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!
Sessione d’esame d’avvocato 2013-2014. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Covella, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Naturalmente anche in questa sessione un altro tassello si aggiunge ad inficiare la credibilità dell’esame forense. "La S.V. ha superato le prove scritte e dovrà sostenere le prove orali dinanzi alla Sottocommissione". "Rileviamo che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali". Due documenti, il secondo contraddice e annulla il primo (che è stato un errore), sono stati inviati dalla Corte di Appello di Lecce ad alcuni partecipanti alla prova d’esame per diventare avvocato della tornata 2013, sostenuta nel dicembre scorso. Agli esami di avvocato della Corte di Appello di Lecce hanno partecipato circa mille praticanti avvocati e gli elaborati sono stati inviati per la correzione alla Corte di Appello di Palermo. (commissari da me denunciati per concorsi truccati già in precedente sessione). L’errore ha provocato polemiche e critiche sul web da parte dei candidati. La vicenda sembra avere il sapore di una beffa travestita da caos burocratico, ma non solo. Che in mezzo agli idonei ci siano coloro che non debbano passare e al contrario tra gli scartati ci siano quelli da far passare? E lì vi è un dubbio che assale i malpensanti. Alle 17 del 19 giugno nella posta di alcuni candidati (nell’Intranet della Corte di Appello) è arrivata una comunicazione su carta intestata della stessa Corte di Appello, firmata dal presidente della commissione, avvocato Luigi Covella, con la quale si informava di aver superato "le prove scritte" fissando anche le date nelle quali sostenere le prove orali, con la prima e la seconda convocazione. Tre ore dopo, sul sito ufficiale corteappellolecce.it, la smentita con una breve nota. "Rileviamo – è scritto – che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali. Le predette comunicazioni e convocazioni non hanno valore legale in quanto gli esiti delle prove scritte non sono stati ancora pubblicati in forma ufficiale. Gli esiti ufficiali saranno resi pubblici a conclusione delle operazioni di inserimento dei dati nel sistema, attualmente ancora in corso". Sui forum animati dai candidati sul web è scoppiata la protesta e in tanti si sono indignati. "Vergogna", scrive Rosella su mininterno.net. "Quello che sta accadendo non ha precedenti. Mi manca soltanto sapere di essere stato vittima di uno scherzo!", puntualizza Pier. Un candidato che si firma Sicomor: "un classico in Italia... divertirsi sulla sorte della povera gente! poveri noi!". Un altro utente attacca: "Si parano il c... da cosa? L’anno scorso i risultati uscirono il venerdì sera sul profilo personale e poi il sabato mattina col file pdf sul sito pubblico della Corte! La verità è che navighiamo in un mare di poca professionalità e con serietà pari a zero!". Frank aggiunge: "Ma come è possibile una cosa simile stiamo parlando di un concorso!". Il pomeriggio di lunedì 23 giugno 2014 sono stati pubblicati i nomi degli idonei all’orale. Quelli “giusti”, questa volta. E dire che trattasi della Commissione d’esame di Palermo da me denunciata e della commissione di Lecce, da me denunciata. Che consorteria tra toghe forensi e giudiziarie. Sono 465 i candidati ammessi alla prova orale presso la Corte di Appello di Lecce. E' quanto si apprende dalla comunicazione 21 giugno 2013 pubblicata sul sito della Corte di Appello di Lecce. Il totale dei partecipanti era di 1.258 unità: la percentuale degli ammessi risulta pertanto pari al 36,96%. Una percentuale da impedimento all’accesso. Percentuale propria delle commissioni d’esame di avvocato nordiste e non dell’insulare Palermo. Proprio Palermo. Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri». Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».
Sessione d’esame d’avvocato 2014-2015. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco De Jaco, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Sede di Corte d’appello sorteggiata per la correzione è Brescia. Mi tocca, non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria, dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini. Io dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a lui di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. A Bari avrebbero tentato di agevolare la prova d'esame di cinque aspiranti avvocati ma sono stati bloccati e denunciati dai Carabinieri, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È accaduto nella Fiera del Levante di Bari dove è in corso da tre giorni l'esame di abilitazione professionale degli avvocati baresi. In circa 1500 hanno sostenuto le prove scritte in questi giorni ma oggi, ultimo giorno degli scritti, i Carabinieri sono intervenuti intercettando una busta contenente i compiti diretti a cinque candidati. Un dipendente della Corte di Appello, con il compito di sorvegliante nei tre giorni di prova, avrebbe consegnato ad una funzionaria dell'Università la busta con le tracce. Lei, dopo alcune ore, gli avrebbe restituito la busta con all'interno i compiti corretti e un biglietto con i cinque nomi a cui consegnare i temi. Proprio nel momento del passaggio sono intervenuti i Carabinieri, che pedinavano la donna fin dal primo giorno, dopo aver ricevuto una segnalazione. Sequestrata la busta i militari hanno condotto i due in caserma per interrogarli. Al momento sono indagati a piede libero per la violazione della legge n. 475 del 1925 sugli esami di abilitazione professionali, che prevede la condanna da tre mesi a un anno di reclusione per chi copia. Le indagini dei Carabinieri, coordinate dal pm Eugenia Pontassuglia, verificheranno nei prossimi giorni la posizione dei cinque aspiranti avvocati destinatari delle tracce e quella di altre persone eventualmente coinvolte nella vicenda. Inoltre tre aspiranti avvocatesse (una è figlia di due magistrati), sono entrate nell’aula tirandosi dietro il telefono cellulare che durante la prova hanno cercato di utilizzare dopo essersi rifugiate in bagno. Quando si sono rese conto che sarebbero state scoperte, sono tornate in aula. Pochi minuti dopo il presidente della commissione d’esame ha comunicato il ritrovamento in bagno dei due apparecchi ma solo una delle due candidate si è fatta avanti, subito espulsa. L’altra è rimasta in silenzio ma è stata identifica. Esame per avvocati, la banda della truffa: coinvolti tre legali e due dirigenti pubblici. Blitz dei carabinieri nella sede della Finanza. E la potente funzionaria di Giurisprudenza sviene, scrive Gabriella De Matteis e Giuliana Foschini su “La Repubblica”. Un ponte telefonico con l'esterno. Tre avvocati pronti a scrivere i compiti. Un gancio per portare il tutto all'interno. Sei candidati pronti a consegnare. Era tutto pronto. Anzi era tutto fatto. Ma qualcosa è andato storto: quando la banda dell'"esame da avvocato" credeva che tutto fosse andato per il verso giusto, sono arrivati i carabinieri del reparto investigativo a fare saltare il banco. E a regalare l'ennesimo scandalo concorsuale a Bari. E' successo tutto mercoledì 17 dicembre 2014 pomeriggio all'esterno dei padiglioni della Guardia di finanza dove stava andando in scena la prova scritta per l'esame da avvocato. Mille e cinquecento all'incirca i partecipanti, divisi in ordine alfabetico. Commissione e steward per evitare passaggi di compiti o copiature varie. Apparentemente nulla di strano. Apparentemente appunto. Perché non appena vengono aperte le buste e lette le tracce si comincia a muovere il Sistema scoperto dai carabinieri. Qualcuno dall'interno le comunica a Tina Laquale, potente dirigente amministrativo della facoltà di Giurisprudenza di Bari. E' lei a girarle, almeno questo hanno ricostruito i Carabinieri, a tre avvocati che avevano il compito di redigere il parere di civile e di penale e di scrivere l'atto. Con i compiti in mano la Laquale si è presentata all'esterno dei padiglioni. All'interno c'era un altro componente del gruppo, Giacomo Santamaria, cancelliere della Corte d'Appello che aveva il compito di fare arrivare i compiti ai sei candidati che all'interno li aspettavano. Compiti che sarebbero poi stati consegnati alla commissione e via. Ma qui qualcosa è andato storto. Sono arrivati infatti i carabinieri che hanno bloccato tutto. Laquale è svenuta, mentre a lei e a tutte quante le altre persone venivano sequestrati documenti e soprattutto supporti informatici, telefoni in primis, che verranno analizzati in queste ore. Gli investigatori devono infatti verificare se, come sembra, il sistema fosse da tempo organizzato e rodato, se ci fosse un corrispettivo di denaro e la vastità del fenomeno. Ieri si è tenuta la convalida del sequestro davanti al sostituto procuratore, Eugenia Pontassuglia. Ma com'è chiaro l'indagine è appena cominciata. Per il momento viene contestata la truffa e la violazione di una vecchia legge del 1925 secondo la cui "chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed all'esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito". È molto probabile infatti che l'esame venga invalidato per tutti. Certo è facile prendersela con i poveri cristi. Le macagne nelle segrete stanze delle commissioni di esame, in cui ci sono i magistrati, nessuno va ad indagare: perché per i concorsi truccati nessuno va in galera. Concorsi, i figli di papà vincono facile: "E noi, figli di nessuno, restiamo fuori". L’inchiesta sul dottorato vinto dal figlio del rettore della Sapienza nonostante l'uso del bianchetto ha raccolto centinaia di commenti e condivisioni. E ora siamo noi a chiedervi di raccontarci la vostra storia di candidati meritevoli ma senza parenti eccellenti. Ecco le prime due lettere arrivate, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A chi figli, e a chi figliastri: è questa la legge morale che impera in Italia, il Paese della discriminazione e delle corporazioni. Dove va avanti chi nasce privilegiato, mentre chi non vanta conoscenze e relazioni rischia, quasi sempre, di arrivare ultimo. Alla Sapienza di Roma l’assioma è spesso confermato: sono decine i parenti di professori eminenti assunti nei dipartimenti, con intere famiglie (su tutte quella dell’ex rettore Luigi Frati) salite in cattedra. A volte con merito, altre meno. La nostra inchiesta sullo strano concorso di dottorato vinto dal rampollo del nuovo magnifico Eugenio Gaudio, al tempo preside di Medicina, ha fatto scalpore: la storia del compito “sbianchettato” (qualsiasi segno di riconoscimento è vietato) e la notizia del singolare intervento dei legali dell’università (hanno chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, che ha invitato la Sapienza a “perdonare” il candidato ) hanno fatto il giro del web. Il pezzo è stato condiviso decine di migliaia di volte, con centinaia di commenti (piuttosto severi) di ex studenti e docenti dell’ateneo romano. Tra le decine di lettere arrivate in redazione, due sono metafora perfetta di come la sorte possa essere diversa a seconda del cognome che si porta. Livia Pancotto, 28 anni, laureata in Economia con 110 e lode, spiega che la storia del pargolo di Gaudio le ha fatto «montare dentro una rabbia tale da farmi scrivere» poche, infuriate righe. «Nel 2012, dopo la laurea, decisi di partecipare al concorso per il dottorato in Management, Banking and Commodity Sciences, sempre alla Sapienza», scrive in una lettera a “l’Espresso”. «Dopo aver superato sia l’esame scritto che l’orale ricevetti la buona notizia: ero stata ammessa, sia pure senza borsa». Dopo un mese, però, la mazzata. «Vengo a sapere dal professore che il mio concorso è stato annullato, visto che durante lo scritto ho utilizzato il bianchetto. Come nel caso del figlio del rettore Gaudio, nessuno aveva specificato, prima dell’inizio del compito, che il bando prevedesse che si potesse usare solo una penna nera». Se per il rampollo dell’amico che prenderà il suo posto il rettore Frati mobiliterà i suoi uffici legali, la Pancotto viene silurata subito, senza pietà. Oggi la giovane economista vive in Galles, dove ha vinto un dottorato con borsa all’università di Bangor. Anche la vicenda di Federico Conte, ora tesoriere dell’Ordine degli psicologi del Lazio, è paradossale. Dopo aver completato in un solo anno gli esami della laurea specialistica nel 2009, la Sapienza tentò di impedire la discussione della sua tesi. «Mi arrivò un telegramma a firma di Frati, dove mi veniva comunicato l’avvio di una “procedura annullamento esami”: il magnifico non era d’accordo nel farmi laureare in anticipo, ed era intenzionato a farmi sostenere gli esami una seconda volta». Conte domandò all’ateneo di chiedere un parere all’Avvocatura, ma senza successo. Il giovane psicologo fu costretto a ricorrere al Tar, che gli diede ragione permettendogli di laurearsi. «Leggendo la vostra inchiesta ho la percezione di un’evidente diversità di trattamento rispetto al figlio del rettore. Provo un certo disgusto nel constatare come le nostre istituzioni siano così attente e garantiste con chi sbianchetta, mentre si accaniscano su chi fa il proprio dovere». Magari pure più velocemente degli altri. Ma tant’è. Nel paese dove i figli “so’ piezz’ e core”, la meritocrazia e l’uguaglianza restano una chimera. Anche nelle università, luogo dove - per antonomasia - l’eccellenza e il rigore dovrebbero essere di casa. Se poi l’Esame di Avvocato lo passi, ti obbligano a lasciare. Giovani avvocati contro la Cassa Forense. Con la campagna "'Io non pago e non mi cancello". I giuristi più giovani in rivolta sui social network per la regola dei minimi obbligatori, che impone contributi previdenziali intorno ai 4 mila euro annui alla cassa indipendentemente dal reddito. Così c'è chi paga più di quello che guadagna. E chi non paga si deve cancellare dall'Albo, venendo escluso dalla categoria, scrive Antonio Sciotto su “L’Espresso”. Chi pensa ancora che la professione di avvocato sia garantita e ben retribuita dia in questi giorni uno sguardo attento ai social network. Twitter e Facebook da qualche giorno sono inondati da 'selfie' che raccontano tutta un'altra storia. "Io non pago e io non mi cancello" è lo slogan scelto dai giovani legali per la loro rivolta contro i colleghi più anziani e in particolare contro la regola dei "minimi obbligatori", che impone di pagare i contributi previdenziali alla Cassa forense in modo del tutto slegato dal reddito. Molti spiegano che la cifra minima richiesta – intorno ai 4 mila euro annui - è pari o a volte anche superiore ai propri redditi. E visto che se non riesci a saldare, devi cancellarti non solo dalla Cassa, ma anche dall'albo professionale. Il risultato è che ad esercitare alla fine restano tendenzialmente i più ricchi, mentre chi fa fatica ad arrivare a fine mese viene di fatto espulso dalla categoria. E' vero che per i primi 8 anni è prevista una buona agevolazione per chi guadagna sotto i 10 mila euro l'anno, ma al pari le prestazioni vengono drasticamente ridotte. Per capirci: è come se l'Inps chiedesse a un operaio e a un dirigente una stessa soglia minima di contributi annui, non calcolata in percentuale ai loro redditi. Mettiamo 5 mila euro uguali per tutti: salvo poi imporre la cancellazione dall'ente a chi non riesce a saldare. "Dovrei salassarmi oggi per ricevere un'elemosina domani – protesta Antonio Maria - mentre i vecchi tromboni ottantenni si godono le loro pensioni d'oro, non pagate, conquistate avendo versato tutta la vita lavorativa (ed erano altri tempi) il 10 per cento ed imponendo a me di pagare il 14 per cento". "Il regime dei cosiddetti minimi è vergognoso – aggiunge Rosario - Pretendere che si paghi 'a prescindere' del proprio reddito è una bestemmia giuridica. Basta furti generazionali. Basta falsità". Uno dei selfie addirittura viene da un reparto di emodialisi, a testimoniare la scarsa copertura sanitaria assicurata ai giovani professionisti. La protesta si è diffusa a partire dal blog dell'Mga - Mobilitazione generale avvocati , ha un gruppo facebook pubblico dove è possibile postare i selfie, mentre su Twitter naviga sull'onda dell'hashtag #iononmicancello. La battaglia contro le casse previdenziali non è nuova, se consideriamo gli avvocati una parte del più vasto mondo delle partite Iva e degli autonomi: già da tempo Acta, associazione dei freelance, ha lanciato la campagna #dicano33, contro il progressivo aumento dei contributi Inps dal 27 per cento al 33 per cento, imposto dalla legge per portarli al livello dei lavoratori dipendenti. Il regime dei minimi obbligatori della Cassa forense non solo darebbe luogo a una vera e propria "discriminazione generazionale", ma secondo molti giovani avvocati sarebbe anche incostituzionale, come spiega efficacemente Davide Mura nel suo blog: "E' palesemente in contrasto con l'articolo 53 della Costituzione, che sancisce il principio della progressività contributiva. Ma si viola anche l'articolo 3, quello sull'uguaglianza davanti alla legge, perché le condizioni cambiano a seconda se stai sopra o sotto i 10 mila euro di reddito annui". La soluzione? Secondo l'Mga sarebbe quella di eliminare l'obbligo dei minimi e passare al sistema contributivo, come è per tutti gli altri lavoratori. Vietando possibilmente agli avvocati già in pensione di poter continuare a esercitare. Un modo insomma per far sì che i "tromboni" lascino spazio ai più giovani.
Di che lamentiamo se chi dovrebbe denunciare i soprusi sui più deboli si avvantaggia del sistema.
Polemiche sull'incarico a Lecce all'ex candidata di Sel. Blogger di Vendola assunta in Asl Sonia Pellizzari ha vinto il concorso poco pubblicizzato. Scelta da un dg a fine mandato, scrive Giovanni Bucchi su “Italia Oggi”. È la blogger di Nichi Vendola. Ha lavorato per diversi anni, e tramite società private, con la Regione Puglia, guidata dallo stesso Vendola, fornendo servizi di comunicazione prima all'assessorato alla Salute poi direttamente alla presidenza. È pure annoverata tra i consulenti della società partecipata Innova Puglia. Non bastasse, all'attività giornalistica – è iscritta all'elenco dei pubblicisti – ha tentato di affiancare anche quella politica, candidandosi (senza troppa fortuna) alla fine del 2012 alle primarie per la scelta dei candidati al Parlamento di Sel – partito guidato dallo stesso Vendola - in vista delle elezioni politiche del febbraio 2013. Nel suo curriculum vanta anche un posto nel coordinamento nazionale di Sinistra ecologia e libertà, con la delega proprio al settore della comunicazione. E adesso, al termine di questo percorso professionale partito da un dottorato di ricerca all'Università di Bologna dove si è laureata in Sociologia, ha strappato un contratto di collaborazione da 21mila euro lordi per tutto il 2015 con l'Azienda sanitaria di Lecce, in particolare all'ufficio comunicazione istituzionale e rapporti con il pubblico. Lei è Sonia Pellizzari, salentina di 36 anni, e il suo caso ha sollevato polemiche in Puglia, tanto da scomodare pure l'Associazione regionale della stampa. Ricapitoliamo la vicenda: il 19 novembre la Asl di Lecce pubblica l'avviso ufficiale per la ricerca di un laureato in Scienze della comunicazione o corsi equipollenti da impiegare come addetto stampa, dando tempo fino al 30 dicembre per partecipare alla selezione. Poco più di un mese, quindi, con l'ultima parte del periodo disponibile che cade sotto le festività di Natale. Non il modo migliore per pubblicizzare il più possibile l'opportunità professionale, ma tant'è. Si presentano in 23 e a spuntarla è proprio lei, la giornalista di area vendoliana con incarichi dentro Sel. La delibera 2324 del direttore generale dell'Asl di Lecce, Valdo Mellone, prende atto della graduatoria stilata dalla commissione esaminatrice che l'ha piazzata al primo posto e le assegna l'incarico. È la Pellizzari quella con più punti, sommando quelli per i titoli e quelli per il colloquio. Caso singolare, si tratta di uno degli ultimi provvedimenti firmati dal dg Mellone, poi lasciato a casa proprio da Vendola che lo ha sostituito con Giovanni Gorgoni, ex dirigente dell'Asl della provincia di Barletta, Andria e Trani. In sostanza, il nuovo addetto stampa è stato scelto dal direttore generale in scadenza di mandato, con buona pace di chi gli aveva chiesto di dedicarsi soltanto all'ordinaria amministrazione; pertanto, il nuovo responsabile dell'Asl di Lecce dovrà relazionarsi con una giornalista scelta due giorni prima del suo arrivo dal predecessore. Non bastasse, a firmare la delibera di assegnazione dell'incarico è stato anche il direttore sanitario Ottavio Narracci, pure lui costretto a cambiare azienda di lavoro proprio nei giorni successivi. Raffaele Lorusso, presidente di Assostampa Puglia, ha già chiesto formalmente la revoca dell'incarico per la «scarsa pubblicità data alla procedura di selezione», sostenendo che «la procedura accelerata e poco pubblicizzata seguita dalla Asl di Lecce ha impedito a centinaia di giornalisti disoccupati o in cerca di disoccupazione, non soltanto pugliesi, di partecipare alla selezione». Critico anche il consigliere regionale di Fi, Luigi Mazzei, che ha sollevato la vicenda parlando addirittura di «regali di fine mandato» da parte di Vendola e di «atto illegittimo» tuonando contro «l'occupazione bolscevica da parte della Regione».
Un avviso pubblico lampo, lanciato il 19 novembre e aggiudicato il 30 dicembre, giusto lo stesso giorno in cui la giunta regionale ha commissariato le Asl facendo decadere i vecchi direttori generali. Ma a Lecce, prima di lasciare la scrivania, il dg uscente Valdo Mellone ha voluto dotare l’azienda di un ufficio stampa con un contratto di collaborazione da 21mila lordi per 12 mesi. Contratto che è stato affidato a Sonia Pellizzari, 36 anni, sociologa, esponente della direzione nazionale di Sel, già candidata alla Camera nel 2013 nonché responsabile dei contenuti del blog di Nichi Vendola, scrive Marco Seclì su “la Gazzetta del Mezzogiorno”. Ad accorgersene è stato ieri il consigliere regionale di Forza Italia, Luigi Mazzei, secondo cui si tratta di «regali di fine mandato» e di «un atto illegittimo che conferma i nostri dubbi sull'occupazione bolscevica in atto nella nostra Regione». Mazzei ha chiesto alla giunta regionale di revocare la delibera in quanto «approvata in un momento in cui era consentita la sola amministrazione ordinaria». Una delibera che la Asl di Lecce, del resto, ha fatto di tutto per imboscare: è stata pubblicata sul sito, ma senza il nome del vincitore né tantomeno la graduatoria finale della selezione, in maniera che fosse impossibile capire a chi è stato assegnato il contratto. Oltre che la firma di Mellone, che proprio il 30 dicembre ha lasciato la direzione generale della Asl di Lecce (dove sta per insediarsi come commissario Giovanni Gorgoni, proveniente dalla Bat), la delibera è stata sottoscritta anche dall’ex direttore sanitario Ottavio Narracci, a sua volta passato alla direzione generale della Bat.
L'Associazione della stampa di Puglia - informa una nota – "chiederà al nuovo direttore generale della Asl di Lecce, non appena si sarà insediato, di annullare il risultato dell’avviso pubblico con cui il suo predecessore ha assegnato un incarico di ufficio stampa della Asl, peraltro in un periodo di prorogatio in cui era possibile la sola gestione ordinaria". "Più che per la singolare contiguità fra la vincitrice dell’avviso pubblico e il partito del presidente della Regione, aspetto che andrebbe approfondito in altre sedi – spiega il presidente dell’Assostampa, Raffaele Lorusso – l'annullamento del bando si rende necessario perchè scarsa è la pubblicità che è stata data alla procedura di selezione. In una regione che ha fatto della trasparenza la propria bandiera non è possibile alimentare i sospetti di chi afferma che ci si trova di fronte all’ennesimo avviso pubblico cucito addosso ad un vincitore già individuato". "Di certo – conclude – la procedura accelerata e poco pubblicizzata seguita dalla Asl di Lecce ha impedito a centinaia di giornalisti disoccupati o in cerca di prima occupazione, non soltanto pugliesi, di partecipare alla selezione, negando nei fatti quel principio di pari opportunità di accesso agli uffici e agli incarichi pubblici sancito dalla Costituzione. Tutto questo è inaccettabile".
Sergio Blasi replica a Mazzei su “La Gazzetta del Mezzogiorno”, giusto per dire che il bue chiama cornuto l’asino. “Spendo solo qualche minuto per rispondere alle chiacchiere del consigliere regionale Mazzei, il quale ci delizia con cadenza giornaliera, di interventi sulla stampa che si distinguono per i contenuti insultanti e per la vacuità degli argomenti. Con il suo chiacchiericcio Mazzei ha riempito negli ultimi mesi le pagine di giornali ma, come dimostrano i fatti, non è stato in grado di risolvere nessun problema del territorio che l’ha eletto. Sulla Ico Tito Schipa, per fare chiarezza, occorre evidenziare come la Fondazione a cui fa riferimento l’orchestra è partecipata dalla Provincia e ha come presidente Antonio Gabellone. E ciò da lunghi anni. Oggi, di fronte al concreto rischio per 60 orchestrali di perdere il lavoro, Gabellone, supportato dal produttore di chiacchiere Mazzei, ripetono sulla stampa che “è colpa della Regione”. Questa è una dimostrazione non solo di scarso rispetto per l’intelligenza dei cittadini, ma anche di incompetenza da parte di chi non ha saputo valorizzare il lavoro dell’Orchestra Ico Tito Schipa in questi anni. La Regione ha fatto quello che poteva. La presidenza della Provincia e la presidenza della Fondazione (impersonate entrambe da Gabellone) non sono riusciti a mettere a frutto con lungimiranza il valore artistico dell’orchestra. E ancora oggi continuano a parlarne come di una municipalizzata qualsiasi, da rimpinzare di soldi pubblici buoni per tirare a campare. C’è da sperare che il centrodestra pugliese, in evidente crisi di competenze e di valori, diventi presto un brutto ricordo per i cittadini. Che finalmente la competenza vada a ricoprire i posti ora occupati da Gabellone e compagni e che alle chiacchiere di Mazzei (che come quelle di Carnevale, non riempiono la pancia), vengano sostituite da proposte serie, progetti a lungo termine e da proposte politiche concrete. Oggi lo stesso Mazzei si fa notare per le accuse lanciate all’indirizzo di una giovane dirigente di Sel colpevole di aver vinto una selezione pubblica. Mi chiedo se è lo stesso Mazzei il cui fidanzato della figlia, futuro genero, vince un concorso pubblico al Comune di Calimera, dove lui è capogruppo di maggioranza. Così fiero nel sostenere ragioni di “opportunità” nei confronti altrui, così poco coerente nell’applicarle a sé stesso e al proprio orticello, Mazzei farebbe bene a proporre meno fuffa e più soluzioni. E così Gabellone, il segretario provinciale del suo partito, dal quale non abbiamo mai udito alcuna umile assunzione di responsabilità né sulla Ico Tito Schipa, né sugli altri fallimenti della sua amministrazione. Anche perché lo sanno tutti, per primo lui, che se avessimo dovuto rieleggere il presidente della Provincia con il voto dei cittadini, mai e poi mai sarebbe stato rieletto”.
Asl, incarichi e polemiche. Nel mirino finisce il servizio 118 a Nardò. Nuovo caso sollevato dal consigliere regionale Luigi Mazzei, dopo quello sull’ufficio stampa: presentata un’interrogazione urgente sull’incarico del servizio di supporto al 118 di Nardò. E accusa: “Vogliamo conoscere i criteri”, scrive “Lecce Sette”. Non si placano le polemiche sugli incarichi all’interno dell’Asl di Lecce, dopo il caso sollevato sull’affidamento di ufficio stampa alla giornalista Sonia Pellizzari, sia per motivi tecnici legati alla pubblicità del bando di gara sia per ragioni politiche, dal consigliere regionale di Forza Italia, Luigi Mazzei. È ancora quest’ultimo a puntare il dito contro un altro incarico, quello dell’affidamento del servizio di supporto al 118 di Nardò “rigorosamente senza gara – spiega - ad un'associazione a titolo oneroso (oltre 51mila euro per 6 mesi), nonostante fosse pervenuta una richiesta a titolo gratuito da parte di un’altra”. Mazzei ha presentato un’interrogazione urgente sul tema: “Come è noto –aggiunge - la giunta ha approvato la riorganizzazione della rete dell’emergenza urgenza, con delibera n. 2251 del 22/10/2014. L’ex dg Mellone, adducendo l’incomprensibile motivazione che la giunta avesse dovuto adottare ulteriori atti (?) non ha proceduto, come stabilito dalla legge, ad espletare una gara per il servizio di 118; preferendo, altresì, accogliere la proposta pervenuta dall'associazione Soccorso Amico di Aradeo del 25/09/2013, che si era dichiarata disponibile a svolgere il servizio per un importo mensile di 8.505 mila euro”. Il consigliere sottolinea come l’ex dg abbia “bypassato, ignorato e deliberatamente cestinato” la richiesta di un'altra associazione, “Uer Protezione Civile e Soccorso” di Nardò, che si proponeva di gestire il servizio a titolo gratuito. Nell’interrogazione, Mazzei chiede di conoscere i criteri che hanno portato a preferire “un servizio a carico della collettività anziché uno gratuito”: “Tutto questo – afferma - integra gli estremi del danno erariale e i leccesi ne hanno le tasche piene”.
ANGELA PETRACHI. IL DELITTO DI MELENDUGNO. LA CONDANNA DI GIOVANNI CAMASSA E’ UN ERRORE GIUDIZIARIO?
Storie di Ordinaria ingiustizia.
Angela Petrachi. Il Delitto di Melendugno. La condanna di Giovanni Camassa è un errore giudiziario?
Il caso del delitto di Angela Petrachi, che ha sconvolto non solo Melendugno e la provincia di Lecce, ma anche tutta Italia. Di lei si è interessato il programma di Rai3: “Chi La Visto?
Se ne occupa Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, tra cui “Giustiziopoli, disfunzioni che colpiscono il singolo”, “Malagiustiziopoli, disfunzioni che colpiscono la collettività”, oltre che “Tutto su Lecce, quello che non si osa dire”. Libri che raccontano questa Italia alla rovescia. Giangrande per una scelta di libertà si pone al di fuori del circuito editoriale. Libri dettagliati che fanno la storia, non la cronaca, perché fanno parlare i testimoni del loro tempo.
«Sono orgoglioso di essere diverso. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Faccio mia l’aforisma di Bertolt Brecht. “Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili.” Rappresentare con verità storica, anche scomoda, ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Continua Antonio Giangrande «E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale. Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie. Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. Faccio ancora mia un altro aforisma di Bertolt Brecht “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.
«Del delitto di Angela Petrachi – racconta Giangrande - ne dava conto il 9 novembre 2002 lo stesso Corriere della Sera a firma di Roberto Buonavoglia. “I genitori pensavano che fosse fuggita, forse con un uomo. L' hanno cercata per 5 giorni prima di dare l' allarme. Ieri mattina, invece, Angela Petrachi, 31 anni, separata e madre di due bambini, è stata trovata morta da un cercatore di funghi in un boschetto di querce alla periferia di Melendugno, 15 chilometri da Lecce. Aveva la gonna arrotolata sui fianchi. Nessuna traccia degli indumenti intimi. Gli abiti, invece, erano strappati ma erano gli stessi che la vittima indossava il giorno della scomparsa, il 26 ottobre, quando lasciò i figli di 7 e 11 anni nella casa materna dicendo: «Torno subito». Sul cadavere il medico legale che oggi compirà l'autopsia, Alberto Tortorella, ha riscontrato tante sevizie da far dire agli investigatori che «il killer si è accanito sul corpo della povera donna». Angela Petrachi sarebbe stata attirata in una trappola dall'assassino, che quasi certamente conosceva. Forse l'uomo ha tentato di violentarla e lei ha resistito. L'ha colpita al volto con un bastone o una pietra, ha messo il corpo faccia in giù e l'ha trascinato per alcuni metri fino a nasconderlo dietro un cespuglio. Poi, prima di fuggire, l'assassino ha infierito sul cadavere. Uno sfregio, secondo i militari, che farebbe pensare a un delitto a sfondo sessuale forse riconducibile al giro di frequentazioni della donna. Proprio su conoscenti e amici di Angela Petrachi indagano ora i carabinieri che stanno controllando i tabulati delle schede telefoniche della donna e stanno scavando nella sua vita privata. La vittima, che svolgeva lavori saltuari, era separata da due anni dal marito, un militare al quale la famiglia non aveva perdonato di aver sposato Angela. Dopo la rottura del matrimonio la donna aveva frequentato un altro uomo che, alla fine della relazione, l'aveva denunciata sostenendo che la 31enne teneva comportamenti diseducativi con i figli. Per questo i due bambini erano stati affidati per 5 mesi a un istituto di Oria (Brindisi), fino al ritiro della denuncia. E proprio per impedire che alla donna venissero sottratti di nuovo i bimbi i suoi genitori hanno aspettato 5 giorni prima di denunciarne la scomparsa. Una perdita di tempo forse fatale: un testimone ha detto ai carabinieri di aver visto la donna 24 ore dopo la scomparsa.”. Angela Petrachi viveva a Melendugno, con i figli di 5 e 7 anni. Alle 14.30 di sabato 26 ottobre 2002, dopo aver pranzato con i figli in casa dei propri genitori, si allontanò dicendo che sarebbe andata per un’ora a casa sua e poi sarebbe tornata in tempo per accompagnare il figlio maggiore al catechismo. Ma questa evoluzione dei fatti non si verificò mai. Giovedì 31 i genitori di Angela vennero avvisati che l’auto della figlia si trovava nello spiazzo adiacente il campo sportivo, con la ruota posteriore destra a terra per un chiodo conficcato nel copertone. All’interno i documenti dell’auto e il giubbino. Secondo alcune testimonianze sarebbe stata parcheggiata lì fin dal pomeriggio di sabato. I documenti di Angela vennero ritrovati un paio di giorni. Non si seppe più nulla fino alle 8,30 circa di venerdì 8 novembre, quando il corpo di Angela venne trovato da un cercatore di funghi. Era in un boschetto, nelle vicinanze della strada su cui erano stati rinvenuti i documenti e la borsa. Indossava ancora i vestiti che aveva quando era uscita dalla casa dei genitori. Le indagini dei carabinieri si concentrarono da subito sull’ex fidanzato della donna al quale Angela, quel sabato 26 ottobre, aveva inviato ben 14 messaggi, tra le 17 e le 23. Nonostante tutto questo, invece è stato condannato Giovanni Camassa. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, i due si erano dati appuntamento per l’acquisto di un cane ma l’incontro ben presto degenerò. Come accertato dal medico legale, Angela fu vittima di uno stupro, poi soffocata con le sue stesse mutandine e infine accoltellata. Di quel delitto fu accusato e condannato in via definitiva il 26 febbraio 2014 Giovanni Camassa. La corte di Cassazione ha confermato la condanna alla pena dell'ergastolo per Giovanni Camassa, l'agricoltore 45enne ritenuto responsabile dell'omicidio di Angela Petrachi, la 31enne uccisa brutalmente nell'ottobre del 2002 nelle campagne di Melendugno (Lecce). I giudici di primo grado avevano assolto l'imputato per non aver commesso il fatto; in appello, invece, l'imputato fu condannato al carcere a vita. Angela Petrachi, madre di due figli, uscita dalla casa dei genitori nel primo pomeriggio del 26 ottobre 2002, scomparve nel nulla. Il suo corpo venne ritrovato solo la mattina dell'8 novembre da un cercatore di funghi. L'autopsia rivelò che la donna era stata violentata, strangolata con i suoi slip e seviziata con la lama di un coltello. Secondo l'accusa, l'imputato e la vittima si sarebbero incontrati nel pomeriggio del 26 ottobre per discutere dell'acquisto di un cane. Durante l'incontro, però, la situazione sarebbe degenerata e l'uomo, colto da un raptus forse perchè invaghito della donna, avrebbe aggredito Angela Petrachi uccidendola. Carcere a vita. E’ il verdetto emesso dai giudici della Suprema Corte dopo circa quattro ore di camera di consiglio. Ci sono voluti la sbobinatura di 400 file, la ripulitura di centinaia e centinaia di intercettazioni, un lavoro meticoloso da parte dell’ingegnere informatico Luigina Quarta e una nuova istruttoria dibattimentale per riscrivere una nuova inaspettata verità nel processo istruito per fare luce sull’omicidio di Angela Petrachi, avvenuto il 26 ottobre del 2002. I giudici di secondo grado, Presidente Roberto Tanisi, a latere Rodolfo Boselli, condannarono all’ergastolo il presunto assassino, Giovanni Camassa, 44enne di Melendugno, assolto in primo grado per non aver commesso il fatto dopo aver trascorso due anni e mezzo di carcere. Camassa si è sempre giustificato affermando che quel giorno si trovava in compagnia della propria compagna, ma gli accertamenti tecnici avrebbero ribaltato l’impianto difensivo costruito dall’avvocato difensore Francesca Conte che aveva evidenziato come non vi sarebbe mai stato un movente e fatto notare l’esistenza di rapporti burrascosi tra la donna e il suo ex marito, tanto che la Petrachi presentò anche una querela. I figli di Angela erano assistiti dall’avvocato Tiziana Petrachi. Dopo la pronuncia della colpevolezza ribadita, in via definitiva, dalla Cassazione i carabinieri della Stazione di Martano hanno arrestato Giovanni Camassa, 47enne, in ottemperanza all’ordine di esecuzione per la carcerazione emesso dalla Procura Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Lecce, in seguito alla sentenza della Suprema Corte di Cassazione per l’omicidio di Angela Petrachi. Camassa, dopo le formalità di rito è stato tradotto alla Casa Circondariale di Lecce dove dovrà scontare la pena. Il ricorso alla Suprema Corte era stato presentato dall’avvocato difensore Francesca Conte, che ha sempre insistito sull’inesistenza di un movente che potesse spiegare il brutale assassinio. L’autopsia permise di stabilire che la giovane era stata violentata, strangolata e seviziata. A distanza di poco tempo i sospetti degli inquirenti si concentrarono su Giovanni Camassa, con il quale la Petrachi aveva un appuntamento il giorno della sua scomparsa per concordare l’acquisto di un cane. Al termine del processo di primo grado l’uomo fu assolto, mentre in Appello arrivò la condanna all’ergastolo da parte dei giudici a cui poco convincente risultò anche l’alibi fornito dal presunto assassino, che ha sempre sostenuto di avere trascorso il pomeriggio del 26 ottobre con la donna che in seguito diventò sua moglie. L’accusa ha analizzato e confutato l'alibi dell'imputato, dimostrando, attraverso riscontri di natura tecnica che, secondo il pubblico ministero hanno evidenziato come le “risultanze delle consulenze di parte siano prive di significato”, che l'imputato e la moglie non erano insieme in quel tragico pomeriggio macchiato di sangue. Camassa, infatti, ha sempre affermato che quel triste giorno di ottobre era proprio in compagnia di quella che sarebbe poi divenuta sua moglie, Moira Flamini. Un passaggio fondamentale questo. La difesa di Camassa, rappresentata dall’avvocato Francesca Conte, aveva presentato ricorso in Cassazione. La penalista leccese ha sempre evidenziato come non vi fosse un movente dell’omicidio. Non sarebbe mai stato concordato, infatti, alcun incontro per l’acquisto di un cane, come sostenuto dall’accusa. Nella denuncia di scomparsa non vi è alcun riferimento, né nella successiva integrazione. La vicenda relativa al cane emergerebbe sol alcuni mesi dopo. Quel pomeriggio Angela Petrachi avrebbe dovuto incontrare, con ogni probabilità, due amiche. Una testimone, ritenuta inspiegabilmente inattendibile ha spiegato la difesa, vede alle 14.50 la donna salire su una Lancia Thema blu. L’avvocato Conte ha poi evidenziato come i rapporti tra la 31enne e l’ex marito fossero a dir poco burrascosi, tanto che la stessa aveva in passato presentato una querela nei suoi confronti. Appare singolare, secondo la nota penalista leccese, come l’alibi dell’uomo sia stato verificato telefonicamente, contattando una donna che, secondo la sua versione, era con lui quel pomeriggio. Tesi e ipotesi che non hanno trovato riscontro nei giudici, che hanno deciso di scrivere le parole “fine pena mai” sul fascicolo di Giovanni Camassa. A sollevare l’interesse sul caso ci ha pensato il nipote di Camassa che ha chiesto il mio aiuto, certamente non per risolvere il caso, né per porvi giustizia, incarico delegato alle toghe, magistrati ed avvocati, ma per sollevare un velo pietoso sulla spinosa vicenda. Testimonianza che è già stata riportata dal tg di Telenorba il 12 marzo 2014 e da un articolo sulla Gazzetta del Mezzogiorno del 13 marzo 2014. Egli mi scrive: “Sono Francesco Di Cianni, Vi scrivo da Martignano, piccolo Comune della Provincia di Lecce, per illustrarVi una situazione gravissima e che vede protagonista un uomo, mio zio, detenuto ingiustamente per quasi 4 anni, e cosa ancor più grave, condannato all’ergastolo in via definitiva, al termine di un Processo quanto mai strano e anomalo, che non ha tenuto in considerazione aspetti fondamentali e prove che, "senza ogni ragionevole dubbio", se fossero state considerate, avrebbero dimostrato l'assoluta innocenza ed estraneità ai fatti di quella che invece appare essere solo un caprio espiatorio a protezione di chissà chi o quale persona, invece evidentemente più influente di un normalissimo cittadino onesto, che ad oggi è invece libero ingiustamente! I fatti, brevemente, e che avremo modo sicuramente di affrontare e spiegarVi più nel dettaglio attraverso tutte le carte processuali, riguardano l'omicidio di Angela Petrachi, avvenuto nel 2002 in un Comune della medesima provincia di Lecce, Melendugno, e per il quale è stato condannato per l'appunto mio zio, Giovanni Camassa, senza nessuna prova e anzi con molti punti interrogativi e sospetti. A parziale dimostrazione di ciò, era stato anche assolto con formula piena per non aver commesso il fatto in primo grado in Corte di Assise dal Giudice Giacomo Conte. Lo stesso Giudice infatti, al tempo dei fatti, dispose anche la scarcerazione immediata dell'imputato. L'amara sorpresa giunse però in Corte d'Appello, dove, come per magia, venne ribaltata la sentenza di primo grado (che venne commutata in ergastolo, il massimo della pena prevista dal Codice Penale Italiano, e che non viene comminata nemmeno ai Mafiosi, ma che evidentemente nel caso di mio zio doveva cancellare in fretta il reato dalle spalle del vero esecutore, molto più influente di un povero e comunissimo contadino leccese), e la definitiva doccia fredda in Cassazione, il 26/02/2014, con la riconferma dell'ergastolo in capo al mio congiunto. La cosa eclatante non sta nella condanna in sé (non sarebbe il primo caso di mala giustizia italiana, e forse neanche l'ultimo nostro malgrado), ma nel fatto che nei gradi successivi al primo non sono state prese in considerazione prove eclatanti (una su tutte la perizia del R.I.S. che scagionava l'imputato, e lo stesso Capitano del R.I.S. che scriveva testualmente nella relazione "…..escludiamo Giovanni Camassa dall'ipotesi che avesse potuto commettere il fatto."), o testimonianze di persone che confermavano l'alibi di mio zio. Al tempo stesso, non sono stati presi in considerazione fatti importanti e sicuramente decisivi al fine dell'esito processuale (se appunto considerate), quali le denunce per percosse alla povera vittima antecedenti il suo omicidio, o posizioni di persone quanto meno sospette che dalle 17.00 alle 23.00 ricevevano messaggi da parte della Petrachi anche dopo la presunta morte (che secondo l’accusa è avvenuta intorno alle 13.00) e la presenza del loro DNA sul corpo della vittima e le quali ad oggi sono libere e le cui posizioni non sono mai state affrontate processualmente!!!!!!!!!!!!!!!!!!! Da ultimo abbiamo la testimonianza di nuove persone che finalmente sembra abbiano trovato la forza di testimoniare a favore di mio zio, dopo anni di terrore e paura per la loro incolumità.”. Ben venuto nel club, direi a Francesco ed a tutti i disillusi da questa giustizia. Peccato che a contarli tutti vien l’orticaria. Ben 5 milioni di errori giudiziari ed ingiuste detenzioni negli ultimi 50 anni. Se sembran pochi per alimentare un dubbio su come funziona la giustizia in Italia, vuol dire che vale il detto già richiamato: “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”.»
LECCE E CAGLIARI: AVVOCATI CON LE PALLE.
Lecce e Cagliari: avvocati con le palle. Gli avvocati protestano, credi che non ti riguardi?
«Per una volta sorvolo sull’abilitazione truccata nell’avvocatura. E per quanto ne parli, tanto me la fanno pagare. Ciononostante per la prima volta posso osannare le gesta delle toghe leccesi e cagliaritane che si differenziano dalla massa succube della politica e della magistratura».
Esordisce così, senza giri di parole il dr Antonio Giangrande.
«Da mesi gli avvocati cagliaritani e leccesi sono impegnati in un'azione di astensione dalle udienze, nel silenzio dei media nazionali. Azione a carattere generale che non attiene battaglie di bottega, come per esempio la chiusura della sede distaccata di quel Tribunale o di quel Giudice di Pace. Qui trattasi dei tagli e dell’aumento dei costi ad una giustizia allo sfascio che genera ingiustizia. Lotta che ha lasciato indifferenti e silenziosi sia il presidente del Consiglio Renzi che il ministro della giustizia Orlando». Continua Giangrande, noto autore di saggi con il suffisso opoli (per denotare una disfunzione) letti in tutto il mondo. «Le coraggiose toghe hanno promosso una raccolta fondi tra gli avvocati di Lecce e Cagliari per acquistare una mezza pagina pubblicitaria sul Corriere della Sera e spiegare, ancora una volta, le ragioni che hanno portato negli ultimi mesi a scioperare e protestare. I media se non li paghi non informano. E’ ammirabile il gesto se si tiene conto che la protesta, questa volta, è mirata non solo a difesa della lobby, ma anche alla tutela dei diritti del cittadino.»
Sul giornale leggi.
GLI AVVOCATI PROTESTANO:CREDI CHE NON TI RIGUARDI?
Lo sai che i tempi di un processo sono aumentati mediamente di 2 anni? E che, invece, dal 2002 al 2012 il costo di ciò che tu paghi allo Stato per un processo è aumentato fino al 182,67%? Lo Stato ha aumentato le tasse che tu paghi per difendere i tuoi diritti e ha imposto la mediazione obbligatoria, con costi a tuo carico prima di poter andare davanti a un giudice.
Lo sai che il Governo sta pensando di chiederti una tassa per sapere i motivi delle sentenze? E i soldi che hai versato per la tassa non te li restituirà in nessun caso?
Lo sai che in appello la tassa che hai pagato in primo grado viene aumentata del 50%. E in Cassazione si raddoppia? E che se perdi la devi pagare di nuovo?
Lo sai che se per esempio devi impugnare un’espropriazione al TAR la Tassa costa almeno 650 euro (ma per gli appalti può arrivare fino a 6.000!), ed altri 650 (o 6.000) se successivamente dovrai impugnare altri atti e che al Consiglio di Stato quella tassa viene aumentata del 50%? Perdi? Rischi di pagare di nuovo.
Lo sai che se hai ricevuto un accertamento fiscale o un fermo amministrativo illegittimo e vuoi ricorrere in Commissione Tributaria devi pagare una tassa per ogni accertamento impugnato e se siete in due (ad es. tu e tua moglie) dovete pagare due volte? E che se vuoi impugnare in Commissione Tributaria Regionale quella tassa viene aumentata del 50%?
Lo sai che se sei povero la Costituzione ti garantisce che l'avvocato te lo paga lo Stato, ma che lo stesso Stato ha introdotto delle norme che lo rendono di fatto impossibile?
Lo sai che lo Stato è talmente lento nel perseguire i reati che in media la prima udienza dei processi si tiene quando già è trascorso il 70% del tempo utile per la prescrizione del reato?
Lo sai che lo Stato nel settore penale minaccia di elevare fino a € 10.000,00 la sanzione pecuniaria in caso di inammissibilità del ricorso?
Lo sai che, a causa della chiusura dei Tribunali periferici, i tempi e i costi delle esecuzioni nei confronti del tuo debitore si sono allungati a dismisura?
Lo sai che senza l’avvocato la tua domanda di giustizia non sarebbe ascoltata?
Lo sai che è grazie al coraggio degli avvocati che sono andati contro la giurisprudenza dominante se, ad esempio, oggi puoi fare causa alla banca per l’anatocismo sui conti correnti? O se puoi fare causa al datore di lavoro che ti ha licenziato ingiustamente? O se puoi lottare affinché tuo figlio non sia allontanato dalla tua famiglia? O se puoi difenderti dall’accusa di un reato che non hai commesso?
Per questo, e molto altro, gli Avvocati di Lecce e Cagliari sono in astensione ad oltranza dalle udienze. Lo Stato sta smantellando la Giustizia. Sei ancora convinto che se la giustizia non funziona è tutta colpa degli avvocati?
Bisogna dire che il 13 maggio 2014 sono riprese le udienze penali e civili al Palazzo di Giustizia di Cagliari, dopo la decisione di interrompere lo sciopero a oltranza degli avvocati. L'assemblea forense del capoluogo, convocata dal presidente Ettore Atzori, aveva già deciso la convocazione di una nuova adunanza, il 10 giugno, per decidere se attuare nuove forme di protesta. Da oggi il calendario giudiziario ha ripreso a marciare regolarmente ma serviranno mesi per recuperare e sfoltire l'accumulo di udienze.
Le disfunzioni della Giustizia sono colpa degli avvocati? Per la Commissione di garanzia pare proprio di sì. La Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero ha aperto un procedimento nei confronti dell’Ordine degli avvocati di Lecce, in particolare, nella persona del suo presidente, Raffaele Fatano. Due sono le contestazioni mosse: violazione dell’obbligo di preavviso minimo e della determinazione della durata dello sciopero, e violazione della norma sulla durata massima dell’astensione. Le toghe salentine hanno deciso di astenersi dalle udienze nel corso dell’assemblea straordinaria riunitasi il 18 febbraio 2014 scorso. Decisione confermata il 14 aprile in un successivo appuntamento assembleare laddove si decise di portare avanti lo sciopero a oltranza fino al 3 giugno, anticipata al 28 maggio, giorno in cui gli avvocati si riuniranno nuovamente per stabilire se continuare o meno a disertare le aule dei tribunali. Un invito a sospendere l’astensione dalle udienze era stato rivolto agli avvocati dall’Anm attraverso un documento stilato nel corso dell’assemblea degli iscritti tenutasi lo scorso 23 aprile. Molto probabilmente la Giustizia non è un sentire comune.
Il giudice deve disporre il rinvio delle udienze nei giorni di sciopero quando l'avvocato sciopera, salvo in casi eccezionali che «rendano indifferibile la trattazione del processo». Questa la decisione presa dalle sezioni unite penali della Cassazione con l'informativa provvisoria n. 5 del 27 marzo 2014. I giudici della suprema corte erano chiamati a pronunciarsi sulla seguente questione: «se, anche dopo l'emanazione del codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati, adottato il 4 aprile 2007 e ritenuto idoneo dalla commissione di garanzia dell'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi essenziali con delibera del 13 dicembre 2007, il giudice, in caso di adesione del difensore all'astensione, possa disporre la prosecuzione del giudizio, in presenza di esigenze di giustizia non contemplate nel codice suddetto». La soluzione adottata dalle sezioni unite é «negativa, salvo che sussistano - si legge nell'informazione provvisoria diffusa al termine della camera di consiglio - situazioni che rendano indifferibile la trattazione del processo». Solo in casi limite, dunque, quali ad esempio l'imminente prescrizione del reato, un teste venuto dall'estero per essere sentito nel processo, un giudice che dopo pochi giorni va in pensione, la corte può decidere per la prosecuzione del giudizio, nonostante l'astensione del legale.
Sciopero avvocati: difensore ha diritto a differimento dell'udienza camerale. Cassazione penale , sez. VI, sentenza 06.05.2014 n° 18753. Con la sentenza in esame, la Corte di Cassazione ribadisce l'innovativo principio di diritto già affermato con una pronuncia di inizio anno, secondo cui l'astensione del difensore dalle udienze, se posta in essere nel rispetto e nei limiti indicati dalla legge e dal codice di autoregolamentazione, impone il rinvio anche delle udienze camerali.
Eppure approda alla Commissione di garanzia sugli scioperi la protesta dell'avvocatura salentina. La Commissione, infatti, ha aperto un procedimento per valutare le eventuali violazioni compiute dall'Ordine degli avvocati di Lecce in merito alla proclamazione e alla durata delle astensioni.
Sciopero degli avvocati: la Commissione apre un procedimento sulle presunte irregolarità. Approda alla Commissione di garanzia sugli scioperi la protesta dell’avvocatura salentina, che dal 20 febbraio 2014 scorso sta attuando l’astensione dalle udienze. La Commissione, infatti, ha aperto un procedimento per valutare le eventuali violazioni compiute dall’Ordine degli avvocati di Lecce in merito alla proclamazione e alla durata delle astensioni. Secondo quando disciplinato dalla Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali per il settore avvocati, “la proclamazione dell’astensione, con l’indicazione della specifica motivazione e della sua durata, deve essere comunicata almeno dieci giorni prima della data dell’astensione al presidente della Corte d’appello e ai dirigenti degli uffici giudiziari civili, penali amministrativi e tributari interessati, nonché anche quando l’astensione riguardi un singolo distretto o circondario, al ministro della Giustizia, o ad altro ministro interessato, alla Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali e al Consiglio nazionale forense”. Inoltre, punto dolente della protesta salentina, “ciascuna proclamazione deve riguardare un unico periodo di astensione. L’astensione non può superare otto giorni consecutivi con l’esclusione dal computo della domenica e degli altri giorni festivi”. Termini piuttosto perentori poiché “con riferimento a ciascun mese solare non può comunque essere superato la durata di otto giorni anche se si tratta di astensioni aventi ad oggetto questioni e temi diversi. In ogni caso tra il termine finale dì un’astensione e l’inizio di quella successiva deve intercorrere un intervallo di almeno quindici giorni”. La Commissione di garanzia dell'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, istituita dall´articolo 12 della legge 12 giugno 1990 n. 146 (modificata dalla legge n. 83/2000) è un’amministrazione indipendente composta da otto membri designati dai presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica tra esperti in materia di diritto costituzionale, di diritto del lavoro e di relazioni industriali e nominati con decreto del Presidente della Repubblica.
Ma pure il sindacato dei magistrati di sinistra ci mette becco.
Eccolo il documento stilato dall’Associazione Nazionale Magistrati del Distretto di Lecce con cui si invita l’avvocatura leccese a rivisitare la decisione di prolungare l’astensione fino alla prossima assemblea indetta per il 3 giugno. Due mesi trascorsi tra assenze continue nelle aule, la tenacia dimostrata dalle toghe leccesi nel perseverare la propria protesta e gli immancabili disagi arrecati alla tempistica della macchina giudiziaria hanno convinto la magistratura leccese a prendere una posizione chiara per uscire da questa impasse e a sollecitare gli avvocati a riconvocare in breve un’assemblea.
Ecco i passaggi del documento: il 18 febbraio l’Assemblea Straordinaria degli Avvocati del Foro di Lecce proclamava l’astensione ad oltranza e senza preavviso, da tutte le udienze civili, penali, amministrative e tributarie in conformità e con i limiti di cui agli artt. 4, 5 e 6 del Codice di Autoregolamentazione degli Avvocati”, ponendo, a sostegno di tale manifestazione di protesta, ragioni di ordine locale (necessità di revisione dei protocolli d’udienza, orari delle cancellerie civili, situazione logistica del tribunale penale determinata dall’accorpamento delle sezioni distaccate, individuazione di linee-guida nelle liquidazioni ai difensori ammessi al patrocinio a spese dello stato) e ragioni di ordine nazionale riguardanti l’amministrazione della Giustizia nel suo complesso, rinvenibili nel D.D.L. approntato dal Ministro Cancellieri (aumento spropositato dei costi della giustizia civile, tale da mortificare le esigenze di giustizia dei meno abbienti; motivazione delle sentenze civili a richiesta e a pagamento; tariffe professionali, responsabilità solidale del professionista ex art 96 c.p.c., ecc.).
Il 20 febbraio scorso la Giunta Distrettuale dell’A.N.M. di Lecce emetteva un documento nel quale, fra l’altro condivideva alcune delle problematiche poste a fondamento dell’astensione, avendo esse costituito oggetto di ampia discussione in seno alla Magistratura Associata ed esternate anche all’Autorità di governo, quali: 1) la necessità che l’esigenza di celerità della risposta giudiziaria non risulti conseguita attraverso il sacrificio della piena tutela dei diritti; 2) l’eccessività dei costi della giustizia, produttiva di grave pregiudizio per i soggetti più deboli; 3) lo svilimento della funzione difensiva, soprattutto in riferimento ai soggetti meno abbienti; 4) i gravi deficit strutturali che, da anni, travagliano l’Amministrazione della Giustizia, ancora una volta accantonati (in particolare le rilevanti vacanze nei ruoli della Magistratura e nel personale amministrativo).
Stigmatizzava le “discutibili modalità della protesta”, siccome non del tutto conformi rispetto alla vigente normativa (Legge n. 146/90 e codice di autoregolamentazione). Auspicava l’immediata revoca o sospensione della astensione ad oltranza, in quanto foriera di grave nocumento per i cittadini, destinatari del servizio giustizia. Il 14 marzo e, successivamente, un mese dopo l’Assemblea Straordinaria degli iscritti all’Ordine forense, inopinatamente (avuto riguardo al comportamento propositivo dell’ANM e dei capi degli Uffici salentini) deliberava la prosecuzione ad oltranza, fissando la riconvocazione dell’Assemblea per il 3 giugno.
Anche su tali ulteriori deliberati la Giunta dell’A.N.M. ha ribadito il contenuto dei precedenti propri documenti, censurando le modalità dell’astensione ed invitando il Foro locale a tornare sulle proprie decisioni, evitando, tuttavia, un “muro contro muro” che sarebbe risultato – e risulterebbe – pregiudizievole per tutti. Tutto ciò premesso, nel corso dell’Assemblea di ieri (alla quale hanno partecipato moltissimi Magistrati, offrendo il proprio contributo di conoscenza e possibili proposte per uscire dall’impasse attuale, alla quale – va sottolineato – la Magistratura è comunque estranea), sono state evidenziate, a distanza di oltre due mesi dalla proclamazione dell’astensione, alcune delle più rilevanti criticità, le quali, più di altre, finiscono col ritorcersi nei confronti dei cittadini.
Se ne indicano, a titolo esemplificativo, solo alcune: il rinvio della più gran parte dei processi civili, penali e del lavoro ha determinato un allarmante intasamento dei ruoli, del quale sarà estremamente problematico venire a capo, dal momento che a fronte delle mancate definizioni dei processi già pendenti, sono stati contestualmente attivati nuovi giudizi penali (mediante emissioni di decreti di citazione da parte della Procura), civili e del lavoro (da parte degli avvocati, che, liberi dalle udienze, hanno dedicato il loro tempo alla redazione di nuovi ricorsi o citazioni), con conseguente ulteriore dilazione dei tempi di differimento delle udienze e di definizione dei processi.
Nel settore penale, il rinvio di processi con imputati detenuti (possibile le volte in cui l’imputato non chieda espressamente che si proceda malgrado l’astensione), pur a fronte della sospensione dei termini di fase della custodia cautelare e della prescrizione, può, tuttavia, ripercuotersi e produrre effetti negativi sui termini massimi di custodia cautelare. Sempre in materia penale, il rinvio di processi nei quali risultino in sequestro beni sottoposti d onerosa custodia o amministrazione, soprattutto se di rilevante valore, può tradursi in un appesantimento anche rilevante degli oneri economici a carico dell’Erario.
Nella materia previdenziale e assistenziale, il rinvio di cause nelle quali si debbano disporre perizie medico-legali o, ancor più, mature per la decisione, si traduce in inaccettabili pregiudizi dei cittadini, che vedono differito nel tempo il riconoscimento di fondamentali diritti (pensione o prestazioni assistenziali) che incidono sulla loro stessa vita e sul loro benessere (tanto più in tempi caratterizzati da una perdurante crisi economica che travaglia l’intero Paese). Nella materia dei rapporti di famiglia, il rinvio di cause fissate per la decisione, afferenti allo scioglimento del vincolo matrimoniale, pregiudica severamente il diritto della parte a vedere affermata la cessazione degli effetti civili del matrimonio (si pensi a chi, confidando nella decisione della causa, abbia confidato di poter contrarre nuovo matrimonio).
Nella materia civile e penale, il rinvio di processi pendenti da oltre tre anni può avere ripercussioni ai sensi della Legge Pinto, con onere economico a carico dello Stato, in particolar modo allorquando all’astensione aderisca un solo difensore e l’altro insista per la trattazione della causa. In tutti gli esempi fatti, nei quali certamente è in gioco il diritto degli Avvocati di esternare la loro protesta anche con l’astensione dalle udienze, l’Assemblea dei Magistrati ritiene necessario procedersi ad un bilanciamento fra i diritti costituzionalmente garantiti fatti valere dagli avvocati e quelli dei cittadini (alla vita, alla libertà, a vedere riconosciuti i propri diritti in un tempo ragionevole), anch’essi di primario rilievo costituzionale; tanto più ove si consideri che – come già evidenziato in premessa – la forma di protesta adottata dal Foro salentino appare non del tutto rispondente ai criteri fissati dalla Legge n. 146/90 ed al codice di autoregolamentazione, tanto da essere stigmatizzata, in via d’urgenza, dalla Commissione di garanzia, la quale ha fissato per il prossimo 28 Aprile la riunione per l’inizio della c.d. “procedura di valutazione” (come da informazioni assunte presso la Commissione medesima).
Giova ancora rimarcare come, a livello locale, il dialogo fra Magistratura ed Avvocatura abbia proficuamente prodotto la riscrittura dei protocolli delle udienze civili e penali e come, a breve, risulti convocata la Commissione di manutenzione per la valutazione della problematiche di ordine logistico, mentre le stesse commissioni che hanno affrontato la rivisitazione dei protocolli d’udienza potranno a breve stendere delle linee-guida per il patrocinio a spese dello Stato.
Da ultimo, a seguito della soppressione di alcuni degli uffici del Giudice di pace 17 unità lavorative saranno, nei prossimi giorni, attribuite al Tribunale di Lecce. Con riferimento, invece, alle problematiche di più ampio respiro e di valenza nazionale, pur considerando assolutamente giustificato l’allarme degli Avvocati salentini rispetto a misure che paiono tendere verso una Giustizia sempre più classista, l’assemblea dei magistrati rileva come esse siano contenute in Disegno di Legge che, allo stato, non è ancora all’esame delle camere e rispetto al quale l’attuale Ministro ha ripetutamente espresso la volontà di stabilire un “tavolo” di confronto con l’Avvocatura (come riconosciuto, del resto, dal C.N.F. e dall’O.U.A., tanto che quest’ultimo revocava le programmate giornate di astensione).
A tale proposito merita di essere segnalata l’audizione del Ministro Orlando alla Commissione Giustizia del Senato, tenutasi il 23.4.14 (consultabile sul sito del Ministero), nella quale, in riferimento alle emergenze che travagliano l’Amministrazione della Giustizia, egli ha espressamente indicato anche l’Avvocatura fra i propri interlocutori, così venendo incontro all’esigenza più volte in tal senso manifestata dagli Organi rappresentativi dell’Avvocatura medesima. Alla stregua di tutto quanto evidenziato, l’A.N.M. – Sezione Distrettuale di Lecce invita l’Ordine Forense salentino a riconvocare a breve l’Assemblea degli Avvocati perché riconsideri la decisione adottata il 14.4.14 di protrarre l’astensione ad oltranza dalle udienze, se del caso sospendendo tale forma di protesta, ovvero escludendo dalla astensione i giudizi nei quali il bilanciamento fra le ragioni dell’astensione medesima – in parte superate dalla fattiva collaborazione della Magistratura locale – e i primari diritti dei cittadini, qualifichi questi ultimi come maggiormente meritevoli di tutela.
A poche ore dalla stesura del documento dell’Anm di Lecce con cui si invita l’Avvocatura leccese a revocare lo sciopero Francesco Oliva su “Il Corriere Salentino” ha intervistato Raffaele Fatano, Presidente dell’Ordine degli Avvocati, per chiedere un suo commento su una che era molto attesa nei giorni scorsi.
Presidente, come giudica il documento redatto dai magistrati in un’assemblea, tra l’altro, molto partecipata?
«Non ho letto per esteso il documento dell’Associazione Nazionale Magistrati che, sebbene esteso agli organi di stampa, ad oggi non è stato comunicato all’Ordine Forense. Per quello che leggo il documento sarebbe indirizzato anche all’Ordine Forense come destinatario dell’invito per convocare l’assemblea degli iscritti per riconsiderare le modalità della protesta. Mi sarei aspettato che l’Ordine Forense fosse stato il primo destinatario di quel documento proprio per il suo contenuto. Tuttavia, e non mi riferisco esplicitamente all’Associazione Nazionale Magistrati, la pubblicazione sembra più finalizzata al pubblico che ai diretti interessati».
Nel documento, però, si fa anche riferimento a possibili sanzioni. Qual è la sua posizione?
«Vedremo. I procedimenti della Commissione di Garanzia sono procedimenti che prevedono comunicazioni all’Ordine Forense. Noi potremo chiedere di essere ascoltati e lo faremo. Valuteremo i provvedimenti se saranno adottati. Al momento, però, non darei per scontato ciò che ancora non è accaduto».
Ritiene comunque che ci stata un’apertura da parte della Magistratura verso le istanze dell’avvocatura leccese?
«Non c’è dubbio che l’interlocuzione a livello locale con l’Anm ma anche con il dirigente amministrativo sembra incanalata positivamente. Ma su una cosa bisogna essere chiari. Fino a questo momento questa interlocuzione non ha prodotto risultati concreti».
Si spieghi meglio Presidente..
«Nel documento si parla di riscrittura dei protocolli. E’ vero ma la riscrittura è stata avviata e ad oggi il tavolo relativo con l’approvazione del testo non è stato ancora chiuso. Certo, leggo con favore che l’Anm ha approvato il metodo del dialogo anche perché mi lascia ben sperare che tutti i magistrati, una volta approvato il protocollo, lo applicheranno. Perché fino ad oggi quello che io ho sentito sono state soltanto delle riserve e delle osservazioni come è giusto che sia. Quindi al momento, non possiamo parlare di protocolli già approvati. Quello sul patrocinio alle spese dello Stato non è stato ancora aperto ma confido che possa aprirsi a brevissimo e che possa portare a risultati».
Alla luce di questo documento ci sono i margini per indire un’assemblea già nei prossimi giorni?
«Ad oggi non sono a conoscenza di fatti oggettivamente nuovi. Nello stesso documento ho letto che è stata convocata una commissione di manutenzione ma ancora non ha deciso nulla e ci son voluti tre mesi perché si ponesse all’ordine del giorno l’utilizzazione di altre due aule. A fronte di questo discorso l’avvocatura leccese, nel mese di ottobre, proclamò due giornate di astensione ponendo in evidenza la gran parte dei problemi di oggi. Personalmente a dicembre lanciai un grido di allarme dicendo che era necessario aprire dei tavoli. Ad oggi certamente è un fatto positivo che tutto questo dialogo è stato avviato e speriamo si concluda positivamente. Però un fatto nuovo, ora, non riesco a vederlo. Tra l’altro l’Anm si preoccupa giustamente del rinvio delle udienze e di quei cittadini che attendono una sentenza di divorzio o sulla pensione. Mi piacerebbe, però che nello stesso modo si desse atto che oggi, quando un cittadino presenta un ricorso per un divorzio o in materia di lavoro, la prima udienza viene fissata talvolta a distanza di otto-dieci mesi. Mi piacerebbe che ci si interrogasse che quando un cittadino viene sentito come testimone in un processo civile su quali siano i tempi che è costretto ad aspettare. Mi piacerebbe che si facesse carico e ci si domandasse quale immagine il cittadino si porta della giustizia all’esito di quell’udienza. Nel documento mi sembra che si dica: gli avvocati sono responsabili di questi rinvii che pesano sul cittadino. Diamo, invece, una rappresentazione più completa perché stiamo in astensione non per questioni di casta (se così fosse sarebbero stati approvati i nuovi parametri) e lo sciopero sarebbe stato revocato. Stiamo ponendo problemi più ampi che attengono alle modalità e allo svolgimento dell’attività».
Quindi la revoca dello sciopero si deve ritenere ancora lontana?
«Intanto, per la prossima settimana sono in programma la commissione di manutenzione, l’incontro (ancora non confermato) per il patrocinio a spese dello Stato e convocherò una commissione per l’attuazione dell’astensione su richiesta di quelle otto associazioni. Se il dialogo dovesse proseguire sono sicuro che in tempi brevi raggiungeremo risultati. E a quel punto non c’è dubbio che sarà opportuno interrogarsi sulle modalità per riprendere l’attività nel più breve tempo possibile».
ANCHE QUESTA E’ MAFIA. IL PIZZO DEGLI OMBRELLONI.
Il pizzo, la cocaina, gli attentati: le nuove leve sono ripartite dai grandi classici, dalla tradizione criminale dei vecchi boss della Sacra corona unita, scrive Andrea Galli su “Il Corriere della Sera”. L’hanno fatto per poco tempo, certamente: la Direzione distrettuale antimafia di Lecce con una doppia pesante e poderosa inchiesta ha stroncato i clan emergenti della cosiddetta quarta mafia. Eppure le indagini di Lecce, condotte una dai carabinieri del Ros (il Raggruppamento operativo speciale) e l’altra dalla squadra mobile della Questura, fotografano due realtà. La prima è la capacità di rinascere della Sacra Corona unita; la seconda è che il rinnovamento avviene in un’area, il Salento, che negli anni ha saputo sviluppare forti anticorpi contro la mafia ma che, nel contempo, rimane un oggetto del desiderio per la Sacra corona unita specie naturalmente d’estate, nel pieno della stagione turistica con ingente circolazione di denaro. Le 249 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare firmate dal gip Alcide Maritati evidenziano infatti come proprio sulle coste adriatiche del Salento si siano concentrate le mire di conquista della criminalità. Il litorale è quello che va da Torre Specchia a San Foca. Il litorale adriatico: scogliere, calette, squarci di un’Italia selvaggia, romantica e sempre più affollata di turisti, grazie ai voli low-cost sull’aeroporto di Brindisi e all’interesse crescenti di raffinati inglesi, francesi e scandinavi i quali, lontani dalle ondate di massa, cercano case da ristrutturare nei meravigliosi paesini. In questo tratto di Salento gli investigatori hanno scoperto che i boss della Sacra corona unita imponevano un pizzo esagerato (il 25% dei ricavi) ai gestori degli stabilimenti balneari. Non che si accontentassero, per carità: i delinquenti pretendevano la gestione dei parcheggi nei dintorni e i servizi di vigilanza. Per gli imprenditori c’era poca possibilità di ribellarsi. Incendi e attentati potevano avvenire in un attimo e distruggere l’attività d’una vita. E non tutti gli imprenditori, ha sottolineato il gip, hanno trovato il coraggio di rivelare agli investigatori l’identità dei taglieggiatori. In una delle tante intercettazioni, due balordi si mettono d’accordo su come preparare un attentato contro la macchina di un tizio scarsamente collaborativo con la Sacra corona unita. “Metti una stozza de pezza con un po’ di nastro”. “Ok, allora io adesso riempio due bottiglie di plastica”. “Bravo”. “La macchina di che colore è? E il portone?”. “Portone di alluminio. La macchina è azzurrina ed è targata 060...”. “Ok, a posto, andiamo”. Abitazioni nella stessa provincia di Lecce e appartamenti all’estero (in Spagna). Una lunga “squadra” di fiancheggiatori, di vivandiere, di prestanome, di collaboratori. Preoccupati per la caccia asfissiante di carabinieri e poliziotti, più d’un boss ha provato (invano) a scappare all’arresto e inventarsi un’esistenza da latitante. Ma le latitanze costano e anche per questo motivo le nuove leve della Sacra corona unita avevano un’intensa attività di rapine, sia in Puglia che nel resto d’Italia, per lo più nelle banche. Ampia la geografia dei colpi: Galatina, Aradeo, Parma, Cattolica, Modena, Pesaro. Cocaina e anche hashish. A decine di chilogrammi. Dalla Spagna alla provincia di Lecce. Fornitori marocchini, venezuelani e colombiani. La droga nascosta nelle macchine. Ecco passaggi del racconto di un trasporto con le parole di uno degli malavitosi che ha deciso di collaborare con gli investigatori: “Veniva usava la sua autovettura Lancia Libra station wagon diesel... Si procedeva a inserire la droga in quantitativi massimi di 20 chilogrammi nel serbatoio, dopo averla confezionata in modo tale da evitare la corrosione del carburante e da eludere i controlli delle unità cinofile”. I fratelli Leo, Andrea (classe 1964) e Gregorio (1964), quest’ultimo a lungo detenuto eppure capace, dal carcere, di partecipare “alle decisioni in ordine a organigramma, attività e gestione del patrimonio dell’organizzazione mafiosa”, e poi Alessandro Verardi (1978), Giuseppe Potenza (‘77), Giuseppe Manna (‘67): questi i nomi più importanti degli arrestati. Erano bande comunque con molti giovani arruolati. Il 26enne Gioele Greco, il 29enne Maurizio Di Nunzio, il 31enne Graziano De Fabrizio. Abbondanza di uomini ma non mancavano donne criminali, inserite in ruoli strategici: fra tutte spicca la figura di Maria Valeria Ingrosso, classe 1979, incaricata di governare un pezzo di territorio e dunque di gestire la riscossione crediti, il traffico di droga, le estorsioni e l’assistenza economica alle famiglie dei detenuti. Tutti gli antichi venerati capi della Sacra corona unita, dopo le operazioni degli scorsi decenni, invecchiano in galera. Ma la quarta mafia ancora genera fascino, sa pescare manovalanza, mentre gli stessi vecchi padrini, nelle carceri, cercano di formare discepoli all’arte del male.
Rispetto alle origini è cambiata la struttura della quarta mafia, passata da una forma verticale e verticistica, a una orizzontale, attraverso una sorta di spartizione del territorio e di gruppi contigui. L'operazione di oggi sembra riassumere le modalità del riassetto della Scu, scrive Andrea Morrone su “Lecce Prima”. “Nihil novi sub sole”. Questa locuzione latina, nulla di nuovo sotto il sole, spiega come la Sacra corona unita continui, nonostante gli arresti operati dalle forze dell’ordine e l’attività incessante di contrasto, a rinascere dalle proprie ceneri e rimanere radicata nel territorio e nella realtà salentina. Nell’ordinanza dell’operazione “Network”, firmata dal gip Alcide Maritati, viene analizzato e spiegato attentamente il processo di riorganizzazione dei clan della Scu. Rispetto alle origini, però, è cambiata la struttura della quarta mafia, passata da una forma verticale e verticistica, a una orizzontale, attraverso una sorta di spartizione del territorio e di gruppi contigui. Fondamentale, in questa nuova fase della Scu salentina, è la pax mafiosa che da alcuni anni caratterizza i vari clan operanti sul territorio. Questa l’analisi del procuratore Cataldo Motta, una vita trascorsa in prima linea nella lotta alla criminalità organizzata La nuova strategia dell’appianamento dei contrasti e dell’abiura della guerra, fornisce nuovo terreno fertile alle strategie criminali che, seppur in forma molto più sommersa rispetto al passato, tendono alla conquista del territorio e degli interessi economici, come i lidi balneari. Vari gruppi che interagiscono come una sorta di holding criminale, in cui i contrasti (come i pestaggi in carcere) vengono appianati attraverso l’intermediazione di figura carismatiche come quelle di Roberto Nisi. Anche se in passato era stata un’altra operazione (quella denominata Augusta di cui Network è la naturale evoluzione) a impedire che scoppiasse una vera e propria guerra. Confermato anche il ruolo delle donne, che hanno avuto sempre una funzione determinante nell'assetto criminale e negli affari della Sacra corona unita, sin dagli albori e dalla sua nascita per mano e progetto di Pino Rogoli. La Scu, infatti, nasce e si sviluppa in carcere e necessita dell'apporto delle mogli dei detenuti, capaci di garantire la forza dell'associazione all'esterno attraverso il “nome” e il vincolo parentale. La figura femminile si dimostra affidabile e fedele. Un assioma, quello del procuratore Cataldo Motta, che sembra trovare applicazione e conferma nell'operazione denominata “Network”. E’ la stessa compagna di Andrea Leo, alias Vernel, a fare reggente al gruppo durante la detenzione dello stesso. Non limitandosi, secondo gli inquirenti, a fare da “megafono” a Leo, prendendo decisioni proprie e adottando strategie autonome. Fondamentali si sono poi rivelate le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia come Manna e Verardi, cui si è aggiunto un terzo elemento: Mauro Ingrosso, 29enne di San Cesario. I primi due hanno percorso strade simili che li hanno condotti dal dividere la stessa cella ad assumere il ruolo di collaboratori di giustizia. Alessandro Verardi ha ricostruito con le sue dichiarazioni interessi e strategie dei vari gruppi, dalle estorsioni ai lidi al traffico internazionale di droga. Era stato proprio lui, nel periodo di latitanza in Spagna, a fare da testa di ponte per gli acquisti di partite di droga, in particolare hascisc e cocaina. Carichi di sostanza stupefacente che dalla penisola iberica raggiungevano il Salento attraverso i corrieri della droga. Ingrosso ha spiegato gli interessi della criminalità nell’ambito delle estrusioni alle strutture balneari.
Questo Stato ingiusto libera la moglie di un boss per sciatteria mentre tritura un onesto pizzaiolo senza pietà, scrive Alfredo Mantovano su “Tempi”. Renzi ha annunciato un governo dei fatti. Allora saprà che sradicare le distorsioni della giustizia vale quanto una riforma costituzionale. Lecce, 16 gennaio. È in corso il processo nei confronti di Antonia Caliandro, coniuge di Salvatore Buccarella, uno dei capi della vecchia Sacra corona unita: lei è accusata con altri di associazione mafiosa, armi ed estorsioni. Nella storia della mafia pugliese è consueto che la moglie prenda in mano gli affari che il marito è stato costretto a lasciare perché arrestato. Anch’ella si trova in carcere, e però, nonostante il pm ne chieda la condanna a 8 anni, lei torna in libertà perché nel giudizio abbreviato il giudice ha lasciato trascorrere il termine massimo di custodia cautelare. Casalnuovo (Na), 20 febbraio 2014. Eduardo De Falco, 43 anni, sposato con tre figli, titolare di un panificio-pizzeria, si toglie la vita col gas di scarico dell’automobile. Il giorno prima aveva ricevuto la visita degli ispettori del lavoro, che avevano accertato una gravissima violazione: Lucia, la moglie, gli stava dando una mano dietro al bancone. È grave, vero? Una moglie che aiuta il marito non ha titolo a che lui deduca dalla dichiarazione dei redditi i costi della eventuale retribuzione e dei relativi contributi: può mettere in carta un pezzo di focaccia solo se regolarmente assunta! Risultato: sanzione di duemila euro da versare subito e ulteriori diecimila entro la fine del mese; altrimenti, chiusura del locale. Eduardo ha preferito chiudere lui, e il Signore ne abbia misericordia. Ma non merita misericordia uno Stato nel quale una criminale mafiosa esce dal carcere per sciatteria di un giudice – e non accade nulla in termini di responsabilità – e un lavoratore onesto è gettato nella disperazione dallo zelo del burocrate per il quale importa solo aggiungere una cifra alla statistica di verifiche andate a buon fine.
MAI DIRE ANTIMAFIA.
«Mai dire antimafia» scrive Antonio Giangrande, il noto autore di saggi sociologici che raccontano di una Italia alla rovescia, profondo conoscitore ed esperto del tema e presidente nazionale di una associazione antimafia.
«Il mio intento è dimostrare che la mafia siamo noi: i politici che colludono, i media che tacciono, i cittadini che emulano e le istituzioni che abusano ed omettono – spiega Antonio Giangrande – Quando Luigi Vitali, noto avvocato brindisino, era sottosegretario alla Giustizia col Governo Berlusconi ed Alfredo Mantovano, noto magistrato leccese, era sottosegretario agli Interni, a loro espressi il mio disappunto su come mal funzionava la giustizia nei tribunali e sull’accesso criminoso alle professioni togate e sulla censura e le ritorsioni operate dai magistrati nei confronti delle notizie a loro scomode e come tante associazioni pseudo antimafia erano sostenute in modo amicale finanziariamente, mediaticamente e politicamente a danno di altre. Addirittura alla regione Puglia è impedita l’iscrizione al registro generale alla Associazione Contro Tutte le Mafie, di cui sono presidente, per poter tranquillamente finanziare le loro associazioni amiche. Mantovano non mi ha mai risposto, Vitali ad un mia telefonata in diretta su TBM, una televisione privata di Taranto, in cui gli chiedevo cosa intendesse per Mafia, mi rispose che certamente non la intendeva come la intendevo io. Questo in modo da crearmi grande imbarazzo ed a palese tutela del sistema di potere di cui egli in quel preciso momento ne faceva parte, salvo cambiar opinione quando vittima ne diventa egli stesso. Da allora ho aspettato di sapere come effettivamente loro intendessero la lotta alla mafia ed essere degno come loro di essere dalla parte dell’antimafia. Dai fatti succeduti ed acclarati, però, penso che io avessi e continuo ad aver ragione».
"Personalmente abolirei l’udienza preliminare che è diventata, col tempo, tutt'altro di quello che aveva immaginato il legislatore. Da filtro rigoroso dei presupposti per un giudizio si è trasformata in una tappa di smistamento per il dibattimento". Così l’ex deputato del Pdl ed ex sottosegretario alla Giustizia Luigi Vitali commenta in una nota, pubblicata su "La Gazzetta del Mezzogiorno, il rinvio a giudizio deciso dal gup di Brindisi nei confronti dello stesso ex parlamentare e di quasi tutta la maggioranza del consiglio comunale del 2012 di Francavilla Fontana (Brindisi) per presunti vantaggi ottenuti attraverso il piano locale delle farmacie. All’epoca dei fatti anche Vitali era consigliere comunale. "Sono più che sicuro – aggiunge Vitali – che non vi potrà essere nessun giudice che possa condannare i consiglieri comunali per aver esercitato, in piena autonomia e libertà, le loro prerogative. Sarebbe un colpo mortale alla democrazia. Dal fascicolo, infatti, non risulta, nonostante le puntuali, prolungate ed articolate indagini, nessun rapporto e/o contatto tra alcun consigliere comunale ed il presunto favorito dott. Rampino nè con altri farmacisti". "Nutro massima fiducia nella giustizia e, pertanto, attendo con assoluta serenità il processo" commenta da parte sua il senatore di Forza Italia Pietro Iurlaro, anch’egli rinviato a giudizio per la stessa vicenda. "Sempre nel pieno rispetto del lavoro della magistratura - prosegue Iurlaro – trovo comunque discutibile che si possa contestare ad un consigliere comunale qualsiasi responsabilità di natura penale per aver contribuito, con un voto di natura politica, all’approvazione di una delibera dell’esecutivo che si sostiene. Almeno quando, come poi sembrerebbe che le stesse indagini abbiano appurato, non emergono in alcun modo rapporti tra gli stessi consiglieri e i farmacisti coinvolti nella vicenda". Iurlaro si dice quindi "ottimista", confidando che "l'intera procedura possa svolgersi in maniera serena per concludersi, infine, nel più breve tempo possibile".
Torna la polemica sui professionisti dell’antimafia, scrive Mario Portanova su “Il Fatto Quotidiano”. Non a Palermo, ma – specchio dei tempi – a Milano. La celebre invettiva di Leonardo Sciascia contro Paolo Borsellino, ospitata in prima pagina dal Corriere della Sera il 10 gennaio 1987 è risuonata oggi nell’aula bunker del carcere di San Vittore a Milano, nella terza udienza del “maxiprocesso” alla ‘ndrangheta lombarda scaturito dall’operazione Infinito del 13 luglio scorso. A riesumarla ci ha pensato Roberto Rallo, il legale di Giuseppe “Pino” Neri, il consulente tributario accusato di essere un uomo di vertice della criminalità calabrese trapiantata al Nord. I nuovi “professionisti dell’antimafia”, secondo l’avvocato Rallo, sono le associazioni antiracket che si costituiscono parte civile “di processo in processo”, da Reggio Calabria a Milano, “anche se nessuno dei loro iscritti è stato materialmente danneggiato dagli imputati”. E così facendo “realizzano soltanto l’autoreferenzialità delle loro associazioni, spendendo tra l’altro soldi pubblici”, visto che in genere ricevono finanziamenti. Sono due le sigle attive contro il “pizzo” che si sono costituite al processo milanese: Sos Impresa di Confesercenti e la Federazione della associazioni antiracket e antiusura italiane, di cui è presidente onorario Tano Grasso.
Un nuovo scandalo investe i professionisti dell’Antimafia, scrive Angela Camuso su “Il Corriere della Sera”. Dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole, arriva la notizia che la Corte dei Conti di Napoli sta indagando su un corposo trasferimento di fondi pubblici a favore di un pugno di associazioni antiracket le quali, secondo i giudici contabili, sarebbero state privilegiate a discapito di altre, in violazione della legge sugli appalti. La posta in gioco è alta: 13 milioni e 433 mila euro stanziati da Bruxelles che fanno parte del cosiddetto Pon-Sicurezza, ovvero il Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea con la finalità di contrastare gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. I soldi sono arrivati da Bruxelles solo agli inizi del 2012, ma registi dell’operazione, concepita a partire dal 2008 con l’approvazione dei singoli progetti poi finanziati dal Pon, furono l’allora sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano; l’allora commissario antiracket Giosuè Marino, diventato in seguito assessore in Sicilia della giunta dell’ex Governatore Lombardo indagato per mafia; nonché l’allora presidente dell’autorità di gestione del Pon-Sicurezza e al contempo vicecapo della polizia Nicola Izzo, il prefetto travolto dallo scandalo sugli appalti pilotati del Viminale. Da quanto ad oggi ricostruito dal sostituto procuratore generale della Corte dei Conti della Campania Marco Catalano, fu questo l’asse che selezionò i pochi partners a cui destinare i fondi secondo quelli che sembrano essere criteri arbitrari, visto che molte altre associazioni analoghe – tra cui ad esempio la nota “Libera” - risulterebbero avere i medesimi requisiti di quelle prescelte e dunque avrebbero potuto anch’esse ricevere i finanziamenti su presentazione di progetti, se solo ci fosse stato un bando pubblico di cui invece non c’è traccia. Nell’albo prefettizio, per il solo Mezzogiorno, risultano attive oltre cento associazioni antiracket. Tuttavia i fondi del Pon sono stati destinati soltanto a: “ Comitato Addio Pizzo” (1.469.977 euro); Associazione Antiracket Salento (1.862.103 euro ) e F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che pur raggruppando una cinquantina di associazioni ha ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro in qualità di soggetto giuridicamente autonomo. Altri 3.101.124 euro sono infine andati a Confindustria Caserta e Confindustria Caltanissetta. La F.A.I., il cui presidente è il popolare Tano Grasso, ha sede a Napoli ed è per questo, essendo competente in quel territorio, che il fascicolo di indagine è finito sul tavolo della Corte dei Conti della Campania. L’istruttoria infatti è partita la scorsa estate a seguito di un esposto in cui si evidenziavano le presunte violazioni. Così il sostituto procuratore Catalano ha iniziato a lavorare, prima acquisendo una serie di documenti, presso il ministero dell’Interno e presso la prefettura di Napoli. Successivamente, sono stati escussi a sommarie informazioni diversi funzionari della stessa prefettura a vario titolo responsabili dell’erogazione dei fondi e dei presunti mancati controlli. Alla Corte dei Conti questi funzionari, secondo quanto trapelato, avrebbero confermato di aver agito su indicazione del Ministero e ora l’indagine è nella sua fase conclusiva e cruciale. Si prospetta l’esistenza di un illecito amministrativo che potrebbe aver prodotto un danno erariale sia in termini di disservizi sia in termini di sprechi visto che, paradossalmente, molte delle associazioni escluse dai finanziamenti continuano a svolgere, supportate dal solo volontariato, attività identiche, per qualità e quantità, a quelle messe in pratica da chi ora può contare su contributi pubblici erogati in deroga a ogni principio di trasparenza. Per questi motivi, già a marzo del 2012, le associazioni “La Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” avevano inviato una lettera al ministro Cancellieri, denunciando la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. “Prendiamo il caso di Maria Antonietta Gualtieri, presidentessa dell’Antiracket Salento e già candidata a Lecce sei anni fa nella lista civica di Mantovano…” insinua Lino Busà, presidente di S.O. S Impresa. La lettera al Ministro e le successive polemiche furono oggetto l’anno scorso di pochi articoli comparsi sulla stampa locale ma poi sulla vicenda calò il silenzio. Ora l’indagine della Corte dei Conti sembra dimostrare che la questione va al di là di una lotta fratricida. Le decisioni che presto prenderanno i giudici contabili preludono infatti a nuovi inquietanti sviluppi. Una volta chiusa questa prima istruttoria, gli atti potrebbero essere trasferiti in procura. Se ciò avverrà, sarà il tribunale penale a dover accertare se il presunto illecito amministrativo sia stato commesso per errore o se, invece, nella peggiore delle ipotesi, la violazione della legge sugli appalti sia stata dolosa e dunque funzionale a un drenaggio sottobanco di soldi pubblici, negli interessi di qualcuno.
Antiracket, i conti non tornano scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. Progetti teleguidati. Bandi sartoriali. Contratti di lavoro per gli amici. Incarichi solo su segnalazione. Consulenze a compagni di merenda. Assegnazione di fondi e finanziamenti pubblici su preciso mandato. Creazione di scatole vuote per l’affidamento e poi il propedeutico assegnazione dei beni confiscati. Centri studi che non si sa cosa studino. Strani consorzi. Associazioni di associazioni. Federazioni di associazioni. Cooperative di associazioni. E’ proprio un vero e proprio guazzabuglio il variegato mondo dei professionisti dell’anticamorra. Per non parlare di sportelli e sportellini, vacue campagne di sensibilizzazione come sagre di paese e poi i dibattiti a chili, le iniziative, gli anniversari con lacrime incorporate, l’editoria di promozione, le segreterie organizzative, gli uffici e le tante sedi distaccate. E’ chiaro che la trasparenza è un termine sconosciuto nel mondo dei professionisti della legalità. Mai e dico mai troverete in questa giungla uno straccio di bilancio, di nota spese, di un computo analitico sulle entrate e uscite, un rendiconto dei contributi pubblici. Impossibile trovarne traccia. Non si conoscono i criteri di come si utilizzino i denari dell’anticamorra. Tutto è nascosto, tutto è segreto, tutto è gestito nell’ombra. Accade a Napoli ma è come dire Italia. Non è la prima volta e non sarà l’ultima che la Corte dei Conti di Napoli, ovvero i giudici contabili, stigmatizzano questo modus operandi o quanto meno una pratica alquanto disinvolta nell’affollato mondo dei professionisti della legalità. I giudici – a più riprese- vagliando corpose documentazioni con atti formali chiedono, interrogano, dispongono approfondimenti, delucidazioni alle pubbliche amministrazioni quali erogatori: dalla Ue, ai Ministeri, alla Regione, alla Provincia, ai Comuni. Capita spesso che i giudici della Corte dei Conti debbano smascherare consulenze ad personam accordate a Tizio, Caio e Sempronio accreditati come esperti di “Camorrologia” come puro scambio di favori. Gli importi sono fissati da un prezzario segretamente in vigore, i zeri sono svariati. Prendo spunto dall’ultimo accertamento della Corte dei Conti di Napoli, di cui ha dato notizia solo Corriere.it. Nel mirino dei giudici partenopei è finito il mondo dell’antiracket e dell’usura. Mi sembra che dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole mi sembra – a naso – davvero di trovarci di fronte ad un’altra storiaccia. Al centro delle indagini sono finiti i Pon-Sicurezza cioè il Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea per contrastare gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. Pare che il F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che raggruppa una cinquantina di associazioni antiracket e facente capo a Tano Grasso abbia ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro. Una cifra – secondo le indagini – sproporzionata in considerazione delle tante realtà operanti in Italia e che si occupano da anni di lotta al racket e all’usura. Il sospetto è che l’iter per l’assegnazione di questa pioggia di denaro pubblico non sia stata molto trasparente. La Corte dei Conti di Napoli insomma sospetta un illecito amministrativo che avrebbe provocato un danno erariale. Gli accertamenti sono stati avviati grazie all’esposto della “Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” dove in una lettera denunciavano la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. C’è un ampio spazio dove Tano Grasso saprà documentare e chiarire la posizione del Fai. Ma desta qualche perplessità – sinceramente – la nascita di una newsletter quindicinale “Lineadiretta” dove il Fai ha stanziato per la copertura di dodici mesi di pubblicazione la somma di centomila euro. L’unica certezza è che i giudici della Corte dei Conti di Napoli sapranno scrivere una parola di verità a tutela dei tanti che lottano in silenzio la camorra.
IL SEGRETO DI PULCINELLA. LA MAFIA E’ LO STATO.
"Le istituzioni ci hanno abbandonato", sostiene l'ex boss del clan dei Casalesi e collaboratore di giustizia a “Sky tg 24”. E poi: le terre del Sud sono state avvelenate, "il vero affare del clan è il traffico dei rifiuti dal Nord e dall'Europa". "Se potessi tornare indietro non mi pentirei. Sono pentito di essermi pentito e non lo farei più perché le istituzioni ci hanno abbandonato. Quando non sono riusciti ad ammazzarmi materialmente, hanno cercato di distruggermi economicamente, moralmente”. Queste le parole di Carmine Schiavone, ex boss di camorra del clan dei Casalesi, intervistato in esclusiva da SkyTG24. Collaboratore di giustizia per 20 anni, dal 1993, a luglio ha terminato il suo programma di protezione. Ha ordinato l'esecuzione di centinaia di omicidi e con le sue rivelazioni ha permesso le condanne definitive all'ergastolo per i boss e gregari del clan imputati nel processo Spartacus e ha fornito importanti informazioni anche sul vero business dei Casalesi: quello dello smaltimento dei rifiuti tossici. "Ero uno dei capi della cupola, ma mi sono pentito davvero perché altrimenti quelle carte lì non le avrei mai scritte. Il mio guaio - aggiunge Schiavone - è stato proprio quello di essermi pentito veramente perché in Italia non c’era una giustizia, una legge, un politico che sappia capire questo. Chi me lo ha fatto fare di vivere in questo mondo di cani rognosi perché è vero che noi abbiamo sparato, ma i ministri, i carabinieri, i magistrati, i poliziotti sono più responsabili di me perché hanno permesso questo. Io ho sbagliato nella mia vita e ho cercato di rimediare quando la mia coscienza si è ribellata a certi soprusi commessi da altri. Tutti quanti hanno fatto facile carriera sulla mia pelle”. Schiavone, nel corso dell’intervista a SkyTG24, parla anche dei rifiuti tossici interratti dal lungo mare di Baia Domizia fino a Pozzuoli. E aggiunge: "La mafia non sarà mai distrutta perché ci sono troppo interessi, sia a livello economico sia a livello elettorale. L’organizzazione mafiosa non morirà mai".
Camorra, parla il pentito Schiavone: "Abbiamo ordinato oltre 500 omicidi". Intervista a Sky Tg24 del feroce ex boss dei Casalesi, testimone di giustizia dal '93: "Ministri, carabinieri, magistrati, poliziotti sono più responsabili di me perché hanno permesso questo". "La mafia non sarà mai distrutta, ci sono troppo interessi", scrive Conchita Sannino su “La Repubblica”. "Chi me lo ha fatto fare di vivere in questo mondo di cani rognosi. Sì, lo dico: sono pentito di essermi pentito". Così parla Carmine Schiavone, l'ex capo killer e super-ragioniere del gotha dei Casalesi, in un'intervista concessa a Sky Tg 24. E' l'assassino (per almeno 53 volte) che con le sue fluviali dichiarazioni rese ai magistrati antimafia nei primi anni Novanta, aprì alla giustizia il primo varco nel bunker degli impenetrabili segreti della mafia casertana. Ed è anche il cugino del famoso ed omonimo boss Francesco Schiavone, quel Sandokan tuttora rinchiuso al 41 bis sotto il peso di numerosi ergastoli, il padrino che non ha mai voluto seguire l'esempio di Carminiello. Ora Carmine recrimina sul suo rapporto con lo Stato. E premette: "Io ho sbagliato nella mia vita e ho cercato di rimediare quando la mia coscienza si è ribellata a certi soprusi commessi da altri. Tutti quanti hanno fatto facile carriera sulla mia pelle". Schiavone è stato accusato di aver dato l'assenso o partecipato complessivamente a 53 omicidi. Lui fa spallucce rispetto a quel numero. "Io coinvolto in 53 omicidi? Molti di più, ci sono 500 e rotti omicidi fatti (il riferimento è alle varie faide consumate tra opposte fazioni). Ma non è che li ho proprio ordinati tutti io, è che ero uno dei capi della cupola". Poi , nel corso della stessa intervista, firma la facile profezia secondo cui finché le mafie sposteranno i voti "l'organizzazione non finirà mai". Spiega: "Noi spostavamo 70-80mila voti, significava la differenza tra la vittoria di un partito e un altro". E dà la pagella a quelle divise, o magistrati o politici comprati o corrotti proprio da quelli come lui. Schiavone affronta anche il tema dei rifiuti tossici interrati, dal lungomare di Baia Domizia fino a Pozzuoli. "La mafia - conclude - non sarà mai distrutta perché ci sono troppo interessi, sia a livello economico sia a livello elettorale. L'organizzazione mafiosa non morirà mai". Vero è che Carmine Schiavone ha dato una spallata consistente al lavoro dei pubblici ministeri antimafia. Ha collaborato alla prima costruzione di quel super processo che avrebbe spazzato in carcere tutti i vertici dei casalesi: Spartacus I e Spartacus II. Ma, superata anche la boa dei settant'anni, ora riserva l'ennesima confessione choc. "Se potessi tornare indietro non mi pentirei - dice - Io mi sono pentito davvero, se no tutte quelle carte non le avrei date. Ma qui non siamo in America. Io mi sono pentito veramente, quello è stato il guaio. Perché non c'è un politico che sappia guardare davvero un pentito, non siamo negli Stati Uniti. E non lo farei più : perché qui le istituzioni ci hanno abbandonato. Quando non sono riusciti ad ammazzarmi materialmente, hanno cercato di distruggermi economicamente, moralmente". Poi spara a zero su politici, divise e magistrati inquinati. "Noi mantenevamo una buona parte delle forze dell'ordine, carabinieri e polizia. A me alla sera mi veniva portata la striscetta dalla polizia, con le operazioni che avrebbero fatto il giorno successivo". E in cambio, cosa offriva l'organizzazione criminale? "Gli davamo ogni tanto qualcuno, qualche piccolo spacciatore, per fargli fare carriera". E aggiunge: "Noi sì, è vero che abbiamo sparato. Però un ministro, un magistrato, un carabiniere e un poliziotto, che si sono venduti, sono più responsabili di noi". Irascibile, amante delle iperboli, ma sempre stratega. Carmine Schiavone è colui che rivelò, fin dalle sue prime dichiarazioni, il concepimento di un vero e proprio Stato Mafia da parte dell'organizzazione criminale del casertano. "Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni". Lo stesso Schiavone , non più di qualche mese fa, in un'aula di giustizia, proclamava a voce alta, nello scontro verbale con un avvocato di parte avversa: "Ma io non sono mai stato un camorrista. Io ero un uomo d'onore". Così come aveva destato scalpore un altro racconto reso in aula, secondo cui don Peppino Diana, noto parroco antimafia ucciso da una fazione dei casalesi avversa agli Schiavone a Casal di Principe nel 1994, avrebbe aiutato più volte durante le elezioni i "candidati politici vicini agli Schiavone, tra cui Nicola Cosentino", l'ex deputato del Pdl oggi agli arresti domiciliari e imputato in due processi a Santa Maria Capua Vetere. Violento, e vendicativo. Sembra che la sua vita di cittadino sotto copertura in località segreta gli sia sempre stata strettissima, procurandogli non pochi dispiaceri familiari. Finì a processo persino quando suo figlio fu arrestato per la detenzione di un vero e proprio arsenale nel periodo in cui lui era già pentito e doveva dimostrare di non saperne nulla: un ispettore di polizia raccontò, in aula, che quel ragazzo voleva sparare a suo padre. "Aveva un sacco di problemi, quel figlio veniva seguito anche dall'assistenza sociale. Non aveva mai perdonato al padre di essersi pentito e di aver perso potere, denaro, rispetto e riconoscibilità sui loro territori".
Tirato fuori dopo decenni, giovedì 31 ottobre 2013 il documento che denuncia la collusione dello Stato con le organizzazioni mafiose. In data 31 Ottobre il Parlamento ha fatto ciò che non ha mai voluto fare in passato, scrive “News You-ng”. Tutti i governi, di destra e di sinistra, dal 1997 in poi non hanno mai tolto il segreto di stato posto 16 anni fa sul verbale di 63 pagine concernente le dichiarazioni e le prove che il boss mafioso Carmine Schiavone, appartenente alla “Cosa Nostra Campana” (cioè il clan dei casalesi), ha consegnato ai giudici e ai parlamentari presenti nella Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul ciclo dei rifiuti. Il boss noto come il “cugino di Sandokan“, non solo ha indicato tutti i siti in cui sono stati intombati i rifiuti, ma ha anche sottolineato più e più volte che quei rifiuti prima o poi “uccideranno tutta la povera gente“. In un’intervista di venerdì scorso a Le Iene (in onda su Italia Uno), Schiavone descrive con disprezzo la reazione del governo, dell’amministrazione locale e di tutti coloro che avrebbero dovuto predisporre le bonifiche dicendo: “Mi sono sentito dire che non hanno i soldi, in nome dei soldi lasciano che tutta questa gente muoia…“. “Da che pulpito viene la predica” verrebbe da dire, anche perché a sotterrare quei rifiuti è stata proprio la Cosa Nostra Campana che lucra maggiormente col traffico di droga e il traffico dei rifiuti tossici e nucleari e che oggi potrebbe voler lucrare sulle bonifiche. Ma Carmine Schiavone non ci sta a queste dietrologie, lui dice che si è pentito “per un fatto di coscienza”, una coscienza che dovrebbe pesargli tanto dopo aver ucciso con le sue stesse mani di “50 o 70 persone”… Non riesce nemmeno a contarle ma afferma che “però erano tutti colpevoli perché appartenevano ai clan avversari“. Una personalità davvero sui generis quella del boss pentito, che però consegna nomi, cognomi e numeri di targa anche dei camionisti e delle ditte di trasporti che si sono occupati nella propria vita del trasporto di rifiuti. Almeno quelli che conosce lui, uno dei massimi esponenti della mafia casertana. Perché di mafia si tratta, Schiavone ci tiene a precisare che il clan dei casalesi non è “Camorra” come Saviano ha tentato di insegnarci, ma “Mafia” affiliata a quella siciliana di cui parla anche con un certo disprezzo. Infatti quando il giornalista gli chiede: “Ma chi ha ucciso il giudice Giovanni Falcone?”, Schiavone risponde pesando molto bene le parole: “Materialmente chi può essere, solo quell’ignorante di Riina o quel pecoraio di Provenzano. I giudici si corrompono, non si ammazzano, non si fa un allarme sociale di questo genere, solo che loro non volevano essere corrotti e allora li hanno uccisi“. Fubini continua: “Ma allora chi li ha uccisi?” e Schiavone risponde: “Loro materialmente, ma gli ha detto di ammazzarli?“. Il giornalista incalza: “Chi?“. A quel punto Schiavone dice una cosa che fa rabbrividire: “Vuoi che ci prendiamo una denuncia per calunnia io e te o vuoi essere ammazzato da qualcuno qui fuori? Ma tu che pensi: i segreti di Stato… lo sai quanti ce ne stanno sepolti?“. Ha consegnato allo Stato particolari scottanti che valgono molto, ma ha consegnato anche 2500 miliardi di beni e ha fatto arrestare 1500 persone, ha fatto condannare persone per centinaia e centinaia di anni di galera ed è grazie a lui se son stati sentenziati un centinaio di ergastoli. In pratica Schiavone si vanta di aver distrutto la Mafia “sia a livello internazionale, sia nazionale”. Lui in compenso però si è fatto 10 anni e mezzo e basta, perché è un pentito. Carmine Schiavone è quello che non si stupisce della Trattativa Stato Mafia, infatti ha detto che “la Mafia fa parte dello Stato“, solo che è un braccio nascosto di questo sistema. Non c’è da stupirsi insomma, soprattutto quando si parla di continuità o di trattativa tra Stato e Mafia. Non c’è niente da stupirsi soprattutto se lo Stato sapeva che sarebbero morti tutti con i rifiuti nucleari sepolti, intombati sotto la falda acquifera. Sarebbe bastato che si abbassasse la falda acquifera per portare i danni di questi rifiuti a decine e decine di chilometri di distanza. Il bacino imbrifero si reticola per chilometri. Per dare l’idea di quanto sia pericoloso porre dei rifiuti vicino alla falda acquifera, facciamo l’esempio dell’Irpinia che oggi combatte contro le compagnie petrolifere che vorrebbero trivellare per l’estrazione di petrolio. Premesso che le trivellazioni provocano terremoti come hanno sostenuto in questi anni molti scienziati e premesso che gli acidi perforanti sono composti da sostanze altamente tossiche di cui non si conosce la composizione perché coperte dal segreto industriale, è stato stimato che l’inquinamento delle falde acquifere in Irpinia potrebbe portare danni fino a Reggio Calabria. Ma in Campania l’inquinamento delle falde acquifere interessa moltissimi siti: da Pianura ad Acerra, da Caserta a Somma Vesuviana, da Terzigno a tutta l’area Nord della città partenopea, dall’agro nolano ad Orta di Atella dove si è formato un vero e proprio lago grazie ai barili chimici discioltisi nelle acque sotterranee. Con quelle stesse acque gli agricoltori innaffiano pomodori e peperoni e tutte le colture dei vari vegetali che arrivano sulle tavole locali ma che vengono appaltate anche da prestigiose aziende dell’agroalimentare e quindi distribuite in tutta Italia e, in alcuni casi, anche in Europa. Una popolazione ingannata quindi non solo dalla Mafia e dalla Camorra, ma anche dallo Stato. Servivano davvero 16 anni per desecretare queste 63 pagine? Ed ora che sono state rese note cosa ne sarà del registro tumori il cui finanziamento fu bloccato nel settembre 2012 proprio dal governo monti che impugnava la legge regionale del 19 Luglio dello stesso anno in cui la giunta Caldoro (PDL) disponeva il finanziamento del registro per 1,5 milioni? Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano era Ministro dell’Interno all’epoca delle dichiarazioni. Sapeva tutto sulla sua città natale, Napoli. Come poteva non sapere delle dichiarazioni rilasciate alla Commissione parlamentare d’inchiesta sui rifiuti? Oggi che le dichiarazioni sono state desecretate dopo ben 16 anni, si sono espressi tutti su questo piccolo ma significante particolare. Le dichiarazioni più addolorate sono quelle di Antonio Marfella, Presidente dell’Isde Medici per l’Ambiente, il quale si è sfogato su Facebook con queste parole: “Scoprire che Giorgio Napolitano era il Ministro dell’interno all’epoca delle dichiarazioni secretate di Schiavone è una notizia che mi da un dolore profondo, insopportabile, veramente una pugnalata in petto. Ve lo giuro. Non me lo aspettavo….”. Lo stesso Giorgio Napolitano chiamato a testimoniare per il processo sulla Trattativa Stato Mafia, lo stesso Giorgio Napolitano per cui venne ordinata la “distruzione dei nastri delle intercettazioni usate come prove per la Trattativa”. Perchè una simile disposizione? Cosa c’era in quei nastri? ”Per le bonifiche non ci sono soldi” dicono le amministrazioni locali, ma quando questi soldi usciranno l’unica speranza è che non vadano a quei criminali che hanno ucciso decine e decine di migliaia di persone in questi 30 anni di avvelenamento.
Rifiuti, la Camera rende pubblica la deposizione di Carmine Schiavone: «Quei camion dal nord» (da Il Mattino – 31.10.2013), scrive Chiara Graziani. Il pentito dei Casalesi nel ’97 indicò i luoghi degli sversamenti: «Fra vent’anni lì moriranno tutti di tumore. Per ogni fusto tossico 500mila lire a noi, due milioni a chi doveva smaltire». Cade il segreto sulla deposizione del pentito dei Casalesi Carmine Schiavone, deposizione rilasciata nel remoto ’97 davanti alla commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti. All’epoca parve tanto deflagrante da richiedere la segretazione. Oggi, una decisione dell’ufficio di presidenza della Camera, presa all’unanimità, ci restituisce la verità di Carmine Schiavone. Una verità detta, ormai, 16 anni fa. Dalla viva voce del pentito dei Casalesi torna la descrizione di anni impuniti e criminali: alcune cose già note, altre tutte da scandagliare. Schiavone, ad esempio, elenca i luoghi dove finivano i rifiuti tossici dalla Germania e dall’Italia del centro nord, portati con i camion nelle discariche. Dice di aver già detto tutto “all’autorità giudiziaria”, di avere accompagnato sui luoghi gli investigatori. Racconta che sopra i veleni, appena ricoperti di terra, poi qualcuno ci allevava le bufale. Il tutto in un clima descritto come di generale collaborazione per cui, secondo i ricordi di Schiavone, «la discarica autorizzata faceva scaricare là, attraverso i clan». I rifiuti partivano da fuori la Campania, racconta, inviati da altre amministrazioni e con destinazione discariche autorizzate. Finivano, invece, smaltiti nel terreni dei clan, racconta il pentito. Ricostruzioni già note, in gran parte. Ma la forza del documento sta nell’essere così remoto e così attuale. E di svelarci la mentalità “statale” della camorra, totalmente indifferente ai destini delle persone. Perfino burocratica e banale. Così è stata devastata la Campania. Da persone così. Col registro sottobraccio. Fra le altre cose dal documento emerge il completo controllo dei Casalesi sui subappalti per le opere stradali. Controllo che dava loro la gestione di tutti gli scavi. Per questo sarebbe stato proposto a Schiavone, si legge nella deposizione, lo smaltimento di fusti tossici fin nel 1988. Lui, a quel punto, si sarebbe accorto che “qualcuno”, però, aveva già iniziato a sfruttare l’affare ma che teneva per sè i proventi. Circa 700 milioni al mese. Segue l’affermazione scioccante: «Arrivavano camion di fanghi nucleari (sic) dalla Germania. E hanno scaricato nelle discariche». Ad un certo punto Carmine Schiavone ha un lapsus che fa innervosire il presidente Scalia che lo interroga. Spiega che, secondo lui, «mio cugino (Francesco Schiavone) , Mario Iovine e Bidognetti», già prima del ’90 avrebbero fatto attività di smaltimento illegale di rifiuti, senza versare però nelle casse del clan. «Fino al ’90 – sentenzia quasi sdegnato – hanno rubato . Poi hanno iniziato a versare soldi nella casse dello Stato..(…) Era un clan di Stato, mi sono confuso». Alla protesta di Scalia (“Il vostro Stato!”) Schiavone non si scompone e dice: «La mafia e la camorra non potevano esistere se non era (sic) lo Stato». Così parlava 16 anni fa l’uomo che teneva il registro sotto il braccio e si arrabbiava se qualcuno faceva la cresta mentre lui teneva la contabilità dei fusti tossici, prezzo di smaltimento 500mila lire l’uno. Veleni gettati nei campi, nelle falde acquifere (“Le bucavamo, ci passavamo attraverso, avevamo il controllo totale di tutti gli scavi”). E lui prendeva nota e faceva la somma. Cinquecentomila a noi, e voi ve ne mettete in tasca due milioni secchi a fusto. Da registrare lo stupore nel quale procede l’interrogatorio, nel remoto ’97. Domanda del presidente, che quasi non trova le parole:«Lei è in grado di fare una stima..Quante tonnellate..quanti camion..». Preciso, l’uomo del registro risponde: «Qui si parla di milioni, non di migliaia…Si tratta di milioni e milioni di tonnellate». Ma è la storia dei fanghi nucleari che non può restare sospesa, mostruosa, lugubre. Può dirci qualche cosa di più, chiede Scalia? «So solo che questi fanghi arrivavano in cassette di piombo da 50, un po’ lunghe. Ma mica andavo a vedere l’immondizia di notte..», No, non c’era bisogno che Schiavone seguisse l’affare di notte. Ci pensava il “sistema militare” messo su per gestire il territorio ed il flusso dei rifiuti. Incensurati, con il porto d’armi, con l’auto di dotazione. Pattuglie che, all’occorrenza, potevano usare palette e divise di carabinieri, polizia, finanza. Le forze dell’ordine dei Casalesi. Con un “coordinamento un po’ massonico, un po’ politico”. Laura Boldrini, presidente della Camera, si è detta molto soddisfatta: «Esprimo grande soddisfazione – ha detto Boldrini – per la decisione di togliere il segreto sui contenuti dell’audizione che il collaboratore di giustizia Carmine Schiavone svolse nell’ottobre 1997 alla Commissione bicamerale di inchiesta sul ciclo dei rifiuti». «Si tratta della prima volta che la presidenza della Camera – senza che questo sia richiesto dalla magistratura – decide di rendere pubblico un documento formato da commissioni di inchiesta che in passato lo avevano classificato come segreto».
“La mafia e la camorra non potevano esistere se non era lo Stato … Se le istituzioni non avessero voluto l’esistenza del clan, queste avrebbe forse potuto esistere?….All’epoca tenevo ancora il relativo registro, in cui figurava che per l’immondizia entravano 100 milioni al mese, mentre poi mi sono reso conto che in realtà il profitto era di almeno 600-700 milioni al mese….Sono inoltre al corrente del fatto che arrivavano dalla Germania camion che trasportavano fanghi nucleari, che sono stati scarica nelle discariche, sulle quali sono stati poi effettuati rilevamenti aerei tramite elicotteri: da qualche verbale dovrebbe risultare che ho mostrato quei luoghi…..Vi erano fusti che contenevano tuolene, ovvero rifiuti provenienti da fabbriche della zona di Arezzo: si trattava di residui di pitture.…I rifiuti venivano anche da Massa Carrara, da Genova, da La Spezia, da Milano….Vi sono molte sostanze tossiche, come fanghi industriali, rifiuti di lavorazione di tutte le specie, tra cui quelli provenienti da concerie….. è diventato un affare autorizzato, che faceva entrare soldi nelle casse del clan. Tuttavia, quel traffico veniva già attuato in precedenza e gli abitanti del paese rischiano di morire tutti di cancro entro venti anni; non credo, infatti, che si salveranno: gli abitanti di paesi come Casapesenna, Casal di Principe, Castel Volturno e così via avranno forse venti anni di vita!….Qui si parla di milioni, non di migliaia. Se lei guarda l’elenco che le ho consegnato, vedrà che ci sono 70-80 camion di quelli che smaltivano dal nord, tra i quali vi era anche un mio camion. Si tratta di milioni e milioni di tonnellate. Io penso che per bonificare la zona ci vorrebbero tutti i soldi dello Stato di un anno…..Fino al 1992 noi arrivavamo nella zona del Molise (Isernia e le zone vicine), a Latina … Non so cosa è accaduto dopo. Se vogliono, possono arrivare anche a Milano ….In tutti i 106 comuni della provincia di Caserta. Noi facevamo i sindaci, di qualunque colore fossero. C’è la prova … Io, ad esempio, avevo la zona di Villa Literno e sono stato io a fare eleggere il sindaco. Prima il sindaco era socialista e noi eravamo democristiani. Dopo la guerra con i Bardellino… Ci avrebbe fatto piacere anche se fosse rimasto socialista, perché era la stessa cosa. Per esempio, a Frignano avevamo i comunisti. A noi importava non il colore ma solo i soldi, perché c’era un’uscita di 2 miliardi e mezzo al mese. Posso raccontare un aneddoto, anche perché è già stato verbalizzato ed i protagonisti sono agli arresti, tranquilli. A Villa Literno, che era di mia competenza, ho fatto io stesso l’amministrazione comunale. Abbiamo candidato determinate persone al di fuori di ogni sospetto, persone con parvenze pulite ed abbiamo fatto eleggere dieci consiglieri, mentre prima ne prendevano tre o quattro. Un seggio lo hanno preso i repubblicani, otto i socialisti ed uno i comunisti (un certo Fabozzo). La sera li abbiamo riuniti e ne mancava uno. Io li ho riuniti e ho detto loro: “tu fai il sindaco, tu fai l’assessore e via di questo passo. Mi hanno detto: “ma manca un consigliere per avere la maggioranza”. All’epoca c’era Zorro, il quale era capo zona e dipendeva da me; ho detto: andate a prendere Enrico Fabozzo e lo facciamo diventare democristiano. Infatti, lo facemmo assessore al personale. La sera era comunista e la mattina dopo diventò democristiano. E così che si facevano le amministrazioni. Il patto era che gli affari fino a 100 milioni li gestiva il comune, oltre i 100 milioni, con i consorzi, ci portavano l’elenco dei lavori e noi li assegnavamo. Ai comuni dicevamo che sui grandi lavori avrebbero trattato direttamente con noi al 2,50 per cento. C’era una tariffa: 5 per cento sulle opere di costruzione e 10 per cento sulle opere stradali. Perché le strade si debbono rifare ogni anno? Perché non venivano fatte bene, perché se il capitolato stabiliva che vi dovessero essere sei centimetri di asfalto, in realtà ne venivano messi tre, perché il cemento utilizzato non era quello previsto, e così via. Il sistema generale era così. Speriamo che cambi….Il mercato dei rifiuti in Italia è uno solo e veniva tutto gestito da poche persone. Poi i clan si sono intromessi e hanno detto (come hanno fatto per le strade): noi vi facciamo passare i camion, non ve li distruggiamo, ma ci dovete dare tanto. Poiché era più conveniente dare ai clan che lavorare di nascosto … Ma per poter fare ciò serviva gente che entrasse in queste associazioni culturali, quindi gente intelligente, che studiava…..” Carmine Schiavone - audizione dell’ottobre del 1997 davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo di rifiuti.
Carmine Schiavone, l’esperto di finanza del clan dei Casalesi, l’uomo che muoveva i miliardi degli affari illeciti dell’associazione camorristica si apre alle telecamere di Sky Tg24 e alla maniera sua avverte che ancora tanta gente è destinata a morire a causa dei rifiuti tossici che giacciono nel sottosuolo del basso Lazio e Campania, finanche nella loro stessa terra, Casal di Principe. Esce dal processo Spartacus dove come pentito ha svelato i movimenti economici dell’intero clan ma avverte pure che le mafie sopravviveranno e che nessuno sarà in grado di sconfiggerle (e sembra non sia una minaccia quanto una promessa). L’intervista dura 9 minuti e è agghiacciante per due motivi: per il messaggio che manda alle istituzioni, ovvero che non sono migliori della camorra e perché avverte che una bomba a orologeria di veleni e scorie nucleari è destinata a esplodere a breve nel basso Lazio a Latina dove nelle cave sono interrati fusti con rifiuti nucleari. Il che già ha scatenato le reazioni di tutti quei movimenti che da tempo lottano nella Terra dei Fuochi per essere ascoltati proprio da quelle istituzioni che Schiavone non esita a definire corresponsabili con la camorra. E ne spiega il perché: Ci sono forti interessi a livello economico a livello elettorale e noi spostavamo 70 mila 80 mila voti da un partito all’altro e questo faceva la differenza nelle elezioni. Ma si stanno a rendere conto che ci stanno 5 milioni di persone a morire? Abbiamo scelto basso Lazio e Campania perché facevano parte dei Casale. Era terra nostra. Caso ha voluto che proprio il giorno prima su Avvenire don Maurizio Patriciello il prete di Caivano che si batte contro l’omertà e la strage nella Terra dei fuochi scrivesse: Vedere morire i figli è qualcosa di orrendo, insopportabile. Soprattutto se si poteva evitare. Il popolo semplice non riesce a capire il motivo di tanti ritardi e omissioni, di questo lasciar mano libera a chi viola la legge, a chi uccide. E comincia a serpeggiare il pensiero che, in realtà, non si voglia proprio intervenire. Che sia in atto una strategia per non arrivare a soluzioni. Che si voglia nascondere qualcosa o qualcuno. Che questa situazione «faccia comodo» a tanti. Non ha tutti i torti, la povera gente. Si sente presa in giro. I verbi coniugati da chi comanda sono sempre al futuro: faremo, diremo, provvederemo. Calato il sipario dell’occasione pubblica, resta solo un silenzio angosciante. E la gente muore, di cancro. E la Campania ancora non ha un registro tumori. E il nuovo ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, ancora non viene a vedere con i suoi occhi che cosa sta accadendo in questa regione bella e disgraziata. E si fanno illazioni… Qui si agonizza e si lotta tra fuochi e fumi assassini, e chi ci governa e ci rappresenta ancora pronuncia parole come fumo leggero. Queste morti sono sempre più dolorose e insopportabili. Si muore per motivi vergognosi ed evitabili. Per silenzi omertosi. Per denaro e per potere. Ma chi se non lo Stato, nel quale continuiamo caparbiamente a credere e a sperare, deve prendere di petto la situazione?
Come risponderanno, se risponderanno, politica e istituzioni?
«Esprimo grande soddisfazione per la decisione di togliere il segreto sui contenuti dell’audizione che il collaboratore di giustizia Carmine Schiavone svolse nell’ottobre 1997 alla Commissione bicamerale di inchiesta sul ciclo dei rifiuti’»: così Laura Boldrini, sulla decisione dell’Ufficio di Presidenza. «Si tratta della prima volta che la Presidenza della Camera - senza che questo sia richiesto dalla magistratura - decide di rendere pubblico un documento formato da Commissioni di inchiesta che in passato lo avevano classificato come segreto». «Lo dovevamo in primo luogo - ha proseguito la presidente della Camera - ai cittadini delle zone della Campania devastate da una catastrofe ambientale cosciente e premeditata, come ho avuto modo di dire anche recentemente a Pollica, per la commemorazione dell’assassinio del sindaco Angelo Vassallo: cittadini che oggi hanno tutto il diritto di conoscere quali crimini siano stati commessi ai loro danni per poter esigere la riparazione possibile. Troppo spesso, nella storia del nostro Paese, il segreto è stato infatti invocato non a tutela non dei diritti di tutti ma a copertura degli interessi di alcuni. La fiducia nelle istituzioni - ha sottolineato Laura Boldrini - si rinsalda anche facendo luce su zone d’ombra immotivate e perciò inaccettabili all’opinione pubblica».
Ecomafia, la profezia del boss Schiavone: "Gli abitanti del Casertano moriranno di cancro". Le parole del pentito del clan dei Casalesi nel 1997: "C'erano camion con sostanze tossiche". Poi l'accusa alla cosca: "Aveva affari milionari", scrive “Libero Quotidiano”. "Entro venti anni gli abitanti di numerosi comuni del Casertano rischiano di morire tutti di cancro". Furono queste le parole che il pentito del clan dei Casalesi, Carmine Schiavone, profetizzò nel corso dell'audizione dell'ottobre del 1997 davanti alla Commissione parlamentare d'inchiesta su mafia e rifiuti tossici. Verbali che solo oggi, dopo la rimozione del segreto, sono diventati pubblici: "un segnale di trasparenza e attenzione da parte dell'ufficio di presidenza della Camera nei confronti delle popolazioni della Campania, colpite dal dramma dei rifiuti tossici", come ha sottolineato Valeria Valente, Segretario di Presidenza della Camera dei Deputati. La profezia - "Quel traffico veniva già attuato in precedenza. Gli abitanti del paese rischiano tutti di morire di cancro entro vent'anni; non credo infatti che si salveranno: gli abitanti di paesi come Casapesenna, Casal di Principe, Castel Volturno e così via, avranno, forse, venti anni di vita", ribadiva Schiavone sedici anni fa, per poi spiegare: "C'erano camion che arrivavano dalla Germania, camion che trasportavano fanghi nucleari, che sono stati scaricati nelle discariche, sulle quali sono stati poi effettuati rilevamenti tramite elicotteri. Lì ci sono i bufali e non cresce più l'erba. C'erano rifiuti anche da Genova, Massa Carrara, La Spezia e Milano. Erano sostanze tossiche, come fanghi industriali, rifiuti di ogni tipo di lavorazione". Il pentito del clan dei Casalesi raccontava anche degli affari milionari della cosca: "Con i soldi del traffico di rifiuti - diceva - si pagavano i mensili agli affiliati, le spese per i latitanti, gli avvocati, circa due miliardi e mezzo di lire al mese, comprese le spese extra. Per l'immondizia entravano nelle casse del clan dei Casalesi circa 600-700 milioni di lire al mese". Le ecomafie - Carmine Schiavone, durante l'audizione del '97, ricostruiva la genesi dell'ecomafia del Casertano: "A cominciare furono mio cugino Sandokan e Francesco Bidognetti". Poi, ecco spuntare Cerci e Chianese: "Il potere del clan crebbe anche perché gestivano il ciclo di smaltimento dei rifiuti". "In tutti i 106 comuni della provincia di Caserta noi facevamo i sindaci, di qualunque colore fossero. C'è la prova. Io ad esempio avevo la zona di Villa Literno e sono stato io a far eleggere il sindaco. Prima era socialista e noi eravamo democristiani. A Frignano avevamo i comunisti. A noi non importava il colore ma solo i soldi, perché c'erano uscite di due miliardi e mezzo al mese".
Il traffico illegale delle scorie pericolose, i fusti tossici interrati nelle cave, le coperture politiche e massoniche, la maledizione del cancro, scrivono Antonio Castaldo e Antonio Crispino su “Il Corriere della Sera”. L’anno è il 1997, il collaboratore Carmine Schiavone aveva già raccontato tutto. È l’audizione davanti alla commissione parlamentare sulle Ecomafie del pentito che con le sue confessioni ha fatto crollare il clan dei Casalesi. L’operazione Spartacus risale a due anni prima. Di rifiuti interrati e di rischi per la salute non si parlava ancora. E non se ne parlò neanche negli anni successivi, perché le dichiarazioni del cugino di Francesco «Sandokan» Schiavone sono rimaste secretate per oltre 16 anni. La Camera ha deciso di renderle pubbliche giovedì 31 ottobre 2013. «Entro venti anni gli abitanti di numerosi comuni del Casertano rischiano di morire tutti di cancro», affermò Schiavone, con un tono profetico che purtroppo è stato confermato dai fatti. Le ricerche del Cnr e del Pascale, fatte proprie dal ministero della Salute, descrivono un’impennata della mortalità per tumori nelle province di Napoli e Caserta. Riferendosi al traffico illegale di rifiuti nocivi, Schiavone spiegò che divenne un business «autorizzato» per il clan dei Casalesi nel 1990. «Tuttavia - riferì il pentito - quel traffico veniva già attuato in precedenza. Gli abitanti rischiano tutti di morire di cancro entro 20 anni; non credo infatti che si salveranno: gli abitanti di paesi come Casapesenna, Casal di Principe, Castel Volturno e così via, avranno, forse, venti anni di vita». Nel corso della sua audizione, Schiavone cita i nomi dei referenti del clan per gli affari nello smaltimento illegale dei rifiuti. Cita Cipriano Chianese, a capo della Resit, e il suo socio Gaetano Cerci. Ovvero gli stessi imprenditori che continueranno a fare affari con lo Stato negli anni successivi, quando l’emergenza rifiuti diventerà incontrollabile. E che ora sono sotto processo. «Chianese - aggiunse Schiavone - aveva introdotto Cerci in circoli culturali ad Arezzo, a Milano, dove aveva fatto le sue amicizie. Attraverso questi circoli culturali entrò automaticamente in un gruppo di persone che gestiva rifiuti tossici. Lavorava a Milano, Arezzo, Pistoia, Massa Carrara, Santa Croce sull’Arno, La Spezia. Cerci si trovava molto bene con un signore che si chiama Licio Gelli». A proposito dei profitti enormi ottenuti smaltendo i rifiuti tossici, oltre 600 milioni di lire al mese, Schiavone aggiunge particolari sulle coperture ai più alti livelli garantite all’organizzazione criminale: «Il nostro era un clan di Stato... La mafia e la camorra non potevano esistere se non era lo Stato... Se le istituzioni non avessero voluto l’esistenza del clan, questo avrebbe forse potuto esistere?». Schiavone ricostruì anche la genesi delle ecomafie casertane: «A cominciare furono mio cugino Sandokan e Francesco Bidognetti». Il potere del clan crebbe anche perché gestivano il ciclo di smaltimento dei rifiuti: «In tutti i 106 comuni della provincia di Caserta noi facevamo i sindaci, di qualunque colore fossero. (...) socialisti, democristiani, ma anche comunisti se serviva». Rifiuti tossici sono stati interrati lungo tutto il litorale Domitio e sversati anche nel lago di Lucrino, specchio d’acqua nell’area flegrea. Schiavone raccontò che erano coinvolte diverse organizzazioni criminali - come mafia, `ndrangheta e Sacra Corona Unita - tanto da fare ipotizzare che in diverse zone di Sicilia, Calabria e Puglia, le cosche abbiano agito come il clan dei Casalesi. Il collaboratore di giustizia si soffermò sulle modalità di smaltimento. «Avevamo creato un sistema di tipo militare, con ragazzi incensurati muniti di regolare porto d’armi che giravano in macchina. Avevamo divise e palette dei carabinieri, della finanza e della polizia. Ognuno aveva un suo reparto prestabilito». Schiavone citò una serie di località nell’hinterland di Napoli: «Pure a Villaricca abbiamo fatto scaricare 520 fusti tossici in una cava che fu scavata nel terreno tramite Mimmuccio Ferrara. Durante lo scarico un autista rimase cieco». Ma anche luoghi molto frequentati, a due passi dai centri abitati: « A Casal di Principe, dietro il campo sportivo e nei pressi della superstrada (recentemente è stato fatto un sopralluogo e non è stato trovato nulla)». I camion delle ecomafie imperversavano poi lungo il litorale domizio: «Nel 1992 c’erano 10mila ettari di terreni che costeggiavano tutta la Domitiana, tutti per l’Eurocav e tutto scavato a 30, 40 e 50 metri. Le draghe estraevano sabbia e le buche venivano sistematicamente riempite. Se lei guarda l’elenco che le ho consegnato vedrà che ci sono 70-80 camion di quelli che smaltivano dal nord. Si tratta di milioni e milioni di tonnellate. Io penso che per bonificare la zona ci vorrebbero tutti i soldi dello Stato in un anno». Sotto terra sono finite anche scorie nucleari: «Sono al corrente che arrivavano dalla Germania camion che trasportavano fanghi nucleari che sono stati scaricati nelle discariche. Alcuni dovrebbero trovarsi in un terreno sul quale oggi vi sono i bufali e su cui non cresce più erba». Come avveniva l’interramento? «Di notte i camion scaricavano rifiuti e con le pale meccaniche vi si gettava sopra un po’ di terreno. Tutto questo per una profondità di circa 20-30 metri nella zona di Parete o di Casapesenna, in cui la falda acquifera è più bassa vi sono punti che si trovano a 30 metri».
I verbali del pentito Schiavone. "In Puglia le discariche della camorra". Le rivelazioni dell'uomo dei casalesi all'Antimafia: "Per tutti gli anni Ottanta la camorra ha usato alcune pattumiere. Una si chiamava Puglia", scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La camorra per tutti gli anni '80 ha usato alcune pattumiere. Una si chiamava Puglia. Lo ha raccontato nel 1997 il pentito Carmine Schiavone alla commissione parlamentare antimafia in un verbale che soltanto giovedì è stato dissecretato. Ma lo hanno confermato anche le indagini più recenti in tema di mafia e di rifiuti, come ha spiegato in audizione di alcuni mesi fa l'ex procuratore di Bari, Antonio Laudati. "Parlavamo spesso di Puglia - spiega il pentito - c'erano discariche nelle quali si scaricavano sostanze che venivano da fuori, in base ai discorsi che facevamo negli anni fino al 1990-1991". Schiavone parla di "Salento, ma sentivo parlare anche delle province di Bari e Foggia". Pochi i riferimenti precisi anche perché, dice, "il nostro era un discorso "accademico" interno che facevamo, dicendo: mica siamo solo noi, lo fanno tutti quanti". Il traffico riguardava "sostanze tossiche, fanghi industriali, rifiuti di lavorazione, rifiuti radioattivi ". Tutto materiale che veniva nascosto metri e metri sotto terra, dove ancora oggi è probabilmente conservato. È bene ricordare che in alcune zone del Salento si registrano percentuali di malattie oncologiche assai superiori alla media. Quei dati sono stati oggetto nei giorni scorsi di una riunione all'Istituto superiore di Sanità nella quale l'Arpa Puglia e il ministero hanno previsto un percorso comune: l'anomalia nei numeri c'è, ed è importante. Bisogna trovare ora le cause. I rifiuti interrati potrebbero essere uno dei problemi. Tornando alle dichiarazioni di Schiavone, il pentito ha parlato anche del "supporto" logistico dei clan locali: "In effetti - ha messo a verbale . in Puglia, la Sacra corona unita non è mai stata nessuno. Era sorta inizialmente insieme al gruppo della Nuova camorra organizzata di Cutolo, e poi fu staccata. C'erano gruppi che operavano con noi e con i siciliani. Nel Brindisino operava un certo Bicicletta, un certo D'Onofrio che stava con Pietro Vernengo, il suo capozona. Con me operavano un certo Tonino 'o Zingaro e Lucio Di Donna, che era di Lecce". Le parole di Sandokan sono però state integrare e in parte superate dal quadro tracciato nei mesi scorsi dal procuratore Laudati sempre in commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti. È stato il magistrato a parlare del legame tra i casalesi e il foggiano. "Se io devo smaltire un frigorifero e lo butto a Savignano Irpino - ha detto - rischio l'arresto nella flagranza, se mi sposto di un chilometro e mezzo, se mi va male prendo una contravvenzione. Dove butta il frigorifero la criminalità organizzata? ". Le indagini stanno verificando anche in questo caso "sinergie" criminalità locale e Casalesi. Ma c'è altro. Alcune aziende, "anche a partecipazione pubblica - ha detto Laudati - hanno avuto forme di condizionamento dalla criminalità organizzata sul modello di quello che è successo in Campania".
«Forse sbaglia persona. Io sopralluoghi con Schiavone non ne ho mai fatti. Non è che non rammento, ne sono abbastanza sicuro». E di quel filone d’inchiesta «non ho memoria che uscisse qualcosa riferibile alla Puglia». Il prefetto Nicola Cavaliere, uomo di Stato d’altissimo lignaggio, con una pluridecennale carriera che l’ha portato in posizioni apicali in Polizia e nel servizio segreto per la sicurezza interna (Aisi), nonché cittadino onorario di Mesagne, nel Brindisino, dove ha vissuto molto a lungo, puntualizza a Marisa Ingrosso su “La Gazzetta del Mezzogiorno” alcune dichiarazioni di Carmine Schiavone che lo chiamano in causa e che riguardano la Puglia, come territorio in cui sarebbero stati sepolti rifiuti illecitamente. L’ex camorrista e collaboratore di giustizia, infatti, fu ascoltato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse. Era il 7 ottobre del 1997 e soltanto ora quei verbali sono stati desecretati e pubblicati sul web. In essi Schiavone spiega che esisteva una «cupola» che si occupava di smaltire illecitamente nel Sud Italia i rifiuti speciali e tossici provenienti soprattutto delle grandi aziende del Nord ed europee, Germania in testa. Della «cupola» dei veleni facevano parte insospettabili, i «colletti bianchi». Gente che aveva agganci con alcuni «circoli culturali» e - secondo il pentito - con esponenti della Massoneria dell’epoca, come lo stesso «venerabile », Licio Gelli. Secondo quanto dice Schiavone, per alcuni anni la criminalità organizzata era stata tagliata fuori dal business. Ma poi la «cupola» decise di coinvolgere anche i clan, ottenendone aiuto logistico e coperture, in cambio di alcuni miliardi di lire. Schiavone dice d’essere entrato nell’affaire alla fine degli anni Ottanta: «La vicenda è iniziata nel 1988; all’epoca mi trovavo ad Otranto», afferma in audizione al presidente della Commissione Massimo Scalia. Secondo l’ex boss, «fusti e casse » sono stati tombati in «scavi abusivi». Afferma: «Ricordo di aver accompagnato i rappresentanti della Criminalpol, dello Sco (con Nicola Cavaliere) nei luoghi di quelle che non erano cave ma scavi che poi sono stati chiusi». Scavi profondi «circa 20-24 metri» che arrivavano alla falda sotterranea dell’acqua «sui quali - dice Schiavone - esiste un’ampia documentazione che credo sia in possesso dello Sco, della Criminalpol (all’epoca c’era Cavaliere)». Epperò, sentito in proposito dalla «Gazzetta», il prefetto chiarisce molto bene questi passaggi. «Schiavone - dice Nicola Cavaliere - non l’ho mai conosciuto, né mai mi sono interessato direttamente dell’inchiesta». «Si tenga conto che - asserisce il superpoliziotto - nel periodo 1990-1994 ero a capo della Mobile Roma (lì contribuì allo smantellamento della Banda della Magliana) e che nel periodo 1994-1997 ero alla Criminalpol di Roma». «Quindi, io non mi sono mai interessato. Forse sbaglia persona. Io sopralluoghi con Schiavone non ne ho mai fatti. Non è che non rammento, ne sono abbastanza sicuro».....
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!
IL CASO DEL FINANZIERE GIUSEPPE FABIO ZECCA E LA GUERRA CON LA PROCURA DELLA REPUBBLICA DI LECCE.
Delinquente o l’ennesima vittima di persecuzione giudiziaria? L’arresto di un finanziere innesca veleni ed una guerra di esposti incrociati, su cui adesso dovrà fare luce la procura di Potenza, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il capoluogo lucano è infatti competente ad occuparsi dei magistrati di Lecce, dove negli ultimi anni si è sviluppata la vicenda dell’appuntato Giuseppe Fabio Zecca: durante una perquisizione in casa, nel 2008, il finanziere fu arrestato perché trovato in possesso di capi di abbigliamento contraffatti, accusa che ha sempre respinto. Pur avendo già incassato una archiviazione e un’assoluzione per reati commessi, Zecca è tuttora imputato per contraffazione a Lecce e per frode davanti al tribunale militare di Napoli. I veleni cominciano con un esposto che Zecca aveva indirizzato al procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta. Nell’esposto il militare aveva denunciato sia i presunti abusi subiti da parte di altri finanzieri, sia il presunto insabbiamento delle denunce in cui aveva segnalato quegli abusi. Circostanze su cui l’appuntato muoveva sospetti pesanti, rilevando in particolare che l’ufficiale responsabile della perquisizione ai suoi danni è sposato con un magistrato in servizio presso la procura di Lecce. Proprio questo sospetto, nel luglio 2012, aveva indotto Motta a denunciare Zecca alla procura di Potenza per l’ipotesi di calunnia, in quanto il presunto procedimento «insabbiato» non era mai stato assegnato alla pm in questione (bensì ad altro collega). Ne è nata una indagine a carico del militare. Ma il pm lucano Sergio Marotta ha chiesto l’archiviazione dell’accusa contro Zecca, osservando che «la denuncia formalizzata dall’indagato non sembra affatto finalizzata ad accusare ingiustamente» il magistrato moglie dell’ufficiale, «bensì solo a rimettere all’autorità giudiziaria ogni valutazione in ordine alla legittimità dei procedimenti penali avviati, ai danni dello stesso esponente, da alcuni uffici giudiziari pugliesi». Valutazione condivisa dal gip Tiziana Petrocelli, che in estate ha disposto l’archiviazione. L’intera vicenda è ora nuovamente all’attenzione della procura di Potenza, che ha aperto un fascicolo con l’obiettivo di escludere ogni possibile ipotesi di inquinamento nell’attività dei colleghi di Lecce: nel fascicolo sono finiti un ulteriore esposto di Zecca e le dichiarazioni di alcuni testimoni. Ma, a prescindere da come andrà l’indagine, di tutta questa bufera potrebbe fare le spese la pm sposata con l’ufficiale della Finanza: il magistrato rischia infatti una procedura per incompatibilità ambientale davanti al Csm.
I certificati medici non erano falsi, assolto l’appuntato scelto delle “Fiamme Gialle”, scrive “Lecce Prima”. Fabio Zecca, 41enne, nel 2009 era stato arrestato con una serie di imputazioni. Il procedimento è stato scisso. Oggi è stato assolto: le sue patologie non erano immaginarie. I fatti contestati riguardano la sua permanenza a Latina. Fabio Zecca, 41enne, appuntato scelto della guardia di finanza, originario di Caprarica di Lecce, è stato assolto, perché il fatto non sussiste, dal giudice monocratico del tribunale del capoluogo salentino, Michele Guarini, per un caso che le vedeva al centro, inizialmente, con numerose imputazioni, per diverse delle quali si è già proceduto all’archiviazione. Si tratta, nello specifico, del reato di falso, in merito a patologie che, secondo quanto ravvisato nel corso delle indagini iniziali, si riteneva fossero finte. Tesi smontata nel corso dell’udienza di oggi, durante la quale il finanziere era difeso dall’avvocato Antonio Maria La Scala di Bari. I fatti riguardano il periodo in cui il militare prestava servizio nel Lazio, anche se il suo arresto, nell’aprile del 2009, avvenne a Strudà, frazione di Vernole, dov’era domiciliato, in casa della sua compagna. Nello specifico, Zecca era accusato di aver formato e fatto uso, “nella propria qualità di appuntato scelto in servizio presso la compagnia della guardia di finanza di Latina, in esecuzione del medesimo disegno criminoso ed in tempi diversi, al fine di trarne vantaggio”, di “numerosi certificati falsi”. Nel corso del dibattimento, però, Alberto Cuscela, dirigente medico dell’Asl di Martano, ha negato di aver mai dichiarato, durante le fasi dell’inchiesta, di aver rilasciato i certificati a Zecca per certificare patologie inesistenti o senza svolgere la visita, o addirittura di disconoscerne la paternità. Piuttosto, il medico ha attestato che i certificati erano stati rilasciati dopo regolari visite. Il primo capitolo, presso il tribunale ordinario, s’è chiuso, dunque, a favore di Zecca, che dovrà però rispondere in sede militare di un altro fatto, contestato sempre nell’ambito della stessa inchiesta. Davanti alla seconda sezione penale del tribunale militare di Napoli (il procedimento è stato scisso in due tronconi), il prossimo 4 luglio, si terrà l’udienza per un episodio di collusione in contrabbando. Il finanziere, infatti, è imputato anche di aver detenuto, per cederli, circa 400 fra capi di abbigliamento e calzature contraffatti. Al momento dell’arresto, da parte dei suoi stessi colleghi (fu poi condotto nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere), gli furono imputati anche resistenza e minacce a pubblico ufficiale, reati per i quali s’è già proceduto all’archiviazione, e che riguardavano la presunta resistenza nel corso della perquisizione in cui furono sequestrati i già citasti capi. Anche nel caso dell’ultima imputazione rimasta in piedi, l’avvocato La Scala s’è detto pienamente convinto di riuscire a far luce sul caso e di scagionare definitivamente Zecca.
CASO YLENIA ATTANASIO. I MAGISTRATI FAVORIRONO L'IMPUTATO?
Incidente Attanasio, favorirono l’imputato? Indagati anche due magistrati. Ylenia attanasio morì in un incidente stradale nel 2007. Chi la investì venne assolto in 1° grado e condannato al risarcimento civile in appello. Con l'accusa di averlo favorito, ora sono indagati anche due magistrati, scrive TRNews. E’ una storia travagliata fin dall’inizio quella dell’incidente stradale di cui fu vittima Ylenia Attanasio. Ora, però, sulla scia di quella storia ci sono anche due magistrati leccesi a risultare tra gli indagati, assieme ad altre tre persone. L’accusa, per tutti, è di favoreggiamento personale in concorso. Avrebbero favorito, in sostanza, colui che investì la 23enne che perse la vita l’8 luglio 2007 sulla Alezio-Gallipoli, mentre era in sella al suo scooter e stava per svoltare a sinistra per entrare in un distributore di benzina. L’esposto presentato dal padre, Rosario Attanasio, il 3 luglio 2013, ha portato, dunque, ora, come risulta dagli atti, ad iscrivere formalmente nel registro degli indagati il pm all’epoca titolare del fascicolo e il giudice allora in forze presso il Tribunale di Gallipoli e che, il 7 luglio 2009, emise la sentenza di primo grado contenente l’assoluzione con formula piena, “perchè il fatto non sussiste”, di Vittorio Spada, 65enne gallipolino, colui che avrebbe tamponato Ylenia. In secondo grado, nel settembre 2012, la Corte d’appello di Lecce ha riformato, seppur parzialmente, l’esito del processo. A impugnare la sentenza, però, non è stata la Procura, ma sono stati gli avvocati di parte civile. Di conseguenza, la Corte ha potuto solo riconoscere la responsabilità dell’imputato, condannato a risarcire i danni ai familiari della vittima e a pagare loro una provvisionale di 40mila euro al padre e 25mila ai fratelli. Nessuna sentenza penale di condanna, dunque. Ed è stato questo a portare la famiglia di Ylenia ad avviare una petizione on line, lo scorso luglio, per chiedere giustizia. Ed è anche alla luce di quella seconda sentenza che è stato presentato esposto in Procura da parte del padre Rosario, assistito dagli avvocati Matteo Speradio e Luigi Pastore e che ha puntato il dito contro presunte incongruenze e contraddizioni: “Mi sono chiesto più volte come mai tutti, periti, pm, giudici, ecc. che sono stati gli attori di questo processo - ha scritto nell’esposto - hanno preso per buone solo le tre testimonianze che sono visibilmente pilotate e palesemente in favore alla manovra di favorire l’assoluzione di Spada?”. È questo il cuore dell’accusa, pesante, contenuta nell’esposto e, ovviamente, ancora tutta da verificare. Le tre testimonianze di cui Attanasio ha parlato sono quelle rese ai carabinieri dagli altri tre uomini che risultano ora indagati, uno dei quali nel frattempo è deceduto.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE, MA NON PER TUTTI.
Un decreto cautelare emesso dopo sole 24 ore dal deposito, di sabato, da chi non era legittimato ed in favore di un azienda in odor di mafia.
Arriva al capolinea l'inchiesta sull'aggiudicazione provvisoria alla Cogea dell'appalto dei servizi di igiene urbana del comune di Casarano, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Ed ecco che viene ufficialmente formalizzata l'iscrizione nel registro degli indagati del presidente del Tar di Lecce Antonio Cavallari. Il suo nome compare nell'avviso di conclusione delle indagini preliminari notificato nelle scorse ore, a firma del procuratore capo Cataldo Motta, insieme a quelli dell'avvocato Luigi Quinto, 38 anni, di Lecce, e di Enzo Giannuzzi, 67 anni, di Nardò, direttore della segreteria della prima sezione giurisdizionale del Tar. L'ipotesi di reato che viene contestata loro è quella di concorso in abuso d'ufficio. La vicenda ormai nota, è balzata nel settembre dello scorso anno agli onori delle cronache quando iniziarono a trapelare le prime indiscrezioni su un'inchiesta che vedeva coinvolto il numero uno del Tar di Lecce, al quale i carabinieri del Nucleo investigativo avevano sequestrato il computer. Oggetto del contendere un decreto cautelare emesso il 3 marzo 2012 con il quale il presidente Cavallari aveva accolto il ricorso presentato dalla Cogea che appena il giorno prima si era vista revocare dal comune di Casarano l'aggiudicazione provvisoria dell'appalto dei servizi di igiene urbana. Una decisione-lampo, presa dopo sole 24 ore dal deposito del ricorso, che secondo la Procura sarebbe stata priva dei requisiti di «estrema gravità ed urgenza». Un disegno ordito, quindi, con il solo scopo di «procurare intenzionalmente un ingiusto vantaggio patrimoniale alla Cogea Srl».
Dopo la tegola giudiziaria che si è abbattuta sul Presidente del Tar di Lecce Antonio Cavallari, indagato per abuso d’ufficio, l’Avvocato Pietro Quinto non nasconde a TRnews la propria perplessità, dopo tutto, per una vicenda che si collega ad un appalto per la raccolta dei rifiuti urbani a Casarano. I fatti risalgono allo scorso marzo: la Cogea vince l’appalto, ma l’aggiudicazione provvisoria viene revocata dalla locale amministrazione comunale retta dal Commissario prefettizio, Erminia Ocello, sulla scorta di una segnalazione. Nel documento si ipotizzerebbe un presunto collegamento fra l’azienda in questione e Gianluigi Rosafio, imprenditore di Taurisano, già condannato per traffico illecito di rifiuti con l’aggravante mafiosa, genero di Giuseppe Scarlino, detto Pippi Calamita, boss del Sud Salento condannato all’ergastolo. L’azienda non ci sta e assistita dall’Avvocato Pietro Quinto, fa ricorso al Tar, chiedendo un decreto d’urgenza. “I tempi sono stretti – ricorda Quinto – l’informativa arriva alla vigilia dell’avvio del servizio e l’azienda che teme un danno economico, chiede un decreto d’urgenza”. Ed ecco che, in assenza del giudice della terza sezione, la situazione la prende in mano il Presidente in persona, Cavallari appunto, che emette un provvedimento con cui accogliendo l’istanza presentata dall’azienda di fatto sospende la revoca del Comune di Casarano e dà il via libera al servizio che partirà di lì a poche ore. “E’ stato fatto tutto alla luce del sole”, sottolinea ancora l’Avv. Quinto. Ma intanto i carabinieri, al cui vaglio ci sono documenti e pc sequestrati dall’ufficio di Cavallari, vogliono andare a fondo. In effetti tutta la vicenda si è consumata in sole 48 ore. C’è però un altro risvolto. Dopo la pronuncia di Cavallari, la Prefettura emise una vera e propria interdittiva nei confronti della Cogea, interdittiva recepita dal Commissario Ocello che stilò un nuovo atto di revoca del bando. Intanto, la Cassazione aveva annullato con rinvio l’aggravante mafiosa nei confronti di Rosafio, chiedendo la celebrazione di un nuovo processo. Ora si attende la decisione del Consiglio di Stato che si pronuncerà solo dopo decisione del giudice penale.
Misure di questo tipo hanno l’obiettivo di evitare infiltrazioni della malavita nel tessuto produttivo. La visita dei militari del Nucleo investigativo del Reparto operativo del Comando provinciale risale ai primi giorni del marzo 2012. All’attenzione della Procura sarebbe finito il decreto cautelare emesso il 3 marzo (era un sabato) con il quale il presidente Antonio Cavallari ha accolto l’istanza presentata dalla società Cogea, la srl che si era visto revocare l’aggiudicazione provvisoria del servizio di raccolta dei rifiuti urbani di Casarano sulla scorta di un’infor mativa antimafia per via di presunti collegamenti con Gianluigi Rosafio, l’imprenditore di Taurisano condannato per traffico illecito di rifiuti e marito della figlia del boss ergastolano Giuseppe Scarlino, detto Pippi Calamita. La determinazione del responsabile del settore servizi tecnici del comune di Casar ano, che aveva revocato l’aggiudicazione dell’appalto alla Cogea, era stata adottata il 2 marzo. Il giorno dopo il decreto cautelare del presidente del Tar Cavallari veniva depositato in segreteria. Più precisamente, l’interdittiva antimafia traeva origine nel fatto che il direttore tecnico di Cogea fosse lo stesso di «Geotec Ambiente», società a sua volta colpita da interdittiva per la presenza, fra i dipendenti, di Gianluigi Rosafio. L’unica volta che l’indagine è uscita allo scoperto è stato quando i carabinieri sono andati negli uffici del Tar, in via Rubichi a due passi da piazza Sant’Oronzo, per «prendere» le carte. L’episodio, peraltro, era stato vagamente richiamato dallo stesso presidente Antonio Cavallari in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario del Tribunale amministrativo regionale. Erano trascorsi appena sette giorni dalla decisione e dal blitz. Un’uscita , quella del presidente del Tar, che era stata sepolta da una montagna di smentite. E il Procuratore era al lavoro, a testa bassa.
Cavallari non è nuovo ad essere soggetto di accuse.
"Ilva, il presidente del Tar di Lecce cognato dell'avvocato dell'azienda". I ricorsi del colosso sempre accolti. Esposto di Legambiente al Csm, bufera su Antonio Cavallari. "E' incompatibile". "Accuse infondate, il legale si occupa di cause di lavoro", scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. Il primo a lanciare la pietra era stato il presidente dell'Arpa pugliese, Giorgio Assennato. "L'Ilva - aveva detto - non si è mai voluta sedere a un tavolo con noi. Sono rimasti sull'Aventino e hanno continuato a fare ricorsi su ricorsi al Tar di Lecce, sempre vinti... Sono sicuro che anche la Procura di Taranto perderebbe se fosse il Tar di Lecce a decidere sui suoi atti". Subito dopo erano intervenute le associazioni ambientaliste, segnalando come in questi anni molte decisioni di natura sanitaria prese da Comune e Asl fossero state sempre cassate dal Tar. Ora il caso arriverà davanti al Consiglio superiore della Magistratura. Perché? Il presidente del Tar di Lecce, Antonio Cavallari, è il cognato (hanno sposato due sorelle) di uno degli avvocati esterni dell'Ilva, Enrico Claudio Schiavone. "Una situazione - spiegano dal direttivo nazionale di Legambiente - che secondo noi è doveroso segnalare al Csm perché il Consiglio valuti eventuali situazioni di incompatibilità o anche soltanto di opportunità. La situazione è così delicata, che richiede il massimo della trasparenza a tutti i livelli. Anche quello della magistratura amministrativa". I due protagonisti però rimandano al mittente tutte le accuse. "Da un punto di vista tecnico, non siamo nemmeno affini. E soprattutto l'avvocato Schiavone non difende l'Ilva davanti al Tar". Schiavone è infatti un lavorista, è lui a difendere il siderurgico (in qualità di consulente esterno) nella maggior parte delle cause contro i lavoratori: "Questo della parentela - dice - è un dettaglio insignificante". Il Tar era finito nell'occhio del ciclone per aver accolto una serie di ricorsi dell'Ilva: dal referendum chiesto dai cittadini per decidere sulla chiusura dello stabilimento a una serie di ricorsi di natura sanitaria. A febbraio il sindaco di Taranto, Ippazio Stefano, aveva ordinato la fermata degli impianti per effettuare una serie di lavori per ridurre inquinamento e impatto ambientale. Ma il Tar aveva sospeso il provvedimento sostenendo che non esisteva un'emergenza sanitaria tale da giustificare "l'esercizio del potere di ordinanza attribuito al sindaco". Qualche mese dopo sarebbe arrivata la decisione del gip, Patrizia Todisco, di sequestrare l'impianto proprio per l'emergenza sanitaria. "Ma se c'è qualche responsabile in questa vicenda - dice Cavallari - è chi doveva controllare e non lo ha fatto. Noi in 23 anni abbiamo avuto appena 36 ricorsi dell'Ilva e molti sono stati respinti, come per esempio quelli su alcune prescrizioni dell'Aia". Assennato però faceva riferimento a un provvedimento dell'Arpa che, già nel 2010, imponeva all'Ilva di abbassare le emissioni di benzoapirene, l'inquinante segnalato come pericolosissimo oggi dai periti della procura. I tarantini potevano risparmiare due anni di veleno. Ma anche in questo caso, il provvedimento fu cassato. "Ma era incoerente - spiega il giudice amministrativo - si chiedeva all'Ilva di applicare determinate prescrizioni in materia di emissioni sulla base di parametri stabiliti in tempi successivi. Se si stabiliscono dei limiti alle emissioni, e poi quei limiti vengono abbassati, noi dobbiamo basarci sui parametri in vigore nel momento in cui si contesta il superamento di quei limiti". Cavallari, tra l'altro, in questi giorni è al centro di un'altra inchiesta giudiziaria. È indagato per abuso di ufficio con l'accusa di aver riassegnato un appalto a un'azienda che era stata esclusa per mafia. Firmò lui il provvedimento nonostante toccasse a un'altra sezione. "Ma era un provvedimento d'urgenza e la collega non c'era: agimmo in accordo. Sono serenissimo" conclude il giudice amministrativo.
Da venti anni inascoltato Antonio Giangrande denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Prima di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi, insabbiamento delle denunce contro i concorsi truccati ed attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei suoi compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il ricorso di Antonio Giangrande va rigettato, ma devono spiegare a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal Giangrande e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?
In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia, ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.
IL DELITTO DI SARAH SCAZZI: PROCESSO AI MISSERI; PROCESSO ALL’ITALIA.
ITALIA, TARANTO, AVETRANA: IL CORTOCIRCUITO GIUSTIZIA-INFORMAZIONE. TUTTO QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.
«Giusto processo in Italia. E’ solo una stronzata. E l’intercalare rende bene l’idea sull’indignazione dei giuristi con un po’ di dignità. A Taranto ci hanno messo 6 giorni per accogliere pari pari le richieste dell’accusa. Ufficio della Procura di cui la presidente Trunfio ne faceva parte. Tutti abbiamo diritto al Giusto Processo, ma a Taranto tale diritto è negato. Sabrina Misseri e Cosima Serrano colpevoli del delitto? Forse sì e forse no. Ma anche loro meritano un giusto processo. Per la morte di Sarah Scazzi una sentenza di condanna per tutti gli imputati accolta da un’Italia plaudente. E’ una vergogna. E’ disumano ed incivile rallegrarsi per le disgrazie altrui. Una sentenza di condanna così come da me ampiamente prevista anche per l’appello. Previsione pubblicata sui giornali in tempi non sospetti. E non poteva essere altrimenti. Una trappola strategica ordita dall’accusa. I Giudici sono stati obbligati ad emettere sentenza di condanna. Al contrario ci sarebbe stato il paradosso di non aver avuto nessun colpevole per quel delitto, essendo stato estromesso Michele Misseri dall’accusa di omicidio. Con un’assoluzione e senza responsabili del delitto la Procura di Taranto in Italia avrebbe fatto ridere pure i polli. Una sentenza emessa dal popolo italiano e non “in nome del popolo italiano”. Un popolo che ha giudicato non solo i protagonisti, ma tutta una comunità. Un popolo plasmato da media morbosi e gossippari. Nei film la trama ed il regista ci fanno sapere chi è l’assassino, che la polizia ed il giudice non conosce. Se il colpevole viene assolto o non indagato perché non ci sono prove, lo spettatore ci rimane male. Eppure, attraverso i comportamenti ritenuti corretti da parte dei protagonisti del film, la morale è chiara. Niente prove, niente condanna. La morte di Sarah Scazzi è realtà. Come in un film i media morbosi ci hanno indotto a credere, convincendoci, che Sabrina Misseri e Cosima Serrano fossero le colpevoli. Potrebbero esserlo, nulla è escluso, ma dobbiamo farcene una ragione: non ci sono prove. Indizi contestabili, sì, ma prove niente. Addirittura per Cosima meno di nulla. L’art. 533, primo comma, c.p.p. impone il principio di Diritto per cui si condanna “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Questo perché in un paese civile meglio un reo in libertà, che un innocente in galera. E, a quanto pare, l’Italia pur essendo la culla del diritto, non figura tra i paesi civili.»
Intervista esclusiva al dr Antonio Giangrande, avetranese doc. Egli, avendo vissuto la storia del delitto di Sarah Scazzi sin dall’inizio, conosce bene fatti e persone, protagonisti della vicenda. Corso degli eventi seguiti e documentati sin dal principio in un libro e con video. Un punto di vista interessante ed alternativo, sicuramente non omologato. Un personaggio che non si fa certo intimorire dalla magistratura e dall’avvocatura e che bistratta quell’informazione corrotta culturalmente. Per conoscerlo meglio basta andare su www.controtuttelemafie.it.
Dr Antonio Giangrande sembra sicuro di quello che dice.
«Via Poma, Garlasco, Perugia, il caso Yara Gambirasio. I casi più celebri. Orrori senza fine e quando, per caso, il colpevole salta fuori, si scopre che la soluzione era a portata di mano, quasi banale, e perfino ovvia: come nella vicenda dell'Olgiata con il maggiordomo filippino. E invece la nostra giustizia e i nostri apparati investigativi continuano, spesso e volentieri, a perdersi dietro congetture dietrologiche e teoremi labirintici, ma soprattutto le troppe inchieste finite in nulla e i troppi processi impantanati. Gli esperti arrivano tardi, quando le prove sono già state compromesse, contaminate, sprecate. Polizia e carabinieri sono spesso in disaccordo fra di loro, secondo una trita consuetudine centenaria, e la polizia giudiziaria esplora le piste possibili con il guinzaglio corto impostole dalla legge che le ha messo addosso il collare della dipendenza dalla magistratura. Per restare sulla cronaca: da una parte c’è Michele Misseri, difeso dagli avvocati Luca Latanza da Taranto e Fabrizio Gallo da Roma. Quest’ultimo che accusa a Quarto Grado del 19 aprile 2013 il primo avvocato di Misseri, Daniele Galoppa, di essere stato ripreso dal GIP perché suggeriva a Michele Misseri le risposte che accusavano la figlia Sabrina in sede di Incidente Probatorio. Il contadino di Avetrana che si dichiara colpevole del delitto e della soppressione del corpo della nipote, non risparmia dichiarazioni e interviste ai vari corrispondenti delle testate televisive nazionali che presidiano costantemente la villa di via Deledda. In una di queste, al Graffio di Telenorba, prima ha spiegato per l’ennesima volta le modalità del delitto e poi ha mostrato la valigia già pronta per quando sarà trasferito in carcere al posto – così lui spera fino in Cassazione – della figlia e di sua moglie. Dall’altra parte, dopo aver rispedito alla Corte d'Appello il processo sul delitto di Meredith Kercher, la ragazza inglese assassinata a Perugia nella notte tra il primo e il due novembre 2007, la Cassazione ha annullato anche la sentenza di assoluzione di Alberto Stasi per l’omicidio di Chiara Poggi, avvenuto il 13 agosto 2007 a Garlasco (in provincia di Pavia). Da quando Chiara Poggi venne uccisa e ritrovata senza vita il 13 agosto del 2007 nella sua casa di Garlasco, errori soprattutto nelle prime 24 ore ci sono stati. Così come a Perugia; così come ad Avetrana. Innanzitutto troppe persone sono entrate nella casa, inquinando la scena del crimine. Poi il primo interrogatorio di Alberto, che poteva essere determinante, è stato condotto prima da un maresciallo dei CC, poi interrotto, e continuato da un Capitano arrivato più tardi. Non è stata cercata immediatamente l'arma del delitto. E' stato acceso e spento troppe volte il pc di Alberto, che, per la Procura, doveva essere la prova regina. Non sono state sequestrate subito le famose scarpe di Alberto, né la bicicletta. Non è stato fatto un sopralluogo a casa sua o nell'officina del padre dove poteva nascondersi l'arma del delitto. I cellulari di alcune persone legate ai due sono stati messi sotto controllo solo dopo mesi e non immediatamente. Tutto questo davanti ad una Procura che è parsa inadeguata fin dal principio come gli investigatori. Perché solo con la parola "inadeguatezza" si può spiegare il fatto che nella casa sotto sequestro e con la "scena del crimine" ancora da analizzare (lo ricordiamo era quasi ferragosto e persino la scientifica era in ferie) venne lasciato libero di circolare il gatto di casa e qualcuno si è pure permesso di fumare, lasciare cenere sul pavimento, calpestare tracce ematiche. Il 18 aprile 2013 la Cassazione ha conferma questi dubbi ed ha deciso che il procedimento va rifatto per questioni di "metodo". L'accusa chiede la condanna a 30 di reclusione. Diversi gli indizi raccolti contro l'ex fidanzato: le scarpe “candide”, i pedali della sua bicicletta con tracce ematiche della vittima, le sue impronte miste al Dna di Chiara trovate sull'erogatore del sapone nel bagno dove l'assassino si è lavato. Nessun alibi, secondo l'accusa, per l'ex fidanzato: non era al computer mentre Chiara veniva uccisa. Innocente al di là di ogni ragionevole dubbio in primo grado ed in Appello. A questo punto mi si deve spiegare una cosa: a chi dare ragione? Ai giudici che assolvono od a quelli che condannano? Perugia, Garlasco, Avetrana: il ragionevole dubbio per motivare l’assoluzione se non sovviene in questi casi, allora quando?»
Ma chi è Antonio Giangrande. Nessuno da Avetrana ha mai parlato di lui, né, tantomeno, tv e giornali hanno richiesto i suoi commenti.
«Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Il fatto che nessuno mi ha mai interpellato sul delitto di Sarah Scazzi, nonostante che tutti ad Avetrana abbiano avuto l’occasione per farsi intervistare (alla faccia dell’omertà), non me ne cruccio, probabilmente i giornalisti non ritengono interessante il personaggio e le sue opinioni. D’altronde mi vanto proprio di essere diverso per i miei convincimenti e per il mio spirito libero e responsabile. Di parere diverso dai miei detrattori sono i miei sostenitori, che, in centinaia di migliaia, invece, seguono i miei video e leggono i miei testi, ritenendoli importanti, alternativi e fondamentali per farsi un’opinione corretta sui fatti. Oltretutto su internet seguono più me e le mie inchieste che il lavoro di tante redazioni stereotipate e finanziate da una certa politica, che, pur pensando di essere unici, navigano nel mare dell’informazione insieme a migliaia di simili. Mi da fastidio solo una cosa: snobbare me può essere giustificato dalla codardia, ma ignorare l’associazione antimafia che rappresento, a tutto vantaggio di altri sodalizi ben sponsorizzati politicamente, descrive bene la professionalità di certi giornalisti».
Che coincidenza: nascere ad Avetrana, il paese dei Misseri, e vivere di luce riflessa!
«Ognuno di noi è nato in qualche posto che sicuramente non era voluto dal nascituro. Poi sta a noi rendere quel posto dove siamo nati degno di essere vissuto, né quel posto può essere l’alibi dei nostri fallimenti. Per dire: Chi nasce a Roma non diventa automaticamente Presidente della Repubblica. Io vivo in questa vita con dei compagni di viaggio. Qualcuno scenderà dal treno prima, qualcun altro dopo di me. Scenderanno comunque tutti dal treno della vita, anche coloro che saliranno dopo, così come hanno fatto quelli che son saliti prima. E non osta il fatto di avere nobili natali. Sono le fasi della vita. Io faccio di tutto per tutelare e onorare il posto dove sono nato. Località né peggio, né meglio di altre. Non vivo sotto i lampioni, per cui non rifletto né la mia, né l’altrui luce. Anche perché ognuno di noi vive il suo spazio e con il web questo mio spazio è il mondo. Solo gli ignoranti sminuiscono la forza che la mente ha nel superare lo spazio ed il tempo. Il miglior riconoscimento ricevuto è il ringraziamento da parte del Commissario Governativo per le iniziative contro la lotta alla mafia e all’usura, il quale mi ha invitato, anche, a partecipare all’incontro tenuto a Napoli con i Prefetti del Sud Italia per parlare di Sicurezza, mafia ed usura. Ciò significa considerarmi degno interlocutore, mentre le Autorità locali mi ignorano, mi emarginano, mi perseguitano. Appunto. L’avv. Santo De Prezzo, di Avetrana, conferma in una sua denuncia (in seguito alla quale per me è scaturita assoluzione più ampia perché il fatto non sussiste e di cui si è chiesto conto a lui ed anche nei confronti dei magistrati che l’hanno agevolata), che il Presidente dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie, Dr Antonio Giangrande, è considerato dalle Forze dell’Ordine di Avetrana un mitomane calunniatore. Tale affermazione spiega bene il perché degli insabbiamenti e le archiviazioni che seguivano le mie denunce, sol perché si denunciavano i reati degli intoccabili. Spiega bene altresì, l’ostracismo dei media. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.»
Dr Antonio Giangrande, con le sue opere letterarie, la sua web tv ed i suoi canali youtube ha voluto documentare in testi ed in video pregi e difetti della società italiana. Ma chi sono gli italiani?
«Chi siamo noi?
Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.
Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.
Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.
Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.
Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.
Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.»
A scrivere delle malefatte dei poteri forti a lei cosa ne consegue?
«Per prima cosa le sto a segnalare il fatto, già segnalato ai precedenti Parlamenti, che è impossibile in Italia svolgere l’attività di assistenza e consulenza antimafia se non si è di sinistra e se non si santificano i magistrati. In Italia l’antimafia è una liturgia finanziata dallo Stato in cui vi è l’assoluto monopolio in mano a “Libera” di Don Ciotti e di fatto in mano alla CGIL, presso cui molte sedi di “Libera” sono ospitate. La sinistra, i media, gli insegnanti ed i magistrati artatamente han fatto di Don Luigi Ciotti e di Roberto Saviano le icone a cui fare riferimento quando ci si deve riempir la bocca con il termine “legalità”. “Libera”, con le sue associate locali, è l’esclusiva destinataria degli ingenti finanziamenti pubblici e spesso assegnataria dei beni confiscati. Di fatto le associazioni non allineate e schierate (e sono tante) hanno difficoltà oltre che finanziaria, anche mediatica e, cosa peggiore, di rapporti istituzionali. Si pensi che la Prefettura di Taranto e la Regione Puglia di Vendola a “Libera” hanno concesso il finanziamento di progetti e l’assegnazione dei beni confiscati a Manduria. A “Libera” e non alla “Associazione Contro Tutte le Mafie”, con sede legale a 17 km. A “Libera” che non può essere iscritta presso la Prefettura di Taranto, perchè ha sede legale a Roma, e non dovrebbe essere iscritta a Bari, perché a me è stato impedita l’iscrizione per mancata costituzione dell’albo. Altra segnalazione di una mia battaglia ventennale riguarda l’esame truccato dei concorsi pubblici ed in specialmodo quello di abilitazione forense, che poi è uguale a quello del notariato e della magistratura. Ho anche cercato di denunciare l’evasione fiscale e contributiva degli studi legali presso i quali i praticanti avvocato sono obbligati a fare pratica. I “Dominus” non pagano o pagano poco e male ed in nero i praticanti avvocati e per coloro che non hanno partita iva non gli versano i contributi previdenziali presso la gestione separata INPS. Agli inizi, facendo notare tale anomalia al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, mi si disse: “fatti i cazzi tuoi anche perché vedremo se diventi avvocato. Appunto. Da anni mi impediscono di diventarlo, dandomi dei voti sempre uguali ai miei elaborati all’esame forense. Elaborati mai corretti. Mi hanno condannato all’indigenza. Tenuto conto che i miei libri si leggono gratuitamente, da scrittore non ho nessun introito. A dover scrivere la verità, purtroppo, non posso essere amico di magistrati, avvocati e giornalisti. Essere amico su chi avrei da scrivere, inficerebbe la mia imparzialità di giudizio. Avendo avuto l’occasione di svolgere l’attività forense per 6 anni senza abilitazione ma con il patrocinio legale, ho sì vinto tutte le cause, ma si sono imbattuto in tutto quello che è più malsano del mondo della giustizia: la corruzione morale e materiale delle toghe, siano essi magistrati od avvocati. E nessuno ne parla. Io ne parlo e ne subisco le ritorsioni. Non mi abilitano e sono investito da processi per diffamazione. Sempre assolto, ma per esserlo sono stato costretto a denunciare e ricusare il giudice naturale. Il giudice Rita Romano di Taranto, tra le altre cose, ha assolto chi mi aveva aggredito in casa mia con l’intento di far male a me, a mia moglie ed ai miei figli, affinchè non presenziassi ad un’udienza in cui difendevo la moglie dell’aggressore, vittima di stalking. Le prove dell’aggressione non sono state prodotte dalla procura, né ammesse dal giudice. A questo punto l’assoluzione dell’aggressore fu così motivata: “la testimonianza di Antonio Giangrande non possa ritenersi pienamente attendibile”. La Procura di Taranto chiede ed ottiene l’archiviazione delle denunce contro loro stessi. La Procura di Potenza archivia tutte le mie denunce contro i magistrati di Taranto ed accoglie tutte le denunce dei loro colleghi tarantini contro di me per quanto scrivo su quello che succede a Taranto. Un modo di tacitarmi per quanto scrivo anche su quello che succede Potenza. In virtù della mia esperienza il mio assunto è: la mafia vien dall’alto!»
Perché parla di cortocircuito Giustizia-Informazione?
«I giornalisti ci hanno inculcato la convinzione della santità, della infallibilità e della intoccabilità della magistratura. Il mondo della comunicazione e dell’informazione fa passare il principio per il quale i magistrati, preparati, competenti ed equilibrati, non sbagliano quasi mai e per di più, quando lo fanno, non devono essere criticati, in quanto le colpe delle disfunzioni giudiziarie vanno ricondotte sempre e comunque al sistema, quindi alla politica. Insomma: i magistrati sono di un’altra razza. Gli avvocati, anche per colpa della propria viltà, anziché imprimere l’assioma della indispensabilità e della parità della loro funzione, sono fatti passare per comprimari. Agli occhi della gente incarnano coloro che con sotterfugi e raggiri fanno uscire i rei dalla galera. Il dogma che dovrebbe valere per tutti i Magistrati e tutti i Giornalisti è: non avere ideologia, né amici. Questo per dare un’apparenza di imparzialità. Invece l’ideologia non gli manca, né tantomeno gli amici. Ed ottimi amici, spesso, sono proprio tra di loro, i Magistrati con i Magistrati ed i Magistrati con i Giornalisti, in un rapporto di reciproca mutualità. Amici ed ideologia, a iosa, spesso in un rapporto vicendevole: eccome! I magistrati ed i giornalisti hanno un ego smisurato che li rende autoreferenziali, presuntuosi ed arroganti, dimenticando che il potere, che gli uni e gli altri hanno, è stato assunto in virtù di un concorso pubblico, come può essere quello italiano. I Magistrati ed i Giornalisti non vengono da Marte, pertanto senza natali e casato e con un DNA differente dal resto dei cittadini. I primi, quindi, non sono la voce della Giustizia, i secondi non sono la voce della Verità. Tutto questo crea un vulnus all’esistenza di tutti noi. Prova ne è la sorte di Pietro D’Amico. Si è tolto la vita assistito dal personale di una clinica Svizzera. Pietro D'Amico era un magistrato per bene, una «toga buona» e fuori dai giochi di potere. Messo in croce sui giornali per un sospetto suffragato da indizi labili. Pietro D'Amico, autore di saggi di Filosofia del Diritto e Diritto romano adottati come libri di testo da alcune università, era stato indagato, insieme ad altri magistrati dalla Procura di Salerno, per una fuga di notizia per la perquisizione di un parlamentare nell'ambito dell'inchiesta Poseidone sui presunti illeciti nella gestione dei fondi per la depurazione. Ne era uscito indenne, ma totalmente disgustato. Aveva deciso di abbandonare la toga commentando: "Questa magistratura non mi merita". Tutto ciò fa pensare una cosa: se è successo a lui, figuriamoci cosa succede ai poveri cristi. Non esiste un solo Paese democratico e moderno nel quale uno dei poteri che regge l’architettura dello Stato è sottratto a qualsiasi controllo e sul quale vige una sorta di impunità che si è trasformata, negli anni, in un delirio di onnipotenza senza strumenti di comparazione nell’intero mondo occidentale; uno Stato nello Stato, regolato da leggi autonome, sottratto ai più elementari controlli democratici e autoimmunizzato contro ogni critica. Guai a chi si permette di criticare un magistrato, l’operato di un giudice o la conduzione di un’indagine: il rischio automatico è quello di attirare gli strali dei “pasdaran” del giustizialismo con ondate di fango mediatico; gli stessi per i quali un magistrato in esercizio della sua funzione, e magari nel tempo libero, può criticare liberamente lo Stato suo datore di lavoro, dare giudizi estremi sul Parlamento che vota le leggi (che un magistrato dovrebbe applicare e che invece vorrebbe lui dettare) e ridurre il tutto ad un mero esercizio di presunta democrazia, mentre se è lo Stato o il Parlamento, o anche un semplice cittadino, a criticare un magistrato si grida al complotto, o, addirittura, si è condannati per diffamazione dagli stessi magistrati criticati. Ma si sa. La coerenza è il segno distintivo dei limitati encefalici.»
Perché tra le sue opere a carattere generale ha scritto il libro su una vicenda particolare “SARAH SCAZZI, QUELLO CHE NON SI OSA DIRE. IL RESOCONTO DI UN AVETRANESE”?
«Avetrana, e per questo non si ha alcuna spiegazione logica, stranamente ed a differenza di altre sparizioni di persone, sin dal primo giorno della scomparsa di Sarah Scazzi è stata oggetto di attenzione mediatica morbosa. Sin dal primo momento è stata invasa dai camion con le paraboliche tv, come se una regia occulta avesse predisposto l’evento ed avesse previsto l’imponderabile, misterioso e drammatico seguito. Sin da subito sono arrivati i migliori consulenti forensi e gli eccelsi avvocati dai fori più importanti con la conseguente domanda logica: chi li paga? Per propaganda e pubblicità: chissà? Sono calati avvocati propostisi (vietato dalla deontologia; divieto che pare valga solo per l’avv. Vito Russo di Taranto), o avvocati consigliati da parenti od amici interessati. Solo per gli imputati minori si son visti avvocati riconducibili a conoscenza personale. Si son visti, addirittura, avvocati che si sono arrogati la funzione di pubblici ministeri: la ricerca della verità. In questo coinvolgendo i consulenti salottieri che alla tv, in programmi che dovevano trasparire imparzialità, invece, propinavano la loro convinzione personale ospiti di conduttrici compiacenti. Poi alle accuse di Michele di essere stato plagiato rispondevano: io non c’ero! Si son visti giornalisti vagare per Avetrana intenti ad intervistare appositamente ignoranti nullafacenti nei bar, con l’intento di estorcere delle considerazioni dotte. Si son visti giornalisti aspiranti scrittori, con il sogno di scrivere sul delitto di Avetrana un esclusivo Best Sellers, arrogandosi la elitaria genitura della verità. Generalmente da tutta Italia mi si chiede aiuto, essendo riconosciuta la mia competenza per aver seguito tutti i casi giudiziari analoghi. Ad Avetrana, da avetranese, sono stato tra i primi ad offrire la mia consulenza gratuita, dopo aver segnalato alle autorità alcuni personaggi che gironzolavano intorno alla famiglia Scazzi. Personaggi che hanno conosciuto i fatti dall’interno della famiglia nell’imminenza dell’evento, ma che non sono stati mai chiamati a testimoniare. Con Concetta e Giacomo Scazzi vi è stato un’incontro, qualche consiglio. Presente era Cosima e Valentina. Le ho viste affiatate con Concetta. Successivamente, con l’arrivo degli avvocati di Perugia (in quella fase non vi era alcun assoluto bisogno di assistenza legale) si era sottoposti al loro vaglio per parlare con la Famiglia Scazzi. Si è erto un muro. Da allora nessun incontro vi è più stato, né nessun grazie si è dato alle associazioni avetranesi che si sono attivate per la ricerca di Sarah e per la fiaccolata in suo onore. Le luci della ribalta sono un’illusione anche nel dolore, in special modo se c’è qualcuno che illude. In quei frangenti caotici si veniva a formare la trama intrigante, oscura, imperscrutabile e misteriosa di un film più che “giallo”. “Giallo” è la definizione italiana, poiché negli Stati Uniti non esiste questa parola per definire lo specifico genere cinematografico che va sotto i nominativi di “crime story”, “noir”, “mistery” e “thriller”. Avetrana è diventata, suo malgrado, l’ombelico del mondo. E’ conosciuta ormai in tutto il pianeta. Tutti parlano di Avetrana, degli avetranesi, degli Scazzi, dei Serrano e dei Misseri. E tutte le altre località se ne dovranno fare una ragione. Eppure tanta notorietà (subita) provoca immenso rancore. La sventura altrui rappresenta per l’invidioso ciò che la cioccolata è per il goloso e il sesso per il lussurioso. Il nostro cervello, infatti, tratta le esperienze sociali e quelle fisiche in modo più simile di quanto si pensi. Chi ha sete chiede acqua. Chi ha freddo, un riparo. Chi non è soddisfatto di se stesso anela a sentirsi migliore attraverso la svalutazione degli altri. Studi scientifici dimostrano come spesso l’invidioso ha la sensazione di non poter raggiungere con le proprie forze ciò che vorrebbe per sé e per riportare l’equilibrio nel confronto sociale deve passare per la distruzione materiale o simbolica dell’altro. Le ingiustizie sono ovunque anche nella nostra vita: c’è chi nasce ricco e ha la strada spianata, chi lo diventa con la spregiudicatezza, chi detiene il potere o posti di responsabilità pubblica senza averne le capacità, chi non paga le tasse, chi lavora meno di noi e ottiene di più, chi non ha arte ne parte, ma ha le luci della ribalta (come i personaggi del gossip o, come nel nostro caso, i protagonisti delle cronache giudiziarie). Infastidirsi è normale, soprattutto se il fortunato ci assomiglia: magari abita nell’appartamento vicino, ha fatto la nostra stessa scuola, ha scelto la nostra stessa carriera. Insomma ci ricorda quello che avremmo potuto essere e non siamo. Ma giornali e tv hanno allargato la nostra comunità di riferimento, aumentando esponenzialmente anche il numero di confronti sociali con persone di cui spesso non conosciamo né gli sforzi né le pene. Per questo si odia tanto Avetrana e Sabrina Misseri. Loro malgrado hanno un successo planetario che altri (gli invidiosi) vorrebbero per sé, finanche per le stesse ragioni, ma non lo possono mai avere. Allora scatta il meccanismo di delegittimazione e di denigrazione, fino ad arrivare al vilipendio di una comunità. Quando si parla del delitto di Sarah Scazzi, non si parla del danno che il sistema banale, superficiale e poco professionale dell’informazione e della comunicazione ha arrecato alla comunità colpita. State sicuri: nessuno vuol parlarne e nemmeno può. Bisogna essere Avetranesi con dignità ed orgoglio per sentire sopra la propria pelle il disprezzo di gente stupida ed ignorante che quando sa che tu sei di Avetrana nella migliore delle ipotesi sghignazza: “ahhaaaa…., ahhaaaa…”. Oppure di gente cattiva che lancia epiteti e che ti apostrofa: “ahhaa…, siete quelli che hanno ucciso Sarah”; “ahhaaa…, il paese omertoso e mafioso che ha ucciso la bambina”. Come al solito, poi, in questa Italia dove il migliore c’ha la rogna, te lo dice gente che a parlar di loro o della loro comunità dovrebbero mettersi la maschera in faccia per coprirsi per la vergogna. Certo che ad Avetrana vi è un inspiegabile accanimento mediatico. Finanche lo sport ha parlato di Sarah Scazzi. Un servizio della “Domenica Sportiva” della Rai il 7 aprile 2013 parla, sì, di calcio ad Avetrana, ma (pure qui con retro pensiero) evidenzia anche il malessere che comporta l’essere di Avetrana in trasferta. Ma noi avetranesi ad aver grande intelletto e ad insegnare cultura adottiamo il celebre verso della Divina Commedia del sommo poeta Dante Alighieri “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”. E proprio per passare oltre, il mio compito è quello di svelare il corto circuito informazione-giustizia. In questa Italia pregna di banalità e pregiudizi, frutto di ignoranza e disinformazione, e a volte di malafede, ognuno di noi dovrebbe chiedersi. La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!" «Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio. «Dovete sapere – dice a un certo punto Salvatore Borsellino al convegno a Bari per la presentazione del libro di Giuseppe Ayala - che mio fratello Paolo dopo il 1° luglio 1992 chiese varie volte al Procuratore della Repubblica di Caltanisetta di essere ascoltato come testimone per riferire circostanze decisive per l'accertamento della verità della strage di Capaci, in cui perirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta, ma questi, il Procuratore della Repubblica di Caltanisetta, si rifiutò di ascoltarlo.» Al che Giuseppe Ayala, sorridendo, ha commentato: “Eh si! In effetti c’è anche questa!”. Sono piene le aule dei Tribunali di tesi accusatorie, spesso strampalate dei PM, imbastite in modo a dir poco criticabile, poi accolte dai loro colleghi giudici. Il caso di Salvatore Gallo è di quelli destinati a passare alla storia degli errori giudiziari più clamorosi. Fu condannato all’ergastolo per l’omicidio del fratello Paolo che in realtà, sette anni dopo, si ripresenta vivo e vegeto. Ed ancora la Iena Mauro Casciari, che ha preso a cuore la vicenda della morte di Giuseppe Uva, ha ricevuto una querela per diffamazione per un servizio andato in onda ad ottobre nel 2011, che conteneva un'intervista a Lucia Uva, la sorella di Giuseppe Uva anch'essa querelata per diffamazione. Giuseppe Uva il 43enne morto a Varese, nel giugno del 2008, dopo essere stato fermato e trattenuto in caserma a Varese per alcune ore. Un’altra “vittima di Stato”, come si denuncia da anni, come Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi. Lucia Uva chiede solo giustizia e si ribella contro gli insabbiamenti delle denunce. Stessa sorte, querela per diffamazione, è toccata alla mamma di Aldrovandi, come stessa sorte è toccata ad Alfonso Frassanito, padre adottivo di Carmela, la ragazzina di Taranto morta perché stuprata e non creduta dai magistrati. In Italia devi subire e devi tacere. Da sempre, inascoltato, combatto per istituire il “Difensore Civico Giudiziario” con i poteri dei magistrati, ma senza essere uno di loro. Solo nel 2012 l’Italia ha aggiunto un nuovo record alla lista di primati negativi collezionati nel tempo a Strasburgo sul fronte della giustizia. Dopo essersi aggiudicata per anni la maglia nera come Paese, tra i 47 del Consiglio d’Europa, con il più alto numero di sentenze della Corte per i diritti dell’uomo non eseguite (arrivato ora a quota 2569, dietro di noi ci sono la Turchia con 1780 sentenze non eseguite e la Russia con 1087), l’Italia è diventata anche lo Stato che spende di più per indennizzare i propri cittadini per le violazioni dei diritti umani subite: ben 120 milioni di euro. Una cifra pari a circa cinque volte il contributo annuo versato al Consiglio d’Europa e più del doppio di quanto nel 2012 hanno pagato complessivamente, come indennizzi, tutti gli altri Stati membri dell’organizzazione. Senza parlare poi di quegli errori giudiziari che costano come una manovra. Indagini approssimative. Magistrati ed avvocati che sbagliano. Innocenti in cella. Enormi risarcimenti da pagare. Uno spreco umano ed economico insostenibile, che arriva a costare allo Stato diverse decine di milioni di euro ogni anno. L'ultimo, in arrivo, l'indennizzo per gli accusati della strage di via d'Amelio, ingiustamente condannati all'ergastolo e ora liberi dopo 18 anni di carcere in regime di 41bis. C'è già un altro cittadino italiano pronto a entrare in una classifica "poco onorevole" per il nostro Stato: si chiama Raniero Busco e ha 46 anni, assolto dalla condanna a 24 anni per l'omicidio della sua ex fidanzata, Simonetta Cesaroni, la ragazza del "delitto di via Poma" avvenuto nella capitale il 7 agosto 1990. Il caso di Busco, difeso proprio da Franco Coppi difensore anche di Sabrina Misseri nel processo sul delitto di Sara Scazzi, rientrerebbe nel nutrito elenco degli errori giudiziari. Una realtà che pesa, anche sotto il profilo economico, sull'amministrazione della giustizia nel nostro Paese. Solo nel 2011, lo Stato ha pagato 46 milioni di euro per ingiuste detenzioni o errori giudiziari. L'ultima vicenda di questo tipo, forse la più eclatante nella storia della Repubblica, è quella dei sette uomini che erano stati condannati come autori dell'attentato che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e alle cinque persone della scorta, il 19 luglio 1992. Nell'autunno 2012, sono stati liberati: dopo periodi di carcerazione durati tra i 15 e i 18 anni, trascorsi tra l'altro in regime di 41 bis. La strage non era cosa loro. Il risarcimento? È ancora da quantificare. Il 13 febbraio 2011, invece, la Corte d'appello di Reggio Calabria ha riconosciuto un altro grave sbaglio: è innocente anche Giuseppe Gulotta, che ha trascorso 21 anni, 2 mesi e 15 giorni in carcere per l'omicidio di due carabinieri nella caserma di Alcamo Marina (Trapani), nel 1976. Trent'anni dopo, un ex brigadiere che aveva assistito alle torture cui Gulotta era stato sottoposto per indurlo a confessare, ha raccontato com'era andata davvero. La cosa sconcertante è che, nel 1977, fu ucciso a Ficuzza (Palermo) anche l'ufficiale che aveva condotto quell'inchiesta con modi tutt'altro che ortodossi, il colonnello Giuseppe Russo: l'indagine sul suo omicidio ha prodotto un altro errore. Per la sua morte, infatti, sono stati condannati tre pastori e, solo vent'anni dopo, si è scoperto che esecutori e mandanti erano stati invece i Corleonesi. Ma il caso forse più paradossale di abbaglio giudiziario risale al 2005. Ne fu vittima Maria Columbu, 40 anni, sarda, invalida, madre di quattro bambini: condannata a quattro anni con l'accusa di eversione per dei messaggi goliardici diffusi in rete, nei quali insegnava anche a costruire "un'atomica fatta in casa". Nel 2010 fu assolta con formula piena. Per l'ultimo giudice, quelle istruzioni terroristiche erano "risibili" e "ridicole". Ma quanti sono, in Italia, gli errori giudiziari? Quante persone hanno scontato, da innocenti, anni e anni di carcere? Quante vite e quante famiglie sono state distrutte? "Una statistica ufficiale, ministeriale, ci dice che tra il 2003 e il 2007 ci sono stati circa ventimila errori giudiziari, un numero enorme del quale non si parla mai, se non nei casi che fanno notizia. Ci sono poi vicende famose, e sconcertanti, rilanciate ogni volta che si scoprono nuovi episodi: dal caso Tortora al caso Barillà. Ottomila richieste di risarcimento negli ultimi 10 anni. Le ingiuste detenzioni e l'enorme costo economico che comportano sono ormai al centro di una battaglia politico-legale avviata dalle associazioni contro gli errori giudiziari. Analizzando sentenze e scarcerazioni degli ultimi 50 anni, Eurispes e Unione delle Camere penali italiane hanno rilevato che sarebbero cinque milioni gli italiani dichiarati colpevoli, arrestati e rilasciati dopo tempi più o meno lunghi, perché innocenti. Errori non in malafede nella stragrande maggioranza dei casi, che però non accennano a diminuire, anzi sono in costante aumento. Bisogna che qualcuno dica alla gente che quello che succede ad Avetrana succede in tutta Italia. Tante le similitudini con i fatti di cronaca riportati dai media. Informazione e giustizia. Simbiosi cinica e bara, sadismo allo stato puro. Parliamo di Franco Califano. È stato arrestato due volte per cocaina, una volta nell’ambito del caso Chiari-Luttazzi (una serie di personaggi dello spettacolo messi in cella per droga nel 1970 e poi tutti assolti), un’altra all’interno del caso Tortora (l’inchiesta della magistratura napoletana che accusò falsamente il popolare presentatore di essere un boss della Camorra, uno dei più grandi scandali giudiziari degli anni Ottanta). In tutto s’è fatto per questo tre anni e mezzo di carcere. Suo commento: «Negli anni Settanta sono finito nel processo di Walter Chiari, negli anni Ottanta in quello con Tortora: possibile che alla mia età, con la mia carriera non me ne sono meritato uno tutto per me?». Stranamente, o forse no - scrive Valter Vecellio su “L’Opinione” - sarebbe stato strano il contrario, quasi tutti i giornali (non più di un paio le eccezioni), ricordando Franco Califano, hanno fatto cenno alle disavventure giudiziarie del “Califfo” limitandole alla vicenda che portò in carcere Walter Chiari e Lelio Luttazzi, per uso e spaccio di droga. E anche su questo si potrebbe dire: che ogni volta che richiama in causa Luttazzi si dovrebbe aver cura di ricordare che “el can de Trieste” era assolutamente estraneo ai fatti contestati, solo tardivamente venne riconosciuto innocente, patì una lunga e ingiusta carcerazione, e da quell’esperienza ne uscì schiantato. Luttazzi a parte, Califano venne coinvolto, ficcato a forza è il caso di dire, nella vicenda che in precedenza aveva portato in carcere Enzo Tortora, nell’ambito di quell’inchiesta che doveva essere il “venerdì nero della camorra” e fu invece un venerdì (e non solo un venerdì) nerissimo per la giustizia italiana. Califano ci raccontò che ad accusarlo erano due "pentiti": Pasquale D' Amico e Gianni Melluso, "cha-cha". Ma D' Amico poi aveva ritrattato le sue accuse. Melluso, invece le aveva reiterate, raccontando di aver consegnato droga a Califano in un paio di occasioni: nel sottoscala del "Club 84", vicino a via Veneto, a Roma; e successivamente nell'abitazione del cantante a corso Francia, sempre a Roma. Solo che nel "Club 84" il sottoscala non c’era; e Califano in vita sua non ha mai abitato a corso Francia. Infine Califano, in compagnia di camorristi, avrebbe effettuato un viaggio da Castellammare fino al casello di Napoli, a bordo di una Citroen o di una Maserati di sua proprietà; automobili che Califano non ha mai posseduto. Califano ci raccontò che le accuse nei suoi confronti erano solo quelle di cui s’è fatto cenno; e che non si siano svolte indagini e accertamenti per verificare come stavano le cose non sorprende col senno di poi, e a ricordare come l’inchiesta in generale venne condotta. E sulle modalità investigative, può risultare illuminante un episodio in cui sono stato coinvolto. Anni fa, chi scrive venne convocato a palazzo di Giustizia di Roma, per chiarire – così si chiedeva da Napoli – come e perché in un servizio per il “Tg2”, “in concorso con pubblici ufficiali da identificare”, avevo rivelato «atti d’indagine secretati consistenti in stralci della deposizione resa in una caserma dei carabinieri dal pentito Gianni Melluso sulla vicenda Tortora». Ed ero effettivamente colpevole: avevo infatti raccontato che Melluso aveva ritrattato tutte le sue accuse; e che assieme a Giovanni Panico e Pasquale Barra aveva concordato tutto il castello di menzogne e calunnie; un segreto di Pulcinella, tutto era già stato pubblicato dal settimanale “Visto”; e il contenuto degli articoli anticipati e diffusi da “Ansa”, “Agenzia Italia” e “AdN Kronos”. Dunque, sotto inchiesta per aver ripreso notizie (vere) pubblicate da un settimanale e da agenzie di stampa. Evidentemente dava fastidio la diffusione in tv... Queste le indagini; e dato il modo di condurle, non poteva che finire in una assoluzione piena: per Tortora, per Califano, e per tantissimi di coloro che in quel blitz vennero coinvolti. Ma a prezzo di sofferenze indicibili e irrisarcibili. Indagini che la maggior parte dei cronisti spediti a Napoli, presero per buone, e furono pochi a vedere quello che poteva essere visto da tutti. È magra consolazione aver fatto parte di quei pochi; e non sorprende che questa vicenda la si preferisca occultare e ignorare. Ed ancora. Per i pubblici ministeri Vincenzo Barba e Francesca Loy, Stefano Cucchi «è morto di fame e di sete». "Tutti volevano farsi grandi con la morte di Cucchi", ha accusato il pubblico ministero Vincenzo Barba. Che ha ricordato le difficoltà affrontate nel corso delle indagini a causa ''del clamore mediatico insopportabile'' e in particolare per proteggere quello che ritiene essere il testimone ''credibile'', l'immigrato Samura Yaya. "Abbiamo avuto l'esigenza di tutelarlo come fonte di prova - ha continuato Barba - A un giorno dall'incidente probatorio tutti hanno tentato di raggiungerlo, anche il senatore Stefano Pedica. Noi abbiamo dovuto fare una lotta impari per difendere la nostra fonte di prova da un attacco politico e giornalistico, tutti volevano farsi grandi con la morte di Cucchi. Il processo è stato difficile - ha detto il pm Barba - anche a causa di varie rappresentazioni dei fatti che sono state portate fuori dal processo. I mass media hanno influito sull'opinione pubblica. C'è chi ha voluto dare una rappresentazione della realtà diversa da quella emersa dal processo''. «Riteniamo inaccettabile e gravemente offensive le dichiarazioni del pm Barba sul conto di Stefano e di tutti noi - commenta la sorella Ilaria Cucchi - Continuo a chiedermi chi sono gli imputati nel processo per la morte di mio fratello. Non posso accettare che non venga riconosciuta la verità su quello che è successo a Stefano tutto il resto non mi interessa - ha aggiunto con gli occhi lucidi - La verità la sanno tutti. Io, speravo che entrasse anche nell'aula di giustizia e continuo ad avere fiducia nella Corte: ripongo in loro tutta la mia fiducia, perché ogni risposta che non sia coerente con quanto accaduto a Stefano, ogni risposta ipocrita noi non la possiamo accettare. L'atteggiamento che abbiamo notato oggi in aula è perfettamente coerente con quello che e stato l'atteggiamento della procura per tutta la durata del processo, tanto che spesso viene da chiedersi chi sono gli imputati nel processo per la morte di mio fratello. La responsabilità dei medici è assolutamente gravissima e innegabile, loro non sono più degni di indossare un camice, questo lo abbiamo sempre detto e continueremo a sostenerlo fino alla morte. Loro avrebbero potuto salvare mio fratello e non lo hanno fatto, si sono voltati dall'altra arte e non si può far finta di niente, come non si può far finta che Stefano sarebbe finito in quell'ospedale per cause che non c'entrano con il pestaggio. Non si può negare che Stefano fino a prima del suo arresto conduceva una vita assolutamente normale. Abbiamo discusso per anni con la procura della frattura di l3. Ora apprendo che si è concordemente riconosciuto che gli accertamenti ed i prelievi sono stati fatti sulla maggior parte della vertebra lasciando fuori proprio quella in discussione. In particolare i consulenti del Pm hanno prelevato tessuto osseo della vertebra nella parte opposta ed interna dove, guarda caso , vi era una vecchia frattura . Non solo, ma poi è emersa evidente un'altra frattura ad l4, cioè così vicina e sotto ad l3 da non poter non far pensare che entrambe siano state procurate a Stefano con un calcio od un colpo diretto proprio in quella zona. Tutti i medici che lo visitarono notarono segni evidenti e particolare dolore lamentato da mio fratello proprio lì. Gli stessi consulenti del Pm hanno fotografato abbondante sangue sui muscoli della stessa zona, che, visti al microscopio, risultano anche lacerati. Insomma la schiena di Stefano è massacrata di fratture e la procura procede per lesioni lievi. Ora, dopo aver detto che la frattura di l3 su cui i miei consulenti discutevano, era in realtà vecchia, mi aspetto che su quella di l4 si dica che se l'è procurata da morto. Siamo veramente stanchi di questo teatrino tragicomico». Ed ancora. La madre di Yara Gambirasio, Maura Panarese, ha scritto al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a più di due anni dalla morte della figlia. Il testo della lettera parla di "Scarsa collaborazione degli investigatori con la parte lesa". E' quanto rivela la puntata "Quarto Grado" andata in onda venerdì 25 gennaio 2013. Secondo quanto riferito dalla trasmissione, nella lettera inviata al Capo dello Stato, la madre di Yara esprime le proprie critiche nei confronti di chi ha eseguito l’inchiesta. Un’indagine che si è concentrata, prima sul cantiere di Mapello, poi sull’ipotetico figlio illegittimo di un autista bergamasco morto da anni, basandosi sul Dna. La donna manifesta dunque al Presidente Napolitano tutto il dolore e lo sconforto perchè, dopo anni d’indagini, la figlia non ha ancora avuto giustizia. A proposito del delitto di Sarah Scazzi e di Yara Gambirasio e gli autogol della giustizia e del giornalismo italiano. Vi ricordate il caso di Giusy Potenza, antesignano del delitto di Avetrana? Giusy Potenza viene uccisa a Manfredonia con una grossa pietra. Il suo corpo è ritrovato il pomeriggio successivo all'omicidio sulla scogliera, vicino allo stabilimento ex Enichem. In un bar del centro di Manfredonia Carlo Potenza, padre di Giusy, accoltella per vendetta Pasquale Magnini, padre di una delle ragazze arrestate con l'accusa di aver indotto Giusy alla prostituzione. Il suicidio di Grazia Rignanese madre di Giusy Potenza è l'ultimo episodio di un caso che ha sconvolto l'esistenza della famiglia Potenza e scosso la cittadina di Manfredonia, in provincia di Foggia. Il caso scuote la città del Gargano che viene assediata nei giorni successivi dalle tv nazionali e locali in cerca di risoluzioni per quello che diviene un caso di cronaca nazionale. È stato un periodo di tensione e terrore, quello che si è consumato a Manfredonia, sessantamila abitanti, una quarantina di chilometri da Foggia. Per mesi questa fetta del Gargano è stata sotto shock per la tragica fine di Giusy, uccisa a colpi di pietra da Giovanni Potenza, un pescatore di 27 anni, che 40 giorni dopo (il 23 dicembre 2004) venne arrestato dalla polizia e che confessò l'omicidio: l'uomo, un cugino del padre della ragazza, ha ammesso di aver colpito la vittima con una pietra perché tra loro c'era una relazione e lei minacciava di raccontare tutto a sua moglie se l'avesse lasciata. Il ricordo della povera Giusy è ancora vivo in tutta la comunità accusata a suo tempo di omertà come tutte le comunità che subiscono vicende analoghe. Una vicenda drammatica con molti colpi di scena seguitissima da stampa e tv. Speciali tv sono stati dedicati al caso dalla solita Rai Tre con il programma “Ombre sul giallo”, ideato, scritto e condotto da Franca Leosini. Entrano nell'inchiesta altre due ragazze: si tratta di Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Magnini, che vengono arrestate con l'accusa di favoreggiamento e false dichiarazioni, oltre che di induzione e sfruttamento della prostituzione. Intanto l’8 ottobre 2011 per quel delitto il pianto liberatorio delle due amiche accompagna la lettura della sentenza del presidente della sezione “famiglia” della corte d’appello di Bari, che ribalta il verdetto di primo grado di condanna a 4 anni di carcere a testa per favoreggiamento della prostituzione emessa dal Tribunale di Foggia l’11 ottobre del 2007. Sabrina Santoro, 30 anni, e Filomena Rita (Floriana) Mangini di 25 anni, non hanno favorito la prostituzione di Giusy Potenza, la quattordicenne sipontina ammazzata a pietrate il 13 novembre del 2004 da un procugino con il quale aveva una relazione clandestina, che lei minacciava di rivelare se lui non avesse lasciato la moglie. Le due imputate sono state assolte per non aver commesso il fatto, dopo due ore di camera di consiglio; pg e parte civile chiedevano la conferma della condanna a 4 anni, la difesa l’assoluzione. Le ragazze accusate malamente in vario modo si rammaricano del fatto che i giornali e le tv pronti ad infierire con accanimento mediatico su di loro, nel momento in cui vi è stata per loro stesse una sentenza di assoluzione, omertosamente i medesimi giornalisti hanno censurato la notizia, tacitando gli errori dei magistrati. Sono loro a gridare con una testimonianza esclusiva al dr Antonio Giangrande, scrittore (autore anche del libro su Sarah Scazzi, già pubblicato sul web) e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. In sintesi il loro pensiero conferma un tema ricorrente identico a sé stesso: povero territorio e poveri protagonisti della vicenda, vittime sacrificali di un sistema mediatico che nell’orrore e nella persecuzione ha la sua linfa. Si inizia con uno strillio del citofono, con le forze dell’ordine che ti cercano. In quel momento ti casca il mondo addosso. E’ un uragano che ti investe. Ti scontri con procuratori della repubblica innamoratissimi della loro tesi di accusa, assecondati dal Tribunale della loro città e sostenuti da giornalisti che pendono dalla loro bocca o che si improvvisano investigatori. E l’opinione pubblica, influenzata dalla stampa, ti odia fino ad augurarti la morte. «Dalla sentenza che ha acclamato la nostra estraneità ai fatti, nessuno ci ha cercato per ristabilire la verità e per renderci la nostra dignità e la nostra reputazione. Chi è schiacciato dal tritasassi della giustizia, anche se innocente, è frantumato per sempre». E’ il pensiero di Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Magnini, ma possono essere le affermazioni di migliaia di innocenti che da queste vicende ne sono usciti distrutti. Certo Giusy Potenza merita la nostra attenzione, ma non meritano forse analoga compassione le altre vittime di questa vicenda? Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Mangini additate da tutti come “puttane” che hanno indotto Giusy alla prostituzione e accusate di essere state responsabili indirettamente della sua morte. Bene se nessuno lo fa, sarò io a ristabilire la verità e a dar voce a quelle vittime silenti, che oltraggiate dalla gogna mediatica, non sono mai oggetto di riabilitazione da parte di chi ha infangato il loro onore. Quei media approssimativi e cattivi che si nutrono delle disgrazie altrui. La verità si afferma dall’alto di un fatto: una sentenza definitiva di assoluzione. La verità tratta da un fatto e non dedotta da un opinione di un giornalista gossipparo. Il fenomeno Vallettopoli era appena cominciato: un tormentone mediatico che aveva trasformato la tranquilla e sonnecchiante città di Potenza in un vero e proprio “ombelico del mondo”, scriveva Stella Montano sul “Quotidiano della Basilicata”. Giornalisti, reporter, fotoreporter, cameraman di testate giornalistiche e agenzie di stampa di tutt’Italia, tutti a Potenza, per studiare da vicino quella che sarebbe stata una delle inchieste più discusse degli ultimi anni; ma anche autisti, avvocati, segretari, agenti di spettacolo al servizio di veline e soubrette, di attori e calciatori, chiamati a rispondere alle difficili domande del pm che aveva aperto le indagini sulle presunte estorsioni ai danni di vip, attività che aveva fatto la fortuna dell’agenzia “Corona’s”, il cui logo, in quel periodo era diventato uno status symbol, consolidato persino dinanzi al carcere di Potenza, il 29 marzo del 2007, giorno del suo 33esimo compleanno, festeggiato dai suoi collaboratori più fedeli con una grande torta e con tanto di candeline. Albergatori e ristoratori felici del tutto esaurito; trovare un posto libero in un pub o in una pizzeria era diventata un’impresa. Esaurite sin dalle prime ore del mattino le copie di quotidiani, settimanali e periodici: la voglia di leggere era diventata dilagante, dirompente. Per i 3 tassisti in servizio in città, spola ininterrotta dalla stazione al tribunale, dagli alberghi al carcere: un lavoro così estenuante a Potenza non si era mai visto. Come non si era mai visto che qualcuno prendesse addirittura dei giorni di ferie dal lavoro per non perdersi uno spettacolo “live” senza eguali, tra le inferriate del Tribunale. Tra flash e microfoni buttati letteralmente in aria, il passaggio super scortato di Raoul Bova, Loredana Lecciso, Diego Della Valle, Fernanda Lessa, Nina Moric, aveva mandato in visibilio anche studenti, adolescenti e ragazzine, pronte ad immortalare con un flash quel passaggio dorato di vittime/carnefici del “sistema Corona”. Girandola di starlette e paillettes che in quei giorni avevano di fatto trasformato la visione del capoluogo lucano agli occhi del mondo mediatico. Merito di quel “pm biondo che faceva impazzire il mondo” che aveva scoperchiato le malefatte di un “ragazzo insolente” di nome Fabrizio Corona. Qualcuno aveva persino proposto di far diventare Henry John Woodcock «assessore al turismo del comune di Potenza». Starlette, gossip ed inchieste giudiziarie. Le tante Ruby dell’informazione e della giustizia italiana. Guerra, Berardi, Polanco, Faggioli… Che fine hanno fatto le “olgettine”? Qualche anno fa non si parlava che di loro, oggi sono quasi dimenticate. Da Barbara Guerra a Iris Berardi, da Marysthell Polanco a Barbara Faggioli. Che fine hanno fatto le cosiddette ragazze del bunga-bunga? E quelle che abitavano nell’ormai famigerato appartamento di via Olgettina, a Milano? Non si parlava d’altro, i quotidiani erano ricchi tutti i giorni di notizie e segnalazioni sulle loro imprese e i rotocalchi si contendevano le loro immagini «rubate» durante costosissime incursioni nel quadrilatero della moda, in centro a Milano, per l’immancabile shopping quotidiano. Erano tante le ragazze in qualche modo entrate nell’elenco delle donne attribuite a Silvio Berlusconi. “Oggi” le aveva contate una a una: da Nicole Minetti a Maryshtell Garcia Polanco, da Roberta Bonasia a Barbara Faggioli, da Alessandra Sorcinelli a Iris Berardi, per non parlare di Ruby Rubacuori. L’elenco, alla fine, ne conteneva ben 131. È passato, come dicevamo, solo qualche anno. Per qualcuno il ricordo di quelle ragazze è già sbiadito. Per altri sono rimaste nella memoria collettiva. «Subisco dai giudici violenza psicologica, una vera e propria tortura, una pressione insostenibile». Lo ha detto Ruby, all’anagrafe Karima El Mahroug, la giovane marocchina al centro del processo sui festini hard nella residenza di Silvio Berlusconi ad Arcore, che il 4 aprile 2013 ha inscenato una protesta contro i magistrati davanti al Palazzo di Giustizia di Milano. La giovane ha letto un comunicato stampa lungo sei pagine sulle scale del tribunale e si è presentata con un cartello che recitava 'Caso Ruby: La verità non interessa più?'. Protesta anche contro la stampa, che a suo parere strumentalizza la sua storia: «Per colpire Berlusconi la stampa ha fatto male a me. Oggi ho capito che è in corso una guerra contro Berlusconi e io ne sono rimasta coinvolta, ma non voglio che la mia vita venga distrutta». Ruby ha letto un comunicato che ha consegnato ai giornalisti presenti. «La colpa della mia sofferenza è anche di quei magistrati che, mossi da intenti che non corrispondono a valori di giustizia, mi hanno attribuito la qualifica di prostituta, nonostante abbia sempre negato di aver avuto rapporti sessuali a pagamento e soprattutto di averne avuti con Silvio Berlusconi. Non sono una prostituta. Nessuno ha voluto ascoltare la mia verità, l’unica possibile. Voglio essere ascoltata dai magistrati per dire la verità, sono la parte lesa in questa vicenda. Voglio protestare per non essere stata sentita. Non ne capisco la ragione e intendo dirlo pubblicamente. La violenza che più mi ha segnato è stata quella del sistema investigativo. Dei ripetuti interrogatori che ho subìto, soltanto alcuni sono stati messi a verbale. Trovo sconcertante e ingiusto che nessuno voglia ascoltarmi, soprattutto perché secondo l'ipotesi accusatoria io sarei la parte lesa, secondo la ricostruzione dei pm sarei la vittima. Oggi dopo aver sopportato tante cattiverie sono qui a chiedere di essere sentita. Sono vittima di uno stile investigativo e di un metodo fatto di domande incessanti sulla mia intimità, le propensioni sessuali, le frequentazioni amorose, senza mai tenere conto del pudore e del disagio che tutto ciò provoca in una ragazza di 17 anni. A 17 anni non sapevo nemmeno chi fossero i pm, non leggevo i giornali, a malapena sapevo chi fosse Berlusconi. Oggi ho capito che è in corso una guerra nei suoi confronti che non mi appartiene, ma mi coinvolge, mi ferisce. Non voglio essere vittima di questa situazione non è giusto. Chiedo che qualcuno ascolti quello che ho da dire, voglio raccontare l'unica verità possibile e lo voglio fare in sede istituzionale. La violenza che più mi ha segnato è stata quella di essere vittima di uno stile investigativo fatto di promesse mai mantenute di aiutarmi a trovare una famiglia e di proseguire gli studi. Alla pressione incessante dei magistrati ho ceduto: era più facile dire sì e raccontare storie inverosimili, piuttosto che farmi angosciare o peggio far accettare la verità che avrei voluto raccontare. Ho deciso di parlare per rispondere a chi, magistrati e giornalisti inclusi, mi ritiene una poco di buono. Sono spiaciuta di aver fatto una cavolata dicendo che ero parente di Mubarak». E contro i magistrati: «Non c’è la prova che mi prostituissi, l’atteggiamento degli investigatori fu amichevole poi cambiò quando capirono che non avrei accusato Silvio Berlusconi. A quel punto sono iniziate le intimidazioni subliminali, gli insulti nei confronti delle persone che mi avevano aiutato...una vera e propria tortura psicologica. Una volta - ha raccontato ancora Ruby - non potendone più sono addirittura scappata dalla comunità di Genova in cui mi trovavo per non dover subire ancora quella pressione e l'unico che si preoccupò e mi convinse a rientrare è stato un amico al quale sono tuttora affezionata. Sono rientrata e di fronte alla pressione incessante dei magistrati ho ceduto: era più facile dire sì e raccontare storie inverosimili piuttosto che farmi angosciare o peggio far accettare la verità che avrei voluto raccontare. Mi sono resa conto - ha continuato - che a loro non interessava nulla di me. Ho raccontato di aver incontrato persone che conoscevo solo grazie ai rotocalchi, come Cristiano Ronaldo o Brad Pitt e dentro di me mi domandavo come fosse possibile che non si accorgessero che erano frottole. Questa è stata la peggiore delle violenze che ho subito, oltre alle costanti diffamazioni riportate dalla stampa alle quali mi pento di non aver reagito prima. Ho raccontato tante bugie, anche ai magistrati, perché mi vergognavo di me, del posto in cui sono nata, della mia famiglia, dei piccoli lavori di fortuna che sono stata costretta a fare per racimolare qualche spicciolo. Per questo ho raccontato bugie per sentirmi diversa e per convincere anche gli altri che lo fossi davvero, diversa come avrei voluto essere sempre. Mi spiace aver raccontato queste bugie anche a Silvio Berlusconi, il quale, oggi, sono sicura, si sarebbe dimostrato rispettoso e disposto ad aiutarmi anche se avessi detto la verità. La verità è che vengo da una paesino che si chiama Letojanni e che la mia famiglia vive in condizioni di grande precarietà. La verità è che per tanto tempo volevo essere un'altra persona e adesso pago il conto: il rischio di vivere il resto della mia vita con appiccicato il marchio infamante della prostituta che qualcuno ha voluto affibbiarmi a tutti i costi. Quanto alla finta parentela, «mi spiace di aver detto altre bugie sulle mie origini, ho giocato di fantasia perché il vecchio passaporto me lo ha permesso». E, per essere ancor più credibile, la giovane marocchina ha mostrato ai giornalisti un falso passaporto nel quale compariva il nome di Mubarak. «Presentarmi come la nipote di Mubarak - ha aggiunto Ruby - mi serviva a costruire una vita parallela, diversa dalla mia. Mi serviva a mostrare un’origine diversa, lontana dalla povertà in cui sono nata e cresciuta e dalla sofferenza che ho patito prima e dopo aver lasciato la mia famiglia in Sicilia. Ho subito un ennesimo episodio di intolleranza, quando la domenica di Pasqua una persona guardando mia figlia ha detto “spero che non diventi come sua madre”. Voglio che si sappia che la colpa è di quella stampa che per colpire Silvio Berlusconi ha fatto del male a me. Parlo di quei giornalisti che mi hanno violentato pubblicando le intercettazioni telefoniche che mi riguardavano». La ragazza ha spiegato di essere stata «umiliata per troppo tempo» e, ha aggiunto, «se questo è il Palazzo di Giustizia voglio che giustizia sia fatta». «Non voglio - ha concluso Ruby - essere distrutta, non voglio che venga distrutto il futuro di mia figlia a causa di un gioco pericolosissimo molto più grande di me nel quale sono stata trascinata con violenza quando avevo solo 17 anni. Voglio che mia figlia sia fiera di me». Intanto la «strega» diventa oggi l’ultima fatica letteraria di Mario Spezi in “L’angelo dagli occhi di ghiaccio” che sarà in libreria a fine marzo 2013 ma solo in Germania, perché gli editori italiani e quelli americani non lo hanno voluto stampare. Questa volta non è una ragazza chiamata Sabrina, ma una ragazza chiamata Amanda. Lasciatasi alle spalle la drammatica esperienza del Mostro, Spezi con il suo amico Douglas Preston, scrittore americano impegnato anche lui nella controinchiesta sui delitti di Firenze, in questo libro non raccontano solo la lunga vicenda giudiziaria di Amanda e Raffaele ma stabiliscono un inquietante collegamento fra l’inchiesta sul Mostro di Firenze e l’omicidio di Meredith. Due inchieste condotte dallo stesso Pm, Giuliano Mignini: «Con gli stessi argomenti», scrivono Spezi e Preston. «Rituali osceni, riti satanici, orge di sesso e sangue, omaggi a Satana, come aveva predetto una “santona” che, con le sue rivelazioni, aveva dato un contributo importante al magistrato nelle indagini sul Mostro». Amanda sembra non avere dubbi. «Contro di lei uno stillicidio che ha influito sulle persone». «L’aveva intuito anche Raffaele Sollecito che pochi giorni dopo la sua assoluzione mi confidò: “Ho capito benissimo che la mia storia è stata solo l’apice di quella di Mignini e dell’indagine perugina sul Mostro di Firenze”», rivela Spezi. Che aggiunge: «Senza l’antefatto del Mostro non si capisce fino in fondo cosa sarebbe avvenuto a Perugia nei quattro anni successivi. Un antefatto che aprì le porte dei tribunali a una nuova versione dell’antica caccia alle streghe». Ma come è stata costruita la «strega Amanda»? Spiega Spezi: «Con uno scientifico stillicidio di notizie a senso unico iniziato poche ore dopo il suo arresto. Non dimentichiamoci che quattro giorni dopo gli inquirenti annunciarono: “Il caso è chiuso”. Oggi sappiamo che nessuno di loro è colpevole. Ma in primo grado Raffaele e Amanda furono condannati. E l’opinione pubblica era colpevolista. Per loro fortuna i giudici dell’Appello fecero fare una nuova perizia scientifica e il risultato per l’Accusa fu uno tsunami: “Tutti gli accertamenti tecnici svolti prima non sono attendibili”, stabilirono i nuovi periti. Malgrado ciò fuori dal Tribunale la sera dell’assoluzione centinaia di persone accolsero la sentenza urlando: “Vergogna”. Evidentemente erano manipolati da una falsa informazione. Per loro la strega doveva finire al rogo. Tutti i mezzi di informazione diedero il massimo risalto all’assoluzione ma ben pochi indagarono sul perché era avvenuta una storia tanto grave. E ancora oggi in America chi osa difendere Amanda rischia addirittura l’incolumità. Ne sa qualcosa il mio amico Preston che sul suo blog riceve spesso pesanti minacce». Sul delitto di Sarah Scazzi sono stati scritti fiumi di parole e mandati in onda migliaia di ore di disquisizioni giornaliere sull’argomento, in salotti con gente che si improvvisava esperta di sociologia e di diritto. Avetrana è stata invasa da orde di giornalisti, ognuno portatore di pregiudizi e luoghi comuni. Sentimenti che hanno trasbordato ai loro lettori. Io conoscitore attento delle vicende umane in Italia in tema di violazione dei diritti umani in ambito della giustizia e dell’informazione, ho voluto riportare un punto di vista oggettivo che nessuno mai ha ed avrebbe avuto il coraggio di riportare. La storia di Sarah da me riportata è intrisa di storie analoghe alla sua. Ho rapportato il comportamento di media e magistratura per poter fare un parallelismo tra le varie vicende. Chi legge i miei libri, e quello su Sarah Scazzi in particolare, non rimarrà deluso, ma si arricchirà di informazioni mai da alcuno riportate. Per esempio nessuno ha mai parlato di Valentino Castriota, il portavoce della famiglia Scazzi, che nelle prime settimane viveva in quella casa. Il Castriota non è stato mai chiamato a riferire quanto lui avesse saputo in quei giorni. Come strano è – così come ha sottolineato Franco De Jaco, difensore di Cosima Serrano, criticando l’operato della Procura – il perché, quando si è accertato che Sarah, uscita da casa, era arrivata in quella dei Misseri, non è stata sequestrata l’abitazione dei Misseri?» Tutto sbagliato, tutto da rifare: la disastrata malagiustizia all’italiana funziona così. E’ d’accordo con me Luca che scrive su “Menti Informatiche”. Processi che durano una vita e non concludono nulla; indagini che non finiscono mai; sentenze parziali e pasticciate che non reggono l’urto dell’analisi logica e costringono spesso a ricominciare tutto daccapo. Non a caso, nella speciale classifica redatta dalla Banca mondiale sul funzionamento della giustizia, l’Italia si piazza al 155° posto su 185 Paesi: siamo meglio dell’Afghanistan, ma peggio della Sierra Leone, del Malawi, dell’Iraq e della Bolivia. Per celebrare il più clamoroso processo penale di tutti i tempi, quello che nel 1946, a Norimberga, giudicò e condannò i crimini del Terzo Reich e dei gerarchi e militari nazisti, cioè 12 anni di storia, bastarono 11 mesi. Al 4 aprile 2013, dopo cinque anni e quattro mesi, noi ancora non sappiamo cosa successe veramente nella villetta di Perugia dove fu uccisa Meredith Kercher; dopo cinque anni e sette mesi, ignoriamo chi sia l’assassino di Chiara Poggi a Garlasco; dopo due anni e sette mesi dall’uccisione di Sarah Scazzi ad Avetrana si è ancora al primo grado; dopo due anni e quattro mesi, brancoliamo nel buio per l’omicidio di Yara Gambirasio a Brembate. Ci sono voluti 22 anni per ritrovarsi al punto di partenza sul mai risolto assassinio di Simonetta Cesaroni, in via Poma, a Roma; 20 anni per scoprire finalmente che l’omicida della contessa Alberica Filo Della Torre, all’Olgiata, è, nel la più classica tradizione giallistica, il maggiordomo filippino Manuel Winston, peraltro in chiodato da una intercettazione disponibile tre giorni dopo il delitto che però non fu mai ascoltata; 20 anni per avere la certezza che se le indagini sulla scomparsa di Elisa Claps a Potenza nel 1993 fossero state svolte con un minimo di competenza, il caso si sarebbe risolto in poche ore e forse Danilo Restivo non avrebbe ucciso nel 2002 in Inghilterra la sartina Heather Barnett. A proposito, qualcuno dovrà pur spiegare ai genitori della studentessa inglese Meredith Kercher, come mai un tribunale di Sua Maestà ha impiegato un anno e l i giorni per arrestare e condannare Restivo all’ergastolo, mentre noi siamo ancora in alto mare nel delitto di Perugia. Secondo le statistiche europee, i processi penali in Italia durano in media otto anni; negli altri Paesi dell’Unione, al massimo tre; negli Stati Uniti, invece, si va da un minimo di un giorno a un massimo di una settimana per la stragrande maggioranza dei casi. In Norvegia, sono bastate 10 settimane per processare e condannare Anders Breivik, autore della strage di Utoya (77 persone uccise a fucilate). Da noi ci sono processi, quelli privilegiati, accelerati perché illuminati dal faro mediatico, che avanzano faticosamente al ritmo di un’udienza a settimana e processi che si inceppano per fatti incredibili: a gennaio 2013 la Corte di Cassazione ha annullato per vizio di forma il deposito delle motivazioni del processo «Crimine infinito» sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Lombardia (110 persone condannate) perché la stampante si era rotta e mancavano 120 delle 900 pagine.
Da queste sue parole si evince che lei non ha remore a parlare degli errori, veri o presunti, commessi dai magistrati di Taranto.
«I magistrati di Taranto ed il loro operato. Il solo che si è ribellato allo strapotere dei magistrati tarantini in ambito locale è stato il dr. Antonio Giangrande, me medesimo. Io ho presentato svariate denunce a Potenza e presso altre procure competenti, quando Potenza non è intervenuta per abuso ed omissione commessi presso gli uffici giudiziari Tarantini. Naturalmente, lasciato solo, non potevo che subire l’onta del linciaggio, dell’accusa di mitomania o pazzia e dell’accanimento giudiziario, che nei miei confronti non ha prodotto alcuna condanna penale per reati d’opinione. Oggi non sono più solo. Anche l’Ilva con un esposto a Potenza denuncia i magistrati tarantini: "Accanimento contro di noi. Verificate se hanno commesso reati". La denuncia è stata depositata negli ultimi giorni di marzo 2013 da parte dell'avvocato Leonardo Pace per conto dello studio De Luca di Milano che segue l'azienda. Non dall’avvocato tarantino che segue gli interessi dell’azienda. Egidio Albanese, avvocato già presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto ed in buoni rapporti istituzionali con quei magistrati. D'altronde un ex prefetto e i magistrati erano fatti appositamente per lavorare a braccetto. Invece sono finiti in tribunale: il presidente dell'Ilva Bruno Ferrante, noto per la sua moderazione e la stima che ha nella magistratura, ex Prefetto di Milano già candidato a Milano proprio per il centrosinistra, ha denunciato in procura a Potenza i magistrati tarantini che si stanno occupando del siderurgico e i custodi incaricati di vigilare il sequestro. A Taranto i magistrati non applicano la legge: loro SONO LA LEGGE. Questo atteggiamento li ha portati a disapplicare le leggi dello Stato, ma per la Corte Costituzionale la legge salva-Ilva è legittima. E dunque il colosso dell'acciaio può continuare a produrre. Perché quelle norme varate per permette all'azienda di restare in vita "non hanno alcuna incidenza sull'accertamento delle responsabilità nell'ambito del procedimento penale in corso davanti all'autorità giudiziaria di Taranto". Un'interpretazione che fa a pugni con quella dei giudici tarantini per il quali autorizzare la produzione equivale a una autorizzazione a inquinare. Anzi, a continuare a inquinare. Questa la decisione presa dalla Consulta sulla legge 231/2012 varata a dicembre a stragrande maggioranza dal Parlamento, che ha convertito il decreto del governo Monti, intervenuto dopo il sequestro dell'area a caldo dello stabilimento e l'apertura della querelle giudiziaria che ha visto contrapporsi magistratura e politica nella ricerca di una soluzione per Taranto e per la salute dei suoi cittadini. L’azienda che ha anche minacciato di chiedere i danni per i mancati introiti, appellandosi proprio al via libera concesso con la salva-Ilva. Il lungo conflitto sulla legge è partito lo scorso luglio 2012: da un lato i magistrati di Taranto che indagano per disastro ambientale, dall'altro il governo e il parlamento che con la legge hanno di fatto superato quel provvedimento per evitare il blocco dell'attività del siderurgico. Per la Corte Costituzionale sono in parte inammissibili, in parte infondate le questioni di legittimità sollevate. Secondo il Tribunale, la norma con i suoi tre articoli ne viola cinque della Costituzione. Il gip Todisco, invece, ha rilevato elementi per sostenere la violazione di ben diciassette articoli della carta costituzionale. Profili di incostituzionalità - tra cui quello sul diritto alla salute e quello sull'indipendenza della Magistratura - che però non hanno retto al vaglio della Consulta, per la quale lo stabilimento tarantino può proseguire l'attività produttiva e la commercializzazione dei prodotti nonostante i provvedimenti di sequestro disposti dall'autorità giudiziaria. Una puntualizzazione di diritto al fine di spiegare l’eventuale scontato esito della denuncia a Potenza. Il diritto non prevede l’istituto dell’insabbiamento: o rinvio a giudizio per i denunciati o procedimento per calunnia contro Ferrante e Buffo. Chiaro no?!? Sono passati giorni da quando (11 novembre 2010) un magistrato della Procura della Repubblica di Taranto Matteo Di Giorgio è stato rinchiuso in casa agli arresti domiciliari dai Magistrati del Tribunale di Potenza. Magistrati denunciati proprio da Di Giorgio. Premettiamo che a marzo 2010 il Magistrato Matteo Di Giorgio aveva denunciato sia il Magistrato della Procura della Repubblica di Potenza Laura Triassi (M.D.) sia l'ex maresciallo Leonardo D’Artizio alla Procura della Repubblica di Catanzaro per abusi nelle indagini contro di lui. In pratica la dott.sa Laura Triassi si serviva per le indagini contro il collega Matteo Di Giorgio del Maresciallo Leonardo D’Artizio, sottoufficiale dell’arma non più in servizio in quanto espulso dall’Arma perché imputato di maltrattamenti e di altri gravi reati, dai quali era scaturito anche un suicidio di un carabiniere, suo subalterno. La denuncia di Di Giorgio contro la dott.sa Laura Triassi e il maresciallo Leonardo D’Artizio provocò la reazione irata dei magistrati di Magistratura democratica, i quali intimarono a Di Giorgio di chiedere lui stesso il trasferimento presso la Procura della Repubblica di Pescara, dove c’era un posto libero, pena spiacevoli conseguenze per lui. Conseguenze che poi si sono puntualmente verificate. C’è una cittadina in provincia di Taranto di 17.000 anime che si chiama Castellaneta, in cui risiedono un parlamentare del P.D Rocco Loreto ed un magistrato della locale Procura della Repubblica di Taranto Matteo Di Giorgio, i cui parenti militano politicamente nell’area di centro-destra. Nell'anno 2000 infatti il parlamentare del P.D. dopo aver perso le elezioni comunali a Castellaneta, inoltra contro il Magistrato Matteo Di Giorgio ben tre denunce penali una di fila all’altra: 6 aprile 2000, 31 maggio 2000 e 2 giugno 2000. Le denunce però vengono dirottate a Potenza (sede competente a giudicare dei reati in cui è parte lesa un Magistrato che esercita le sue funzioni nel distretto di Taranto) e - fatto imprevisto - pervengono nelle mani di John Woodkock. Woodckock non è un Magistrato condizionabile, indaga da par suo e scopre che nel 2001 il parlamentare aveva contattato un imprenditore tal Francesco Maiorino, testimone nel processo affinché calcasse la mano su Di Giorgio e lo accusasse di fatti non veri per ipotizzare una sua possibile corruzione giudiziaria. Di fronte a fatti di questa gravità Woodckock arresta il parlamentare. Però, nonostante Woodckock, il processo per calunnia va avanti molto a rilento. Ancora nell’anno di grazia 2010 per fatti che risalgono nientedimeno che al 2001, non si è ancora concluso nemmeno il giudizio di primo grado. L'11 settembre 2009 interviene una novità. Woodckock si trasferisce a Napoli e nel Tribunale di Potenza si rafforza la presenza di M.D. Per Di Giorgio inizia presso il Tribunale di Potenza un autentico calvario. Altre denunce partano dalla penna del senatore del P.D. e l’11 novembre 2010 le parti si invertono. Di Giorgio rimane parte lesa di delitto di calunnia, ma diventa imputato di concussione in un altro processo che ha origine dalle denunce di cittadini di Castellaneta chiaramente di sinistra e viene posto lui questa volta agli arresti domiciliari. Si arriva così all’assurdo che nel processo per calunnia ancora in corso Di Giorgio magistrato e parte lesa dovrebbe comparire in catene e il parlamentare imputato di calunnia contro di lui, potrebbe irriderlo dal banco degli imputati. Uno scarno comunicato dei magistrati del Tribunale di Taranto colleghi di Matteo Di Giorgio all’indomani dell’emissione del mandato di cattura contro Di Giorgio (12 novembre 2010) esprime fiducia nell’operato dei giudici di Potenza e auspica però che la vicenda si chiarisca al più presto (ergo che in pochi giorni il collega Di Giorgio sia liberato). In un paese in cui i magistrati fanno interviste e pubblicano libri parlando delle loro inchieste ancora aperte, può sembrare surreale: eppure mercoledì 20 febbraio 2013 il Consiglio Superiore della Magistratura ha punito Clementina Forleo, giudice a Milano, negandole gli avanzamenti di carriera cui avrebbe avuto diritto non solo per anzianità ma anche per le valutazioni sulla sua professionalità («eccellente») fornite dal consiglio giudiziario di Milano e acquisite nel suo fascicolo. La colpa della Forleo è essere andata anni fa in televisione, ad Annozero, denunciando le pressioni dei «poteri forti» sull'inchiesta Bnl-Unipol, ovvero sulla scalata della assicurazione «rossa» alla Banca Nazionale del Lavoro. E l'inizio dei guai della Forleo iniziò quando chiese al Parlamento di poter trascrivere le intercettazioni delle telefonate di Massimo D'Alema e del suo compagno di partito Nicola La Torre, definendoli «complici consapevoli del disegno criminoso». La storia – si diceva una volta – è fatta di corsi e ricorsi storici. Con ciò si voleva dire che la storia è composta di vicende analoghe che di volta in volta nel tempo si ripetono. Quindi è presumibile che Clementina Forleo sia stata massacrata da una azione congiunta che ha visto convergere magistrati dalemiani di M.D. e magistrati finiani di M.I. Tra questi ultimi c’è anche quell’Alberto Santacaterina all’epoca Sostituto Procuratore presso il Tribunale di Brindisi, affiliato a M.I., la corrente di destra delle toghe che fa capo a Gianfranco Fini, il quale in pratica si è clamorosamente e apertamente rifiutato di espletare indagini sulle minacce e sugli attentati subiti dalla famiglia della Forleo, non ultimo la morte dei genitori preannunciata da una lettera anonima (“i tuoi genitori moriranno e poi morirai anche tu“;) e puntualmente verificatasi venti giorni dopo a seguito di uno “strano” incidente stradale. Alberto Santacaterina finì sotto processo per questo motivo, fu a un passo dall’essere sottoposto a mandato di cattura da parte di un valoroso magistrato della Procura della Repubblica di Potenza Ferdinando Esposito per associazione a delinquere, falso, omissioni di atti d’ufficio, abuso in atti d’ufficio e altri reati. Poi, a seguito di un altro strano incidente stradale il giudice Ferdinando Esposito precipitò in una scarpata. Stette lì lì per morire, dovette abbandonare l’inchiesta che passò – provvidenzialmente per Santacaterina – nelle mani di un Magistarto di M.D. Cristina Correlae e tutto si sistemò. In seguito Alberto Santacaterina si troverà in premio a fare il Sostituto Procuratore distrettuale anti-mafia presso la Procura della Repubblica di Lecce. Alcuni Magistrati della stessa Procura della Repubblica di Lecce vorrebbero incriminare i valorosi magistrati della Procura della Repubblica di Bari Antonio Laudati, Ciro Angelillis e Eugenia Pentassuglia sulla base di una denuncia del magistrato sempre di Bari e di M.D. Giuseppe Scelsi. I Magistrati Antonio Laudati, Ciro Angelillis e Eugenia Pentassuglia sono i magistrati i quali, meritoriamente, hanno scoperchiato il pentolone puteolento della malasanità pugliese. Anche i magistrati del Tribunale di Taranto si son visti recapitare un messaggio inquietante attraverso l’arresto disposto dal magistrato di MD della Procura della Repubblica di Potenza Laura Triassi del loro valoroso collega Matteo Di Giorgio già delegato su Taranto per le indagini anti-mafia dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce diretta dal valoroso magistrato Cataldo Motta. Il mandato di cattura è stato poi in gran parte annullato dalla Cassazione ma al dott. Matteo di Giorgio continua a essere imposta la misura del soggiorno obbligato e la sospensione dal servizio e dallo stipendio che dura ormai da anni. Per aver pubblicato sul mio sito web le vicende attinenti il caso di Clementina Forleo, la Procura, il GIP ed il Tribunale di Brindisi, prima, e la Procura, il GIP ed il Tribunale di Taranto, poi, hanno pensato di incriminarmi per violazione della Privacy e di oscurare l’intero sito di centinaia di pagine, con vicende estranee a quelle oggetto di processo. Ma “un giudice a Berlino” ha rimesso le cose a posto, pronunciando l’assoluzione perché il fatto non sussiste. In questo processo, ossia nel processo per il delitto di Sarah Scazzi, quel che salta agli occhi di chi ha anche poca dimestichezza con le cose di giustizia e che palesemente si evidenzia è la incoerenza assoluta del pensiero dei magistrati. I moventi del delitto secondo l’accusa: gelosia per Ivano, anzi, no; lesione dell’onore e della reputazione familiare, anzi, no; gelosia tra sorelle. Uno vale l’altro, c’è solo l’imbarazzo della scelta. La ricostruzione del delitto secondo la procura avallata dal Gip di Taranto, in base alle motivazioni delle custodie cautelari di Pompeo Carriere e Martino Rosati: 6 ottobre 2010, Michele Misseri confessa ai carabinieri, in un interrogatorio a Taranto, di aver ucciso Sarah, strangolandola nel garage di casa dopo un rifiuto alle sue avances, e di aver abusato del cadavere in campagna. Nella notte fa ritrovare il corpo, gettato in un pozzo-cisterna, anzi, no; Sabrina (d’accordo con il padre che uccide Sarah) ha trascinato con forza nel garage la cugina Sarah con il proposito di darle una lezione, al fine di evitare che la ragazzina potesse diffondere in paese la notizia delle attenzioni sessuali riservatele dallo zio, delle quali anche Sabrina era venuta a conoscenza, anzi no; l’omicidio è stato commesso esclusivamente da Sabrina, in garage, fra le 14.28.26 e le 14.35.37, anzi no; l’omicidio è stato commesso dalla sola Sabrina, in garage, prima delle ore 14.20, anzi, no; l’omicidio è stato commesso da Sabrina, in concorso con la madre, e non più in garage, ma in casa. Inoltre, i difensori degli imputati hanno lamentato di essersi trovati di fronte a una memoria di 599 pagine depositata dal pubblico ministero che, al contrario di quanto era stato assicurato, non sarebbe una mera riproduzione della requisitoria pronunciata in aula, ma conterrebbe alcuni fatti nuovi, che stravolgerebbero la stessa e presenterebbe delle contraddizioni. Quando si pensa che in un dato ufficio giudiziario giudicante vi possa essere il dubbio che il giudizio possa esser influenzato da fattori esterni al processo, la legge dà la possibilità al cittadino di presentare alla Corte di Cassazione il ricorso per rimessione in altro luogo del processo per legittimo sospetto che il giudizio non sia sereno. E’ il ricorso per legittima suspicione. Questo ricorso è stato presentato da Franco Coppi, e non poteva essere proposto se non da un avvocato estraneo al Foro di Taranto anche per ragioni di opportunità, oltre che di coraggio, così come è stato da me presentato per le mie vicissitudini ritorsive, proprio perché, io parlando senza peli sulla lingua sono molesto ai magistrati di Taranto che, da me criticati, pretendono di giudicarmi per quello che scrivo. Purtroppo la Corte di Cassazione mai ha accolto un ricorso del genere, disapplicando di fatto una legge dello Stato per tutelare i loro colleghi magistrati, a scapito della vita di un presunto innocente, dichiarato erroneamente colpevole. Condannate, in primo grado, all’ergastolo Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano per l’omicidio di Sarah Scazzi. La Corte di Assise di Taranto ha disposto anche l’isolamento diurno di 6 mesi in carcere per entrambe. 8 anni a Michele Misseri per concorso nella soppressione del cadavere della nipote e per furto aggravato del telefonino della vittima. Condannati a 6 anni Carmine Misseri e Cosimo Cosma, fratello di Michele Misseri il primo e nipote il secondo, per concorso in soppressione di cadavere. 2 anni a Vito Russo, ex avvocato di Sabrina, condannato per intralcio alla giustizia. 1 anno a Antonio Colazzo e Cosima Prudenzano e 1 anno e 4 mesi a Giuseppe Nigro, tutti testimoni del processo condannati per falsa testimonianza, con pena sospesa. La Corte di assise di Taranto ha condannato anche Michele Misseri, Cosima Serrano e Sabrina Misseri al risarcimento dei danni, da stabilire in separata sede, alla famiglia Scazzi e al Comune di Avetrana. Nello stesso tempo ha stabilito una provvisionale di 50mila euro ciascuno ai genitori di Sarah, Giacomo Scazzi e Concetta Serrano, e di 30mila euro per il fratello Claudio. La sentenza è stata letta in aula dalla presidente Rina Trunfio che ha dovuto chiedere a forza il silenzio per fermare l’applauso spontaneo dei presenti in aula alla lettura della sentenza. Durissima la reazione alla sentenza della madre di Sarah Scazzi, Concetta Serrano Spagnolo: “chi uccide merita questo”. Le posizioni dei testimoni che non hanno testimoniato a favore dell’accusa saranno vagliate dallo stesso ufficio della procura. Come volevasi dimostrare e come già ampiamente anticipato a tutta la stampa e ad “Affari Italiani” del 15 novembre 2011 «posso profetizzare la condanna per gli imputati, in 1° e 2° grado, con assoluzione in Cassazione». D’altronde lo stesso Franco De Jaco, difensore di Cosima Serrano, aveva avvertito lo stesso sentore. «Perché qui commetterete un altro omicidio, oltre quello perpetrato in danno di una povera ragazzina. E un altro omicidio è quello di mettere in galera, all’ergastolo due innocenti, una giovanissima peraltro. E’ un altro omicidio. E’ inutile per la difesa arrampicarsi sugli specchi perché tanto la Corte, attenzione, non la gente, la Corte ha già la sentenza, ha già deciso. Quando io sento queste cose mi sento mortificato come cittadino, pur sapendo che ciò non è vero. Però quando viene trasferito questo segnale, quando viene trasferito questo pensiero, noi generiamo nella gente quello che sta avvenendo: la rivolta. Non la rivolta verso la politica; la rivolta verso le istituzioni.»
Per quanto preannunciato a tutta la stampa ed ad “Oggi” il 16 febbraio 2012, senza intenti diffamatori ho chiesto agli avvocati in causa ed a tutta la stampa: come è possibile che a presiedere la Corte d’Assise di Taranto per il processo di Sarah Scazzi, in violazione al principio della terzietà ed imparzialità del giudice, sia il giudice Cesarina Trunfio, ex sostituto procuratore di Taranto, già sottoposta del Procuratore Capo di Taranto Franco Sebastio e collega dell’aggiunto Pietro Argentino e del sostituto Mariano Buccoliero. Ex colleghi oggi facenti parte dell’attuale collegio accusatore nel medesimo processo sul delitto di Sarah Scazzi dalla Trunfio presieduto? Qualsiasi decisione finale sarà presa, sarà sempre adombrata dal dubbio che essa sia stata influenzata dalla colleganza funzionale e territoriale. Ma avvisaglie ci erano già state. Non devono essere piaciute le risposte della testimone Liala Nigro alla giudice popolare. Troppo a favore di Sabrina Misseri? Certamente quella frase sfuggita ad alta voce e detta all’orecchio della sua collega di giuria popolare non è sembrata opportuna alla difesa, tanto che l’avvocato Nicola Marseglia ha fatto presente il fatto alla presidente Rina Trunfio chiedendo l’astensione della signora. E dopo una breve riunione la giudice ha letto la sua astensione «per motivi personali». Sarà!, commenta Maria Corbi, giornalista de “La Stampa”. E il fatto che la giudice si sia astenuta certo fa pensare. E che dire dei giudizi espressi dai giudici togati. Tutto tranquillo se non foss’altro che un fuorionda tra i giudici irrompe nel processo. Presidente Trunfio: «certo vorrei sapere, là, le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati… tra di loro e se si daranno l’uno addosso all’altro.» Giudice latere Misserini: «ah, sicuramente.» Presidente Trunfio: «bisogna un po’ vedere, no, come imposteranno… potrebbe essere mors tua via mea. Non è che negheranno in radice.» Il fuori onda semina imbarazzo al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi. Nelle mani della difesa è finito un dialogo, in aula, tra il giudice Rina Trunfio, presidente della Corte di Assise, e il giudice a latere Fulvia Misserini. Le due discutono delle imputate, Sabrina Misseri e sua madre Cosima, che potrebbero, secondo le supposizioni dei giudici - sembra dalla conversazione - optare per una strategia incrociata nella difesa che le porterebbe ad accusarsi a vicenda, La conversazione è stata catturata dai microfoni delle telecamere autorizzate a riprendere il dibattimento. In particolare la frase che ha colpito gli avvocati è quella dove il presidente della corte d’assise, il giudice Cesarina Trunfio, dice: “(Non è che) negheranno in radice”. «Si evince che hanno già una ben definita opinione che non rinviene necessariamente da una valutazione attenta degli atti ma da un'idea precostituita». Spiega l'avvocato Franco De Jaco. Il professor Franco Coppi parte da solo all’attacco, e non poteva esser altrimenti, e viene seguito soltanto da un componente del collegio difensivo, Franco De Jaco, legale di Cosima, nella formulazione della richiesta di astensione dei giudici della Corte d’Assise. Ed è sulle iniziative da adottare dopo il fuorionda che si spacca l’ampio collegio difensivo. Uno degli avvocati di Cosima, Luigi Rella, dimissionario presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce, va via in netto anticipo rispetto alla fine dell’udienza. Marseglia nel corso del suo intervento spara a zero sugli inquirenti e sulla conduzione dell’inchiesta. «Vi stanno proponendo un errore giudiziario sulla base di prove acquisite in modo barbaro, in perfetto stile cubano. Sulla base di elementi forniti da testimoni che sostengono una giusta causa perché è una giusta causa, sono i metodi per sostenerla che non sono giusti, che fanno indignare e impegnano la difesa fino allo spasimo perché questo modello procedimentale, prima che processuale, non deve passare, perché questa inchiesta è stata condotta in maniera intollerabile in quanto ad acquisizione della prova. Un enorme errore giudiziario costruito su prove acquisite nel corso di deposizioni in cui gli inquirenti hanno usato metodo sbagliato che la legge vieta ». Ciò nonostante Marseglia lascia da solo il professore nell’iniziativa contro l’assise giudicante. «Non posso che invitarvi a valutare la possibilità e il dovere di astenervi», ha chiesto senza mezzi termini ai giudici. «Domani – ha aggiunto Coppi – siamo disposti a riprendere il cammino se ci verrà restituita quella serenità che in questo momento mi è stata tolta. Un difensore – spiega Coppi – non può non rappresentare ai giudici le sue perplessità e le sue preoccupazioni, il giudice ha diritto alla sua serenità ma anche il difensore ha diritto alla serenità di parlare con un giudice terzo, imparziale, che fino all’ultimo momento è disposto ad ascoltare le ragioni dell’accusa e della difesa. Con quale spirito continuiamo ad affrontare al processo? Vi chiediamo una dichiarazione che vi rassereni ma che ci chiarisca il senso di quelle frasi che suscitano preoccupazione. Ci aspettiamo dalla corte un chiarimento che ci restituisca serenità salvo decisioni diverse che potete assumere. Chiediamo che i giudici togati valutino la possibilità di astenersi». Coppi non ha gradito una frase relative a possibili strategie difensive in cui «si fa riferimento ad accordi fra i difensori, c’è cordialità ma non accordi». La presidente Trunfio, da parte sua, visibilmente contrariata, ha alzato le spalle dicendo che non dipendeva da lei tale decisione facendo così intendere di essere disposta al rischio di una ricusazione la cui ultima parola spetta, in questo caso, alla Corte d’appello del Tribunale. Medesima richiesta di astensione è stata fatta subito dopo dall’avvocato De Jaco mentre il suo collega del collegio difensivo, Luigi Rella, aveva lasciato inaspettatamente l’aula. Alla richiesta di astensione formulata dal professore si associa soltanto un componente del collegio difensivo. Ampio collegio, composto dai tantissimi avvocati, più del numero richiesto rispetto ai molti imputati. Avvocati locali, tra cui Lorenzo Bullo, difensore di Carmine Misseri e già praticante avvocato di Nicola Marseglia, di cui ha assunto il modus operandi. Franco De Jaco: «Sono frasi che ci hanno messo in allarme. E’ normale per noi che due colleghi si scambino delle opinioni ma quello che ci preoccupa è l’ultima frase, “non possono negare in radice i fatti”. Diamo la patente di buona fede a quelle dichiarazioni, non ci sono dubbi di nessun genere. Domani se noi la rivedremo qui e saremo rasserenati». Le affermazioni, che De Jaco definisce «imprudenti», anche per il difensore evidenzierebbero «una opinione già precostituita». «Non posso far finta di niente di fronte a certe affermazioni». Imbarazzante, infine, la posizione di Marseglia il quale è stato colto di sorpresa dalla mossa del professore. Da segnalare l’evidente scollamento del collegio difensivo di Sabrina Misseri. «Il mio intervento è a titolo individuale perchè non ho avuto modo e tempo di potermi consultare con l’avvocato Marseglia impegnato nella fatica della sua discussione», ha voluto precisare Coppi mentre il suo collega Marseglia dopo 7 ore di arringa lasciava il tribunale inseguito dai giornalisti ai quali ha confermato di essere all’oscuro di tutto. «Se le cose stanno come mi dite – ha poi dichiarato riferendosi al fuori onda galeotto – spero domani di sentire le spiegazioni della presidente Trunfio e di poter andare avanti con la mia arringa che è ancora impegnativa». Ma nessun avvocato del foro si associa. Solitamente sono i legali a lamentare il condizionamento ambientale dei magistrati presentando richiesta di rimessione. Evidentemente il condizionamento ambientale non vale soltanto per i magistrati. Da pensare è il fatto che un avvocato che si mette contro i giudici può rischiare di non esercitare più la professione forense (procedimenti penali pretestuosi o procedimenti disciplinari fittizi), ovvero rischia di perdere tutte le cause, ovvero rischia che i suoi protetti non passino l’esame di avvocato con i magistrati criticati nelle commissioni d’esame. Chi lo dice? Pasquale Corleto del Foro di Lecce che in riferimento all’esame di avvocato ebbe a dire: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. Questo deve far riflettere i profani del diritto. Riflessione generale sul mondo forense italico. A chiacchiere son tutti bravi. I veri avvocati si distinguono dagli “azzeccagarbugli” succubi del potere di manzoniana memoria, proprio nell’adozione di certi atti. Ma come disse don Abbondio “se il coraggio uno non ce l’ha, non se lo può dare”. Appunto e proprio per questo a Franco Coppi va il premio della Camera Penale di Bari “Achille Lombardo Pijola per la Dignità dell'Avvocato”. La decisione di assegnare il premio al prof.Coppi – è detto in una nota – è “per lo stile che ha saputo dare, quale difensore in un delicatissimo processo in terra di Puglia, esempio luminoso di professionalità e di dignità dell'Avvocato”'. Il riferimento è al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi, in cui Coppi difende Sabrina Misseri, cugina della vittima. Peccato però che gli avvocati vili e ignavi continuano sì ad esercitare in combutta con i magistrati, ma intanto a pagarne le pene sono i loro clienti. Per esempio in questo caso si noterà chi è molte spanne sopra ai colleghi, presunti principi del Foro. Chi lo dice questo? Lo dice chi principe del foro lo è davvero. Franco Coppi: «Poi c’è chi ritiene di far finta di niente e chi ha il coraggio di dire alla giudice che in questo momento non si fida.» «La difesa non è spaccata. Il professor Coppi ha sempre la forza e il coraggio di assumere tutte le posizioni che deve assumere un avvocato comode o scomode che siano». Così risponde, suo malgrado, Nicola Marseglia, l’altro difensore, con Coppi, di Sabrina Misseri. Naturalmente i media stanno lì a limitare la portata della gravità delle affermazioni ed ad affannarsi ad accusare i legali di difesa di prendere la palla al balzo per bloccare un processo terminale. Esemplare è l’editoriale pro magistrati del direttore di studio 100 tv, emittente tarantina e notoriamente vicina alla Procura di Taranto. « Insomma. Naturalmente tutti usano i mezzi possibili ed immaginabili per far vincere le proprie tesi. Sullo sfondo di queste tesi difensive, però, il ficcante lavoro della procura che abbiamo visto nelle udienze passate ha scandagliato con accuratezza la grande mole di indizi, intercettazioni, testimonianze e confidenze, entrando anche e soprattutto, non dimentichiamolo questo, nell’humus sociale, culturale e familiare nel quale si è realizzato il terribile omicidio.» Avetrana:”Humus sociale e culturale che ha prodotto il delitto; ambiente malsano scandagliato dai magistrati tarantini”, dice a mo di lacchè dei magistrati Walter Baldacconi, direttore del TG di Studio 100 tv, emittente “Padana” con sede a Taranto, diffamando il paese di Sarah Scazzi e dei Misseri, criticando le tesi difensive di Nicola Marseglia e le prese di posizione di Franco Coppi in merito al fuori onda che hanno dato l’imput all’astensione dal processo Scazzi della Trunfio e della Misserini. Sia mai che le imputate, ancora presunte innocenti, potessero uscire di galera. In seguito di ciò la Corte d’Assise di Taranto ha deciso di astenersi nel processo sull’omicidio di Sarah Scazzi trasmettendo gli atti al presidente del Tribunale dopo la diffusione del video con fuori onda tra presidente e giudice a latere. «Abbiamo chiesto ai giudici di valutare l’opportunità o meno di astenersi, abbiamo sollevato un problema come qualsiasi altro difensore degno di questo nome avrebbe fatto. I giudici hanno dato dimostrazione di scrupolo rimettendo la valutazione dell’astensione al presidente del tribunale. Non si tratta di ottenere o non ottenere qualcosa – ha aggiunto Coppi – non era un risultato al quale noi puntavamo. Abbiamo sollevato semplicemente un problema che ci sembrava non potesse non essere sollevato in relazione a delle frasi che erano state rese pubbliche. Ci atterremo alla decisione del presidente del tribunale. Chi dice che si tratta di un attacco strumentale alla Corte si deve vergognare di dirlo perchè io ero sceso a Taranto per discutere il processo. Ieri c'è stata questa sorpresa - ha aggiunto Coppi – e io, che ho insegnato sempre ai miei allievi che bisogna avere con la toga addosso di avere il coraggio di assumere tutte le iniziative che rientrano nell’interesse del cliente, ho fatto quello che la mia coscienza mi imponeva di fare. Non vado a cercare mezzucci, che me ne importa del rinvio di un giorno o di un mese in un processo dove si discute di ergastolo. Quindi chi dice queste cose è completamente fuori strada e dovrebbe anzi vergognarsi di dirle, se sono state dette.» Comunque il presidente del Tribunale di Taranto Antonio Morelli, come è normale per quel Foro, ha respinto l'astensione dei giudici Cesarina Trunfio e Fulvia Misserini, rispettivamente presidente e giudice a latere della Corte d'Assise chiamata a giudicare gli imputati al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi. I due magistrati si erano astenuti, rimettendo la decisione nelle mani del presidente del Tribunale dopo la diffusione di un video in cui erano “intercettate” mentre si interrogavano sulle strategie difensive che di lì a poco gli avvocati avrebbero adottato al processo. Secondo il presidente del Tribunale però dai dialoghi captati non si evince alcun pregiudizio da parte dei magistrati, non c'è espressione di opinione che incrini la capacità e serenità del giudizio e quindi non sussistono le condizioni che obbligano i due giudici togati ad astenersi dal trattare il processo. Il presidente del Tribunale di Taranto ha respinto l’astensione dei giudici dopo che era stata sollecitata dalle difese per un video fuori onda con frasi imbarazzanti dei giudici sulle strategie difensive delle imputate. E adesso si va avanti con il processo. Tocca all’arringa di Franco Coppi. Posti in piedi in aula. Tutti gli avvocati del circondario si sono dati appuntamento per sentire il principe del Foro. Coppi inizia spiegando il perché della loro richiesta di astensione: «L’avvocato De Jaco ed io abbiamo sollecitato l’astensione in relazione alle frasi note. Noi difensori non avremmo potuto fare nulla di diverso. Hanno detto che era un’ancora di salvezza insperata. Chi ha detto quelle cose offende quella toga che io indosso e che forse anche lui indossa. Nulla è stato fatto per rendere più difficile il cammino della giustizia. E da un mese che studiamo per l’arringa difensiva. Sono venuto a Taranto domenica scorsa con la voglia di discutere questo processo. Abbiamo appreso di questo scambio di battute, abbiamo fatto quello che tutti gli avvocati degni di questo nome avrebbero fatto. Ci siamo rimessi esplicitamente alla coscienza dei giudici, non c’era bisogno della ricusazione. Volevamo una risposta che ci acquietasse. …abbiamo parlato alle vostre coscienze…. Abbiamo messo in gioco la simpatia presso di voi, ma la toga impone iniziative di questo tipo. Noi dovevamo fare quello che abbiamo fatto. Abbiamo avuto una risposta che viene dalle vostre coscienze e spero che la vicenda sia chiusa così. Se ci saranno altri seguiti non dipenderà da noi. Credo di essere ugualmente legittimato di porre a lei il mio saluto e la dimostrazione del mio ossequio insieme all’augurio che la sentenza che voi state per pronunciare sia quale il popolo attende, ossia solamente espressione di verità e di giustizia». «Dunque ergastolo parola tanto attesa da un’opinione imbevuta di messaggi televisivi. Questa parola è stata finalmente pronunciata, non un dubbio scuote il pm e di ciò noi non abbiamo nessun dubbio. Altrimenti la richiesta sarebbe stata diversa. Dice di essere sereno, caso mai condito con un po’ di amarezza. Non importa che Michele Misseri abbia ripetuto in questa aula di essere stato lui l’unico assassino. E questo non è sufficiente a far venire un ragionevole dubbio, nonostante la sentenze della Cassazione che sottolineano come una condanna oltre ogni ragionevole dubbio debba esserci solo quando non esiste una ipotesi alternativa. E non vediamo come si possa parlare di una tesi oltre ogni razionalità umana, quando Misseri ha confessato, ha fatto ritrovare i vestiti, il cellulare, il luogo di sepoltura. Come si può pensare che questa ipotesi sia al di la della razionalità umana? …. Non riusciamo a comprendere come l’ipotesi di Michele Misseri colpevole non sia dotata di razionalità pratica. Altrimenti seguendo il ragionamento del pm dobbiamo dire che la Cassazione è ininfluente. E dobbiamo ricordare che due volte la corte di Cassazione ha dichiarato fragile l’indizio del movente gelosia, e che non ci sono sufficienti gravi indizi a carico di Sabrina. Ma questo non ha nessuna importanza per i pm. Anzi hanno la massima serenità nel chiedere la condanna all’ergastolo per questa ragazza. Un’accusa cieca che non si rende conto delle contraddizioni delle accuse con cui chiede la condanna al’ergastolo. Ha detto o non ha detto che è stato un movente d’impeto? E per questo si chiede l’ergastolo. E’ vero che viene contestato il sequestro in cui assorbe l’omicidio. Ma questo è il processo per l’omicidio di Sarah Scazzi, non di sequestro. E l’omicidio è delineato come animato da un dolo d’impeto. Nonostante tutto ciò: ergastolo. Dico questo per sottolineare alcuni aspetti dell’intervento del pm, per spiegare poi tutto l’apparato critico che intendo dispiegare per dimostrare l’infondatezza dell’impostazione del pm. Ma iniziamo con il dire che la richiesta del pm coincide con una larghissima attesa dell’opinione pubblica. Nego che il pm abbia voluto compiacere all’opinione pubblica, ma certamente c’è una corrispondenza. E una corrispondenza con le sentenze emesse nei vari salotti televisivi. Non è detto che la vox populi sia anche una vox dei. Io ricordo l’ammonizione del presidente di questa corte che ci ha avvertito che a loro interessa solo quello che accade in questa aula». Il professor Coppi parla anche di conduttori, consulenti, qualche magistrato che vanno in televisione «che senza conoscere gli atti di questo processo hanno pontificato con quella sciocca sicumera che è figlia dell’ignoranza». «Abbiamo visto anche testimoni che hanno applaudito quando Cosima è stata arrestata. Voi dovreste essere solo i notai di queste sentenza di condanna popolare. Quest’aula, anche se non ha la responsabilità di quello che accade fuori di essa, ha comunque assorbito il fastidio e l’astio nei confronti dei difensori degli avvocati di Sabrina Misseri. Non abbiamo nessuna intenzione di trasformare questa discussione in una questione personale, lasciamo perdere gli insulti di cui siamo stati oggetti. Lasciamo stare le minacce. Che ci lasciano del tutto indifferenti. Lasciamo perdere tutte le sfide, tutti i paragoni, le domande impudenti volte a sapere chi è che ha retribuito la nostra attività. E quale sarebbe il tornaconto che a noi verrebbe? A tutti ricordo che io sono un vecchio avvocato innamorato della giustizia e mi sia concesso di ripetere a voce alta: solo questo m’arde e solo questo mi innamora. Sono qui soltanto per spirito di giustizia. Non accuserei mai di un omicidio Misseri sapendo che è colpevole la mia cliente. Se posso far passare sotto silenzio le offese che riguardano la mia persona non posso far passare le offese sul merito di questa causa». «Una barzelletta è stata definita la nostra ipotesi del movente sessuale. Vedremo se questa tesi è una barzelletta. Certo non posso negare che quel giudizio non sia anche una sorprendente offesa nei confronti della mia persona. Ne parleremo a lungo della responsabilità esclusiva di Michele Misseri. Il pm dice che hanno dovuto subire una istanza di remissione, come se questo costituisse un offesa. Ma vi siete chiesti signori del pm cosa abbiamo dovuto subire noi difensori? Vi siete chiesti perché l’abbiamo chiesta? Vogliamo ricordare i motivi di quella remissione? Ma vi rendete conto che quando noi abbiamo inteso svolgere investigazioni difensive, anche solo per andare in carcere a sentire Michele Misseri, che il giudice ha imposto la presenza del procuratore della Repubblica a una attività difensiva? C’è tutta l’Italia che ride. E non dovevamo proporre un’istanza di remissione? E vi siete chiesti perché la procura generale ha espresso parere favorevole alla remissione? E vogliamo ricordare le modalità con cui si è proceduto all’interrogatorio di Michele Misseri? “Ma Michele stai tranquillo, a Sabrina non succederà niente”. Vogliamo ricordare l’incidente del giudice popolare che si è dovuto dimettere? (per avere offeso una testimone della difesa). Vogliamo ricordare la lista dei testi messi sotto processo per falsa testimonianza e favoreggiamento? Non si può dire una parola a favore di Sabrina Misseri senza finire sotto processo. Vogliamo ricordare la nomina di una consulente di Michele Misseri che data la sua specializzazione non capiamo a cosa servisse, che addirittura partecipa all’interrogatorio, che sposta il difensore per procedere lei stessa a fare domande? Anche perché questa consulente si era già pronunciata dicendo che Michele era un pedofilo, l’unico responsabile del delitto. Aveva già conquistata la ribalta televisiva accusando il suo futuro cliente. Una nomina che mi porta a pensare all’articolo 64 secondo comma, all’articolo 188 … Io mi sono dovuto ben guardare di svolgere qualche attività non per paura ma per l’interesse della mia cliente. Noi abbiamo una sola speranza e per questo abbiamo valutato l’astensione. Noi vogliamo avere la fiducia che voi signori giudice saprete allontanarvi dalle suggestioni che vengono da fuori ma anche da dentro questa aula riconoscendo le ragioni della difesa. Le nostre ragioni sono basate sui fatti non alla fantasia e attingono alla logica e al buon senso. Manzoni diceva «Il buon senso c’è, ma è nascosto dal senso comune». Noi dobbiamo guardare agli atti sostituendo al senso comune il buon senso. Uno scrittore americano ha scritto che esistono quattro categorie di giudici quelli con il cuore ma senza testa, quelli con la testa ma senza cuore, quelli senza cuore e senza testa e quelli con il cuore e con la testa. Noi siamo convinti di parlare a giudici che fanno parte di quest’ultima categoria e testa e cuore significa coscienze e cuore di un giudice che ha la forza di sconfessare i pm e di assolvere un imputato per cui è stata chiesta la pena dell’ergastolo. Tutti i nostri testimoni sono sotto processo per falsa testimonianza. Brandelli di verità che sono importanti per noi. Va punita Sarah, e la prima idea che gli viene in mente per spiegare perché Sabrina porta Sarah in garage (una delle versioni di accusa) è proprio questa. Quale valore possono avere le sue dichiarazioni dopo tante versioni? La ritrattazione della ritrattazione? Potremmo dire che una ritrattazione annulla l’altra e si deve tornare alla confessione. Ma abbiamo ben altri argomenti. Iniziamo a chiederci il valore della confessione. Come si può definire prima di riscontri la sua confessione? Visto che ha fatto ritrovare telefonino, corpo, chiavi. La confessione è comunque una prova che non esige riscontri, come stabilisce la Cassazione. Non ha bisogno di riscontri esterni. Ma quanti ergastoli sono stati dati con una semplice confessione. Michele Misseri il 6 ottobre è ascoltato come persona informata sui fatti. I pm a quel punto hanno già sospetti su Sabrina, l’hanno già ascoltata il 30 e le hanno detto che sta dicendo delle falsità pazzesche. Questo è l’atteggiamento dei pm come risulta dall’interrogatorio del 30 settembre. I pm maturano l’idea che Sabrina sappia, che sia addirittura coinvolta bell’omicidio, Ma quel 6 ottobre Misseri inizia a cadere in qualche contraddizione, sugli orari, sulla raccolta dei fagiolini. E lo incitano a dire la verità. E il pm inizia a insinuare l’idea che possa essere capitato un incidente, una disgrazia. «Si liberi un po’, ci faccia capire». La confessione spiazza i pm, bisogna nominare un difensore d’ufficio, ma la pista Sabrina non viene eliminata. E i pm non hanno la capacità di eliminare una pista a cui si erano affezionati. E iniziano gli interrogatori. Michele prima coinvolge la figlia come spettatrice (papà cosa hai fatta) , poi c’è la chiamata in correità e infine la chiamata in reità. Mi chiedo se non si siano state tecniche persuasive che hanno vincolato la libera determinazione di Michele Misseri, che non aveva la forza di resistere alle domande di un pubblico inquisitore. E’ singolare, come i mutamenti di versione avvengono quasi sempre dopo una sospensione di un interrogatorio e dopo una serie di rassicurazioni e di inviti su Sabrina. «Questo per scagionare Sabrina, Miché, stai tranquillo….». Anche Nicola Marseglia per Sabrina Misseri, nonostante il suo smisurato rispetto per i magistrati tarantini afferma che «Questo è un processo particolare, abbastanza atipico. E' il processo di Sabrina Misseri, a Sabrina Misseri. E' stato così sin dal primo momento. Il capitano Nicola Abbasciano, ex comandante del Nucleo investigativo dei carabinieri, che fu posto al vertice delle indagini, l'aveva individuata fin dal primo momento insieme a Ivano Russo – dice l'avvocato Nicola Marseglia - Si coltiva questa ipotesi di lavoro dall'inizio. La confessione di Michele Misseri - ha aggiunto Marseglia - ha spiazzato l'ufficio del pubblico ministero e ha introdotto un elemento spurio di ipotesi di lavoro a cui non aveva pensato nessuno. Da qui nasce l'equivoco nei confronti di Sabrina, che subisce una serie di aggiustamenti nel corso delle indagini che non conoscono alternative.» Questo la dice tutta sul clima che si respira a Taranto e sulla conduzione dei processi. A Taranto poi, c’è il paradosso dei rei confessi in libertà e di chi, dichiarandosi innocente, senza cedimenti e da presunti innocenti nelle more del processo, rimane per anni in carcere. A Taranto sono troppi gli errori giudiziari ed i reo confessi che non sono creduti, in onore di una tesi accusatoria frutto di un personale modo di pensare proprio di un magistrato requirente, che non può pregiudicare anni d’indagine da lui condotte, ed in virtù di un appiattimento a questa tesi dovuto ad un libero convincimento di una persona normale, suo collega, che fa il magistrato giudicante avendo vinto un concorso pubblico. Magistrati inseriti in un ambiente dove si tifa per la colpevolezza di qualcuno sotto influenza mediatica locale e nazionale. La stampa, anziché riportare i fatti e concentrasi sul perché l’evento confessato sia avvenuto, si concentra a minare la credibilità del confessore. E meno male che la confessione nel codice di procedura penale è considerata una prova regina! Sembra, infatti, che la percezione che i giurati hanno della sicurezza di un testimone, sia responsabile per un 50% delle variazioni nel loro giudizio sulla credibilità del testimone e che, in ogni caso, la maggior parte delle giurie crede che la sicurezza e la precisione di un resoconto testimoniale siano tra loro correlate positivamente, reputando più attendibile la testimonianza resa dalle forze dell'ordine o di chi riferisce nel racconto molti dettagli marginali, sopravvaluta il tempo impiegato per commettere un crimine e la possibilità di riconoscere un volto a distanza di mesi. Detto questo e in riferimento alle confessioni si richiama un altro caso. Il “killer delle vecchiette”. Ma ormai il “killer delle vecchiette” è morto. E se dalla stampa era venuto questo appellativo di killer qualche omicidio doveva pur averlo commesso, sì, ma per i magistrati di Taranto era colpevole solo per quell’unico delitto per il quale non erano stati capaci di accusare qualcuno. E' morto il 15 dicembre 2012 nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Padova il detenuto tunisino 49enne Ben Mohamed Ezzedine Sebai, conosciuto come il 'serial killer delle vecchiette', trovato impiccato il giorno prima nella sua cella del carcere di Padova. Il legale di Sebai, l’avvocato veneziano Luciano Faraon, ha anche sollevato dubbi sul fatto che il suo assistito si sia effettivamente suicidato. Secondo il legale, dopo una recente sentenza della Cassazione che ha annullato con rinvio una condanna per un omicidio commesso da Sebai a Lucera, il tunisino era infatti nelle condizioni di ottenere la revisione dei suoi processi in quanto non in grado di intendere e volere a causa di una lesione cerebrale subita da piccolo. Aveva quindi, secondo il legale, molte speranze di potere tornare a casa o in un centro adatto alla sua patologia. Condannato a cinque ergastoli per altrettanti omicidi di donne, Ezzedine Sebai aveva confessato di essere l’autore di 14 omicidi di anziane, avvenuti in Puglia tra il 1995 e il 1997. Altra vergogna, altro precedente. 15 aprile 2007. Carmela volava via, dal settimo piano di un palazzo a Taranto, dopo aver subito violenze ed abusi, ma soprattutto dopo essere stata tradita proprio da quelle istituzioni a cui si era rivolta per denunciare e chiedere aiuto. «Una ragazzina di 13 anni - scrive Alfonso, il padre di Carmela - che il 15 aprile del 2007 è deceduta volando via da un settimo piano della periferia di Taranto, dopo aver subito violenze sessuali da un branco di viscidi esseri», ma poi anche le incompetenze e la malafede di quelle Istituzioni che sono state coinvolte con l’obiettivo di tutelarla», perché «invece di rinchiudere i carnefici di mia figlia hanno pensato bene di rinchiudere lei in un istituto (convincendoci con l’inganno) ed imbottendola di psicofarmaci a nostra insaputa». Carmela aveva denunciato di essere stata violentata; e nessuno, né polizia, né magistrati, né assistenti sociali le avevano creduto o l’avevano presa sul serio. Ma le istituzioni avevano anche fatto di peggio. Hanno considerato Carmela «soggetto disturbato con capacità compromesse» e, quindi, poco credibile. Altro precedente. È il più clamoroso errore giudiziario del dopoguerra. Ora il ministero dell’Economia ha deciso di staccare l’assegno più alto mai dato a un innocente per risarcirlo: 4 milioni e 500mila euro. Circa nove miliardi di lire, a fronte di 15 anni, 2 mesi e 22 giorni trascorsi in carcere per un duplice omicidio mai commesso. Il caso di Domenico Morrone, pescatore tarantino, si chiude qua: con una transazione insolitamente veloce nei tempi e soft nei modi. Il ministero dell’Economia ha capitolato quasi subito, riconoscendo il dramma spaventoso vissuto dall’uomo che oggi può tentare di rifarsi una vita. Così, per il tramite dell’avvocatura dello Stato, Morrone si è rapidamente accordato con il ministero e la Corte d’Appello di Lecce ha registrato come un notaio il «contratto». In pratica, Morrone prenderà 300mila euro per ogni anno di carcere. E i soldi arriveranno subito: non si ripeteranno le esasperanti manovre dilatorie già viste in situazioni analoghe, per esempio nelle vertenza aperta da Daniele Barillà, rimasto in cella più di 7 anni come trafficante di droga per uno sfortunato scambio di auto. Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti. Altro precedente: non erano colpevoli, ora chiedono 12 mln di euro. Giovanni Pedone, Massimiliano Caforio, Francesco Aiello e Cosimo Bello, condannati per la cosiddetta «strage della barberia» di Taranto, sono tornati in libertà dopo 7 anni di detenzione e vogliono un risarcimento. Pedone, meccanico di 51 anni, da innocente ha trascorso quasi otto anni in cella prima di intravedere bagliori di giustizia. Ma gli elementi che hanno portato all’affermazione della sua innocenza e di altri tre imputati erano già parzialmente emersi nel corso del processo madre. «E’ certo - ha detto l’avvocato Petrone - che qualcuno sapeva di quanto avvenuto durante le indagini». Ora per gli innocenti si apre un lungo iter processuale per ottenere il risarcimento per ingiusta detenzione. Carlo Petrone è l’avvocato di Dora Chiloiro nel processo sul delitto di Sarah Scazzi, accusata anch’essa di falsa testimonianza.»
Come si è comportata la stampa e la televisione in questa vicenda che ha colpito, sì, la famiglia Scazzi e Misseri, ma anche tutta la comunità avetranese?
«Anche Hollywood fa la sua comparsa nel processo Scazzi. L’accurata arringa dell’avv. Franco De Jaco affida al potere delle immagini di un film in bianco e nero del 1957 il destino della sua assistita. La pellicola diretta da Sidney Lumet, intitolato “Parola ai giurati” e magistralmente interpretato da un superbo Henry Fonda, racconta l’accorata difesa di un ragazzo di diciotto anni accusato di aver ucciso il padre che lo picchiava. Nella pellicola, rivolgendosi ai giurati, riuniti in Camera di Consiglio, spetta all’avvocato del giovane dimostrare che non ci può essere una condanna quando sussista quel “ragionevole dubbio” di fronte al quale è impossibile emettere un verdetto di colpevolezza. “Avetrana non è Hollywood”. L’assedio di media e curiosi. «Non è Hollywood» c’è scritto su un muretto di mattoni che si trova a poca distanza dall’abitazione della famiglia Misseri, dove è stata uccisa, il 26 agosto 2010, Sarah Scazzi. Il messaggio è indirizzato alle numerose troupes televisive e di ‘fly’ (furgoni con le antenne paraboliche montate sul tetto) che presidiano da giorni l’abitazione in cui vivono la mamma e la sorella di Sabrina Misseri. Proprio davanti alla villetta di via Grazia Deledda vanno in onda, in diretta, diversi collegamenti televisivi e si montano ogni giorno i servizi per i telegiornali e gli speciali tv. Già Valentina Misseri aveva urlato in più occasione contro i giornalisti. La sorella di Cosima, Emma,per sfuggire all’assalto dei giornalisti ha colpito con uno schiaffo al volto un operatore tv; contro gli altri ha urlato: «Andate via, che c’entriamo noi!». E continuano anche i pellegrinaggi dei “turisti dell’orrore”: alcune famiglie arrivate dal Foggiano per visitare i luoghi in cui ha vissuto, è morta e ora riposa Sarah. Ma la storia si ripete. A Newtown come Avetrana. Tutto il mondo dei media è paese. La città della strage in Usa è assalita da orde di cronisti e camion tv. Almeno 27 morti, tra cui 20 bambini, tra i 5 e i 10 anni, sono stati falciati il 14 dicembre 2012 da un giovane con problemi mentali, Adam Lanza, poco più che ventenne. Dopo la sparatoria, non c’è tempo per il dolore. La piccola città è letteralmente invasa dai media e dai giornalisti. A denunciare tutto il racconto di un cronista della BBC, Johnny Dymond. “E ‘insopportabile. Che cosa vogliono tutti? Sono quattro o cinque famiglie che hanno perso i bambini ed è troppo per loro, con tutti i media qui. Che cosa cerchi?” gli racconta nella hall dell’albergo dove dorme, uno degli abitanti, infastidito dalla troppa attenzione. Il villaggio della scuola di Sandy Hook, è cambiato. Tra camion, microfoni e crocevia di persone, le stradine non sono più le stesse. E poi Casa Grillo come ad Avetrana. Dal giorno della certificazione del successo del Movimento 5 Stelle alle politiche 2013 , una schiera di giornalisti e fotografi stanzia di fronte alla casa di Beppe Grillo. Accampati in attesa, nella speranza di una dichiarazione o di un’immagine dell’inafferrabile leader mentre scorrono, nei tg, le immagini del cancello che si apre e da cui esce, quando va bene, un’auto. Un modus operandi, un modo di fare giornalismo e di raccontare le cose che ricorda da molto vicino le più recenti pagine di cronaca del nostro Paese, con i cronisti accampati di fronte alla casa dell’assassino o della vittima di turno. E un modello che, quando Beppe Grillo non è in casa, come in occasione della trasferta romana per l’incontro e la catechizzazione dei neo eletti, si ripete puntuale fuori dall’hotel dove il leader grillino è atteso. Un corto circuito informativo in cui i fotografi vengono fotografati, in cui i leader non dichiarano e i giornalisti non comprendono che la loro attesa a microfono spianato della dichiarazione sarà vana. E così il modello applicato è e rimane quello classico: il modello ‘Avetrana’, un modello inadeguato che genera persino dei paradossi. E’ il caso dei fotografi fotografati, i fotografi cioè che, appostati per catturare le immagini del primo conclave grillino, si sono ritrovati ad essere i soggetti degli scatti divertiti dei neoeletti che con i loro cellulari immortalavano il loro primo momento di notorietà. Come è diversa Brembate di Sopra. Il sindaco di Brembate Sopra, Diego Locatelli, dopo la richiesta di silenzio stampa avanzata dalla famiglia Gambirasio sulla scomparsa di Yara, è intervenuto sulla vicenda e attraverso un comunicato ha invitato “gli organi di informazione ad abbandonare il suolo pubblico occupato e la cessazione delle attività finora svolte sul territorio di Brembate di Sopra”».
Dal punto di vista sociologico cosa ha dedotto dal comportamento dei media e dell’influenza che questi hanno sulla gente che li segue?
«Il delitto di Sarah Scazzi ha dato vita ad un fenomeno inspiegabile e mai avvenuto prima. La gente a casa partecipa ad un reality show e con il telecomando della tv decide chi è il colpevole. Quanto più le trasmissioni tv che si interessano al caso alzano il loro share adottando la linea giustizialista, tanto più quella trasmissione viene seguita dai telespettatori e tanto più si guadagna in pubblicità. Di conseguenza la trasmissione rincara la dose, concentrandosi sugli elementi, veri o artefatti, adducenti la colpevolezza del tapino di turno. Essere garantista in tv non paga e i giornali si adeguano. Lo hanno capito bene i magistrati aprendo un processo ed adottando le tesi accusatorie che più aggradano il pubblico.»
Da esperto giuridico: a punta di Diritto cosa ha da contestare?
«Il processo per il delitto di Sarah Scazzi è un processo con prove certe? No! E’ un processo con indizi precisi, gravi e concordanti, tali da formare una prova? No! E’ solo un processo alle intenzioni. Il processo per il delitto di Sarah Scazzi è un esempio. Questo è un PROCESSO INDIZIARIO. Ossia è un processo senza prove ma solo indizi, contrastanti e contestabili. Senza prove, nonostante vi siano innumerevoli intercettazioni ambientali, anche in carcere. Nulla traspare la prova regina. Mai vi sono state confessioni carpite, ma solo le confessioni genuine di Michele Misseri: la prima e l’ultima. Da parte della magistratura tarantina vi è solo l’esigenza di accontentare la bolgia popolina che chiede il sangue degli imputati e la dimostrazione che Avetrana è omertosa e collusa. Indotti a ciò da un giornalismo approssimativo ed ignorante, oltre che pregno di pregiudizi e luoghi comuni. A ben guardare con gli occhi imparziali la ricostruzione del delitto pare che sia più frutto di illazioni, supposizioni e congetture della Pubblica accusa, mal sostenute da prove oggettive. Tale ricostruzione è facilmente attaccabile dalla difesa degli imputati. Difesa composta da vecchi ed agguerriti volponi. Da quanto desunto e dalla mancanza della pistola fumante (prova certa) appare che le imputate (Cosima e Sabrina): o sono innocenti, o siano talmente brave, le imputate, da non lasciar alcuna traccia del loro delitto. Nessuna prova; nessuna confessione. D’altro canto colui che si professa colpevole, inascoltato, lui sì, avendo fatto trovare prima il cadavere e poi il cellulare, è solidamente riconducibile al delitto ed alla soppressione del cadavere. E non si pensi che Michele sia uno sprovveduto. Le sue comparsate in tv e le lettere e quant’altro fatto senza la presenza dei parenti induce a pensare che “Zio Michele” sa il fatto suo. Ogni sua azione non può essere frutto di induzione ed istigazione di moglie e figlia tenuto conto che esse marciscono in galera da anni e quindi nessuna possibilità di regia. Ossequiosi e servili, poi, sono state le parti civili. E non sono mancate i riporti ai luoghi comuni ed ai pregiudizi diffamatori alla comunità: “Delitto di mafia” ha sentenziato la difesa di Concetta Serrano; “Avetrana è una città di gente che lavora e vi preannunzio per andare sempre più in fretta LA GENTE DI AVETRANA E’ COME MICHELE MISSERI. Se ad Avetrana non ci fosse stata gente sana, non avremmo potuto parlare della contestazione d'accusa di sequestro di persona”. Così si è espresso con la sua arringa l’avvocato Pasquale Corleto il quale, in rappresentanza del Comune di Avetrana, ha fatto un’esposizione giuridica che ha ricalcato, potenziandola, la tesi dei pubblici ministeri. E MENO MALE CHE DIFENDE L'ONORE DI AVETRANA, perchè gli avetranesi non gettano i bambini nei pozzi!!!! Pasquale Corleto del Foro di Lecce che in riferimento all’esame di avvocato ebbe a dire: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. Amara verità per chi come lui denuncia, sì, ma non fa niente per cambiare le cose e per chi come me, invece, porta avanti una battaglia ventennale che riguarda l’esame truccato dei concorsi pubblici ed in specialmodo quello di abilitazione forense, che poi è uguale a quello del notariato e della magistratura. Ho anche cercato di denunciare l’evasione fiscale e contributiva degli studi legali presso i quali i praticanti avvocato sono obbligati a fare pratica. I “Dominus” non pagano o pagano poco e male ed in nero i praticanti avvocati e per coloro che non hanno partita iva non gli versano i contributi previdenziali presso la gestione separata INPS. Agli inizi, facendo notare tale anomalia al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, mi si disse: “fatti i cazzi tuoi anche perché vedremo se diventi avvocato”. Appunto. Da anni mi impediscono di diventarlo, dandomi dei voti sempre uguali ai miei elaborati all’esame forense. Elaborati mai corretti. Non solo, pur avendo già segnalato ai precedenti Parlamenti, è impossibile in Italia svolgere l’attività di assistenza e consulenza antimafia se non si è di sinistra e se non si santificano i magistrati. In Italia vi è l’assoluto monopolio dell’antimafia in mano a “Libera” di Don Ciotti e di fatto in mano alla CGIL, presso cui molte sedi di “Libera” sono ospitate. “Libera”, con le sue associate locali, è l’esclusiva destinataria degli ingenti finanziamenti pubblici e spesso assegnataria dei beni confiscati. Di fatto le associazioni non allineate e schierate (e sono tante) hanno difficoltà oltre che finanziaria, anche mediatica e, cosa peggiore, di rapporti istituzionali. Si pensi che la Prefettura di Taranto e la Regione Puglia di Vendola a “Libera” hanno concesso il finanziamento di progetti e l’assegnazione dei beni confiscati a Manduria. A “Libera” e non alla “Associazione Contro Tutte le Mafie”, con sede legale a 10 km. A “Libera” che non può essere iscritta presso la Prefettura di Taranto, perchè ha sede legale a Roma, e non dovrebbe essere iscritta a Bari, perché a me, come presidente di una associazione antimafia, è stata impedita l’iscrizione del sodalizio per mancata costituzione dell’albo. Tornando al processo sono di tutt’altro tenore le difese degli imputati: “In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Tant’è che i pubblici ministeri hanno chiesto alla Corte d’Assise la trasmissione degli atti riguardanti le deposizioni fatte durante il processo da Ivano Russo, il ragazzo conteso tra Sabrina e Sarah, Alessio Pisello, componente della comitiva delle due cugine, Anna Scredo, moglie di Antonio Colazzo, Giuseppe Olivieri, imprenditore di Avetrana datore di lavoro della moglie del testimone Antonio Petarra che vide il giorno del delitto Sarah Scazzi mentre si recava verso l’abitazione dei Misseri, Anna Lucia Pichierri, moglie di Carmine Misseri, e infine Giuseppe, Dora e Emma Serrano, fratelli e sorelle con Cosima e Concetta, schierate nelle loro testimonianza a favore della prima. Atti che arriveranno allo stesso ufficio della Procura che ne ha chiesto la trasmissione. Poi ci sono anche altri 3 avvocati, oltre a Vito Junior Russo, che, d'altronde, il 21 novembre 2011 sono stati assolti da Pompeo Carriere: Gianluca Mongelli accusato di tentato favoreggiamento personale insieme a Vito Russo. Per Emilia Velletri, ex difensore di Sabrina con il marito Vito Russo, le accuse di intralcio alla giustizia e di soppressione di atti veri. All’avv. Francesco De Cristofaro, del foro di Roma, ex legale di fiducia di Michele Misseri, la Procura contesta invece il reato di infedele patrocinio. Velletri, Mongelli e De Cristofaro sono stati giudicati e assolti con il rito abbreviato. La Procura ha chiesto un anno di reclusione per Emilia Velletri e Francesco De Cristofaro e sei mesi per Gianluca Mongelli. Non ci dimentichiamo poi che il processo ha altri tentacoli. Tra questi c'é quello che coinvolge Giovanni Buccolieri, il fioraio di Avetrana che raccontò di aver visto, il 26 agosto 2010, Cosima intimare in strada a Sarah di salire in auto (dove c'era presumibilmente, per l'accusa, anche Sabrina), salvo poi riferire due giorni dopo che si era trattato di un sogno. C’è sua cognata Anna Scredo, moglie dell’imputato Antonio Colazzo, poi prosciolta dal Gup, c’è il suo amico Michele Galasso, c’è il funzionario di banca Angelo Milizia. E che dire della ex psicologa del carcere di Taranto Dora Chiloiro, citata come teste dalla difesa di Sabrina Misseri. La stessa, all’udienza del 10 dicembre 2012, ha dichiarato di essere stata "imprecisa" nell' udienza preliminare del 7 novembre 2011, quando riferì di aver avuto numerosi colloqui in carcere con Michele Misseri, di averlo sentito in carcere anche dopo l'incidente probatorio del 19 novembre e che Michele Misseri aveva detto di essere stato lui ad uccidere Sarah. Per questi motivi Chiloiro è stata già rinviata a giudizio per falsa testimonianza, avendo confermato le dichiarazioni dell'udienza preliminare anche nel processo dinanzi alla Corte di assise.»
Da esperto dell’informazione cosa ha da contestare?
«E la stampa cosa fa? E’ sadica e cinica. Da bollino rosso sono tg e approfondimenti giornalistici: il Comitato Media e Minori e L’Agcom hanno «bocciato» soprattutto servizi e dibattiti sui delitti con vittime minorenni: preoccupante lo stile usato nel trattare i casi di Sarah Scazzi, Yara Gambirasio ed Elisa Claps da Tg1 e Studio Aperto (sanzionati più volte); da censurare anche l’approccio di Chi l’ha visto? (Rai3) sull’omicidio Claps per le «immagini particolarmente impressionanti» o di Quarto grado (Rete4) per la «dettagliata galleria di casi criminosi». Il Comitato biasima la scelta di trattare crimini nella fascia protetta «spettacolarizzando la notizia» e «soffermandosi sugli aspetti più morbosi», come è accaduto nei contenitori pomeridiani delle principali reti. Violazioni sono state compiute da Pomeriggio Cinque e Domenica Cinque su Canale 5, e La vita in diretta (Rai1) dove si è giocato sull’«invasività e la ricerca di espressioni e filmati forti capaci di attirare l’attenzione dei telespettatori». Come volevasi dimostrare dopo la scorpacciata di immagini, interviste, servizi tv a favore della requisitoria dell’accusa e delle arringhe delle parti civili, farcite anche di gratuite ed impunite calunnie e diffamazioni o, come ha riferito Franco Coppi «Sono state dette troppe cose e non abbiamo apprezzato alcune battute poco eleganti.» Bene si diceva che dopo l’abbuffata di poco corrette prese di posizioni della stampa, a dare voce alla difesa non c’è nessuno. Eppure c’è stato il coinvolgimento di Ilaria Cavo, giornalista di Mediaset, l’unica insieme a Maria Corbi de “La Stampa”, a raccontare in modo corretto ed imparziale la cronaca di un processo emblematico. Ilaria Cavo, brava giornalista di Mediaset che per conto del programma Matrix si è occupata di celebri casi di cronaca nera. Decine di simili situazioni, nel suo libro “Il cortocircuito. Storie di ordinaria ingiustizia”. Le vicende contenute nel volume riguardano per lo più casi che non hanno attirato su di sé l’attenzione dei media. Sono passati abbastanza in sordina. E forse per questo sono ancora più sconcertanti. Il procuratore aggiunto Pietro Argentino ha fatto notificare l’avviso di chiusura delle indagini preliminari al 34enne di Ginosa Raffaele Calabrese, ingegnere, consulente della difesa di Sabrina Misseri, e alla giornalista di Matrix Ilaria Cavo. L’episodio in questione è quello avvenuto il 26 ottobre 2010, quando Calabrese avrebbe offerto ad alcuni giornalisti televisivi che stazionavano dinanzi al tribunale, alcune foto scattate nel garage della famiglia Misseri, quello che viene indicato negli atti ufficiali come il luogo del delitto di Sarah. Il giornalista del Tg2 Valerio Cataldi riuscì a registrare il colloquio con il consulente della difesa di Sabrina, rifiutando ovviamente ogni forma di trattativa economica. La stessa sera, quelle foto poi furono mandate in onda da Matrix. A Raffaele Calabrese il procuratore aggiunto Pietro Argentino contesta l’interferenza illecita nella vita privata dei Misseri perché «mediante l’uso di una macchina digitale, si procurava indebitamente immagini relative all’interno del «garage» dell’abitazione di Cosima Serrano e Michele Misseri, scattando almeno 16 foto delle quali tre le cedeva a Ilaria Cavo. Con l’aggravante di aver commesso il fatto con abuso di prestazione d’opera». La giornalista Ilario Cavo è indagata invece per ricettazione in quanto «a scopo di profitto acquistava e, comunque, riceveva da Raffaele Calabrese le foto del garage di sicura provenienza delittuosa». E sul fronte dell’informazione, va segnalato che la Procura ha avviato accertamenti anche sull’intervista a Michele Misseri fatta in carcere il 13 febbraio 2011 dalla giornalista di Libero Cristiana Lodi che entrò nella casa circondariale come collaboratrice di un parlamentare del Pdl, la deputata del Pdl Melania Rizzoli De Nichilo. Per Ilaria Cavo e Raffaele Calabrese il giudice monocratico Ciro Fiore il 22 maggio 2012 ha dichiarato l’assoluzione. Calabrese ha chiesto il processo con rito abbreviato, la Cavo rito abbreviato condizionato all'audizione di un altro giornalista. E poi ancora c’è il caso di Fabrizio Corona, condannato a cinque anni di detenzione per estorsione ai danni del calciatore David Trezeguet. Il 2 luglio 2013 da detenuto dovrà presentarsi al Tribunale di Manduria con l’accusa di violazione di domicilio. La denuncia è stata sporta da Concetta Serrano, mamma di Sarah Scazzi. La vicenda risale al 26 febbraio 2011, quando l’ex re dei paparazzi era entrato in casa della famiglia Scazzi passando da una finestra e spaventando la madre della ragazza. Nonostante le scuse alla donna, in televisione Corona ha raccontato un’altra versione dei fatti: disse di essere rimasto nell’abitazione di Concetta a chiacchierare per una mezz’oretta, e che Concetta gli aveva perfino offerto il caffè. Lo scopo del fotografo era quello di realizzare delle interviste in esclusiva ai protagonisti della tragica vicenda. Concetta Serrano non ha ritirato la denuncia e, come disposto dal pm Maurizio Carbone, il paparazzo dovrà presentarsi quest’estate al Tribunale di Manduria. Per l’accusa di violazione di domicilio, Fabrizio Corona rischia altri 3 anni di carcere. A proposito di interviste non autorizzate. Concetta Serrano, la mamma della 15enne Sarah Scazzi uccisa lo scorso 26 agosto 2010, il 9 aprile 2011 ha presentato una denuncia-querela contro il giornalista Mediaset Marcello Vinonuovo per la trasmissione di un’intervista non autorizzata andata in onda venerdì 8. L’episodio, sul quale non si sono appresi particolari, è stato denunciato ai carabinieri della Stazione di Avetrana. E’ andata in onda una nuova puntata di Studio Aperto Live, lo spazio di approfondimento di Studio Aperto che su Italia 1 si occupa delle vicende di cronaca più attuali. Quindi alla luce delle nuove notizie legate alla richiesta del Dna per quattro persone implicate nel caso con diversi ruoli si è deciso di tornare ad Avetrana per parlare con Concetta Serrano ed è stata mandata in onda un’intervista alla madre di Sarah che però non era stata autorizzata dalla donna. L’argomento dell’ultima puntata era ancora il caso dell’omicidio di Sarah Scazzi: tracce di Dna riaprono le indagini. E proprio questo particolare ha spinto Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi, a presentare una querela contro il giornalista di Mediaset Marcello Vinonuovo presso i carabinieri della Stazione di Avetrana. Subito sono arrivate le repliche di Giovanni Toti, direttore di Studio Aperto, e Mario Giordano, direttore di News Mediaset: i due hanno subito detto che quella realizzata da Vinonuovo non è un’intervista rubata, Toti dice: “Il cronista si è qualificato come tale, aveva il microfono in mano e accanto l’operatore con la telecamera in spalla. Le domande erano assolutamente rispettose: non c’era nulla che potesse ledere la dignità della madre di una vittima, anzi la signora Concetta ha avuto la possibilità di esprimere il suo punto di vista. La conversazione si è svolta senza alcuna tensione nè fraintendimento, nè sui contenuti nè sul ruolo di entrambi. Non vedo perchè non avremmo dovuto mandarla in onda”. Anche Giordano interviene sulla vicenda dicendo: “L’intervista è stata realizzata in luogo pubblico, da un giornalista che si è dichiarato tale, con il microfono ben in vista come dimostrano le immagini. La signora Concetta ha espresso ragionamenti sensati e condivisibili rispetto a un tema di interesse pubblico. Una persona può legittimamente non rispondere, ma se risponde e c’è interesse pubblico a quello che dice, non vedo perchè non lo si debba trasmettere”. Non turba a nessuno il fatto di sapere che Concetta Serrano, pur quasi ogni giorno sulla cronaca con la sua famiglia, rilasci interviste a iosa e, nonostante tutti i media siano con lei e artatamente contro sua sorella Cosima Serrano e sua nipote Sabrina Misseri, pretende di autorizzare o meno le interviste scomode e di denunciare Marcello Vinonuovo di Italia 1, forse perché collega di Ilaria Cavo. Ilaria Cavo è con Maria Corbi l’unica ad aver dato notizie con un minimo di imparzialità. Ad Avetrana non c’è modo di palesare la verità nonostante la multa per 400 programmi tv che si sono occupati in maniera morbosa del caso di Avetrana. L’Agcom ha voluto porre un freno a questa continua ricerca di fare ascolti in televisione sfruttando il dolore delle persone ed ha comunicato all’Ordine dei giornalisti l’intenzione di multare 400 trasmissioni che si sono occupate del caso Scazzi violando le norme. Ma secondo il presidente dell’Ordine, Enzo Iacopino i giornalisti sono stati trattati come burattini da burattinai: “Seminavano tutto e tutto noi giornalisti mandavamo in onda o pubblicavamo sui giornali”.»
A questo punto cosa vorrebbe che si sapesse?
«Ora basta!!! Bisogna far conoscere la verità. La verità storica alternativa a quella mediatico-giudiziaria. Il processo per l’omicidio di Sarah Scazzi non è contro i Misseri, ma contro Avetrana, anzi, contro il Sud Italia. Gelosia e Reputazione sono i traballanti moventi inquadrati da stampa e magistratura. La magistratura sin da subito è stata incapace di sbrogliare la matassa fino a quando la soluzione gli è stata offerta sul piatto d’argento proprio da Michele Misseri. Ed ancora si continua ad insinuare che Avetrana non ha collaborato. Ipotesi fomentate da giornalisti ignoranti e prezzolati da padroni senza scrupoli e dal finanziamento pubblico. Pennivendoli che alimentano stereotipi datati. Nel contesto territoriale (per loro omertoso e retrogrado) non emerge più il cafone con coppola e con lupara che per gelosia spara a destra ed a manca. Oggi ci rapportiamo con l’evoluzione del pregiudizio: donne baffute in nero nascoste da gonne lunghe e fazzoletto in testa che con il sangue lavano l’onta del tradimento e della maldicenza. Poco si parla dell’Avetrana tecnologica con i suoi giovani a navigare sul web ed a rapportarsi sui social network ed a passare il tempo libero fino a notte inoltrata nei Pub all’inglese maniere. No! Bisogna far immaginare Avetrana con i carretti trainati dai muli o meglio dagli asini di Martina Franca. Quante volte si è sentito nei salotti trash della tv italiana da improvvisati commentatori: “…non siamo a Milano o a Roma, siamo lì. Qui si parla di Avetrana, un piccolo paese del sud. Lì..un paese così…dove tutti si conoscono, dove tutti stanno a sparlare…un paese del profondo mezzogiorno. Mi sa tanto che quando si parla dei cervelli in fuga non ci si riferisce alle nostre eccellenze che sono costrette ad emigrare, ma ci si riferisca agli encefali fuggiti dai crani dei giornalisti che sono stati ospitati ad Avetrana, anziché cacciati così come hanno fatto a Brembate di Sopra. Giornalai, e non giornalisti, che per dare la loro verità sono stati pronti ad intervistare nullafacenti ed ubriaconi nei bar del paese. Nel film “Benvenuti al Sud” la frase ricorrente è che chi viene al sud piange due volte: nel venire e nell’andar via. Bisogna dire che, invece, è proprio certa stampa che fa venir da piangere, ma per la loro condizione professionale. Mi sa che fa bene Beppe Grillo a non voler rapportarsi con tutti loro, così come aveva ragione Malcom X. Disse Malcolm X, «Se non state attenti, e dico questo perché ho visto qualcuno di voi cascare nella trappola, se non state attenti finirete con l'odiare voi stessi e con l'amare il bianco che vi procura tanti guai. Se gli consentite di persuadervi, vi spingerà a credere che non è giusto usar violenza contro di lui quando lui la usa contro di voi. Se non state attenti i media vi faranno amare gli oppressori e odiare quelli che vengono oppressi. La stampa è capace di farvi amare gli assassini ed odiare le vittime». Giorgio Bocca (notoriamente antimeridionale) su “L’Espresso” se la prende anche con i giornalisti locali: «Ne esce male anche l'informazione, Avetrana è un villaggio del profondo Sud nella campagna di Taranto, i primi ad accorrere sono i corrispondenti locali che mandano fiumi di parole confuse, di rivelazioni contraddittorie che si aggiungono alla difficoltà di trovare una minima ragione nella caotica e irragionevole vicenda.» Avetrana, invece, ha capito da subito che le luci della ribalta volevano un paese maledetto, omertoso. «Ma quale omertà, qui è il contrario, nessuno si fa i fatti suoi» dicono ora che il virtuale è più forte della realtà. Adesso che i programmi televisivi si sono inseguiti in una corvée instancabile e ormai quasi mancano le comparse, a Sabrina tocca apparire a reti unificate: piange a Matrix e nello stesso tempo è a Porta a porta con la riedizione di un suo intervento a La vita in diretta. La prima a capire che solo la tv poteva salvarla è stata la madre di Sarah, Concetta. Da subito ha intuito che spalancando la porta ai media avrebbe conosciuto la sorte di sua figlia. E così è stato. Sospira il procuratore capo di Taranto Francesco Sebastio: «Ditemi un momento nel quale non era in televisione a dirci come condurre le indagini, come dovevamo fare... Non si poteva neppure dire all’assassino: aspetta a confessare che finisca la trasmissione. Ne sarebbe iniziata un’altra». E per 42 giorni, come nota un investigatore, «lei davanti alle telecamere si è fatta sempre trovare pronta e in ordine». Senza un filo di ricrescita, notano i maligni, «i capelli rossi, come se ogni giorno si rifacesse l’henné». Una famiglia diabolica, i Misseri, decimata dalle accuse ed Avetrana, bollata come omertosa, bugiarda, depistante. Questo il ritratto che il pm del caso Sarah Scazzi ha tracciato in quattro giorni di requisitoria chiedendo l’ergastolo per Sabrina Misseri e Cosima Serrano, madre e figlia, zia e cugina della vittima accusate di concorso in omicidio e sequestro di persona. Non solo. I pubblici ministeri hanno chiesto alla Corte d’Assise la trasmissione degli atti riguardanti le deposizioni fatte durante il processo da Ivano Russo, il ragazzo conteso tra Sabrina e Sarah, Alessio Pisello, componente della comitiva delle due cugine, Anna Scredo, moglie di Antonio Colazzo, Giuseppe Olivieri, imprenditore di Avetrana datore di lavoro della moglie del testimone Antonio Petarra che vide il giorno del delitto Sarah Scazzi mentre si recava verso l’abitazione dei Misseri, Anna Lucia Pichierri, moglie di Carmine Misseri, e infine Giuseppe, Dora e Emma Serrano, fratelli e sorelle con Cosima e Concetta, schierate nelle loro testimonianza a favore della prima. Ivano Russo in collegamento da Avetrana con “La Vita In Diretta” con Marco Liorni si è lamentato del fatto che lui ha rischiato di essere arrestato perché sospettato del delitto o comunque di essere reticente o falso, oggi verrebbe indagato, pur inquadrate le responsabilità del delitto, per essere stato reticente e falso. Il movente per i Pubblici Ministeri di Taranto? «La possibile rivelazione dei rapporti intimi con Ivano (amico delle due cugine) che avrebbe potuto compromettere l'immagine della famiglia Misseri in un piccolo centro provinciale come Avetrana». Come se la gente del piccolo centro come Avetrana non ha null’altro da fare che stare dietro alle vicende sessuali di una ragazza che non conosce e che non interessa conoscere tenuto conto di tutti i problemi che attanagliano i cittadini italiani. Naturalmente qui si parla di magistrati che, dai dati pubblici rilevabili da siti istituzionali, risultano essere anche loro del posto che degradano. Si parla di BUCCOLIERO dott. Mariano Evangelista Nato a Sava il 7.4.1965 e di Argentino dott. Pietro di Torricella. Ma contro i pregiudizi non ci sono limiti. Da ultimo e non sarà l’ultima volta, un sedicente giornalista, tal Paolo Ojetti, il 7 marzo 2013 in riferimento al delitto di Sarah Scazzi ha scritto su “Il Fatto Quotidiano”: «Quello che alla fine lascia pensosi è il “contesto”, una alchimia di arcaico e ipermoderno, di barbarie da profondo sud e di spregiudicato uso dei media da parte di assassini e di comprimari…E il movente? Messaggini erotici da tenere segreti. Ricatti sessuali adolescenziali. Difesa della purezza familiare, valore dalla cintola in giù che giustifica tuttora violenza, stupro, incesto, femminicidio. Può anche darsi che la cronaca nera punti solo all’Auditel. Ma, almeno in questo caso, è stato uno schiaffo benefico che riporta con i piedi sulla terra di un paese arretrato». In riferimento al gruppo di Sarah Scazzi il sedicente giornale “padano” di Taranto, “Taranto Sera”, scrive «Un gruppo in cui non si sarebbe disdegnata qualche pratica parecchio ‘spinta’, inconfessabile, a maggior ragione in un contesto come quello di un piccolo paese del profondo Mezzogiorno, quale Avetrana.» Altra sedicente giornalista, tal Annalisa Latartara, non nuova ad exploit del genere (si pensi viene dalla nordica Taranto), lo stesso giorno e sempre a proposito ha scritto su “Il Corriere del Giorno” di Taranto: «Ma l’opera di depistaggio della famiglia Misseri è stata agevolata dall’omertà di chi ha visto e non ha raccontato nulla, né di sua spontanea iniziativa, né dinanzi agli investigatori. Di chi chiamato a deporre in aula non ha detto tutto quello che sapeva.» Ed ancora altro sedicente giornalista, tal Pasquale Amoruso e sempre a riguardo su “Il Quotidiano Italiano” (padano anch’esso) di Bari ha scritto: «L’omertà è il vero strumento di contrasto alla Giustizia nel caso Scazzi. L’omertà di Giovanni Buccolieri, il fioraio di Avetrana che dichiarò di aver visto zia e cugina costringere Sara in lacrime salire in macchina, salvo poi ritrattare la sua versione, dicendo di non aver visto effettivamente la scena, ma piuttosto, di averla sognata, e l’omertà di tre suoi parenti, indagati per favoreggiamento personale e intralcio alla Giustizia. L’omertà dei nove testimoni le cui dichiarazioni contrastano con le prove in mano agli inquirenti e l’omertà di chi, pur sapendo come stanno le cose, perché qualcuno c’è, non parla per preservare, non so cosa sia peggio, un assassino o una rispettabilità ormai perduta. Insomma, quante persone occorrono per uccidere una ragazzina? Tutte quelle che non parlano.» Ed ancora. «Sullo sfondo di queste tesi difensive, però, il ficcante lavoro della procura che abbiamo visto nelle udienze passate ha scandagliato con accuratezza la grande mole di indizi, intercettazioni, testimonianze e confidenze, entrando anche e soprattutto, non dimentichiamolo questo, nell’humus sociale, culturale e familiare nel quale si è realizzato il terribile omicidio.» Dice a mo di lacchè dei magistrati Walter Baldacconi, direttore del TG di Studio 100 tv, emittente “Padana” con sede a Taranto, criticando le tesi difensive di Nicola Marseglia e le prese di posizione di Franco Coppi in merito al fuori onda che hanno dato l’imput all’astensione dal processo Scazzi della Trunfio e della Misserini.»
Va bene, ma gli amministratori locali e con essi l’opposizione consiliare cosa hanno fatto?
«Nonostante lo smacco giudiziario e l’offesa mediatica a tutta la popolazione avetranese il sindaco della ridente località, Mario De Marco, del Popolo delle Libertà, e la sua giunta cosa fanno? Anziché prendersela con chi ci sputtana, le loro ire si rivolgono alle parti più deboli, forse responsabili di delitti che, però, niente hanno a che fare con le insinuazioni o le vere e proprie accuse di omertà ed arretratezza sociale e culturale della comunità. «Avetrana - si legge nell'atto di parte civile - si è guadagnata la triste fama di cittadina quasi omertosa, simbolo di un profondo sud, vittima ancora oggi di troppi luoghi comuni. Sono note le spedizioni dei cosiddetti turisti dell'orrore - continua l'avvocato Corleto - che si sono avventurati nei luoghi simbolo della vicenda: le vie in cui si trovano le abitazioni della famiglia di Sarah e della famiglia Misseri, lo stesso cimitero che ospita la tomba di Sarah, nonché il pozzo di campagna nel quale è stato rinvenuto il cadavere della ragazzina sono stati meta di veri e propri pellegrinaggi. In questa dolorosa vicenda ci sono due vittime. La prima è certamente Sarah, l'altra è la città di Avetrana». «Gli Avetranesi hanno nel cuore Sarah e sono offesi dal comportamento della famiglia Misseri. Perché a prescindere dalle singole responsabilità che saranno accertate nel dibattimento, sono stati loro a innescare la morbosa attenzione dei media su questo caso e la conseguente ripercussione negativa per l'immagine della nostra comunità», rincara la dose il vicesindaco Alessandro Scarciglia. «In tutta questa situazione la popolazione di Avetrana è rimasta letteralmente disorientata, privata della propria serenità, impossibilitata ad osservare il dovuto silenzio e rispetto nei confronti della giovane vittima, nonché violentata in ogni aspetto della quotidianità, oltre che letteralmente assediata dai mezzi di informazione». Una «sete di giustizia», continua il documento della costituzione di parte civile, per «un’offesa enorme, una ferita profonda che merita di essere valutata e adeguatamente riparata in sede giudiziaria». Per gli amministratori che si dichiarano parte offesa, quindi, «il nome di Avetrana è ormai tristemente associato al crimine del quale sono chiamati a rispondere gli imputati» che dovrebbero così, se condannati, rifondere la somma «che sarà poi quantificata - ha spiegato il penalista Corleto - in un secondo tempo e in sede civilistica». Lo stesso avvocato che dovrebbe difendere la reputazione di Avetrana afferma inopinatamente «Avetrana è una città di gente che lavora e vi preannunzio per andare sempre più in fretta LA GENTE DI AVETRANA E’ COME MICHELE MISSERI. Se ad Avetrana non ci fosse stata gente sana, non avremmo potuto parlare della contestazione d'accusa di sequestro di persona». E MENO MALE CHE DIFENDE L'ONORE DI AVETRANA, perchè gli Avetranesi non gettano i bambini nei pozzi!!!! L’avvocato Pasquale Corleto il quale, in rappresentanza del Comune di Avetrana, ha fatto un’esposizione giuridica che ha ricalcato, potenziandola, la tesi dei pubblici ministeri. Difendendo a suo parere subito la «parte sana» della comunità avetranese (e meno male se fosse stato il contrario?), per il cui danno all’immagine ha chiesto 300 mila euro di risarcimento danni, il penalista leccese ha esordito dicendo che «la popolazione di Avetrana non è omertosa, è fatta di persone buone», fatta eccezione, ha aggiunto diffamando gratuitamente, prima con un’intervista a Blustar TV e poi in aula, coloro che in giudizio non sono. «Il collegio dei Falsi, cioè Valentina (Misseri) e compagni, che buttando a mare tutti gli avvocati precedenti, hanno imposto questa linea della banda del falso che come Ivano Russo sono i giganti del turpiloquio e del depistaggio: una serpe. E’ il soggetto più turpe, più viscido. La serpe che entra nel processo. Che parla fuori, dentro le aule, le interviste, alle telecamere e tutto ciò che sapete, quando deve dire qualcosa di concreto, è questo il vangelo dettato dalla regia. Quando si sono visti con le mani al collo non potevano più dire chiacchiere a gente con la toga e dicono non ricordo». Avetrana: omertà e mafia, luoghi comuni che si rincorrono. «Un massacro gestito con metodi mafiosi. Sarah Scazzi è stata massacrata ed è un massacro peggiore per le condotte successive al delitto che denotano un metodo mafioso, da 416 bis. Sarah non doveva essere solo uccisa - ha spiegato Nicodemo Gentile, l’avvocato degli Scazzi - ma doveva sparire ed essere annientata. Non doveva esistere più. Doveva diventare uno di quei tanti volti che fanno parte dell'esercito di scomparsi.» Chi rappresentava Avetrana avrebbe fatto meglio a cercare e catalogare in questi anni ogni articolo di stampa ed avrebbe dovuto registrare ogni intervento delle miriadi trasmissioni tv per far rendere il conto delle loro denigrazioni ai rispettivi responsabili, siano essi ignoranti giornalisti o che siano pseudo esperti improvvisati. Come non dar ragione all’altra parte politica di Avetrana: «Sono Cinzia Fronda, cittadina del paese di Avetrana e segretaria sezionale del Partito Democratico. Scrivo da cittadina di un paese devastato, maltrattato, violentato da tanto orrore. Ovviamente mi riferisco al caso Scazzi che da qualche giorno è tornato prepotentemente alla ribalta. Ho sentito diversi giornalisti che con una facilità pericolosa e poco professionale, secondo la mia opinione, continuano a denigrare Avetrana e i suoi abitanti facendoci passare per quelli omertosi, ignoranti e, perché no?, cittadini di serie C2! Sono veramente stanca di questo continuo maltrattamento mediatico, vorrei fare presente che la maggior parte dei cittadini di Avetrana sono persone normali, con una cultura normale, con una vita normale e che non mi sembra assolutamente giusto che si faccia di tutta l'erba un fascio. Con tutto il rispetto per gli abitanti di Brembate, che hanno anche amministratori di rispetto che ben si sono guardati dall'esporsi in maniera esagerata, non cedendo al fascino mediatico, vorrei far presente che lì la famiglia di Yara ha chiesto il silenzio stampa e allora tutti a parlarne bene mentre per il caso di Avetrana si continua a dare addosso agli abitanti perchè molti continuano ad amare intrattenersi con i giornalisti, anche quando sarebbe il caso di smettere di parlare a vanvera e lasciare che gli inquirenti facciano serenamente il loro lavoro. Basta violenze mediatiche, Avetrana non è il paese dei mostri, è un paese che ha voglia di riprendere a vivere normalmente e serenamente». Peccato che anche lei si è limitata a dire parole, parole, parole…..»
Va bene. Allora presenti lei Avetrana.
«Sorge su quella che era chiamata la “Via Sallentina”, Avetrana, l’antico tratto viario che in epoca messapica, e successivamente in quella romana, collegava Taranto, Manduria, Nardò, Leuca e Otranto. Con le sue 8.300 anime, il paese vanta origini antiche, ma sono in particolare le tracce di epoca romana a risaltare come il “canale romano”, che raccoglieva e faceva confluire le acque in quello naturale di San Martino. Sono numerose le ipotesi del suo toponimo, tra cui quella che lo fa derivare da “habet rana”, per via delle massiccia presenza di rane nella zona ricca di paludi o, ancora e forse più attendibile, l’ipotesi che risalga ad una distorsione di “terra veterana”, ovvero non coltivata. Certo è che Avetrana custodisce e mostra le sue vestigia con orgoglio a cominciare dal suo piccolo ma prezioso centro storico, nel quale ogni nobile e feudatario del suo tempo ha lasciato la propria firma: dai Pagano agli Albrizi fino agli Imperiale ed i Filo. Di quello che doveva essere un imponente castello si scorge oggi il torrione circolare e parte delle mura mentre i vezzi decorativi di alcuni palazzi come palazzo Torricelli e palazzo Imperiale, accanto alle architetture più modeste tra i viottoli del centro lasciano oggi intuire il potere della nobiltà nel piccolo e operoso borgo. Zona di grotte e depressioni carsiche dalle quali sono emersi anche resti del Neolitico, Avetrana, in epoche sicuramente più recenti, vanta un’ammirabile tradizione di resistenza: nel 1929 fu il centro di una rivolta dei contadini poi repressa dal regime fascista, mentre negli anni Ottanta si oppose strenuamente alla costruzione nel suo territorio di una centrale nucleare. Il paese dista dal mare appena quattro chilometri e dalla zona denominata “Urmo Belsito”, località marina abitata da moltissimi cittadini extraregionali e comunitari scelta da loro come dimora di relax, lo sguardo può spaziare dal mare all’orizzonte alla rigogliosa macchia mediterranea che la fa da padrone nell’entroterra. Il patrono di Avetrana è San Biagio e viene festeggiato il 29 aprile. Il comune dista 43 chilometri dal capoluogo,Taranto, e 37 chilometri da Lecce. Rispetto ad altri paesi Avetrana si è fatta sempre notare per la sua intraprendenza, emancipazione ed apertura mentale e per le indiscusse virtù di alcuni suoi concittadini. Si ricorda Antonio Giangrande, noto scrittore letto in tutto il mondo o suo figlio Mirko divenuto a 25 anni e con due lauree l’avvocato più giovane d’Italia. Ed ancora Biagio Saracino, Cavaliere della Repubblica; Leonardo Laserra, Tenente Colonnello, maestro della Banda della Guardia di Finanza nota in tutto il mondo. E poi Antonio Iazzi, professore dell’università del Salento, e Leonardo Giangrande, già vice presidente della Camera di Commercio di Taranto. Ed ancora Rita Rinaldi, soubrette e cantante o i duo artistico musicale Mimma e Giusy Giannini (in arte Emme e gy) con Miriana Minonne e Valentina Iaia (in arte Miry e Viky). Ed ancora Vito Mancini, concorrente del Grande Fratello 12. E tanti altri talenti ancora. Ma di questo i media ignoranti ed in malafede non ne parlano.»
La stampa. L’informazione cartacea e video come hanno riportato i fatti storici e giudiziari?
«Con la loro verità mediatica. Come volevasi dimostrare dopo la scorpacciata di immagini, interviste, servizi tv a favore della requisitoria dell’accusa e delle arringhe delle parti civili, farcite anche di gratuite ed impunite calunnie e diffamazioni o, come ha riferito Franco Coppi ad Anna Gaudenzi su Affari Italiani, « Sono state dette troppe cose e non abbiamo apprezzato alcune battute poco eleganti.» Bene si diceva che dopo l’abbuffata di poco corrette prese di posizioni della stampa, a dare voce alla difesa non c’è nessuno. Sono passate sotto silenzio le udienze dedicate agli imputati. Addirittura le tv locali, a turno, hanno ignorato l’evento. Poche righe dedicate e servizi assenti o striminziti. Rimasugli dedicati a Michele Misseri. Solo la malasorte difende Avetrana. Tempi duri per gli operatori dell’informazione. Rovinose cadute, strani malori, telecamere che si spengono, fari che esplodono, cassette inceppate. E ancora serrature d’auto che s’inchiodano, incidenti stradali e bucature multiple delle ruote. Una sospetta concentrazione d’infortuni scuote il popolo dei media che ha preso domicilio ad Avetrana per documentare il giallo dell’uccisione della piccola Sarah Scazzi. Nella graduatoria della iella, la categoria che ha avuto la peggio è quella dei giornalisti. Le donne sono più sfigate dei loro colleghi. Sono molti, anzi troppi i processi sotto la lente mediatica. Si parla troppo spesso di processo mediatico, di quanto possa influenzare quello giudiziario, soprattutto quando l'opinione pubblica non accetta i fatti e le sentenze. Il problema, secondo alcuni, è che anche nei processi si preferisce soffermarsi sugli aspetti scandalistici o curiosi delle vicende anziché addentrarsi sul merito dei reati. Il processo del terzo millennio si offre oramai senza veli allo sguardo mediatico che imbastisce processi paralleli fuori dalle aule di giustizia e dai suoi riti, i cui improvvisasti ed imperiti pubblici ministeri sono i giornalisti od i conduttori di trasmissioni trash tv ed i giudici sono i loro lettori o telespettatori, godenti peccatori delle altrui disgrazie. Nessuno spazio alla difesa dei malcapitati. Fa niente se poi i tapini sono prosciolti nei processi veri. Ha ragione Massimo Prati quando dice che questo fa capire in maniera netta come tanti nostri magistrati non sappiano, o per diversi motivi non vogliano, leggere allo stesso modo le “'tavole” dei codici penali e come tanti di loro si sentano ancora parte attiva di un'altra epoca storica. Fa capire come i nostri magistrati non siano stati preparati, da chi doveva insegnargli ed aiutarli mentalmente, ad entrare da uomini giusti negli anni duemila. Fa capire come siano rimasti ancorati agli albori della giustizia, a quando chi giudicava comminava pene in base alle possibilità economiche ed al ceto sociale. Nella Babilonia di quasi quattromila anni fa, durante il regno di Hammurabi, il povero, a parità di reato, era obbligato alla morte, mentre chi aveva possibilità economiche, per tornare un “uomo libero” si limitava a pagare un'ammenda. Nel basso Medioevo, nella futura italica terra, si procedeva con un trattamento simile, trattamento che teneva conto non solo dei beni posseduti, ma anche delle amicizie altolocate e del ruolo che il reo ricopriva nella sua comunità. Ad oggi nel terzo millennio pare proprio che nulla sia cambiato. Da anni la nostra “giustizia” è divisa in tronconi colorati. E sempre più spesso capiamo di avere a che fare con enormi disparità di trattamento. Già nel '71 con il film “In nome del popolo italiano” ci fu chi puntò il dito (Dino Risi) contro quei magistrati, allora idealisti e squattrinati, che abusavano del potere concesso loro dal popolo italiano. Qualcosa è cambiato da allora? Difficile rispondere sì, visto che fra il “certo colpevole” e chi si dichiara innocente la disparità di trattamento è enorme e tutta in favore del “certo colpevole”, visto che i trattamenti cambiano da procura a procura, da tribunale a tribunale, visto che con alcuni imputati c'è chi usa il guanto di velluto mentre, per reati simili se non identici, da altre parti c'è chi usa il pugno di ferro. Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono rimasti quattro anni in carcere in attesa di un verdetto “giusto”. Sabrina Misseri e sua madre sono chiuse in galera da anni senza essere dichiarate colpevoli in modo definitivo. Sabrina Misseri è stata arrestata perché non ha ammesso di amare e di essere gelosa del “Delon di Avetrana”, perché non ha ritenuto di aver litigato con la cugina la sera precedente la scomparsa. Questo è bastato ad impedire si facesse un minimo di indagine che convalidasse i sospetti. Di logica le accuse, siano di estranei o di un “caro genitore”, vanno verificate prima di mandare i carabinieri ad eseguire un ordine di arresto... non si dovrebbe arrestare e sperare di trovar prove successivamente, si dovrebbero trovar prove e poi arrestare. Sua madre ha subìto la stessa sorte: ha seguito la figlia in carcere perché un fiorista l'ha sognata e perché c'è chi ha notato un'ombra grigia sfrecciare per Avetrana. Un sogno ed un'ombra possono giustificare il carcere in canili umani? Non inserirò altre storie di presunti colpevoli, arrestati e carcerati preventivamente e senza prove, basta cercare in internet per trovare migliaia di innocenti risarciti della reclusione ingiusta con soldi statali... e non con quelli privati di chi ha sbagliato a chiudere in carcere, senza avere prove, un incensurato. Rovinare la vita delle persone comuni è fin troppo facile, questo è quanto l'italiano, che non ha mai avuto guai con la giustizia, deve capire. Non deve credere di essere immune perché onesto, e non deve pensare che a lui ed ai suoi figli non capiterà mai quanto capitato ad altri. Lo sbaglio è sempre dietro l'angolo. Lo sa bene Giuseppe Gullotta, che di anni in galera ne ha fatti ventuno, compresi i preventivi, a causa delle torture riservate a chi lo ha accusato (poi impiccatosi in carcere seppure avesse un solo braccio). Ed anche se un domani il danno verrà scoperto e riparato, non ci sarà mai un risarcimento che possa compensare la psiche, che possa riportare in vita i genitori morti dal dolore, che possa ridare la “salute” alle mogli che per la vergogna e il dispiacere sono invecchiate anzitempo (sempre siano restate accanto ad un marito che non c'era), che possa far tornare l'infanzia e l'adolescenza nei figli cresciuti senza un padre accanto, cresciuti col marchio dell'infamia che porta il dover parlare di un genitore non presente perché in carcere. Non inserirò altre vergogne italiche, non le inserirò perché anche se narrassi mille e una storia, nulla cambierebbe e nessuno modificherebbe il proprio modo di operare e di giudicare gli altri, siano essi giudici o pubblico di talk show. Per questo servirà tempo e una buona capacità di insegnamento da parte di chi formerà i nuovi giudici ed i nuovi magistrati. Ma non c'è da stupirsi, in fondo la nostra giustizia rispecchia la maggioranza del popolo italiano... quella maggioranza che succhia la notizia senza accorgersi che il gusto lascia l'amaro in bocca. A un mese dalla sentenza di primo grado sull'omicidio di Avetrana, Michele Misseri torna ad autoaccusarsi. Ospite in collegamento di Barbara D'Urso a Domenica Live, zio Michele ha nuovamente confessato la sua colpevolezza scagionando la moglie Cosima e la figlia Sabrina. “Loro sono innocenti – ha ripetuto più volte Misseri – io sono l’assassino, ma nessuno mi vuole credere. Ho i rimorsi e devo pagare per quello che ho fatto.” L'uomo ha poi minacciato il suicidio se la moglie e la nipote verranno condannate in via definitiva. Per chi se lo fosse perso: Barbara D'Urso e le sue faccette il 3 marzo 2013 hanno intervistato Michele Misseri a Domenica Live su Canale 5. Tempo concesso all'occultatore del cadavere di Sarah Scazzi e reo confesso del delitto: un'ora circa, nemmeno fosse Silvio Berlusconi. Senza lasciare nulla al caso, la D'Urso si è vestita a righe per l'occasione e lo ha intervistato per la seconda volta nel giro di pochi mesi (la prima era stata a dicembre 2012); da Avetrana, collegata in diretta, Ilaria Cavo. Perché a Michele Misseri, nello spazio domenicale che un tempo era rivolto alle famiglie, si concede la diretta. Ma lo scandalo è la piega che prendono certe trasmissioni trash e disinformative: Quarto Grado, La Vita in Diretta, Porta a Porta, Chi la Visto? ecc. E' interessante notare l'evoluzione della figura di Michele Misseri; all'inizio era lo “zio orco”, poi è diventato - per i giornalisti - la povera vittima di moglie e figlia, e allora la sua immagine è stata in parte ripulita. Così per i tg è tornato semplicemente ad essere un uomo: lo zio Michele. Contemporaneamente il processo sull'omicidio di Avetrana si era spostato dalle aule giudiziarie in televisione; la sovraesposizione delle persone coinvolte era stata tale da renderli personaggi televisivi, Sabrina e Michele Misseri in particolare. La voglia di sangue del pubblico. Il Colosseo come gli studi televisivi. La parzialità dei conduttori è spudorata e non fanno niente affinchè non prevalga la voglia di giustizialismo a danno di Sabrina Misseri e Cosima Serrano: Mara Venier e tutti gli altri, compreso l’ipocrisia di Barbara D’Urso che si dichiara “vicina a Concetta e alla sua battaglia”. Mai nessuno di loro, però, a raccontare la verità. La verità storica ed incontestabile è che il processo è ancora al primo grado, manca il certo appello e la Cassazione e, cosa che rimarca un certo senso di malessere nei confronti di certi magistrati, è che Michele Misseri si dichiara colpevole ma è libero, mentre la moglie e la figlia che si professano innocenti sono in carcere. Si dichiarano colpevoli l’uno ed innocenti le altre da sempre e con coerenza, come se fossero criminali esperti ed incalliti. Non solo: prima la D'Urso lo invita per impennare lo share (e per cos'altro sennò?), poi lo cazzia per quello che ha fatto, (confessare il delitto che secondo lei non ha commesso o aver commesso il delitto?). “I padri non diventano assassini” dice la D’Urso, giusto per appagare le voglie del pubblico guardone e schierarsi dalla parte di chi pensa che Michele menta per coprire Sabrina.»
La mamma di Sarah, Concetta Serrano Spagnolo Scazzi, come si è comportata?
«Comunque, per colpevoli che possano essere agli occhi dei giustizialisti, è pur vero che la colpevolezza va provata e nessuno, dico nessuno, può essere condannato senza prove che adducano ad una colpa al di là di ogni ragionevole dubbio. Eppure c’è chi si ostina a tener ferma la sua posizione, senza ombra di dubbio, mossa da sentimenti prosaici e poco religiosi. Eppure nessuno, oltre al sottoscritto, osa parlare contro il sentimento comune, se non Ilaria Cavo con i suoi atteggiamenti, la giornalista Mediaset indagata proprio dalla procura di Taranto, e Maria Corbi con i suoi articoli, giornalista del “La Stampa” di Torino. La nostra colpa è vedere le cose con imparzialità senza essere genuflessi e succubi ai magistrati tarantini. Il processo al delitto di Sarah Scazzi è il processo ad Avetrana. Alla richiesta da parte di Argentino e Buccoliero della condanna per tutti gli imputati, specialmente per l’ergastolo a Sabrina Misseri ed alla madre Cosima Serrano, tutta l’Italia forcaiola ha applaudito. Si sentono ancora gli applausi registrati nello studio di “La vita in diretta” con Marco Liorni e di “Pomeriggio cinque” con Barbara D’Urso. A tutti i testimoni che hanno testimoniato contro la tesi accusatoria si prospetta la condanna per falsa testimonianza. L’Italia forcaiola che per soddisfare l’aspettativa di vendetta pretende la tortura e l’omicidio di Stato per lavare l’onta di un efferato delitto. A scanso di essere lapidati da falsi moralisti si tiene a precisare che si può essere d’accordo, ma non bisogna mai emettere giudizi affrettati e sommari, prima di ascoltare cosa ha da dire la difesa, tenuto conto che nei processi italiani, fino a che non tocchi ai difensori la parola, hanno voce solo i pubblici ministeri ben ammanicati con giornalisti approssimativi e parziali. Per chi conosce bene il sistema della giustizia in Italia ed i magistrati italiani prima di emettere sentenze popolari bisogna essere cauti e con cognizione piena di causa. La mamma di Sarah, Concetta Serrano Spagnolo, ha accolto le richieste di ergastolo con mezza soddisfazione. «Sono cose che non fanno gioire nessuno e che non servono a ridare la vita strappata di una bambina. Chi uccide merita l'ergastolo - ha dichiarato la mamma di Sarah, Concetta - è stato il processo delle menzogne ed è anche giusto che coloro che hanno detto tutte queste menzogne paghino per quello che hanno detto. Non hanno avuto pietà per una bambina che stava anche piangendo». «Ho sempre detto che il movente della gelosia di Ivano non mi convinceva, che c'era qualcosa di losco e quello che è emerso ieri lo conferma». Lo ha detto Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi. Concetta ha fatto riferimento, con quel 'losco', alle abitudini a sfondo sessuale che aveva la comitiva di cui faceva parte Sabrina Misseri, come fare spogliarelli o andare a vedere le coppiette, coinvolgendo presumibilmente anche Sarah. Certo che ognuno di noi ci si potrebbe anche chiedere cosa facesse una ragazza di 15 anni insieme ad una comitiva di maggiorenni ed avere orari di rientro non compatibili per una ragazza della sua età. Concetta ha aggiunto che «è possibile» che Cosima abbia inseguito Sarah e abbia partecipato al delitto, secondo la tesi dell’accusa, perchè «lei è di altra tradizione, di altra generazione e non accettava questo stile di vita di Sabrina». «Non è vero, come hanno detto – ha aggiunto – che io odio Sabrina e Cosima. Mi fa rabbia che loro ce l’abbiano ancora con Sarah e continuino a dire che sono innocenti nonostante l'evidenza».» Un giornalista chiede a Concetta: “Signora Concetta Serrano (madre di Sarah Scazzi), dopo trentasette udienze e tanti testimoni, quali cose ha capito di questo processo? E che cosa si aspetta?” «Ho trovato eccellente la presidente della Corte d’Assise Rina Trunfio, bravi anche i pubblici ministeri Mariano Buccoliero e Pietro Argentino che hanno condotto indagini puntuali e puntigliose. Come andrà a finire non lo so, non ho molta fiducia nella giustizia degli uomini. I magistrati, anche loro, si devono attenere a certi dettami di legge che non ci proteggono. Anche se gli imputati prenderanno il massimo della pena, tra indulti e buona condotta li rivedremo in giro dopo pochi anni. Così, tanti sacrifici, tanto lavoro e tanti soldi di noi cittadini a che cosa saranno serviti? A niente. Ieri sono andata a comprare delle caramelle e il negoziante mi ha fatto notare la stranezza delle leggi: Fabrizio Corona deve stare in carcere cinque anni per reati tutto sommato banali, mentre mio cognato Michele, che ha gettato il corpo di una bambina in un pozzo, lo vediamo girare libero in paese come se niente fosse. Non solo io, ma tutto il paese è indignato per questo». Critiche alla giustizia in senso lato ed apprezzamenti ai magistrati, che poi non sono altro che il corpo e l’anima della giustizia e per gli effetti gli unici responsabili dell’ingiustizia e della malagiustizia. La ricerca di un colpevole e non del colpevole e la pena dura e certa da far scontare in canili umani per soddisfare il bisogno di vendetta e non di giustizia, pare che sia l’opinione di Concetta Serrano. Le convinzioni di Concetta Serrano sui magistrati italiani non sono certo condivise da altre mamme come lei, certo non traviate dal turbinio mediatico, ma artatamente i media usati da quest’ultime come strumento per una lotta dura e costante mirante alla ricerca della verità. «Ci sono in Italia "inefficienze gravi" nelle indagini che riguardano i sequestri dei bambini, "qualcosa che non funziona" su cui il governo deve intervenire, altrimenti "i bambini continueranno a sparire e non verranno mai trovati".» L’accusa arriva da Piera Maggio e Maria Celentano, rispettivamente la madre di Denise Pipitone – scomparsa a Mazara del Vallo il 1 settembre del 2004 – e di Angela Celentano, sparita sul Monte Faito il 10 agosto 1996. Intervenute a ‘Buona Domenica’ su Canale 5 del 1 marzo 2008 le due madri hanno preso spunto dalla vicenda di Ciccio e Tore. «Il mio pensiero va a quei due bambini che purtroppo non ci sono più. Ringrazio Dio perché ho ancora la speranza di riabbracciare Angela e invece quei due bambini sono lassù - dice Maria Celentano per attaccare investigatori e inquirenti. «C’é in Italia un’inefficienza grave nelle indagini sui sequestri di bambini – afferma Piera Maggio – Nel 2007 abbiamo scoperto una cosa allucinante. Ci sarebbe stata la risoluzione del caso di Denise, e nessuno se ne era accorto. La sfortuna maggiore di mia figlia è stata quella di avere delle persone che la cercavano che forse non avevano le competenze per svolgere determinate indagini. Ho perso e mi hanno fatto perdere la fiducia nella giustizia italiana. Le famiglie - aggiunge la mamma di Denise - possono fare poco e niente, non hanno mezzi, aiuti necessari. Sono sole psicologicamente e moralmente e a pagare sono sempre i bambini». Parole simili arrivano da Maria e Catello Celentano. «Forse dodici anni fa non c’erano i mezzi che ci sono oggi – dice Maria – ma la realtà e sempre quella: i bambini spariti non si trovano. Non so perché, forse c’é poco impegno e poca responsabilità da parte degli adulti, ma qualcosa che non funziona c’é perché i bambini continuano a sparire. E poi si ritrovano in questo modo qua che è una cosa veramente atroce». «In Italia - aggiunge il marito - ogni volta che scompare un bambino si impiegano persone che non sono attrezzate, non hanno capacità e mezzi. E invece bisogna fare di più per loro». La madre di Yara Gambirasio, Maura Panarese, ha scritto al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a più di due anni dalla morte della figlia. Il testo della lettera parla di "Scarsa collaborazione degli investigatori con la parte lesa". E' quanto rivela la puntata "Quarto Grado" andata in onda venerdì 25 gennaio 2013. Secondo quanto riferito dalla trasmissione, nella lettera inviata al Capo dello Stato, la madre di Yara esprime le proprie critiche nei confronti di chi ha eseguito l’inchiesta. Un’indagine che si è concentrata, prima sul cantiere di Mapello, poi sull’ipotetico figlio illegittimo di un autista bergamasco morto da anni, basandosi sul Dna. La donna manifesta dunque al Presidente Napolitano tutto il dolore e lo sconforto perchè, dopo anni d’indagini, la figlia non ha ancora avuto giustizia. Il mio libro “Sarah Scazzi, il delitto di Avetrana. Il resoconto di un Avetranese. Tutto quello che non si osa dire”, fa parte integrante della collana editoriale “L’Italia del trucco, l’Italia che siamo” composta da 50 opere trattanti, appunto, la sociologia storica, di cui io sono profondo cultore: ossia rappresentare e studiare il presente, rapportandolo al passato e riportandolo al futuro. Il libro su Sarah Scazzi è la vicenda soggettiva ed oggettiva che rappresenta l’Italia. Sarah Scazzi può essere Yara Gambirasio, Elisa Claps, Ciccio e Tore, Denise Pipitone, e tutte quelle vicende misteriose che hanno interessato i media. Se l’Italia dei media ha giudicato Avetrana, influenzando il pensiero dei più, un Avetranese giudica l’Italia dei media e le sue patologie: omertà, censura, disinformazione. E lo fa con una certa e non indifferente perizia, adottando un sistema inoppugnabile. Non riportare le proprie opinioni, che non interessano a nessuno ed a scanso di accuse di mitomania o pazzia, ma affidarsi ai fatti certi ed incontestabili, citandone la fonte. Il libro work in progress aggiornato periodicamente come tutti gli altri libri si può trovare da leggere gratuitamente sul sito dell’associazione di cui sono presidente nazionale www.controtuttelemafie.it in cui vi sono pure i filmati di riferimento, ovvero a minimo costo su Google libri, su Amazon per l’E-Book o su Lulu per il cartaceo.»
E sui magistrati in generale cosa ha da dire?
«Toghe rosse, toghe nere, toghe rotte. I giudici come le seppie e i polpi: cambiano colore a seconda degli imputati?
Il problema forse non è tanto nel colore delle toghe ma nella loro insita incapacità di cogliere la verità storica nelle vicende umane. La loro presunta superiorità morale e culturale rispetto alla massa, avallata dal concorso truccato che li abilita, li pone talmente in alto che miseri loro non riescono a leggere bene la realtà che li circonda. Insomma loro son loro e noi “non siamo un c….”. Le strade italiane, oramai, sono diventate molto più transitabili, quasi deserte, non perché le persone son diventate improvvisamente più casalinghe e pantofolaie, ma semplicemente perché certuni PM e Giudici di casa nostra amano sbattere nelle patrie galere chiunque gli giri intorno: quindi, tutti dentro appassionatamente! La Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo accusa ad alta voce il nostro Paese, che viene giustamente condannato per il trattamento inumano e degradante dei carcerati detenuti nelle infernali galere italiche. Pensate che tale richiamo abbia minimamente scosso gli uomini dalla galera facile? I pubblici ministeri, i Gip, i Gup e i Procuratori Capo? I giudici monocratici o riuniti in assise. Neanche per idea! Al minimo dubbio, al fresco, nei Grand Hotel Italiani a -7 stelle; le cui stanze di meno di 3 metri quadrati possono contenere anche tre o quattro detenuti. Ma, a loro cosa può interessare; per le tenebrose toghe nere ciò che conta è apporre tacche su tacche alle loro pistole fumanti. Tanto chi paga quest’ammasso di carne sovrapposta in loculi invivibili è il cittadino italiano. I tantissimi processi, indagini, rinvii a giudizio per chi non ha fatto un emerito c…., e i tantissimi suicidi che si verificano settimanalmente in tali luoghi di tortura, non contano niente. L’importante è che di fronte a una ridottissima controversia ci si copra le spalle, ammanettando coloro che - di fatto - potrebbero a tutti gli effetti, e molti lo sono, essere innocenti. Tanto i Giudici, i PM e compagnia bella non verranno mai toccati, né verranno mai chiamati a rispondere in solido (pecuniariamente, moralmente, penalmente) dei misfatti compiuti. Solo nei casi eclatanti di magistrati pedofili, di giudici che usano il proprio ufficio per ricattare sessualmente viados o donne della mala, o di quelli conniventi con le varie mafie, si arriva a arrestarli, sed post breve tempus tutto viene subdolamente fatto passare nel dimenticatoio. Questa, purtroppo, è la disperata situazione della legge italiana, a voler continuare a non separare le carriere, a rimandare da tempo immemore la riforma della giustizia, e all’equiparare reati inferiori, quello, per esempio, di Fabrizio Corona, a reati gravissimi come l’omicidio, altro esempio la sentenza vergognosa del macellaio Jucker che si è fatto solo 10 anni per aver trucidato la fidanzata. In campagna elettorale si parla di tutto, meno della libertà del cittadino italiano che sta scomparendo, terrorizzato dalle cupe toghe nere. Il rischio della rappresentanza politica è sbagliare il rappresentante, perché questi signori nominati dall’alto si presentano in un modo e poi si comportano al contrario.»
Che rapporto ha lei con i magistrati locali e se ha fiducia nel loro operato, tenendo conto anche dell’esito del processo sul delitto di Sarah Scazzi?
«C’E’ SEMPRE UN GIUDICE A BERLINO. IL FUTURO AFFIDATO ALLA SORTE PER CHI RACCONTA LA VITA SENZA PARAOCCHI. La condanna o l’assoluzione affidata alla fortuna per la quale ti viene assegnato un magistrato dedito alla giustizia e non al culto della propria personalità. Quando, per poter esercitare il diritto di critica e di cronaca, senza pagare fio, ti tocca essere giudicato dal giusto giudice assegnato per sorte (e non per normalità come dovrebbe essere). «Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Questa premessa per raccontare le mie e l’altrui vicissitudini giudiziarie per aver scritto la verità e l’esito differenziato dei processi in virtù del giudice che ha deciso sulle cause. Per raccontare come può cambiare il senso della vita dell’imputato le cui sorti sono pendenti dal volere di una persona, il cui giudizio può essere falsato da un criticabile modus operandi. E’ un giorno come gli altri in quel Tribunale. Tribunale di Manduria, sezione staccata di Taranto. Ma è come se fossi in qualunque Tribunale d’Italia. E’ il 21 febbraio 2013, ma può essere qualsiasi altro giorno dell’anno che fu o che sarà. Sono lì da imputato per l’ennesimo processo per diffamazione a mezzo stampa, uno dei tanti senza soluzione di continuità. E’ il prezzo da pagare per non essere pecora in un immenso gregge. In attesa del mio turno, tra i tanti procedimenti chiamati, seguo il processo a carico dei dirigenti della Banca di Credito Cooperativo di Avetrana ed a carico di un noto politico dello stesso paese, la cui moglie si presenta alle elezioni per la Camera dei Deputati. Sono molteplici i reati contestati, in riferimento ad un assegno incassato ante datato e firmato per somme di denaro riferibili ad un defunto. La stessa banca è coinvolta, tramite il suo funzionario, anche nella vicenda di Sarah Scazzi. Nel proseguo dei procedimenti penali sento il nome dell’imputato di un altro processo, Giovanni Caforio, anche lui perseguito per diffamazione a mezzo stampa. Anche lui una mosca bianca nel sistema disinformativo locale. Accusato e giudicato per aver scritto sul suo giornale di Sava, Viva Voce, il resoconto critico della mal amministrazione cittadina a vantaggio personale, facendo riferimento ad un procedimento penale a carico di un amministratore, avvocato. L’avvocato Romoaldo Claudio Leone, sentendosi diffamato, ha querelato il direttore del giornale. Nel processo è stato difeso come parte civile dall’avv. Gianluigi De Donno. Il giudice titolare Rita Romano non è lei a decidere ed allora in quel processo accade una cosa che non ti aspetti: il suo sostituto, il giudice togato Simone Orazio, dopo un’attenta ed approfondita analisi della questione giuridica, assolve l’imputato, visibilmente commosso. Strano quel che è successo in quel giorno in quell’aula. In precedenti udienze il direttore Giovanni Caforio era già stato più volte condannato per lo stesso reato, ma per altri fatti, proprio dal Giudice Rita Romano. Sentenze naturalmente appellate. Per la Corte di Appello di Taranto, che assolve Giovanni Caforio perché il fatto non costituisce reato, è da assolvere "perchè nella critica, la verità esprime un giudizio che, in quanto tale, è sì, l’elaborazione soggettiva di un avvenimento ma non può del tutto essere scollegata dalla realtà". Ancora mi rimbomba in testa quel che accadde il 12 luglio 2012: assolto con la formula più ampia nel Tribunale di Manduria dove è titolare Rita Romano, ma da lei non giudicato: per non aver commesso il fatto. Assolto dal giudice onorario della sezione distaccata di Manduria, avv. Frida Mazzuti, su richiesta del Pubblico Ministero Onorario avv. Gioacchino Argentino. Nulla di che, se non si trattasse dell’epilogo di un atto persecutorio da parte della magistratura tarantina. Questa è una esperienza che insegna e che va raccontata. L’oscuramento del sito web effettuato con reiterati atti nulli di sequestro penale preventivo emessi dal Pubblico Ministero togato Adele Ferraro e convalidati dal GIP Katia Pinto. Lo stesso GIP che poi diventa giudice togato del dibattimento e che alla fine del processo proclamerà la sua incompetenza territoriale. Dopo anni il caso passa al competente Tribunale di Taranto. Qui il Gip Martino Rosati adotta direttamente l’atto di reiterazione del sequestro del sito web, senza che vi sia stata la richiesta del PM. Il reato ipotizzato è: violazione della Privacy. Non diffamazione a mezzo stampa, poco punitiva, ma addirittura violazione della privacy, reato con pena più grave. E dire che gli atti pubblicati non erano altro che notizie di stampa riportate dai maggiori quotidiani nazionali. Era solo un pretesto. Di fatto hanno chiuso un portale web di informazione e d’inchiesta di centinaia di pagine che riguardava fatti di malagiustizia, tra cui il caso di Clementina Forleo a Brindisi e una serie di casi giudiziari a Taranto, oggetto di interrogazioni parlamentari. Tra questi il caso di un Pubblico Ministero che archivia le accuse contro la stessa procura presso cui lavora; che archivia le accuse contro sé stesso come commissario d’esame del concorso di avvocato ed archivia le accuse contro la sua compagna avvocato, dalla cui relazione è nato un figlio. Fatti di malagiustizia conosciuti e scaturiti da esperienze vissute personalmente o raccontate dalle vittime, fino a quando mi hanno permesso di svolgere la professione di avvocato e successivamente in qualità di presidente di un’associazione antimafia. Dopo anni i magistrati togati di Taranto non hanno ottenuto la mia condanna, nonostante i più noti avvocati di quel foro abbiano rifiutato di difendermi e sebbene tutti i miei avvocati difensori mi abbiano abbandonato, eccetto l’avv. Pietro DeNuzzo del Foro di Brindisi. Qualcuno si è fatto addirittura pagare da me, nonostante abbia percepito i compensi per il mio patrocinio a spese dello Stato. Ed ancora dopo anni i magistrati togati di Taranto non hanno ottenuto la mia condanna, anche in virtù del fatto che il giudice naturale, Rita Romano, sia stata ricusata in questo processo, perché non si era astenuta malgrado sia stata da me denunciata. A dispetto di tutte le circostanze avverse vi è stata l’assoluzione, ma i magistrati togati hanno ottenuto comunque l’oscuramento di una voce dell’informazione. Voce che in loco è deleteria al sistema giudiziario e forense tarantino e contrastante con la verità mediatica locale. Da rimarcare è il fatto che tutte, dico tutte, le mie denunce od esposti presentati agli organi competenti sono state regolarmente insabbiati: archiviati o di cui non si è più avuto notizia pur chiedendo esplicitamente l’esito. Far passare per mitomane o pazzo chi è controcorrente è la prassi, per denigrarne nome ed attività. Nonostante non vi sia mai stata condanna per calunnia.»
Quindi ritiene che, nonostante la sua opera moralizzatrice, alcuni magistrati del posto la perseguitano?
«Non dimentico il 18 aprile 2013. Due processi a Manduria, sezione staccata del tribunale di Taranto. In quei processi scomodi, che nessuno vuol fare, più giudici togati di Taranto si avvicendano: Rita Romano, Vilma Gilli, Maria Christina De Tommasi; oltre a 2 giudici onorari: Frida Mazzuti e Giovanni Pomarico. Processi a mio carico costruiti ad arte senza che vi sia stata la querela necessaria o la denuncia di attivazione. Alla prima giudice, Rita Romano, si è presentata ricusazione per la denuncia presentata contro di lei. In seguito di ciò l’avv. Gianluigi De Donno rinuncia alla mia difesa. Ha avuto le stesse remore di Nicola Marseglia nel momento in cui Franco Coppi ha presentato istanza di astensione alla Misserini ed alla Trunfio, i giudici di Sabrina Misseri. Per il primo sono accusato di calunnia in concorso con mia sorella, per aver presentato una denuncia contro un sinistro truffa, in cui era coinvolta un’avvocatessa stimata dai magistrati di Taranto, compreso un sostituto procuratore della Repubblica dello stesso Foro in cui esercitava, e sono accusato di diffamazione a mezzo stampa per aver pubblicato un esposto penale ed amministrativo a varie istituzioni denunciando questo ed altri casi di malagiustizia. Per l’altro processo sono accusato di diffamazione a mezzo stampa per aver pubblicato una denuncia contro le perizie false in Tribunale, da chi, Giuseppe Dimitri, mio cliente che ho difeso da avvocato fino all’estremo, mancava di legittimazione a farlo, in quanto il presunto diffamato era altra persona, cioè il denunciato. In udienza il danneggiato ha confermato che non ha mai presentato querela contro di me, né aveva avuto mai intenzione di farlo. Per quella denuncia il giudice Rita Romano ha condannato per calunnia Dimitri, nonostante il Consulente Tecnico del Tribunale, proprio per il reato di cui era accusato, era già stato depennato dalla lista tribunalizia dei CTU. Nel primo processo mi si accusa di aver calunniato, in concorso con mia sorella, un avvocato, Nadia Cavallo, accusandola, sapendola innocente, di aver chiesto ed ottenuto illecitamente i danni per un sinistro truffa e con testimoni falsi in suo atto di citazione che indicava come responsabile esclusiva Monica Giangrande. In effetti Monica Giangrande non era responsabile di quel sinistro. Eppure è stata condannata dal giudice Rita Romano. La condanna per calunnia a carico di mia sorella inopinatamente non è stata appellata dai suoi avvocati, pur sussistendone i validi motivi. La giudice, Rita Romano, è stata da me denunciata, così come Salvatore Cosentino, sostituto procuratore a Taranto e poi trasferito a Locri . Salvatore Cosentino, come tutti i magistrati di Taranto aveva molta stima per Nadia Cavallo. Rita Romano ha condannato mia sorella pur indicando in sentenza che altra persona era responsabile esclusiva del sinistro, così come mia sorella andava attestando. Va da sé che tale sentenza contenente illogicità e contraddizioni sarebbe dovuta essere appellata. Salvatore Cosentino era il Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto che ha chiesto ed ottenuto l’archiviazione della denuncia contro la Procura di Taranto. Procura che ha archiviato le denunce presentate riguardo proprio a quel sinistro truffa. I processi civili inerenti il sinistro sono stati tutti soccombenti, nonostante le prove indicassero palesemente il contrario. La Nadia Cavallo ha ottenuto il risarcimento danni del sinistro dall’assicurazione, oltre che 25,000 mila euro di danni morali da Monica Giangrande proprio per la condanna di calunnia. Per questo procedimento la mia posizione sin dall’inizio è strana. Non sono convocato nella prima udienza preliminare con mia sorella, quindi è nullo il mio rinvio a giudizio. Dopo anni, nella seconda udienza preliminare, il GUP chiede al PM gli atti di prova a mio carico, in tale sede mancanti. Alla risposta negativa gli concede ulteriore termine di 6 mesi per trovare la prova della mia colpa, al termine dei quali, durante la terza udienza preliminare vi è comunque il Rinvio a Giudizio. All’ultima giudice devo provare se il fatto sussiste, se l’ho commesso, se è previsto come reato. Ebbene. Io, come mia sorella sapevamo benissimo che l’avvocato era colpevole: perché non era attendibile la versione fornita dell’evento. Ma questo non lo dicevamo solo noi, io e mia sorella, ma anche l’avvocato della compagnia assicurativa costituita nei vari giudizi. Eppure questi non è stato perseguito dello stesso reato. Per la compagnia non era verosimile il fatto che un signore che tocca lo sportello di un’auto non identificata e condotta da signora diversa dalla Monica Giangrande, si alzi e se ne vada, per poi chiamare un’ambulanza per farsi portare a casa e non in ospedale. Eppure negli atti di citazione non viene chiamata in causa la vera responsabile del presunto sinistro ed il vero proprietario dell’auto. Ciò nonostante si conoscesse il responsabile esclusivo del sinistro, veniva chiamata in causa mia sorella che acclamava a gran voce la sua estraneità. Ma il fatto eclatante è che sono stato accusato di calunnia io che quella denuncia non l’ho mai presentata, né ho indotto mia sorella a farlo, non essendo il suo avvocato. Sono stato accusato di calunnia io, che se l’avessi fatto, sapevo benissimo che la denuncia era fondata. Per quanto riguarda la seconda accusa, di diffamazione a mezzo stampa, c’è da dire che il sito web, su cui vi era l’articolo che faceva riferimento ai fatti, non era mio, né l’articolo era a me riferibile. Io per scrivere le mie inchieste ho moltissimi miei canali di divulgazione facilmente riconducibili a me e di quelli io ne rispondo. Né tantomeno la Polizia Postale si è prodigata sotto gli ordini del PM di sapere dall’azienda web provider che gestisce il server di pubblicazione chi fosse il vero proprietario del sito web e quindi responsabile delle pubblicazioni. E bene sapere, comunque, al di là di questo, che è lecita la pubblicazione delle denunce penali, così come stabilito dalla Corte di Cassazione. Per questi processi, come volevasi dimostrare, con il giusto giudice l’esito è scontato: Assoluzione piena da parte del Giudice Togato Maria Christina De Tommasi e da parte del GOT Giovanni Pomarico. Anzi, meglio ancora. Giovanni Pomarico, nel processo della presunta diffamazione per le perizie false, non ha fatto altro che registrare la remissione della querela delle parti. Di chi non aveva legittimazione a presentarla contro di me e di chi addirittura non l’aveva presentata affatto. Con il giudice naturale, se non vi fosse stata la ricusazione, sarebbe stata condanna certa. Quanto successo a Caforio mi conforta di un fatto: aver adottato i rimedi giusti per potermi salvare da sicura condanna. Il giudice titolare Rita romano è stata da me denunciata per fatti attinenti l’attività giudiziaria, scaturenti condanne per me, che nel proseguo si sono estinti, e per i miei familiari, e per tale denuncia è stata ricusata. Le ricusazioni presentate contro il giudice nei successivi processi che mi riguardavano, ha permesso a me di cambiare il mio destino e comunque di essere giudicato da giudici diversi e per gli effetti di essere dichiarato assolto. Per le ricusazioni presentate per palese mio interesse, però, lo stesso avvocato Gianluigi De Donno, mio difensore, ha rimesso il suo mandato. Motivo: la Ricusazione non si doveva fare. C’è da sottolineare che successivamente il Giudice Rita Romano, ogni qualvolta era investita dei miei procedimenti, si asteneva, tacendo della mia denuncia contro di lei, non mancando, però, di sottolineare ad alta voce nelle udienze affollate che l’astensione era dovuta al fatto che io ero stato da lei denunciato per calunnia. Denuncia che avrebbe scaturito un procedimento, di cui io non avevo avuto notizia. Non solo. Il 18 febbraio 2013 il Pm Ida Perrone, sostituta di Pietro Argentino (entrambi denunciati a Potenza) nella sua requisitoria in un procedimento per il reato di usura a carico di un Giangrande (poi non condannato) ha pensato di dichiarare: «i Giangrande sono ben noti in Avetrana per essere considerati usurai e per aver io stessa trattato alcuni procedimenti». In quello stesso collegio giudicante la medesima Rita Romano ha dovuto astenersi per grave inimicizia con il sottoscritto per i suddetti motivi riferiti. Le stesse affermazioni diffamatorie sono state proferite in altro procedimento penale in sede di conclusioni dall’avvocato Pasquale De Laurentiis, difensore di un individuo giudicato e condannato proprio per diffamazione in udienza ed anche lui per aver pronunciato proprio la stessa frase. Evidentemente questi signori lo possono fare, legittimati a farlo dal loro ruolo ed agevolati dal farlo da chi in toga lo permette, senza alcun controllo alcuno, tanto meno se le vittime in tale sede non possono alcunchè obbiettare, né tali dichiarazioni offensive, denigratorie e diffamatorie rese in udienza, vengono verbalizzate dai cancellieri per poter querelare i responsabili, sempre che si trovi un loro collega disposto a perseguirli. E’ chiaro che i magistrati e gli avvocati di Taranto e provincia hanno il dente avvelenato contro di me. L’intento è colpire i Giangrande per colpire il Giangrande, ossia me. Ma una cosa è certa. In Avetrana vi sono centinaia di persone con il cognome Giangrande. Nessuno di loro è stato mai condannato in via definitiva per il reato di usura. Quindi nulla si può dire sul nome Giangrande, ne tanto meno si può dire qualcosa su di me, Antonio Giangrande, che, oltretutto, sono il presidente nazionale proprio di una associazione antiracket ed antiusura, il quale ha fatto l’errore di battersi contro l’usura bancaria e l’usura di Stato. E’ quello che a Taranto è stato il primo ad attivarsi contro le bufale dei titoli MyWay e 4you della Banca 121 poi Banca Monte Paschi di Siena. Quello che ha lottato a tutela degli incapaci e delle perizie false. Quello che ha denunciato i concorsi pubblici truccati e i sinistri stradali falsi. Denunce regolarmente archiviate. Certo è che io, sì, invece, ho scritto libri sui miei detrattori. Specialmente quelli operanti sul foro di Taranto. Che sia per questo il motivo di tanto astio? Ed è questo il motivo che non vogliono che faccia l’avvocato e da decenni non mi abilitano alla professione forense? Ed è questo il modo di collaborare con chi ha il coraggio di mettersi contro la mafia e di affermare che comunque la mafia vien dall’alto e per gli effetti aver denunciato le malefatte dei poteri forti e presentato altresì a Potenza le denunce contro i magistrati di Taranto, che tra l’altro si son archiviati una denuncia a loro carico anziché girarla proprio a Potenza? Per questo forse non vi è alcuna collaborazione istituzionale e sostegno morale e finanziario, per il modo di pormi nei confronti dei poteri forti? Ed è per tutto questo che i loro amici giornalisti ignorano e denigrano me così come fanno con Beppe Grillo?»
Lei ha altri esempi di contrastanti giudizi riferibili all’attività dell’informazione?
«Certo. Il 21 febbraio 2013, un altro fatto. Dopo la richiesta di assoluzione da parte dell'accusa, il giudice del Tribunale di Casarano dott. Sergio Tosi, ha assolto Maria Luisa Mastrogiovanni per tutti e 12 i capi di imputazione. Il fatto non sussiste. E' la sentenza con la quale è stata assolta dall'accusa di diffamazione a mezzo stampa la giornalista Maria Luisa Mastrogiovanni, direttore del Tacco d'Italia. A portarla davanti al Tribunale penale di Casarano, presidente Sergio M. Tosi, è strato Paolo Pagliaro, editore televisivo salentino molto noto di Tele Rama, a sua volta protagonista di alcune vicissitudini giudiziarie, ma come imputato. Proprio queste vicende (l'uomo subì anche gli arresti domiciliari per un'inchiesta della procura barese, il cui processo è stato stralciato dal troncone principale nel quale è stato invece condannato l'ex ministro Fitto), insieme ad una serie di irregolarità e stranezze nella conduzione della sua azienda, costituirono l'oggetto di una corposa inchiesta di copertina de Il Tacco d'Italia, andato in edicola nel dicembre 2005. La stessa sorte non è toccata per Enzo Magistà e Antonio Procacci. Il gip di Bari Gianluca Anglana ha disposto l’imputazione coatta per i giornalisti di Telenorba Enzò Magistà e Antonio Procacci coinvolti nell’inchiesta scaturita dalla messa in onda del filmato girato dalla polizia scientifica di Perugia che mostrava il cadavere di Meredith Kercher. Meredith Kercher fu uccisa nel novembre del 2007 a Perugia e, nella casa in cui viveva, fu girato un video dalle forze dell’ordine per esaminare la scena del crimine che in seguito fu mostrato da Telenorba, una emittente pugliese. Il gip ha invece archiviato le posizioni dei familiari di Raffaele Sollecito, assolto in secondo grado dall’accusa di omicidio volontario insieme ad Amanda Knox. Il pm di Bari aveva chiesto l’archiviazione per tutti gli indagati perché «la diffusione di alcune parti del filmato relativo al sopralluogo effettuato dalla polizia scientifica nell’abitazione in cui venne rinvenuto il cadavere di Meredith Kercher – è stato scritto nella richiesta di archiviazione – , nel quale viene ripreso il corpo denudato della vittima, è avvenuto nell’ambito dell’esercizio del diritto di cronaca senza alcun intento offensivo della reputazione della studentessa uccisa». “Leso il diritto alla riservatezza ed alla tutela dell’immagine della ragazza e, per lei, dei suoi familiari”. E’ scritto, invece, in un passaggio dell’ordinanza con cui il gip del Tribunale di Bari Gianluca Anglana ha accolto l'opposizione proposta dalla famiglia di Meredith Kercher, la studentessa inglese uccisa a Perugia la notte tra il primo e il 2 novembre 2007, con riferimento alla richiesta di archiviazione per due giornalisti pugliesi che nel marzo 2008 mandarono in onda le immagini del corpo nudo della vittima. Il giudice, nel disporre l’imputazione coatta per Enzo Magistà, direttore di Telenorba, e per il giornalista Antonio Procacci, ha respinto la richiesta di archiviazione presentata dalla Procura di Bari in relazione ai reati di diffamazione a mezzo stampa e violazione del codice della privacy. In particolare è “pacifica la sussistenza dei requisiti della verità dei fatti rappresentati”, secondo il gip, e “non sembra rispettato il requisito della continenza nella esposizione del servizio”. Per il giudice, “risultano obiettivamente raccapriccianti le immagini delle ferite” e “tali da turbare il comune sentimento della morale”. L'inchiesta, nata dalla denuncia della famiglia Kercher, è approdata a Bari dopo che, in udienza preliminare, il gup di Perugia ha dichiarato la propria incompetenza territoriale. Il procuratore di Bari, Antonio Laudati, nel luglio 2012, aveva chiesto l’archiviazione del procedimento per tutti gli indagati (oltre Magistà e Procacci, anche i familiari di Raffaele Sollecito), ritenendo per i giornalisti “che gli stessi avessero agito nel legittimo esercizio del diritto di cronaca” e per gli altri l’insufficienza di elementi per sostenere l'accusa a dibattimento. Il giudice ha accolto la richiesta di archiviazione per padre, madre, sorella e due zii di Sollecito, condividendo le conclusioni della procura.»
Per le mie battaglie di civiltà e giustizia, che nonostante tutto creano un certo seguito nazionale, non potrei mai trovare una candidatura in qualsiasi partito tradizionale, reazionario e conservatore, da destra a sinistra. Eppure, in questa situazione di emarginazione e persecuzione, neanche in un movimento come quello di Grillo ho potuto trovare un posto in Parlamento per battermi per quello che so e per quello che sono a vantaggio dei più. Motivo? Perché i nuovi giustizialisti e moralisti della domenica hanno pensato bene di inibire le candidature a chi è indagato o condannato. Fa niente se trattasi di ritorsione giudiziaria al diritto sacrosanto di critica al malgoverno ed alla corruzione. Nel 2013 i grillini, primo partito a Taranto e secondo in provincia, catapultano a Roma ben due deputati. Oltre al più noto Alessandro Furnari, c’è anche Vincenza Labriola. La neo deputata 32 anni, mamma, laureata in Scienze della Comunicazione, prima delle politiche è stata già candidata al Consiglio comunale. Nel 2012 raccolse un solo voto di preferenza, oggi invece lo ‘tsunami’ di Grillo che ha investito il paese, l’ha lanciata in Parlamento. Precedenti risultati elettorali? Un voto. Sì, proprio così. Un solo voto di preferenza alle comunali di maggio 2012. È questo il «precedente» elettorale della neodeputata del Movimento Cinque Stelle, Vincenza Labriola, che insieme ad Alessandro Furnari, rappresenta i «grillini» parlamentari della provincia ionica. Ma se Alessandro Furnari, ex candidato sindaco alle comunali (prese l’1.6 per cento), bene o male lo si conosce, chi è mai Labriola? Alla «Gazzetta» lei si presenta così: «Sono laureata in Scienze della comunicazione ed ho discusso una tesi sullo sviluppo dell’arco ionico. E poi, trovare un lavoro confacente al titolo acquisito è risultata un'impresa praticamente impossibile nella mia città. Sono sposata - continua - ed ho scelto di rimanere nella mia città per amore». Quell’unico voto (anche se, un anno fa era diventata madre per la seconda volta e non aveva tempo per fare campagna elettorale) conferma, in maniera plastica, le tante contraddizioni del Porcellum. Ovvero, di una legge elettorale che (nonostante le primarie «democratiche e le parlamentarie degli stessi grillini) premia comunque i «nominati». Mandando a Montecitorio e a Palazzo Madama chi, di fatto, non ottiene un solo voto dagli elettori ma conquista il seggio in virtù della posizione in lista. Anzi, no. Labriola, un voto (ma proprio uno) l’ha comunque avuto...
LETTERA AL DEPUTATO MAI ELETTO
Signore Onorevole Cittadino Parlamentare,
avrei bisogno per un attimo della sua attenzione. Dedichi a me un suo momento,così come io dedico le mie giornate alle vittime di mafia e delle ingiustizie. Questa mia segnalazione non è spam, né tantomeno l’istanza di un mitomane o di un pazzo e quindi da cestinare.
Sono il dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, riconosciuta dal Ministero dell’Interno come associazione antiracket ed antiusura, e scrittore-editore dissidente, che proprio sulle varie tematiche sociali ha scritto 50 libri letti in tutto il mondo facenti parte della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare.
Mi rivolgo a voi perché nuovi, in quanto i parlamentari delle legislature precedenti non si sono mai degnati di dare dovuto riscontro alle mie segnalazioni di interesse pubblico. Nell’ambito della mia attività sempre io ho dato risposte ai miei interlocutori pur se a volte erano persone disperate e fuori di testa e quindi pretendenti risposte che io, senza potere, potessi dare.
Per prima cosa le sto a segnalare il fatto, già segnalato ai precedenti Parlamenti, che è impossibile in Italia svolgere l’attività di assistenza e consulenza antimafia se non si è di sinistra e se non si santificano i magistrati. In Italia vi è l’assoluto monopolio dell’antimafia in mano a “Libera” di Don Ciotti e di fatto in mano alla CGIL, presso cui molte sedi di “Libera” sono ospitate. “Libera”, con le sue associate locali, è l’esclusiva destinataria degli ingenti finanziamenti pubblici e spesso assegnataria dei beni confiscati. Di fatto le associazioni non allineate e schierate (e sono tante) hanno difficoltà oltre che finanziaria, anche mediatica e, cosa peggiore, di rapporti istituzionali. Si pensi che la Prefettura di Taranto e la Regione Puglia di Vendola a “Libera” hanno concesso il finanziamento di progetti e l’assegnazione dei beni confiscati a Manduria. A “Libera” e non alla “Associazione Contro Tutte le Mafie”, con sede legale a 17 km. A “Libera” che non può essere iscritta presso la Prefettura di Taranto, perchè ha sede legale a Roma, e non dovrebbe essere iscritta a Bari, perché a me è stato impedita l’iscrizione per mancata costituzione dell’albo.
Altra segnalazione di una mia battaglia ventennale riguarda l’esame truccato dei concorsi pubblici ed in specialmodo quello di abilitazione forense, che poi è uguale a quello del notariato e della magistratura. Ho anche cercato di denunciare l’evasione fiscale e contributiva degli studi legali presso i quali i praticanti avvocato sono obbligati a fare pratica. I “Dominus” non pagano o pagano poco e male ed in nero i praticanti avvocati e per coloro che non hanno partita iva non gli versano i contributi previdenziali presso la gestione separata INPS. Agli inizi, facendo notare tale anomalia al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, mi si disse: “fatti i cazzi tuoi anche perché vedremo se diventi avvocato. Appunto. Da anni mi impediscono di diventarlo, dandomi dei voti sempre uguali ai miei elaborati all’esame forense. Elaborati mai corretti.
Il sistema di abilitazione truccato riguarda tutte le professioni intellettuali: magistrati, avvocati, professori universitari, giornalisti, ecc. La domanda che ci si dovrebbe porre è: dov’è il trucco?
COMMISSIONI D’ESAME: con la riforma del 2003, (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180), dopo gli scandali e le condanne sono stati esclusi dalle commissioni d’esame i Consiglieri dell'Ordine degli Avvocati, competenti per territorio, mentre i Magistrati e i Professori universitari non possono correggere gli scritti del loro Distretto. Le commissioni locali fanno gli orali e vigilano sullo scritto, mentre gli elaborati sono corretti da altre commissioni estratti a sorte. Questa riforma, di fatto, mina la credibilità delle categorie coinvolte. Le Commissioni e le sottocommissioni hanno un diverso metro di giudizio, quindi alla fine bisogna affidarsi anche alla buona sorte per avere una commissione più benevola. Naturalmente, le Commissioni del nord continuano ad avere un atteggiamento pro lobby, limitando l’accesso all’avvocatura al 30% circa dei candidati, per paura che i futuri avvocati del sud emigrino al nord. A riguardo ci sono state interrogazioni scritte al Ministro della Giustizia da parte di deputati (n. 4-10247, presentata da Pietro Fontanini mercoledì 16 giugno 2004 nella seduta n. 478 e n. 4-01000 presentata da Silvio Crapolicchio mercoledì 20 settembre 2006 nella seduta n. 038). Dubbi sono sorti anche sul modo di abbinare le commissioni. Il deputato lucano Vincenzo Taddei (PdL) ha presentato un’interrogazione scritta al Ministro della Giustizia. Il motivo della richiesta di intervento è preciso: per ben tre anni consecutivi, nel 2005, 2006 e 2007, da quando sono entrate in vigore le modifiche sullo svolgimento dell’esame di avvocato, le prove scritte dei candidati della Corte d’Appello di Potenza stranamente sono state sempre corrette presso la Corte d’Appello di Trento con percentuali di ammessi all’orale sempre molto basse (nel 2007 circa il 18%).
LE TRACCE: sono conosciute giorni prima la sessione, tant’è che il senatore Alfredo Mantovano ha presentato una denuncia penale ed una interrogazione al Ministro della Giustizia (n. 4-03278 presentata il 15 gennaio 2008 Seduta n. 274).
INIZIO DELLE PROVE: la lettura delle tracce avviene secondo le voglie del Presidente della Corte d’Appello, che variano da città a città. Nel 2006 la lettura delle tracce a Lecce è stata effettuata alle ore 11,45 circa, anziché alle 09,00 come altre città. In questo modo i candidati hanno tempo di farsi dettare le tracce e i pareri sui palmari e cellulari, molto prima della lettura ufficiale.
IL MATERIALE CONSULTABILE: nel 2008, tra novembre e dicembre il caos. Se al concorso di magistratura succede di tutto, a quello di avvocatura è ancora peggio. Due concorsi diversi, stessa sorte. Niente male per essere un concorso per futuri magistrati ed avvocati. Niente male, poi, per un concorso organizzato dal ministero della Giustizia. Dentro le aule di tutta Italia, per il concorso di avvocati che si svolge in ogni Corte d'Appello italiana, è entrato di tutto: fotocopie, bigliettini con possibili tracce e, soprattutto, palmari e cellulari. Ma sul concorso in magistratura svolto a Milano c’è ne da parlare. Sopra i banchi i codici «commentati» vietati, con il timbro del ministero che ne autorizzava l'utilizzo. Relazione pubblicata sul sito del Ministero della Giustizia e protocollata con il n. 19178/2588 del 24/11/2008, in cui il presidente denuncia l'atteggiamento «obliquo e truffaldino da parte di non pochi candidati e, tra questi, un vicequestore della Polizia di Stato, trovata in possesso di una rilevante dose di appunti, nascosta tra la biancheria intima». Eppure le regole dovevano essere più rigide. Dovevano esserci più controlli. Era stato assicurato dal ministero della Giustizia. Con tanto di sanzioni e espulsioni.
IL MATERIALE CONSEGNATO: per norma si dovrebbe consegnare ogni parere in una busta, contenente anche una busta più piccola con i dati del candidato. Ma non è così. Le buste con i dati si possono aprire prima della lettura degli elaborati. A Roma, venerdì 13 marzo 2009, alla fine è dovuta intervenire la polizia penitenziaria. Al grido di “Buffoni! Buffoni!” centinaia di esaminandi del padiglione 6 al concorso di notaio si sono scagliati contro la commissione. “Questo esame è una farsa – hanno gridato – ci sono gli estremi per poterlo annullare”. Si è visto “gente che infilava un nastro rosso nella busta” per farsi riconoscere, gente che “aveva le tracce già svolte” e gente che, dopo aver chiacchierato con i commissari, “si faceva firmare la busta in modo diverso”.
CORREZIONE DEGLI ELABORATI: la legge 241/90 e il Ministero della Giustizia dettano le regole in base alle quali si deve svolgere la correzione, per dare i giudizi. Essi attengono alla rappresentanza delle categorie degli avvocati, magistrati e professori universitari, oltre all’attenzione data alla sintassi, grammatica, ortografia e sui principi di diritto del parere dato.
Cosa fondamentale, la legge regola la trasparenza dei giudizi e la Costituzione garantisce legalità, imparzialità ed efficienza.
Di fatto, le commissioni da sempre adottano una percentuale di ammissibilità, che contrasta con un concorso a numero aperto: 30% al nord, 60% al sud.
Di fatto, le commissioni sono illegittime, perché mancanti, spesso, di una componente necessaria.
Di fatto, i tre compiti non sono corretti, ma falsamente dichiarati tali, perché sono immacolati e perché non vi è stato tempo sufficiente a leggerli. (3/5 minuti per elaborato: per aprire la busta con il nome e la busta con l’elaborato, lettura del parere di 4/6 pagine, correzione degli errori, consultazione dei commissari per l’attinenza ai principi di diritto, verbalizzazione, voto e motivazione).
Di fatto, i voti dei tre elaborati sono identici e le motivazioni sono mancanti o infondate. Su tutti questi notori rilievi vi è stata interrogazione presentata dal deputato Giorgia Meloni (n. 4-01638 mercoledì 15 novembre 2006 nella seduta n.072). Oltre che quella n. 4-01126 presentata da Giampaolo Fogliardi mercoledì 24 settembre 2008, seduta n.054, e quella n. 4-07953 presentata da Augusto di Stanislao mercoledì 7 luglio 2010, seduta n.349. Illegale ed illegittimo è anche il ritardo con cui sono consegnate dalle commissioni di esame le copie degli elaborati, al fine di impedire la presentazione in termini dei ricorsi al Tar, in quanto la maggior parte di questi ricorsi sono accolti dalla giustizia amministrativa. Solo, però, se presentati in modo ordinario, in quanto le commissioni impediscono l’accesso al beneficio del gratuito patrocinio.
Di fatto, il Ministero non risponde alle interrogazioni parlamentari, né ai ricorsi dei candidati. Le denunce penali contro gli abusi e le omissioni, poi, sono gestite dai magistrati, componenti delle stesse commissioni contestate, per cui le stesse rimangono lettera morta.
Di fatto, gli ispettori in loco del Ministero della Giustizia sono componenti del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, che come tali non possono far parte delle Commissioni, in quanto dalla riforma del 2003 sono stati esautorati per il loro comportamento.
Di fatto, alcuni candidati superano l’esame al primo tentativo. Chi presenta le denunce penali circostanziate e provate, invece, deve rinunciare a causa delle ritorsioni. Sulla home page di www.controtuttelemafie.it al link dossier vi sono tutti gli atti giudiziari di riferimento.
Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.
A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?
Questa è la denuncia penale, così come richiesta in sede di avocazioni delle indagini alla procura Generale della Corte di Appello di Potenza, e per la quale è stata presentata (a dire di Rita Romano) denuncia per calunnia.
DENUNCIA ALLA S.V.
Rita Romano, giudice monocratico del Tribunale di Taranto, sezione staccata di Manduria,
domiciliata in viale Piceno a Manduria,
per i reati di cui agli artt. 81, 323, 476, 479 c.p., con applicazione delle circostanze aggravanti, comuni e speciali ed esclusione di tutte le attenuanti,
IN QUANTO
Essa, abusando del suo ufficio, ha adottato continuamente atti del suo ufficio, con “INTENTO PERSECUTORIO”, lesivi degli interessi, dell’immagine e della persona del sottoscritto, motivati da pregiudizio ed inimicizia e non sostenute da prove.
Nei procedimenti che riguardavano direttamente o indirettamente il Giangrande Antonio, quando questi esercitava la professione forense, essa ha condannato quando le prove erano evidenti riguardo l’innocenza, o essa ha assolto quando le prove erano evidenti sulla colpevolezza.
PREMESSO CHE:
Giangrande Antonio, da difensore, è stato vittima di un aggressione in casa da parte del marito di una sua assistita in un procedimento di separazione, al fine di impedirgli la presenza all’udienza del giorno successivo. Nel processo penale n. 10354/03 RGD, in data 14 febbraio 2006, la Romano assolveva l’aggressore Mancini Salvatore. In un processo istruito, in cui il PM non ha richiesto l’ammissione di alcun testimone, pur indicanti in denuncia Giangrande Antonio, sua moglie Petarra Cosima e il figlio Giangrande Mirko, la Romano sente solo i coniugi ai sensi del’art. 507 c.p.p. su indicazione del Giangrande, ma rinuncia alla testimonianza di Mirko, il vero testimone. Tale abnorme decisione di assoluzione è stata assunta disattendendo i fatti, ossia le lesioni e le testimonianze, e definendo testimoni inattendibili il Giangrande e la Petarra.
Giangrande Antonio era accusato di esercizio abusivo della professione forense e per gli effetti di circonvenzione di incapace. Nel processo penale n. 7612/01 RGPM, in data 06/03/2007, nonostante lo stesso PM riteneva il reato di esercizio abusivo della professione forense infondato e inesistente, essendovi regolare abilitazione al patrocinio legale, chiedendone l’assoluzione, la Romano condannava il Giangrande per circonvenzione di incapace. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante le tariffe forensi prevedevano l’obbligatorietà dell’onorario per il mandato svolto. Tale abnorme decisione è stata assunta nonostante più volte si sia denunciata la violazione del diritto di difesa per mancata nomina del difensore, per impedimento illegittimo all’accesso al gratuito patrocinio. E’ seguito appello. Da notare che il giorno della sentenza era l’ultimo processo ed erano presenti solo il PM, il giudice Romano, il cancelliere e il difensore dell’imputato. Dagli uffici giudiziari è partita la velina. Il giorno dopo i giornali portavano la notizia evidenziando il fatto che il condannato Giangrande Antonio era il presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Era la prima volte che le vicende del Tribunale di Manduria avevano degna attenzione.
Giangrande Antonio era difensore di Natale Cosimo in una causa civile di sinistro stradale. Il testimone Fasiello Mario dichiara di non sapere nulla del sinistro. Esso era denunciato per falsa testimonianza. Nel processo penale n. 1879/02 PM , 1231/04 GIP, 10438/05 RGD, in data 27 novembre 2007, la Romano lo assolveva. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante lo stesso rendeva testimonianza contrastante a quella contestata. Lo assolveva nonostante affermava il vero e quindi il contrario di quanto falsamente dichiarato in separata causa. Lo assolveva nonostante a difenderlo ci fosse un difensore, Mario De Marco, impedito a farlo in quanto Sindaco pro tempore di Avetrana. Il De Marco e Nadia Cavallo hanno uno studio legale condiviso.
Giangrande Antonio e Giangrande Monica erano accusati di calunnia, per aver denunciato l’avv. Cavallo Nadia per un sinistro truffa, in cui definiva, in reiterati atti di citazione, Monica “RESPONSABILE ESCLUSIVA” del sinistro. Atti presentati due anni dopo la richiesta di risarcimento danni, che la compagnia di assicurazione ha ritenuto non evadere. Il Giangrande Antonio non aveva mai presentato denuncia. Antonio era fratello e difensore in causa di Monica. La posizione del Giangrande Antonio era stralciata per lesione del diritto di difesa e il fascicolo rinviato al GIP. Nel processo penale n. 10306/06 RGD, in data 18 dicembre 2007, la Romano condannava Giangrande Monica e rinviava al PM la testimonianza di Nigro Giuseppa per falsità. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante la presunta vittima del sinistro non abbia riconosciuto l’auto investitrice, si sia contraddetto sulla posizione del guidatore, abbia riconosciuto Nigro Giuseppa quale responsabile del sinistro, anziché Giangrande Monica. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante Nigro Giuseppa abbia testimoniato che la presunta vittima sia caduta da sola con la bicicletta e che con le sue gambe sia andato via, affermando di stare bene. E’ seguito appello.
Giangrande Antonio era difensore di Erroi Cosimo, marito di Giangrande Monica, sorella di Antonio. In causa civile, in cui difensore della contro parte era sempre Cavallo Nadia, tal Gioia Vincenzo ebbe a testimoniare sullo stato dei luoghi, oggetto di causa. Il Gioia, in chiara falsità, palesava uno stato dei luoghi, oggetto di causa, diverso da quello che con rappresentazione fotografica si è dimostrato in sede civile e penale. Il Gioia, denunciato per falsa testimonianza veniva rinviato a giudizio in proc. 24/6681/04 R.G./mod 21. Difeso da Cavallo Nadia in proc. 10040/06 RGD. In data 16 aprile 2008 il giudice Rita Romano, pur evidenti le prove della colpevolezza, assolveva il Gioia Vincenzo.
"La pubblicazione della notizia relativa alla presentazione di una denuncia penale e alla sua iscrizione nel registro delle notizie di reato, oltre a non essere idonea di per sé a configurare una violazione del segreto istruttorio o del divieto di pubblicazione di atti processuali, costituisce lecito esercizio del diritto di cronaca ed estrinsecazione della libertà di pensiero previste dall'art 21 Costituzione e dall'art 10 Convenzione europea dei diritti dell'uomo, anche se in conflitto con diritti e interessi della persona, qualora si accompagni ai parametri dell'utilità sociale alla diffusione della notizia, della verità oggettiva o putativa, della continenza del fatto narrato o rappresentato. (Rigetta, App. L'Aquila, 10 Marzo 2006)". (Cass. civ. Sez. III Sent., 22-02-2008, n. 4603; FONTI Mass. Giur. It., 2008).
UNA CONDANNA E UNA SANZIONE ECONOMICA. QUESTO HA DECISO IL GIUDICE DI MANDURIA, scriveva al momento della condanna da parte di Rita Romano il direttore Giovanni Caforio. Arrivati alla fine gli ultimi due processi che mi vedevano imputato per il reato di “diffamazione a mezzo stampa” e quindi il Giudice, martedì 3 luglio, con sentenza di primo grado mi ha ritenuto colpevole del reato sopra citato. La prima, quella che mi vedeva accusato dall’ex sindaco Aldo Maggi è stata alquanto severa: un anno e due mesi di reclusione (con i benefici di legge, ndr), la seconda quella intentata dall’ex delegato amministrativo Claudio Leone è stata sanzionata con 900 euro di multa. Certo entrambi i verdetti di primo grado verranno appellati e quindi aspetteremo intanto le motivazioni della sentenza che mi verranno date entro i classici 90 giorni. E poi si riparte presso la Corte d’appello di Lecce. E in questo appello avremo la possibilità di ribaltare queste due sentenze, cosa che è avvenuta diverse volte. E’ normale che si accusa il colpo, e questo è innegabile, ma subito dopo mi sono rialzato e credo che nella vita a tutto si paga un prezzo e in questo prezzo c’è tutta la consapevolezza di aver fatto, e anche scritto, tutto ciò che ho ritenuto giusto. Poi le aule di Tribunale sono un altro aspetto, certo non trascurabile. Ma sono un altro aspetto. Credo fortemente nella ragione delle cose, nell’indagare sui fatti, nello scrutare i comportamenti di chi ha amministrato questo paese solo ed esclusivamente per ciò che gli era affine. Non mi sento ne un Masaniello e tanto meno un Robespierre ma mi sento un giornalista che ha fatto, e lo sta facendo tutt’ora, ciò che giustamente ritiene importante per mettere a conoscenza del lettore tutti i fatti che sono avvenuti nella nostra Casa comunale in questi ultimi passati 5 anni. Leggendo le classiche carte e messo in moto il meccanismo della legalità che, questo è scontato, è sul tavolo della Procura della Repubblica di Taranto con sorprese che stupiranno moltissimo i nostri lettori e i savesi in genere, a brevissimo tempo. Non ho mai voluto aureole o encomi per quello che ho fatto, e che sto facendo, ho solo creduto che fare questo mestiere è stato dettato solo dalla passione e dall’amore verso questo paese. Credo che il giornalista somigli molto ad un maratoneta e quindi il suo lavoro di indagine, e di inchiesta, non si vede subito. Ma si vede comunque. L’ex sindaco Aldo Maggi ha dalla sua una posizione processuale per nulla invidiabile: rinviato a giudizio, proposte di rinvio a giudizio e diversi avvisi di garanzia. L’altro, Leone Claudio Romualdo, è indagato per Truffa aggravata e abuso e omissione di atti in ufficio. La posizione processuale di entrambi sta per arrivare alla fine e credo che quanto prima avremo le risposte a tutto questo. Oggi, per me, è andata così. Non mi scoraggio affatto. Anzi, mi metto a ridere pure quando “qualcuno” a mò di sfottò, appena ha saputo della sentenza di condanna in primo grado, telefonandomi mi ha detto testualmente: “Giovanni? Devo portarti le arance?” Io sempre sulla stessa linea. Dello sfottò, gli ho detto: “Grazie per l’offerta. Mancano solo le torte nella lista delle cose che mi mancano. Quanto alle arance, faresti bene a portale a qualcuno che ti è caro e che ti è stato vicino nella passata competizione elettorale”. Vado avanti, con audacia, con coraggio e senza paura. Senza guardare in faccia a nessuno. Questo sono io. Posso non piacere a più di qualcuno, normale questo. Ma sono così …
PROFONDO SUD: IL SOGNATORE E L’AVVOCATICCHIO … scrive Giovanni Caforio su “Viva Voce Web”. Russia. Ottobre 1917. Viene demolito l’impero dello zar Nicola II, i bolscevichi prendono il potere e vengono impiantati i soviet. I soviet rappresentano, nell’ideologia socialista di Trotski e di Lenin il primo passaggio che prevede la dittatura del proletariato, nella dottrina marxista, il quale deve portare dopo questa transizione all’anarchia. Impiantati i soviet nei quartieri russi e subito iniziano a ed emergere le prime figura politiche, socialiste, le quali si sentono già in grado di saper amministrare una nazione che ha appena lasciato un impero e che, faticosamente, dovrebbe avviarsi a un nuovo modello sociale, o meglio alla dittatura del proletariato. Un rampate avvocato bolscevico, un autentico felino, crede di già che può fare tutto ciò che crede. Eletto in uno dei diversissimi soviet moscoviti gli viene dato l’incarico della gestione del bene comune. Il felino, o fellone, comincia già a capire che la sua vocazione sono i soldi, se pur nelle casse del nuovo regime erano quasi scarsi. Convinto di saper fare tutto si appropriò, direttamente o indirettamente, di tutte quelle agevolazioni economiche che il suo incarico poteva dare. Oltre il felino, però, c’era un sognatore, il quale lo teneva a debita distanza e lo controllava nel suo operato all’interno del soviet. Il sognatore collezionò ben diverse notizie su di lui e le diffuse nel quartiere. L’avvocaticchiò si arrabbiò di brutto e convocò immediatamente l’organo centrale del soviet.
Viene fissato l’incontro collegiale tra l’avvocaticchio e il sognatore con i giudici supremi del soviet a valutare l’accusa del sognatore. I giudici moscoviti ascoltano l’avvocaticchio, il quale dice: ”Compagni, è innegabile la mia vocazione socialista. Sono nato socialista e continuo in quest’opera ideologica come hanno insegnato i nostri padri comunisti. Il sognatore ha parlato di me, rappresentante del popolo, in modo ignobile e denigrandomi davanti a tutti in un incontro pubblico. Chiedo che codesto organo popolare espelli, e lo condanni in modo esemplare, dalla nostra comunità il sognatore”. Dopo l’arringa dell’avvocaticchio, ecco quella del sognatore: “Giurati popolari, sapete benissimo che il mio credo comunista era solo in giovane età. Poi sono cresciuto, come è normale per ogni essere umano. Ho visto le cose in modo diverso e da come le ho viste le ho narrate ai miei conoscenti e amici, quindi non credo di avere colpe alcune sul diritto di parlare. Se voi credete all’avvocaticchio condannatemi. Lo accetto, seppur controvoglia. Ma sappiate che l’operato dell’avvocaticchio è stato alquanto scabroso”. I giudici, dopo aver ascoltato entrambi, si ritirano nelle loro stanze. Rientrano nell’aula del soviet e decretato l’assoluzione per il sognatore. L’avvocaticchio, sentito il verdetto delle toghe rosse, si mette le mani nei capelli e comincia a strapparsi quei pochi capelli che gli sono rimasti. E’ nervoso e al passaggio casuale del sognatore davanti a lui gli batte le mani in segno di sfottò. Il sognatore è calmo e di rimando, al battito della mani provocatorio, gli risponde: ”Li mani và battili an facci a mammta. Pizzarroni cà nò se otru!”. Il 21 febbraio 2013, presso il Tribunale di Manduria, sezione staccata di Taranto, il giudice Orazio Simone mi ha assolto perchè il fatto non costituisce reato, scrive il direttore di Viva Voce Web di Sava. I fatti: nell’inverno del 2009 il Consiglio comunale savese concorda, con l’opposizione, la formazione di una Commissione bipartisan, la quale vuole indagare sulla voragine economica che si è aperta nell’Ufficio Contenzioso del nostro Comune. Il delegato amministrativo è l’avvocato Claudio Romualdo Leone, in quota PSI nella passata amministrazione Maggi. Nel 2007 il Contenzioso savese aveva sborsato, quindi dalle nostre casse comunali, la cifra di 80 mila euro ma nell’anno successivo si registrò un esborso del nostro Ente comunale di qualcosa come 500 mila euro. Alla luce di questa esorbitante differenza, l’opposizione chiese alla maggioranza del centrosinistra savese di far luce su questo enorme sbalzo economico. Costituita la Commissione, la quale si mette subito al lavoro o meglio a leggere le classiche carte e di seguito i vari pagamenti fatti dal nostro Comune a chi batte cassa per buche stradali o, in ultima ipotesi, per danni fisici derivati proprio da queste buche. Un paio di mesi di lavoro ed ecco redatto il lavoro della Commissione comunale. Detto lavoro viene consegnato direttamente all’ex presidente del Consiglio comunale Giuseppe Brigante il quale preso atto di ciò non invia tutto il carteggio alla Procura della Repubblica di Taranto. L’opposizione di allora, attuale Sindaco in testa, invia direttamente tutto il lavoro di inchiesta al Magistrato, e in questo caso si registra il defilarsi vergognoso del Partito Democratico savese, comunisti compresi, i quali non mettono la loro firma nell’Esposto che viene inviato alla Procura! Il magistrato, una volta ricevuto il carteggio, mette immediatamente in evidenza due reati: Truffa aggravata e abuso e omissione di atti in ufficio contro l’avvocato Claudio Romualdo Leone. Il nostro giornale riceve il lavoro di inchiesta e si accerta che effettivamente stanno così le cose, ovvero le indagini del magistrato che riguardano il delegato amministrativo sopra citato. Ora, cosa dicevano queste carte ricevute dalla Procura tarantina? Andiamo per ordine: il delegato amministrativo Claudio Leone aveva liquidato danni derivati dalle buche in diverse situazioni. Una buca riparata, con rilievo fotografico esibito dal pretendente, il giorno ics veniva liquidata, per il danno “subito” il giorno zeta. Quindi se la buca veniva riparata ad esempio il giorno 15 di un determinato mese ecco pronta la richiesta di danno subito il giorno 25 sulla stessa buca, la quale risultava di fatto già riparata! E su questo caso, e non era solo un caso, il magistrato ha puntato la sua indagine. In altri casi sono stati liquidati danni, sempre in virtù di stè maledette buche stradali, vedendo l’avvocato Claudio Leone sia avvocato dell’accusa (cliente) sia avvocato della difesa (nostro Comune) e questo deontologicamente non si può fare, o meglio non si è mai visto che un avvocato difende sia l’accusatore che l’accusato. Mai! Andiamo avanti, ma divento riduttivo in quanto di esempi nel lavoro della Commissione sono tantissimi, risulta anche che la figlia dell’avvocato Leone, sempre in virtù di una buca stradale, si fa male (forse andando in bicicletta o altro) e chiama ai danni il nostro Comune. Bene, o meglio vediamo bene come funziona questo. Il padre, Claudio Leone, liquida il danno subito dalla figlia in diverse migliaia di euro e in questa liquidazione è compresa anche la percentuale di invalidità (o di danno fisico subito). Voi vi direte: siamo d’accordo con quanto sopra, ma che centra questa ultima citazione? Certo tutti i nostri figli possono cadere in una buca stradale, e Sava è la regina delle buche, e quindi può farsi male anche la figlia del Leone. Ma nella liquidazione dei danni fisici subiti dalla ragazza, i quali corrispondono a diverse migliaia di euro, non è consentito il solo parere del delegato amministrativo (e qui credo che ci sarebbe anche un conflitto evidentissimo di interessi, in quanto il padre liquida un danno subito dalla figlia) ma ben sì il parere di una Commissione medica la quale è la sola in grado di valutare se c’è un danno fisico o meno e di che portata pure. Finita questa descrizione, sommaria per la verità, il nostro giornale riportò in prima pagina la notizia delle indagini che vertevano su Claudio Leone. Chiedevamo le dimissioni del Leone in attesa che il magistrato facesse luce sul suo operato amministrativo. Il nostro giornale appone un dazebao in Piazza San Giovanni (incriminato in questo mio rinvio a giudizio). Apriti cielo! Fioccano denunce! Andiamo a questa assoluzione: sono stato difeso egregiamente dall’avvocato Salvatore De Felice (il quale spesso scherzosamente, e volentieri, mi dice, che oltre a tagliarmi la lingua sono le mani che devono esserlo per prima cosa!) il quale nella sua arringa ha posto in prima battuta il diritto di cronaca, seppur con toni forti ma correlati dai fatti, o meglio delle indagini in corso che vedevano il Leone indagato per Truffa aggravata e Abuso ed omissione di atti in ufficio. La difesa del Leone ha voluto a tutti i costi voler dimostrare che la data del dazebao era antecedente alla decisione del magistrato sul carteggio inviato dall’opposizione savese di allora. Il giudice Orazio Simone ha sospeso il dibattimento chiedendo al Cancelliere la richiesta da inviare immediatamente, via fax, alla Procura di Taranto, per accertarsi di questo. Richiesta avvenuta: il dazebao aveva data maggio 2010, la Procura di Taranto aveva già iscritto nel registro degli indagati il Leone nel settembre del 2009. E’ stata una bella assoluzione ma, ricordo ai nostri lettori, che nelle cose ci vuole coraggio, solo coraggio. E non dobbiamo mai abbassare la testa quando vediamo che in genere, chi è stato designato al bene comune, di seguito ne fa un bene proprio. Destra o sinistra non ci importa affatto! E non ci dobbiamo lamentare sempre con il classico”tutti sono uguali, tutti sono alla stessa maniera”. No, non ci dobbiamo mai abituare a questo concetto. Altrimenti la nostra democrazia perde punti e quando una democrazia perde punti non li perde soltanto un direttore garibaldino come me, ma li perdete tutti e tutti saremo meno liberi. Pensateci bene …
E non è tutto: lo stesso giorno
anche Maria Luisa Mastrogiovanni è assolta.
Casarano. 'Il fatto non sussiste'. Il giudice Sergio M. Tosi ha assolto con
formula piena la direttora del Tacco dall'accusa di diffamazione verso Paolo
Pagliaro. Dopo la richiesta di assoluzione da parte dell'accusa, il giudice del
Tribunale di Casarano dott. Sergio Tosi, ha assolto Maria Luisa Mastrogiovanni
per tutti e 12 i capi di imputazione. Il fatto non sussiste. E' la sentenza con
la quale è stata assolta dall'accusa di diffamazione a mezzo stampa la
giornalista Maria Luisa Mastrogiovanni, direttore del Tacco d'Italia. A portarla
davanti al Tribunale penale di Casarano, presidente Sergio M. Tosi, è strato
Paolo Pagliaro, editore televisivo salentino molto noto, a sua volta
protagonista di alcune vicissitudini giudiziarie, ma come imputato. Proprio
queste vicende (l'uomo subì anche gli arresti domiciliari per un'inchiesta della
procura barese, il cui processo è stato stralciato dal troncone principale nel
quale è stato invece condannato l'ex ministro Fitto), insieme ad una serie di
irregolarità e stranezze nella conduzione della sua azienda, costituirono
l'oggetto di una corposa inchiesta di copertina de Il Tacco d'Italia, andato in
edicola nel dicembre 2005. Un servizio molto ampio, dettagliato e documentato
come bella consuetudine di questa testata, corroborato anche da autorevoli
testimonianze, come quelle del giornalista Marco Travaglio e dell'allora
presidente dell'Ordine dei giornalisti di Milano, Franco Abruzzo. Nell'udienza
odierna il pm ha chiesto l'assoluzione dell'imputata, non avendo ravvisato nel
dibattimento gli elementi che avevano invece indotto il pm dell'istruttoria,
dottor Antonio De Donno, ad individuare ben 12 punti sui quale chiedere (e poi
ottenere) il rinvio a giudizio di Mastrogiovanni. La parte civile, rappresentata
dall'avvocato Angelo Pallara, ha chiesto la condanna della giornalista,
sostenendo il suo reiterato intento "persecutorio" nei confronti del suo
assistito; la difesa, rappresentata dall'avvocato Massimo Manfreda, ha invece
rivendicato non soltanto la correttezza dell'impianto giornalistico
dell'inchiesta su Pagliaro (il cui titolo era "L'impero virtuale") ma,
soprattutto, il sacrosanto diritto dell'informazione a dare notizie ed elaborare
critiche. "Specialmente quando l'oggetto dell'attenzione professionale è un uomo
pubblico", ha sottolineato Manfreda. Oggi, più di ieri, Pagliaro è "pubblico"
essendo addirittura candidato alla Camera con un partito di destra, dopo essere
stato candidato nelle primarie per diventare sindaco di Lecce.
Massimo Manfreda ha concluso con la famosissima battuta di Humphrey Bogart,
giornalista nel film L'ultima minaccia, del 1952. "E' la stampa, bellezza".
SPECIALE PAOLO PAGLIARO E TELERAMA
L'impero virtuale
SPECIALE PAGLIARO STORY. Le inchieste incriminate e assolte, le 20 (suppergiù) querele e diffide. Il dovere d'informazione e il diritto di sapere. Gli scheletri nell'armadio e le ombre di un uomo politico che è anche un editore. Da Il Tacco d'Italia n.21. Pubblichiamo la prima parte dell'inchiesta su Paolo Pagliaro, uscita sul numero 21 del Tacco d'Italia. Pagliaro: l'impero virtuale. Il gruppo Mixer Media Management, i suoi paraventi e i suoi problemi. Un impero di facciata. Cioè maestoso nella sua struttura, ridondante nell'autoreferenzialità, ma fragile nelle sue fondamenta cartacee. Fragile, perché virtuale, perché parte di ciò che è dichiarato essere vero, vero non è. E quello che sembra a posto contiene elementi di dubbio. Proponiamo subito il sommario di quest'inchiesta che, probabilmente, non riusciremo ad esaurire in una sola puntata, avvertendo che quanto abbiamo scritto siamo in grado di documentarlo: i direttori dei telegiornali di Paolo Pagliaro non sono responsabili davanti alla legge ma soltanto, nella migliore delle ipotesi, coordinatori e organizzatori del lavoro giornalistico; una delle due testate televisive (leggi Tg) addirittura non esiste in base alle norme; la proprietà effettiva di una televisione è messa in discussione in un processo in corso che si annuncia molto complicato per l'attuale editore; la cooperativa dei giornalisti e di quasi tutti i dipendenti è controllata dall'editore-cliente tramite le nomine dei suoi vertici, la pattuizione e l'erogazione dei compensi individuali; i locali di una rete tv e di tutte le radio del gruppo non rispettano le basilari norme sulla sicurezza del lavoro, sono subissate da carte bollate e sono l'obiettivo di prossime ispezioni da parte della Asl e dei Vigili del Fuoco, perché in odore di "inagibilità"; le società che costituiscono il "Gruppo Mixer Media Management" - che comunque non risulta da una "visura Cerved" - sono riconducibili tutte ad un unico soggetto: Paolo Pagliaro. Proprietario, editore e, tramite l'amico e sodale Max Persano, controllore diretto di tutte le testate, televisive e radiofoniche, persino una di "agenzia giornalistica", la "Comunication" (con una sola "m"). Il Gruppo. Paolo Pagliaro è un imprenditore che deve parte del successo alla sua fantasiosità. Molte delle intuizioni di marketing sono diventate dei veri e propri brand; alcuni sono innocui, come il roboante "Gruppo Mixer Media Management", e la concessionaria di pubblicità "K.&C.". Sono entrambe sigle, tecnicamente si chiamano "insegne", che è facile trovare su carte e buste intestate, modulari di contratti, perfino negli spot autopromozionali. Altri sembrano meno innocui. Queste le società che la cosiddetta "visura Cerved" (accessibile via Internet molto facilmente) attribuisce a Paolo Pagliaro in quanto amministratore unico, socio unico o presidente del Consiglio di amministrazione: Telerama (srl con socio unico, capitale sociale 998mila euro, ricavi per un milione e mezzo di euro, una perdita d'esercizio di quasi 100mila euro al 31/12/03. In quel 2003 nessun dipendente dichiarato, nel 2001 ne risultavano 4. Un indice di liquidità del 106,5%); Radiosalento (srl, amministratore unico); Radiorama (srl, amministratore unico); Broker p.r. (srl, amministratore unico); Techno (srl socio unico); Comunicazione & servizi (srl socio unico); Consorzio circuito Top Tv Puglia (presidente del consiglio di amministrazione); Sestante (srl, amministratore unico); Editoriale Il Corsivo spa (Presidente del consiglio di amministrazione. Dichiarata fallita). Telerama ha un capitale sociale di quasi un milione di euro. Nell'ultimo esercizio ha perso oltre 97mila euro. I direttori irresponsabili. L'emittente Rts fa informazione giornaliera tramite tg ogni ora e il programma "Talk Sciò" è condotto con grande successo dal direttore Giuseppe Vernaleone. Entrambi, emittente e direttore, andrebbero catalogati nelle categorie dei Sedicenti o dei Virtuali, perché né Rts né questo collega sono registrati presso il Tribunale di Lecce. Almeno fino alla tarda mattinata del 17 novembre 2005. Rts nasce sulle spoglie di Telesalento, il cui direttore era (ed è, dal 2003) quel Massimo (Max) Persano, amico di sempre di Pagliaro, l'unico della vecchia guardia di professionisti e collaboratori (insieme a Titti Carratu e a pochissimi altri, due o tre che incontreremo più avanti con incarichi "sociali" di una certa rilevanza). A sua volta Telesalento è rinominata così dopo essere stata acquistata con il nome Tv 10. Come e da chi? Più avanti i divertenti dettagli, anch'essi "incartati" in un processo civile in corso di celebrazione. Qui proseguiamo con l'elenco dei Sedicenti o Virtuali perché dobbiamo tirar dentro anche una collega che stimiamo, Gabriella Della Monaca che non è, purtroppo per lei e per i telespettatori che ogni sera ne hanno letto il nome con questa qualifica sul "gobbo" di chiusura di ogni edizione (nella nuova impaginazione è stranamente scomparso), il direttore responsabile di TeleRama, la maggiore testata televisiva locale del Salento, ma al più, il facente funzioni. Ed anche in questo caso, fatta la verifica di rito, abbiamo scoperto che: per il Tribunale, "direttore responsabile" è Max Persano. Da ben 12 anni. Scopriamo che neanche il compianto Domenico Faivre, benché potesse insegnare giornalismo, ha mai avuto questa qualifica. Il vero direttore responsabile di Telerama non è Gabriella Della Monaca, ma Max Persano. Da 12 anni. Quindi, concludendo, è Paolo Pagliaro per interposte persone ad avere il controllo delle sue due emittenti, pur poggiandosi su due figure "tecnico-professionali", una giuridica del suo amico più caro Persano che firma entrambe le Testate, l'altra bicefala: i due giornalisti che dirigono quel che al padrone non interessa dirigere. Le controlla anche visivamente, le sue emittenti, l'attento padrone: di fronte alla sua scrivania ha un pannello di otto o dieci monitor sintonizzati sulle sue e sulle tv concorrenti e nazionali. Per far capire meglio, lettori e avvocati: se qualcuno querela per diffamazione TeleRama, a risponderne è, in solido con l'azienda, Massimo Persano non Gabriella Della Monaca; se la querela arriva a Rts non ne risponde nessuno, a meno che il diffamato non si dia da fare a ricostruire, a ritroso, tutto il percorso che Pagliaro ha fatto compiere alla vecchia Tv 10, poi Telesalento, infine Rts. Tanto meno, in tal caso, ne risponderebbe lo zelante Vernaleone che è davvero il più virtuale del mazzo. Per completezza d'informazione, abbiamo sentito il dovere di documentarci anche in questo caso. Da due presidenti regionali dell'Ordine dei Giornalisti ci è stato risposto che l'editore non può nel modo più assoluto trasmettere un tg non registrato, quindi clandestino a tutti gli effetti. Rischia la sospensione o addirittura la revoca della concessione e una serie di sanzioni pecuniarie che, presumibilmente, terranno anche conto delle movimentazioni economiche legate a questa tv, che si vede benissimo, ha successo eppure non è improprio definire "virtuale"; come "virtuale" è il direttore responsabile, il quale, a parte la brutta figura, rischia molto meno: un procedimento disciplinare se il caso viene sollevato anche davanti all'Ordine professionale, lievi sanzioni pecuniarie se viene individuato come soggetto agente in concorso con l'editore. Se veramente l'editore pubblica la dicitura "direttore responsabile" e questo fosse certamente dimostrabile, potrebbe andare incontro anche all'accusa di falso in atto pubblico e alla violazione delle norme relative alla registrazione dei giornali e alla dichiarazione dei mutamenti, previste dagli art. 5 e 6 della legge sulla stampa (n. 47 del 1948). Vale per Gabriella (finché è stata qualificata così), non per Vernaleone. Il giornalista ripetiamo non va incontro ad alcuna sanzione, del falso potrebbe essere chiamato a rispondere disciplinarmente davanti all'Ordine o potrebbe rispondere di concorso nel momento in cui si accerti che il collega era d'accordo con l'editore. Tutto molto tecnico, vero? Forse addirittura fastidioso, ma se si vuole informazione non truccata occorre stare nelle regole, di forma e di sostanza: e qui c'è molto cattivo odore di illegalità. Saremmo curiosi di sapere come reagirebbe Pagliaro se un suo concorrente fosse giuridicamente così male attrezzato, come è la sua RTS. Cioè: noi lo sappiamo bene (sappiamo di un tentativo posto in essere ad altissimo livello per far cessare l'attività di un competitore salentino), ma lo lasciamo immaginare ai lettori. E a proposito di regole, ecco un'altra perla. La Cooperativa C.C.C. Per i giornalisti, così come per quasi tutti i dipendenti di Pagliaro, il rapporto di lavoro è gestito da una Cooperativa, la seconda nella storia del "virtuale" Gruppo Mixer Media Management, perché la prima fu dichiarata fallita in seguito a vicende di cui sappiamo molto ma che, per ragioni di spazio, anche in questo caso non approfondiamo, perché lontane nel tempo (ché, se dovessimo andare indietro, troveremmo, ben più importante, lo scandalo delle false fatturazioni di Telerama, per cui andò in galera una mezza dozzina di personaggi eccellenti). Le Cooperative giornalistiche sono spesso un escamotage, sono attaccabili solo da qualcuno dotato di autorità ispettiva (come l'Inps, l'Inpgi, l'Ispettorato del Lavoro, eccetera) o dai lavoratori, ciò non di meno moralmente riprovevole; serve a sottopagare il lavoro, non avere doveri contrattuali rispetto ad orari e carichi, non riconoscere i diritti sindacali, non garantire pienamente e puntualmente le contribuzioni previdenziali. I ragazzi della C.C.C., nessun professionista e non tutti pubblicisti, che vivono l'effimera soddisfazione della notorietà televisiva (la formidabile leva che Pagliaro sa brandire con grande e riconosciuta sagacia, anche all'esterno), producono la materia prima della fortuna imprenditoriale del capo, ben sapendo, costoro, che hanno un futuro personale e previdenziale solo se se ne vanno da lì. Molti l'hanno fatto, molti vorrebbero farlo ma non possono perché non c'è mercato, e debbono accettare tutto. Siamo rimasti colpiti dalla posizione assunta dalla collega Della Monaca (che si firmava in calce "direttore responsabile") in occasione dello sciopero generale dei giornalisti: la redazione di TeleRama aderiva non perché la categoria è sfruttata dagli editori, come in tutta Italia, con lavoro precario, sommerso e senza garanzie, ma perché c'è il rischio che la Finanziaria tolga un po' di finanziamenti delle emittenti private! La Cooperativa funziona così: ciascun dipendente-collaboratore (cioè i giornalisti delle varie testate, i tecnici, i registi, tutto il personale che ruota attorno al Gruppo) stipula con essa un contratto per la prestazione di servizi. La C.C.C. a sua volta, per il tramite dei suoi vertici, stringe accordi con l'editore per l'erogazione di quei servizi (non solo giornalistici ma anche tecnici, amministrativi, ecc.). Tra i vertici, con la carica di vicepresidente del CdA, il solito Max Persano il quale aveva a suo carico, nel 2004, pignoramenti esattoriali e ipoteche legali per più di 800mila euro (non sappiamo se collegabili alla Cooperativa o ad altre aziende) che nel 2005 spariscono. Evidentemente pagati. Persano sta al timone effettivo del polmone lavorativo del Gruppo, decide praticamente tutto insieme a Pagliaro. E' direttore responsabile di ben cinque testate giornalistiche: Telerama, Telesalento (ovvero Rts), Comunication-agenzia d'informazione quotidiana, Caribe news, Jet Radio (tanto risulta al Tribunale al 17 novembre). Uno stress pazzesco. TeleRama. E' l'ammiraglia che va a gonfie vele, è il punto di riferimento assoluto e riconosciuto dell'informazione locale, blandita e temuta dal potere politico, arma letale ("Telearma", è rinominata dagli addetti ai lavori: ne sanno qualcosa in questo periodo importanti amministratori del Comune di Lecce) se qualcuno si mette di traverso, possente macchina di consenso e amplificatore di ogni iniziativa se qualcun altro va d'accordo con Pagliaro (dalla Provincia invece non ci sono giunte lamentazioni). La società è per il 100% di Pagliaro, il suo capitale sociale depositato sfiora il milione di euro. Drena migliaia di ore di pubblicità ogni anno, tabellare e di favore, palese e indiretta perfino negli spazi dell'informazione. Insomma è una potenza totale, perfetta e bellissima. Eppure è in perdita. Non tanto, ma quanto basta per tenere in vita gli altri parametri. Guardiamo dentro alle cifre ufficiali, sia pure parzialmente per non annoiare il lettore, ed anche perché parte delle risorse vengono permutate in beni e servizi, secondo la formula del "cambio merce", una tecnica triangolare di fatturazioni che Pagliaro utilizza appena può per pagare con pubblicità e non con denaro sonante fornitori, consulenti, prestatori d'opera, negozi, concessionarie d'auto eccetera. Dal conto economico, ultimo per noi disponibile, risulta che al 31/12/2003 la perdita di esercizio è stata di 97.807 euro; il suo Roe, return on equity, cioè il rapporto fra utile d'esercizio e patrimonio netto, cioè la redditività dell'azienda in relazione all'investimento è di -8,2 %, mentre l'indice di liquidità, il coefficiente che mette in relazione l'attivo e le rimanenze con il passivo, è 106, 5 %. Piccola perdita, né infamia né lode sugli altri fronti. Uno dei collaboratori di rango defenestrati da Pagliaro in questi ultimi anni, ci ha detto che nel solo 2004, al lordo dei costi di gestione, il Gruppo Pagliaro ha prodotto pubblicità e servizi per oltre sei milioni. Detratti i costi, quasi tutti conglobati in favore della cooperativa C.C.C. (bollette, oneri vari e affitti a parte), come abbiamo visto, l'emittente-corazzata non riesce a fare attivo. RTS. Si vede ma non c'è. Come già detto, per il Tribunale di Lecce-Registro della stampa, questa testata giornalistica che va in onda quotidianamente con programmi di informazione e pubblicità non esiste. Il presidente dell'Ordine di Lombardia, il mitico Ciccio Abruzzo, la definisce "clandestina" (rammentiamo che la legge istitutiva dell'Ordine dei giornalisti italiani è legge dello Stato). Esiste però "Studio 10 News TS Telegiornale Salento" (di fatto si tratta di TeleSalento, ex Tv 10); direttore responsabile del telegiornale è dal 2003 Max Persano, proprietario è "Il Circolo srl", oggi "Comunicazione & Servizi srl" di cui è amministratore Massimo Pezzuto, un collaboratore factotum di Pagliaro. Rts trasmette sulle frequenze dell'ex Tv10, che la "Punto casa servizi immobiliari" di Lecce ha acquistato da Antonio Fasano e Carmine Mosticchio per una cifra pattuita di un miliardo e 400 milioni di lire. La "Punto casa" ha ceduto tutte le quote de "Il Circolo" alla Broker srl di Pagliaro che, tramite Maria Antonietta Carratu (la fida Titti) e Massimo Pezzuto, diventa il vero proprietario e amministratore unico. RTS trasmette, fa informazione e profitti, ma per la legge non esiste. Direttore responsabile? Persano. Da notare che queste due persone sono qualificate "prestanome" in un atto depositato. E' tuttora in corso presso il Tribunale civile di Lecce un processo per la riappropriazione di tutte le quote de "Il Circolo", e dunque di Telesalento, da parte della "Punto casa": motivo? Il più scolastico: Pagliaro non ha pagato con la puntualità prevista le rate. Ma, nel frattempo, il nostro, sempre secondo documenti in nostro possesso, ha venduto una preziosissima frequenza su Otranto (un'area molto appetita per le difficoltà di irradiazione che presenta), che era nella disponibilità della società che possedeva Tv10. Insomma un guazzabuglio cui il Tribunale metterà ordine ripristinando diritti e doveri. La 488. Pagliaro fa lavorare anche i penalisti, non solo i civilisti, i fiscalisti e gli amministrativisti. Tutti di gran nome. E' imputato di concorso in truffa aggravata ai danni dello Stato, in seguito ad indagini di p.g. condotte dal pm Imerio Tramis dopo l'arresto di G. Napolitano, il noto consulente aziendale accusato di essere al crocevia di una serie di truffe milionarie (all'epoca erano miliardarie) messe in atto grazie alla Legge 488 che erogava finanziamenti alle imprese; l'inchiesta, partita all'inizio dell'estate 2004, ha già portato all'arresto di una decina di persone, tra imprenditori, dipendenti e funzionari di varie zone d'Italia, naturalmente oltre alla cattura di Napolitano che ha fatto due periodi di detenzione a San Nicola: dopo il primo, durato meno di dieci giorni, ha scritto un libretto leggero ed autoironico, dopo il secondo ha dettato pagine e pagine di verbale alla Procura, avendo deciso di collaborare quando ha capito, definitivamente, che il cosiddetto impianto accusatorio di Tramis era inattaccabile. Per capire meglio il contesto, è bene soffermarsi in breve su quest'inchiesta, la mamma di tutte le truffe recenti, una vicenda che non sta certamente aiutando l'immagine del Salento. Per venire a capo della montagna di informazioni contenute nella preziosa memoria del personal computer dell'avvocato Napolitano (il consulente non è dottore commercialista), la Procura ha ingaggiato un perito, tra i più stimati e preparati in circolazione, il quale è stato praticamente precettato, insieme ad una squadra di p.g. della Guardia di Finanza, fino al 2011, tale essendo la data-limite stimata entro la quale il lavoro dovrebbe essere completato. Non si tratta, infatti, soltanto di verificare l'elenco delle pratiche 488 istruite dallo Studio Napolitano, ma di accertare quali di esse contengano "fumus" di irregolarità, poi entrare in ciascuna di esse, disporre perizie sulle attrezzature, verificare ed incrociare le fatture fra acquirenti e fornitori, gli anni di produzione eccetera. Ecco come l'obiettivo prescrizione, come vedremo fra poco, non è più un miraggio per gli imputati. Lo schema della linea difensiva di Pagliaro (Studio Corleto), per come l'ha ricostruita il Tacco d'Italia, sembra semplice quanto concreta. Abbandonata ogni ipotesi di "resistenza" si è percorsa quella più ragionevole dell'ammissione delle responsabilità contestate e della collaborazione con il giudice dell'accusa, il cui primo passaggio, "dolorosissimo" per l'editore Pagliaro (il cui attaccamento al denaro è proverbiale), non poteva essere che restituire il malloppo nell'esatta misura in cui è stato incassato: la conversione in euro di 2.050.000.000 di lire. Può essere il primo passo verso il patteggiamento ma non è detto, quel che è certo, rifondere lo Stato serve ad alleggerire la propria posizione ed evitare il rischio delle manette. Per la verità l'accordo bonario doveva essere perfezionato in tempi solleciti, come è accaduto per altri, ma, tardando l'oblazione pattuita, il pm si è visto costretto alla prova di forza ordinando l'apposizione dei sigilli su macchinari ed attrezzature di TeleRama e RadioRama, lasciandone all'editore l'uso, fino a quando il Pagliaro non ha, appunto, risarcito lo Stato (del maldestro quanto grave tentativo di soffocare questa grossa notizia, per altri casi trattata con il dovuto risalto dai mezzi di Pagliaro, il Tacco ha dato conto il mese scorso nel commento di Adolfo Maffei). Truffa in ambito 488. Per evitare il carcere Pagliaro ha restituito i soldi del finanziamento: un milione di euro. Primo passaggio si diceva. Gli altri saranno calibrati per raggiungere l'obiettivo dell'agognata prescrizione e ritmati dal calendario e dal carico di lavoro del dottor Tramis il quale ha la completa potestà, per "motivi di giustizia" che sono nella sua esclusiva competenza, di decidere se dare impulso maggiore alle indagini in cui non vi è la collaborazione degli indagati. Per dirla con un'immagine giornalistica, pensiamo che i fascicoli delle truffe per la 488 compongano una pila: più in basso sarà, meno propulsione riceverà e più tempo sarà disponibile all'imputato per raggiungere la prescrizione prevista dall'art.157 del codice penale. Se lo scenario è verosimile, a conti fatti, l'editore di Telerama non corre eccessivi rischi di vedersi alla sbarra di un dibattimento imbarazzante accanto all'ex amico G. Napolitano. Per una questione di tempi tecnici: se lo aiuta il carico di lavoro del dottor Tramis (la collocazione nella famosa "pila") se si va al processo, se l'editore viene condannato in primo grado, in Appello ed infine in Cassazione, tutta questa storia sarà vicina al limite della prescrizione. A meno che il diavolo non rimetta la coda dove non dovrebbe e si materializzi sotto forma di qualcuna delle altre grane che l'editore ha qua e là. Come il decreto ingiuntivo che gli ha spedito a mezzo ufficiale giudiziario una società riferibile a G. Napolitano. per un compenso di 30mila euro di parcella per la pratica 488 dello scandalo, mai pagata (Pagliaro, ovviamente, ha opposto il decreto stesso). Locazioni. Un'altra di queste grane, finora solo civilistica, è legata al complesso rapporto di Pagliaro con l'avvocato Fabio Chiarelli, già consulente del nostro, nonché proprietario degli immobili di via Marugi, sede storica delle aziende dell'editore. Lì è rimasta TeleRama dalla nascita al recente trasferimento alla zona industriale, lì si trovano ancora tutte le radio e gli studi di RTS. Lunghi anni di locazione non sempre facile (primo contratto intestato alla prima moglie di Pagliaro, per la Publipi, la concessionaria di allora: 1/12/1989, 300mila lire mensili), rapporti che s'incrinano sino ad interrompersi in maniera brusca contemporaneamente alla fragorosa rottura di Pagliaro con un altro dei suoi storici collaboratori e soci (diretti o indiretti): Antonio Bruno, amministratore unico della sas "J&B", il ramo del gruppo che si occupa di eventi, sfilate di moda e spettacoli. Dall'oggi al domani alla sua scrivania gli fa trovare Ezio Candido; in pratica lo mette in mezzo ad una strada. Bruno non se ne starà con le mani in mano, naturalmente. E' un professionista affermato, il suo valore è riconosciuto ed è già al lavoro. Inoltre si sta tutelando a dovere. Questa vicenda sembra la fotocopia di tantissimi altri rapporti personali e professionali interrotti, alcuni brutalmente, da Pagliaro. Basti citare i più importanti: Pompilio Guerrieri, Renato Gorgoni, Adolfo Maffei, Pino Fasanelli, Giovanni Rizzo, Giuseppe Dell'Anna, Ennio De Leo, Sileno Bray e, l'ultimissimo in ordine di tempo, il direttore generale Ezio Candido. Ma nella vicenda dei contratti d'affitto, apparentemente banale, c'è un piccolo baco che non è insignificante come sembra: è il contratto d'affitto della sede della società di cui Antonio Bruno è amministratore, al primo piano di via Marugi, dove si trovano anche l'ufficio del presidente Pagliaro, la sede della concessionaria di pubblicità (che nel frattempo ha cambiato nome e si chiama Broker p.r., amministratore unico Pagliaro), lo studiolo del direttore generale e altri ufficietti e stanzini vari, alcuni dei quali ricavati da lavori di copertura di terrazzi e terrazzini effettuati abusivamente da Pagliaro e, solo in parte, condonati da Chiarelli. I locali di via Marugi che ospitano la redazione e gli studi di RTS, nonché le radio del Gruppo, sono fuori legge. Che cosa è accaduto? Che Bruno, allontanato in malomodo e senza preavviso, ovviamente non paga più l'affitto dei locali e Chiarelli sfratta l'inquilino moroso, cioè il legale rappresentante della sas "J&B", con sede legale in via Marugi 32. Il proprietario non esegue materialmente lo sfratto perché si trova di fronte ad una difficoltà oggettiva: il possessore del suo immobile (una società di Pagliaro) è diverso dal conduttore (Antonio Bruno). Infatti, alcuni mesi dopo, il 18 giugno 2003, si presenta un ufficiale giudiziario che pretende la restituzione dei locali per conto dell'avvocato Chiarelli, e vi trova Maria Antonietta Carratu (la Titti, 46 anni, segretaria particolare e custode di quasi tutti i segreti del capo) la quale afferma che il possessore dell'immobile è la concessionaria di pubblicità del gruppo radiotelevisivo, la Broker p.r., che possiede anche gli impianti di condizionamento, di illuminazione, i computer eccetera. Il relativo verbale di sfratto contiene anche la rilevazione di "un vano cucina abusivo"; l'ufficiale giudiziario prende nota, effettua un sopralluogo stanza per stanza per verificarne le buone condizioni generali e se ne va. Quindici giorni dopo lo stesso funzionario si ripresenta e trova l'immobile svuotato di tutto e quasi completamente devastato al suo interno: annota e fotografa buchi nel pavimento, nei muri, serrature divelte e stima i danni in circa 20mila euro che entrano nella denuncia penale dettagliata che l'avvocato Chiarelli, presente ad entrambi i sopralluoghi, sporge contro Paolo Pagliaro pochissimi giorni dopo, chiedendo l'imputazione dell'editore per appropriazione indebita e danneggiamenti. Collateralmente la polizia giudiziaria compie una perquisizione nella villa dell'editore, a due passi dagli uffici nel Complesso Marugi, e vi trova un paio di serrature che non dovevano stare là. Nell'ottobre 2003 il Tribunale civile dispone un accertamento tecnico preventivo sulle condizioni dell'immobile che conferma la stima di circa 20 mila euro di danni. E la pratica va. Due anni dopo, ecco un'accelerazione inopinata. Il pomeriggio dell'11 ottobre 2005 una squadra del Nucleo di vigilanza edilizia del Comune di Lecce, sezione di Polizia giudiziaria, bussa alla porta degli studi di RTS, RadioRama e altre radio, al piano interrato di via Marugi e al primo piano dove hanno sede gli uffici della Broker. Allarme generale e panico incontrollato: il grancapo è fuori città, il "direttore" Vernaleone ordina ad un cameraman di riprendere gli ufficiali che si apprestano a fare l'accertamento, accompagnati da un tenente della Polizia municipale, contro la loro volontà, si convoca il (nuovo) legale di fiducia avvocato Fabio Valenti, noto volto televisivo, il quale non può far altro che assistere al sopralluogo per conto del suo cliente e verbalizzare alcune precisazioni in favore del suo assistito. La squadra della Vigilanza rileva alcune irregolarità: chiusura di balconi non condonati, costruzione di un vano di quasi 25 metri quadrati abusivo, altezza dei locali dei seminterrati di soli due metri e mezzo, unificazione degli studi televisivi con box e sottonegozi in difformità delle licenze edilizie originarie, modificazioni con strutture murarie, opere verticali in cartongesso e vetro. Non è competente questo organismo a sanzionare il mancato rispetto degli standard di sicurezza per le persone che lavorano in quella specie di bunker sotterraneo che, nelle ore di maggior impegno, supera le 12/15 unità, tra giornalisti, tecnici, operatori radiofonici: tutti collegati con l'esterno da una sola via di fuga, passando per un'angusta scala a chiocciola della larghezza di un metro. Ma può segnalarlo a chi di dovere e tre giorni dopo, il 14 ottobre scorso, parte una segnalazione "d'urgenza" alla Asl-Dipartimento di prevenzione e ai Vigili del Fuoco in cui, tra l'altro, si denuncia che le attività degli studi radiotelevisivi si svolgono al piano terra e nel seminterrato senza "le più elementari misure di sicurezza ed in violazione delle più elementari normative sulla salubrità degli ambienti". Inoltre i locali sono privi di certificato di agibilità per uso studio radiotelevisivo. L'ultima tegola di questa frana è di pochissimi giorni fa. Il 21 novembre il Settore urbanistica del Comune di Lecce invia a Radiorama, a Pagliaro, quindi, all'avvocato Chiarelli, proprietario degli immobili e al Nucleo di vigilanza dello stesso Comune di Lecce, un rapporto dettagliatissimo in cui si evidenzia una lunga serie di motivi per i quali l'ordinanza dell'allora sindaco Corvaglia, che autorizzava la società Radiorama a svolgere attività radiotelevisiva, viene annullata d'ufficio. Quella nota sindacale, depositata senza data presso un notaio a suo tempo, "si caratterizza per l'atipicità dei suoi contenuti, il suo carattere sommario, l'assenza di data e di riferimenti a qualsivoglia attività istruttoria, ed in ogni caso, per la sua inidoneità sia formale sia sostanziale, a disciplinare in maniera definitiva i rapporti giuridici sottesi". Insomma, secondo questa relazione, il buon don Ciccio Corvaglia, firmò una cosa che non doveva firmare. La signorina Carratu dichiarò a verbale che comunque, il 31 gennaio 2006, tutti i locali sarebbero stati lasciati liberi. Nel frattempo le radio vanno e RTS pure. Cuore amico. Come la vendemmia, l'iniziativa solidaristica del gruppo Pagliaro è stagionale: inizia in sordina a fine settembre e si conclude con uno sforzo concentrato ai primi di dicembre. Siamo già alla quinta edizione. Funziona così: c'è un Comitato scientifico che prende in esame le richieste di aiuto di bambini portatori di handicap (concorso nelle spese per interventi, protesi, carrozzine, automobili speciali, eccetera), parallelamente inizia la raccolta di fondi tramite salvadanaio, donazioni e iniziative collaterali organizzate in tutto il Salento e finalizzate allo stesso, nobile scopo. Ogni anno si toccano cifre importanti e i risultati sono veramente encomiabili. Poi ci sono i main sponsor, un gruppetto di aziende che garantisce molte decine di migliaia di euro per far andare la "macchina". Ma, mentre le cifre delle donazioni per i bambini sono monitorate e, sostanzialmente, controllate da tre "garanti" (che prestano anche la loro faccia per gli spot), quelle per l'organizzazione no. Il Tacco, anche in questo caso, ha cercato di documentarsi; abbiamo chiesto informazioni al Comitato di Cuore amico su incassi, spese, personale utilizzato. Non abbiamo avuto risposta in tempo utile per la stampa di questo numero, nonostante l'abbiamo sollecitata, se arriverà la utilizzeremo per il prossimo. Cuore amico è un'operazione trasparente, tranne per la voce "costi di gestione". Gli spot sono gratuiti? In particolare ci interessa sapere, per quel dovere di trasparenza che Pagliaro non manca mai di sottolineare: a quanto ammonta il contributo totale degli sponsor; se gli spot su radio e tv del gruppo sono gratuiti, come dovrebbe essere, essendo il Gruppo mixer media management la "casa" di Cuore amico, ovvero (Dio non voglia) a pagamento: cioè le aziende di cui Pagliaro è amministratore unico (Telerama e Broker pr) traggono profitto dagli spot di Cuore Amico o quanto percepiscano in più i collaboratori per dirette, non-stop, ecc.; quante sono le persone che vengono aggiunte ai dipendenti soci della cooperativa C.C.C. per prestare la loro opera professionale per Cuore Amico; infine se i garanti sono a conoscenza delle cifre suddette o se il loro apporto di "garanzia" è richiesto solo per i salvadanai e il resto, esplicitamente destinato ai bambini. Insomma, caro Pagliaro, quel Cuore è Amico solo dei bambini con handicap o anche suo?
"RTS è clandestina".
SPECIALE PAGLIARO STORY. Pubblichiamo la seconda parte dell'inchiesta, al centro del procedimento penale per diffamazione intentato dall'editore nei confronti della direttora del Tacco. Assolta perché il fatto non sussiste. Da Il Tacco d'Italia n.22. "Rts è clandestina". Abbiamo chiesto a Franco Abruzzo, presidente dell'Ordine dei Giornalisti di Lombardia, un parere tecnico su quello che il Tacco d'Italia ha scoperto a proposito di due reti televisive locali, Telerama ed RTS, delle cui irregolarità abbiamo dato conto all'interno dell'inchiesta "Pagliaro, l'impero virtuale", pubblicata sullo scorso numero. Quell'inchiesta ha fatto il tutto esaurito in tutta la provincia, dando spunti alle conversazioni per strada, sotto l'albero di Natale, intorno ai tavoli di baccarà, man mano che si spargeva la voce… e le fotocopie. Le confidenze, le rivelazioni, i grazie accorati, hanno riempito le nostre orecchie fino a coprire i toni sinistri di alcune telefonate, quando ci sono giunte. La domanda più frequente è stata: "Perché un'inchiesta sul Gruppo Mixer media management"? La risposta: "Perché no? Non dovrebbe essere ‘normale' che un giornale scavi dietro la facciata"? E' ciò che abbiamo fatto nell'inchiesta sull'Edisu di Lecce, quando abbiamo denunciato le irregolarità nella lunga "prorogatio" del Consiglio di amministrazione presieduto da Giovanni Garrisi: a causa della prorogatio diventavano "nulli" per legge tutti gli atti del Consiglio degli ultimi due anni, quantificabili in 12 milioni di euro. Nessuno si è chiesto perché lo abbiamo scritto. Nell'inchiesta sul futuro parco regionale di Ugento uscita in quattro puntate (a pagina 12 la quinta) abbiamo denunciato l'avvio di lavori infrastrutturali finalizzati alla costruzione di un complesso turistico da 800 posti letto, senza concessione edilizia, in piena zona umida e sotto tutela ambientale. Nessuno si è chiesto perché lo abbiamo scritto. Nell'inchiesta sul Gruppo di Paolo Pagliaro, tra le altre cose, denunciavamo il fatto che RTS da due anni manda in onda un telegiornale non registrato al Tribunale di Lecce, mentre Telerama in innumerevoli occasioni pubbliche, durante le trasmissioni, nel gobbo di chiusura del telegiornale, scriveva (ora non più) che il direttore è Gabriella Della Monaca mentre in realtà, da ben 12 anni, è Max Persano (tanto risultava al Tribunale di Lecce il 17 novembre scorso). La domanda posta a Franco Abruzzo era: "RTS è fuori legge"? La risposta è arrivata concisa e inequivocabile, lontana, anche geograficamente, da qualunque influenza. M.L.M. "Cara Marilù, la risposta è nell'articolo 32 del dlgs 177/2005. C'è un obbligo di legge dal 1990 (legge 223), che impone la registrazione anche delle testate radiotelevisive. Ed è ineludibile. In caso contrario, la testata tv è fuori legge ed è assimilabile alla stampa clandestina (art. 16 della legge n. 47/1948 sulla stampa). Cordiali saluti". prof. Franco Abruzzo presidente Ordine Giornalisti Lombardia. La Legge. Legge 8 febbraio 1948, n. 47 Disposizioni sulla stampa art. 5. Registrazione. Nessun giornale o periodico può essere pubblicato se non sia stato registrato presso la cancelleria del tribunale, nella cui circoscrizione la pubblicazione deve effettuarsi. Art. 16. Stampa clandestina. Chiunque intraprenda la pubblicazione di un giornale o altro periodico senza che sia stata eseguita la registrazione prescritta dall'art. 5, è punito con la reclusione fino a due anni o con la multa fino a lire 500.000 (la valuta delle 500mila lire è del 1948, anno della legge. ). Pubblichiamo solo alcune delle lettere, o parti di esse, giunte in redazione. Tutte firmate. Avete fatto quello che un "normale" giornale dovrebbe solitamente fare. Ma adesso ci aspettiamo lo facciate con tutti. E con tutto. Ci serve. Perché avete fatto una cosa che "normale" non è. Avete scritto l'Inchiesta. Nomi, cognomi, date, tutto quanto. L'Inchiesta, parola che ammutolisce nessuno se pronunciata nei corridoi di una procura. Ma che non sarebbe presa nemmeno in considerazione dentro un comune giornale di provincia lasciato blindato dai papà fuori per affari. Di questa provincia parliamo. L'Inchiesta, a Lecce, e oltre le mura, a saperla fare, ti mette in cattiva luce con gli editori, imbarazza il direttore che non vuole guai e poi ci sono gli inserzionisti. Da queste parti l'Inchiesta rischia di farti diventare il rompicoglioni di turno, un po' andato, sfigato, sempre squattrinato, mai saputo cosa è lo stipendio fisso, che si incatena sotto la colonna di Sant'Oronzo e che come nel film "Nuovo cinema paradiso" si lascia andare a "la piazza è mia, la piazza è mia". Uno così, a Lecce, cosa vuoi che valga? Quanto una Panda. E chi sale dentro una Panda? Invece avete fatto tutto questo. Siete saliti sulla Panda. E siete andati in giro. Va bene così. Avete risposto alle domande che in tanti, in questi anni, si sono poste, ma solo tra i pensieri o al massimo biascicandole. Perché poi? Una tra tutte va dritta verso "Cuore amico", per esempio, e il suo indotto. Domanda blasfema: è possibile quantificare l'introito pubblicitario televisivo marciante e il suo trend legati alla lodevole campagna a sostegno di chi soffre? Eppure è una domanda semplice, che non è diffamatoria e che ci abitua a dirci le cose così come stanno, che serve a fare chiarezza, a smentire le nostre cattiverie e che aiuta soprattutto a nominarci fuori dalle citazioni inutili perbeniste. Tutto questo avete fatto. Con dovizia di particolari, riferimenti, dati. Un lavoro lungo e difficilissimo, immaginiamo, che prelude ad altre inchieste coraggiose nel rispetto del Giornalismo-Inchiesta e della libertà di stampa d'altri tempi. Grazie. Lettera firmata da un "cronista provinciale". Vorrei fare i complimenti per l'inchiesta su Pagliaro. Mancavano queste inchieste nella nostra terra, che fanno luce su punti oscuri che molti fanno finta di non vedere. Lettera firmata. Ce l'ho. L'ultimo numero del Tacco è qui e sto leggendo l'inchiesta. FANTASTICA!!!!! C'è da saltare sulla sedia. Avanti con le inchieste, ne vogliamo ancora, ancora, ancora... Lettera firmata. Ho visto l'inchiesta su Tele Rama e gruppo. Io che sono stato dentro vi dico che corrisponde al vero. Complimenti per il coraggio. Lettera firmata. Cara Marilù, ti prendo pochissimo spazio per rendere pubblica la circostanza che tanto ci ha fatto divertire in queste settimane. Molti leccesi che non conoscevano il Tacco d'Italia hanno pensato che dietro la tua inchiesta ci fosse la mia penna. Non è vero, anche se la cosa mi ha inorgoglito perché vuol dire che i lettori non hanno colto troppa differenza stilistica fra noi due ed io, come sai, ho un'alta considerazione professionale di me stesso! Confermo pubblicamente che, per ovvie ragioni di competenza e di conoscenza del personaggio, sono stato tra le fonti da cui hai attinto il tuo materiale. E che potevo fare: negarmi? Adolfo Maffei.
SPECIALE CANALE 8 TV.
Basta col precariato. Dimissioni in diretta per il direttore di Canale 8, scrive “Lecce Sette”. Dimissioni in diretta per il direttore di Canale 8, Gaetano Gorgoni. Con un gesto pubblico, nell'edizione serale del Tg8 del 26 settembre 2012, Gorgoni ha infatti denunciato pubblicamente le condizioni lavorative dell'emittente che nell'ultimo anno ha gradualmente svuotato la redazione televisiva ritardando anche di 8 mesi gli stipendi di coloro che erano rimasti al loro posto. Le dimissioni del direttore arrivano come ultimo atto di una vicenda iniziata già durante le elezioni di maggio dalla denuncia del coraggioso cameramen Vincenzo Siciliano che su Facebook propose di boicottare le dirette televisive delle amministrative in segno di protesta e per questo venne immediatamente licenziato. Da quel momento nel Salento le coscienze dei molti giornalisti e operatori di tv,carta stampata, siti di notizie e web tv, si sono unite nel gruppo chiamato Informazione Precaria, che si batte per sensibilizzare l'opinione pubblica e la politica sul precariato in ambito giornalistico, piaga troppo spesso taciuta. La solidarietà di Assostampa. "La denuncia del direttore di Canale 8, che nel rassegnare in diretta le dimissioni ha evidenziato la situazione di illegalità in cui continua a navigare l’azienda, non può non avere un seguito", scrive Nico Lorusso da Assostampa. "Quanto succede nella tv salentina Canale 8 è il sintomo evidente della patologia del sistema dell’emittenza locale in cui, a fronte di poche realtà editoriali degne di questo nome, continuano a imperversare imprenditori senza scrupoli, il cui unico scopo è accedere ai contributi pubblici destinati al settore. Ristabilire la legalità, nel caso di Canale 8, significa perseguire la violazione delle leggi sul lavoro, l’esercizio abusivo della professione giornalistica e fare luce su strani e fantasiosi intrecci societari, attivandosi per la revoca dei contributi e delle frequenze di cui – a giudizio del sindacato dei giornalisti pugliesi – sussistono da tempo i presupposti. Soltanto in questo modo si potrà iniziare a mettere ordine in cui la presenza di aziende-zavorra minaccia la sopravvivenza di chi rispetta le regole, dei giornalisti e di tutti i lavoratori, a discapito della qualità e della credibilità dell’informazione".
SPECIALE ANTENNA SUD
Continua l’azione di protesta dei giornalisti di Antenna Sud che, dopo i cinque giorni di sciopero già proclamati prima di Natale, hanno deciso di incrociare le braccia, con uno sciopero a oltranza, per lamentare il mancato pagamento delle mensilità (l’ultimo stipendio percepito è quello di agosto) e stigmatizzare la decisione dell’Editore, che il 31 dicembre 2012 ha ufficialmente avviato le procedure di mobilità per tutto il personale dell’emittente. La redazione si scusa con i telespettatori, privati della consueta informazione quotidiana che, ne siamo certi, comprenderanno le ragioni che hanno spinto i giornalisti a fermarsi per difendere il loro futuro e il sacrosanto diritto alla retribuzioni. I giornalisti dell’emittente televisiva regionale pugliese “Antenna Sud” sono in sciopero ad oltranza per la “assoluta mancanza di chiarezza sulle strategie aziendali” e l’“incapacità dell’editore di assicurare il pagamento degli stipendi”. Lo rende noto l’Associazione della Stampa di Puglia. “Il sindacato dei giornalisti è al fianco dei colleghi di Antenna Sud e ne sosterrà la vertenza in ogni sede”, assicura il presidente dell’Assostampa di Puglia, Raffaele Lorusso, intervenuto ieri, 31 dicembre, ad un’assemblea dei lavoratori in lotta. “Non è accettabile – prosegue Lorusso – il comportamento di un editore che, anteponendo gli interessi delle banche a quelli dei lavoratori della propria azienda, continua da mesi a non pagare gli stipendi, nella speranza di evitare il fallimento. Dopo lunghi mesi di sacrifici, con retribuzioni decurtate e cassa integrazione, i giornalisti rischiano ora di perdere tutto a causa di una situazione che non può essere addebitata soltanto alla crisi economica generale”. L’Assostampa respinge, di conseguenza, il piano annunciato dall’azienda “che da un lato – sostiene Lorusso – pretende di fare dell’informazione il ‘core business’ dell’emittente e dall’altro porta l’editore ad avviare le procedure di mobilità per otto giornalisti su undici in organico”. Il presidente dell’Assostampa auspica quindi che, “nel prendere in esame la richiesta di concordato preventivo, i giudici della sezione fallimentare tengano conto anche delle sacrosante rivendicazioni dei lavoratori, vittime incolpevoli di un editore che, al netto delle criticità del sistema dell’emittenza radiotelevisiva locale e della congiuntura negativa globale, mentre afferma di aver accumulato sette milioni di debiti, si pone alla testa di nuove iniziative imprenditoriali in altri settori”.
MAGISTRATI SOTTO INCHIESTA.
«Per l'ennesima volta apprendo dalla stampa delle iniziative giudiziarie prese nei miei confronti dalla Procura di Lecce: dall'iscrizione nel registro degli indagati (giugno 2011 sulla base di un esposto anonimo), passando per i due avvisi di chiusura indagine (25 settembre 2012 e 10 gennaio 2013)»: comincia così il commento del procuratore capo di Bari, Antonio Laudati a poche ore dalla richiesta di rinvio a giudizio da parte della procura di Lecce che lo ha indagato con l'accusa di aver ostacolato le indagini sul giro di escort che Giampaolo Tarantini reclutava per le feste nella residenza romana di Silvio Berlusconi. Rinvio a giudizio che riguarda anche il suo sostituto, Giuseppe Scelsi. «Questa mattina - aggiunge Laudati - dopo aver letto che la Procura di Lecce ha inviato nella tarda serata di ieri, 18 marzo 2013, a Roma all'Ufficio di presidenza del Csm la richiesta di rinvio a giudizio a mio carico ho immediatamente chiamato il mio avvocato di Lecce, scoprendo che anche lui ne era a conoscenza solo per aver letto il quotidiano La Repubblica. Le indagini preliminari a mio carico non hanno garantito né celerità né riservatezza, come la normativa impone - conclude il capo della procura di Bari - A questo punto, confidando nella correttezza della Magistratura della quale mi onoro di far parte, sto valutando tutte le iniziative da prendere».
Non è così con i magistrati di Taranto. Si sta bene attenti a svelar le denunce contro di loro. Pochi giornalisti se ne occupano.
I magistrati di Taranto ed il loro operato. Il solo che si è ribellato allo strapotere dei magistrati tarantini in ambito locale è stato il dr. Antonio Giangrande, me medesimo. Io ho presentato svariate denunce a Potenza e presso altre procure competenti, quando Potenza non è intervenuta per abuso ed omissione commessi presso gli uffici giudiziari Tarantini. Naturalmente, lasciato solo, non potevo che subire l’onta del linciaggio, dell’accusa di mitomania o pazzia e dell’accanimento giudiziario, che nei miei confronti non ha prodotto alcuna condanna penale per reati d’opinione. Oggi non sono più solo. Anche l’Ilva con un esposto a Potenza denuncia i magistrati tarantini: "Accanimento contro di noi. Verificate se hanno commesso reati". La denuncia è stata depositata negli ultimi giorni di marzo 2013 da parte dell'avvocato Leonardo Pace per conto dello studio De Luca di Milano che segue l'azienda. Non dall’avvocato tarantino che segue gli interessi dell’azienda. Egidio Albanese, avvocato già presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto ed in buoni rapporti istituzionali con quei magistrati. D'altronde un ex prefetto e i magistrati erano fatti appositamente per lavorare a braccetto. Invece sono finiti in tribunale: il presidente dell'Ilva Bruno Ferrante, noto per la sua moderazione e la stima che ha nella magistratura, ex Prefetto di Milano già candidato a Milano proprio per il centrosinistra, ha denunciato in procura a Potenza i magistrati tarantini che si stanno occupando del siderurgico e i custodi incaricati di vigilare il sequestro. Una puntualizzazione di diritto al fine di spiegare l’eventuale scontato esito della denuncia a Potenza. Il diritto non prevede l’istituto dell’insabbiamento: o rinvio a giudizio per i denunciati o procedimento per calunnia contro Ferrante e Buffo. Chiaro no?!?
Avevano promesso collaborazione istituzionale, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. Il presidente del siderurgico chiede ai magistrati potentini di verificare se sono ravvisabili reati nei loro confronti: oggetto del contendere è l'atteggiamento avuto nel corso della diatriba giudiziaria, dal sequestro dell'impianto sino al blocco dell'acciaio prodotto. Nella denuncia non ci sono i nomi né del procuratore capo Franco Sebastio, né quello dei sostituti che stanno svolgendo l'inchiesta, né tantomeno quello del gip Patrizia Todisco. Sono ricostruiti passo per passo però i loro provvedimenti, dal sequestro dell'area a caldo avvenuto nel luglio scorso sino al blocco della produzione deciso a novembre 2012. L'Ilva segnala come nonostante i provvedimenti legislativi di fatto concedessero la facoltà d'uso all'impianto (seppur legandolo a una serie di restrizioni previste dall'Aia), Procura e giudice hanno fatto sempre muro creando grave danno all'azienda. In particolare fanno riferimento al miliardo di euro di acciaio prodotto che è rimasto bloccato in azienda per mesi: il Governo aveva ordinato di venderlo, il provvedimento era stato impugnato alla Corte Costituzionale così come il primo decreto, la Procura aveva incaricato i custodi di commercializzarlo fin quando il Riesame non ha dato ragione all'Ilva restituendo il materiale e la facoltà di venderlo all'azienda. Ferrante ha inoltre contestato il provvedimento che ha portato alla sua iscrizione nel registro degli indagati: in qualità di custode non avrebbe, così come prescritto, evitato la produzione durante la fase del sequestro. Per questo Ferrante era stato poi rimosso. Ma l'Ilva ne ha anche per i custodi attualmente in carica (gli ingegneri Barbara Valenzano, Emanuela Laterza e Claudio Lofrumento; il commercialista Mario Tagarelli) accusati di non svolgere correttamente il proprio incarico. Anche per questo l'azienda ha chiesto al tribunale di Taranto la revoca dell'incarico dei custodi. Quella di Ferrante di attaccare i giudici appare un cambio di strategia chiaro: altro che strategia del dialogo, piuttosto sembra un ritorno al modo di fare dei Riva e di quel Girolamo Archinà oggi ancora in carcere. Non è un caso che contemporaneamente alle denunce ai giudici sono partite richieste di risarcimento danni nei confronti di Repubblica e Fatto: i due giornali avevano parlato della diatriba con la Provincia sulle fideiussioni rilasciate per le discariche di servizio, fideiussioni che la Provincia aveva ritenuto non convincenti con una lettera finita anche all'attenzione della magistratura: nei documenti presentati mancava, diceva l'ente, la data di scadenza delle garanzie e la dichiarazione che attestasse l'identità dei sottoscrittori e dei loro poteri. L'Ilva ha chiesto 100mila euro a ciascuno dei due quotidiani.
La legge salva-Ilva è legittima. E dunque il colosso dell'acciaio può continuare a produrre. Perché quelle norme varate per permette all'azienda di restare in vita "non hanno alcuna incidenza sull'accertamento delle responsabilità nell'ambito del procedimento penale in corso davanti all'autorità giudiziaria di Taranto". Un'interpretazione che fa a pugni con quella dei giudici tarantini per il quali autorizzare la produzione equivale a una autorizzazione a inquinare. Anzi, a continuare a inquinare. "Le sentenze della Corte costituzionale si rispettano e non si commentano", il commento del procuratore, Franco Sebastio; "la decisione impegna tutti a proseguire con rigore e rapidità nel programma per il risanamento ambientale", quello del ministro dell'Ambiente, Corrado Clini. Questa la decisione presa dalla Consulta sulla legge 231 varata a dicembre a stragrande maggioranza dal Parlamento, che ha convertito il decreto del governo Monti, intervenuto dopo il sequestro dell'area a caldo dello stabilimento e l'apertura della querelle giudiziaria che ha visto contrapporsi magistratura e politica nella ricerca di una soluzione per Taranto e per la salute dei suoi cittadini. Le conseguenze immediate potrebbero essere il dissequestro dei prodotti finiti e la ripresa della piena attività della fabbrica di acciaio pugliese, ferme restando le difficoltà della vendita più volte denunciate dall'azienda che ha anche minacciato di chiedere i danni per i mancati introiti, appellandosi proprio al via libera concesso con la salva-Ilva. Il lungo conflitto sulla legge è partito lo scorso luglio 2012: da un lato i magistrati di Taranto che indagano per disastro ambientale, dall'altro il governo e il parlamento che con la legge hanno di fatto superato quel provvedimento per evitare il blocco dell'attività del siderurgico. La sentenza arriva nel giorno della protesta a Roma di cittadini e ambientalisti, che hanno manifestato davanti Montecitorio proprio contro quella norma ribattezzata "legge vergogna". E a pochi giorni dal referendum per la chiusura parziale o totale dello stabilimento jonico che si svolgerà domenica a Taranto. Per la Corte Costituzionale sono in parte inammissibili, in parte infondate le questioni di legittimità sollevate. Secondo il Tribunale, la norma con i suoi tre articoli ne viola cinque della Costituzione. Il gip Todisco, invece, ha rilevato elementi per sostenere la violazione di ben diciassette articoli della carta costituzionale. Profili di incostituzionalità - tra cui quello sul diritto alla salute e quello sull'indipendenza della Magistratura - che però non hanno retto al vaglio della Consulta, per la quale lo stabilimento tarantino può proseguire l'attività produttiva e la commercializzazione dei prodotti nonostante i provvedimenti di sequestro disposti dall'autorità giudiziaria. La decisione è stata deliberata, tra l'altro - è spiegato in una nota - in base alla considerazione che "le norme censurate non violano i parametri costituzionali evocati in quanto non influiscono sull'accertamento delle eventuali responsabilità derivanti dall'inosservanza delle prescrizioni di tutela ambientale, e in particolare dell'autorizzazione integrata ambientale riesaminata, nei confronti della quale, in quanto atto amministrativo, sono possibili gli ordinari rimedi giurisdizionali previsti dall'ordinamento". La corte ha, altresì, ritenuto che "le norme censurate non hanno alcuna incidenza sull'accertamento delle responsabilità nell'ambito del procedimento penale in corso davanti all'autorità giudiziaria di Taranto". Nella prima fase dell'udienza, è stata valutata la costituzione delle parti. Sono stati ritenuti inammissibili gli interventi del Wwf, di Confindustria e di Federacciai. I giudici, invece, avevano ammesso l'intervento "ad adiuvandum" di tre allevatori tarantini, rovinati da diossina e pcb. Il loro gregge è stato abbattuto il 10 dicembre del 2008, quando complessivamente vennero uccisi 1200 animali. Lo scorso 26 luglio 2012 il gip Patrizia Todisco aveva ordinato il sequestro preventivo degli impianti dell’area a caldo dello stabilimento siderurgico, ritenendoli, sulla scorta di perizie compiute nelle forme dell’incidente probatorio e dunque nel pieno contraddittorio delle parti, che fossero causa di malattia e morte per gli operai e i cittadini. L’Ilva propose ricorso al tribunale del riesame che però confermò il provvedimento del gip. Non fu proposto ricorso in Cassazione, e dunque su quel sequestro preventivo si formò il cosiddetto giudicato cautelare. Non potendo intervenire su quel sequestro divenuto definitivo, il ministro dell’Ambiente Clini prima rivide l’Aia concessa all’Ilva nel 2011 (provvedimento ora al centro dell’indagine della Guardia di Finanza), poi, con la legge 231 del 2012 (la salva-Ilva, appunto), fermo restando il sequestro, ridiede l’uso degli impianti all’azienda, concedendo 36 mesi di tempo per l’attuazione delle prescrizioni previste dalla nuova autorizzazione integrata ambientale. Il sequestro degli impianti c’è, insomma, e non è stato revocato - né poteva d’altronde esserlo - dalla Consulta, ma quegli stessi impianti possono comunque essere usati, pur se ritenuti causa di malattia e morte per i tarantini, perfino nelle more del loro rifacimento.
E' partito dallo scorso luglio il lungo conflitto sull'Ilva che è stato all’esame della Consulta e che vede contrapposti da un lato i magistrati di Taranto che hanno disposto il sequestro di parte degli impianti e dei beni prodotti dallo stabilimento tarantino e dall’altro il governo e il parlamento che con la legge 'salva Ilvà hanno di fatto superato quel provvedimento per evitare il blocco dell’attività del siderurgico. Queste le principali tappe della vicenda.
- 26 luglio 2012: su richiesta della Procura, il gip di Taranto dispone il sequestro preventivo, senza facoltà d’uso, degli impianti dell’area a caldo dell’Ilva, nominando quattro custodi giudiziari. Otto le persone arrestate, tra le quali Emilio Riva, il figlio Nicola e l’ex direttore dello stabilimento, Luigi Capogrosso.
- 26 novembre 2012: scatta una seconda ondata di arresti sulla base dell’inchiesta per disastro ambientale e di un’altra parallela chiamata 'Ambiente svendutò. Sei le persone arrestate. Il gip fa sequestrare il prodotto finito e semilavorato giacente sulle banchine perchè ottenuto utilizzando gli impianti che erano sotto sequestro (1,8 mln di tonnellate di acciaio per un valore di un miliardo di euro).
- 3 dicembre 2012: il governo emana il decreto legge 207 che autorizza l’Ilva a produrre e reimmette l’azienda nel possesso dei beni, nonostante i decreti di sequestro.
- 5 dicembre: la Procura restituisce gli impianti ma dà parere negativo sulla restituzione dei prodotti e rimanda la decisione al gip.
- 11 dicembre 2012: il gip Todisco rigetta l’istanza di dissequestro dell’Ilva, la merce sulle banchine non può essere movimentata.
- 20 dicembre 2012: il decreto legge del 3 dicembre viene convertito con modificazioni nella legge 231 cosiddetta 'salva Ilvà che entrerà in vigore il 4 gennaio successivo. L’Ilva viene autorizzata a commercializzare i prodotti finiti e semilavorati che erano stati posti sotto sequestro.
- 31 dicembre 2012: viene depositato alla Consulta il ricorso della procura di Taranto per conflitto di attribuzione nei confronti del governo sul decreto poi convertito nella legge 231. Successivamente la procura presenta ricorso per conflitto di attribuzione anche contro la legge di conversione.
- 15 gennaio 2013: i giudici del Tribunale di Taranto sollevano dubbi di costituzionalità sulla legge e in particolare sull'art.3 che consente all’Ilva di commercializzare i prodotti finiti e semilavorati posti sotto sequestro.
- 22 gennaio 2013: anche il gip del Tribunale di Taranto, accogliendo la richiesta della Procura, solleva la questione di legittimità costituzionale della legge 231 'Salva Ilva' e invia gli atti alla Consulta. In particolare, dice il gip, con gli articoli 1 e 3, la legge si pone «in stridente contrasto con il principio costituzionale della separazione tra i poteri dello Stato».
- 13 feb 2013: La Consulta giudica non ammissibili i due ricorsi sul conflitto di attribuzione presentati dalla procura in quanto superati dalla questione di illegittimità costituzionale sulla legge posta prima dal Tribunale e poi dal gip.
- 9 aprile 2013: la Consulta decide sulle due questioni di illegittimità.
Il braccio di ferro fra Ilva e magistratura tarantina approda in procura a Potenza, scrive il tarantino “Il Corriere del Giorno”. Il presidente Bruno Ferrante ha presentato un esposto nei confronti dei magistrati tarantini che conducono l’inchiesta sul disastro ambientale. Firmatario, stando a indiscrezioni, sarebbe anche l’ex direttore generale dello stabilimento siderurgico Adolfo Buffo. Da quanto si è appreso, nell’esposto si fa riferimento a presunti abusi relativi all’inchiesta condotta dalla procura tarantina, sfociata, il 26 luglio 2012, nel sequestro degli impianti dell’area a caldo e nell’arresto di Emilio e Nicola Riva (entrambi sottoposti ai domiciliari), dell’ex direttore generale dello stabilimento siderurgico Luigi Capogrosso e di cinque dirigenti dello stabilimento siderurgico (poi rimessi in libertà dal Riesame). L’inchiesta sul disastro ambientale è sfociata nell’esecuzione di nuovi provvedimenti restrittivi, il 26 novembre, nei confronti, fra gli altri, dell’ex addetto alle relazioni esterne Girolamo Archinà e del perito della procura, professor Lorenzo Liberti. Contestualmente ai provvedimenti cautelari, il gip Patrizia Todisco, su richiesta del procuratore capo Franco Sebastio, dell’aggiunto Pietro Argentino e dei pm Mariano Buccoliero, Remo Epifani e Giovanna Cannarile, ha emesso anche il decreto di sequestro dei prodotti finiti e semilavorati, un milione e 700.000 tonnellate di acciaio (del valore di un miliardo, secondo l’azienda). Al provvedimento, che ha inasprito lo scontro, si è aggiunta la decisione della procura di chiedere la vendita coatta dei prodotti, affidandola ai custodi giudiziari, per sottoporre a sequestro i proventi. L’ordinanza emessa dal gip è stata poi annullata dal tribunale del riesame che ha accolto il ricorso di Ferrante. Alcune doglianze, a quanto pare, riguarderebbero nello specifico il provvedimento relativo al sequestro dei prodotti in seguito al quale sono finiti sul registro degli indagati lo stesso Ferrante e Buffo per non aver impedito l’inquinamento degli impianti. La querela, presentata attraverso uno dei legali milanesi dell’Ilva, l’avvocato Marco De Luca, per conto di Ferrante, è stata depositata dall’avvocato Donato Pace, del foro potentino. Saranno adesso i magistrati di Potenza (competenti ad indagare sui magistrati in servizio a Taranto) a vagliare i fatti illustrati dal massimo esponente dell’Ilva. Ferrante ha puntato il dito contro la procura ma anche contro i custodi giudiziari dei quali, nelle scorse settimane, ha chiesto la revoca.
Una puntualizzazione di diritto al fine di spiegare eventuale scontato esito della denuncia a Potenza. Il diritto non prevede l’istituto dell’insabbiamento: o rinvio a giudizio per i denunciati o procedimento per calunnia contro Ferrante e Buffo. Chiaro no?!?
Per alcuni capi d'accusa è già intervenuta, mentre per gli altri, uno in particolare, è questione di mesi, scrive Leo Amato su “Il Quotidiano Della Basilicata”. Una mezza sicurezza, per intendersi, a maggior ragione se il dibattimento dovesse ricominciare da zero a causa del rinnovo del collegio giudicante. Sembra avviarsi alla prescrizione il processo alla «legge» di Castellaneta. Questo il nomignolo che qualcuno avrebbe assegnato al pm di Taranto Matteo Di Giorgio, accusato di concussione e corruzione in atti giudiziari e attualmente sospeso dall'incarico in magistratura. A causare il probabile azzeramento del lavoro svolto nelle udienze che da sei mesi a questa parte impegnano il Tribunale di Potenza tutti i giovedì potrebbe essere il trasferimento di due dei giudici a cui era stato assegnato il caso. Con l'arrivo dei loro sostituti le difese avranno tutto il diritto di chiedere il rinnovo delle attività compiute finora, e anche se si sono dette orientate in senso contrario, è tutt'altro che da escludere la possibilità che cambino idea. Risultato? Come minimo andranno risentiti i testi che sono già sfilati nelle scorse udienze e in qualche caso hanno confermato le dichiarazioni fatte ai carabinieri di Potenza, e in qualche caso le hanno smentite finendo sulla lista nera dei possibili indagati per falsa testimonianza. Contro questa evenienza nei giorni scorsi si è opposto il legale che assiste le parti offese del processo, tra cui l'ex senatore e sindaco di Castellaneta Rocco Loreto. L'avvocato Fausto Soggia ha infatti depositato un'istanza di applicazione dei due giudici in partenza che permetterebbe a entrambi di tornare nel loro vecchio ruolo per completare il dibattimento. Di Giorgio è stato anche arrestato per gli stessi fatti per cui oggi si trova a processo a novembre del 2010, al termine di una serie di attività investigative - coordinate dalla procura della Repubblica di Potenza (che è la sede competente ad indagare sui reati commessi dai magistrati di Taranto) - durate circa due anni, e avviate dopo le denunce di cittadini che si ritenevano danneggiati dal magistrato. Per lui l'accusa era di concussione perchè avrebbe compiuto atti contrari ai suoi doveri d'ufficio, ricevendo in cambio diverse utilità, ma mai denaro contante. In particolare, il pm tarantino - che era stato raggiunto dall'ordinanza assieme ad altre due persone, - avrebbe minacciato di un «male ingiusto» un consigliere comunale di Castellaneta, che è il suo comune di residenza, costringendolo alle dimissioni. La cosa avrebbe creato le condizioni per una crisi del consiglio e le nuove elezioni dove avrebbe prevalso un candidato a lui vicino. E quelle dimissioni sono proprio l'episodio a rischio prescrizione più a breve.Di Giorgio avrebbe anche agito per permettere a un bar, aperto illegalmente, di continuare a operare in cambio della revisione della sua testimonianza rispetto a una lite avuta tempo prima con l'ex senatore dei Ds Rocco Loreto. Un episodio da cui sarebbe scaturito nel 2001 l'arresto di Loreto per calunnie nei confronti di Di Giorgio, su richiesta del pm Henry John Woodock all'epoca ancora in servizio per la procura a Potenza, che a distanza di nove anni è poi dovuta tornare sui suoi passi.
Se sarà confermato ciò che si legge negli atti del processo che andiamo a raccontare, c’è da scommettere che Montesquieu non si stia limitando a rivoltarsi nella tomba ma l’abbia già ridotta in pezzi, scrive Peppe Rinaldi sul quotidiano "Libero" del 27 marzo 2013 riportato da “Eolo News”. Veder sommate in un unico soggetto attività politica e giurisdizionale sarebbe troppo perfino per tipi à la Flores D’Arcais: pare, invece, sia successo, seppur con forme e contenuti ormai ridotti a cronaca giudiziaria. Stiamo parlando del famoso «processo alla Legge» -come l’ha definito qualcuno tra Puglia e Basilicata - dove per «Legge» è da intendersi il sostituto procuratore Matteo Di Giorgio figura di primo piano della vita politica, amministrativa e giudiziaria del tarantino, in particolare della città di Castellaneta: almeno fino a quando i suoi colleghi di Potenza, competenti sui magistrati pugliesi, si sono presentati a casa per ammanettarlo. Pesantissime le accuse: concussione, corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio, favoreggiamento e mutamento del titolo di reato. E’ una vicenda complicata a giudicare dalle 175 pagine della richiesta cautelare del pm Laura Triassi, siglata dal gip Gerardina Romaniello il 10 novembre 2010 e quasi integralmente richiamata nel decreto di rinvio a giudizio dell’aprile 2012 dal giudice Michela Tiziana Petrocelli. Incredibile perché? Al netto dell’ovvia presunzione d’innocenza, il racconto merita perché difficilmente si è sentito di un pm che - nell’esercizio delle funzioni e all’interno del territorio di competenza - avrebbe partecipato a riunioni politiche, dettato la linea da seguire ad amici ed accoliti di una lista civica (area di centrodestra) e brigato per far sottoscrivere da sindaci, assessori e segretari di partito documenti in suo favore per ottenere la candidatura alla presidenza della Provincia di Taranto. Di pm paracadutati in politica in virtù di indagini rumorose ne son piene le cronache: proprio la Puglia ne contempla almeno una mezza dozzina temporaneamente occupati a garantire il bene della collettività. Ma come quello di Matteo Di Giorgio - sempre che tutto regga fino alla fine del processo - non risulterebbero altri casi. La vicenda parte da lontano: siamo nel 2001 quando un senatore degli allora Ds, Rocco Loreto, sindaco in carica di Castellaneta e nemico acerrimo di Di Giorgio, manda a Potenza un esposto sul pm. Il fascicolo finisce nelle mani di John H. Woodcock, ancora in servizio in Lucania, il quale non trova nulla contro il collega di Taranto e, pertanto, vira direzione mettendosi ad indagare su chi la denuncia aveva presentato. Fino ad arrestare il senatore Loreto cinque giorni dopo la perdita dell’immunità, con l’accusa di calunnia. Il Riesame annullerà tutto: la custodia cautelare per quel tipo di reato è inammissibile. Dal “palo” preso dal pm di Vallettopoli, Savoiagate, dei casi De Gregorio, Finmeccanica, P4 e chissà cos’altro, discende l’ambaradàn di questi giorni. Perché, trasferito Woodcock a Napoli, la palla passa al pm Laura Triassi che indaga fino a chiudere il cerchio. Negli atti si leggono fatti, circostanze, intercettazioni telefoniche ed ambientali, dichiarazioni testimoniali (alcune poi ritrattate e per le quali è in corso separato procedimento) allarmanti: Di Giorgio, ad esempio, per far cadere la giunta di Castellaneta guidata da Loreto, avrebbe convinto l’undicesimo consigliere comunale (quello mancante cioè) a firmare la sfiducia dopo che a questi viene prospettata la possibilità che sua nipote e suo fratello, coinvolti in un giro di droga all’interno di una discoteca, non vengano arrestati. Così avviene: i due giovani, pur essendo i «capi» dello spaccio, sono gli unici a non finire dentro. Il consigliere, intanto, aveva firmato la sfiducia e la giunta era andata a casa. Ancora: il sindaco subentrato, un avvocato, emergerebbe dal processo come uno strumento nelle mani del pm. Si legge di episodi paradossali, con il pm che convoca riunioni nelle stanze municipali, di urla e strepiti per aver dato incarichi esterni senza il suo permesso o per averne rinnovati altri ai suoi nemici. «L’ho fatto piangere, si è accasciato sulla poltrona chiedendomi scusa» dice ad un’amica Di Giorgio in un’intercettazione, riferendosi al sindaco che «ha tradito l’amicizia». In un altro caso, avrebbe obbligato una vittima d’usura a non denunciare lo strozzino, suo parente. Ancora: in un residence turistico della zona lavorava come guardiano una persona legata a Loreto e, per obbligare il proprietario a mandarlo via e rifiutare la successiva offerta al ribasso per il servizio dallo stesso ripresentata, Di Giorgio avrebbe garantito che un suo amico pm (Buccoliero, quello del caso Scazzi) non gli avrebbe sequestrato l’impianto. Le indagini hanno chiarito che il sequestro avvenne e intanto Di Giorgio avrebbe goduto di trattamenti al risparmio per le vacanze. Un quadro complesso, sempre che venga confermato dal giudizio. Il punto è qui: rischia di prescriversi tutto nonostante il tribunale abbia proceduto con udienze straordinarie. Giovedì 21 marzo due giudici hanno ufficializzato il loro trasferimento: quindi sarebbe tutto da rifare, con testimoni da risentire e via dicendo. In pratica il processo “alla Legge” rischia di saltare. Accade spesso quando di mezzo c’è un magistrato. Come succede di rado che in calce ad un’ordinanza di custodia cautelare un gip si premuri di disporre che «nell’esecuzione del provvedimento e nella traduzione dell’arrestato vengano evitate inutili forme di disagio e forme indebite di pubblicità». Sacrosanta affermazione, rara avis nelle misure in danno di chi magistrato non è.
E’ interessante, però, conoscere quanto ha da dire su tutti i risvolti della vicenda Michele Imperio. Sono passati giorni da quando (11 novembre 2010) un magistrato della Procura della Repubblica di Taranto Matteo Di Giorgio è stato rinchiuso in casa agli arresti domiciliari dai Magistrati del Tribunale di Potenza. Ci siamo già occupati di questa vicenda e rimandiamo il lettore alla lettura dei precedenti post. Ora questa ignobile storia si è arricchita – sempre secondo noi - nei giorni scorsi di un nuovo inquietante capitolo. Premettiamo che a marzo 2010 il Magistrato Matteo Di Giorgio aveva denunciato sia il Magistrato della Procura della Repubblica di Potenza Laura Triassi (M.D.) sia l'ex maresciallo Leonardo D’Artizio alla Procura della Repubblica di Catanzaro per abusi nelle indagini contro di lui. In pratica la dott.sa Laura Triassi si serviva per le indagini contro il collega Matteo Di Giorgio del Maresciallo Leonardo D’Artizio, sottoufficiale dell’arma non più in servizio in quanto espulso dall’Arma perché imputato di maltrattamenti e di altri gravi reati, dai quali era scaturito anche un suicidio di un carabiniere, suo subalterno. La notizia è riportata dalla Rete in questi termini: Rinviato a giudizio il maresciallo Leoenardo D’Artizio. Avrebbe trattato da “reclute”, con offese, umiliazioni e finanche minacce, 21 militari alle sue dirette dipendenze. Uno di questi, il brigadiere Sergio Colaci, 46 anni, nativo di Lecce, si suicidò nella sua abitazione, sparandosi con la pistola d’ordinanza (era sposato con figli). La disgrazia risale al 3 giugno del 2004. Sarà un processo a fare luce su un presunto caso di mobbing alla compagnia dei carabinieri di Castellaneta. Il giudice dell’udienza preliminare Ciro Fiore ha rinviato a giudizio il maresciallo Leonardo D’Artizio, 54 anni, nato a Grassano, ex comandante del Nucleo Operativo e Radiomobile della compagnia di Castellaneta, Il sottufficiale risponde di maltrattamenti, violenza privata, morte come conseguenza di altri reati (in relazione al suicidio del brigadiere Colaci), abuso d’ufficio e falso ideologico. Il capitano Massimiliano Conti, attuale comandante della compagnia di Castellaneta, al quale sono contestati i reati di maltrattamenti e violenza privata per un comportamento “omissivo” (secondo l’accusa, pur essendone a conoscenza, non avrebbe impedito le presunte vessazioni nei confronti dei militari), sarà invece giudicato con il rito abbreviato. Nel capo d’imputazione si parla di continue offese al prestigio, all’onore e alla dignità dei carabinieri «in presenza di altri civili e militari in luogo pubblico, con continui e immotivati richiami alla disciplina militare, con ripetuti e ossessionanti controlli alle pattuglie operanti su strada ed infine con gratuite e ingiuste minacce». Le presunte vittime, insomma, sarebbero state costrette a subire «un continuo stato di tensione, apprensione e umiliazione». L’abuso d’ufficio è contestato a proposito della redazione delle cosiddette note caratteristiche, una sorta di pagella sulle capacità e le attitudini dimostrate dai carabinieri. D’Artizio, secondo l’accusa, avrebbe violato i doveri di obiettività nella valutazione del rendimento e dei servizi prestati dai militari mobbizzati. Ebbene a fronte di così gravi e pesanti accuse e di fronte a una richiesta del Pubblico Ministero (Petrocelli) è stato assolto dal Tribunale di Taranto. Il dato singolare è che a distanza di pochi giorni anche la Corte di Appello di Taranto, con insolita celerità, ha riformato la sentenza di condanna a sei mesi di reclusione del capitano Massimiliano Conti superiore in grado di D'Artizio. Assolto pure lui. La denuncia di Di Giorgio contro la dott.sa Laura Triassi e il maresciallo Leonardo D’Artizio provocò la reazione irata dei magistrati di Magistratura democratica, i quali intimarono Di Giorgio di chiedere lui stesso il trasferimento presso la Procura della Repubblica di Pescara, dove c’era un posto libero, pena spiacevoli conseguenze per lui. Conseguenze che poi si sono puntualmente verificate. Ormai alcune Procure sono gestite da alcuni Magistrati come se fossero un loro dominio personale, nelle quali loro stessi stabiliscono chi può stare e chi no. Ma, ricapitoliamo per chi non ha letto i precedenti post, tutta la storia. C’è una cittadina in provincia di Taranto di 17.000 anime che si chiama Castellaneta, in cui risiedono un parlamentare del P.D. e un magistrato della locale Procura della Repubblica di Taranto Matteo Di Giorgio i cui parenti militano politicamente nell’area di centro-destra. In un paese normale le due personalità avrebbero trovato un modus vivendi. Invece fin dall'anno 2000 per il Magistrato Matteo Di Giorgio viene fatto oggetto di un’incredibile odissea. Nell'anno 2000 infatti il parlamentare del P.D. dopo aver perso le elezioni comunali a Castellaneta, inoltra contro il Magistrato Matteo Di Giorgio ben tre denunce penali una di fila all’altra: 6 aprile 2000, 31 maggio 2000 e 2 giugno 2000. Addirittura lo fa pedinare e lo fa filmare nei suoi spostamenti. Già a primo acchito le denunce appaiono fantasiose o quanto meno condizionate dal pettegolezzo paesano. In esse infatti il parlamentare accusa il giudice di aver utilizzato le indagini di cui era titolare «per orientare il voto del 16 aprile 2000 a Castellaneta»; di aver partecipato ad un incontro segreto nel quale «sarebbe stato concordato un piano per distruggerlo politicamente»; di aver divulgato notizie coperte da segreto istruttorio, in quanto «anche nei supermercati veniva pubblicamente annunciato da signore amiche di famiglia del dottor Di Giorgio che tra giovedì e venerdì sarebbe scoppiato un botto che avrebbe spazzato via dalla città il parlamentare»; di avere, infine, strumentalizzato le indagini con intento e finalità persecutorie nei suoi confronti. Ci sono in base a queste convinzioni anche momenti di grave tensione fra il parlamentare e il Magistrato. Quando lo incontra per strada il parlamentare non sa trattenersi e aggredisce pubblicamente il Magistrato con epiteti del tipo: "Stronzo! Mascalzone!" In un’occasione si deve far ricorso perfino alla forza pubblica perchè il parlamentare intende passare a vie di fatto. Nei comizi e nelle interviste rilasciata a giornali e televisioni il Magistrato veniva letteralmente stracciato: e definito di volta in volta "un capocantiere", "un arruolato nelle file di Forza Italia", "un miscuglio tra magistratura, polizia giudiziaria e sezione di Forza Italia"; "un uomo indegno di indossare la toga", "parente e amico di funzionari della ASL di Taranto", "legato a esponenti di Forza Italia", autore di «un complotto, mirato a far fuori dalla scena politica esponenti del centro-sinistra», autore di iniziative giudiziarie che sono «autentiche cazzate» volte a delegittimarlo nel momento della scelta delle candidature per le imminenti elezioni amministrative o «vendette giudiziarie annunciate». Le denunce però vengono dirottate a Potenza (sede competente a giudicare dei reati in cui è parte lesa un Magistrato che esercita le sue funzioni nel distretto di Taranto) e - fatto imprevisto - pervengono nelle mani di John Woodkock. Woodckock non è un Magistrato condizionabile, indaga da par suo e scopre che nel 2001 il parlamentare aveva contattato un imprenditore tal Francesco Maiorino, testimone nel processo affinché calcasse la mano su Di Giorgio e lo accusasse di fatti non veri per ipotizzare una sua possibile corruzione giudiziaria. Di fronte a fatti di questa gravità Woodckock arresta il parlamentare. Questi si difende con tenacia, dicendo che aveva espresso su Di Giorgio solo giudizi garantiti dall’inopinabilità delle dichiarazioni parlamentari ma Woodckock lo insegue come un segugio fino alla Corte Costituzionale e si fa dare ragione: l’inopinabilità dei giudizi di un parlamentare non giustificano le calunnie - dice la Corte. Però, nonostante Woodckock, il processo per calunnia va avanti molto a rilento. Ancora nell’anno di grazia 2010 per fatti che risalgono nientedimeno che al 2001, non si è ancora concluso nemmeno il giudizio di primo grado. L'11 settembre 2009 interviene una novità. Woodckock si trasferisce a Napoli e nel Tribunale di Potenza si rafforza la presenza di M.D. Per Di Giorgio inizia presso il Tribunale di Potenza un autentico calvario. Altre denunce partano dalla penna del senatore del P.D. e l’11 novembre 2010 le parti si invertono. Di Giorgio rimane parte lesa di delitto di calunnia, ma diventa imputato di concussione in un altro processo che ha origine dalle denunce di cittadini di Castellaneta chiaramente mobilitati dal parlamentare e viene posto lui questa volta agli arresti domiciliari. Si arriva così all’assurdo che nel processo per calunnia ancora in corso Di Giorgio magistrato e parte lesa dovrebbe comparire in catene e il parlamentare imputato di calunnia contro di lui, potrebbe irriderlo dal banco degli imputati. Uno scarno comunicato dei magistrati del Tribunale di Taranto colleghi di Matteo Di Giorgio all’indomani dell’emissione del mandato di cattura contro Di Giorgio (12 novembre 2010) esprime fiducia nell’operato dei giudici di Potenza e auspica però che la vicenda si chiarisca al più presto (ergo che in pochi giorni il collega Di Giorgio sia liberato). Invece pare che le cose non stiano andando così. La questione avrà tempi lunghi perché si è capito che alcuni Magistrati di M.D. vogliono mantenere lo stato di cattura di Di Giorgio almeno fin quando non si vedrà che fare dell’inchiesta sui parchi eolici di Castellaneta sui quali il parlamentare ha fatto alcune denunce che però coinvolgono anche l'ignaro governatore della Regione Puglia Nichy Vendola. Sulla vicenda della cattura del dott. Di Giorgio intanto è calato un silenzio spettrale. Nessuno ne parla più. Né giornali, né televisioni né giudici suoi colleghi, né suoi antagonisti. Nessuno. Il Magistrato è ormai da più di quaranta giorni chiuso in causa in un silenzio tombale. Senza motivo. Si dice che potrebbe inquinare le prove. Ma quali prove se è stato già inquisito per oltre due anni? Per quanto tempo deve essere inquisito ancora? L’unica notizia correlata è che nel giro di pochi giorni – stranamente - il Tribunale di Taranto ha assolto dai reati di maltrattamenti il maresciallo Leonardo D’Artizio, uno dei protagonisti della vicenda, denunciato da Di Giorgio e il suo superiore Massimiliano Conti. Il maresciallo dei Carabinieri Leonardo D’Artizio - lo ricordiamo - era accusato di aver fatto mobbing con 20 suoi subalterni uno dei quali per via di questi maltrattamenti si era suicidato, lasciando moglie e due figli. A carico di D’Artizio erano scaturiti due processi, uno ordinario, uno militare. Il Tribunale militare di Napoli lo ha condannato a un anno di reclusione. Quello ordinario – come abbiamo detto - lo ha assolto. Non so fino a che punto le due sentenze siano compatibili ma – secondo me – uno dei due Tribunali ha sbagliato. Peraltro nel processo ordinario il P.M. Vincenzo Petrocelli aveva chiesto la condanna di D'Artizio a ben cinque anni di reclusione. D’Artizio pur sospeso dal servizio, aveva collaborato - come detto - con la Procura di Potenza e aveva quindi indagato abusivamente sul giudice Matteo Di Giorgio. Però ora con l’assoluzione c'è da scommettere che qualcuno dirà che l’espulsione dall’Arma era ingiusta e che dunque le indagini sono legittime.
MAGISTRATI INDIPENDENTI?
In un paese in cui i magistrati fanno interviste e pubblicano libri parlando delle loro inchieste ancora aperte, può sembrare surreale: eppure mercoledì 20 febbraio 2013 il Consiglio Superiore della Magistratura ha punito Clementina Forleo, giudice a Milano, negandole gli avanzamenti di carriera cui avrebbe avuto diritto non solo per anzianità ma anche per le valutazioni sulla sua professionalità («eccellente») fornite dal consiglio giudiziario di Milano e acquisite nel suo fascicolo. La colpa della Forleo è essere andata anni fa in televisione, ad Annozero, denunciando le pressioni dei «poteri forti» sull'inchiesta Bnl-Unipol, ovvero sulla scalata della assicurazione «rossa» alla Banca Nazionale del Lavoro. É un tema, quello dei rapporti tra la sinistra e le scalate bancarie, che oggi è sulle prime pagine dei giornali grazie all'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena. Ma in quegli anni il clima era diverso. E l'inizio dei guai della Forleo iniziò quando chiese al Parlamento di poter trascrivere le intercettazioni delle telefonate di Massimo D'Alema e del suo compagno di partito Nicola La Torre, definendoli «complici consapevoli del disegno criminoso». Da lì iniziò il suo isolamento. Per l'intervista a Annozero, la Forleo è già stata ingiustamente punita: il Csm la trasferì a Cremona per «incompatibilità ambientale», con una decisione annullata dal Consiglio di Stato. É tornata a Milano, fa il giudice di tribunale. Mercoledì sera, a sorpresa, il Csm è tornata a fargliela pagare. Con una maggioranza risicata - dodici voti contro dieci - è stata giudicata indegna degli avanzamenti che le sarebbero spettati. Tra i più duri, il consigliere del Csm Guido Calvi, che all'epoca del caso Bnl-Unipol era l'avvocato dei Democratici di sinistra.
DAL CASO FORLEO AL CASO LAUDATI-SCESI. LA MAGISTRATURA E’ VERAMENTE INDIPENDENTE ? Questo si chiede Michele Imperio. La storia – si diceva una volta – è fatta di corsi e ricorsi storici. Con ciò si voleva dire che la storia è composta di vicende analoghe che di volta in volta nel tempo si ripetono. Dopo il 1992 dalemiani e finani, consci di essere sostenuti dai servizi segreti americani, agiscono come se fossero i padroni del sistema, pretendono di fare porcherie in quantità, non accettano di essere sottoposti al controllo della Magistratura, come già in passato accadde per altri gruppi politici. Il valoroso Magistrato Clementina Forleo ebbe l’ardire di mettersi contro sia finiani che dalemiani ed è stato il magistrato più massacrato d’Italia degli ultimi venti anni dopo Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Riepiloghiamo e riesaminiamo il suo caso. La Procura della Repubblica di Milano, nel corso dell’inchiesta sulle scalate bancarie, aveva intercettato delle telefonate di imprenditori sotto inchiesta per reati finanziari e alcune di queste telefonate erano dirette a parlamentari. La Legge Boato imponeva in questo caso che le intercettazioni non potessero essere usate come prova senza che il Parlamento avesse concesso l’autorizzazione. La Procura passò quindi le telefonate al g.i.p. Clementina Forleo, la quale doveva valutarne la rilevanza penale ed eventualmente richiedere al Parlamento il permesso di usarle. Clementina Forleo chiese l’autorizzazione all’utilizzo delle intercettazioni, che coinvolgevano alcuni parlamentari del PD (Piero Fassino, Massimo D’Alema, Nicola Latorre, Salvatore Cicu) e del PDL (la buonanima di Romano Comincioli), tuttavia ebbe l’inaccortezza di scrivere nella sua ordinanza che le intercettazioni potevano servire non soltanto come prova contro gli imprenditori inquisiti, ma anche come materiale indiziario per poter eventualmente inquisire alcuni gli stessi parlamentari che, secondo quanto scrisse nella richiesta, “appaiono [...] consapevoli complici di un disegno criminoso”. Apriti cielo! Per il solo fatto di avere ventilato una possibile incriminazione di D’Alema (che comunque doveva essere sempre formalizzata dai P.M. per cui il suo era un semplice parere) dopo quella ordinanza la Forleo racconta di essere stata circondata da Gerardo D’Ambrosio e da altri magistrati di M.D. i quali le dissero: “Lascia perdere D’Alema! lui è uno che aiuta noi magistrati!“. Anche la reazione di D’Alema fu durissima e perfino Giorgio Napolitano le si mise contro. D’Alema ci tiene molto alla sua reputazione e non ammette di essere indagato. Dopo questa ordinanza Clementina Forleo è stata letteralmente massacrata, minacciata con plurime lettere anonime con proiettile incorporato, telefonate mute, attentata alle proprie cose con aggressioni incendiarie alle sue fattorie, rimasti sempre a opera di ignoti, privata della scorta, perfino fatta segno di un tentativo di omicidio in autostrada, sottoposta a procedimento disciplinare e trasferita di sede.
Clementina Forleo pretese pure di disporre intercettazioni sul conto di Antonio Fazio un santone roman-democristiano passato sotto la protezione di Gianfranco Fini e ne arrestò il figlioccio Giampiero Fiorani. Quindi è presumibile che Clementina Forleo sia stata massacrata da una azione congiunta che ha visto convergere magistrati dalemiani di M.D. e magistrati finiani di M.I. Tra questi ultimi c’è anche quell’Alberto Santacaterina all’epoca Sostituto Procuratore presso il Tribunale di Brindisi, affiliato a M.I., la corrente di destra delle toghe che fa capo a Gianfranco Fini, il quale in pratica si è clamorosamente e apertamente rifiutato di espletare indagini sulle minacce e sugli attentati subiti dalla famiglia della Forleo, non ultimo la morte dei genitori preannunciata da una lettera anonima (“i tuoi genitori moriranno e poi morirai anche tu“;) e puntualmente verificatasi venti giorni dopo a seguito di uno “strano” incidente stradale.
Alberto Santacaterina finì sotto processo per questo motivo, fu a un passo dall’essere sottoposto a mandato di cattura da parte di un valoroso magistrato della Procura della Repubblica di Potenza Ferdinando Esposito per associazione a delinquere, falso, omissioni di atti d’ufficio, abuso in atti d’ufficio e altri reati. Poi, a seguito di un altro strano incidente stradale il giudice Ferdinando Esposito precipitò in una scarpata. Stette lì lì per morire, dovette abbandonare l’inchiesta che passò – provvidenzialmente per Santacaterina – nelle mani di un Magistarto di M.D. Cristina Correlae e tutto si sistemò. Ora Alberto Santacaternia si trova in premio a fare il Sostituto Procuratore distrettuale anti-mafia presso la Procura della Repubblica di Lecce. Abbiamo già dissertato a lungo sull’inopportunità che questo magistrato ricopra un incarico così delicato. Ora possiamo aggiungere che al tempo il CSM voleva respingere la sua proposta di promozione. “Amici” però ci hanno riferito che i Magistrati di M.I. sono stati perentori nel sostenerlo e hanno letteralmente imposto al CSM che Alberto Santacaterina dovesse a forza ricevere questo incarico. “O il CSM fa passare questa nomina - dissero – o il CSM non lavora più“. All’epoca il vicepresidente dei M.I. era il noto Giovanni Tinebra, l’ex Procuratore capo di Caltanisetta che depistò le indagini sulla strage di via D’Amelio (quella in cui fu assassinato Paolo Borsellino) e che recentemente si è rifiutato di deporre nel processo Mori-Obinu che si sta celebrando dinanzi il Tribunale di Palermo. Alcuni Magistrati della stessa Procura della Repubblica di Lecce ora vorrebbero – forse – incriminare i valorosi magistrati della Procura della Repubblica di Bari Antonio Laudati, Ciro Angelillis e Eugenia Pentassuglia sulla base di una denuncia del chiacchieratissimo magistrato dalemiano sempre di Bari e di M.D. Giuseppe Scelsi. I Magistrati Antonio Laudati, Ciro Angelillis e Eugenia Pentassuglia sono i magistrati i quali, meritoriamente, hanno scoperchiato il pentolone puteolento della malasanità pugliese di marca dalemiana. La Procura di Lecce però è bipartisan. Non si conoscono per ora gli orientamenti politici del magistrato incaricato Antonio De Donno per cui ancora non si può dire se l’indagine intende colpire gli integerrimi Magistrati baresi Antonio Laudati, Ciro Angelillis ed Eugenia Pentassuglia oppure intende perseguire le gravi calunnie loro rivolte dal Sostituto Procuratore generale in forza alla Corte di Appello di Bari Giuseppe Scelsi. Nelle intercettazioni disposte nel processo sulla malasanità pugliese inizialmente gestito personalmente proprio da Giuseppe Scelsi ci sono intercettazioni in cui il principale indagato, l’allora assessore regionale del PD. Alberto Tedesco, parla di lui Giuseppe Scelsi e addirittura con lui e discute della opportunità di nominare il fratello del magistrato Michele Scelsi a primario del Servizio immunotrasfusionale dell’ospedale “San Paolo”. Incredibilmente Giuseppe Scelsi non si astenne dall’incarico. Antonio Laudati allora gli affiancò altri due magistrati in modo da costituire un pool. È Alberto Tedesco che nel 2006 porta in Consiglio Regionale una legge per istituire il Coordinamento regionale delle attività trasfusionali e al vertice nomina proprio Michele Scelsi e gli fa gestire i fondi per la raccolta del sangue, la sensibilizzazione alla donazione, un budget di diversi milioni di euro per ogni anno. Poi c’è la Commissione tecnico-scientifica, della quale hanno fatto parte l’assessore regionale Alberto Tedesco e il responsabile del Crat Michele Scelsi, lavorando gomito a gomito. E ancora: Alberto Tedesco delega Michele Scelsi (il medico) a rappresentare la Puglia nella Consulta tecnica permanente istituita presso il Ministero della Salute. Va altresì rilavato che il magistrato “dalemiano” Corrado Lembo già chiacchierato Vice Procuratore nazionale Antimafia nel 1993 al tempo delle stragi, di cui non sono stati mai scoperti i mandanti occulti, oggi Procuratore capo di Santa Maria Capua Vetere, aveva già provveduto ad inviare un messaggio di chiara matrice mafiosa ai Magistrati di Bari che si occupavano della malasanità, arrestando clamorosamente il 25 ottobre 2010 il g.i.p. del Tribunale di Bari Giuseppe De Benedictis, per il possesso irregolare di una sola carabina di una collezione privata di armi composta da ben 1.350 pistole. Giuseppe De Benedictis non era un g.i.p. qualsiasi ma era il g.i.p. che aveva autorizzato tutti i mandati di cattura e aveva scritto tutte le ordinanze sulla malasanità pugliese e sulle operazioni illecite del senatore del PD Alberto Tedesco configurando un quadro che pacificamente consente di contestare a tutti il grave reato di associazione per delinquere finalizzata al peculato all’abuso d’ufficio e alla truffa. La malasanità pugliese ha dato origine a ben sette procedimenti penali e ora sta dando causa anche ad alcuni strani suicidi. Già il giorno dopo l’arresto, il CSM ha trasferito a passo di carica il giudice Giuseppe De Benedictis al Tribunale di Matera, ma il trasferimento, chiaramente illegittimo, è stato annullato dal T.A.R. del Lazio, organo giudiziario non infestato, come quelli penali, da Magistrati politicizzati. Successivamente i magistrati di Bari hanno ricevuto un altro messaggio mafioso perchè Giuseppe De Bendictis è stato sospeso dalle funzioni e dallo stipendio in quanto, secondo il Procuratore Generale della Cassazione, Vitaliano Esposito la sua posizione nel processo della carabina si sarebbe aggravata. Vitaliano Esposito è stato eletto a suo tempo Procuratore Generale della Cassazione con il voto decisivo del noto stragista democristiano Nicola Mancino, allora immeritatamente vicepresidente del CSM, e di lui si dice in alcune intercettazioni contenute nel processo a carico del Magistrato Corrado Carnevale che sia amico di alcuni camorristi.
Anche i magistrati del Tribunale di Taranto si son visti recapitare un messaggio mafioso attraverso l’arresto disposto dal magistrato di MD della Procura della Repubblica di Potenza Laura Triassi del loro valoroso collega Matteo Di Giorgio già delegato su Taranto per le indagini anti-mafia dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce diretta dal valoroso magistrato Cataldo Motta. Il mandato di cattura è stato poi in gran parte annullato dalla Cassazione ma al dott. Matteo di Giorgio continua a essere imposta la misura del soggiorno obbligato e la sospensione dal servizio e dallo stipendio che dura ormai da anni. Ma non sono solo questi i fatti gravissimi che si stanno sempre più frequentemente verificando nei distretti giudiziari di Bari, Taranto e Lecce. Ve ne sono altri forse ancora più gravi di cui disserteremo nel prossimo post.
GIUSTIZIA AD OROLOGERIA? CONDANNATO RAFFAELE FITTO.
Questi politici e questi editori, conoscendo l’inefficienza e l’inaffidabilità il sistema giudiziario italiano, perché non intervengono e/o non ne parlano?
E’ da considerarsi sprovveduto colui il quale rinuncia alla prescrizione, sicuro della propria innocenza, e si affida all’esito incerto di un giudizio?
E' arrivata in piena notte, intorno alle 00.30 del 13 febbraio 2013, e dopo oltre 28 ore di camera di consiglio, la sentenza del processo di primo grado, meglio noto come 'La Fiorita', che si svolgeva davanti alla seconda sezione del Tribunale penale di Bari. L'ex ministro degli affari regionali Raffaele Fitto, è stato condannato alla pena di 4 anni di reclusione e all'interdizione dai pubblici uffici per 5 anni. Tuttavia, per effetto dell'indulto, sono stati condonati tre anni sono stati condonati. La Procura della Repubblica aveva chiesto una pena a 6 anni e 6 mesi. L'imprenditore del settore sanitario ed editore Giampaolo Angelucci è stato condannato a 3 anni e 6 mesi mentre l'accusa aveva chiesto un anno in più. La sentenza è stata emessa dal tribunale collegiale presieduto da Luigi Forleo, giudici a latere Clara Goffredo e Marco Galesi che erano in camera di consiglio in un albergo cittadino. La sentenza è stata letta a mezzanotte e mezza, fatto abbastanza insolito. Fitto ha scosso la testa durante la lettura del dispositivo e al termine, visibilmente amareggiato, non ha voluto rilasciare dichiarazioni ai giornalisti.
Dopo oltre un giorno di camera di consiglio i giudici baresi si sono pronunciati: 4 anni all'ex ministro Raffaele Fitto nel processo «La Fiorita» (trenta gli imputati), scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere della Sera”. Fitto è stato condannato per i reati di corruzione, illecito finanziamento ai partiti, e un episodio di abuso d'ufficio. È stato interdetto per cinque anni dai pubblici uffici. Assolto, invece, da tutti gli altri reati contestati tra cui peculato e un altro abuso d'ufficio. Condannato anche l'imprenditore Giampaolo Angelucci a tre anni e 6 mesi. Per l'ex ministro salentino la Procura aveva chiesto una condanna a sei anni e sei mesi di detenzione, oltre alla confisca di circa dieci milioni, l’interdizione legale e dai pubblici uffici. La richiesta del pubblico ministero sorprese l’ex ministro, che a caldo commentò così: «Sono allibito dall’assurda ed incredibile richiesta della Procura di Bari - disse - ricordo che fino ad oggi, dopo ben otto anni di processi, ho collezionato solo assoluzioni e proscioglimenti». Tra gli episodi che venivano contestati dalla Procura a Fitto, all’epoca dei fatti governatore pugliese, vi era la presunta tangente da 500mila euro che l’editore e imprenditore romano, Giampaolo Angelucci, secondo la magistratura inquirente, avrebbe versato nelle casse della «Puglia Prima di Tutto», il partito che faceva capo proprio a Fitto. Per Angelucci, il pm Nitti aveva chiesto una condanna a quattro anni e sei mesi: secondo la ricostruzione della Procura, ci fu un presunto accordo illecito finalizzato ad assicurare alla società «La Fiorita» le concessioni di servizi di pulizia, sanificazione ed ausiliariato da parte di enti pubblici e di Asl pugliesi, e l’affidamento di un appalto da 198 milioni di euro ad una società di Angelucci per la gestione di 11 residenze sanitarie assistite (Rsa). I fatti contestati si riferivano al periodo 1999-2005. Il pubblico ministero, complessivamente, aveva chiesto 27 condanne (le pene oscillavano tra i tre mesi e gli otto anni di reclusione), un’assoluzione, un proscioglimento per prescrizione e una restituzione degli atti. Erano state chieste sanzioni pecuniarie per oltre cinque milioni di euro per le persone giuridiche e l’interdizione, tra gli altri, per il consorzio San Raffaele, la fondazione San Raffaele e la Cascina. Erano numerosi gli episodi di corruzione, falso e turbativa d’asta che venivano contestati agli imputati: oltre all’ex ministro e all’imprenditore romano Angelucci, era stata chiesta la condanna, rispettivamente a otto anni e a sei anni e sei mesi di reclusione, per coloro che venivano considerati dall’accusa i proprietari della Fiorita, Dario e Piero Maniglia; e a due anni per l’ex assessore regionale alla formazione professionale, Andrea Silvestri. Le Asl di Foggia e Lecce avevano quantificato in 10 milioni di euro ciascuna il risarcimento dei danni e avevano chiesto un milione di provvisionale; l’Asl di Taranto aveva sostenuto di aver subito un danno da 150 milioni e aveva chiesto 75 milioni di provvisionale; milionario anche il risarcimento che era stato presentato dalla Regione Puglia. Fitto era presente alla lettura del dispositivo, ma non ha voluto rilasciare dichiarazioni ai cronisti annunciando però una conferenza stampa. Fitto è capolista alla Camera in Puglia nelle liste del Pdl.
L'ex governatore pugliese Raffaele Fitto è colpevole dei reati di corruzione, finanziamento illecito ai partiti e abuso d'ufficio: lo ha deciso la seconda sezione penale del tribunale che ha condannato l'ex ministro a quattro anni, scrive invece “La Repubblica”. Tre anni e sei mesi, invece, per l'imprenditore romano Giampaolo Angelucci. Secondo i giudici, quindi, Fitto nella campagna elettorale del 2005 ricevette una tangente da 500mila euro da Angelucci in cambio fece assegnare alla Tosinvest l'appalto da 198 milioni di euro per la gestione delle residenze sanitarie assistite. L'ex ministro, che è capolista nel 2013 in Puglia alla Camera per il Pdl, è stato ritenuto responsabile anche di uno dei due episodi di abuso d'ufficio, quello relativo allo stanziamento dei fondi per gli oratori destinati inizialmente all'impiantistica sportiva. Assolto invece dal reato di peculato e da un'altra contestazione di abuso d'ufficio. Fitto è stato condannato anche all'interdizione per cinque anni dai pubblici uffici e ad un anno di inibizione a trattare con la pubblica amministrazione. I giudici hanno sostanzialmente accolto le tesi dell'accusa sostenuta dal pm Renato Nitti, elevando tredici condanne in un processo che contava trenta imputati. Tre anni e sei mesi, tra gli altri, all'imprenditore Giampiero Angelucci per corruzione e illecito finanziamento. Il dispositivo della sentenza è stato letto alla una del mattino del 13 febbraio 2013 al termine di una camera di consiglio durata oltre 28 ore. Sono state disposte anche confische di beni: per le società di Angelucci oltre 6 miloni e 600 mila euro, mentre per Fitto l'ammontare è di 500 mila euro. Sia per Fitto che per Angelucci deciso il risarcimento dei danni nei confronti della Regione Puglia, costituitasi in giudizio, ma da definire in altra sede. Numerose condanne per illeciti amministrativi hanno colpito le numerose società coinvolte, a partire da quelle del gruppo Tosinvest come il Consorzio San Raffaele, la Fondazione omonima ed altre con il pagamento di pene pecuniarie per diverse centinaia di migliaia di euro. Condannate anche le società "La Fiorita" e la Cascina" e Duemila, quest'ultima risulta confiscata per 800mila euro. Il peculato era relativo ad un episodio riguardante l'utilizzazione del fondo del presidente: secondo l'accusa l'ex ministro avrebbe utilizzato impropriamente i soldi per finanziare iniziative elettorali. Per un altro episodio di corruzione, contestato a Fitto i giudici hanno disposto la trasmissione degli atti alla procura. Il caso è quello delle presunte pressioni esercitate da Fitto perchè a un'emittente locale salentina venisse affidata la trasmissione di alcuni spot di Aeroporti di Puglia. L'ex ministro, dopo la lettura della sentenza, si è intrattenuto coi suoi avvocati per esaminare il contenuto del dispositivo. Il processo Fiorita si è chiuso così, dopo tre anni. Raffaele Fitto è arrivato in aula dieci minuti prima delle 22 con uno dei suo legali, l'onorevole Francesco Paolo Sisto. Ha seguito il processo sino all'ultimo, partecipando alle udienze più importanti, dando indicazioni ai suoi legali, cercando e trovando atti e delibere che a suo dire lo scagionerebbero. La procura per lui aveva chiesto 6 anni e 6 mesi di reclusione. La sentenza arriva alla vigilia della visita a Bari del leader del Pdl Silvio Berlusconi per la campagna elettorale che vede l'ex ministro Fitto candidato alla Camera dei Deputati. I giudici della seconda sezione, presieduta da Luigi Forleo, si sono riuniti in camera di consiglio lunedì pomeriggio dopo le controrepliche dell'accusa e della difesa, interventi che hanno riguardato principalmente la posizione di Fitto e Angelucci. La corte (giudici a latere Clara Goffredo e Marco Galesi) ha trascorso una notte in albergo, per una riflessione ininterrotta e non semplice. Numerose le posizioni, i capi di imputazione, alcuni dei quali riguardano le società.
L'ex ministro è uno dei 30 imputati (ci sono anche 10 società, quasi tutte del gruppo Angelucci), 13 dei quali sono stati condannati a pene comprese tra un anno e quattro anni e sei mesi di reclusione, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Tra i nomi noti spicca quello di Giampaolo Angelucci, imprenditore nella sanità privata, editore e immobiliarista al quale i giudici hanno inflitto la pena di tre anni e sei mesi per corruzione e illecito finanziamento ai partiti. I fatti contestati si riferiscono al periodo 1999-2005, quando Fitto era presidente della Regione Puglia, e riguardano l'esistenza di un presunto accordo illecito finalizzato ad assicurare alla società “Fiorita” le concessioni di servizi di pulizia, sanificazione ed ausiliariato da parte di enti pubblici e di Asl pugliesi, e l'affidamento di un appalto da 198 milioni di euro per sette anni a una società di Angelucci per la gestione di 11 Residenze sanitarie assistite (Rsa). Per vincere questo appalto - secondo l'accusa - Angelucci versò al movimento politico creato da Fitto per le regionali dell'aprile 2005, "La Puglia prima di tutto", una tangente di 500.000 euro. Da qui anche l'accusa di illecito finanziamento ai partiti. Per questi fatti Angelucci, il 20 giugno 2006, fu posto agli arresti domiciliari per alcuni giorni; per Fitto, essendo frattanto divenuto parlamentare di Forza Italia, la magistratura barese chiese alla Camera l'autorizzazione a procedere all'arresto, richiesta che fu negata dall'Aula di Montecitorio. Gli altri reati contestati a Fitto sono il peculato (dal quale è stato assolto) per aver stanziato «per finalità private» 189.700 euro del fondo di rappresentanza del presidente della giunta regionale a favore di soggetti elencati in due determine dirigenziali; i due episodi di abuso d'ufficio fanno invece riferimento il primo (per il quale è stato assolto) alla proroga per 12 mesi di un appalto da 556.000 euro alla Asl di Lecce, il secondo (per il quale è stato condannato) al finanziamento di circa 30 milioni agli oratori cattolici. L'altro episodio di corruzione, per il quale i giudici hanno restituito per una nuova valutazione dei fatti gli atti alla procura, è contestato a Fitto in concorso con Paolo Pagliaro (candidato nel 2013 nelle liste del Mir alla Camera), editore dell'emittente pugliese Telerama, che in cambio dell'appoggio elettorale al presidente Fitto avrebbe ricevuto un appalto pubblicitario dalla Seap, la società pubblica che gestisce gli aeroporti pugliesi (ora Aeroporti di Puglia). Fitto e Angelucci sono stati anche interdetti per cinque anni dai pubblici uffici. Al gruppo Tosinvest della famiglia Angelucci sono stati confiscati beni per oltre 6 milioni di euro. Sanzioni pecunarie sono state disposte anche per le società del gruppo Angelucci, accusate di aver avuto un ruolo nella vicenda del pagamento della presunta tangente da 500mila euro: il Consorzio San Raffaele dovrà versare 210mila euro, 26mila ciascuna le altre sette società.
Cadute invece le accuse nei confronti dell’editore Paolo Pagliaro, coinvolto nelle intercettazioni telefoniche di Fitto. L’altro episodio di corruzione contestato a Fitto è infatti quello relativo alle presunte pressioni esercitate dall’esponente del Pdl perché Aeroporti di Puglia affidasse la trasmissione di alcuni spot pubblicitari all’emittente televisiva salentina Telerama di Paolo Pagliaro. Per il pm Pagliaro avrebbe orientato, a favore di Fitto e contro Vendola, i telegiornali e le trasmissioni politiche delle sue televisioni, in cambio di commesse pubblicitarie da parte di Fitto. “Mi contestano un reato di corruzione che consiste nell’aver ricevuto, esattamente come tutte le altre tv locali e i media del territorio, un contratto pubblicitario da Aeroporti di Puglia – commentò a caldo l’editore di Telerama - L’accusa è che TeleRama avesse ripreso e mandato in onda un confronto realizzato da La 7 per ricevere in cambio un vantaggio da Fitto sotto forma di contratto pubblicitario di Aeroporti di Puglia. E di quanto sarebbe questo vantaggio? Nella requisitoria, dopo aver parlato dell’appalto per le Rsa da oltre 130 milioni di euro e della tangente da 500.000 euro che sarebbe stata versata da Angelucci per vincerlo, il PM ha precisato ancora meglio le cifre di questa astronomica corruzione: TeleRama avrebbe ottenuto che il preventivo presentato fosse addirittura tagliato del 50 per cento, e non del 60 per cento come inizialmente previsto. Una differenza del 10 per cento, pari a circa 200 euro netti. Corruzione per un vantaggio da 200 euro pagato con regolare fattura e IVA al 20 per cento: ecco l’accusa, francamente ridicola, che mi viene rivolta! La verità è un’altra: quei contratti erano regolari, il confronto de La 7 non venne mai mandato in onda il nostro invece venne programmato spesso perché era un “colpo” giornalistico condotto secondo regole giornalistiche impeccabili, quelle telefonate erano le normali richieste di un imprenditore che chiedeva di non essere discriminato nel suo lavoro. Io non ho commesso alcun reato, sono innocente (anzi, innocentissimo!) e vittima di assurde congetture che si sono riaffacciate alla ribalta mediatica non sei mesi fa, in tempo per restituire onore e dignità a chi è coinvolto nel processo, ma nel giorno di presentazione delle liste che vedono candidato me e Raffaele Fitto. Spero che questo incubo finisca presto e che, una volta per tutte, emerga la verità, che possa restituire la credibilità minata in primis alla magistratura barese e al mondo della giustizia. Non permetto a nessuno di mettere in dubbio la mia onestà e infangare il mio onore: sono e sarò sempre un guerriero, forse scomodo ma onesto”, concluse Pagliaro.
E a quanto pare per l’editore di Telerama, l’incubo è davvero finito, spiega “Il Quotidiano Italiano”. E’ stato infatti disposto il trasferimento degli atti alla Procura per quanto riguarda questo episodio di corruzione contestato a Fitto e relativo alle presunte pressioni esercitate dall’esponente del Pdl perché Aeroporti di Puglia affidasse la trasmissione di alcuni spot pubblicitari all’emittente televisiva salentina Telerama di Paolo Pagliaro. La posizione di Pagliaro è stata stralciata perché durante il dibattimento è emersa una condotta diversa da quella contestata dall’accusa: «Finalmente è finito un incubo, la mia posizione è stata stralciata, sono cadute le accuse che mi erano state rivolte dai pm ….Ma, nonostante la soddisfazione per questo risultato, sono molto amareggiato per la condanna di Raffaele Fitto, ed ancor di più per come sia utilizzata la giustizia per finalità politiche…- commenta così Paolo Pagliaro sul suo profilo Facebook. Spiega ancora Paolo Pagliaro su “Il Quotidiano Italiano” - Caso Monte dei Paschi interessa solo i senesi e l’ex Banca Antonveneta? Io non credo e penso che anche la magistratura pugliese dovrebbe accendere un faro ed indagare sull’acquisto dell’ex Banca del Salento che, per ciò che sappiamo, ha avuto gli stessi connotati della vendita della banca Antonveneta. Oltre allo scandalo dei derivati, dei milioni di euro che noi italiani stiamo pagando per salvare l’Istituto senese vorremmo sapere: perchè il direttore generale di una Banca di provincia (De Bustis) assorbita dal colosso toscano diviene numero uno di questa? Sono esatti i calcoli effettuati dal Sole 24 Ore, che indica in 800 miliardi di vecchie lire il valore di Banca 121 al momento dell’acquisizione da parte di Mps che però pagò ben 2.400 miliardi? Perchè in un periodo ben preciso si ha un aumento di assunzioni presso la Monte dei Paschi su un territorio che vede impegnato, elettoralmente, un esponente di primo piano degli ex Ds? E’ vero che in occasione delle elezioni politiche suppletive del 1999 l’ex Presidente della Banca del Salento salì sul palco durante un comizio di un candidato Ds? Sono delle risposte che i tanti risparmiatori del Salento (Lecce, Brindisi e Taranto) vorrebbero per capire, ulteriormente, cosa c’è stato dietro l’acquisto della nostra ex Banca e dietro le accuse di varie procure d’Italia sui titoli della ex Banca 121: se quelle accuse fossero state infondate, quando mai su quei titoli si sarebbe registrata la disponibilità del rimborso da parte del Monte dei Paschi? Il vero problema del sistema bancario è il senso della totale impunità dei manager bancari, avvallato peraltro da governi, spesso troppi compiacenti, con la Casta di Banchieri». Conclude Paolo Pagliaro, Coord. Reg. Puglia MIR, Candidato alla Camera dei Deputati.
«Da oggi si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della magistratura barese, che è entrata a piedi uniti in questa campagna elettorale. - A denunciarlo è l'ex ministro Raffaele Fitto, condannato per le tangenti di Angelucci. - Non c'era nessun bisogno di fare questa sentenza oggi - ha sottolineato -. Perché non è stata fatta il 28 di febbraio? E' una scelta politica precisa, quella di dare un'indicazione elettorale». Fitto attacca la magistratura barese e il collegio che lo ha giudicato. «Da oggi si è aperta un'azione della magistratura barese nei mie confronti - ha detto in conferenza stampa -, c'è stata un'entrata a piedi uniti dei giudici nella campagna elettorale. È stata fatta una scelta politica precisa da parte del collegio dei magistrati». Sui contenuti della vicenda l'ex ministro è stato chiaro: «Non ho preso alcuna tangente del cazzo, perché la gara era regolare e i commissari sono stati tutti assolti. Io non ho preso mai un euro, ho ricevuto un contributo regolare messo in bilancio dal mio partito e pagato con un bonifico». «Ho atteso per 28 ore la sentenza - ha attaccato Fitto - senza che nessuno ci comunicasse l'ora. Anche questo è stato un segno di inciviltà. Il mio futuro? Vadano avanti e sono più convinto di prima». Fitto, inoltre, si chiede il perché della «fortuna» di alcuni magistrati. «I pubblici ministeri che hanno indagato sul di me - ha concluso - sono stati tutti promossi e fatto carriere importanti, mentre quelli che hanno avuto la sfortuna di indagare sul governatore Nichi Vendola ora rischiano il trasferimento. Inoltre, il collegio sapeva che il 13 febbraio sarebbe arrivato a Bari Silvio Berlusconi. Coincidenza ha voluto che la sentenza sia stata emessa proprio nelle prime ore del 13. D'ora avanti mia sorella avrà un rapporto difficile con me perché non ha amicizie e non conosce alcun magistrato (il riferimento è alla vicenda Vendola-De Felice). «Leggo che io avrei preso una tangente, scusatemi una tangente del cazzo, io non ho preso nessuna tangente e non accetto che venga indicata in questo modo perchè una gara in questione è una gara regolare». Lo ha detto l'ex ministro degli Affari regionali, Raffaele Fitto, nel corso della conferenza stampa svoltasi a Bari il 13 febbraio 2013 dopo la sentenza di condanna a 4 anni di reclusione nell'ambito del processo denominato "La Fiorita". La seconda sezione penale, del Tribunale di Bari lo ha riconosciuto colpevole dei reati di corruzione, illecito finanziamento dei partiti e abuso d'ufficio. In particolare al centro dell'inchiesta c'era il presunto scambio tra un appalto vinto dal gruppo Angelucci per la gestione di 11 residenze sanitarie assistite nella Regione Puglia e un finanziamento che la stessa impresa che opera in ambito sanitario versò al movimento politico "La Puglia prima di tutto", fondato da Fitto in occasione delle elezioni regionali del 2005. Secondo il parlamentare del Pdl la sentenza di condanna contiene "un'offesa" nei suoi confronti. «Poi leggeremo le motivazioni - ha aggiunto - ma c'e' un presupposto e cioè che io sia scemo. Per questo sono profondamente arrabbiato». Fitto ha poi spiegato che «la gara in questione fu regolare perchè la pubblica accusa ha archiviato i componenti della commissione di gara. Questa è stata fatta da un dirigente con una determina dirigenziale. E lo stesso dirigente è stato assolto in via definitiva con sentenza passata in giudicato. Io - ha concluso - sono stato imputato anche per il reato di falso, collegato a questa corruzione, e sono stato assolto da questa imputazione. Ora – ha aggiunto – a fronte di una gara regolare sono state assegnate undici rsa al gruppo Angelucci, due delle quali sono state attivate con la forma del contratto dalla mia giunta, e nove attivate e inaugurate dalla giunta e dal presidente Vendola. In questa situazione vi è stato un finanziamento, non una tangente. Io non ho mai preso in euro. Io ho avuto come partito politico un contributo regolare, fatto con bonifico bancario». Per Fitto, l’accusa prevede che «io sia scemo e ritengo questa sentenza un atto di accusa nei miei confronti che chiarisce che sono deficiente, perchè prendo la tangente con bonifico bancario alla "Puglia prima di tutto" (partito fondato da Fitto), e non in una bella busta o valigetta a me personalmente». «La prendo – ha continuato – per un importo pari allo 0,25% dell’appalto. E la prendo sulla base di una gara regolare per avere un contributo che viene dichiarato pubblicamente con due dichiarazioni congiunte, della parte che lo eroga e della parte che lo riceve, iscritto nel bilancio della "Puglia prima di tutto", inviato alla Camera dei deputati che lo approva, e certificato dalla Corte dei conti». «Questa - ha concluso Fitto – è la tangente di cui stiamo parlando. Io, a chiunque si permette di dire che ho preso una tangente, gli faccio un servizio così. Mi sono seccato di questa cosa». Poi una stoccata: «Attendo di sapere perchè i giudici che indagano sul sottoscritto sono stati tutti promossi». «Uno – ha spiegato – è diventato assessore regionale (Lorenzo Nicastro), l’altro è diventato procuratore della Repubblica di Brindisi, l’altro è stato nominato componente del Csm, l’altro ha portato avanti l'indagine fino a oggi». «E perchè – ha chiesto Fitto – coloro i quali hanno avuto la sventura di indagare su Vendola sono stati tutti trasferiti o sono in via di trasferimento o isolamento all’interno della Procura?». «Attendo queste risposte – ha concluso – perchè se da un lato c'è da seguire l’iter del processo, dall’altro c'è da mettersi in campo per dimostrare con chiarezza che il rispetto per la magistratura, che io ancora oggi affermo con forza, non possa in alcun modo essere delegittimato da alcuni magistrati che sono organici fra loro e hanno intento di carattere politico». «Non ho creato problemi al processo, ma la tempistica avuta è poco nota a tutti gli italiani: 5 udienze a settimana, 10 e oltre al mese. Il collegio che ha pronunciato sentenza di condanna ha ritenuto opportuno procedere con udienze a ripetizione e che sono durate anche 10-12 ore. Quanti processi potrebbero trovare soluzione con questa velocità. Non dirò nulla di ironico. Al collegio avevamo chiesto il rinvio dell’udienza dell’11 febbraio perché Silvio Berlusconi doveva essere a Bari. Il collegio ha detto di no e il presidente mi ha dato un’altra data. Il collegio sapeva che il 13 ci sarebbe stato Berlusconi a Bari. Mentre presentavo le liste al Tribunale il pubblico ministero richiedeva la mia condanna: per quale ragione il collegio ha fatto queste cose, disattendendo le indicazioni del CSM? Raffaele Fitto contesta anche la diversità di trattamento, prendendo come processo di paragone quello relativo alla Missione Arcobaleno, con quattro udienze fino al 13 febbraio 2013: del 5 marzo 2009; poi 3 udienze nel 2011, a febbraio, a maggio e a novembre ed un rinvio al 17 maggio 2012 dove verrà proclamata la prescrizione. Io chiedo perché al presidente Forleo, alla consigliera Goffredo, che compongono lo stesso collegio: io ho avuto 70 udienze in un anno e per il processo Arcobaleno quattro in due anni. Il leader del Pdl in Puglia poi fa una riflessione nel merito del processo, considerando che i reati per i quali è stato condannato i dirigenti regionali e finanche monsignor Cosmo Francesco Ruppi hanno visto le loro posizioni o archiviate o assolte. Sulla questione del finanziamento agli oratori Fitto ricorda che tutto iniziò come iniziativa politica degli esponenti del centrosinistra in Regione Puglia, ripresa dai giornali e poi da un magistrato, diventato poi assessore regionale all’Ambiente con Nichi Vendola: “Io come devo leggere tutte queste cose insieme? Mia sorella non esce con nessun magistrato, io con lei avrò un rapporto complicato. Chi ha assolto il presidente Vendola è amica della sorella del presidente. Il presupposto: che io sia scemo. Leggo che io avrei preso una tangente, tangente del cazzo. C’è stata una gara regolare per l’apertura di 11 RSA e io non ho mai preso un euro, la Puglia Prima di Tutto ha avuto un bonifico. Le tangenti si prendono con bonifico? Fino ad oggi ho fatto l’imputato modello, ma non c’era nessuno bisogno, c’era la volontà precisa di un collegio della magistratura di entrare nella campagna elettorale. Sto ricevendo migliaia di attestazioni di stima, mobilitiamoci, lo faccio con la schiena dritta. C’è stata una dimostrazione di inciviltà, con la volontà di entrare a piedi uniti nella campagna elettorale in una regione come la Puglia che vede tendenzialmente il centrodestra in recupero. Attendo le risposte a tutti i miei quesiti anche dal presidente del tribunale Savino. Perché i giudici che indagano su di me vengono promossi o diventano assessori e chi indaga su Vendola viene trasferito? Io ho rispetto per la magistratura, ma è delegittimata da alcuni».
Ricordiamo il processo "Arcobaleno". Dopo oltre 12 anni dagli arresti si è concluso, con la dichiarazione di non luogo a procedere per avvenuta prescrizione di tutti reati, il processo sulla gestione della «Missione Arcobaleno», l'operazione umanitaria voluta nel 1999 dal governo D'Alema in Albania per sostenere i kosovari in fuga dalla loro terra bombardata dalla Nato in conseguenza dell'intervento contro la Serbia, scrive “Il Corriere della Sera”. Lo ha deciso il tribunale di Bari su richiesta della procura che nel novembre scorso, d'accordo con i difensori dei 17 imputati, aveva chiesto ai giudici della seconda sezione un rinvio preliminare ai fini di una declaratoria predibattimentale della prescrizione di tutti i reati, l'ultimo dei quali si è «estinto» il 28 aprile scorso. Il processo - cominciato il 10 febbraio 2011 - non è quindi mai andato oltre le questioni preliminari anche perchè vi era un lasso di tempo troppo breve per istruire un dibattimento che contava 17 imputati e oltre 100 testimoni. I giudici hanno dichiarato anche l'estinzione della misura cautelare a carico dell'albergatore albanese Ramhi Isufi per il reato di peculato aggravato. Isufi era sfuggito nel 2000 alla cattura e da allora era latitante. Secondo l'accusa, gli italiani avrebbero aiutato l'albanese ad impossessarsi di centinaia di quintali di pasta e prodotti alimentari vari destinati ai fuggiaschi. Il 20 gennaio del 2000 furono invece arrestati: Massimo Simonelli (dipendente della Protezione civile e capo della missione italiana), Luciano Tenaglia, capo del campo profughi di Valona, Silvia Lucatelli e Alessandro Mobobno, dipendente e volontario della Protezione civile. Tutti erano accusati di occultamento, falso, uso distorto di atto pubblico. Tra i 17 imputati a processo l'ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri, Franco Barberi, all'epoca dei fatti capo dipartimento della Protezione civile. Barberi era accusato di associazione per delinquere assieme al suo segretario Roberto Giarola, a Simonelli, Tenaglia, Mobono, Emanuele Rimini, Luca Provolo e Antonio Verrico. Nei loro confronti si erano costituiti parte civile Palazzo Chigi e il Viminale, che non saranno risarciti. L'accusa era oggi rappresentata in aula dal procuratore aggiunto Pasquale Drago, che ha ereditato il fascicolo istruito da Michele Emiliano (poi sindaco di centrosinistra di Bari) e passato, dopo l'avviso di conclusione delle indagini preliminari, al pm Marco Dinapoli (poi procuratore di Brindisi). Dal 5 febbraio 2009, data prevista per l'inizio del processo, il collegio dei giudici è cambiato quattro volte e la prima udienza è stata rinviata sette volte in due anni.
Ed a proposito delle punizioni. La prima commissione del Csm ha ascoltato i pm della Procura di Bari Desirèe Digeronimo e Francesco Bretone, il procuratore aggiunto Lino Giorgio Bruno e il giudice Antonio Diella, presidente aggiunto dell’ufficio gip-gup del Tribunale di Bari. Palazzo dei Marescialli sta verificando se sussistano i presupposti per un trasferimento d’ufficio per incompatibilità del pm di Bari Digeronimo, che insieme al collega Bretone e all’aggiunto Bruno rappresentava l'accusa nel processo contro il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola. A sollecitare la pratica sul magistrato barese erano stati i togati di Area, dopo che il pm Digeronimo aveva, assieme al collega Francesco Bretone, inviato al pg, al procuratore capo e a uno degli aggiunti di Bari un esposto sul giudice Susanna De Felice, che ha assolto Vendola. Nell’esposto i due pm di Bari rilevavano che il giudice De Felice è amica della sorella di Vendola. Il giudice aveva già sollevato la questione al suo superiore Diella, che non aveva ritenuto di sostituirla nella trattazione del processo. Il Csm sta ascoltando i magistrati baresi nell’ambito di una fase preliminare all’eventuale apertura di un procedimento per trasferimento d’ufficio.
Dopo le polemiche e l’apertura di una inchiesta da parte della Procura di Lecce, adesso è la prima commissione del Consiglio superiore della Magistratura ad occuparsi della sentenza di assoluzione di Nichi Vendola e della presunta amicizia - sostenuta in un documento dai pubblici ministeri Desirée Digeronimo e Francesco Bretone - tra la sorella del governatore pugliese, Patrizia Vendola e la giudice Susanna De Felice che pronunciò quella sentenza, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere della Sera”. Infatti, sono stati ascoltati a Roma il capo dell’ufficio gip-gup, Antonio Diella, il procuratore aggiunto Giorgio Lino Bruno e Digeronimo e Bretone. Massimo riserbo su cosa sia stato riferito dai quattro magistrati ai componenti della prima commissione del Csm. A chiedere di avviare una pratica su Digeronimo per verificare se esistano i presupposti per un trasferimento per incompatibilità ambientale erano stati due componenti togati del Csm appartenenti alla corrente Area. Al centro delle audizioni e della nuova querelle c’è la lettera riservata con la quale Digeronimo e Bretone, lo scorso novembre, all’indomani dell’assoluzione del governatore Vendola dall’accusa di abuso d’ufficio, manifestarono dubbi sull’imparzialità della giudice per la sua presunta amicizia con Patrizia Vendola.
Ricostruiamo la vicenda. Il 31 ottobre 2012, la giudice De Felice assolse il presidente della Regione Puglia e Lea Cosentino, ex direttore generale dell’Asl Bari. Qualche giorno dopo, i due pubblici ministeri titolari dell’indagine inviarono una lettera al procuratore generale, Antonio Pizzi, al procuratore di Bari, Antonio Laudati e per conoscenza all’aggiunto Giorgio Lino Bruno con la quale i due magistrati segnalavano un’amicizia tra la giudice che si era occupato del caso e la sorella del governatore. Secondo Bretone e Digeronimo, le due donne sarebbero legate da «un’amicizia diretta» e da «frequentazione di amici in comune». Per questo motivo, a loro dire la giudice si sarebbe dovuta astenere dal processo. I due pubblici ministeri motivarono la scelta di scrivere e trasmettere la lettera «in modo da consentire di attivare, ove lo ritengano, i poteri loro attribuiti di vigilanza e controllo». I magistrati baresi spiegarono anche di aver sollevato il caso dopo l’assoluzione perché, sostenevano, soltanto dopo il processo avrebbero avuto contezza che l’amicizia tra il giudice e la sorella di Vendola fosse cosa nota a Bari.
La voce di una presunta conoscenza tra le due donne, però, pare girasse da diverso tempo nei corridoi della Procura, tanto che lo scorso settembre, un mese prima della sentenza, era stata la stessa De Felice a prendere carta e penna per fare presente al capo del suo ufficio, Antonio Diella, di conoscere la sorella del governatore. Non di esserle amica, ma di averla incontrata a un paio di cene una delle quali proprio in casa di Digeronimo. La lettera dei due pubblici ministeri sollevò un polverone: il procuratore generale Pizzi avviò gli accertamenti e ascoltò i capi degli uffici, predisponendo una relazione finale che dovrebbe essere già stata trasmessa a Lecce e, probabilmente, a Roma, proprio al Consiglio superiore della magistratura.
Il magistrato denunciata dalle colleghe: «Non doveva giudicare Nichi», scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. Il giudice che ha assolto Nichi Vendola per la storiaccia del concorso da primario all'ospedale di Bari finisce sotto inchiesta. Al gip Susanna De Felice è dedicato un fascicolo ad hoc aperto a Lecce, non si sa se d'ufficio o dopo la denuncia dei pm titolari dell'inchiesta su Nichi che avevano (invano) chiesto il rinvio a giudizio per il leader di Sel, e in subordine s'erano affrettati a denunciare che lo stesso gip si sarebbe dovuto astenere perché amico della sorella dell'indagato eccellente e sempre a loro dire in rapporti pure con l'ex pm e senatore Pd Carofiglio, marito della pm barese Pirrelli. L'indagine sulla gip è emersa per caso, con un appunto del procuratore Cataldo Motta scritto in calce all'avviso di chiusura indagini inviato ai due protagonisti della guerra alla procura di Bari: il capo Laudati e l'ex aggiunto Scelsi. E si rifà a una lettera, depositata a Lecce dalla pm Digeronimo, nella quale spiega che per ovvii motivi insieme al collega Bretone si asterrà dalle indagini su tre filoni di sanità (in uno dei quali è indagato ancora il governatore). Proprio questa lettera, scrive a mano il procuratore Motta, va allegata al fascicolo intestato «contro De Felice Susanna», il gip di Vendola, amica della sorella di Nichi. Proprio in quest'inchiesta avviata dai pm di Lecce è stata interrogata come persona informata sui fatti anche Patrizia Vendola. Oggetto le accuse, nemmeno tanto velate, dei pm Digeronimo e Bretone che al procuratore capo di Bari, Antonio Laudati, nero su bianco l'avevano messa così: «Già prima del processo eravamo a conoscenza che la dottoressa De Felice fosse amica della sorella di Vendola. Le lega un'amicizia diretta e amici comuni come il senatore Gianrico Carofiglio e la moglie dottoressa Pirrelli, sostituto di questo ufficio, entrambi amici stretti di Patrizia Vendola» come peraltro confermato da Carofiglio in un'intervista a Repubblica il 3 aprile 2009. Nel carteggio a Laudati i pm baresi spiegano di non aver ricusato formalmente il gip per il troppo rispetto che nutrivano nei suoi confronti. Senonché, dopo le uscite di Vendola che annunciava urbi et orbi che si sarebbe dimesso in caso di condanna («Questo comportamento ha costituito a nostro giudizio un'indebita pressione su un giudice che in caso di condanna avrebbe determinato l'uscita dalla scena politica del fratello della sua amica») molti colleghi di Bretone e Digeronimo, alla luce dell'assoluzione, «ci hanno chiesto come fosse stato possibile che a giudicare il governatore fosse stata un'amica della sorella di Vendola». Il gip, in una contro-nota all'aggiunto Divella, a fronte di voce che le arrivavano all'orecchio a proposito di un'amicizia con Patrizia Vendola specificava di non essere amica della sorella di Nichi ma di averla conosciuta proprio a casa della sua accusatrice, la Digeronimo. E quest'ultima ha sentito il bisogno di precisare al procuratore di Lecce che dal 2009 non intrattiene più alcun rapporto con la sorella di Nichi e con i coniugi Carofiglio «all'epoca miei amici», e che soprattutto «non ho mai avuto rapporti di frequentazione diretta con la collega Susanna De Felice».
E non solo: Escort, caso Laudati al Csm, rischia il trasferimento d'ufficio. La Prima Commisione avvia a maggioranza assoluta la procedura dopo che i pm di Lecce lo hanno accusato di aver aiutato Tarantini a eludere le indagini sulle ragazze portate nelle residenze di Berlusconi, scrive “La Repubblica”. Rischia il trasferimento d'ufficio per incompatibilità il procuratore di Bari Antonio Laudati, accusato dai pm di Lecce di aver aiutato Silvio Berlusconi e l'imprenditore barese Paolo Tarantini a eludere le indagini sulle escort. A quanto si è appreso la Prima Commissione del Csm gli ha aperto a maggioranza la relativa procedura. Cinque i voti a favore dell'apertura della procedura, contrario solo il laico del Pdl Nicolò Zanon. Poco più di un anno fa il Csm aveva archiviato l'esposto del pm barese Pino Scelsi che accusava Laudati di aver rallentato la sua inchiesta sulle escort portate nelle residenze di Silvio Berlusconi, quando era a capo del governo, e di aver affidato a una "aliquota" Gdf un'indagine parallela per controllare il lavoro dei sostituti. Ma quel fascicolo è stato riaperto nel novembre a seguito degli sviluppi dell'inchiesta di Lecce, che vede Laudati accusato di favoreggiamento di Berlusconi e Tarantini, e di abuso d'ufficio per aver indagato illecitamente due pm del suo stesso ufficio, Scelsi e Desirè Digeronimo. In questi mesi la Commissione ha compiuto una sorta di pre-istruttoria, ascoltando il procuratore generale di Bari Pizzi e i pm Pasquale Drago, Anna Maria Tosto e Giorgio Lino Bruno. Ora però partirà l'indagine vera e propria, il cui primo atto sarà la convocazione di Laudati perchè possa difendersi, anche con l'assistenza di un collega o di un avvocato, dalle contestazioni che gli vengono mosse. Solo al termine degli accertamenti che saranno ritenuti necessari la Commissione deciderà se proporre al plenum il trasferimento del procuratore o una nuova archiviazione.
«Alquanto curiosa e preoccupante è la decisione della Prima commissione del Csm di aprire a distanza di tempo una pratica per incompatibilità ambientale del Procuratore di Bari su fatti già noti ed ampiamente chiariti dall'interessato ed archiviati sia dal Csm che dall'Ispettorato del Ministero della Giustizia che ne ha approvato pienamente il lavoro. Non se ne comprendono i motivi e questa iniziativa non convince per le modalità e per i tempi. - Lo dichiara il segretario di Magistratura indipendente, Cosimo Ferri. Il Csm, sottolinea Ferri, - non fa autocritica su come avvengono le nomine dei capi d'ufficio, questione su cui sono stati richiamati anche recentemente dal Presidente della Repubblica, si attiva invece per aprire una pratica di trasferimento per un Procuratore che ha riorganizzato un ufficio importante e delicato raggiungendo risultati eccellenti.»
Laudati, l'atto d'accusa di Lecce: "Favorì Tarantini e Berlusconi". Oltre tremila pagine che fanno tremare la procura di Bari. Ieri a Lecce sono stati depositati gli atti allegati all’inchiesta che coinvolge il procuratore capo di Bari e il pm Giuseppe Scelsi. La relazione choc degli ispettori: in procura guerra di veleni, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. Gli atti della procura di Napoli, i verbali dei magistrati che secondo il procuratore Cataldo Motta inchiodano Laudati come "favoreggiatore " di Tarantini e Berlusconi. Gli ispettori che, a differenza dei magistrati di Lecce, salvano il procuratore e dicono che se un ritardo nelle indagini c'era stato, la colpa era proprio di Scelsi che le stava conducendo male. La Digeronimo che secondo gli ispettori avrebbe dovuto astenersi. Una brutta storia raccontata analiticamente nelle 3.386 pagine depositate ieri dalla procura di Lecce negli atti allegati all'inchiesta che coinvolge Laudati e Scelsi. E che sta facendo tremare (più ancora delle fondamenta ballerine) il palazzo di giustizia di Bari. La procura di Lecce ha pochi dubbi: l'atteggiamento di Laudati è stato sin dall'inizio indirizzato a salvaguardare dall'inchiesta su Tarantini l'allora presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Per motivarlo, utilizzano i verbali dei partecipanti alla riunione di luglio (prima dell'insediamento ufficiale di Laudati) quando sia Scelsi sia il finanziere Paglino raccontano che Laudati, in missione per conto di Alfano, avrebbe chiesto e ottenuto di bloccare l'inchiesta fino al suo arrivo a settembre. Un passo questo, dice Lecce, che avrebbe minato definitivamente la bontà dell'inchiesta visto che le escort interrogate a settembre (e non a Luglio come la D'Addario & co.) hanno "salvato" Berlusconi forse perché indottrinate dagli avvocati vicini all'allora premier. Il presidente del consiglio - annota Lecce - godeva di una struttura in grado di avvicinare indagati e testimoni, come hanno fatto con Tarantini, la cui difesa è stata in un certo senso commissariata proprio da Berlusconi. Le intercettazioni telefoniche (nelle quali si parla indirettamente del procuratore di Bari) dimostrerebbero inoltre, secondo Motta, come alcuni dei legali di Tarantini avessero rapporti che andavano oltre la normale collaborazione con un procuratore con Laudati. E a riprova che Laudati sapeva che la riunione di luglio fosse da temere, avrebbe informato preventivamente della cosa i pm (Iodice e Dentamaro, che lo hanno raccontato a verbale) che avevano disposto l'arresto di Paglino. Su questo punto però, la procura di Lecce è arrivata a conclusioni diversi rispetto agli ispettori del ministero che invece avevano archiviato l'archiviazione di Laudati disponendo la denuncia invece sia per Scelsi sia per la Digeronimo. Scelsi accusava Laudati di aver rallentato le indagini su Tarantini? "Il quadro che emerge circa lo stato dei procedimenti a carico di Tarantini all'atto dell'insediamento di Laudati è quello di una attività di indagine ancora tutta da sviluppare, con circa 150mila intercettazioni svolte e non trascritte, nonché una massiccia acquisizione documentale, disposta a seguito di attività di perquisizione e sequestro, non ancora compiutamente esaminata e riscontrata. Ovvero, in buona sostanza, emerge documentalmente che se inerzia e incongruità vi furono avvennero prima della formazione dei gruppi e pertanto paradossalmente, sono ascrivibili proprio al denunziante Scelsi. Peraltro, a riscontro dell'efficienza ed assiduità del magistrato deve, altresì, evidenziarsi la circostanza della enorme quantità di atti relativi alle indagini in argomento rinvenuti, ammassati alla rinfusa, all'atto del suo trasferimento in Procura Generale, nel giugno 2011". La squadretta? "Era un semplice potenziamento della polizia giudiziaria a cui erano state delegate le indagini e alla analisi del materiale probatorio acquisito per consentire un efficace coordinamento tra tutti i filoni di indagine ". Scelsi è indagato per abuso di ufficio per aver intercettato abusivamente la dottoressa Paola D'Aprile, che aveva la sola colpa di essere amico del sostituto procuratore Digeronimo: secondo la procura di Lecce, Scelsi temeva che la collega le "scippasse" l'inchiesta e voleva dimostrare l'incompatibilità della collega. La D'Aprile era infatti amica di Lea Cosentino, indagata nell'inchiesta Digeronimo. Secondo gli ispettori, Scelsi ha commesso un abuso. Ma la Digeronimo (archiviata a Lecce) avrebbe dovuto astenersi da quel fascicolo. Per spiegare il perché, utilizzano il verbale dello stesso pm. "Paola D'Aprile - si legge - è mia amica da tempo (...) Sapendo che era amica della Cosentino, mia indagata nel procedimento Tedesco, ho colto l'occasione in cui si parlava con il collega Scelsi, con il quale avevo un rapporto di amicizia e confidenza, delle indagini sulla sanità per invitarlo, nel caso fosse emerso un qualche coinvolgimento della, di avvisarmi tempestivamente al solo fine di prendere le distanze e di non frequentarla più. Scelsi mi rassicurò e mi disse di non preoccuparmi assolutamente ". Poco dopo, Scelsi intercettò il telefono della D'Aprile. E registrò alcune telefonate tra lei e l'amica. "A novembre - racconta sempre la Digeronimo - dopo una cena a cui ero stata invitata dal Procuratore, Laudati in separata sede mi fece ascoltare la registrazione di una conversazione intercorsa tra me e la D'Aprile e mi chiese di chiarire alcune circostanze rilevabili dal colloquio ". Agli atti di Scelsi finisce poi un messaggio della D'Aprile alla Cosentino dal testo: "non ho finito, sto lavorando per te. Tutto ok", inviato un'ora dopo che la stessa D'aprile era salita a casa della Digeronimo. "Ma io - ha spiegato la pm - non ho mai parlato con la D'Aprile di attività investigative, tantomeno sulla Cosentino". "In occasione dell'arresto della Cosentino - segnalano però gli ispettori - la dottoressa Digeronimo non ha esitato a incontrare la D'Aprile premurandosi di prendere l'iniziativa di contattarla e, sentendola in lacrime, di invitarla nel proprio ufficio peraltro invitandola a non dichiararlo al piantone". Un elemento che, insieme agli altri, farebbe secondo gli ispettori "sussistere i presupposti perché il magistrato facesse formale istanza di astensione in quanto si era manifestata una situazione obiettivamente suscettibile di far ipotizzare che la condotta funzionale potesse essere ispirata al perseguimento di fini diversi da quelli istituzionali".
POLITICA ED INFORMAZIONE: CORRUTTELA MEDIATICA E FAZIOSITA’ O GIUSTIZIA AD OROLOGERIA?
Una presunta tangente di 500.000 euro per un appalto da 198 milioni, scrive “America Oggi”: è questa una delle due accuse di corruzione alla base della richiesta di condanna a 6 anni e 6 mesi per l'ex ministro agli Affari Regionali Raffaele Fitto, parlamentare del Pdl. L'ex presidente della Regione Puglia, alle elezioni legislative del 2013 capolista alla Camera in Puglia nelle liste del Pdl, è anche accusato di peculato, illecito finanziamento ai partiti e di due episodi di abuso d'ufficio. "Sono scioccato e senza parole per l'abnormità della richiesta", reagisce l'ex ministro, che sottolinea che "dopo ben otto anni di processi" ha "collezionato solo assoluzioni e proscioglimenti", e annuncia di voler fare dichiarazioni ai giudici in aula il 25 gennaio. Fitto è uno dei 30 imputati (ci sono anche 10 società, quasi tutte del gruppo Angelucci) per 27 dei quali l'accusa ha chiesto condanne a pene comprese tra gli otto anni e i tre mesi di reclusione. Tra i nomi noti spicca quello di Giampaolo Angelucci, il re delle cliniche romane, editore e immobiliarista per il quale sono stati chiesti quattro anni e sei mesi per corruzione e illecito finanziamento ai partiti. I fatti contestati si riferiscono al periodo 1999-2005 quando Fitto era presidente della Regione Puglia e riguardano l'esistenza di un presunto accordo illecito finalizzato ad assicurare alla società ‘Fiorita' le concessioni di servizi di pulizia, sanificazione ed ausiliariato da parte di enti pubblici e di Asl pugliesi, e l'affidamento di un appalto da 198 milioni di euro per sette anni a una società di Angelucci per la gestione di 11 Residenze sanitarie assistite (Rsa). Per vincere questo appalto - secondo l'accusa - Angelucci versò al movimento politico creato da Fitto per le regionali dell'aprile 2005, ‘La Puglia prima di tutto', una tangente di 500.000 euro. Da qui anche l'accusa di illecito finanziamento ai partiti. Per questi fatti Angelucci, il 20 giugno 2006, fu posto agli arresti domiciliari per alcuni giorni; per Fitto, essendo frattanto divenuto parlamentare di Forza Italia, la magistratura barese chiese alla Camera l'autorizzazione a procedere all'arresto, richiesta che fu negata dall'Aula di Montecitorio. Gli altri reati contestati a Fitto sono il peculato per aver stanziato "per finalità private" 189.700 euro del fondo di rappresentanza del presidente della giunta regionale a favore di soggetti elencati in due determine dirigenziali; i due episodi di abuso d'ufficio fanno invece riferimento il primo alla proroga per 12 mesi di un appalto da 556.000 euro alla Asl di Lecce, il secondo al finanziamento di circa 30 milioni agli oratori cattolici. L'altro reato di corruzione è contestato a Fitto in concorso con Paolo Pagliaro (candidato nelle liste del Mir alla Camera), editore dell'emittente pugliese Telerama, che in cambio dell'appoggio elettorale al presidente Fitto avrebbe ricevuto un appalto pubblicitario dalla Seap, la società pubblica che gestisce gli aeroporti pugliesi (ora Aeroporti di Puglia). Altre condanne sono state chieste per l'ex presidente del Consiglio regionale pugliese Giovanni Copertino (a 3 anni e due 2 mesi per falso), e per gli imprenditori della società ‘La Fiorita': i fratelli Dario (8 anni) e Piero Maniglia (6 anni e 6 mesi). Per Fitto e Angelucci, il pm Renato Nitti ha chiesto l'interdizione dai pubblici uffici e una confisca per equivalente di 10.500.000 euro: 10 milioni quale presunto profitto della corruzione, 500.000 euro pari al prezzo della presunta tangente. Per le dieci società imputate - La Fiorita, Duemila, Consorzio San Raffaele, Fondazione San Raffaele, Tosinvest Sanità, Finanziaria Tosinvest, Giada, Multires, Cooperativa Editoriale Libero e Casa di cura privata Santa Lucia - la procura ha chiesto complessivamente la condanna al pagamento di 5.600.000 euro. Per La Cascina, Duemila, Fondazione e Consorzio San Raffaele anche l'interdizione dall'attività per un anno.
Fitto, Angelucci, Pagliaro, la Procura chiede la condanna, scrive Maria Luisa Mastrogiovanni su “Il Tacco d’Italia”. Presunta tangente da 500mila euro e pubblicità in cambio di manipolazione dell'informazione. I rapporti di Fitto con due editori: Angelucci e Pagliaro. Sei anni e sei mesi per Raffaele Fitto e un anno e 4 mesi per Paolo Pagliaro, editore di Telerama. Queste le richieste del pm Renato Nitti nell'ambito del processo sulle residenze sanitarie protette, che scoperchiò un giro d'affari, presunte tangenti e appoggi politici tra l'editore Angelucci e l'allora presidente della regione Puglia Raffaele Fitto. Fitto, capolista alla Camera, è imputato insieme ad altre 42 persone: per il pm Nitti in cambio di un finanziamento illecito da 500mila euro al suo movimento politico ‘La Puglia prima di tutto', quando era in corsa contro Vendola per la riconferma alla guida della Regione Puglia, avrebbe garantito al gruppo industriale di Angelucci l'appalto da 198 milioni della durata di sette anni per la gestione di 11 residenze sanitarie protette. Fitto è accusato dalla Procura di Bari di corruzione, peculato e abuso d'ufficio, i fatti contestati vanno dal 2001 al 2005. Per Angelucci il pm Nitti ha chiesto una condanna a quattro anni e sei mesi. Nelle intercettazioni telefoniche di Fitto fu coinvolto anche l'editore di Telerama Paolo Pagliaro, ideatore del movimento politico Regione Salento e candidato sindaco alle primarie del centrodestra leccese. Per il pm Pagliaro avrebbe orientato, a favore di Fitto e contro Vendola, i telegiornali e le trasmissioni politiche delle tue televisioni, in cambio di commesse pubblicitarie da parte di Fitto. Anche Pagliaro è candidato alla Camera, ma per il Mir, con lo slogan "c'è un vento nuovo nel centro destra in Italia". In ogni caso, con le elezioni alle porte, il vento sicuramente si trasformerà in tempesta. Il Deputato salentino, Raffaele Fitto, affida il suo commento ad un comunicato stampa nel quale dichiara: “Sono allibito dall’assurda ed incredibile richiesta della Procura di Bari. Ricordo che fino ad oggi, dopo ben 8 anni di processi, ho collezionato solo assoluzioni e proscioglimenti: sono stato prosciolto dai reati di associazione per delinquere, di concussione e da due episodi di falso in sede di udienza preliminare, con sentenze confermate anche dalla Corte di Cassazione, cui aveva fatto ricorso la stessa Procura di Bari; sono poi stato assolto da altri due diversi episodi di falso in sede di giudizio abbreviato, che io stesso ho richiesto. Per un altro reato di abuso d’ufficio (il cui presunto autore materiale è stato peraltro già prosciolto) era maturata la prescrizione ma io vi ho rinunciato. Sono poi stato assolto dal Tribunale di Bari anche in un altro processo, in cui ero accusato di concorso in interesse privato ed anche in questo caso avevo rinunciato alla prescrizione. Per il resto nella mia mente si affollano ora tante domande e molti pensieri, ma sono scioccato e senza parole per l’abnormità della richiesta. Per queste ragioni ho chiesto ai miei avvocati di preannunciare al Tribunale che nell’udienza di venerdì prossimo, 25 gennaio 2013, renderò dichiarazioni spontanee in Aula". A lui è giunta la solidarietà di molti esponenti del Popolo della Libertà. Ma per chi è editore, specialmente, di una tv locale, sulle le malefatte dei magistrati miracolosamente censura ed omertà scompaiono. Quando sono gli editori o i giornalisti ad essere vittime, le loro posizioni difensive sono la priorità. Per i poveri cristi, invece, valgono solo le ragioni dell’accusa, presso i cui uffici i giornalisti elemosinano veline.
Paolo Pagliaro: “Indagato per aver lavorato, che ingiustizia!” dice su tutti i quotidiani tra cui al “Il Quotidiano italiano” ed a “La Gazzetta del Mezzogiorno”. «Io sono innocente, anzi innocentissimo. Per questo è ancora più strano che otto anni dopo i fatti contestati, le richieste di condanna arrivino esattamente nel giorno di presentazione delle liste elettorali: non sarebbe stato più giusto formularle sei mesi fa, permettendo a chi oggi si candida di presentarsi all’elettorato senza ombre, per quanto pretestuose? Chi mi conosce sa quanto le accuse formulate dalla procura di Bari siano fragili e inconsistenti. A chi non mi conosce chiedo un po’ di pazienza per raccontare i fatti - afferma Paolo Pagliaro, Editore di Telerama, Candidato alla Camera dei Deputati del MIR. - Primo fatto: siamo nei primi mesi del 2005, Raffaele Fitto e Nichi Vendola sono in piena campagna elettorale per le regionali. L’unico confronto su una tv locale tra i due sfidanti alla massimo carica della Regione Puglia avviene sulla emittente di cui sono editore, TeleRama. Un “colpaccio” mediatico di cui sono ancora oggi orgoglioso, anche per la professionalità con cui venne condotto: l’Osservatorio di comunicazione politica dell’Università del Salento, allora guidato dal professor Stefano Cristante, certificò che il confronto era stato gestito con meticoloso equilibrio dei tempi e degli argomenti. Chiaramente il palinsesto di TeleRama ripropose spesso quel confronto: con uno scoop del genere fra le mani, chi non avrebbe fatto lo stesso?Secondo fatto: nello stesso periodo TeleRama, come altre 12 tv e svariati altri media del territorio pugliese, svolse un servizio di promozione per Aeroporti di Puglia: gli spot avvennero secondo un regolare contratto, oltre tutto molto più basso rispetto a quello delle altre tv del territorio, e per la modesta cifra di 5.700 euro. Per capirci, parliamo di una frazione del fatturato 2005 di TeleRama inferiore allo 0,2 per cento. Terzo fatto: le uniche tre telefonate, tra le 150mila intercettate sul cellulare di Raffaele Fitto. Nella prima, io giudicai positiva la performance televisiva dell’allora presidente della Regione Puglia. Nella seconda, chiesi che TeleRama non venisse discriminata nella promozione di Aeroporti di Puglia: se Seap avesse previsto pubblicità per i media territoriali, era giusto che li prevedesse per tutti e non solo per alcuni. Sollecitazioni simili furono poste da altri esponenti dell’editoria locale, anch’essi intercettati, che (giustamente) non risultano oggi indagati. Nella terza telefonata, Raffaele Fitto chiama Domenico Di Paola, allora manager di Aeroporti di Puglia, e lo sollecita a non discriminare TeleRama nella programmazione pubblicitaria. Questi tre fatti sono la fragile base del castello di accuse che la procura di Bari ha costruito pescando “a strascico” nelle telefonate di Raffaele Fitto. 150mila intercettazioni dalle quali si desume tutto e il contrario di tutto, una vera e propria rete costruita da alcuni PM politicizzati baresi, tra cui Lorenzo Nicastro (la popolarità ottenuta durante le indagini gli ha poi fruttato un posto da assessore nella giunta Vendola), per colpire Raffaele Fitto. Mi contestano un reato di corruzione che consiste nell’aver ricevuto, esattamente come tutte le altre tv locali e i media del territorio, un contratto pubblicitario da Aeroporti di Puglia. L’accusa è che TeleRama avesse ripreso e mandato in onda un confronto realizzato da La 7 per ricevere in cambio un vantaggio da Fitto sotto forma di contratto pubblicitario di Aeroporti di Puglia. E di quanto sarebbe questo vantaggio? Nella requisitoria di lunedì, dopo aver parlato dell’appalto per le Rsa da oltre 130 milioni di euro e della tangente da 500.000 euro che sarebbe stata versata da Angelucci per vincerlo, il PM ha precisato ancora meglio le cifre di questa astronomica corruzione: TeleRama avrebbe ottenuto che il preventivo presentato fosse addirittura tagliato del 50 per cento, e non del 60 per cento come inizialmente previsto. Una differenza del 10 per cento, pari a circa 200 euro netti. Corruzione per un vantaggio da 200 euro pagato con regolare fattura e IVA al 20 per cento: ecco l’accusa, francamente ridicola, che mi viene rivolta! La verità è un’altra: quei contratti erano regolari, il confronto de La 7 non venne mai mandato in onda il nostro invece venne programmato spesso perché era un “colpo” giornalistico condotto secondo regole giornalistiche impeccabili, quelle telefonate erano le normali richieste di un imprenditore che chiedeva di non essere discriminato nel suo lavoro. Io non ho commesso alcun reato, sono innocente (anzi, innocentissimo!) e vittima di assurde congetture che si sono riaffacciate alla ribalta mediatica non sei mesi fa, in tempo per restituire onore e dignità a chi è coinvolto nel processo, ma nel giorno di presentazione delle liste che vedono candidato me e Raffaele Fitto. Spero che questo incubo finisca presto e che, una volta per tutte, emerga la verità, che possa restituire la credibilità minata in primis alla magistratura barese e al mondo della giustizia. Non permetto a nessuno di mettere in dubbio la mia onestà e infangare il mio onore: sono e sarò sempre un guerriero, forse scomodo ma onesto», conclude Pagliaro.
Sono circa 150mila le intercettazioni di cui si sono serviti gli inquirenti per condurre le indagini a carico di 42 imputati, scoperchiando una zona grigia in cui le pressioni e le ingerenze politiche sulla gestione degli appalti pubblici veicolano e orientano affari e informazione, scrive Maria Luisa Mastrogiovanni su “Il Tacco d’Italia”. Al di là dell'esito del processo, è questo il dato certo e inconfutabile che viene fuori dalle indagini. Raffaele Fitto, Giampiero Angelucci e Paolo Pagliaro sono i tre imputati eccellenti nel processo "La Fiorita". La consistente mole di conversazioni registrate ha permesso di ricostruire i rapporti tra Fitto e i due editori, e i tentativi di Fitto orientare gli appalti sanitari pubblici e l'informazione locale. Interessante l'intercettazione è relativa alla conversazione tra Mario De Donatis, ex capo di Gabinetto di Fitto, e Vincenzo Pomo, dirigente dell'Ares. I due parlano dei "rapporti ormai compromessi tra molti dirigenti apicali della Regione Puglia" e Fitto, che secondo loro, ha "pretese illegittime". In particolare, De Donatis racconta a Pomo di essersi rifiutato di firmare due delibere (una relativa al Fondo di rappresentanza del Presidente e l'altra relativa ad un incarico di capo ufficio stampa), mentre Pomo rivela a De Donatis dell'aggressione verbale di Fitto a Morlacco (direttore generale dell'Ares), che si è rifiutato di fare una delibera per "l'estensione della gara delle Rsa" gestite Angelucci, che, secondo Fitto, sarebbero dovute passare da 11 a 14. De Donatis, a sua volta, risponde: "Anzi, se revocano tutto, è meglio", riferendosi alle modalità di aggiudicazione dell'appalto ad Angelucci. Mario De donatis, esponente di spicco dell'Udc e assessore a Galatina per le politiche comunitarie, ne uscirà indenne fin dalla prim'ora, dimostrando, intercettazioni alla mano, una condotta morale specchiata. Altre intercettazioni gettano luce sul rapporto di confidenza tra Fitto e Pagliaro. E' il periodo della campagna elettorale per le Regionali pugliesi del 2005: lo scontro è tra Fitto e Vendola, che bloccherà a Fitto la strada della riconferma in Regione. Nel rivolgersi a Fitto, l'editore di Telerama lo chiama con il diminutivo di "Raff". Niente di strano: sono compari: Fitto ha battezzato il figlioletto di Pagliaro. Poi, usa il termine "squagliato", riferendosi a Vendola, dopo il faccia a faccia con Fitto su Telerama, i cui esiti sull'elettorato, secondo Pagliaro, sono stati "positivissimi". Pagliaro tifa Fitto: "Non gli hai fatto più parlare – dice Pagliaro in una telefonata del 27 febbraio 2005 – lo bloccavi subito su ogni cosa e poi se ne è andato a puttane e l'hai sfrugugliato proprio". Da quel confronto Pagliaro – riferisce a Fitto – ha avuto "effetti incredibili, eccezionali" e "infatti io adesso lo sto mandando in onda – dice – considera oramai questa è la quinta volta". Il servizio va in onda anche su Puglia Channel, tanto che, dice Pagliaro a Fitto, "da tutta Italia, dalla Moldavia don Cesare (Lodeserto) l'ha vista, per capirci". Poi Pagliaro rassicura Fitto sull'eco di quel confronto: "Ma infatti – gli dice - io sto rimandando e rimandando (in onda), perché poi…". Di fatto orientando il palinsesto televisivo per garantire una maggiore visibilità all'ex presidente della Regione. Nel corso di un'altra conversazione, Pagliaro chiede a Fitto: "Raffaele, visto che ci sei, vuoi fare una chiamata alla Seap, che sta prevedendo una campagna pubblicitaria". Fitto risponde: "Gliel'ho già detto". E subito dopo chiama Domenico Di Paola, amministratore della Seap, dicendogli: "Bene, nella programmazione che stai facendo, seguimi con attenzione Telerama che ci tengo". A questa seguiranno altre telefonate; alla fine Pagliaro avrà un contratto pubblicitario da 5.700 euro. Ancor più interessante la manipolazione dell'informazione, anche all'interno dei telegiornali di Telerama: "Dovremmo riuscire a farlo vedere a tutto il mondo (…) bisogna potenziarla, come facciamo"? Aveva chiesto Fitto a Pagliaro, riferendosi al faccia a faccia su Telerama tra lui e Vendola il quale, a parer loro, ne era uscito perdente. "E niente, bisogna riprendere qualche stralcio e farlo diventare un servizio giornalistico… dirlo un po' a tutte le televisioni", aveva risposto l'editore.
ACCORPAMENTO. BRINDISI E MOLTA PARTE DELLA SUA PROVINCIA SCEGLIE LECCE.
Brindisi con Lecce, racconta Lucia Portolano su “Brindisi Oggi”. Il consiglio comunale il 20 novembre 2012 ha votato per l’annessione con la Provincia di Lecce e quindi per la nascita della Provincia del Salento. 27 i voti a favore, 3 i contrari: Roberto Fusco, Riccardo Rossi e Giovanni Brigante. Una votazione giunta dopo diverse ore di tensione in assise, con il pubblico che ha interrotto più volte i lavori e numerosi richiami del presidente del Consiglio Luciano Loiacono. I manifestanti hanno chiesto ai consiglieri di non votare l’annessione e di rinviare la discussione, cerando invece in tutti i modi di salvare la provincia di Brindisi, chiedendo ai parlamentari locali di non appoggiare la conversione in legge del decreto del Consiglio dei ministri che prevede la soppressione della Provincia di Brindisi. Decreto che sarà discusso in aula il 22 novembre prossimo, tra soli due giorni. Il sindaco Consales ha preso la parola, ha precisato che un nuovo rinvio era inutile. “Il 22 si discute in aula - ha spiegato il primo cittadino - molto probabilmente il governo chiederà la fiducia. Bisogna essere onesti con i cittadini al momento Brindisi è stata accorpata a Taranto, quindi oggi è giusto votare per quello che i cittadini ci hanno chiesto è cioè l’annessione a Lecce”. La platea del pubblico non era d’accordo, diversi gli insulti da venduti a burattini, tra gli spettatori anche l’ex sindaco di Brindisi Ortese, molto partecipe alla protesta. Botta e risposta tra presidente del Consiglio e manifestanti. La tensione è salita alle stelle, quando dai banchi della maggioranza il consigliere comunale Nicola Siccardi ha fatto un gesto con la mano vicino alla gola, interpretato dai ragazzi del pubblico come un minaccia nei loro confronti, di tutta risposta loro rivolti ai consiglieri hanno urlato “mafiosi”. Siccardi si è poi giustificato dicendo che quel gesto non voleva assolutamente dir nulla, che è stato frainteso, i ragazzi però aveva visto tutt’altro.
Gli animi si sono così riscaldati che Consales ha chiesto alle forze dell’ordine di identificare i manifestanti contro i quali presenterà una querela. Di risposta alcuni presenti hanno dato la loro carta d’identità affinchè non fossero querelati solo alcuni. Intanto il consigliere Giovanni Brigante ha invitato il presidente del Consiglio a non mettere benzina sul fuoco e a placare gli animi invece di scaldarli. Fusco e Rossi hanno continuato a portare avanti la loro posizione, quella di non votare. Rossi ha detto che al momento Brindisi è ancora in provincia di Brindisi perché l’accorpamento con Taranto è previsto nel 2014. Il sindaco non era d’accordo e rivolgendosi al consigliere di Brindisi Bene Comune ha detto: “Questa è disonestà intellettuale, questa è istigazione a delinquere”. Come se Rossi stesso fomentando con quelle parole la protesta.
Aperta la polemica tra Taranto e Brindisi, sulla quale è intervenuto il deputato Pdl Lazzari, che non comprende le prese di posizione di parlamentari e Istituzioni tarantini scagliatisi contro Consales e i sindaci del brindisino, scrive “Lecce News 24”. Taranto, Brindisi, Lecce: l’ipotesi che i tre territori vengano accorpati, dando così vita al “Grande Salento”, sembra lontana. Perché, se, da una parte, Brindisi, che, secondo il decreto di riordino stabilito dal Governo formerà una nuova e unica Provincia con Taranto, ha scelto di essere annessa al capoluogo leccese, Taranto si scaglia contro i vicini di casa brindisini, rifiutando di intraprendere con essi un percorso futuro comune. “Non si comprendono – ha affermato l’on. Luigi Lazzari del Pdl - le dure prese di posizione di questi giorni dei rappresentanti parlamentari e delle istituzioni tarantine, che non perdono occasione di scagliarsi (anche nonostante affinità politiche più o meno evidenti) contro i sindaci del brindisino e il Sindaco di Brindisi Consales, ‘colpevole’ di presunte retromarce nella vicenda del riassetto territoriale delle province e di sostenere l'ipotesi di costruire anche sulla cartina geografica il Grande Salento”. Accuse che non si comprendono in quanto, invece, secondo il Parlamentare Pdl, c'è coerenza e piena rispondenza, nei comportamenti e nelle azioni politiche e amministrative dei sindaci guidati da Consales: i comuni del brindisino da sempre ricercano il "Grande Salento" e questo modello amministrativo, senza dietrofront o marce indietro. In questo senso Brindisi ha scelto di segnare una tappa importante, nella direzione di un percorso comune. “Taranto, piuttosto, - continua Lazzari - non deve approcciarsi al problema speculando sulla creazione di un presunto ‘carrozzone’ dietro al quale nascondere le reali volontà di non cedere fette di leadership o il ruolo di capoluogo che si immagina competenza esclusiva, spesso anche nascondendo recriminazioni di "guida" del Salento anche larvatamente politica. La complementarità e l'integrazione perfetta tra infrastrutture e radici culturali espresse dai territori di Brindisi e Lecce sappiamo rappresenta, nei fatti, un percorso irreversibile di costruzione del Grande Salento, che è già nella realtà. Un avvicinamento amministrativo tra i due territori, in questo senso, rappresenterebbe solo una tappa ulteriore verso l'irreversibile rapporto di interconnessione tra Brindisi e Lecce. Taranto è oggi più lontana da questa visione partecipata, oggettivamente. Ma non può scaricare sulle istituzioni brindisine colpe o demeriti che non sono di questi territori. Territori che ricercano nella sostanza qualcosa che esiste già nei fatti”.
Il Sindaco di Francavilla Fontana Vincenzo Della Corte sarà a Castello Imperiali per il Consiglio con cui, tramite delibera, l’Assise metterà nero su bianco la volontà di essere accorpata alla Provincia di Lecce, senza se e senza ma. Troppa la paura, evidentemente, che il decreto legge varato dal governo venga convertito automaticamente in legge e, quindi, lasciando la ‘città degli Imperiali’ tra le grinfie della mai troppo amata Provincia tarantina.
Ad aiutare Francavilla, sono Oria e Latiano, che con i Consigli comunali hanno deliberato per la fuga verso Lecce. Una scelta obbligata, per il Sindaco Cosimo Pomarico, fan numero 1 della Macroprovincia, ma, data la situazione, anche lui pronto a propendere per la fuga a sud. Una fuga, quella di Oria, che favorisce, in base al ‘principio della continuità territoriale‘, le voglie barocche dei cugini francavillesi, ma anche quelle a catena, di Ceglie Messapica, San Vito dei Normanni, Carovigno e San Michele. Franco Scoditti, Sindaco di Mesagne. “Noi siamo stati chiari. Preferiamo Lecce – dice il primo cittadino – e, come noi, anche tanti Comuni.”. Tranquillo il Sindaco di San Donaci Domenico Serio, ideale portavoce dei Comuni della fascia sud. “Sono convinto che, nei 60 giorni previsti per la trasformazione del decreto in legge, le delibere pro Lecce espresse dai Comuni di San Donaci, Cellino San Marco, Torchiarolo e San Pietro Vernotico, chiari sin dal primo momento, saranno prese in considerazione, come prevede la legge”.
GIUDICI CONTRO GIUDICI.
La vicenda ha dell’incredibile ed a poco più di un mese dall’inizio del processo per direttissima a carico del reo confesso attentatore di Copertino Giovanni Vantaggiato, responsabile dell’esplosione del 19 maggio 2012 alla ‘Morvillo Flacone’ di Brindisi, forse è meglio che sia tutto stato archiviato. Il Procuratore Capo Marco Di Napoli, a pochi giorni dall’attentato e dalla morte di Melissa Bassi, era finito nel registro degli indagati per i reati di abuso d’ufficio e favoreggiamento personale. L’uomo, prima del Procuratore, capace di commuoversi di fronte alla morte di Melissa e al dolore delle famiglie se non dell’intera Italia, indagato dopo la segnalazione di alcuni poliziotti della DDA di Lecce, che avevano intercettato una telefonata del 13 giugno tra l’Avvocato di Vantaggiato, Franco Orlando e la moglie del presunto stragista. Dinapoli fu iscritto nel registro degli indagati perché invitò nel suo studio il legale della difesa l'avvocato Orlando per parlare del ricorso al riesame che lo stesso stava per presentare per il suo cliente, lo stragista Vantaggiato. La telefonata di invito fu intercettata e scoppiò il caso. Perchè lo fece dato che la competenza fu spostata a Lecce, dove se ne doveva occupare il procuratore dell'Antimafia Cataldo Motta, ravvisata, come fu, la potenzialità terroristica dell'atto di Vantaggiato, nonostante le tante perplessità negli uffici alti del tribunale brindisino? Uno scontro fra procure, insomma, dove la giustizia c'entra poco. Dinapoli secondo il pm della Procura di Potenza, Eliana Franco, che si è occupata del caso, fu 'inopportuno' ma non commise reato. Nella telefonata, il legale dice che Di Napoli l’ha cercato nel suo studio, ma lui non c’era. Agli inquirenti, quindi, Orlando dichiarerà poi di aver parlato con Di Napoli, dopo essere stato invitato in Procura, del ricorso del Riesame sul punto di essere depositato. Indaga la Procura di Potenza, con il PM Eliana Franco che giudica l’iniziativa di Di Napoli singolare ed inopportuna. Ma evidentemente non abbastanza per un rinvio a giudizio. La posizione del Procuratore Capo è stata così archiviata, ma restano i dubbi sul braccio di ferro, a questo punto ancora più evidente, tra le Procure di Brindisi e Lecce, già ai ferri corti sulle competenze del caso. Per la DDA si tratta di terrorismo. Non per la Procura di Brindisi, che non ha ravvisato l’aggravante nei confronti del 58enne di Copertino. La chiave di svolta del processo, con una confessione piena da parte di Vantaggiato, si gioca fondamentalmente, su questo piano.
Ed ancora Magistrati nel mirino dell'impunità.
La Procura della Repubblica di Lecce ha chiesto, per la seconda volta, l’archiviazione del fascicolo d’inchiesta, ma il giudice per le indagini preliminari del capoluogo salentino, Vincenzo Brancato, non ha condiviso le conclusioni dell’ufficio del pubblico ministero e ha ritrasmesso al pm Giovanni De Palma, gli atti per la formulazione dell’imputazione, dunque coatta, a carico di Antonio Savasta, barlettano, sostituto procuratore presso la Procura della Repubblica di Trani. Così scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. I reati ravvisati dal gip sono: appropriazione indebita, esercizio arbitrario delle proprie ragioni e truffa. A quest’ultimo proposito il gip ha inoltre ritenuto che “sussistono le aggravanti, stante la qualità del dr. Savasta e l’oggettiva rilevanza economica del danno patito dalle parti offese”: i coniugi barlettani Giuseppe Dimiccoli e Filomena Di Lillo. I fatti, e dunque le accuse, non riguardano l’attività di magistrato di Savasta, ma vicende personali. Quelle relative al contratto preliminare d’acquisto della masseria San Felice che sorge, e da qualche anno è attiva, nell’agro di Bisceglie dopo una serie di opere di ristrutturazione. Secondo quanto ravvisato dal gip di Lecce, l’appropriazione indebita riguarderebbe “i proventi dell’attività commerciale esercitata presso la masseria San Felice”, nonché il mobilio dei coniugi Di Miccoli-Di Lillo che arredano la masseria, non restituiti nonostante un’espressa richiesta. L’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, secondo il gip, si sarebbe concretizzato nella sostituzione della serratura del portone d’ingresso d’accesso alla masseria. Infine, l’ipotesi di reato di truffa aggravata sarebbe consistita “nel simulare, attraverso la formazione di un’apposita scrittura privata, la volontà di Savasta di trasferire ai denuncianti Dimiccoli e Di Lillo una porzione della masseria San Felice”. Savasta prima avrebbe indotto in errore i coniugi facendo sì che gli corrispondessero la consistente somma di 400mila euro e poi avrebbe rifiutato la stipula del contratto di compravendita, trasferendo ai suoi familiari la masseria oggetto del contratto preliminare”. Per il gip, gli artifizi e i raggiri si sarebbero realizzati anche “per effetto dell’influenza esercitata dalla caratura e competenza giuridica del promettente venditore (Savasta) e dalla garanzia di affidabilità che ne conseguiva e che egli assicurava”.
FIDARSI DI CHI? CONCORSI TRUCCATI O INSABBIAMENTI?
Tanto rumore per nulla. Certo è che nessuno va a chiedere ispezioni ministeriali per vagliare le risultanze dell'esame di abilitazione di avvocato o di notaio o di professore universitario, ovvero di verificare la legalità delle procedure di accesso alla magistratura. Compiti non corretti? Per le commissioni d'esame: Fa niente, conta il nome e l'accompagno. Il TAR, intanto, da parte sua sforna sentenze antitetiche tra loro su domande aventi lo stesso oggetto. Basta leggere il libro del dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” www.controtuttelemafie.it, e scrittore-editore dissidente che proprio sul tema ha scritto e pubblicato “CONCORSOPOLI".
Libro facente parte della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata sui propri siti web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. Uno tra i 40 libri scritti dallo stesso autore e pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare.
Giovedì 12 luglio 2012 , fa molto caldo, il direttore generale Emilio Miccolis, nella sua grande stanza del convento dei Carmelitani con il condizionatore al massimo è sovreccitato – scrive Tonio Tondo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La sentenza del Tar che boccia la sua decisione di sospendere il concorso per tre amministrativi non è ancora decisa, né dalla procura ci sono segnali in relazione ai presunti plagi e ai segni di identificazione a margine degli elaborati da lui denunciati. Il fronte è tranquillo e si può pianificare il futuro.
La strategia del direttore è la conquista palmo a palmo degli spazi interni all’ateneo. L’uomo seduto di fronte, dall’altra parte della scrivania, è uno degli ultimi resistenti. Riuscire a portarlo tra gli amici, nel libro bianco dei fidelizzati, sarebbe un gran colpo. Manfredi De Pascalis, oltre ad essere un solerte funzionario, ha svolto ruoli nella Cgil; è un duro, non teme il conflitto con il potere. I nemici di Miccolis e del rettore Laforgia sono i sindacalisti. Entrambi lo hanno detto più volte. Si racconta che ogni riunione con i dirigenti dell’ateneo, su argomenti i più vari, ha inizio con una filippica del direttore contro gli esponenti sindacali. Tanto per ricordare chi comanda nell’ateneo. Nel mirino, oltre a De Pascalis, anche Tiziano Margiotta, della Uil, preso di mira con un procedimento disciplinare e con una querela poi archiviata dal giudice. Gli argomenti di Miccolis sembrano sgorgare da un mondo costruito su misura dove chi detiene il comando si muove a suo piacimento: dalla seduzione e dalle promesse salvifiche alla pressione e alla minaccia, sempre in nome di un potere in metamorfosi, paterno e insieme violento in grado di incutere timore se non paura. Ecco uno dei passaggi più significativi della conversazione: «Tu adesso, in questo weekend, domani è venerdì, tra sabato e domenica dopo che ti fai i bagni a mare dici ”ma che cazzo me ne frega a me di rimanere sempre controcorrente, fammi seguire il consiglio del mio direttore”. Mi mandi questa lettera. Dicendo tu senza creare…questi casini. Mi ripugna doverti sollevare per altri fatti, inventarmi altre strategie, fare destrutturazioni, è defatigante. Invece con una soluzione del genere tu mi dai questo piacere, immediatamente tu entri, cambi di libro …». De Pascalis lo interrompe: «Dal libro nero al libro bianco». «Sì, vieni sotto la mia protezione e cominci ad avere un periodo tranquillità, ti occupi delle cose che ti piacciono, ti faccio completare gli studi, ti mando in giro a fare formazione». E’ finita la sofferenza, promette il superdirigente. Il destino di De Pascalis, dal 2005 responsabile dei procedimenti per i concorsi, era stato già deciso. La postazione è cruciale, simbolo di potere totale. Miccolis è pronto a tutto, ma lui ha una formazione umanistica, tra burocrazia e politica, e preferisce che gli altri lo aiutino nei disegni di potere. Le lusinghe e i favori sono armi banali di chi usa le postazioni pubbliche per tessere relazioni basate sugli interessi. La lettera che sollecita è una sorta di elaborato a metà strada tra resa e disponibilità a missioni esoteriche per il futuro. De Pascalis tra qualche mese si laurea in sociologia, il direttore lo tenta: dai, sei bravo e sono il primo a saperlo. Ti proteggerò dai cattivi. Nel sito dell’università del Salento campeggia il «programma triennale per la trasparenza, l’integrità e le buone pratiche». «Rispetto dei principi di buon andamento e imparzialità» è la promessa. Fiore all’occhiello della direzione generale targata Emilio Miccolis. A pochi metri l’ufficio Organizzazione e qualità, e nel programma è centrale la «Giornata della trasparenza». Una piccola isola orwelliana. Inno alla meritocrazia sbandierata nella battaglia contro i privilegi, i legami parentali, le arroganze baronali e ovviamente i sindacalisti rompiscatole che vorrebbero gestire i concorsi e piazzare compagni e amici. Le buone pratiche – insegnano i manuali – per attuarle, prima bisogna pensarle, poi metterle su carta e condividerle con tutti. Seguendo la registrazione, in questo botta e risposta tra due uomini di formazione diversa, l’antropologia dell’uomo di potere. «Io mi adeguo, che cazzo me ne frega», dice Miccolis a proposito della scadenza elettorale per il nuovo rettore. In questo «io mi adeguo» e nel «che cazzo me ne frega» ci sono gli elementi per capire la crisi profonda della classe dirigente italiana, incluse le accademie. Adeguarsi significa conformarsi alle circostanze stabilite dal potere. Rettore «tecnico» o «politico», è sufficiente seguirne le inclinazioni, le ambizioni ed affiancarlo negli scontri per il controllo delle decisioni. Sono queste le buone pratiche dell’università? E’ in atto un conflitto tra individui e neanche tra corporazioni; e lo spazio dell’alta istruzione è sempre più frammentato e utilizzato come base di lancio di altri progetti, politici economici e finanziari. Nell’Italia delle camarille non c’è più lo Stato né la missione delle istituzioni. Miccolis, neanche per errore, si preoccupa del futuro dell’ateneo salentino. Mai compare la parola dovere o interesse pubblico. Per lui, a Bari o a Siena, o a Lecce non cambia nulla, perché la competizione è solo per il comando e per chi deve controllare le leve della gestione. Il «che cazzo me ne frega» è ripetuto più volte, segno di una abitudine e di un modo di esprimersi strutturato e di una deresponsabilizzazione totale in uno spazio pubblico che avrebbe bisogno di una cura e di una dedizione. «Non fare il paladino di una giustizia; allora tu perché non tesaurizzi questo splendido rapporto che hai con me…con gli amici miei…facciamo un patto, prepariamo un pacchetto». La giustizia per il direttore - costo 160mila euro l’anno per il contribuente - non esiste. Non è una causa per la quale impegnarsi. E’ una meteora per gli ingenui che ancora insistono per ottenere comportamenti corretti. Perché non tesaurizzi?, chiede. E’ questo il declino. Pensa ai fatti tuoi e lascia stare il funzionamento delle istituzioni. Cosa può pensare un nostro figlio, di fronte a questo linguaggio? E gli universitari potranno costruire il loro futuro sapendo che la giustizia non è un valore e che invece è meglio tesaurizzare senza scrupoli? De Pascalis è stato trattato in modo brutale. Non solo per l’avvio del procedimento disciplinare il 24 settembre da Miccolis. Non solo per lo spostamento di ufficio, sempre deciso da Miccolis, né per la querela che il direttore promette di ritirare. Ma soprattutto perché è diventato bersaglio (assieme a Margiotta e a qualcun altro) contro il quale scaricare tensioni e conflitti. E’ compito dei media offrire una rappresentazione onesta di quanto sta avvenendo nell’ateneo. Una ricostruzione attenta e rigorosa dei fatti, distante e nei limiti del possibile non passionale, può consentire al lettore di farsi un’opinione informata. E’ questo il nostro dovere, senza cedimenti nei confronti di ogni potere.
Su “La Gazzetta del Mezzogiorno” l'intercettazione: «Non rompermi, io ti proteggo e ti faccio crescere ma fai il sindacalista moderato». E’ un confronto teso, durato un’ora e mezzo del quale pubblichiamo una parte della registrazione -, non mancano le battute che per un momento sdrammatizzano. Da una parte il direttore generale Miccolis, all’università del Salento dall’inizio del 2010. Dall’altra, De Pascalis, funzionario ed esponente della Cgil. L’amministrazione tiene sotto tiro il funzionario: querelato da Miccolis ad aprile del 2010 per diffamazione, sottoposto a un procedimento disciplinare il 24 settembre, trasferito all’ufficio pensioni da ieri. A De Pascalis Miccolis contesta l’attacco ai vertici dell’ateneo in un articolo pubblicato il 13 agosto 2012 da “La Gazzetta del Mezzogiorno”.
L’argomento è all’ordine del giorno del consiglio di amministrazione di martedì.
Miccolis: io sono un tecnico. Che cazzo me ne frego. Se a me un giorno giungesse una notizia, no?, De Pascalis avesse un prezzo, tu sei bravo sei intelligente. Ti tolgo dall'ufficio reclutamento. Ti do un altro incarico, cresci.
De Pascalis: che dovrei fare in cambio? (ridendo)
Miccolis: non rompermi più i coglioni fino al 30 giugno del 2016 (termine di scadenza dell’incarico di direttore generale).
Il discorso si sposta sui concorsi.
Miccolis:...
se uno la vuole favorire poi la favorisce
De Pascalis: così funzionano tutti i concorsi dell'Università
di Lecce. Ecco perché sottolineiamo il fatto delle commissioni giudicatrici,
perché le commissioni sono tutte pilotate. Non a caso ci sono segretarie del
rettore, docenti di ingegneria, delegati: sono tutte pilotate. O no? Sto dicendo
una fesseria?
Miccolis: più che pilotate sono scelte strategiche.
De Pascalis: come strategiche?! Un concorso pubblico….
Miccolis: sono scelte strategiche, sono tutti personaggi per bene.
De Pascalis: sta di fatto che poi vince chi deve vincere.
La conversazione ritorna alla proposta oggetto dell’incontro.
Miccolis: mandami una lettera. Caro direttore, o direttore generale, come vuoi. Io dopo anni di servizio... eccetera eccetera voglio maturare esperienze diverse anche alla luce del percorso di studi…in quanto sono prossimo alla laurea in Sociologia. Per offrire il mio contributo nell'analisi dei bisogni del personale, cose di questo tipo. Dopo di che, mi chiedi e mi dici preferirei... Tu mandami una lettera del genere e - numero 1 - cessa la materia di contrasto fra noi due.
De Pascalis: cioè se me ne vado dall'ufficio mi si perdona tutto.
Miccolis: sì, vado dagli avvocati faccio chiudere le denunce. Ti proteggo e ti faccio crescere. Ti sistemo in una bella nuova nicchia.
Sotto la mia diretta protezione.
De Pascalis: però non devo rompere i coglioni.., smettere di contestare.
Miccolis: no, devi fare la parte tua, devi... fare il sindacalista moderato.
De Pascalis: come gli altri, quelli che l'amministrazione si compra.
Miccolis: non sto scherzando.
De Pascalis: lei mi vede in questa veste, direttore?
Miccolis: io ti voglio ...tu stai studiando per quella disciplina dove io ci ho anche altri amici, Vanessa De Giosa, eccetera. La domanda è: perché non approfittare? Si dice, ponti d'oro per i nemici. Tu per me non sei un nemico. Poi ci siamo conosciuti. Mi hai attaccato quando non mi conoscevi e oggi mi attacchi non come Emilio Miccolis ma nel ruolo che occupo. Adesso...dobbiamo fare un patto perché devo governare...
De Pascalis: perché non vuole che rimanga? Lei dice che sono uno dei migliori funzionari. Credo che l'ufficio funzioni abbastanza bene.
Miccolis: nooo. Questa azione dà forza alla mia azione, risolve il problema del conflitto perché finalmente si spengono i riflettori su De Pascalis in quanto rompe i coglioni. E tu hai una possibilità vera di crescere, che ti posso dare in modo vero. Nel senso che con gli amici miei, con …soggetti che stanno...
De Pascalis: non capisco perché stando lì io non...
Miccolis:
ascolta. Il pacchetto prevede: chiusura. Chiamo l’avvocato Messa. Si mettono
d'accordo Petrelli e Viola, non arriviamo neanche all'udienza del 5 ottobre.
Cessa la materia del contendere. Ti faccio pagare tutte le spese che tu hai
anticipato a Petrelli non ci sono problemi. Tu mi fai una bella lettera,
elegante bella me la vieni a portare su un piatto e dici, caro direttore dopo
anni anni voglio maturare una nuova esperienza. Mi potresti fare l'analisi dei
bisogni del personale, ma con un'ottica diversa, cioè di approccio positivo. Noi
i nostri dipendenti 600 ce li possiamo coccolare... Il direttore ci tiene alla
riuscita dell’iniziativa.
Miccolis:.. ascolta. Questa cosa me la posso vendere. Tu la fai a me e il
successo di questa operazione, di averti convinto, me lo prendo io. La cosa
verrebbe fatta in modo elegante, senza scossoni, come si fa a certi livelli.
Vedi, quando ho presentato la domanda a Siena per andarmene, come giustamente tu
hai scritto, si sa che dovevo venire qua, sennò con i coglioni che me ne andavo
da Siena.
De Pascalis: quindi era già tutto deciso, il Consiglio ...
Miccolis: sì, era tutta una farsa, avevi ragione tu , va bé che sei intelligente, hai ingigantito un po' le cose. Le cose sono andate bene perché era giusto che andassero in quel modo. Ma è così. Non fare il paladino di una giustizia. Allora tu perché non tesaurizzi questo splendido rapporto che hai con me. No?
Suona il telefono, poi dopo alcuni minuti riprende la conversazione.
Miccolis:...mi devi fare questa cortesia, fino al 2016. Il Rettore deve restare fino al 2013. Io posso mettere sul piatto al professor Laforgia il patto. Allora, noi possiamo fare questa operazione: ti esonero dal parlarne con il professor Laforgia perché così non ti devi sottomettere.
De Pascalis: questa è una cosa che vuole lui?
Miccolis: no, no. La gestisco io. Io vado dal professore e gli dico io ho pensato a questa soluzione. Cioè faccio mia la proposta e gli dico, così abbiamo la condivisione.
De Pascalis: capirei se lei mi dicesse lascia il sindacato che io…no? Capirei la logica, ma qual è la logica di lasciare il posto di lavoro?
Miccolis: senti, se lasci il sindacato ti faccio direttore vicario. Ma non me la sento onestamente di chiederti tanto.
De Pascalis: invece è più importante l'ufficio, devo lasciare l'ufficio.
Miccolis: l'ufficio reclutamento viene visto nella mente di molta gente... ho parlato con professori...
De Pascalis: perché metto la lente di ingrandimento?
Miccolis: noo, viene visto come un'eccessiva ingerenza del potere del sindacato nelle attività, ed è vero.
Il direttore torna al punto di partenza.
Miccolis:... tu adesso, in questo weekend, domani è venerdì, tra sabato e domenica dopo che ti fai i bagni a mare dici ”ma che cazzo me ne frega a me di rimanere sempre controcorrente fammi, seguire il consiglio del mio direttore”. Mi mandi la lettera... senza creare... questi casini. Mi ripugna doverti sollevare per altri fatti, inventarmi altre strategie, fare destrutturazioni. E' defatigante. Invece con una soluzione del genere, tu mi dai questo piacere, immediatamente tu entri, cambi di libro.
De Pascalis: da quello nero a quello...
Miccolis: a quello bianco.
De Pascalis: dai cattivi ai buoni.
Miccolis: sì, vieni sotto la mia protezione e cominci ad avere un periodo di tranquillità, ti occupi delle cose che ti piacciono. Ti faccio completare gli studi, ti mando in giro a fare formazione. Ho mandato quel cazzone di (... omissis) a Londra e non devo mandare ...
De Pascalis: 13.000 euro, come acconto. Per tre mesi.
Miccolis: quando viene, quello sarà il migliore informatico.
Miccolis: tu accetta la proposta non ne parlare con nessuno, nel momento in cui vieni da me, tu sai scrivere così bene, in cui sei tu che dici “caro Direttore generale, alla luce di tutte queste cose, ho maturato un'esperienza ormai pluriennale in quel campo” e hai due facoltà. Mi puoi chiedere di andare lì e ti mantengo la funzione di Elevata professionalità. Ah, tu non sei “Ep”; ti mantengo, anzi, ti dò un ufficio per mantenerti l'indennità. Ti posso mandare a dirigere l'uffico Pensioni e riscatti.
De Pascalis: è vero che ci ha querelati per il comunicato di ieri?
Miccolis: quale comunicato?
De Pascalis: quello sui concorsi per gli “Ep”.
Miccolis: e perché vi dovevo querelare che avete detto una cosa vera. Io mi devo difendere dicendo che secondo il mio, non sto querelando nessuno.
De
Pascalis: Eh, a
proposito degli Ep tutti si mangiano la testa su chi sarà il coordinatore
amministrativo che vincerà il concorso. O è una figura fittizia e poi lo
spostate?
Miccolis: no no, il coordinatore sarà il migliore che vincerà
il concorso, o la migliore. Potrebbe essere pure una di queste qua: (...omissis)
Squilla il telefono e si parla di un verbale.
Miccolis: l'invito che ti faccio, credimi questa è una chance che al posto tuo prenderei al volo. Tu fai questo passo indietro.
De Pascalis: e se non lo faccio, che mi succede? Mi sbattete da un'altra parte?
Miccolis: no, troveremo una soluzione. Ma questa non la devi prendere come un fatto negativo …
De Pascalis: sta dicendo “cedi altrimenti comunque ti togliamo”.
Miccolis: no, ascolta. Con te non voglio arrivare a un conflitto continuo. Con te voglio arrivare alla costruzione di un percorso positivo.
De Pascalis: eh però lei mi dice che “se non accetti, poi comunque ti togliamo”.
Miccolis: fa parte del gioco, del potere.
Che una vera corazzata di parlamentari italiani sottoscriva una dichiarazione di guerra contro un ateneo di provincia è un caso più unico che raro -. Scrive “Il Fatto Quotidiano”. Porta la firma di ben cinquantacinque deputati, infatti, la richiesta di ispezione ministeriale da eseguire nell’Università del Salento. L’interpellanza urgente, ideata dall’ex sottosegretario agli Interni, il pidiellino Alfredo Mantovano, è stata inoltrata ai ministri dell’Istruzione e della Funzione Pubblica, Francesco Profumo e Filippo Patroni Griffi. Di mezzo ci sono presunte condotte illecite e ragioni di trasparenza da ripristinare. Ci sono anche gli appalti che si accingono ad essere portati in gara. Tanti. Molti. Del valore, all’incirca, di cento milioni di euro. Ma di mezzo c’è anche una figura controversa, quella del rettore Domenico Laforgia, contestato da chi lo ritiene troppo autoritario, amato da chi lo vorrebbe prossimo alla prima candidatura alle elezioni politiche tra le file di Italia Futura, il movimento di Luca Cordero di Montezemolo, che negli ultimi tempi a Lecce s’è visto più volte. È in questo contesto che va inquadrata l’interpellanza parlamentare, uno tsunami a sorpresa per numero e nome dei sottoscrittori, dalla vicepresidente della Commissione Cultura, Paola Frassinetti, al presidente della Commissione Affari sociali, Giuseppe Palumbo, passando per Paolo Russo ed Enrico La Loggia, rispettivamente presidenti delle Commissioni Agricoltura e Federalismo fiscale. Un’iniziativa, tuttavia, che, per la sua portata, lascia spazio a dubbi sulla effettiva sproporzione rispetto alle ragioni ufficiali. Non c’è traccia, infatti, delle nubi che, proprio nell’ultimo periodo, si sono addensate sull’Università leccese, con l’apertura di inchieste giudiziarie, in cui lo stesso rettore risulta indagato per abuso d’ufficio e minacce e che si sommano ad altri fascicoli roventi, ora nelle mani del procuratore capo Cataldo Motta. Il casus belli, invece, riguarda quelle che sono definite come le “incredibili” vicende del concorso a tre posti di dipendente amministrativo, su cui, però, sia il Tar di Lecce che la Procura della Repubblica si sono da tempo abbondantemente espressi. A finire nel mirino dei parlamentari è soprattutto il direttore amministrativo Emilio Miccolis, che di sua iniziativa avrebbe aperto i plichi contenenti gli elaborati dei candidati, segnalando alla Commissione giudicatrice tre test ritenuti copiati da internet, motivo per cui ha annullato l’intera prova e trasmesso gli atti in Procura. Il Tar, però, già a luglio ha ritenuto che l’annullamento fosse illegittimo, mentre il gip ha disposto l’archiviazione del procedimento penale, rilevando, anzi, l’irregolarità dell’operato del direttore amministrativo. Secondo i cinquantacinque deputati, sono questi comportamenti, uniti ad una “autentica persecuzione amministrativa” nei confronti del responsabile dell’ufficio reclutamento, a porre “il serio problema della compatibilità” con le importanti cariche ricoperte – si badi bene – non solo da parte di Miccolis, ma anche di Laforgia, reo d’averlo spalleggiato. È contro di lui che Mantovano scaglia la freccia: “il rettore si accinge, quale neonominato presidente della Fondazione dell’Università del Salento, a gestire procedure d’appalto di lavori pubblici di edilizia universitaria per oltre cento milioni di euro.
Pertanto, deve essere e apparire garante di correttezza e non di scarsa trasparenza, se non di vera e propria opacità”. Laforgia non tarda nel tendere l’arco: “Sono sempre più convinto che tutta questa montatura sia orchestrata di proposito perché questa amministrazione venga meno al rigore e al riconoscimento del merito, sia nei concorsi che negli appalti che si espleteranno nel prossimo futuro”. Veleni incrociati che, pure, appaiano solo superficiali. Sottoterra, lo scontro ha tutto un sapore politico, tra possibili candidati pronti a contendersi, nei prossimi mesi, lo stesso elettorato nello stesso fazzoletto di terra. Con buona pace dell’Università del Salento, agnello sacrificale.
Il gioco delle parti su “Lecce Prima”. L'onorevole Mantovano replica su Facebook al sindaco di Bari Emiliano. Il rettore Laforgia a sua volta scrive oggi una nota dicendo di non comprendere la "veemenza" con cui il parlamentare salentino segue le vicissitudini giudiziarie amministrative legate al ciclone che ha investito l'Università del Salento. Ma andiamo per ordine. E partiamo proprio da Mantovano che risponde a Emiliano sul social network: "Caro Emiliano, fretta, distanza e disprezzo per i giudici sono cattivi consiglieri. Se avessi contato fino a 10, avessi preso un po' di informazioni e avessi rispettato Tar, Procura della Repubblica e gip di Lecce, avresti risparmiato a te stesso la bella figura di giustificare abusi e soprusi (fino a ieri) e concussione (oggi). Chiamala pure legalità, parliamo lingue diverse ...". Il sindaco di Bari aveva dimostrato la sua vicina a Laforgia per la vicenda con al centro l'interpellanza relativa al concorso per tre posti di dipendente amministrativo e alla condotta del direttore generale dell'ateneo salentino, Emilio Miccolis, direttore generale dalla fine del mese di maggio, sulla quale si sono già espresse la procura della Repubblica e il Tar di Lecce. "Io sono con Laforgia" - aveva detto venerdì senza mezzi termini". Tirando poi in ballo Mantovano: "Il Rettore dell'Università di Lecce ed il segretario generale dell'ateneo salentino si accorgono di compiti completamente copiati da internet ed annullano il concorso. Il Tar e la Procura della Repubblica danno invece ragione agli esaminandi e parte un pretestuoso attacco da parte dell'onorevole Mantovano nei confronti del Rettore che sta per appaltare lavori per 100milioni di euro. Siamo davvero un paese strano, la politica si interessa dell'Università solo per attaccare chi fa il proprio dovere e non chi viola le regole e si macchia di slealtà. Solo un caso che i compiti annullati appartenessero a parenti di senatori accademici e dipendenti dell'Università di Lecce?". La risposta di Laforgia al parlamentare di centro destra, che pubblichiamo per intero: ""Non comprendo la veemenza dell'onorevole Mantovano nei miei confronti. Se aveva tutti questi dubbi sulla mia amministrazione perché non parlarne direttamente con me? Se conosce fatti che io non so perché non farmene parola, visto che siamo entrambi figure istituzionali e che spesso ci incontriamo in occasioni ufficiali. Non ho mai rifiutato opportunità di dialogo e certamente non mi sarei sottratto a un confronto anche aspro. Questo gioco di 'botta e risposta' mediatico non aiuta certo a chiarire nulla perché ognuno resta fermo sulle sue verità. Quanto agli appalti futuri dell'Università, sono lieto dell'attenzione dell'onorevole Mantovano vista la sua esperienza in materia. Considerando il fatto che le commissioni, che dovranno affidare gli appalti, non sono state ancora nominate, chiedo all'on. Mantovano di suggerire persone di sua fiducia da affiancare ai nostri tecnici (naturalmente a titolo gratuito) nelle stesse commissioni. Noi siamo assolutamente disponibili e trasparenti. Questa soluzione aiuterebbe a rasserenare l'onorevole relativamente alla trasparenza degli appalti e garantisce noi su futuri dubbi sulla legittimità del nostro operare. Ribadisco che la Fondazione non si occuperà di appalti. Mi auguro che l'onorevole accolga questo suggerimento e anche l'invito a visitare la nostra Università e vedere con i suoi occhi che cosa facciamo e come lo facciamo". A sua volta Mantovano ha precisato: "Il Rettore si tranquillizzi: da parte mia non c'è nessuna veemenza persecutoria ad personam. E non reciti la parte della vittima: il clima di scontro non viene dalla mia iniziativa parlamentare, ma era da mesi sulle pagine dei giornali e nei servizi dei tg, poiché era - e purtroppo è - all'interno della sua Università. Il Rettore non deve dare conto privatamente a me di episodi come quelli letti ieri nella trascrizione del colloquio fra il Direttore generale da lui nominato, sostenuto e difeso, e De Pascalis. Ne risponderà agli ispettori del Ministero e - ritengo - all'autorità giudiziaria. Reputo offensiva la sua richiesta di indicare 'persone di mia fiducia' nelle commissioni degli appalti: la 'mia fiducia' è nella trasparenza delle procedure. Che finora è stata la grande assente nell'attuale gestione del vertice dell'Ateneo salentino".
Interpellanza urgente con risposta in Aula. Mantovano Ai Ministri dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca e della Funzione Pubblica.
Premesso che – per sapere se:
con decreto del direttore amministrativo n. 449 del 30.10.2008, l’Università del Salento ha bandito una selezione pubblica, per titoli ed esami, per la copertura a tempo pieno e indeterminato di n. 3 posti di categoria C – area amministrativa, per le esigenze funzionali della segreteria della facoltà di Ingegneria industriale, dei corsi di laurea Magistrale e interfacoltà (nella sede di Brindisi), e della facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali. Con atto del 16.12.2009 è stata pubblicata la graduatoria provvisoria. L’Università del Salento ha sospeso il relativo procedimento poiché il bando era stato impugnato da soggetti che – aspirando all’assunzione a seguito della loro utile collocazione nella graduatoria di un precedente concorso – contestavano l’indizione stessa della selezione. Il Consiglio di Stato, con sentenza dell’adunanza plenaria n. 14/2011, ha ritenuto la legittimità della scelta di indire la procedura selettiva in parola.
È tuttavia accaduto che, al di fuori della prassi amministrativa dell’Ateneo - con nota prot. n. 28496 del 5.9.2011 (doc. 1) il Direttore amministrativo dott. Emilio Miccolis – dopo aver autonomamente e senza alcun controllo dissigillato e aperto i plichi della procedura concorsuale contenenti gli elaborati dei candidati – ha segnalato alla Commissione giudicatrice alcune irregolarità, da lui qualificate come tali, tra cui presunti plagi e – sempre presunti – segni di identificazione sulle minute degli elaborati dei candidati, chiedendo alla Commissione medesima chiarimenti in merito alle stesse ipotetiche anomalie. Con nota dell’8.11.2011 (doc. 2) la Commissione giudicatrice ha fornito i chiarimenti domandati.
Con nota del 28.12.2011 (priva di protocollo, ma consegnata a mani con ricevuta in calce: doc. 3), consegnata a mani del Direttore amministrativo e da lui sottoscritta per ricevuta, il Capo dell'ufficio reclutamento Manfredi De Pascalis, in qualità di Responsabile del procedimento amministrativo (d'ora innanzi RPA), ha fatto presente al Direttore medesimo che non vi erano i presupposti giuridici e fattuali per adottare un provvedimento di annullamento. Nonostante i chiarimenti della Commissione e nonostante la suddetta nota del RPA, con decreto n. 676 del 30.12.2011 (doc. 4) il Direttore amministrativo ha annullato gli atti del concorso e ha inviato un esposto alla procura della Repubblica di Lecce, denunciando l’operato della commissione giudicatrice. I vincitori classificati ai primi tre posti di tale concorso annullato dal Direttore amministrativo hanno impugnato innanzi al TAR Lecce tale provvedimento n. 676/2011 di annullamento, deducendone l’illegittimità. Con sentenza n. 1366 del 25 luglio 2012 (doc. 5) il TAR Lecce ha accolto il ricorso in questione, e ha annullato il citato decreto direttoriale n. 676/2011.
In particolare, quanto alla presenza di presunti episodi di plagio, il Tar Lecce ha ritenuto che «del tutto illegittimamente il D.A. ha sostituito la propria valutazione in merito alla genuinità degli elaborati concorsuali, alla diversa valutazione operata dalla commissione. Valutazione che, anche alla luce delle note a chiarimenti rese da quest’ultima, deve ritenersi del tutto immune da quei vizi di palese illogicità, incoerenza, incongruenza, che sole giustificano (C.d.S, IV, 15.2.2010, n. 835, cit.) un sindacato dell’organo verificatore (il D.A.) sulle scelte discrezionali della commissione esaminatrice». Lo stesso TAR Lecce ha affermato che «quand’anche l’operato del D.A. potesse ritenersi legittimo sul piano meramente astratto (la qual cosa, si ribadisce, deve senz’altro escludersi, alla luce di quanto sopra chiarito), nondimeno i lamentati episodi di plagio non possono - in concreto - in alcun modo ritenersi sussistenti.».
Quanto poi ai presunti segni di identificazione, il TAR Lecce ne ha ritenuto l’insussistenza, affermando che «la presenza di asterischi, segni di interpunzione al di fuori dei margini, numerazioni, spaziature in bianco, ecc. – elementi tutti rilevati dal D.A. - costituiscono segni assolutamente fisiologici nell’ambito di una prova concorsuale scritta, facendo parte del naturale strumentario a disposizione del candidato che si accinga a redigere un elaborato di tal fatta. Alla stessa stregua, non costituisce segno anomalo – specie se indicato soltanto sulla minuta, come nel caso in esame, e non anche sulla “bella copia” – l’indicazione dell’orario di inizio e di fine della prova, dovendo esso valutarsi quale elemento visivo a disposizione del candidato, da comparare con lo scorrere naturale del tempo, in vista dell’evasione, nel termine assegnato, dei quesiti posti dalla traccia. Similmente, in assenza di indicazioni della commissione circa l’ordine di risposta ai quesiti della prova B (presupposto mai contestato dal D.A.), i candidati ben potevano evadere i vari quesiti nell’ordine da loro ritenuto più opportuno, senza che tale scelta possa, se non con una inammissibile petizione di principio, interpretarsi quale indebito segno di riconoscimento.»
Anche quanto al presunto plagio, al contrario di quanto asserito dal Direttore amministrativo nel decreto n. 676/2011, il Tar ha affermato che «i lamentati episodi di plagio che sarebbero la parte meno significativa degli elaborati, non possono in alcun modo ritenersi insussistenti perché gli episodi “incriminati” consistono nella spiegazione di concetti basilari di diritto amministrativo e possono essere più o meno riprodotti testualmente da un candidato dotato di buona memoria». Di conseguenza, il Tar ha annullato il decreto direttoriale n. 676/2011. E’ significativa la circostanza che, quanto al pagamento delle spese di lite, a sottolineare il torto del Direttore amministrativo, il Tar Lecce ha reputato che «la violazione, ad opera dell’amministrazione resistente, di postulati pacifici in tema di procedure concorsuali (ed in primis, il divieto di impingere in valutazioni di merito), impedisce qualsiasi forma di compensazione. La resistente va pertanto condannata al rimborso, in favore dei ricorrenti, delle spese del presente giudizio, in applicazione del principio generale della causalità e della soccombenza».
Alcuni giorni dopo la pubblicazione della suddetta sentenza –verso la fine del mese di luglio 2012 – è apparso su una testata giornalistica del territorio (il Corriere del Mezzogiorno, inserto locale del Corriere della Sera) un’intervista con il Direttore amministrativo E. Miccolis (doc. 6), nella quale si leggono, riportate fra virgolette, le seguenti, gravi affermazioni: «Onestamente non credevo che i giudici avrebbero deliberato accogliendo il ricorso dei tre vincitori, due dei quali accusati di aver copiato. Siamo in una situazione oggettivamente imbarazzante: da una parte abbiamo una sentenza del Tar che in sostanza dice che chi copia e vince un concorso è legittimato a farlo; e dall’altra la riluttanza di questa Amministrazione ad accettare comportamenti poco etici come questo».
Anche il Rettore dell’Università del Salento, prof. Domenico Laforgia, ha rilasciato un’intervista (doc. 7) a una testata territoriale (La Gazzetta del Mezzogiorno) con la quale ha preso le difese dell’operato del Direttore amministrativo e ha attaccato invece i Giudici amministrativi salentini. In particolare, Laforgia ha testualmente affermato che «è stato deciso di annullare un concorso per un obbligo morale. Nella fase di approvazione degli atti il direttore generale si è accorto di irregolarità e ha voluto, giustamente, approfondire, scoprendo che tre elaborati erano stati copiati da internet». La decisione del Tar di annullamento del decreto direttoriale n. 676/2011 è stata quindi stigmatizzata da Laforgia addirittura come foriera di «conseguenze preoccupanti, perché sancisce che chi copia può vincere un concorso pubblico in barba alla meritocrazia ed all’onestà intellettuale. Questa vicenda non può che avere cattive ripercussioni sulla pubblica opinione anche perché due candidati che risultano aver copiato il compito e vinto il concorso sono imparentati con una senatrice accademica e con un dirigente del nostro ateneo». Questo contegno denota sia da parte del Rettore che del Direttore amministrativo qualcosa che va ben oltre il diritto di critica (si tratta piuttosto di un preoccupante dispregio) nei confronti degli organi giurisdizionali intervenuti a giudicare degli atti adottati dall’Università.
Ad aggravare il quadro, è apparso sul La Gazzetta del Mezzogiorno del 4 agosto 2012 un servizio (doc. 8) che ha informato della conclusione dell’indagine penale avviata a carico della Commissione giudicatrice, proprio su denuncia del Direttore amministrativo. Il servizio ha pubblicato molti passaggi del decreto, firmato dal procuratore della Repubblica di Lecce dott. Cataldo Motta, con cui egli ha chiesto l’archiviazione del procedimento a carico dei componenti della Commissione giudicatrice: richiesta poi accolta dal Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Lecce. La motivazione del decreto di archiviazione ha posto in luce per un verso la correttezza della condotta della Commissione, e per altro verso aspetti sconcertanti dell’operato del Direttore amministrativo Miccolis, dal momento che ha censurato la sua condotta con espressioni durissime: «(…) non può non rilevarsi la irregolarità dell’iniziativa del Direttore amministrativo (sulla cui legittimità lo stesso presidente della commissione giudicatrice ha formulato condivisibili perplessità) il quale, dopo la conclusione dei lavori della commissione (unico organo legittimato a valutare il merito degli elaborati e la loro regolarità) e dopo l’approvazione della graduatoria finale di merito di cui al verbale 16 dicembre 2009, ha ritenuto di “riesaminare” - in autonomia ed incontrollata solitudine - gli elaborati dei candidati, rilevando alcune anomalie nella stesura grafica degli elaborati il cui controllo esulava dalla semplice verifica sull’approvazione degli atti, di sua competenza, sfociando piuttosto in valutazioni di merito, appannaggio esclusivo della commissione».
Quanto alla possibilità di plagio dei brani riportati nei compiti, nel decreto si è osservato, recependo le precisazioni del procuratore della Repubblica nella conforme richiesta, che il presidente della commissione «ha ricordato come, anche alla luce della giurisprudenza, non gravi affatto sulla commissione alcun onere di attivarsi per verificare o comparare se alcuni brani contenuti negli elaborati siano stati copiati e riprodotti». In dettaglio, per escludere categoricamente il presunto reato di abuso di ufficio denunciato dal direttore amministrativo a carico della commissione giudicatrice, «non può non osservarsi, per un verso, che nessun elemento indica che la commissione giudicatrice avesse rilevato (e quindi intenzionalmente occultato) la copiatura o la riproduzione di quei brani (qualora effettivamente copiati o riprodotti, come sostenuto dal direttore amministrativo); per altro verso, che il presidente della commissione ha riferito che nessun componente di essa aveva mai obiettato o ritenuto che alcuni brani fossero stati copiati o riprodotti; e, per altro verso ancora, che siffatto controllo, ancor più di quello che aveva portato lo stesso direttore amministrativo a rilevare le altre due “anomalie”, ha comportato una inammissibile ed illegittima valutazione del merito degli elaborati, certamente sottratta al potere di verifica formale attribuito al direttore amministrativo».
Quanto ai presunti segni di riconoscimento contenuti negli elaborati, nel decreto di archiviazione si è affermato che «potrebbe agevolmente osservarsi come non vi sia né possa essere acquisito alcun elemento che consenta di affermare con certezza che le anomalie grafiche segnalate fossero presenti al momento degli esami degli elaborati da parte della commissione (l’improvvido intervento - autonomo e solitario - del Direttore amministrativo non consente di escludere l’ipotesi di un’alterazione grafica degli elaborati successiva all’esame della commissione o comunque che i segni fossero rilevabili dalla commissione stessa)».
Infine, con riferimento alla presunta intenzione dei componenti della commissione di avvantaggiare uno o più concorrenti, la conclusione dell’autorità giudiziaria ha descritto lapidariamente il comportamento del Direttore amministrativo: “analogo interesse avrebbe potuto astrattamente avere anche il direttore amministrativo». Infatti, si legge nel provvedimento della magistratura, anche «a voler astrattamente ipotizzare un interesse della commissione ad avvantaggiare uno o più dei concorrenti risultati idonei ovvero a danneggiare uno o più di quelli esclusi (interesse, peraltro, nemmeno adombrato nella segnalazione del direttore amministrativo) è di tutta evidenza che analogo interesse - simmetrico ma invertito - avrebbe potuto astrattamente avere proprio il direttore amministrativo; e tale interesse ben avrebbe potuto costituire il motivo della sua estemporanea iniziativa di “riesaminare” nel merito gli elaborati e di rilevare e segnalare le suddette “anomalie” (volendo escludere l’ipotesi di attribuire a lui l’alterazione grafica delle “minute”) al fine di avvantaggiare uno o più dei concorrenti esclusi ovvero di danneggiare uno o più di quelli ammessi».
In definitiva, nonostante le chiarissime considerazioni contenute nella sentenza del Tar e nonostante le gravissime considerazioni sviluppate dal procuratore della Repubblica, riprese dal decreto di archiviazione, a carico del Direttore amministrativo e del Rettore, costoro, invece di affrettarsi a dare attuazione ai provvedimenti del Tar e della Procura, hanno attaccato i giudici del Tar, addebitando loro effetti nefasti sull’Ateneo e sulla tenuta morale della comunità accademica, e più in generale della collettività salentina.
A questi comportamenti occorre aggiungere le condotte tenute dal direttore Miccolis sia nel periodo tra l'adozione del decreto di annullamento n. 676 (datato 30.12.2011) e la citata sentenza del TAR (datata 25.7.2012), sia dopo la sentenza. In particolare, quanto al primo periodo (condotta del Miccolis tra l'adozione del decreto di annullamento e la sentenza del TAR), costui ha cercato in ogni modo di disattendere le osservazioni che De Pascalis, in qualità di RPA, gli formulava circa il corretto modo di eseguire il pur illegittimo decreto di annullamento n. 676/2011 e ha adottato ulteriori provvedimenti, conseguentemente viziati. E infatti, con nota prot. n. 2508 del 24.1.2012 (doc. 9) De Pascalis, in qualità di RPA, faceva presente al Miccolis che i nominativi (tre) che questi voleva nominare come componenti della Commissione di concorso in sostituzione dei componenti precedenti erano privi dei requisiti di competenza previsti dall'art. 35 d. lgs. n. 165/2001: trattandosi di un concorso per collaboratori amministrativi, infatti, occorreva nominare persone dotate di specifiche competenze inerenti la materia. Invece, fra i nominativi compariva un delegato del Rettore e un ricercatore di Fisica! Con decreto n. 137 del 15.3.2012 (doc. 10) il Direttore Miccolis non solo ha ignorato le osservazioni di De Pascalis in qualità di RPA (la cui nota del 28.1.2012 non veniva neppure citata nel testo del decreto), ma si è spinto al punto di affermare - tra le premesse del decreto - che egli aveva "verificati i requisiti di esperienza e competenza di cui all'art. 35 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165".
Ancora, con nota prot. n. 19763 del 6.6.2012 (doc. 11) De Pascalis, sempre in qualità di RPA, ha illustrato al Direttore Miccolis le corrette modalità di completamento del procedimento concorsuale a seguito del predetto decreto di annullamento: De Pascalis ha precisato – fondandosi su precisi orientamenti giurisprudenziali - che non si doveva procedere ad un nuovo svolgimento delle prove concorsuali, ma solo a una rivalutazione delle prove scritte già effettuate dai candidati. Con decreto n. 348 del 21.6.2012 (doc. 12), per l'ennesima volta il Direttore Miccolis ha ignorato quanto segnalatogli da De Pascalis (la cui nota prot. n. 19763 non veniva neppure citata nel testo del decreto), e ha disposto il rifacimento delle prove scritte.
Quanto alle condotte tenute dal direttore Miccolis nel periodo successivo alla sentenza del TAR del 25.7.2012, gli accadimenti sin qui esposti sono stati oggetto di un intervento critico del sig. De Pascalis (essendo egli, altresì, un rappresentante di una Organizzazione sindacale) apparso il 13.8.2012 su una testata del territorio, cioè sul "Nuovo Quotidiano di Puglia" (doc. 13). Nell'articolo De Pascalis ha espresso perplessità sulla correttezza del comportamento del Direttore Miccolis, anche nel quadro di una gestione discutibile dell’insieme delle procedure concorsuali da parte degli organi centrali di Ateneo, e del sostanziale avallo dato dal Rettore. A seguito di tale articolo il Direttore Miccolis ha aperto un procedimento disciplinare - ancora pendente - nei confronti di De Pascalis (doc. 14), con ciò cumulando incredibilmente la posizione di organo di iniziativa procedimentale con quella di soggetto vulnerato dal contegno di De Pascalis, e mostrando chiari intenti ritorsivi, tali da dissuadere altri interventi nella direzione della trasparenza. Da ultimo, con recentissimo decreto n. 564 del 16.10.2012 (doc. 15) il Direttore Miccolis ha allontanato De Pascalis dall'Ufficio reclutamento, di cui questi è stato sino a quel momento il Capo, con ciò confermando un atteggiamento illegittimamente sanzionatorio verso chi ha avuto il solo torto di pretendere la conformità alla regole in un settore così delicato quale quello dei concorsi.
Infatti, pur dissimulato da ragioni inerenti la necessità di coprire altro ufficio rimasto sguarnito (si tratta dell'Ufficio previdenza e pensioni, privo - com'è di tutta evidenza - di rilievo comparabile a quello del reclutamento), il grave provvedimento nasconde l'intento di rimuovere un funzionario assai scomodo dalla posizione apicale della postazione centrale nella gestione delle procedure concorsuali: De Pascalis ha sempre cercato di opporsi alle reiterate illegalità perpetrate dal Direttore Miccolis, per cui costui lo ha dapprima sottoposto a procedimento disciplinare, e poi lo ha rimosso dall'Ufficio reclutamento.
Tali comportamenti del Direttore Miccolis, condivisi e confermato dal Rettore Laforgia, pongono il serio problema della loro compatibilità con le importanti cariche da loro coperte: ciò, soprattutto in considerazione del fatto che - come ampiamente divulgato dal Rettore medesimo - egli si accinge, quale neonominato presidente della Fondazione dell’Università del Salento a gestire procedure d’appalto di lavori pubblici di edilizia universitaria per oltre cento milioni di euro.
Gli episodi esposti, e il conseguente clima velenoso che hanno determinato, rendono improbabile garantire l’equilibrata gestione di tali delicatissime fasi della vita dell’Ateneo salentino, dal momento che chi lo guida pro tempore ha mostrato di non osservare norme e principi basilari per la corretta e trasparente gestione della cosa e del denaro pubblici. I media del territorio dedicano di frequente pagine o servizi alle indagini penali e alle denunce nei confronti del Rettore e del Direttore amministrativo, in un quadro di costante tensione, che non giova al buon andamento dell’Istituzione universitaria;
se il Ministro dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca sia al corrente della grave situazione di incompatibilità ambientale del Rettore e del Direttore amministrativo dell’Università del Salento, abbondantemente emersa sui media, e fonte di disorientamento e di disagio per chiunque frequenti l’ateneo, sia esso docente o studente o dipendente amministrativo;
se intenda attivare gli opportuni approfondimenti per verificare per quale ragione il Rettore, invece di avviare un procedimento disciplinare nei riguardi del Direttore amministrativo a causa delle gravi anomalie della sua condotta, lo abbia difeso sui media;
se non ritenga di disporre, anche attraverso altri dicasteri (in primis il ministero della Funzione Pubblica, attraverso l’Ispettorato della funzione pubblica) un’indagine ispettiva per valutare il comportamento del Rettore e del Direttore amministrativo, a prescindere dalle vicende giudiziarie penali che riguardano entrambi, già sulla base del danno arrecato al personale tecnico amministrativo, al corpo studentesco ed ai docenti dell’Università del Salento a causa dei comportamenti prima descritti, e duramente censurati sia dalla magistratura ordinaria che da quella amministrativa.
Il Rettore: "Ecco i compiti copiati", scrive “La Repubblica”. Un'interpellanza urgente di Mantovano firmata da 54 deputati sulla gestione dell'Ateneo, travolto dall'inchiesta per tentato abuso d'ufficio che riguarda anche Laforgia. Sotto accusa il concorso per tre posti negli uffici amministrativi. "I compiti interamente copiati da internet". Una ispezione ministeriale sull'Università del Salento, per valutare il comportamento del rettore e del direttore amministrativo dell'Ateneo, Domenico Laforgia ed Emilio Miccolis, "a prescindere dalle vicende giudiziarie penali che riguardano entrambi". E' quello che chiede Alfredo Mantovano (Pdl), con una interpellanza urgente ai ministri dell'Istruzione e della Funzione pubblica firmata da altri 54 deputati. L'interpellanza prende le mosse dalle "incredibili vicende del concorso a tre posti di dipendente amministrativo". Mantovano si riferisce all'inchiesta per tentato abuso d'ufficio che riguarda il magnifico, e che lo vede accusato presunti illeciti commessi negli atti per la nomina dei componenti della Commissione affari generali dell'Ateneo. Accuse respinte dal rettore che rende pubblici gli scritti del concorso finito nella bufera. "Sono sempre più convinto - dice Laforgia - che tutta questa montatura sia orchestrata di proposito perché questa amministrazione venga meno al rigore e al riconoscimento del merito, sia nei concorsi che negli appalti che si espleteranno nel prossimo futuro".
Il rettore dell'Università del Salento, Domenico Laforgia, è finito al centro di un'inchiesta per tentato abuso d'ufficio, relativa a presunti illeciti che sarebbero stati commessi negli atti propedeutici alla nomina dei componenti della Commissione affari generali dell'Ateneo. È indagato e "amareggiato" Laforgia, come ha spiegato in una conferenza stampa, ma non per l'indagine in sé, anzi "ringrazia" il procuratore Motta per averla avviata, bensì "per il tentativo discreditare questa amministrazione". L'inchiesta, coordinata dal procuratore Cataldo Motta e dal sostituto Paola Guglielmi, nasce da una serie di denunce confluite nei mesi scorsi negli uffici giudiziari salentini, a partire da quella del professore di Diritto costituzionale Luigi Melica (candidato dell'Udc come sindaco alle ultime amministrative), che ha paventato veri e propri illeciti nel corso della riunione che ha portato alla nomina dei membri di un organismo fondamentale qual è la commissione Affari generali. Il docente ha denunciato pressioni da parte del rettore e, come primo passo per verificare le sue parole, gli investigatori hanno sequestrato i nastri delle registrazioni delle riunioni del Senato accademico del 19 giugno e del 17 luglio, durante le quali si è discusso appunto di quelle nomine. Secondo il denunciante, Laforgia avrebbe esercitato indebite pressioni sui colleghi, ma il "Magnifico" è sicuro del tono e del contenuto delle sue parole durante le assemblee e si dice tranquillo di ciò che gli inquirenti troveranno su quei nastri. Esprime "fiducia totale" nella magistratura e non esita a lanciare ombre sull'operato di chi lo ha denunciato, ovvero Melica, delegato all'Internazionalizzazione dal 2007 fino al 2011, "quando decisi di revocare la sua delega". Il motivo, lascia intendere il "magnifico", va ricercato nel comportamento non eccellente del docente nel settore che gli era stato assegnato, "di cui si trovano tutti i riferimenti nel Rapporto dell'ateneo del 2011".
Alle accuse, insomma, il rettore risponde in maniera altrettanto dura e lascia intravedere la possibilità che i comportamenti despotici e "baronali" che gli vengono attribuiti, siano contestati solo "per l'eccesso di rigore che connota il mio operato". Il dito è puntato contro "certe aspirazioni", che non trovano più realizzazione "in un ateneo in cui la regola è la meritocrazia", e contro chi non ha accettato di buon grado "i no che ho dovuto dire di fronte a certi comportamenti". Per Laforgia, insomma, chi lo accusa è mosso da spirito di vendetta. E il riferimento non è solo a Melica ma anche ad altri docenti e ad alcuni sindacalisti, che da mesi hanno ingaggiato un vero e proprio braccio di ferro contro i vertici dell'Università.
Anche da quel fronte sono arrivati attacchi e denunce in Procura, alcune delle quali sarebbero confluite nello stesso fascicolo coordinato dal pm Guglielmi, che starebbe vagliando anche alcune assunzioni effettuate in ateneo. Anche rispetto a tali presunti illeciti, il rettore è stato categorico: nessuna irregolarità, "ma solo scorrimenti di carriera di personale già in servizio", non risparmiando una stoccata alla gestione di chi l'ha preceduto, ovvero Oronzo Limone, "che ha fatto scorrere la graduatoria di 272 unità". Dal passato, insomma, proverrebbero strascichi di veleni che si sono trasformati in esposti e denunce e che hanno portato l'ateneo sotto la lente della magistratura. Le registrazioni sequestrate sono al vaglio degli inquirenti, che stanno esaminando anche altro materiale, e rispetto ai quali Laforgia si mette "completamente a disposizione". L'indagine, però, è alle battute iniziali e potrebbe procedere con l'ascolto di persone informate sui fatti prima che dell'indagato. Il rettore, dal canto suo, ribadisce serenità e lascia intravedere la possibilità che dietro il clima infuocato che da mesi si registra in ateneo ci sia una regia precisa: "ho la sensazione che la confusione sia voluta per disorientare la gente e screditare l'operato di questa amministrazione. Io però non mi farò condizionare, sto cercando di difendere l'Università da una serie di barbari all'arrembaggio, non sono ricattabile e non dirò mai sì a richieste che danneggiano l'istituzione".
«Sono sempre più convinto che tutta questa montatura sia orchestrata di proposito perchè‚ questa Amministrazione venga meno al rigore e al riconoscimento del merito, sia nei concorsi che negli appalti che si espleteranno nel prossimo futuro». Lo afferma il rettore dell'Università del Salento, Domenico Laforgia, che con una nota ha diffuso oggi anche le copie dei compiti «interamente copiati da Internet e che hanno comportato l'annullamento del concorso per tre posti di dipendente amministrativo» dell'Università. «Lascio alla gente - conclude Laforgia - la possibilità di valutare se il Direttore Generale abbia agito per il bene dell'Amministrazione e di tutte le persone che partecipano a pubblici concorsi senza tutele e protezioni». Mantovano nell'interpellanza punta il dito contro le "condotte tenute dal direttore Miccolis, di autentica persecuzione amministrativa nei confronti del responsabile dell'ufficio reclutamento De Pascalis, culminata, dopo il rifiuto di recepire le osservazioni di questi, tendenti a riportare il concorso in questione su binari di legalità, nella sua estromissione da quell'ufficio e nell'apertura di un procedimento disciplinare a suo carico".
L'interpellanza sottolinea che questi, e altri, comportamenti tenuti da Miccolis, "condivisi e confermati dal rettore Laforgia", "pongono il serio problema della loro compatibilità con le importanti cariche che ricoprono: ciò soprattutto in considerazione del fatto che, come ampiamente divulgato dal rettore medesimo, egli si accinge, quale neonominato presidente della Fondazione dell'Università del Salento a gestire procedure d'appalto di lavori pubblici di edilizia universitaria per oltre cento milioni di euro, e quindi deve essere e apparire garante di correttezza, e non di scarsa trasparenza, se non di vera e propria opacità".
Il rettore di Lecce attacca il suo accusatore «Un errore sceglierlo come delegato» scrive “Il Corriere della Sera”. «L’inchiesta è per tentato abuso di ufficio e ringrazio la magistratura, e il procuratore capo, Cataldo Motta, per le verifiche che faranno». Domenico Laforgia, rettore dell’Università del Salento, ha rinunciato a un intervento al Congresso Mondiale Aerospazio, in corso a Napoli, per tornare a Lecce e spiegare la sua posizione dopo la diffusione delle notizie sulla sua iscrizione nel registro degli indagati per una vicenda che riguarda le nomine delle commissioni interne all’università. Laforgia spiega e precisa, ma lancia anche accuse contro chi ha presentato l’esposto e contro alcuni sindacalisti, la cui unica volontà sarebbe di creare «confusione per disorientare la gente e screditare l’operato di questa amministrazione». A denunciare Laforgia, accusandolo di aver proferito minacce durante una seduta del Senato accademico per sostenere la candidatura di alcune persone, è il docente universitario e consigliere comunale dell’Udc, Luigi Melica. Secondo quanto riferito da Melica, che del Senato accademico non ha mai fatto parte, l’abuso di potere si sarebbe consumato durante la nomina dei componenti della commissione affari generali. In quella sede, sempre secondo la denuncia, ai senatori sarebbero stati sottoposti soltanto alcuni curricula e il rettore avrebbe chiaramente indicato su quali nomi puntare. «Non ho mai minacciato nessuno in vita mia - ribatte Laforgia nel corso di una conferenza stampa - e sulla questione dei candidati alle commissioni interne, lo Statuto prevede che il rettore faccia una prima scelta e poi sottoponga una rosa di nomi al Senato, che sceglie. È chiaro che a questo punto subentra un problema di privacy per quelli che non sono nella terna». Accusato anche di gestione poco trasparente delle assunzioni, il rettore replica che «si parla di assunzioni quando in realtà si tratta di scorrimenti di carriera del personale già in servizio. In sei anni, ci sono state ben 272 assunzioni, sempre con il principio dello scorrimento di carriera». Infine, rispondendo alle domande sul perché di quell’esposto da parte di un docente che non è nemmeno membro del Senato accademico, Laforgia ricorda di aver revocato a Melica il mandato di delegato all’internazionalizzazione il primo novembre del 2011, giudica un «suo errore» averglielo conferito nel 2007 e poi invita i giornalisti a leggere il rapporto d’Ateneo nel quale sarebbero contenute le ragioni della revoca di quel mandato. La polizia giudiziaria, intanto, ha chiesto la registrazione audio delle sedute del Senato accademico del 19 giugno e del 17 luglio scorsi, quando si è discusso di nomine delle commissioni, sulle quali l’organo di governo dell’Ateneo non ha ancora votato.
MAI DIRE MAFIA, MAFIOSO E MAFIOSITA’.
Indagato presidente del TAR Lecce solo per abuso d’ufficio e solo lui. Antonio Cavallari, presidente del Tar di Lecce indagato per abuso d’ufficio per aver favorito un’azienda in odor di mafia difesa dal noto amministrativista leccese, avv. Pietro Quinto.
Tutta la stampa ne parla.
Un’azienda in odore di mafia. E un discusso decreto del Tar. Sono questi per “Il Quotidiano di Puglia” i due elementi alla base di un’indagine su cui la Procura, comprensibilmente, vuole mantenere il più stretto riserbo. Antonio Cavallari, presidente del Tribunale amministrativo regionale di Lecce, sarebbe indagato per abuso di ufficio, proprio in relazione a un suo provvedimento adottato nel marzo 2012. Sono queste le uniche notizie che trapelano dal Palazzo di giustizia. L’inchiesta sarebbe seguita personalmente dal procuratore capo di Lecce Cataldo Motta. La vicenda riguarderebbe un appalto per il servizio di raccolta dei rifiuti urbani di Casarano, vinto dalla Cogea. L’aggiudicazione provvisoria, però, era stata revocata subito dopo dall’amministrazione casaranese sulla scorta di una informativa antimafia, ossia un documento in cui si mette in guardia dalle possibili infiltrazioni della criminalità organizzata nel tessuto economico e nell’organico di un’azienda. Nel documento, nello specifico, si ipotizzava un presunto legame della Cogea con Gianluigi Rosafio, imprenditore di Taurisano già condannato per traffico illecito di rifiuti, e legato a doppio filo con il boss ergastolano Giuseppe Scarlino, avendone sposato la figlia. A quanto pare, nell’informativa si faceva riferimento a una particolare vicinanza tra la Cogea e la Geotec Ambiente: entrambe le società avrebbero lo stesso direttore tecnico. E visto che la Geotec era già stata colpita da un’interdittiva antimafia perché aveva tra i suoi dipendenti proprio Gianluigi Rosafio, lo stesso provvedimento è stato preso nei confronti dell’altra società, neo aggiudicataria dell’appalto. I tempi sono stretti: il 2 marzo 2012 il Comune di Casarano revoca l’aggiudicazione; la Cogea fa ricorso al Tar e il giorno dopo il presidente Cavallari emette un provvedimento cautelare con cui accoglie l’istanza presentata dall’azienda e quindi sospende la revoca del Comune. Sarebbe questo il passaggio finito sotto la lente d’ingrandimento degli investigatori. I carabinieri, peraltro, su ordine della Procura di Lecce, hanno effettuato un veloce blitz negli uffici del Tar, in via Rubichi, a quanto pare sequestrando alcuni documenti e anche un computer. A cosa porterà l’indagine e che tipo di illecito punta eventualmente a scoprire, rimane ancora un mistero. Che verrà svelato solo quando la Procura riterrà di poter uscire allo scoperto.
Per il resto ognuno si faccia una propria idea secondo i fatti raccontati ed avvenuti.
Secondo Giangranco Lattante de “La Gazzetta del Mezzogiorno”: Un blitz riservatissimo. Un fascicolo blindato, chiuso a chiave, nella stanza del procuratore Cataldo Motta che gestisce il caso in prima persona. La faccenda è delicata. Riguarda un indagato eccellente: il presidente dal Tar di Lecce Antonio Cavallari. Abuso d’ufficio è l’ipotesi di reato. Tutto il resto è top secret. La Procura ha acceso un faro su una decisione-lampo assunta dal presidente Cavallari con un decreto cautelare. Una decisione che si innesta nell’ambito di una misura interdittiva. Cosa si voglia accertare e perché sia stata avviata l’inchiesta è materia ammantata dal massimo riserbo. Ma quando i carabinieri, su disposizione del procuratore, si sono presentati negli uffici del Tar hanno acquisito carte, fascicoli e documentazione relativa proprio al decreto cautelare che sospendeva l’efficacia della revoca di un appalto che era stato bloccato da un’interdittiva antimafia. Misure di questo tipo hanno l’obiettivo di evitare infiltrazioni della malavita nel tessuto produttivo. La visita dei militari del Nucleo investigativo del Reparto operativo del Comando provinciale risale ai primi giorni del marzo 2012. All’attenzione della Procura sarebbe finito il decreto cautelare emesso il 3 marzo (era un sabato) con il quale il presidente Antonio Cavallari ha accolto l’istanza presentata dalla società Cogea, la srl che si era visto revocare l’aggiudicazione provvisoria del servizio di raccolta dei rifiuti urbani di Casarano sulla scorta di un’informativa antimafia per via di presunti collegamenti con Gianluigi Rosafio, l’imprenditore di Taurisano condannato per traffico illecito di rifiuti e marito della figlia del boss ergastolano Giuseppe Scarlino, detto Pippi Calamita. La determinazione del responsabile del settore servizi tecnici del comune di Casarano, che aveva revocato l’aggiudicazione dell’appalto alla Cogea, era stata adottata il 2 marzo. Il giorno dopo il decreto cautelare del presidente del Tar Cavallari veniva depositato in segreteria. Più precisamente, l’interdittiva antimafia traeva origine nel fatto che il direttore tecnico di Cogea fosse lo stesso di «Geotec Ambiente», società a sua volta colpita da interdittiva per la presenza, fra i dipendenti, di Gianluigi Rosafio. L’unica volta che l’indagine è uscita allo scoperto è stato quando i carabinieri sono andati negli uffici del Tar, in via Rubichi a due passi da piazza Sant’Oronzo, per «prendere» le carte. L’episodio, peraltro, era stato vagamente richiamato dallo stesso presidente Antonio Cavallari in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario del Tribunale amministrativo regionale. Erano trascorsi appena sette giorni dalla decisione e dal blitz. Un’uscita, quella del presidente del Tar, che era stata sepolta da una montagna di smentite. E il Procuratore era al lavoro, a testa bassa.
“Cavallari indagato? E’ una cosa che non sta nè in cielo né in terra”. L’Avvocato Pietro Quinto a “Trnews” non nasconde la propria perplessità dopo la tegola giudiziaria che si è abbattuta solo sul Presidente del Tar di Lecce, Antonio Cavallari, indagato per abuso d’ufficio. Tutto per una vicenda che si collega ad un appalto per la raccolta dei rifiuti urbani a Casarano. I fatti risalgono allo scorso marzo 2012: la Cogea vince l’appalto, ma l’aggiudicazione provvisoria viene revocata dalla locale amministrazione comunale retta dal Commissario prefettizio Ermina Ocello, sulla scorta di una segnalazione. Nel documento si ipotizzerebbe un presunto collegamento fra l’azienda in questione e Gianluigi Rosafio, imprenditore di Taurisano, già condannato per traffico illecito di rifiuti con l’aggravante mafiosa, genero di Giuseppe Scarlino, detto ‘Pippi Calamita’, boss del sud Salento condannato all’ergastolo. L’azienda non ci sta e assistita dall’Avvocato Pietro Quinto fa ricorso al Tar, chiedendo un decreto d’urgenza. “I tempi sono stretti – ricorda Quinto – l’informativa arriva alla vigilia dell’avvio del servizio e l’azienda che teme un danno economico, chiede un decreto d’urgenza”. Ed ecco che in assenza del giudice della terza sezione, la situazione la prende in mano il Presidente in persona, Cavallari appunto, che emette un provvedimento con cui accogliendo l’istanza presentata dall’azienda di fatto sospende la revoca del Comune di Casarano e dà il via libera al servizio che partirà di lì a poche ore. “E’ stato fatto tutto alla luce del sole – sottolinea ancora l’Avv. Quinto – impossibile anche lontanamente parlare di abuso d’ufficio”. Ma intanto i carabinieri, al cui vaglio ci sono documenti e pc sequestrati dall’ufficio di Cavallari, vogliono andare a fondo. In effetti tutta la vicenda si è consumata in sole 48 ore. C’è però un altro risvolto. Dopo la pronuncia di Cavallari, la Prefettura emise una vera e propria interdittiva nei confronti della Cogea, interdittiva recepita dal Commissario Ocello che stilò un nuovo atto di revoca del bando. Intanto la Cassazione aveva annullato con rinvio l’aggravante mafiosa nei confronti di Rosafio, chiedendo la celebrazione di un nuovo processo. Ora si attende la decisione del Consiglio di Stato che si pronuncerà solo dopo decisione del giudice penale.
Ahhh...Quante volte io e tutti gli avvocati non principi del foro che bazzicano le aule del Tar di Lecce avremmo desiderato un atto di sospensiva di sabato ed in 24 ore!!!!!!!!
CORSI E RICORSI STORICI. A proposito di come funzioni la giustizia (con la g minuscola) in questi paraggi riportiamo questo stralcio di premessa del libro-inchiesta del giornalista Alfredo Ancora:
"Un anno dopo, a maggio del 2010, tutti gli imputati di cui si parla in questi articoli di stampa sono stati prosciolti dall'accusa di corruzione; il giudice Tommasino anche da quella per la fuga di notizie. Solo l'ex procuratore capo della Repubblica di Taranto Petrucci è stato rinviato a giudizio con l'accusa di peculato, perché avrebbe utilizzato per uso personale il cellulare di servizio. Ad ogni modo fui molto colpito dalle notizie di stampa che annunciavano l'inchiesta di Taranto, perché alcuni anni prima l'allora procuratore aggiunto della Repubblica di Lecce, Aldo Petrucci, era stato l'autore di un'inchiesta mirata e puntigliosa che aveva portato all'arresto dell'ex sindaco di Calimera, Giorgio Aprile, del suo vice sindaco Fernando Gaetani, e di chi scrive, Alfredo Ancora, allora capogruppo del Pds in Consiglio comunale. Non eravamo dei ladri, non eravamo corrotti, non eravamo accusati di nessuno dei reati per i quali in quegli anni era nata ed è poi divenuta famosa l'inchiesta milanese di "Mani Pulite", quali concussione, corruzione, peculato, appropriazione indebita, truffa ai danni dello Stato, etc.. No, nulla di tutto questo. Fummo arrestati con un'ordinanza di custodia cautelare emanata a causa di una mia lettera di dimissioni dalla carica di consigliere comunale. Una vicenda oscura e strana che aveva portato tre cittadini, i quali per anni, da postazioni e con intensità diverse, avevano combattuto contro il malaffare e la gestione allegra della cosa pubblica, a finire quasi in prigione. Solo la "magnanimità" del giudice per le indagini preliminari consentì che ci fosse risparmiata l'onta delle manette e del carcere. Finimmo però agli arresti domiciliari. Per una lettera di dimissioni per la quale una prima inchiesta era stata archiviata. Ma l'inchiesta fu riaperta dopo un anno dal procuratore aggiunto Aldo Petrucci, senza alcun fatto nuovo che non fosse la nostra attività politica e di amministratori a Calimera. Al termine di un'indagine che aveva anche visto un mandato di perquisizione e il sequestro del mio computer, quando le prove della nostra presunta colpevolezza sembravano essere state tutte raccolte, ecco arrivare l'incredibile ordinanza di custodia cautelare. Gli arresti domiciliari durarono otto giorni e furono una violenza insopportabile alla nostra coscienza di cittadini onesti. Alla fine, rinviati a giudizio, il teorema accusatorio rivelò tutta la sua inconsistenza, sia in fatto che in diritto, e cadde miseramente come un castello di sabbia. Fummo assolti. Non senza che, durante tutta quella vicenda, il procuratore aggiunto Aldo Petrucci mostrasse nei nostri confronti un forte pregiudizio che lo portò ad avere un atteggiamento che ho definito allora, e non esito a definire ancora oggi, persecutorio. Perché è bene si sappia: nonostante in quel Comune negli anni fino ad allora trascorsi fossero accaduti fatti che avrebbero meritato, quelli sì, l'attenzione della magistratura, l'unico sindaco arrestato nella storia di Calimera è stato Giorgio Aprile; gli unici amministratori arrestati di quel Comune della Grecìa Salentina siamo stati noi, che non abbiamo rubato una lira ma che, anzi, ci abbiamo rimesso di tasca nostra, sindaco e giunta più dei consiglieri. Finimmo invece arrestati per una banale lettera di dimissioni. Appropriazioni indebite, clamorosi falsi in atti pubblici, ammanchi di denaro pubblico, truffe elettorali, e una gestione allegra della cosa pubblica che avevano portato quel Comune alla bancarotta certificata da decreti ministeriali, mai avevano visto la magistratura così puntigliosa come lo fu con noi in quel caso, quando arrivò addirittura ad ordinare gli arresti. Mai una giunta comunale aveva subito tante e tali inchieste, basate tutte sul nulla e che portarono al nulla totale, ma nate tutte col solo scopo di intimidire chi aveva osato ribaltare trentennali equilibri di potere, come invece era accaduto a quella giunta, guidata prima da Giorgio Aprile e poi da Rocco Montinaro. Passata la tensione di quei mesi, una volta assolti gli imputati, la vicenda è finita nel dimenticatoio. La politica e il paese avevano bisogno di guardare avanti, a noi erano stati restituiti la serenità e l'onore che, per la verità, agli occhi dei nostri concittadini non avevamo mai perduto. Poi, dopo 15 anni, ecco questa storia del nostro inquisitore che viene a sua volta messo sotto inchiesta. E per reati molto più gravi di quelli per i quali egli ci mise sotto accusa e ci fece arrestare. Sarebbe stato facile dire, come dicevano gli antichi, che "il tempo è galantuomo". Sarebbe stato, forse, anche un po' meschino. Certo, non possiamo non notare come lui, il dottor Petrucci, messo sotto accusa, si sia augurato, come farebbe ogni indagato, «che nell'inchiesta non abbia trovato cittadinanza la maldicenza». Non si preoccupò però quando nella sua inchiesta di allora, che portò ai nostri arresti, la maldicenza egli la lasciò entrare, eccome. Comunque al procuratore della Repubblica Aldo Petrucci auguriamo sinceramente di avere la coscienza tranquilla almeno quanto l'avevamo noi, Aprile, Gaetani ed il sottoscritto, quando fummo arrestati e poi rinviati a giudizio; gli auguriamo che egli, nel procedimento a suo carico, dimostri, come facemmo noi, la sua innocenza e la totale estraneità anche al reato di peculato per il quale sarà sottoposto a giudizio. La giustizia italiana è fin troppo malata per potersi permettere che al suo interno agiscano magistrati sui quali pesi anche solo l'ombra di un uso distorto del loro posto di lavoro, e di potere. Resta da capire cosa avevamo fatto noi, o cosa lui pensava avessimo fatto noi, di peggio delle cose delle quali lui è stato accusato dai Pm di Potenza al punto che noi meritammo la custodia cautelare e lui no. Forse, come io ero e sono convinto, si voleva solo darci una lezione, per imparare a stare al nostro posto. Ma è inutile fare ipotesi che il lettore non capirebbe se non raccontando, carte alla mano, tutta la storia relativa al nostro arresto. Anche perché oggi, chiunque venga a sapere che tre persone furono arrestate per una banale lettera di dimissioni di un consigliere comunale, ha una reazione di sorpresa e incredulità. E in tanti mi hanno esortato: «Perché non scrivi questa storia?». E' quanto mi accingo a fare, chiedendo perdono a quanti si vedranno scaraventati, attraverso queste pagine, in una fase della vita che essi consideravano ormai alle spalle. Anche perché dopo tanti anni il tempo ha sparigliato le carte, cambiato le vite e i pensieri di molti dei protagonisti di allora. Alcuni di loro, purtroppo, non ci sono più. Ma il passato, che piaccia o no, fa parte della nostra vita. E col passato i conti vanno fatti, senza ipocrisie. Soprattutto quando il presente sembra fornire di esso nuove chiavi di lettura.”
Glocal editrice è una piccola realtà editoriale del Salento portata avanti con coraggio e tenacia dal giornalista Lino De Matteis. Specializzata soprattutto in editoria d’inchiesta, tra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo “Giornali e democrazia” di Beppe Lopez, “Il Giallo di Ugento” di Lino De Matteis sul controverso caso di nera riguardante Giuseppe Basile, e tutta una serie di e-book scaricabili gratuitamente sul sito dell’editore dalle tematiche accattivanti come “Le mani sulla Puglia”, un’inchiesta sulla criminalità organizzata in Puglia e sulla zona grigia in cui si annidano i rischi di collusione tra criminalità e politica, oppure l’interessantissimo “Il caso Fonte. La prima vittima della mafia nel Salento” ovvero un reportage sull’assassinio dell’assessore comunale repubblicano di Nardò, Renata Fonte, avvenuto nel 1984. Ora Glocal editrice punta su un libro che farà discutere ovvero “Un processo per caso” di Alfredo Ancora, volume che racconta il caso emblematico di “mala-giustizia”, avvenuto a Calimera (un piccolo centro del basso Salento), raccontato da uno dei protagonisti. Tutt’altro che un fatto locale, la vicenda può divenire un vero e proprio esempio di un fatto accaduto a tre pubblici amministratori arrestati per una semplice lettera di dimissioni dal consiglio comunale presentata da uno di loro. Fatto accaduto a tre amministratori pubblici vittime di un accanimento persecutorio da parte di un giudice, che mette piede in una vicenda squisitamente politica. Ora Alfredo Ancora, vuole dire la sua, e lo fa mettendo in luce la disparità di trattamento avuta dai diversi imputati nelle fasi istruttorie delle due inchieste: da una parte, tre integerrimi amministratori (sono stati poi tutti assolti) che vengono arrestati per una normale lettera di dimissioni e, dall’altra, un magistrato che, per reati certamente più gravi, come corruzione e peculato, non viene privato della libertà. Fuori da ogni dubbio la vicenda dei tre amministratori rappresenta l’incarnazione perfetta delle disfunzioni della Giustizia nel nostro Paese, e soprattutto il libro si presta a mantenere aperto il dibattito sulla giustizia che ancora oggi non ha trovato alcun punto di efficienza e obiettività.
Il libro "Un processo per caso. Storia di tre arresti per dimissioni" (Glocal Editrice, pp. 208) del giornalista Alfredo Ancora. La storia è quella di tre amministratori di un Comune del Sud Italia, Calimera, arrestati diversi anni fa per una semplice lettera di dimissioni. Lettera che un consigliere comunale di maggioranza aveva presentato in Comune e che vicesindaco, prima, e sindaco, poi, avevano iscritto nel protocollo riservato. Dall’opposizione arrivò la richiesta di copia di quella lettera, che fu negata dal sindaco perché la ritenne riservata. Partì un esposto alla Procura che avviò un’inchiesta, ma il sostituto procuratore incaricato non rilevò alcun reato e archiviò tutto. Partì allora un secondo esposto alla Procura Generale e si riaprirono le indagini a conclusione delle quali ci furono tre ordinanze di custodia cautelare a carico di sindaco, vicesindaco e del consigliere dimissionario. Mentre in Italia infuriava la bufera di Tangentopoli, nel Salento avveniva questa vicenda surreale, conclusasi con l’assoluzione di tutti e tre gli imputati al termine di un processo d’appello celebrato – fatto più unico che raro – sulla base del ricorso del procuratore aggiunto della Repubblica contro le conclusioni del Pm di udienza nel processo di primo grado che i giudici del Tribunale, peraltro, avevano accolto. Una storia assurda sul filo dei rapporti tra giustizia e politica, che qui viene raccontata da uno dei protagonisti, con grande passione e rigore documentale. L’autore del volume è nato a Zollino (LE) nel 1953 e dal 1976 vive a Calimera. Laureato in Scienze Politiche all’Università di Bari discutendo una tesi sul rapporto di lavoro giornalistico, ha subito iniziato un’intensa attività pubblicistica. È stato infatti direttore del giornale “Il ponte”, poi de “La civetta”, ha collaborato con “Calimera città futura” e con la “Kinita”, tutti giornali editi a Calimera. Assunto dal “Quotidiano di Lecce” nel 1979, è diventato giornalista pubblicista nel 1982 e professionista nel 1999. Nel 2003 ha iniziato la collaborazione con il “Corriere del Mezzogiorno”, protrattasi per alcuni anni, e con il settimanale “Città Magazine” diretto allora dal collega Mino De Masi. Attualmente collabora con il “Nuovo Quotidiano di Puglia”. Nella sua attività giornalistica si è sempre interessato soprattutto di politica, di politica-amministrativa e di giustizia amministrativa. È anche stato consigliere comunale di Calimera dal 1985 al 1996, prima eletto come indipendente nelle liste del Pci, poi in quelle del Pds. Durante questa esperienza politica è accaduta la vicenda raccontata nel libro Un processo per caso. Negli anni ’90 ha assunto la direzione di Radio Salentina. Nel 2003 ha iniziato le collaborazioni con la rivista dell’Università di Lecce, “Unile”. Una storia tra politica e persecuzione giudiziaria di tre pubblici amministratori, raccontata da uno dei protagonisti. Non è un fatto locale, come si potrebbe pensare, poiché la vicenda è talmente emblematica e unica che diventa un caso universale nel panorama della “malagiustizia” italiana. Non era mai successo, infatti, che tre pubblici amministratori venissero arrestati per una semplice lettera di dimissioni dal consiglio comunale presentata da uno di loro, con un accanimento persecutorio da parte di un giudice che entra a gamba tesa in una vicenda squisitamente politica. Ma il “colpo di scena”, se così si può dire, sta nel fatto che proprio quel giudice che si era tanto accanito all’epoca contro i tre amministratori, un giudice noto in Puglia per essere stato prima procuratore aggiunto a Lecce, poi procuratore capo a Taranto e, infine, di nuovo procuratore capo al Tribunale dei minorenni di Lecce, Aldo Petrucci, è passato di recente agli onori della cronaca, pugliese e nazionale, perché imputato di corruzione e peculato in un’inchiesta sulle “toghe sporche” a Taranto (poi è stato prosciolto dall’accusa di corruzione ma rinviato a giudizio per peculato). Indipendentemente, comunque, dalle conclusioni della vicenda giudiziaria, è la fase istruttoria dell’inchiesta che ha riguardato Petrucci che ha fatto scattare la voglia di raccontare la sua esperienza ad Ancora, mettendo in parallelo proprio la diversità di trattamento avuta dai diversi imputati nelle fasi istruttorie delle due inchieste: da una parte, tre onesti amministratori (sono stati infatti poi tutti assolti) che vengono arrestati per una semplice lettera di dimissioni e, dall’altra, un magistrato che, per reati molto più gravi, come corruzione e peculato, non viene privato della libertà. Al di là di quello che potrebbe sembrare una sorta di curioso contrappasso dantesco, comunque, la vicenda dei tre amministratori è emblematica per come certa giustizia può accanirsi sui semplici cittadini impotenti a difendersi e come invece il corso della giustizia possa essere frenato o aggirato facilmente dagli uomini di potere. Il dibattito sulla giustizia è aperto ed è, anzi, oggi al centro della vita pubblica italiana: la vicenda raccontata da Ancora ne è a pieno titolo uno dei tasselli di cui bisogna discutere.
UNA UNIVERSITA': UNA CITTA'.
Università del Salento: una fogna. La notizia la dà la “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 10 marzo 2012. Il botto arriva alla fine, dopo i rimpianti e le accuse, ed è un botto che fa rumore:«...li affronteremo sempre con la coerenza e la razionalità che ci fa andare avanti in questa fogna di università». La conclusione della lettera del rettore Domenico Laforgia a Raffaele De Giorgi è forte e amara. Il linguaggio non è per nulla accademico.
Perché l’università del Salento è una fogna? Chi l’ha ridotta così? Il rettore ha un carattere duro e il suo dire è tagliente. Parla di «provocatori» nel senato accademico. Sembra dire: mi accusate di interferire sulle candidature, contestate il mio modo di fare. Bene. «Io non farò nulla perché i provocatori non ci siano...». Ma chi sono i provocatori che fanno dell’università una fogna?
La lettera del rettore arriva come un fulmine atteso. La polemica montava da mesi e adesso è diventata un incendio. Molti docenti reagiscono a muso duro ma sotto voce. Altri si schierano con il rettore condividendo il bersaglio da colpire. Ma ci sono anche i professori che non accettano il silenzio. Uno di questi è Vincenzo Tondi della Mura, 51 anni, ordinario di Diritto costituzionale. «Caro Magnifico», dice, «la Tua e-mail è illuminante sul tipo di giudizio che nutri verso la comunità scientifica che governi; non hai remore a qualificare il tutto come “fogna di università”. L’apprezzamento non è nuovo». Tondi della Mura paragona le parole di Laforgia a quelle sprezzanti di Silvio Berlusconi: «Con pari sensibilità istituzionale - sottolinea con ironia - il precedente presidente del Consiglio disse che si era stancato di governare questo “paese di merda”». Il professore di diritto costituzionale rivendica «l’esercizio dei propri legittimi diritti di critica, di ricerca, di partecipazione». Possibile, si chiede, che chi intende testimoniare questi valori «sia sempre e comunque considerato uno stronzo?»
Le polemiche e gli scontri s’insinuano tra i 672 docenti e ricercatori chiamati a votare ad aprile. Mettono a dura prova le vecchie relazioni e fanno saltare antiche e consolidate amicizie. Nel web è un botta e risposta senza veli e infingimenti. Tra Fernando Greco e Beppe, sicuramente un docente, volano parole grosse. «Caro Fernando - è l’incipit della mail di Beppe - presentare una candidatura al senato accademico non è come organizzare una serata in pizzeria con gli amici... non meriti il mio voto. Mi chiedo: sei veramente Tu il nuovo che avanza? Non rientrando io tra i colleghi più vicini che hanno sostenuto la Tua candidatura (nel senso che nemmeno ti sei degnato di propormela nelle varie e casuali occasioni d’incontro, rientro forse nel novero dei vecchi capibastone?»
Beppe si dilunga sul significato che devono avere le candidature, sulle «aree» che ogni candidato deve rappresentare in modo «orizzontale» e non «verticale» e attacca «il previo colloquio con il nostro Magnifico». Insomma, a Greco viene contestata la vicinanza al rettore, cosa che lo allontanerebbe dalla base dei professori, fonte della democrazia.
Ma Greco non ci sta a passare come un candidato designato dall’alto. «Caro Beppe, fai bene a implorare il perdono. Non puoi banalizzare un conflitto di politica accademica, che oppone non solo differenti opzioni governative, ma, soprattutto, divergenti modi d’intendere la deontologia fra colleghi e la stessa natura della comunità scientifica...(a proposito - è la stilettata finale - a quali logiche ti conformavi negli anni addietro?)».
Il conflitto elettorale fa emergere dissapori personali, liti sul ruolo del docente e lacerazioni di «politica accademica». Ma ci sono anche i professori che non hanno timore a dire che si lotta per il potere universitario e per la destinazione dei 120 milioni da spendere nei prossimi mesi.
Il gioco si fa duro,
tra il rettore Domenico Laforgia e il preside di giurisprudenza Raffaele De
Giorgi. «E’ un terremoto», dice un professore che conosce bene i duellanti: «Il
rettore è energico e decisionista, De Giorgi è uno studioso vecchio stampo, mite
ma coriaceo nelle sue idee». «Sono un feroce oppositore dei baroni» avverte il
rettore. Giurisprudenza, la facoltà ribelle in nome della democrazia, difende la
sua autonomia dalle «interferenze» del vertice.
Laforgia, che in una lettera aveva detto che l’università di Lecce è una «fogna
», ieri è quindi passato all’attacco: «Sono sempre stato feroce oppositore delle
prevaricazioni dei cosiddetti baroni, forse perché quando ero ricercatore ho
subito analoghi comportamenti e a suo tempo giurai a me stesso che, qualora
fossi diventato ordinario, mai avrei adottato atteggiamenti simili, figuriamoci
da rettore». Quattro anni fa, quando Laforgia fu eletto, il preside di
Giurisprudenza era un suo sostenitore. L’accordo, raggiunto in lunghi colloqui,
era sulla «modernità democratica » da realizzare nell’ateneo. Bisognava liberare
il campo da vecchi clientelismi e privilegi, e i due partendo da posizioni
culturali diverse convergevano.
«Quello che sta accadendo nel dipartimento di scienze giuridiche - sottolinea adesso il rettore - è molto grave perché lede le forme di libertà fondamentali a sostegno di una gestione democratica di qualsivoglia comunità. E’ per me inaccettabile l’idea che si possa impedire a un collega di candidarsi a una carica istituzionale ed è ancora più inaccettabile la maniera con cui si tenta di obbligarlo al ritiro della candidatura».
La candidatura, alle elezioni per il senato accademico fissate per il quattro e cinque aprile, è quella di Fernando Greco, docente di Diritto privato, vicino al rettore ma anche collaboratore di De Giorgi. Lo scontro è nato proprio sulle modalità della candidatura: De Giorgi ha tentato di presentarla in via preliminare ai docenti del dipartimento, Laforgia l’aveva in sostanza benedetta in un colloquio chiesto da Greco.
Il cortocircuito si è via via sviluppato in uno scambio di lettere, una prima e una seconda volta, fino a quando non sono volate le parole grosse. «Sei un autocrate», cioè un tiranno, è stata l’accusa di De Giorgi. «Hai cercato in un accordo sotterraneo le condizioni di u n’artificiosa armonia di facoltà prima e di dipartimento ora» è stata l’aspra replica. Il preside di giurisprudenza è stato eletto con 48 voti su 54 direttore di dipartimento, l’unico degli otto direttori critico con il rettore. Sembra che docenti vicini a Laforgia l’abbiano spuntata in sette dipartimenti, uno dei quali, Economia, ha visto la tribolata elezione di Alessandra Chirco, al secondo scrutinio dopo una valanga di schede bianche. Del senato accademico fanno parte otto professori in rappresentanza dei dipartimenti e nove da eleggere in base alle aree didattiche (tecnico-scientifica, economico-giuridica e umanistica). Sono 672 i docenti al voto. Che Laforgia abbia visto nella candidatura di Greco la possibilità di rompere gli equilibri a Giurisprudenza? E’ il sospetto di molti.
«A me - si limita a dire il rettore - è stato addirittura chiesto di imporre al professore Greco di ritirarsi e dal mio rifiuto è nata la querelle. Le candidature sono libere e spontanee e chi non ha voglia di votare un candidato è libero di votarne un altro». Insomma, il rettore difende i diritti individuali dei docenti, soprattutto se sono giovani, e non accetta «veti» da parte di chi vorrebbe contrastarli «suggerendo l’idea che siano candidati del rettore».
A Laforgia vanno bene i panni del modernizzatore che ingaggia «battaglie per smantellare residui di sistema feudale, che affida il potere nelle mani dei pochi escludendo i molti». Qual è l’oligarchia feudale che persiste nell’ateneo? Ne fa parte anche De Giorgi che ha dato del tiranno al rettore? La conclusione di Laforgia è però rigorosamente accademica: di queste cose e di candidature sarebbe stato preferibile parlarne all’interno dei dipartimenti, «invece di coinvolgere il rettore e addirittura i giornali». Cui prodest? chiede Laforgia. A coloro che hanno a cuore la trasparenza del dibattito pubblico, è la nostra risposta.
A proposito di Magistrati politicizzati vi ricordate di Ingroia?
Lo abbiamo visto partecipare ai convegni di partito, stringere la mano al presidente della Camera Gianfranco Fini, intervenire alla manifestazione dell'Idv di Di Pietro e Travaglio contro il bunga bunga per sbeffeggiare Berlusconi, sedersi sullo scranno di Annozero insieme con Ciancimino, parlare dal palco delle festa bolognese della Fiom. E il dubbio che il sostituto procuratore di Palermo Antonio Ingroia fosse, diciamo così, "di parte" era balenato nella mente. Ma poi questo dubbio si scontrava con le rassicurazioni e le dichiarazioni dello stesso pm che ha più volte sottolineato come “agli occhi del cittadino il magistrato non soltanto deve essere imparziale ma deve anche apparirlo”. Ma quando poi sempre lo stesso pm ammette la sua vera inclinazione politica, ecco che ogni dubbio viene spazzato. Il palco dal quale arriva la confessione è quello di Rimini, precisamente quello del VI Congresso nazionale del comunisti italiani. E’ il 30 ottobre 2011. Ingroia fa il suo comizio. Dichiara che «siamo in una fase critica. Le parti migliori della società devono impegnarsi dentro e fuori le istituzioni per realizzare un’Italia migliore. La magistratura deve essere autonoma e indipendente. La politica deve essere ambiziosa: deve fare la sua parte. C’è tanta stanchezza fra gli italiani. La politica con la ’p’ minuscola chiede alla magistratura di fare un passo indietro. C’è bisogno invece di una politica con la ’p’ maiuscola. Senza verità non c’è democrazia. Fino a quando avremo verità negate avremo una democrazia incompiuta. Legalità senza sconti per nessuno, in armonia con i principi costituzionali. Abbiamo bisogno di eguaglianza. Un’Italia di eguali contro un’Italia di diseguali. - E poi ancora parole in difesa della Costituzione - La Costituzione è sotto assedio. Che fare? Resistere non basta. I magistrati non possono essere trasformati in esecutori materiali di leggi ingiuste.- Infine viene fuori il vero Ingroia - Un magistrato deve essere imparziale quando esercita le sue funzioni, e non sempre certa magistratura che frequenta troppo certi salotti e certe stanze del potere lo è, ma io confesso non mi sento del tutto imparziale, anzi, mi sento partigiano. Partigiano non solo perché sono socio onorario dell’Anpi, ma sopratutto perché sono un partigiano della Costituzione. E fra chi difende la Costituzione e chi quotidianamente cerca di violarla, violentarla, stravolgere, so da che parte stare». Insomma, parole destinate a far scalpore, ma pronunciate comunque, nonostante il pm fosse consapevole di ciò che avrebbero provocato. «Ho accettato l’invito di Oliviero Diliberto pur prevedendo le polemiche che potrebbero investirmi per il solo fatto di essere qui - ha infatti esordito il magistrato di Palermo dal palco dell’assise del Pdci - ma io ho giurato sulla Costituzione democratica, la difendo e sempre la difenderò anche a costo di essere investito dalle polemiche».
La previsione sulle critiche è stata azzeccata. Infatti, dal Pdl sono giunte affermazioni di biasimo nei confronti del reo confesso. Il capogruppo del Pdl alla Camera, Fabrizio Cicchito, ha ringraziato ironicamente il «dottor Ingroia per la sua chiarezza. Sappiamo che le vicende più delicate riguardanti i rapporti tra mafia e politica stanno a Palermo nelle mani di pm contrassegnati dalla massima imparzialità». Più dure le parole del presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri. «Sono gravi e inquietanti le parole di Ingroia che confermano l’animo militante di alcuni settori della magistratura. Da persone così invece che comizi politici ci saremmo attesi le scuse per aver fatto di Ciancimino jr una icona antimafia quando invece organizzava traffici illeciti e nascondeva tritolo in casa. Ingroia conferma i nostri dubbi. E sul caso Ciancimino dovrebbe spiegare molte cose. Porteremo questo scandalo e il suo comizio odierno all’attenzione del Parlamento dove sarà anche il caso di discutere della nostra mozione sul 41 bis che fu cancellato per centinaia di boss al tempo di Ciampi e Scalfaro e che anche ora il partito di Vendola vorrebbe abolire». «Non era mai accaduto che un magistrato in servizio, già esposto mediaticamente su più di un fronte, prendesse la parola a un congresso di partito per attaccare maggioranza parlamentare e governo. Oggi il dottor Ingroia lo ha fatto con il suo intervento al congresso dell’ultimo partito comunista rimasto,congresso che naturalmente lo ha applaudito in sfregio a qualsiasi principio di separazione dei poteri», sottolinea Giorgio Stracquadanio, deputato del Pdl. Insomma, Ingroia se lo aspettava: le sue parole avrebbe suscitato un vespaio. E così è stato.
Ma non c'è da stupirsi della partigianeria di Ingroia. Qualunque magistrato è partigiano a favore di una Costituzione "catto-comunista" che ha elevato a "dio in terra" la figura del magistrato e che l'andazzo istituzionale ha legittimato la magistratura da organo costituzionale a "Potere costituzionale", pur non avendo alcuna delega rappresentativa del potere del popolo sovrano. Nel libro, («L'uso politico della giustizia», ed. Mondadori, pag.320), tutti gli aspetti dell'anomalia italiana sono descritti da Cicchitto analiticamente: l'anomalia italiana e il sistema Tangentopoli, la Prima Repubblica e il finanziamento irregolare dei partiti, la mafia, Andreotti Falcone Violante e le cooperative rosse e bianche, Magistratura democratica, l'uso politico della giustizia e Berlusconi, Marcello Dell'Utri e la mafia, l'establishment finanziario-editoriale e i furbetti del quartierino e la Banca d'Italia. A cominciare dalla scelta fatta da Palmiro Togliatti di fare il ministro di Grazia e giustizia nel primo governo di unità nazionale: «Il segno di un'attenzione, poi risultata crescente, del Pci nei confronti degli apparati dello Stato (magistratura, polizia, carabinieri, esercito, Guardia di finanza, servizi segreti) che doveva fare il suo salto di qualità negli anni Settanta con l'azione condotta da Ugo Pecchioli e successivamente da Luciano Violante». Mentre «nella magistratura emergeva progressivamente la tendenza a una crescente conquista di influenza, di potere, di immagine nella società italiana», spinte favorite dall'ordinamento giuridico italiano che consente alla magistratura un'autonomia assoluta, e finchè nel 1964 sorge Magistratura democratica, un'associazione di magistrati dichiaratamente di sinistra e che diventa un vero e proprio soggetto politico e si collega al Partito comunista dando un colpo mortale allo Stato di diritto, fondato sulla divisione dei poteri e sulla terzietà del giudice. È in questo quadro che Cicchitto passa in rassegna la vicenda di Tangentopoli e di Mani pulite, con l'interpetrazione dominante e paradossale di opporre politici colpevoli ad imprenditori vittime, mentre le grandi imprese italiane erano tutt'altro che concusse e dal sistema di Tangentopoli traevano tutti gli utili possibili: «C'è ancora da spiegare - e Cicchitto cita Francesco Cossiga - perché la classe politica fu decimata mentre la classe imprenditoriale fu risparmiata, considerando i corrotti più colpevoli dei corruttori». Sicchè i nomi di Craxi, Forlani, Andreotti vengono cancellati dalla nomenclatura del paese, mentre Agnelli, De Benedetti, Ligresti neppure vengono sfiorati, «un colpo di Stato legale, nel senso che un ordine autonomo dello Stato, indipendente ma non sovrano, ha surrogato il potere sovrano del Parlamento, ha prevaricato gli altri poteri, ha modificato gli equilibri della vita politica democratica, ha decretato la morte di passati storici, usando come arma di giudizio storico e politico l'indagine giudiziaria».
Ma fu anche un suicidio collettivo. L'operazione contro Andreotti non riuscì soltanto per la determinazione di Luciano Violante, che arrivò a portare i «pentiti» dinanzi alla commissione parlamentare antimafia e ad interrogarli da solo e prima dei giudici, e di Giancarlo Caselli, insediatosi alla Procura di Palermo con l'aiuto di Violante, e del Pds e dello schieramento giustizialista, ma anche perché la Dc si arrese senza combattere: «Quando il fuoco fu concentrato su Bettino Craxi - ricorda Cicchitto - la Dc lo abbandonò al suo destino, ritenendo che consegnando i socialisti ad bestias, le procure si sarebbero accontentate e anzi la Dc si sarebbe liberata di un insidioso concorrente». Quando Craxi prese la parola alla Camera per spiegare il ruolo svolto dal finanziamento irregolare sul sistema dei partiti, e si poteva ancora salvare la dignità e il ruolo politico del «Parlamento degli inquisiti», il silenzio della Dc e di tutto il gruppo dirigente democristiano segnò la fine senza onore di quel Parlamento e di quel partito. E quando il centro alternativo alla sinistra postcomunista e giustizialista fu inopinatamente reinventato da Silvio Berlusconi con la fondazione di Forza Italia, il circo mediatico giudiziario, alleanza permanente fra alcuni gruppi finanziari-editoriali, un settore della magistratura e il Pds, tornò all'attacco. Berlusconi, che fino al 1993 non aveva avuto a che fare con la giustizia, ha totalizzato dal momento della sua scesa in campo circa quaranta provvedimenti giudiziaria e la Fininvest ha avuto circa quattrocento tra perquisizioni e sequestro di documenti. Ma Berlusconi, ammaestrato da quello che era avvenuto alla Dc, al Psi e ai partiti laici, non solo si è difeso nei processi, ma si è difeso anche dai processi, nel senso che ha posto dinanzi all'opinione pubblica il problema che l'azione combinata dalle procure e dalle catene editoriali e dal Pds-Ds mirava non solo a distruggerlo sul piano politico-giudiziario e sul piano aziendale-finanziario, ma anche a modificare nuovamente il sistema politico uscito dalle elezioni del '94 e a impadronirsi del potere. L'operazione non riuscì perché, diversamente da Andreotti e dalla Dc, Berlusconi ha reagito sul piano politico e mediatico e l'offensiva giudiziaria contro Berlusconi è sostanzialmente fallita su entrambi i fronti lungo i quali si era sviluppata, quelli concentrati nel tribunale di Milano e quelli riguardanti i rapporti con la mafia presso i tribunali di Palermo, Caltanissetta e Firenze: «Il teorema giudiziario secondo il quale nella nascita di Forza Italia avrebbe avuto un peso fondamentale nientemeno che l'intenzione del boss mafioso Leoluca Bagarella di dar vita, dopo la fine della Dc, a una nuova formazione politica e in questa chiave avrebbe letto l'impegno di Marcello Dell'Utri di spingere Berlusconi a fondare il nuovo soggetto politico, ha sovrapposto alla vicenda politica uno schema giudiziario del tutto distaccato dalla realtà del nuovo sistema politico italiano». Ed è sicuramente destinato a far la fine del teorema giudiziario inventato per processare Giulio Andreotti e che, non a caso, i professionisti antimafia della Procura di Palermo avevano pomposamente intitolato «La vera storia d'Italia». Il libro di Fabrizio Cicchitto, nel ricostruire minuziosamente la vera storia dell'uso politico della giustizia, ne è la migliore dimostrazione.
Vorrei farvi leggere la lettera che Ambrogio «Gino» Cartosio, un magistrato palermitano aderente alla corrente moderata di Magistratura indipendente, ha scritto ai suoi colleghi per annunciare le sue (amare) dimissioni dalla Direzione antimafia della procura dove lavora da oltre 18 anni. La lettera, che è un documento drammaticamente interessante sui metodi adottati dal Consiglio superiore della magistratura per selezionare i magistrati da promuovere a incarichi direttivi, è stata spedita il 31 luglio, dopo che il Csm aveva negato a Cartosio una promozione a procuratore aggiunto che invece gli era dovuta, ed è oggetto anche di un’intervista a Cartosio, pubblicata sul numero di Panorama in edicola il 20 agosto 2010. Per completezza d’informazione, va detto che al posto di Cartosio sono stati nominati a procuratore aggiunto di Palermo altri magistrati. I loro nomi? Antonio Ingroia, Vittorio Teresi, Teresa Principato, Antonino Gatto, Leonardo Agueci, Maurizio Scalia.
Ecco il testo della lettera scritta da Cartosio:
Cari colleghi,
sono un pubblico ministero della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, poco noto, perché ho scelto di stare lontano dai riflettori. Oggi sento il bisogno di comunicarvi due o tre cose sul mio conto. Vivo scortato dal 1993 e a causa del mio impegno antimafia non ho visto crescere i miei figli. Un paio d’ anni fa ho inoltrato domanda per uno dei sei posti di Procuratore Aggiunto di Palermo. Il Consiglio Superiore della Magistratura ha ritenuto che fossi troppo “giovane” e mi ha escluso dal lotto dei possibili vincitori. Ma il Consiglio di Stato ha stabilito che anche a me spettavano i fatidici 6 punti per l’anzianità di servizio, e ha annullato le delibere di nomina dei sei Procuratori Aggiunti.
Deliberando nuovamente nella seduta del 29 luglio (l’ultima della consiliatura), il C.S.M., – non potendo più negarmi il predetto punteggio- mi ha ridotto enormemente quello (discrezionale) relativo al merito e alle attitudini, considerandomi un magistrato largamente insufficiente (5 punti su un massimo di 12).
Siccome non
posso pensare che per 18 anni (sono entrato in Dda. nel 1992) mi sono stati
affidati compiti delicatissimi e mi si è esposto a pericoli immensi solo perché
la mia pelle è superflua, devo ritenere che tale valutazione sia profondamente
ingiusta, considerato anche il fatto che finora, ad ogni progressione di
carriera, avevo sempre riportato valutazioni estremamente lusinghiere.
Intendiamoci: io non credo che realmente il C.S.M. mi
consideri un magistrato scarso (questo stesso Consiglio, in una precedente
procedura concorsuale, per lo stesso posto, mi ha attribuito un punteggio di
merito vicino al massimo assoluto). Molto semplicemente, la mia ingombrante
presenza ostacolava la realizzazione di un piano programmato di nomine; il
raggiungimento di tale obiettivo è stato perseguito anche a costo d’ infliggermi
un’ umiliazione.
Non mi resta, comunque, che prendere atto di una decisione che mi bolla come inadeguato a ricoprire incarichi di una certa delicatezza e responsabilità.
Ritengo, pertanto, che la coerenza m’imponga di dimettermi dalla Dda e affidare alle vostre riflessioni l’intera vicenda.
Bene, a Lecce si è andati molto oltre.
«Ringrazio il Presidente della Repubblica, come cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il quale inconsciamente marciavamo. Al Presidente della Repubblica, in occasione di questa cerimonia, rivolgo un rispettoso saluto e il ringraziamento di cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il quale inconsciamente marciavamo, per averci tirato fuori dalla palude, per averci fatto svegliare da una sorta di incubo». Sono le parole con le quali il presidente della Corte d'appello, Mario Buffa, ha aperto a Lecce il 28 gennaio 2012, riferendosi alla caduta del Governo Berlusconi, la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario nell'aula magna del palazzo di giustizia di Lecce. «Per fortuna il vento sembra essere cambiato – ha proseguito Buffa: la nuova ministra non consuma le sue energie in tentativi di delegittimare la magistratura, creando intralci alla sua azione». Parole sferzanti che hanno trovato la dura replica dell’ex sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano: «Più che una relazione da inaugurazione di anno giudiziario è sembrato un comizio in stile Beppe Grillo», ha commentato l’onorevole leccese. Accesa la polemica anche sulle mancate riforme del Governo Berlusconi. Buffa, infatti, ha sottolineato positivamente il fatto che nessuna delle riforme annunciate «sia arrivata a compimento», poiché erano finalizzate «a soddisfare esigenze personali». A tal proposito il presidente ha ricordato la «legge sulla cosiddetta prescrizione breve, che avrebbe comportato l'annichilimento di un numero imponente di processi”, “il processo lungo, che serviva solo ad impedire la celebrazione di alcuni processi”, la "nuova disciplina sulle intercettazioni, che avrebbe di fatto reso impossibili alcune indagini». «Il presidente ha attaccato il precedente governo – ha replicato Mantovano – senza sottolineare quanto di buono è stato fatto, come il codice antimafia. Giudice dovrebbe occuparsi delle leggi emanate e non di quelle mancate».
Essere il megafono delle procure e lo zerbino del potere politico ed economico spesso non paga.
L'inchiesta archiviata, per cui Paolo Pagliaro, editore di Telerama, aveva querelato il Tacco d'Italia di Lecce, ricostruiva brevemente una vicenda che anni fa aveva sollevato un polverone nell'opinione pubblica leccese e occupato non poche pagine di giornali. Riguardava i soldi dati dalla Provincia di Lecce (Giunta Giovanni Pellegrino) con affidamento diretto a Telerama, per la messa in onda di varie campagne promozionali. Parlava anche del meccanismo con cui vengono stilate le graduatorie per l'attribuzione alle televisioni locali, dei finanziamenti pubblici ai sensi della legge 448/98, spiegando il meccanismo perverso con cui è sufficiente dichiarare di essere in regola con il versamento dei contributi previdenziali ai dipendenti, anche se in regola non lo si è, per poi ricevere i soldi pubblici e sanare il proprio debito con gli Istituti di previdenza con gli stessi finanziamenti ricevuti. Parlava infine di altre cosucce relative all'occupazione delle frequenze Rai riscontrata e denunciata dalla stessa emittente statale.
Per questo si ha clamorosa conferma la notizia del Corriere della Sera del 1 luglio 2011: Dichiarazioni fasulle per i contributi. Sequestro di 900mila euro a Studio 100 tv.
Le domande non veritiere sarebbero del 2005 e 2006. Dei 31 giornalisti, 12 non avrebbero svolto attività tv.
Nel chiedere i contributi relativi agli anni 2005 e 2006, aveva reso false dichiarazioni in ordine al numero di addetti all’attività televisiva, incrementandolo in maniera artificiosa e ottenendo un maggiore ed immeritato punteggio. Così la società proprietaria dell’emittente televisiva Studio 100 tv, che ha la sede sociale a Taranto, ha subìto un sequestro di circa 900mila euro dalla Guardia di finanza di Taranto. Grazie a quelle false dichiarazioni, infatti, avrebbe beneficiato indebitamente dei contributi pubblici erogati tramite il Corecom Puglia. Il provvedimento riguarda quote societarie, conti correnti, depositi bancari, beni mobili ed immobili. Dagli accertamenti è emerso che i dipendenti impiegati in attività televisiva non erano 31 come esposto nelle domande di contribuzione. Di questi, infatti, 12 non avrebbero svolto attività prettamente televisiva in quanto occupati in un’altra attività svolta dalla società proprietaria della rete televisiva, ovvero la rilevazione e il censimento della cartellonistica pubblicitaria sulle strade provinciali di Taranto.
E dire che proprio su Studio 100 si tenne una trasmissione: I CONTRIBUTI ALLE TV LOCALI: DENUNCIATE IRREGOLARITA’.
Il 12 settembre 2008, un'ora e mezzo di trasmissione in diretta sulla tv tarantina Studio 100, per l'occasione collegata con le emittenti Canale 7, Telebari e Teleonda Gallipoli. Argomento: la ripartizione - da parte del Corecom - dei contributi pubblici all'emittenza privata, previsti dalla legge 448 del 98. Nel corso della diretta - condotta dal direttore Walter Baldacconi con tre ospiti, due avvocati e l'editore di Canale 7, Gianni Tanzariello - una circostanziata denuncia. 13 emittenti pugliesi, su 42 ammesse ai contributi, avrebbero prodotto - in autocertificazione - documentazione non rispondente al vero in merito alla regolarità dei contributi versati all'Enpals per i lavoratori dipendenti. Ancora da accertare le posizioni con Inps e Inpgi. L'anno di riferimento è il 2006. Il puntuale versamento dei contributi previdenziali, costituisce condizione vincolante all'erogazione delle provvidenze pubbliche in questione. La denuncia è oggetto di interrogazione parlamentare del senatore di AN, Adriana Poli Bortone, che - collegata in diretta nel corso della trasmissione - ha ribadito la sua ferma intenzione di voler andare fino in fondo, nell'interesse di tutti. Nel corso del dibattito televisivo è emerso un altro dato: se quelle tv non sono in regola, non potranno sanare a posteriori la loro inadempienza. E’ al momento della richiesta del contributo che bisogna avere i titoli, come prevede la legge. Se è vero che il Corecom è tenuto ad accettare per buona l'autocertificazione sostitutiva, è altrettanto vero che quando questa dovesse risultare non veritiera - come pare nel caso di specie – sarà il ministero, erogante il contributo, a sospendere la procedura, e pare che questo stia già accadendo, con una prima richiesta di chiarimenti agli interessati.
A tanta meticolosità si contrappone l'inchiesta sulle baronie baresi. Dalla redazione di "Repubblica" di Palermo per svelare verità taciute dalle redazioni dei giornali pugliesi. "L'università affare di famiglia. A Bari mogli e figli in cattedra" di Attilio Bolzoni.
PERO' SE SI DENUNCIANO ERRORI DEI MAGISTRATI: SCATTA LA REAZIONE.
Si sono concluse il 5 aprile 2008 le perquisizioni operate dalla Polizia nella sede di Telenorba, a Conversano, in provincia di Bari, nell'ambito delle indagini sull'omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher e sulla trasmissione 'Il Graffio', che lunedì sera ha mostrato le immagini girate dalla Polizia Scientifica subito dopo il ritrovamento del corpo della vittima. Secondo quanto si apprende, oltre a un'indagine della procura del capoluogo umbro per violazione della privacy (sarebbero indagati il direttore responsabile della testata giornalistica e conduttore della trasmissione Enzo Magistà e un altro giornalista impegnato in alcuni servizi per 'il Graffio'), sarebbe stata aperta un'azione penale anche da parte della Procura di Bari per pubblicazione di atti osceni (articolo 528 del Codice Penale).
QUESTIONE MORALE IN SALENTO ?
SALENTO MASSONE
Ora, qui sta il nodo centrale del problema massoneria, tra gli iscritti alla massoneria esiste un giuramento di fedeltà che li porta ad aiutarsi l’un l’altro. Questo è il nodo cruciale del problema massonico: è possibile che un pubblico ufficiale o un funzionario statale siano servitori dello stato ma, contemporaneamente, prestino fedeltà ad un’istituzione non statale? Il tema, ovviamente, è tutto da approfondire, perché ovviamente i più alti esponenti della massoneria negano che il loro giuramento di fedeltà prevalga sulle leggi dello stato. Ma, francamente, quando in una loggia coperta operano mafiosi, esponenti dei servizi segreti, imprenditori, e politici, c’è perlomeno da dubitare di queste affermazioni di lealtà allo stato. Occorre inoltre tenere presente una cosa che pochi sanno; all’interno la massoneria ha i propri tribunali, organizzati in tre gradi proprio come avviene nell’ordinamento giudiziario italiano.
All'interrogativo se Stato, mafia, massoneria siano divenuti una "cosa sola" è pertanto legittimo rispondere che sono divenuti parte di un unico sistema, attraverso il quale si riproduce il controllo capillare del territorio e delle logiche di governo delle istituzioni democratiche, soffocando in radice la legalità e ogni anelito di giustizia. Tale concezione paradigmatica costituisce una nuova prospettiva teorica per analizzare il fenomeno mafioso e il degrado delle istituzioni, fornendo una chiave per realizzare un mutamento epocale dei rapporti tra governati e governanti. E' indubbio che a taluni potrà risultare ostico digerire che Stato, mafia e massoneria si siano coesi, tanto da fare parte di un unico sistema di malaffare criminale. In specie, per chi vive troppo lontano - o troppo vicino - all'agone politico e giudiziario, subendone il retaggio e rimanendo, in entrambi i casi, vittima di un distorto senso dello Stato e di una cultura dogmatica delle istituzioni che, nell'accezione più diffusa e non condivisibile, "vanno difese ad oltranza e a qualsiasi costo per non pregiudicare i cardini dello Stato di diritto e le basi sociali della pacifica convivenza". In verità, così facendo, si ottiene l'effetto opposto di distruggere nei cittadini il senso di appartenenza e di identificazione nello Stato. Si distrugge la credibilità delle istituzioni e della magistratura, alimentando la storica diffidenza dei cittadini verso il potere. D'altronde, l'esistenza di una "cupola mafiosa" che controlla anche la vita giudiziaria, da sud a nord del Paese, in grado di neutralizzare il lavoro dei magistrati onesti, non è frutto di illazioni o di mere ipotesi sociologiche, bensì il risultato di approfondite indagini a cui sono approdati, ancora prima del P.M. di Catanzaro, Luigi De Magistris, il Procuratore Antimafia di Reggio Calabria, Salvo Boemi e il suo sostituto Roberto Pennini e l'ex Procuratore di Palmi, Agostino Cordova.
I primi, denunciarono, ripetutamente, in alcune interviste a Panorama e L'Espresso, tra il 1995 e il 1998, di essere stati abbandonati e boicottati dal C.S.M. e dallo Stato, in quanto ritenuti "rei" di "non essersi accontentati di colpire il braccio militare della ‘ndrangheta" e di "avere denunciato i magistrati massoni che a Reggio Calabria avevano deciso di mettere una pietra sui processi anticosche". In proposito, il Dr. Boemi racconta a Panorama: "come dopo lo scandalo della P2, nella massoneria fossero incominciati ad entrare i parenti stretti dei magistrati (i quali volevano evitare in tal modo un coinvolgimento diretto) e come le logge avessero sempre contrattato a Roma chi dovessero essere i capi degli uffici giudiziari", aggiungendo, infine, di essere scampato a un attentato alla sua vita, solo grazie alle rivelazioni di un pentito (Panorama 21.9.95 e L'Espresso 16.7.98).
A tal proposito si presenta "Salento massone". Il libro di Mario De Marco fa i nomi di tutti i frequentatori di logge in provincia. L'organizzazione massonica è piramidale. Ogni loggia è presieduta da un Maestro Venerabile. I primi tre gradi della massoneria sono apprendista, compagno e maestro. I riti di perfezionamento prevedono altri gradi successivi. Nel dicembre del 2007 Mario De Marco ha pubblicato per "Il Grifo" il saggio "Profili bibliografici di massoni salentini", che segue la pubblicazione del saggio "Storia della Massoneria di Terra D'Otranto". Per la prima volta vengono resi pubblici i nomi dei massoni salentini, grazie ad un lavoro di ricerca effettuato su documenti di prima mano. Sono massoni soprattutto di Palazzo Giustiniani, ma non mancano riferimenti ad alcuni appartenuti all'obbedienza di Piazza del Gesù. Al "Tacco d'Italia" lo storico della massoneria ha svelato alcuni aspetti della fratellanza, poiché "la massoneria è occulta solo per chi non si sforza di sapere".
Dott. De Marco, quando nasce la massoneria in provincia di Lecce?
«La massoneria
regolare nasce nel 1717 in Inghilterra. Nel XVIII secolo si diffonde in Europa e
nel resto del mondo, poiché veicola principi comuni all'Illuminismo. La
compatibilità della fede con la ragione. L'uguaglianza di opportunità
economiche, di razza, di genere e di religione.
Nel 1864 viene costituita a Lecce la prima loggia, intitolata a Mario Pagano.
Nel 1866 a Gallipoli nasce la loggia ‘Tommaso Briganti', per opera del patriota
Giuseppe Libertini. Chiunque può conoscere i rapporti che la massoneria ha con
le altre massonerie, con le Istituzioni e la Chiesa attraverso la rivista Hiram
o l'agenzia Erasmo. La massoneria è una organizzazione trasparente e apre i suoi
templi al pubblico con mostre o conferenze. Il Tempio di Lecce è in piazzetta
della Luce, al civico 2».
Quante logge si contano oggi nel Salento?
«In Lecce vi sono 15 logge. Un'altra è a Gallipoli. Sette logge appartengono al G.O.I. (Grande Oriente d'Italia)».
Come è organizzata una loggia al suo interno?
«In modo piramidale. Il vertice provinciale è il Collegio dei Maestri Venerabili. La singola loggia è presieduta da un Maestro Venerabile. I primi tre gradi della massoneria sono quelli di apprendista, compagno e maestro. I riti di perfezionamento prevedono altri gradi successivi».
Come si svolgono gli incontri?
«I "lavori" delle logge massoniche si aprono apponendo squadra e compasso sulla Bibbia. In particolare sul Vangelo di San Giovanni, il Vangelo esoterico, poiché più ricco di significati e di simboli. Nelle riunioni sono discussi argomenti di carattere morale. A turno i fratelli trattano un argomento. Un fratello espone un'opinione e gli altri ascoltano in silenzio. Il massone deve fare il silenzio interiore. L'apprendista non può prendere la parola. Presso gli antichi gruppi iniziatici Pitagora dovette stare zitto sette anni. Se qualcuno decide di intervenire, deve chiedere il permesso al Maestro Venerabile. Il Maestro Oratore trae le conclusioni e presiede al rispetto dei regolamenti. I fratelli più anziani valutano il livello di crescita del fratello. Non prevale una idea. Ma è proposta una idea ed è lasciato agli altri di fare le loro personali considerazioni».
In che modo si differenziano le logge tra loro?
«Hanno ciascuna un proprio taglio particolare. A Lecce vi sono logge filosofiche o esoteriche. Vi è la Loggia Mozart che lavora con la musica, perché ritiene la musica strumento utile per la meditazione. Mozart, Bach o Sibelius erano massoni ed hanno composto brani per i lavori in loggia. Inoltre, la loggia madre ‘Liberi e Coscienti' si sofferma su aspetti libertari e civili, usando la musica. I Fratelli della massoneria regolare leccese, ogni volta che il Tempio termina i propri lavori, donano danaro al tronco della beneficenza. La beneficenza arriva ai destinatari, poiché, se qualcuno fa il furbo, la giustizia massonica è cento volte più severa di quella di un tribunale civile».
Che cosa si fa per entrare nella massoneria?
«Bisogna esibire i documenti del casellario giudiziario e della Procura della Repubblica qualora vi siano dei procedimenti penali in corso. Poi si è sottoposti a diverse prove. Infine, si deve giurare fedeltà allo Stato, alla Costituzione e alle leggi che ad essa si conformano, nonché rispettare le norme ed i principi della massoneria regolare».
Tutte le logge sono segnalate o ce ne sono di clandestine?
«Gli elenchi massonici sono depositati presso la Procura della Repubblica. In provincia di Lecce vi sono logge regolari. Tuttavia, vi sono anche logge sedicenti massoniche che scimmiottano la massoneria, ma che nulla hanno a che fare con la massoneria regolare. Massoni millantatori pensano che entrando in massoneria si diventa ricchi e potenti. Le logge irregolari non seguono né i principi morali né quelli costituzionali massonici. Vi sono massonerie anche nell'ambito della Chiesa. L'Opus Dei ha una organizzazione ramificata, e molto riservata riguardo all'identità degli aderenti, le finalità e le attività».
SALENTO MAFIOSO
Con la locuzione Sacra corona unita si indica un'organizzazione mafiosa che ha il suo centro in Puglia e che ha trovato negli accordi criminali con organizzazioni dell'est europeo la sua specificità per emergere e distaccarsi dalle altre mafie italiane.
Ha raggiunto il suo apice tra la fine degli anni ottanta e l'inizio degli anni novanta del secolo scorso; successivamente all'intervento dello Stato, e a un gran numero di arresti, è stata notevolmente indebolita e marginalizzata.
Il nome di questa organizzazione è formato da 3 parole:
· Sacra: poiché quando si affilia un nuovo membro all'organizzazione questo viene "battezzato" o "consacrato", come un sacramento religioso;
· Corona: poiché nelle processioni si usa il rosario (o "corona");
· Unita: come sono uniti e forti "gli anelli di una catena".
Affiliazione
« Giuro su questa punta di pugnale bagnata di sangue, di essere fedele sempre a questo corpo di società di uomini liberi, attivi e affermativi appartenenti alla Sacra Corona Unita e di rappresentarne ovunque il fondatore, Giuseppe Rogoli »(1. Giuramento)
« Giuro sulla punta di questo pugnale, bagnato di sangue, di essere fedele a questo corpo di società formata, di disconoscere padre, madre, fratelli e sorelle, fino alla settima generazione; giuro di dividere centesimo per centesimo e millesimo per millesimo fino all’ultima stilla di sangue, con un piede nella fossa e uno alla catena per dare un forte abbraccio alla galera. »(2. Giuramento)
« Giuro su questa punta di pugnale bagnata di sangue, di essere fedele sempre a questo corpo di società di uomini liberi, attivi e affermativi appartenenti alla Sacra Corona Unita e di rappresentarne ovunque il Santo, San Michele Arcangelo »(3. Giuramento)
La SCU è divisa in 47 clan, autonomi nella propria zona ma tenuti a rispettare interessi comuni a tutti i circa 1.561 affiliati della Sacra Corona Unita. Si tratta quindi di un'organizzazione orizzontale per molti versi simile a quella della 'Ndrangheta.
Gerarchia
Il primo grado è la "picciotteria", il successivo il "camorrista", cui seguono sgarristi, santisti, evangelisti, trequartisti, medaglioni e medaglioni con catena della società maggiore.
Otto medaglioni con catena compongono la "Società segretissima" che comanda un corpo speciale chiamato la "Squadra della morte".
Bisogna specificare che questa piramide di ruoli ha un valore soprattutto simbolico: spesso il potere detenuto dal singolo affiliato non corrisponde in realtà alla sua posizione nella gerarchia formale.
Origini
La mafia pugliese non ha mai avuto un legame perverso e viscerale con il territorio. È, perciò, marginale e debole, a differenza di Cosa nostra, della 'Ndrangheta e della Camorra che presentano un radicamento sul territorio ormai secolare.
Nel 1981 il boss camorrista Raffaele Cutolo, affidò a Pino Iannelli e Alessandro Fusco il compito di fondare in Puglia un'organizzazione diretta emanazione della Nuova camorra organizzata che prese il nome di Nuova camorra pugliese (Società foggiana). Questa associazione prese piede soprattutto nel foggiano a causa della vicinanza territoriale e dei contatti preesistenti tra esponenti della malavita locale e i camorristi campani. Tuttavia questa iniziativa venne vista con sospetto dai malavitosi di altre zone della Puglia. Come risposta al tentativo di Cutolo di espandersi in Puglia, si tentò di dar vita ad un'associazione malavitosa di stampo mafioso formata da esponenti locali. Si ritiene che la Sacra Corona Unita sia stata fondata da Giuseppe Rogoli nel carcere di Trani la notte di Natale dell'anno 1981. Giuseppe Rogoli era già affiliato alla 'Ndrangheta (nella 'ndrina dei Bellocco di Rosarno) e chiese il permesso al capobastone Umberto Bellocco di formare una 'Ndrangheta Pugliese. Nel 1987 Rogoli affidò a Oronzo Romano la costituzione di un'altra 'ndrina nel sud barese, sempre con il consenso della 'Ndrangheta. L'attività di gestione degli enormi flussi di denaro derivanti dalle attività illecite fu affidata a Cosimo Screti boss di San Pietro Vernotico che fu per questo motivo soprannominato "il cassiere" dalla Direzione Investigativa Antimafia. Il braccio destro di Rogoli fu Antonio Antonica, primo affiliato di Rogoli a causa dell'antica amicizia nonché personaggio di spicco della malavita mesagnese. A causa dello stato di detenzione di Rogoli, Antonio Antonica era stato nominato responsabile unico delle attività illecite che si svolgevano nell'area brindisina. Antonica ebbe il compito anche di nominare alcuni capi zona della provincia di Brindisi. Con le prime scarcerazioni il numero degli affiliati aumentò e ognuno pretendeva la sua parte di guadagno. Antonica sentiva il peso dell'organizzazione tutto sulle sue spalle ed ebbe una discussione con Rogoli che gli negò il permesso di trafficare droga. Antonica, così, preferì abbandonare Rogoli e creare un clan contrapposto. Questo comportò l'inizio di una guerra lunga tre anni di conflitti e sgarri che portò alla sua uccisione.
Proliferazione
Iniziò la rifondazione della Sacra Corona Unita partendo dalle modalità di affiliazione, con regole più rigide e severe. Così nel carcere di Trani nacque la Nuova Sacra corona unita il cui statuto sarebbe stato firmato oltre che da Rogoli, da Vincenzo Stranieri di Taranto e da Mario Papalia legato a Cosa nostra. Nel 1987 la Sacra Corona Unita era composta dalle famiglie più rappresentative del brindisino guidate da Salvatore Buccarella, Giovanni Donatiello, Giuseppe Gagliardi e Ciro Bruno e da qualche propaggine nella provincia di Taranto. Alla lunga proprio il gran numero di cosche contribuirà ad un altro periodo di tensione all'interno dell'organizzazione tra brindisini e leccesi. Lo schieramento brindisino della Sacra corona unita, con Salvatore Buccarella e Giovanni Donatiello, è stato quello che dimostrò nel corso degli anni una maggiore compattezza, finché non è stato colpito da una pesante offensiva giudiziaria.
Ultimi anni
Negli ultimi anni sono emersi numerosi nuovi personaggi, dai soprannomi coloriti, che hanno concentrato sul racket, sul contrabbando di sigarette e sulla droga, le principali attività criminali. Alcuni di loro hanno fondato la Sacra Corona Libera. La Sacra Corona Libera, formata da esponenti già appartenuti alla Sacra Corona Unita. Nasce a causa di contrasti con i vertici della SCU e propone alcune differenze: l’uso di minorenni e l'abolizione dei riti d'iniziazione.
SALENTO MAFIOSO E MASSONE. A CHI CREDERE ??
Ma cosa centra la massoneria con gli scandali giudiziari a Lecce?
Intanto Tonio Tondo sulla Gazzetta del Mezzogiorno ne parla. E non solo lui. La massoneria leccese si chiama fuori. Con noi, è il messaggio, Massimo Buonerba non ha nulla a che fare. A sottolinearlo è Alfredo Bruni, dignitario del Grande Oriente, uno dei fondatori della loggia “Giuseppe Libertini”, la più antica. «A me - dice Bruni - risulta che nelle liste delle logge di Lecce e, ovviamente, del Grande Oriente d’Italia, come ha detto il gran maestro, il nome di Massimo Buonerba non c’è». Ma a Lecce sono otto le logge. L’ex consulente giuridico di Adriana Poli Bortone potrebbe far parte di una di queste. «Parlo anche a nome degli altri - ribatte Bruni - nei nostri elenchi Buonerba non c’è mai stato». A Bruni non sono piaciuti i continui riferimenti alla massoneria apparsi nelle cronache sull’inchiesta per il mega appalto del filobus. «Noi - chiarisce - operiamo per l’elevazione morale e spirituale dell’uomo e non per coltivare gli affari di qualcuno. Le nostre finalità sono filosofiche e umanitarie e non finanziarie». Bruni, che cura anche un sito della «Libertini», è sostenitore della Massoneria senza veli e senza segreti. Ma sono tanti i gruppi in Italia e in Europa che si muovono nell’universo della fratellanza massonica. Buonerba potrebbe essere un massone «spurio», inserito o collegato a logge diverse da quelle che hanno affidato a Bruni la dichiarazione di presa di distanza. E’ Giorgio Zoboli, imprenditore di Bologna e buon amico di Buonerba, a rivelare di far parte della «loggia nazionale massonica francese». Questo riferimento apre uno squarcio importante. Un nome ricorrente nelle telefonate tra lo stesso Zoboli, Giordano Franceschini, l’ingegnere progettista dell’opera da 23 milioni e collettore delle tangenti, e il professore leccese, è Spartaco Mennini, morto a giugno scorso. Mennini è stato un importante esponente della massoneria, per anni, a cominciare dal 1976, segretario del Grande Oriente con il gran maestro Salvini e confermato poi con il gran maestro Baldelli. Uscì dal Grande Oriente dopo lo scandalo della P2 e aderì alla Grande Loggia di Francia. Mennini, socialista, buon amico di Francois Mitterand, presidente della Repubblica francese, ha sempre considerato la bufera sulla loggia Propaganda due e sul maestro venerabile Licio Gelli una montatura colossale. La P2, per lui, «era solo una volgarissima lobby d’affari» e non un pericolo per la democrazia italiana. Buonerba ci tiene a Mennini; si preoccupa anche del suo umore, e in una telefonata con Franceschini si mostra ansioso: «...mi ha mandato un messaggio Spartaco un po’ freddino...ma come stanno le cose con Spartaco?». Mennini è persona attiva, malgrado l’età vicina agli 80 anni. Zoboli parla al telefono con il figlio dei suoi interventi per alcuni appalti in un ospedale di Bologna.
Attorno ai soldi del filobus si muovono quindi personaggi di varia natura, con legame massonico. I magistrati sottolineano che «i principali indagati sono legati tra loro da una fitta rete di relazioni e da una molteplicità di contatti con soggetti ben inseriti nel tessuto sociale, istituzionale ed economico di riferimento, taluni dei quali in ciò agevolati anche e soprattutto per la loro adesione ad ambienti della massoneria». A sottolinearlo è lo stesso Franceschini quando sostiene che il vincolo massonico tiene insieme Zoboli, Buonerba e Balli, il professore di meccanica applicata morto nel 2010. Buonerba coltiva rapporti con personaggi controversi e sempre alle prese con problemi giudiziari. Personaggi che animano l’ampia zona grigia che vede capitali italiani inabissarsi e poi riemergere in Svizzera. Uno di questi è Federico De Vittori, affarista ticinese, al quale il professore di diritto consegna 147mila euro da trasferire sui suoi conti elvetici nelle banche Pkb e Kbl. De Vittori gestiva a Lugano una società di consulenza internazionale su società e conti offshore. Ma filiali del suo piccolo impero erano nate, molte sulla carta, a Roma, Londra, Lussemburgo, Marbella, Milano, ed anche a New York. Era stato accostato ad un’oscura vicenda e all’inchiesta seguita alla scomparsa, avvenuta nel 2006, di Gianmario Roveraro, grosso esponente della finanza cattolica, il cui cadavere fu poi trovato in provincia di Parma con la testa mozzata. Le prime telefonate di Roveraro, probabilmente rapito, arrivarono al cellulare di De Vittori. Il finanziere chiedeva, inutilmente, lo sblocco di 10 milioni di euro, poi alla fine di un milione. L’affarista di Lugano tentò l’operazione, ma i soldi furono bloccati.
De Vittori è un faccendiere fortemente a rischio, lo sanno tutti nel mondo finanziario di Lugano, ma Buonerba non si preoccupa e si affida comunque alla sua opera. Siamo a dicembre del 2010 e il movimento dei soldi, che gli inquirenti ritengono provenienti dall’appalto del filobus, tra De Vittori e la sua segretaria con Angelo Ferrari, un altro spallone, viene ricostruito con precisione dalla guardia di finanza. Il professore non si preoccupa neanche dei precedenti giudiziari del ticinese che il due luglio 2010 era stato arrestato con l’accusa di appropriazione indebita, amministrazione infedele e truffa. La procura elvetica gli contestò di aver utilizzato i depositi dei clienti per sanare debiti della sua società. In questo mondo Buonerba aveva sviluppato le sue relazioni per nascondere circa tre milioni, fondi neri tutti nella sua disponibilità ma forse destinati alla politica.
IL VASO DI PANDORA
"Spese personali e per An, così pagavo le tangenti". Da “La Repubblica”. Un'opera da 25 milioni e ancora non entrata in funzione. Sullo sfondo un giro di mazzette e conti svizzeri. Il docente arrestato incastra il consulente della senatrice Poli Bortone. Coinvolti anche esponenti di logge massoniche alle quali aderivano i professionisti.
"Buonerba continuava a sollecitarmi il versamento di somme di denaro per esigenze personali, ma anche per le spese elettorali del gruppo di An di cui faceva parte". Le dichiarazioni fatte dal professore universitario di Perugia Giordano Franceschini, ai magistrati della Procura di Lecce, aprono nuovi scenari nell'inchiesta sul filobus. Il finanziamento illecito ai partiti diventa una traccia da seguire. E la possibilità che qualche nome importante della politica salentina possa essere coinvolto nella vicenda, diventa molto più che un'ipotesi. L'inchiesta che conta già 11 nomi iscritti nel registro degli indagati, infatti, è lontana dalla conclusione. Gli arresti del progettista del filobus, Giordano Franceschini, e del consulente giuridico dell'ex sindaco di Lecce Adriana Poli Bortone, Massimo Buonerba, accusati il primo di truffa aggravata e il secondo di concussione, sono stati uno spartiacque importante. La svolta che ha consentito alla Procura salentina di imprimere un'accelerazione fondamentale. Le dichiarazioni di Franceschini, in particolare, hanno contribuito a definire con precisione il sistema di illeciti che si sarebbe consumato all'ombra di un'opera imponente, costata 25 milioni di euro e non ancora entrata in funzione, a sette anni dall'avvio del progetto. Il professore ha spiegato di avere versato a Buonerba circa 600.000 euro, dal 2005 al 2009, per far sì che l'Ati (costituita dalla Sirti e dalla Imet) di cui faceva parte ottenesse l'appalto del filobus e per cercare di ottenere in seguito incarichi remunerativi in altre città d'Italia. "Fu concordato tra me e Buonerba il versamento di un importo - recita il verbale di interrogatorio di Franceschini - . Ho continuato a versare le somme di denaro, quelle successive al primo importo di 186.000 euro, sino all'estate del 2009, solo in quanto sollecitato da Buonerba, che mi riferiva di sopravvenute esigenze personali, quale quella di rifare i bagni di casa, oppure le spese connesse alla partecipazione elettorale al gruppo di An, di cui lo stesso faceva parte". E se le mazzette al consulente della Poli venivano pagate a detta del professore perugino "nella speranza di ottenere altri incarichi di progettazione, anche fuori da Lecce", altri dazi sarebbero stati versati a diversi personaggi, entrati a vario titolo nel grande affare del filobus. I loro nomi è sempre Franceschini a farli durante gli interrogatori, al cospetto del procuratore Cataldo Motta e dell'aggiunto Antonio De Donno, spiegando che il pagamento di somme di denaro era il corrispettivo per l'aiuto fornito da tali soggetti affinché anche il progettista potesse mangiare una fetta della torta della filovia. Le dichiarazioni del professore sono state riscontrate grazie ai file trovati nel suo computer, nei quali sono annotate tutte le dazioni di denaro con i rispettivi beneficiari, indicati con gli pseudonimi di "aroldo", "omone", "pomodorone", "gambadilegno", "boiachimolla". Nei supporti informatici sequestrati a Franceschini, inoltre, sono stati trovati documenti in cui vengono riepilogate le movimentazioni dei due conti svizzeri riconducibili a Buonerba, uno da 2 milioni di euro e l'altro da 800.000, aperti a partire dal 2000, presso le banche Kbl e Pkb di Lugano. Proprio da quei conti sono partiti gli accertamenti della magistratura elvetica, rappresentata dal procuratore federale Pierluigi Pasi, che ha cercato diverse volte di interrogare Buonerba, ottenendo diversi rifiuti e la comunicazione che il consulente risponderà alle domande solo se sarà convocato in Svizzera. Una possibilità, al momento, da escludere, alla luce del fatto che Buonerba si trova nel carcere leccese di Borgo San Nicola, dove è stato sentito dal gip che ne ha disposto l'arresto, limitandosi a negare di avere preteso soldi da Franceschini per agevolarne il lavoro. Poche dichiarazioni, che certo non bastano per chiarire una vicenda che potrebbe celare diversi illeciti. Ad adombrare tale possibilità è lo stesso gip Antonia Martalò, che, nell'ordinanza di custodia cautelare, esorta gli inquirenti ad approfondire l'impianto accusatorio relativo all'ipotesi di associazione a delinquere, ritenendo che vada supportato da altri elementi. Il giudice non nega l'esistenza "di una fitta rete di relazioni e rapporti tra gli indagati", alcuni dei quali legati dalla comune appartenenza alla massoneria, né "il comune interesse a sottrarre agli accertamenti giudiziari i conti svizzeri di Buonerba". Anzi, proprio da tali evidenze, ritiene che si possa desumere l'esistenza di un sodalizio criminoso finalizzato alla truffa, corruzione e riciclaggio. Tuttavia, scrive ancora il gip, "non è chiaro il ruolo di ciascuno" né quello di "altri eventuali indagati". L'inchiesta, insomma, è ben lontana dalla conclusione. Le indagini della finanza prima e le dichiarazioni di Franceschini poi, hanno scoperchiato un calderone dal quale potrebbe venire fuori di tutto. Anche nomi di insospettabili, interni al Comune di Lecce.
Ovvero di quelle persone "non estranee all'amministrazione comunale" che, dice la Procura, si sarebbero spartite i proventi di alcune attività illecite connesse alla realizzazione del filobus.
Dalla Gazzetta del Mezzogiorno si scopre che non solo «Boiachimolla», al secolo Massimo Buonerba. Compare una fila di questuanti, avidi e insistenti, al bancomat dell’appalto da 23 milioni per il filobus: ciascuno con il desiderio di intascare la sua tangente. E spuntano episodi ed epiteti, dietro i quali si potrebbero intravedere volti e personaggi: «Omone», «Gambadilegno» e per finire «Pomodorone», del quale si conosce già il nome, Raffaele Balli, docente di meccanica applicata all’università di Perugia, morto nel 2010, nome fatto da Giordano Franceschini che si considera suo discepolo alla facoltà di ingegneria («Gli ho corrisposto 140mila euro per l’interessamento che lui aveva sempre dimostrato nei miei confronti»). E’ sempre Franceschini a parlare e a riempire la scena dell’appalto con volti e nomi di copertura, tutti impegnati - secondo la ricostruzione - a ottenere una parte del bottino. E’ sull’asse Perugia-Lecce che viaggia la maggior parte dei soldi, più di un milione stando ai conteggi analitici e puntuali della Guardia di finanza e dello stesso Franceschini. E così, come accadde con lo scrigno di Pandora, dalle parole e dai computer dell’ingegnere escono continuamente nuove sorprese. Una miniera elettronica di numeri, nomi, riepiloghi, date, ed anche di modalità dei pagamenti, spesso in contanti, nel tentativo di far perdere le tracce ai flussi di denaro. Una parte dei soldi, quindi, sarebbe stata destinata a «Omone» e «Gambadilegno», nomignoli dietro i quali si potrebbero nascondere personaggi dell’amministrazione comunale. Con questa ipotesi, il municipio, nell’«era di Buonerba», durata circa 10 anni, potrebbe rivelarsi sempre più luogo di transazioni grigie e parallele ai livelli istituzionali. “Omone” e “Gambadilegno” potrebbero essere persone particolarmente vicine a Buonerba, assurto a factotum e ideatore di finanziamenti, appalti e reti di fruitori. Franceschini chiarisce ogni punto relativo al movimento dei soldi dopo l’aggiudicazione dei lavori all’associazione di imprese capeggiata dall’Imet spa di Perugia. L’ingegnere progettista si rivela un collettore e un distributore con pochi margini di manovra. A leggere le sue dichiarazioni emerge una leggerezza del personaggio, come se avesse aspettato questa occasione da una vita. Singolare la sua ammissione: «Per quanto riguarda “Omone”, cui risulta aver io versato complessivamente 130mila euro, si tratta di soggetto che non ho mai conosciuto direttamente; infatti mi limitavo a consegnare le somme di denaro a Faccendini, socio di maggioranza della società Imet. Faccendini mi chiedeva il pagamento di dette somme facendo leva sul fatto che ero stato nominato progettista...». Luigi Faccendini è il cofondatore della Imet, nata nel 1981 per operare nel campo delle telecomunicazioni e poi cresciuta fino a fatturare 100 milioni nel 2010 nei settori delle metropolitane di superficie e delle energie alternative. «Siamo passati da società di installazione a società di ingegneria», disse con enfasi nel 2006. I 130mila euro si riferiscono - in base a quanto ha chiarito lo stesso Franceschini - «esclusivamente ai lavori del filobus di Lecce come tutte le annotazioni del documento che riguardano “Gambadilegno”, “Omone”, “Pomodorone” e “Boiachimolla”».
“Omone” e “Gambadilegno”, come lo stesso Buonerba, avrebbero bussato continuamente alla porta di Franceschini, non gli avrebbero dato tregua, fino a quando i soldi pattuiti non finivano nelle loro tasche. Lo stesso Faccendini, che pure è uomo forte dell’Ati e che quindi tranquillamente poteva contare sui soldi dell’appalto, avrebbe beneficiato - sempre in base alle dichiarazioni di Franceschini - di somme di denaro versate dall’ingegnere. «Nel file - dichiara ai magistrati - che ho denominato Persy l’ho indicato come “Aroldo”». Un’altra imposizione che Franceschini avrebbe subito e accettato per ottenere l’incarico di progettista dell’opera. «L’avrei fatto anche gratis», confessa agli inquirenti. Il ruolo di distributore di tangenti quindi l’ha svolto «nell’ambito di accordi che portarono all’assegnazione a me del progetto per la realizzazione del filobus». Condizione imposta dallo stesso Faccendini. Buonerba con “Omone” e “Gambadilegno” emergono come una combriccola unica e distinta. Ciascuno fa riferimento allo stesso bancomat, ma con prelevamenti distinti. Ma se “Omone” - in base alla ricostruzione del progettista - incassa 130mila euro tramite Faccendini, come e quanto avrebbe incassato “Gambadilegno”? Forse la stessa somma di 130mila euro, forse di più in base ai conteggi partendo dal milione finora emerso dai pagamenti con destinazione conti svizzeri di Buonerba e delle tangenti agli altri due leccesi. Al professore vengono contestati circa 660mila euro, il resto quindi potrebbe costituire il malloppo di “Omone” e “Gambadilegno”. Di quei soldi, manco a parlarne. Erge un muro, attorno ai conti svizzeri, il professore Massimo Buonerba, l'ex consulente dell'allora sindaco Adriana Poli Bortone, in carcere. Sulla sua testa pende l’accusa, fra le altre, di aver intascato quasi 660mila euro dal progettista del filobus, quel Giordano Franceschini che di tre settimane l’ha preceduto nelle patrie galere. Eppure dall’amico di un tempo sono venute accuse pesantissime. Illuminanti, diciamo così, le parole spese dall’ingegnere per restituire ai magistrati il «clima» del rapporto: «Ho continuato a versare le somme di denaro... ogni volta sollecitato da Buonerba, il quale mi riferiva di esigenze sopravvenute personali, quali l’esigenza di rifare i bagni di casa, oppure le spese connesse alla partecipazione elettorale del gruppo di An di cui faceva parte». Ma Buonerba, a quanto pare, non si è scomposto, qui negando di aver mai chiesto alcunchè, lì di aver mai preso soldi. Al giudice per le indagini preliminari Antonia Martalò avrebbe anche offerto una su ricostruzione degli avvenimenti, ma, stando alle indiscrezioni che hanno scavalcato il muro di cinta del supercarcere di Borgo San Nicola, si sarebbe trattato di una storia «leggerina», non adatta a sostenere l’urto della valanga. Anche perchè il professionista perugino, pure lui docente universitario, non si sarebbe risparmiato nei particolari, arrivando perfino a riferire di aver concordato con Buonerba, l’«eminenza grigia» di Palazzo Carafa e fedele collaboratore della senatrice, «il versamento delle somme, anche nell’importo, già prima dell'aggiudicazione dei lavori del filobus di Lecce all'Ati». La prima trance di 186mila euro, spiega, viene versata dall'agosto 2005 ai primi mesi del 2006: «L'accordo prevedeva che avrei versato a Buonerma ulteriori somme di denaro, man mano che i lavori andavano avanti». E Franceschini, a suo dire, lo fa fino all'estate del 2009, «solo in quanto ogni volta sollecitato dal Buonerba», ama ripetere. Poi aggiunge: «Io accedevo a dette richieste un po' per amicizia, un po' nella speranza di ottenere per suo tramite ulteriori incarichi di progettazione, non necessariamente a Lecce». Quindi un’ulteriore sciabolata: «Diciamo che venivo sempre sollecitato; non sono mai riuscito ad anticipare, il professore mi chiedeva contezza...mi diceva "ma poi si farà un altro lavoro, si farà un qualcosa"... altre cose che poi non si sono mai fatte. Quindi io pagavo sulla scorta delle mie disponibilità. E poi affrontavo il professore, che qualche volta mi diceva bravo, qualche volta mi diceva...Ecco». Tutte falsità, invece, stando a quanto riferisce Buonerba. Che poi, sui conti svizzeri, si cuce definitivamente la bocca. Non appena il gip od il procuratore capo Cataldo Motta gli chiedono delucidazioni su quei due milioni e 800mila euro trovati in Svizzera, lui si nasconde dietro la facoltà di non rispondere. Neppure una sillaba sulla provenienza del tesoro nelle banche in riva al lago, neanche per quel paziente Procuratore Pierluigi Pasi, del Canton Ticino, arrivato per la terza volta a Lecce e ripartito a mani vuote. Forse. Così si comprende la breve durata del faccia a faccia a con i magistrati: poco più di un'ora, anche per ribadire contatti «saltuari ed occasionali» con Franceschini. Un rapporto più stretto, invece, ci sarebbe stato con il professor Raffaele Balli, maestro di Franceschini, docente universitario di Meccanica applicata all'università di Perugia, morto nel luglio del 2010. Una conoscenza, la loro, datata nel tempo, suggellata dall'appartenenza di entrambi ad ambienti massonici. Con lui Buonerba ha detto di aver avuto contatti più frequenti, ma nulla si sa circa le spiegazioni fornite - se le ha fornite - attorno alle carte - possibilmente a firma di un Balli già passato a miglior vita - che avrebbe richiesto a Franceschini per «precostituire » gli atti necessari a spiegare la provenienza del denaro accumulato in terra elvetica. Quanto al ruolo nell’operazione-filobus, Buonerba avrebbe sostenuto di essersi interessato solo e soltanto della fase preparativa del progetto, ignorando poi l'iter di realizzazione. Mentre parlava ai magistrati, il professore sarebbe parso abbastanza tranquillo, senza manifestare alcun segno di disagio emotivo. Certo, il carcere lo avrà sicuramente provato. E per questo il suo difensore, l'avvocato Sabrina Conte, sta valutando di ricorrere al Tribunale del riesame. Probabilmente, verrà chiesto ai giudici di valutare la compatibilità del regime carcerario con le condizioni di salute dell’imputato, da tempo affetto da problemi cardiaci. E la paura dell’arresto, coltivata nelle ultime settimane, certo non gli avrà fatto bene. Basterà?
A CHI CREDERE ??
Sulla Stampa e le Tv a Lecce. 4 ottobre 2011. Conferenza stampa del Procuratore Capo Cataldo Motta e del Generale Ganzer sull’operazione Augusta per enfatizzare il sequestro di droga e lo smantellamento di una presunta rete di mafiosi. Il generale Giampaolo Ganzer, comandante del Ros, (così come riporta “Il Corriere”) è stato condannato a 14 anni di carcere a Milano nell'ambito del processo su presunte irregolarità in operazioni antidroga condotte negli anni '90 da un piccolo gruppo all'interno del reparto speciale dell'Arma. Il comandante del Raggruppamento operativo speciale (Ros) dei carabinieri Giampaolo Ganzer è stato condannato per «aver costituito un’associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso e ad altri reati, alfine di fare una carriera rapida». Davanti ai giudici dell’ottava sezione penale presieduta da Luigi Capazzo, il pm Luisa Zanetti aveva chiesto 18 condanne tra i 5 e i 27 anni di reclusione. La pena più alta era stata chiesta proprio per il generale Ganzer e per Mauro Obinu, ex ufficiale del Ros poi passato al Sisde. Obinu è con il generale Mori accusato di mafia a Palermo. La complessa vicenda giudiziaria che vede imputato l’attuale capo del Ros fa riferimento a fatti avvenuti tra il 1990 e il 1997, ed era iniziata a Brescia, poi era stata trasferita a Milano per la presenza tra gli indagati del magistrato Mario Conte (processato da solo e a parte), quindi andata a Bologna e infine riassegnata dalla Cassazione al capoluogo lombardo quando erano scaduti tutti i termini per gli accertamenti.
Sempre a proposito di droga: Nuvoloni neri su Palazzo Carafa. O non proprio neri. Due politici sarebbero finiti in un elenco di assuntori di cocaina, riforniti direttamente dal clan finito in manette con l'operazione Augusta. L’azione dei Ros (Raggruppamento operativo speciale) e dei carabinieri del capoluogo salentino puntava alle attività del clan Rizzo, associato alla Sacra Corona Unita ed egemone nella zona e si è conclusa con ben 49 arresti. Siamo ancora alle indiscrezioni ma la notizia sta già surriscaldando l’atmosfera. L’abbinata parlamentare – polverina bianca non è nuova alle cronache, da Cosimo Mele assurto agli onori della stampa per la nota ed ingloriosa aneddotica a tema, al test antidroga alla Camera che seminò il panico alla notizia di un risultato positivo. Eppure non aveva mai lambito così da vicino i corridoi di Via Rubichi.
Tre, forse anche di più. Sono i nomi dei politici che si sono affacciati nell’indagine dei Ros sul gruppo mafioso che voleva il controllo dello spaccio di droga in città. Sono consumatori che hanno concordato al telefono con il pusher di fiducia la consegna della cocaina.
Un parlamentare e due amministratori comunali. Ma la lista potrebbe essere ancora più lunga. I nomi, però, non compaiono nell’ordinanza di custodia cautelare. E, forse, neppure in una delle informative che i Ros hanno trasmesso in Procura. Di certo, sono stati riportati sui brogliacci delle trascrizioni delle conversazioni telefoniche intercettate nel corso delle indagini.
Fatti che non hanno alcuna rilevanza penale, almeno per i consumatori. Fatti che, al più, potrebbero innescare la procedura prevista dalla legge sugli stupefacenti con la segnalazione dei consumatori di droga alla prefettura che è competente ad applicare le sanzioni amministrative nei confronti delle persone che sono state trovate in possesso di sostanze stupefacenti per uso non terapeutico. Un procedimento amministrativo che la legge vuole rigorosamente vincolato alla tutela della riservatezza e al segreto professionale.
Per ora intorno ai nomi dei politici che hanno parlato al telefono con il pusher c’è il massimo riserbo. Ciò che si sa per certo è che i carabinieri hanno documentato la conversazione e forse anche la consegna della cocaina. C’è un altro aspetto che gli investigatori hanno registrato: i contatti non sarebbero stati isolati. Ma nel corso dell’attività di intercettazione i clienti eccellenti hanno contattato più volte il proprio fornitura di fiducia.
Nella rete delle conversazioni “spiate” dai carabinieri, comunque, non compaiono solo i politici come interlocutori dei pusher. Ci sono anche personaggi noti: vip leccesi, imprenditori, professionisti, avvocati. Una varietà di contattati che conferma quanto il consumo di cocaina sia diffuso.
Voci che hanno già provocato una ridda di reazioni che invocano nuovamente (se ne era parlato ampiamente qualche mese fa) il test antidroga per i politici. La prima è proprio colei che qualche mese fa lo invocò attraverso specifiche iniziative in Provincia e al Comune di Lecce, ovvero l’ex sindaco senatrice Adriana Poli Bortone: “Ci complimentiamo con i Ros per l’operazione svolta - afferma la presidente di Io Sud - che rassicura tutti quei cittadini che chiedono sicurezza. In merito alla notizia relativa al coinvolgimento nella vicenda – in qualità di assuntori di cocaina – di un parlamentare e di un amministratore comunale - prosegue la Poli - ribadisco la necessità, per un fatto di trasparenza, di procedere immediatamente con la richiesta che abbiamo fatto in passato, così derisa e così avversata, dei test antidroga per tutti gli amministratori. Noi di Io Sud – continua - lo abbiamo fatto, non ci risulta che altri abbiano inteso farlo. A questo punto bisognerebbe dare delle risposte entro una settimana in consiglio comunale e in consiglio provinciale. I cittadini devono essere tranquilli – conclude la senatrice - sul fatto che chi li rappresenta, dal Comune al Parlamento, sia nella piena funzione delle facoltà mentali”. Grande promotore dei test-anti droga per i politici (fu il primo a farlo qualche mese fa) è poi Wojtek Pankiewicz consigliere comunale del Centro Moderato-Udc, che rinnova il suo invito: “Complimenti ai Ros per la brillantissima operazione - afferma il consigliere - . Apprendo dagli organi di informazione che tra gli assuntori di cocaina ci sarebbero alcuni politici. Sottolineo che il politico che assume decisioni che riguardano i cittadini sotto l’effetto della droga non è lucido e sottolineo pure che il politico che assume droga è ricattabile dal suo fornitore e, quindi, potrebbe non essere libero nelle sue decisioni. Io il 19 maggio scorso – ricorda Pankiewicz - ho fatto al SERT il test antidroga davanti a televisioni e fotografi e il giorno dopo ho reso pubblici gli esiti negativi. Ora anche gli altri amministratori comunali si sottopongano al test. Anzi propongo che le segreterie dei partiti - conclude - non mettano in lista i candidati che non si sottopongano prima al test antidroga. Anche questo è importante per moralizzare la vita pubblica”. Le contestazioni mosse agli arrestati riguardano, infatti, non solo l’associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga ma anche le estorsioni. In particolare, il sodalizio avrebbe gestito in toto i servizi di guardiania nei locali notturni più alla moda di Lecce e dell’immediato hinterland. I servizi di sicurezza in pub e discoteche, hanno appurato le indagini, erano soggetti a regole ferree, che non consentivano ai gestori dei locali l’utilizzo di uomini e ditte diverse da quelli indicati dal clan. In alcuni casi le imposizioni avrebbero riguardato anche manifestazioni pubbliche.
L'ombra lunga del malaffare e della criminalità organizzata proiettata sul mondo delle aste giudiziarie per i beni mobiliari e immobiliari del Salento. Quella condotta per due anni dai militari del Comando provinciale della Guardia di finanza di Lecce, sotto la guida del colonnello Patrizio Vezzoli, e coordinata dal sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia di Lecce, Elsa Valeria Mignone, è un'inchiesta che mette in luce un sistema fatto non solo di aste pilotate e truccate con la copertura di professionisti al di sopra di ogni sospetto, ma anche di connivenze e relazioni tra uomini d'affare e pubblici ufficiali. Sullo sfondo due dei clan storici della Sacra corona unita salentina, quello dei Padovano di Gallipoli e dei Coluccia di Galatina, che avevano incentrato i loro interessi economici proprio sulle aste giudiziarie. Undici le ordinanze di custodia cautelare eseguite dalle fiamme gialle, cinque in carcere e sei agli arresti domiciliari. Quarantuno complessivamente gli indagati (tra cui avvocati e commercialisti) coinvolti nell'operazione denominata "Canasta" e accusati a vario titolo di estorsione, turbativa d'asta, abuso d'ufficio, peculato, corruzione, falsità materiale e ideologica. Nei confronti di sei di loro, per lo più dipendenti di Equitalia (la società incaricata dell'attività di riscossione dei tributi), nei prossimi giorni potrebbero essere adottate misure interdittive tra cui la sospensione dalle loro funzioni o attività lavorative. Due le figure principali al centro dell'inchiesta, quella di Carmelo Tornese, sessantaquattro anni, direttore dell'Istituto vendite giudiziarie (gestito da una società facente capo ai figli), e quella Giancarlo Carrino, quarantanove anni, "faccendiere" originario di Nardò. Il primo avrebbe avuto una sorta di ruolo di factotum nel settore dell'esecuzione mobiliare, mentre Carrino, che si sarebbe in più occasioni attribuito la falsa qualifica di funzionario del Tribunale abilitato, attraverso una "licenza particolare", all'acquisto per conto terzi di beni oggetto della procedure fallimentare, avrebbe gestito il redditizio mondo dell'esecuzioni immobiliari. Sarebbe stato sempre il faccendiere neretino, come evidenziato dalle numerose intercettazioni telefoniche, a gestire in prima persona i rapporti con i fratelli Padovano, Salvatore (alias "Nino bomba") e Rosario. Altro nome di spicco dell'operazione "Canasta", è quello di Ferruccio Piscopiello, amministratore delegato della Seta Eu spa, società mista a capitale prevalentemente pubblico, incaricata del servizio di raccolta e trasporto rifiuti urbani e assimilati in numerosi comuni del basso Salento, tra cui quello di Gallipoli. Secondo l'ipotesi accusatoria Piscopiello si sarebbe appropriato di somme rilevanti (non inferiori a settantamila euro) della società da lui amministrata. Per coprire i presunti ammanchi avrebbe poi creato false fatture di pagamento (intestate ad una società di Carrino) e cartelle esattoriali inesistenti emesse da Equitalia nei confronti della società Seta Eu. Dalla figura di Piscopiello si diramano altri due filoni dell'inchiesta. Il primo coinvolge un altro illustre indagato, Enzo Benvenga, esponente politico (al pari di Sandro Quintana, altro nome finito nell'inchiesta) e consigliere comunale gallipolino (sponda Pdl), che avrebbe ricevuto dall'amministratore delegato della Seta versamenti periodici di denaro (a garanzia degli stessi sarebbe stato emesso un assegno, mai incassato, di 25mila euro), in cambio di "favori" concessi alla sua società. L'altro riguarda le cosiddette fughe di notizie. "L'indagine – si legge nelle oltre duecento pagine dell'ordinanza di applicazione delle misure cautelari emessa dal gip Antonio Del Coco – avrebbe potuto avere ben altri sviluppi se non si fosse verificata una ripetuta fuga di notizie che ne ha, in parte, compromesso l'esito, almeno riguardo alle posizioni di Piscopiello e Benvenga. Infatti, è accertato che gli indagati siano venuti a conoscenza delle investigazioni svolte sia in questo procedimento che in una indagine parallela condotta dal Ros dei Carabinieri". Referente di Piscopiello, seconda l'accusa, sarebbe stato il tenente colonnello dei carabinieri Elio Dell'Anna, comandante della sezione di polizia giudiziaria presso la Procura della repubblica di Lecce. L'ufficiale dell'Arma avrebbe riferito all'amico Piscopiello notizie coperte da segreto istruttorio su alcune indagini svolte su di lui e Carrino. In particolare dell'esistenza di intercettazioni disposte nei loro confronti e della cessazione delle stesse. Stesso ruolo, avrebbe avuto, Fernando Negro, sottufficiale della Guardia di Finanza in servizio presso la sezione di Pg.
«Qualcuno dovrà spiegare a che titolo l’allora assessore provinciale Flavio Fasano era presente a una riunione del Comitato nazionale per l’ordine pubblico convocata a Gallipoli pochi giorni dopo l’omicidio di Nino Padovano. In qualità di avvocato del fratello di Nino, ovvero di Rosario Padovano?». Alfredo Mantovano, sottosegretario all’Interno, lancia la bomba nel corso della trasmissione televisiva «Talk Sciò», condotta da Giuseppe Vernaleone e trasmessa il 16 novembre 2009 dall’emittente leccese Tele Rama. Occorre svolgere un'attenta verifica sulle collusioni tra mafia ed amministratori locali, ha assicurato Mantovano. Ha anche annunciato accertamenti su quei commercianti che hanno omaggiato il boss ai funerali.
Pronuncia parole dure Alfredo Mantovano, nei confronti dei politici, il sindaco Giuseppe Venneri e l’onorevole Barba, presenti al funerale di Salvatore Padovano: «Come ha insegnato la storia del contrasto alla criminalità va eliminata qualsiasi anche simbolica vicinanza tra il mondo della criminalità organizzata e la società».
Il sottosegretario contesta anche il comportamento dei docenti universitari che hanno partecipato alla presentazione del libro “Da Ciano all’8 settembre”, scritto dall’ex boss e dei giornalisti che hanno favorito interpretazioni fuorvianti sulla «nuova identità» civica che Padovano tentava di costruire di sé.
Mantovano ci ricasca a Cellino San Marco. Egli, come già a Gallipoli si è prodigato ad accusare le comunità locali di collusione mafiosa. Senza citare nè testate, nè nomi, il sottosegretario Alfredo Mantovano il 14 luglio 2010 ha riproposto le accuse di “consenso sociale” alla criminalità, che egli avrebbe colto negli ultimi tempi nel Brindisino. Lo ha già fatto alcuni giorni prima a San Pietro Vernotico sventolando un quotidiano locale (uno solo), che si era occupato dei funerali di Gianluca Saponaro, pregiudicato ucciso il 19 giugno 2010 a Cellino S.Marco. Lo ha rifatto il 14 luglio 2010 a Roma in occasione della presentazione di una ricerca del Cnel sul tema sicurezza.
“C’è un consenso sociale alle realtà criminali che preoccupa, specie quando è enfatizzato dai media”, ha detto Mantovano parlando di alcuni casi che egli ha colto in Puglia, ma soprattutto a Brindisi. A Cellino San Marco infatti, “alcuni giorni fa è stato ucciso un criminale di medio calibro ed al funerale c’era il sindaco e una folla di centinaia di persone e la stampa locale ha definito l’uomo come un benefattore”. Sempre nell’inserto locale di un giornale, ma questa volta di Foggia, ha accusato Mantovano, “è stata poi data grande enfasi alla lettera di un latitante che si presentava come un perseguitato, mentre è stata liquidata in poche righe la riunione tecnica delle forze e dell’ordine e della magistratura a Manfredonia presieduta dal ministro dell’Interno, Maroni”.
Naturalmente, quando è lui ad essere accusato di collusione, lo sdegno è alto.
"Chiedo al presidente della Camera che dica qualcosa di chiaro e definitivo sulla vicenda. Non lo chiedo, anzi lo esigo sulla base della mia storia, sulla vicinanza mia al presidente della Camera e sull'azione che il governo sta facendo contro la criminalità organizzata". Alfredo Mantovano si rivolge direttamente al presidente della Camera per controbattere alle dichiarazioni di Fabio Granata, che ha tirato in ballo la mancata protezione al pentito Gaspare Spatuzza....Così Alfredo Mantovano ad Orvieto (Terni), il 25 luglio 2010.
«Non mi scuso per quello che ho detto e non posso tacere che nel Pdl c’è anche una questione morale»: il vicepresidente della commissione Antimafia, Fabio Granata (Pdl, finiano), ha ribadito così, in un’intervista alla Stampa.
Fabio Granata, il finiano che ha amplificato le tensioni interne alla maggioranza di centrodestra parlando di pezzi di governo che impediscono di raggiungere la verità sulle stragi del '92 e chiama in causa il sottosegretario Alfredo Mantovano per la decisione di negare la protezione al pentito Gaspare Spatuzza.
"Non ho davvero nulla di cui scusarmi - dice - perché le verità che ho detto sono oggettive e sostenibili in qualsiasi sede, anche in quella, se esiste, dei probiviri del Pdl dove La Russa e gli ex amici di An potranno chiedere con forza la mia espulsione e ribadire la loro fraterna solidarietà a Verdini e Cosentino". In serata va al Tg3: "Attaccano me per colpire Fini, sono critiche strumentali". E aveva già detto, nel merito: "La Russa continua a strumentalizzare affermazioni serie ed equilibrate da me portate avanti nel contesto della Commissione Antimafia e che erano riferite all'inopinata negazione da parte della Commissione ministeriale presieduta da Alfredo Mantovano del regime di protezione per Spatuzza, considerato attendibile da ben tre Procure sulla questione delle stragi del '92". E ancora: "Visto che La Russa mi chiede spiegazioni sulle mie affermazioni gli dico anche che io mi riferivo alle decine di esternazioni contro le Procure di Caltanissetta e Palermo colpevoli di cercare irriducibilmente la verità sulle stragi. E, per avere i nomi, La Russa può semplicemente consultare le agenzie di stampa degli ultimi due mesi". Poi torna sul ddl intercettazioni e contesta le attestazioni di stima pronunciate nei confronti di Dell'Utri: "Mi riferisco anche ad un ddl sulle intercettazioni, difeso con forza dal governo in una stesura originale che, per quanto riguarda le intercettazioni telefoniche ambientali, avrebbe indebolito lo strumento più importante per le indagini di mafia, se non fosse intervenuta la nostra volontà radicale di modificarlo. E alle decine di attestazioni di stima e solidarietà, anche da parte di esponenti del governo, dopo una condanna a sette anni a Marcello Dell'Utri per associazione mafiosa e dopo la sua ennesima proclamazione a eroe di un mafioso conclamato come Mangano".
Ma Granata non è solo. L'Udc considera "opportuna una nuova ed urgente audizione" del sottosegretario agli Interni Alfredo mantovano presso la commissione parlamentare Antimafia, a seguito del "grave esposto" al Csm rispetto ai magistrati di Caltanisetta che indagano sulla strage di Via D'Amelio. "L'esposto al Csm - dice il presidente dei senatori dell'Udc e componente della commissione Antimafia Gianpiero D'Alia- contro i magistrati di Caltanissetta ad opera del sottosegretario Mantovano è un atto grave che va condannato e censurato. Esso segue ad un altro atto grave ed inopportuno e cioè il diniego del programma di protezione al pentito Gaspare Spatuzza, provvedimento che rischia di compromettere l'inchiesta nissena sulle stragi, condotta con serietà dalla competente procura della Repubblica.
Dalla stampa nazionale un resoconto locale su quella parte politica che accusa gli avversari di immoralità e disonestà. Nel mare magnum delle malefatte pugliesi finisce nei guai un altro delfino del noto politico che invita ad andare a farsi fottere chi non la pensa come lui. Dopo l’arresto del suo braccio destro nonché vicepresidente della giunta regionale Sandro Frisullo (storie di escort e non solo); dopo le dimissioni dell’indagato segretario organizzativo del Pd, Michele Mazzarano, suo fedelissimo nel Salento (in rapporti con l’imprenditore Tarantini, quello della D’Addario a Palazzo Grazioli); dopo il coinvolgimento nelle inchieste baresi del suo amico-factotum Roberto De Angelis (quello degli incontri fra D’Alema e Tarantini); dopo l’iscrizione sul registro degli indagati dell’imprenditore Enrico Intini, suo intimo amico (nel medesimo filone sesso-sanitario); dopo tutte queste faccende disgraziate, insomma, un altro pesce pregiato del branco dalemiano finisce nella rete giudiziaria.
All’alba del 18 maggio 2010 il Ros di Lecce ha infatti bussato alla porta di Flavio Fasano, ex sindaco di Gallipoli, ex assessore provinciale ai Lavori pubblici, da sempre uomo-ombra del Líder Maximo. I carabinieri gli hanno notificato copia di un’ordinanza d’arresto a suo carico, al pari di altri quattro coindagati, con accuse che spaziano dal concorso in «turbata libertà degli incanti e violazione del segreto d’ufficio», al «falso per induzione in errore determinato dall’altrui inganno», dalla «corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio» all’«abuso d’ufficio». Secondo la ricostruzione degli inquirenti, basata essenzialmente su alcune microspie piazzate nello studio legale di Fasano, il referente di D’Alema nel collegio ionico sarebbe stato il protagonista di conclamate irregolarità nella gestione degli appalti (cartellonistica pubblicitaria, costruzione del nuovo istituto nautico e del campus universitario), nella nomina di dirigenti di enti locali, nell’assunzione di personale da inserire nelle ditte vincitrici delle gare, nell’ottenere denaro per il Pd come corrispettivo ai favori prestati.
Il filone appalti nasce da una costola dell’inchiesta «Galatea» collegata all’omicidio del capo clan della Sacra Corona Unita, Salvatore Padovano, detto «Nino Bomba», ucciso dal fratello Rosario che appena tre giorni dopo l’omicidio venne sorpreso dal Ros al telefono proprio con l’ex sindaco Fasano (in passato era stato suo avvocato) mentre riceveva consigli su come muoversi e su cosa dire. Nelle telefonate vennero fuori anche dettagli inediti – per gli inquirenti - sul delitto. In quel primo troncone d’indagine si faceva anche riferimento al progetto del boss Rosario Padovano di far fuori un altro ex sindaco di Gallipoli, attuale parlamentare del Pdl, Vincenzo Barba. Indagato per gli appalti, nel mirino per i rapporti col boss, l’amico del cuore di D’Alema aveva pensato bene di rinunciare a candidarsi alle ultime regionali. Non è bastato: l’hanno arrestato.
L’ex vice presidente della Regione Puglia, Sandro Frisullo (Pd), assieme all’imprenditore Gianpaolo Tarantini, è stato l’organizzatore del sodalizio criminale per aver offerto «copertura politica» alle «spregiudicate operazioni imprenditoriali dei fratelli Tarantini» ai quali ha garantito appoggio per la gestione degli affari illeciti nella Asl di Lecce. Lo scrive il tribunale del Riesame di Bari nelle 63 pagine delle motivazioni del provvedimento con cui, l’8 aprile 2010, ha concesso gli arresti domiciliari a Frisullo, condotto in carcere il 18 marzo con le accuse di associazione per delinquere e turbativa d’asta. Frisullo è indagato a piede libero per corruzione per aver intascato tangenti per 200-250 mila euro da Tarantini per fargli vincere appalti per 5 milioni di euro nella Asl salentina.
Secondo i giudici, su Frisullo la valutazione processuale da fare è quella della sua «indubbia pericolosità sociale» perché potrebbe reiterare delitti della stessa specie, anche se viene escluso che egli possa inquinare le prove che gli inquirenti stanno continuando a raccogliere. Tra le prove ancora da raccogliere, oltre agli accertamenti patrimoniali in corso, c’è il contenuto di un’intercettazione telefonica del 25 novembre 2008. Frisullo raggiunge in auto una stazione di carburanti del Salento dove incontra l’imprenditore Giancarlo Mazzotta. Questi - scrivono i giudici - viene sorpreso nel corso dell’intercettazione "a cornetta aperta" mentre versa a Frisullo «somme in danaro».
Nell’atto del tribunale è riportato uno stralcio della conversazione intercettata in cui Mazzotta dice a Frisullo: «...ehhh... in tutto sono 150... documenti...». I giudici hanno condiviso il ragionamento del gip Sergio Di Paola che ha ritenuto di non dover contestare, per motivi tecnico-giuridici, a Frisullo il reato di corruzione (poiché egli non ha compiuto atti del proprio ufficio), ma sostengono che «la copertura politica» offerta da Frisullo a Tarantini è stata «lautamente remunerata» all’uomo politico, tanto che questi era «"sul libro-paga" del Tarantini». Nelle motivazioni il tribunale definisce le dichiarazioni di Tarantini, che da tempo collabora con gli inquirenti assieme al fratello Claudio, apprezzabili per la «complessiva spontaneità, linearità, genuinità e coerenza».
ACCESSO ALL'AVVOCATURA
Antonio Giangrande, dal 1998, entrato nell'ambiente come praticante avvocato, denuncia pubblicamente i concorsi pubblici truccati, lo sfruttamento dei praticanti, gli insabbiamenti delle denunce e l'impedimento al gratuito patrocinio: da allora non lo abilitano alla professione di avvocato.
Il dr Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato, presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ed autore del libro “L’Italia del trucco, l’Italia che siamo”, presenta il “Dossier sui concorsi pubblici truccati”.
Esso è il frutto di anni di ricerche ed approfondimenti su un sistema che sforna la nostra classe dirigente, e per questo, dai risultati che ottiene, la medesima dimostra la propria inadeguatezza.
Antonio Giangrande lo fa in occasione della prova scritta del concorso forense, che si tiene presso la Corte d’Appello, come ogni anno a metà dicembre, e in relazione alla riforma che imprime maggiori tutele alla lobby, stilata in Parlamento da chi si è abilitato con un sistema truccato.
Lo fa in seguito alla missiva del Governo del 5 ottobre 2009, in risposta alla sua richiesta di intervento per la tutela dei diritti soggettivi su un caso concreto: “esistono concorsi irregolari e violazione della tutela giudiziaria. Provvederemo”. Intervento mai arrivato.
Con il discorso ufficiale del Magnifico Rettore, Prof. Ing. Domenico Laforgia, è stato inaugurato a Brindisi il 3/12/2009 l'anno accademico 2009-2010 dell'Università del Salento. Presenti alla cerimonia Gianfranco Fini, Presidente della Camera dei Deputati e diverse altre insigne personalità del mondo politico, economico e culturale della penisola salentina. In quella sede ha palesato una realtà, che molti cercano di ignorare o tacitare. “…..Questo è un altro dato che si presta ottimamente ad una lettura politica. Il familismo non è la ferita pruriginosa di questa o quella Università, ma di tutto il sistema occupazionale italiano. È una malattia endemica del Paese che ha contagiato tutti i campi, dalla politica alle libere professioni, dal giornalismo al mondo dello spettacolo, dall’industria a tutto il comparto pubblico. Familismo, nepotismo e clientelismo non sono le conseguenze di un sistema malato, come spesso si dice, ma sono il segno più evidente di una mancanza effettiva di alternative possibili. Ed è questa povertà di occasioni che mette in moto il meccanismo, che diventa perverso e nocente alla comunità quando non è neppure compensato dal merito."
In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.
Il sistema di abilitazione truccato riguarda tutte le professioni intellettuali: magistrati, avvocati, professori universitari, giornalisti, ecc. La domanda che ci si dovrebbe porre è: dov’è il trucco?
COMMISSIONI D’ESAME: con la riforma del 2003, (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180), dopo gli scandali e le condanne sono stati esclusi dalle commissioni d’esame i Consiglieri dell'Ordine degli Avvocati, competenti per territorio, mentre i Magistrati e i Professori universitari non possono correggere gli scritti del loro Distretto. Le commissioni locali fanno gli orali e vigilano sullo scritto, mentregli elaborati sono corretti da altre commissioni estratti a sorte. Questa riforma, di fatto, mina la credibilità delle categorie coinvolte. Le Commissioni e le sottocommissioni hanno un diverso metro di giudizio, quindi alla fine bisogna affidarsi anche alla buona sorte per avere una commissione più benevola. Naturalmente, le Commissioni del nord continuano ad avere un atteggiamento pro lobby, limitando l’accesso all’avvocatura al 30% circa dei candidati, per paura che i futuri avvocati del sud emigrino al nord. A riguardo ci sono state interrogazioni scritte al Ministro della Giustizia da parte di deputati (n. 4-10247, presentata da Pietro Fontanini mercoledì 16 giugno 2004 nella seduta n. 478 e n. 4-01000 presentata da Silvio Crapolicchio mercoledì 20 settembre 2006 nella seduta n. 038). Dubbi sono sorti anche sul modo di abbinare le commissioni. Il deputato lucano Vincenzo Taddei (PdL) ha presentato un’interrogazione scritta al Ministro della Giustizia. Il motivo della richiesta di intervento è preciso: per ben tre anni consecutivi, nel 2005, 2006 e 2007, da quando sono entrate in vigore le modifiche sullo svolgimento dell’esame di avvocato, le prove scritte dei candidati della Corte d’Appello di Potenza stranamente sono state sempre corrette presso la Corte d’Appello di Trento con percentuali di ammessi all’orale sempre molto basse (nel 2007 circa il 18%).
LE TRACCE: sono conosciute giorni prima la sessione, tant’è che il senatore Alfredo Mantovano ha presentato una denuncia penale ed una interrogazione a al Ministro della Giustizia (n. 4-03278 presentata il 15 gennaio 2008 Seduta n. 274).
INIZIO DELLE PROVE: la lettura delle tracce avviene secondo le voglie del Presidente della Corte d’Appello, che variano da città a città. Nel 2006 la lettura delle tracce a Lecce è stata effettuata alle ore 11,45 circa, anziché alle 09,00 come altre città. In questo modo i candidati hanno tempo di farsi dettare le tracce e i pareri sui palmari e cellulari, molto prima della lettura ufficiale.
IL MATERIALE CONSULTABILE: nel 2008, tra novembre e dicembre il caos. Se al concorso di magistratura succede di tutto, a quello di avvocatura è ancora peggio. Due concorsi diversi, stessa sorte. Niente male per essere un concorso per futuri magistrati ed avvocati. Niente male, poi, per un concorso organizzato dal ministero della Giustizia. Dentro le aule di tutta Italia, per il concorso di avvocati che si svolge in ogni Corte d'Appello italiana, è entrato di tutto: fotocopie, bigliettini con possibili tracce e, soprattutto, palmari e cellulari. Ma sul concorso in magistratura svolto a Milano c’è ne da parlare. Sopra i banchi i codici «commentati» vietati, con il timbro del ministero che ne autorizzava l'utilizzo. Relazione pubblicata sul sito del Ministero della Giustizia e protocollata con il n. 19178/2588 del 24/11/2008, in cui il presidente denuncia l'atteggiamento «obliquo e truffaldino da parte di non pochi candidati e, tra questi, un vicequestore della Polizia di Stato, trovata in possesso di una rilevante dose di appunti, nascosta tra la biancheria intima». Eppure le regole dovevano essere più rigide. Dovevano esserci più controlli. Era stato assicurato dal ministero della Giustizia. Con tanto di sanzioni e espulsioni.
IL MATERIALE CONSEGNATO: per norma si dovrebbe consegnare ogni parere in una busta, contenente anche una busta più piccola con i dati del candidato. Ma non è così. Le buste con i dati si possono aprire prima della lettura degli elaborati. A Roma, venerdì 13 marzo 2009, alla fine è dovuta intervenire la polizia penitenziaria. Al grido di “Buffoni! Buffoni!” centinaia di esaminandi del padiglione 6 al concorso di notaio si sono scagliati contro la commissione. “Questo esame è una farsa – hanno gridato – ci sono gli estremi per poterlo annullare”. Si è visto “gente che infilava un nastro rosso nella busta” per farsi riconoscere, gente che “aveva le tracce già svolte” e gente che, dopo aver chiacchierato con i commissari, “si faceva firmare la busta in modo diverso”.
CORREZIONE DEGLI ELABORATI: la legge 241/90 e il Ministero della Giustizia dettano le regole in base alle quali si deve svolgere la correzione, per dare i giudizi. Essi attengono alla rappresentanza delle categorie degli avvocati, magistrati e professori universitari, oltre all’attenzione data alla sintassi, grammatica, ortografia e, cosa, fondamentale, sui principi di diritto del parere dato. Cosa fondamentale, la legge regola la trasparenza dei giudizi. Di fatto le commissioni sono illegittime, perché mancanti, spesso, di una componente necessaria. Di fatto i compiti non sono corretti, perché sono immacolati e perché non vi è stato tempo sufficiente a leggerli. Di fatto le motivazioni sono mancanti o infondate. Su tutti questi notori rilievi vi è stata interrogazione presentata dal deputato Giorgia Meloni (n. 4-01638 mercoledì 15 novembre 2006 nella seduta n.072). Oltre che quella n. 4-01126 presentata da Giampaolo Fogliardi mercoledì 24 settembre 2008, seduta n.054. Illegale ed illegittimo è anche il ritardo con cui sono consegnate dalle commissioni di esame le copie degli elaborati, al fine di impedire la presentazione in termini dei ricorsi al Tar, in quanto la maggior parte di questi ricorsi sono accolti dalla giustizia amministrativa.
Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.
Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.
Badate, questi signori sono poi quelli che, quale organo supremo amministrativo, devono dirimere le controversie attinenti i concorsi truccati in tutta l’amministrazione pubblica.
Intanto il concorso notarile ha i suoi i precedenti che parlano chiaro: nel 2005 candidati ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati "non idonei" e poi promossi agli orali.
Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.
O ancora l'esame di ammissione all'albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un' agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere.
E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.
TUTELA AMMINISTRATIVA: i ricorsi al Tar, stante l’immane giurisprudenza a sostegno, sono automaticamente vincenti. Unica condizione presentarsi con il principe del foro locale. Per ovviare all’ovvia ritrosia degli ordini di abilitare chi ha vinto un ricorso, la legge 17 agosto 2005 n. 168 di conversione (con modificazioni) del decreto legge 30 giugno 2005 n. 115, contiene un norma destinata a sconvolgere gli esami di Stato di tutte le professioni intellettuali (in particolare di quelle di avvocato, notaio, commercialista ed architetto, le più bersagliate di ricorsi ai Tar e al Consiglio di Stato). Insomma, il candidato che supera le prove orali, anche se l’ammissione è stata decisa da ordinanze dei Tar, “consegue a ogni effetto” l’abilitazione professionale. Se si è indigenti, però, l’ammissione al patrocinio pagato dallo Stato è impedito dalle relative commissioni presso i Tribunali Amministrativi formate ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2 magistrati del Tar e da un avvocato. Le commissioni, stante i requisiti di accoglimento per il fumus e per l’indigenza, rigettano la domanda, con giudizi anticipati senza contraddittorio: “Manca il Fumus”, inibendo così anche l’inoltro ordinario a pagamento del ricorso avverso all’esito concorsuale.
Antonio Giangrande, dal 1998, entrato nell'ambiente come praticante avvocato, denuncia pubblicamente i concorsi pubblici truccati, lo sfruttamento dei praticanti, gli insabbiamenti delle denunce e l'impedimento al gratuito patrocinio: da allora non lo abilitano alla professione di avvocato.
Il Presidente dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie ha chiesto agli organi competenti un’ispezione ministeriale per verificare la qualità dei suoi manoscritti resi negli anni agli esami di avvocato, depositati presso la Corte di Appello di Lecce. Tutto lettera morta.
Questo non per rendere giudizi abilitativi, che sono prettamente del Tar, ma per dimostrare che sono in essere atti di stillicidio dei pareri legali tesi a danneggiarlo: impedirgli lo svolgimento della professione, condannandolo all’indigenza, e ledere la sua reputazione.
“Il mio valore l’ho dimostrato scrivendo “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”, letto in tutta Italia – dice Giangrande- Per non essere schierato a sinistra e per aver denunciato abusi e omissioni dei magistrati e degli avvocati, sono sottoposto a continue ritorsioni. Dal 1998 partecipo al concorso di avvocato. Regolarmente bocciato per aver denunciato, inascoltato, nelle sedi istituzionali i trucchi e le irregolarità dell’abilitazione forense, oltre che lo sfruttamento dei praticanti, con la conseguente evasione fiscale e contributiva. Sono processato a Potenza per aver riportato gli atti ufficiali riguardanti gli insabbiamenti della procura di Taranto. Potenza, foro che è rimasto inattivo sulle mie denunce, anche quando la Procura di Taranto ha archiviato una denuncia, in cui essa stessa era accusata di aver commesso reato.
Ai miei denigratori dico: inutile negare l’evidenza.
Come si ottiene l’abilitazione di avvocato?
Con i soldi per andare in Spagna o per ricorrere al Tar;
Con il nome e le conoscenze per essere aiutati;
Con molta fortuna.
La competenza ? Un optional. Lo stato della giustizia in Italia ne è prova.
· La via spagnola è una via semplice ed efficace per essere avvocato senza sostenere alcun esame di abilitazione. Basta sostenere gli oneri di trasferta e permanenza. Si diventa abogado in Spagna e quindi, avvocato in Italia. Per diventare avvocato in Spagna senza esame di abilitazione è stato possibile fino al 2011: a partire da questa data, anche in Spagna vi è l’esame di abilitazione.
· Superare l’esame di abilitazione: truccato, truccabile, comunque palesemente irregolare. Come ogni anno, ai primi di dicembre, migliaia di aspiranti avvocati si presentano all'esame scritto, che si tiene presso tutte le Corti d'Appello d'Italia. Le Commissioni d'esame sono composte da Magistrati, Professori Universitari e Avvocati. Con la riforma del 2003 sono stati esclusi dalle commissioni d’esame i Consiglieri dell'Ordine degli Avvocati, competenti per territorio, minando, di fatto, il loro prestigio. Le commissioni locali faranno gli orali e vigileranno sullo scritto, mentre gli elaborati saranno corretti da altre commissioni estratti a sorte. E' un duro colpo alla credibilità dei commissari locali. Comunque tutto ciò non basta a dissipare i dubbi sulla regolarità dei concorsi pubblici. L’Associazione Contro Tutte Le Mafie sul suo portale www.controtuttelemafie.it , link giustizia e istruzione, riporta le inchieste svolte e le interviste rese. Pareri legali dettati ai candidati dagli stessi commissari o dai genitori sui palmari. Pareri resi su tracce già conosciute perché pubblicate su internet o perché le buste sono aperte ore dopo rispetto ad altre sedi, dando il tempo ai candidati di farsi passare il parere sui cellulari. Pareri di 5 o 6 pagine non letti e corretti, ma falsamente dichiarati tali in soli 3 minuti, nonostante vi fosse l’onere dell’apertura di 2 buste, della lettura, della correzione, del giudizio, della motivazione e della verbalizzazione. Il tutto fatto da commissioni illegittime, perché mancanti dei componenti necessari, o reso con giudizi nulli, perché mancanti di glosse, correzioni e motivazioni. I TAR sono inondati da contestazioni di valutazione, soprattutto quando l’interessato/a ha allegato al suo ricorso copie di elaborati di altri candidati (ictu oculi) di eguale valore e dichiarati idonei rispetto ai propri elaborati, o quando il giudice amministrativo prende atto che le valutazioni delle commissioni esaminatrici sono irragionevoli e/o infarcite di errori di fatto in quanto fondate su presupposti palesemente erronei. Il tutto giudicato da commissioni che limitano l’accesso e da commissari abilitati alla professione con lo stesso sistema truccato. Non è da trascurare il velato impedimento al ricorso al Tar rispetto alla successiva sessione annuale, nel ritardare la correzione, resa in estate, o la consegna delle copie dei compiti, consegnati molti giorni dopo la richiesta.
· Superare l’esame, pur essendo stati dichiarati non idonei. Basta avere un padre avvocato o tanto denaro da sostenere il ricorso al Tar e foraggiare gli avvocati, che, anziché cambiare le cose, sfruttano la situazione. La legge 17 agosto 2005 n. 168 di conversione (con modificazioni) del decreto legge 30 giugno 2005 n. 115 (meglio noto come “decreto legge omnibus”), contiene un norma destinata a sconvolgere gli esami di Stato di tutte le professioni intellettuali (in particolare di quelle di avvocato, notaio, commercialista ed architetto, le più bersagliate di ricorsi ai Tar e al Consiglio di Stato). La legge interviene in sostanza sulle modalità di svolgimento degli esami, stabilendo che “conseguono a ogni effetto l’abilitazione professionale i candidati in possesso dei titoli per partecipare al concorso, che abbiano superato le prove d’esame scritte e orali previste dal bando, anche se l’ammissione alle medesime o la ripetizione della valutazione da parte della commissione sia stata operata a seguito di provvedimenti giurisdizionali o di autotutela”. Va in soffitta la sentenza 11750/2004 delle sezioni unite civili della Cassazione secondo la quale “il candidato agli esami di avvocato che abbia ottenuto in via d'urgenza dal Tar l'autorizzazione a sostenere le prove orali e che le abbia superate, non può iscriversi con riserva all'albo degli avvocati”. Insomma: il candidato che supera le prove orali, anche se l’ammissione è stata decisa da ordinanze dei Tar, “consegue a ogni effetto” l’abilitazione professionale. La nuova norma imporrà al ministro della Giustizia di dare istruzioni all’Avvocatura dello Stato di rinuncia all’azione davanti alla Giustizia amministrativa nei casi in cui i candidati abbiano ottenuto l’iscrizione con riserva nell’Albo, dopo aver superato le prove orali dell’esame di Stato anche a seguito di provvedimenti cautelari dei Tar e del Consiglio di Stato. Il terzo comma dell’articolo 4 della legge n. 168/2005 non ammette interpretazioni diverse. L’iscrizione temporanea in sostanza diventa definitiva, anche perché di fatto la nuova legge suggerisce che la prova orale (positiva) abbia assorbito quella scritta (superata e fulminata dalle ordinanze dei Tar e del Consiglio di Stato).
Da quanto emerge dal sistema concorsuale forense, vi è una certa similitudine con il sistema concorsuale notarile e quello giudiziario e quello accademico.
Certo è che se nulla hanno smosso le denunce del Ministro dell’Istruzione, Maria Grazia Gelmini, che nel 2001 è stata costretta a trasferirsi da Brescia a Reggio Calabria per poter superare l’esame, e dallo stesso Sottosegretario al Ministero degli Interni, Alfredo Mantovano, che nel 2008 ha anche presentato un'interrogazione parlamentare, così come hanno fatto altri suoi colleghi parlamentari, le centinaia di denunce presentate in tutta Italia dal Presidente Dr Antonio Giangrande contro i concorsi truccati, sono destinate a regolare insabbiamento, con la conseguenza di inimicarsi tutto il sistema e con l'effetto di subire atti ritorsivi: anni di partecipazione agli esami e processi per aver denunciato verità innegabili.
“Gli Intoccabili”, una meritoria inchiesta di Antonio Galdo su “Panorama” e altri libri tematici, come “La Casta” dei politici, “L’Altra Casta” dei sindacati, "L'Ultra Casta" dei magistrati, “La Casta dei Giornali” e "La Casta stampata" dei giornali, ecc. hanno fatto la radiografia del “SISTEMA ITALIA”. Gli intoccabili della società italiana. Caste e lobby che con sopraffazione ed omertà e con il privilegio dell’impunità costringono il popolo italiano a subire ed a tacere.
Se molti giovani avvocati rammentano De Magistris anche se non l’hanno mai incontrato, è per via della sua inchiesta su presunte irregolarità negli esami di avvocato a Catanzaro del 2000. Più che presunte, le irregolarità erano certe: risultò evidente, su 2.301 partecipanti all'esame, che 2.295 avevano copiato. Il problema è che De Magistris, pur indagando praticamente tutti i 2.295 candidati, non ebbe modo di dimostrarlo: il procedimento finì in nulla. I temi erano così identici l’uno all’altro che moltissimi riportavano la parola «precisamente» corretta con una barretta sulla «p» iniziale: «recisamente». Come se qualcuno si fosse corretto dettando la giusta soluzione del tema. La grande difficoltà era sui numeri: già è difficile processare un imputato, in Italia. Figuratevi 2.295.
I giovani magistrati protagonisti dell’indagine, Luigi De Magistris (poi trasferito a Napoli e in seguito divenuto europarlamentare) e Federica Baccaglini (poi trasferita a Padova), una soluzione l’avevano individuata: un bel decreto penale. Cioè una sentenza che colpisse gli imputati (diventati man mano 2.585 compresi i commissari di esame, avvocati, magistrati e professori universitari) almeno con una multa di 3 milioni e mezzo di lire ciascuno. Ipotesi respinta dal capo dell’ufficio Gip Antonio Baudi: troppo poco. Bene, rispose il pm delegato al caso, appena gli fu possibile riprendere la palla in mano (dopo mesi e mesi perduti): raddoppiamo a 7 milioni e mezzo. Troppi, rispose questa volta Baudi rimandando tutto indietro.
E via così, col processo che veniva spostato a Messina perché c’entravano altri magistrati e poi tornava a Catanzaro e poi si infognava in 2.585 pratiche e 2.585 ricorsi e 2.585 cavilli e 2.585 eccezioni... E intanto passavano le settimane, i mesi, gli anni... Ed eccoli là, senza vergogna: tutti immacolati a difendere qualcuno che sarà condannato per molto meno o a fregiarsi del titolo a dispetto di chi, meno furbo o fortunato, non riesce ad abilitarsi. Ma così fan tutti... O no?
L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati.
In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris.
O ancora l'esame di ammissione all'albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un' agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere.
Da più parti si presentano pseude riforme di accesso alla professione. Limitazione degli accessi o della ripresentazione agli esami. I proponenti spiegano: troppi avvocati. Nel “libero mercato” vogliono rimanere da soli, loro e i loro figli !!”
L'anno 2010, si presenta istanza di gratuito patrocinio per il ricorso al TAR adducendo motivazioni per le quali per altri vi era stato accoglimento.
La Commissione di Lecce, presso il Tar, ha rilevato una mancanza di fumus, con un improprio e sommario giudizio di merito senza contraddittorio e su elementi chiarissimi ed incontestabili, riconosciuti meritevoli dalla giurisprudenza.
La Commissione di Lecce, composta da magistrati del TAR, ha deciso il diniego, inibendo il proseguo presso l'ufficio del ricorso principale, dall'esito scontato.
Lo hanno comunicato dopo un mese, nel pieno delle ferie e a 15 giorni dalla decadenza del ricorso principale al TAR, impedendogli, di fatto, anche la proposizione del ricorso in forma ordinaria
L'anno successivo, 2011, si presenta il ricorso al TAR senza gratuito patrocinio adducendo motivazioni per le quali vi era stato diniego per il sottoscritto, mentre vi era stato accoglimento per altri.
1. Qui si evince un fatto, da sempre notorio su tutti gli organi di stampa, rilevato e rilevabile in ambito nazionale: ossia la disparità di trattamento tra i candidati rispetto alla sessione d’esame temporale e riguardo alla Corte d’Appello di competenza. Diverse percentuali di idoneità, (spesso fino al doppio) per tempo e luogo d’esame, fanno sperare i candidati nella buona sorte necessaria per l’assegnazione della commissione benevola sorteggiata. Nel Nord Italia le percentuali adottate dalle locali commissioni d’esame sono del 30%, nel sud fino al 60%. Le sottocommissioni di Palermo sono come le sottocommissioni del Nord Italia. I Candidati sperano nella buona sorte dell’assegnazione. La Fortuna: requisito questo non previsto dalle norme.
2. Qui si contesta la competenza dei commissari a poter svolgere dei controlli di conformità ai criteri indicati: capacità pedagogica propria di docenti di discipline didattiche non inseriti in commissione.
3. Qui si contesta la mancanza di motivazione alle correzioni, note, glosse, ecc., tanto da essere contestate dal punto di vista oggettivo da gente esperta nella materia di riferimento.
4. Qui si evince la carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque si contesta la fondatezza dei rilievi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta mancanza di motivazione al giudizio, didattica e propedeutica al fine di conoscere e correggere gli errori, per impedirne la reiterazione.
5. Altresì qui si contesta la mancanza del voto di ciascun commissario, ovvero il voto riferito a ciascun criterio individuato per la valutazione delle prove.
6. Altresì qui si contesta l’assenza ingiustificata del presidente della Commissione d’esame centrale e si contesta contestualmente l’assenza del presidente della Iª sottocommissione di Palermo.
7. Altresì qui si contesta la correzione degli elaborati in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito.
8. Altresì qui si contesta, acclarandone la nullità, la nomina del presidente della Commissione centrale, Avv. Antonio De Giorgi, in quanto espressione del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Lecce. Nomina vietata dalle norme.
Ma anomalie non vi sono solo per l’abilitazione forense.
Dall'indagine dell'Alto Commissario anticorruzione emergono irregolarità nel reclutamento dei docenti (30% dei vincitori è legato da vincoli di parentela) e nella gestione delle risorse finanziarie Ue. Irregolarità nella composizione delle commissioni esaminatrici con il 30% dei vincitori risultato legato da vincoli di parentela, affinità o coniugio con docenti di ruolo dell’Accademia di Belle Arti di Lecce. È uno dei risultati dell’indagine dell’Alto Commissario anticorruzione sull’Istituzione culturale salentina, svolta sulle procedure di reclutamento del personale docente da assumere a tempo determinato, a copertura di posti vacanti nelle materie aggiuntive e/o sperimentali, nonché sulla gestione delle risorse finanziarie comunitarie attribuite all’Istituto nell’ambito del PON 2000/2006.
Quanto ai fondi comunitari, è stata rilevata una scarsa pubblicità, all’interno dell’Istituto, delle opportunità offerte dai bandi. Ciò ha reso, di fatto, possibile la presentazione di progetti solo ad un ristretto nucleo di persone. In particolare per il progetto «Salento Sud Est» (nell’ambito del PON 2000- 2006), è stato rilevato il mancato rispetto della proporzione, fissata dalla Commissione ministeriale di orientamento, tra le risorse da destinare al conseguimento dell’obiettivo e quelle da dedicare alle attività di direzione e coordinamento. Inoltre, seco0ndo l’indagine dell’Alto commissario Anticorruzione, sono stati attivati insegnamenti in cui il rapporto ore/studenti appare incongruente (100/1).
Il risultato delle indagini è stato trasmesso al Ministro dell’Università e della Ricerca, alla Procura della Repubblica di Lecce, alla Procura regionale della Corte dei conti.
A tal proposito, il ministero dell’Università e della Ricerca, «in relazione alle notizie giunte dall’Accademia di Belle Arti di Lecce», comunica di «aver inviato alla Procura della Repubblica di Lecce la relazione dell’Alto Commissario Anticorruzione, Achille Serra, nonché gli ulteriori atti richiesti al Commissario dal Ministero relativi all’indagine svolta». Il Ministero, inoltre, «ha incaricato la Direzione competente di ulteriori accertamenti anche in riferimento alla precisa posizione degli organi coinvolti e attende l’esito di tali accertamenti per le decisioni necessarie».
MALAGIUSTIZIOPOLI
Clamoroso su il Paese Nuovo del 16 Giugno 2011. Basile, magistrati denunciati per omissione atti ufficio.
I due magistrati leccesi che hanno condotto le indagini sull'omicidio di Peppino Basile (ex consigliere provinciale di Idv di Lecce assassinato ad Ugento tra il 14 e il 15 giugno 2008), Giovanni De Palma e Simona Filoni, sono stati denunciati alla Procura della Repubblica di Potenza per omissione d'atti d'ufficio. L'esposto è stato presentato dagli avvocati dei due Vittorio Luigi Colitti, nonno e nipote di 68 e 21 anni, ritenuti dagli inquirenti responsabili della morte del politico ugentino. Colitti junior a dicembre è stato assolto dall'accusa di omicidio ma la Procura ha proposto appello contro la sentenza, il processo a carico del nonno, invece, inizierà il 6 ottobre davanti alla Corte d'assise di Lecce. La denuncia, firmata dagli avvocati Francesca Conte e Roberto Bray e inoltrata anche alla Procura generale presso la Corte di Cassazione e alla Procura generale di Lecce, si basa sulle presunte omissioni nelle indagini sul delitto, legate all'esistenza di una serie di lettere tra Giovanni Vaccaro e Giorgio Pio Bove, che indicherebbero una pista alternativa per spiegare la morte di Basile. Una pista che inizialmente era stata presa in considerazione dalla Procura ordinaria e da quella dei minori, ma poi fu bollata come inconsistente dai magistrati, che individuarono in antichi rancori tra vicini il movente del delitto e nei due Colitti gli assassini. A spingere verso una diversa considerazione dei fatti fu proprio Giovanni Vaccaro, ex collaboratore di giustizia che si accusò anche dell'omicidio del boss di Gallipoli Salvatore Padovano e fu poi smentito dal vero esecutore. Vaccaro disse agli investigatori di avere chiesto a Bove di dare una lezione a Basile, dal momento che il politico sembrava intenzionato a tirare fuori uno scandalo che avrebbe danneggiato un imprenditore suo amico. Tale ricostruzione, però, non trovò mai fondamento, Bove negò decisamente di avere assoldato due persone per dare una lezione all'esponente di Idv e anche lo stesso Vaccaro, dopo alcuni mesi, cambiò versione. Tuttavia tra i due, entrambi detenuti, è intercorsa una fitta corrispondenza, che secondo i legali dei Colitti, dimostrerebbe il fatto che i due uomini erano a conoscenza di quanto accaduto ad Ugento nella notte del 14 giugno. Ciò che gli avvocati contestano è che tali lettere, di cui la Procura era in possesso, non siano state inserite nei fascicoli messi a disposizione dei vari giudici che hanno vagliato le posizioni dei presunti assassini.
Una mancanza significativa, secondo gli avvocati Conte e Bray, che non avrebbe consentito ai magistrati di vagliare adeguatamente una pista alternativa.
INSABBIAMENTI: SE SUCCEDE A LORO, FIGURIAMOCI AI POVERI CRISTI !!!!!
Quando la legge non è uguale per tutti.
Denunce fondate presentate a Potenza contro i magistrati di Lecce, Brindisi e Taranto:
nessuna condanna per i denunciati, nessuna calunnia da parte dei denuncianti !!!!
Il Gip presso il Tribunale di Potenza ha disposto l’archiviazione della denunzia presentata dal ministro per gli Affari Regionali, Raffaele Fitto, contro il procuratore della Repubblica di Brindisi, Marco Dinapoli, per violazione del segreto d’ufficio. La denuncia ipotizzava una presunta divulgazione di notizie riservate compiuta da Dinapoli quando questi era procuratore aggiunto a Bari e coordinava il pool di magistrati che indagava sui reati contro la pubblica amministrazione.
L’ipotesi di violazione del segreto riguardava anche gli altri tre magistrati del pool barese (Roberto Rossi, Lorenzo Nicastro e Renato Nitti), che ha indagato su Fitto per fatti che risalgono a quando il ministro era presidente della Regione Puglia.
Già nel giugno 2010 vi furono nuovi colpi di scena nell’ambito dell’inchiesta delle Procure di Bari e Trani sulle ormai note fughe di notizie. Quattro magistrati sarebbero stati intercettati mentre parlavano con giornalisti rivelando notizie relative ad indagini in corso. Ad avere il telefono sotto controllo sono però i cronisti: scopo degli inquirenti è quello di stanare le loro fonti.
L’archiviazione, disposta con ordinanza il 23 luglio 2010. Fitto aveva lamentato che “la diffusione alla stampa di notizie riservate costituisca la regola seguita dai predetti magistrati” sostenendo inoltre la sussistenza di “una vera e propria emorragia di notizie dalla Procura di Bari verso alcuni organi di stampa".
IL LEGALE DEL MAGISTRATO: DENUNCIA INFONDATA.
L'avvocato Gorini riferisce che il Gip di Potenza, su richiesta del pm e nonostante l’opposizione della difesa del ministro, “ha ritenuto quest’ultimo non legittimato a proporre opposizione non essendo persona offesa dal reato e, nel merito, ha escluso la sussistenza del reato di violazione del segreto di ufficio, in quanto quasi tutte le notizie oggetto di pubblicazione non erano coperte da alcun segreto e, limitatamente ad un’unica notizia illecitamente divulgata, ha escluso ogni e qualsiasi coinvolgimento di Dinapoli e degli altri pm denunziati rigettando le richieste di ulteriori indagini sollecitate dal denunciante”. L'avvocato Gorini riferisce, inoltre,che Fitto “aveva presentato molteplici esposti diretti a varie autorità, nei confronti dei magistrati in servizio presso la Procura di Bari, tra cui il dott. Dinapoli, che lo avevano inquisito”. “Nel marzo 2009 aveva anche ottenuto dal ministro della giustizia l’apertura di una inchiesta amministrativa sull'operato dei predetti magistrati con l’invio a Bari di un gruppo di ispettori, fra cui il vicecapo dell’ispettorato generale”. Gorini rileva, inoltre, che nessun rilievo formale è stato mai fatto dal ministro della giustizia in seguito a quella ispezione nè nei confronti di Dinapoli nè degli altri magistrati. Nel maggio 2009 il tribunale civile di Lecce aveva rigettato una richiesta di risarcimento danni (per un milione di euro) proposta da Fitto sempre nei confronti di Dinapoli, per il contenuto dell’intervista rilasciata dal magistrato al quotidiano 'la Repubblica'. Il Tribunale aveva ritenuto “del tutto infondata” la richiesta e condannato Fitto al pagamento delle spese processuali.
LEGALE MINISTRO: MURO GOMMA.
"In seguito alla pubblicazione di notizie riservate di carattere penale, erano stati chiesti accertamenti per scoprire gli autori di tali rivelazioni. Il gip, pur individuando precise responsabilità penali per la pubblicazione non consentita di atti giudiziari, si è dovuto arrendere dinanzi alla difficoltà delle indagini e al muro di gomma innalzato dal silenzio dei giornalisti”. Lo afferma l'avv. Francesco Paolo Sisto, difensore del ministro per i Rapporti con le Regioni, Raffaele Fitto, commentando in una nota il provvedimento del gip del Tribunale di Potenza. “Come al solito, quindi – aggiunge il legale – non è stato possibile scoprire i responsabili. Un film già visto, troppe volte. I giornalisti tacciono, le indagini, se e quando effettuate, non servono allo scopo”. “In merito poi alla richiesta di risarcimento danni avanzata da Raffaele Fitto al Tribunale di Lecce per l’intervista al dott. Marco Dinapoli pubblicata il 22 giugno 2006 da 'Repubblica' - prosegue Sisto – va precisato che, singolarmente, nel corso dell’istruttoria di quel processo, il giornale non fu in grado di provare la genuinità dell’intervista, assumendosene conseguentemente tutta la responsabilità e liberando il dott. Dinapoli da ogni onere; il Tribunale di Lecce, quindi, non solo non ha rigettato la richiesta di Raffaele Fitto, ma, piuttosto, il 16 maggio 2009, l’ha accolta, condannando 'La Repubblica', a risarcire a Raffaele Fitto 63 mila euro, ritenendo diffamatorio il contenuto dell’intervista stessa”.
Lecce come Potenza.
La seconda sezione penale del Tribunale di Lecce ha assolto "perchè il fatto non sussiste" l'ex presidente aggiunto della sezione gip del Tribunale di Bari, Piero Sabatelli, dalle accuse di rivelazione del segreto d'ufficio e accesso abusivo al sistema informatico della Procura della Repubblica barese. I fatti contestati risalgono al 2004. Lo ha reso noto il difensore del magistrato, avvocato Mario Guagliani. Sabatelli, che è attualmente in servizio presso la sezione lavoro della Corte d'Appello di Bari, era imputato con due segretarie e altre quattro persone che sono state tutte assolte. Secondo l'accusa (sostenuta dalla procura di Lecce competente per i procedimenti relativi ai magistrati in servizio nel distretto della Corte d'appello di Bari), Sabatelli e le sue segretarie, dopo aver consultato il registro generale della Procura di Bari, avrebbero rivelato a terzi notizie coperte dal segreto d'ufficio in relazione all'andamento delle inchieste sulle cooperative romana e barese La Cascina (quest'ultima aveva portato nell'aprile 2003 all'esecuzione di dieci provvedimenti cautelari) e La Fiorita. L'accusa, sostenuta dal pm Valeria Mignone, aveva chiesto la condanna ad un anno di reclusione.
“Il giornale” del 25 giugno 2009 riporta una notizia. C’è un’inchiesta, a Bari, che anziché restare riservata finisce sui giornali perché riguarda indirettamente un premier e/o persone a lui vicine presumibilmente in contatto con alcune prostitute. E c’è un’altra inchiesta, a Roma, che invece resta «sconosciuta» per quasi dieci anni e che riguarda l’entourage di un altro premier in contatto sicuramente con una scuderia di prostitute d’alto bordo. Il doppiopesismo mediatico-giudiziario cui si fa riferimento concerne un’inchiesta avviata nel 1999 dal pm capitolino Felicetta Marinelli e conclusasi il 4 ottobre 2000 con il patteggiamento a un anno della maîtresse R.F. che secondo l’accusa inviava sue «squillo» ai fedelissimi dell’allora presidente del Consiglio, Massimo D’Alema, per ottenere ritorni economici di vario genere.
A giocar troppo col fuoco si rischia di rimaner bruciati: quelli che a sinistra puntavano il dito contro Silvio Berlusconi storcendo il naso per la “politica priva di morale” del Cavaliere, avrebbero dovuto ricordarlo questo proverbio della saggezza popolare. Perché il ritornello si è ritorto contro.
L’inchiesta pugliese alla base della “scossa di Bari” si è, infatti, allargata con nuove “ragazze” pronte a testimoniare e nuovi festini: incredibilmente non più solo a Palazzo Grazioli, come preferirebbero quelli del partito del dito puntato, ma anche a Cortina, Milano e nella stessa Bari. Festini che coinvolgerebbero numerosi altri nomi noti fra imprenditori, professionisti e politici, fra cui - appunto - alcuni esponenti baresi del PD.
Articolo che parla di prostitute d’alto bordo coinvolte con uomini importanti e di ingressi “confidenziali” alla Camera dei Deputati, che non ha reso per nulla contento l’ex Presidente del Consiglio, Massimo D’Alema, che ha dato mandato ai suoi legali di querelare il quotidiano. In quell’articolo viene tirato in ballo anche l’on. Cesa dell’UDC.
In relazione alla querela annunciata dall’On. Massimo D’Alema e dall’onorevole Lorenzo Cesa, Il Giornale ribadisce che la notizia pubblicata si fonda su un dato di fatto incontrovertibile: Cesa era socio, nella Global Media Srl, di R.F., la maitresse che aveva organizzato un giro di squillo per ottenere favori da un gran numero di politici, tra i quali alcuni stretti collaboratori di Massimo D’Alema. In quella società Cesa era intestatario di quote per 11 milioni, R.F per otto.
Inutile dirlo: la Rete ha buona memoria.
Correva l’anno 1994. Il pubblico ministero pugliese, Alberto Maritati, stava indagando su un finanziamento illecito erogato - tramite assegno - dal patron delle Cliniche Riunite di Bari a Massimo D'alema.
Nel giugno del 1995, quel processo fu archiviato per decorrenza dei termini di prescrizione, su richiesta dello stesso pm Maritati.
Il gip Concetta Russi, con queste parole dispose l’archiviazione:
“Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti, e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci. Con riferimento all’episodio riguardante l’illecito finanziamento al Pci, l’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato”.
D’Alema, dunque, confessò di aver percepito un finanziamento illecito per il Partito comunista. E tuttavia, non venne condannato e non finì in gattabuia grazie alla prescrizione del reato da lui compiuto. Destino diverso toccò agli indagati di Di Pietro.
Va aggiunto, inoltre, che il pubblico ministero di questo processo, Alberto Maritati, fu candidato - per volontà di D’Alema - alle elezioni suppletive del giugno 1999 (si era liberato un seggio senatoriale, dopo la morte di Antonio Lisi). E divenne sottosegretario all’Interno del governo presieduto dallo stesso D’Alema. Ancora oggi, Maritati, siede al Senato nelle fila del Partito democratico.
Dalle mie parti si dice: una parola è poca, e due sono troppe.
Il Ministro per i Rapporti con le Regioni, Raffaele Fitto, replica sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 1 aprile 2009, contrattaccando, alla interrogazione al Ministro della Giustizia, Alfano, dei senatori Pd sul suo conto, segnalando la "coincidenza" con iniziative e decisioni del Csm.
Il Ministro Alfano ha disposto un’ispezione Ministeriale presso la Procura di Bari per verificare il suo modus operandi, mentre il CSM ha respinto un esposto di Fitto contro la stessa Procura. "In Spagna - scrive Fitto in una nota - un ministro della giustizia socialista si dimette per essere stato fotografato a caccia con un magistrato che indaga sul partito popolare. Da noi alla fine ci si mette anche una "casta" togata che siede "pro tempore" sui banchi del Senato a interrogare il Ministro Alfano. Sei pubblici ministeri su nove firme. Nomi celebri: Finocchiaro, Casson, D'Ambrosio, Della Monica ma anche: Gianrico Carofiglio, fino all'altro giorno pubblico ministero presso la Procura della Repubblica di Bari, dove la moglie, Francesca Romana Pirrelli esercita la stessa attività nel pool che indaga sui reati contro la Pubblica Amministrazione, competente quindi sul Comune di Bari del quale è sindaco l'ex collega magistrato e compagno di partito del marito, Michele Emiliano. Competente anche sulla Regione Puglia. Tra l'altro dello stesso magistrato e della moglie magistrata circolano nella Rete foto in atteggiamenti di grandi familiarità con parenti stretti del Presidente Vendola. Firmatario anche Alberto Maritati, già sostituto procuratore presso la Procura di Bari e successivamente applicato a Bari dalla Direzione Nazionale Antimafia. Celebre per avere suscitato un immenso clamore con la cosiddetta "Operazione Speranza", alla metà degli anni novanta, che vide decine di persone tra arrestate e variamente imputate in una serie di procedimenti che, dopo ben più di un decennio, si sono conclusi tutti con assoluzioni in tutti i gradi di giudizio. Ma ebbe di che consolarsi con un patteggiamento. Né va dimenticato che nella stessa indagine Maritati si imbatté in esponenti politici dai quali, senza difficoltà, in seguito ottenne la candidatura nel medesimo partito".
Secondo Fitto, poi, "non va dimenticato che è sindaco di Bari Michele Emiliano, magistrato presso la Procura della stessa città e che a lungo indagò sulla cosiddetta Missione Arcobaleno, ipotizzando reati gravissimi a carico di tutta una serie di alti esponenti di quello che, con nuova denominazione, è diventato il partito del quale è segretario regionale e che, a suo tempo lo candidò a sindaco del Comune di Bari". E "che sono stato definito "mafioso" in un'intervista al giornale La Repubblica da Marco Di Napoli, magistrato impegnato in un'indagine sulla mia persona. Segue in proposito una denuncia penale e un procedimento civile". Così come "un altro magistrato, Roberto Rossi, analogamente impegnato in un'indagine sulla mia persona si lasciava fotografare in ridente condivisione con una assessore comunale di Bari dei Verdi, nel corso del cosiddetto Vaffa Day in svolgimento nella stessa città nella quale esercita il suo delicato ufficio. Peraltro compiendo eloquente gesto".
Inoltre, "un altro firmatario non magistrato, Nicola Latorre ha sicuramente minuziosa conoscenza di tutte queste vicende". "Per il resto - prosegue il ministro- vale il criterio opinabilissimo dell'opportunità che una serie tanto nutrita di magistrati si impegni in politica e che alcuni lo facciano all'indomani di indagini delicatissime a carico di esponenti dello stesso partito che finisce con il candidarli? Va da sé: liberi tutti.... E mi si vuole negare la libertà di un esposto, più volte integrato in questi mesi con ulteriori elementi, peraltro nel più rigoroso rispetto delle regole e che riguardano per ciò che mi concerne intercettazioni ambientali tra avvocati e indagati in colloqui precedenti all'interrogatorio, iscrizione nel registro degli indagati e successiva autorizzazione alle intercettazioni distanza di 23 mesi dalla notizia di reato e senza che ci fossero fatti nuovi e in coincidenza con la mia campagna elettorale, indagini preliminari che durano 7 anni. Telefonate intercettate e riportate in brogliacci come "non inerenti" e il cui contenuto è invece totalmente riferibile alla, vicenda. Telefonate riportate con degli omissis, contenenti invece brani che attribuiscono diverso significato. Tentativo con diversi ostacoli durato 2 anni per poter esercitare il mio legittimo diritto, previsto dal Codice di ascoltare tutte le telefonate e non solo quelle scelte dai P.m.. E potrei continuare".
"Peraltro - conclude Fitto- vedo che con una velocità del tutto inusitata, non solo si mobilitano le associazioni dei magistrati locale e nazionale, ma lo stesso CSM non archivia, come si è detto, ma eccepisce la sua non competenza, a tempo di record, sul mio esposto e, sempre a tempo di record, si dispone a intervenire sul caso dell'ispezione come ci informa, per agenzia, il Consigliere del CSM, Ciro Riviezzo, che appartiene alla stessa corrente di alcuni pubblici ministeri titolari delle indagini a mio carico. Sicuramente tutte strane coincidenze".
A Lecce si deve subire e si deve tacere. Potenza agevola. Processato per diffamazione a mezzo stampa il presidente della “Associazione Contro Tutte Le Mafie”, perché sul web e sulla stampa nazionale ed internazionale (La Gazzetta del sud Africa) riporta le prove che nel distretto di Lecce, definito Foro dell’Ingiustizia, vi sono eccessivi errori giudiziari ed insabbiamenti impuniti.
Si apre a Potenza il processo a carico del Dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte Le Mafie”.
L’accusa: diffamazione a mezzo stampa, su denuncia di un sostituto procuratore della Repubblica di Taranto, poi passato alla procura di Lecce, perché la Gazzetta del Sud Africa ha pubblicato un articolo contenente le motivazioni del Sostituto Procuratore, Alessio Coccioli, allegate alla sua richiesta di archiviazione di una denuncia.
La difesa: aver pubblicato i dati ufficiali del Ministero della Giustizia su Distretto di Lecce, le interrogazioni parlamentari, le richieste di archiviazione e gli articoli di stampa nazionale.
I dati ufficiali: Denunce penali presentate.
Le varie interrogazioni dei parlamentari: Patarino, Bobbio, Bucciero, Lezza, Curto e Cito.
Le motivazioni di una richiesta di archiviazione in cui si dubita della fondatezza delle accuse di una vittima di un concorso pubblico palesemente irregolare per conflitto di interessi del vincitore e, contestualmente, responsabile del procedimento concorsuale.
Nella stessa città di Manduria è legale che l’Ufficio Protocollo rilasci una ricevuta degli atti consegnati, mancante di nome e firma del ricevente e del numero di ruolo, come è legale che a vincere il concorso di Comandante dei Vigili Urbani, sia stato, in palese conflitto di interesse, in qualità di dirigente dell’Ufficio del Personale e Comandante pro tempore, colui il quale ha indetto e regolato lo stesso concorso, ricoprendo le stesse funzioni in attesa della sua nomina, i cui commissari d’esame erano persone con cui già collaborava, quale il Vice Questore, un suo collega Vigile Urbano, Comandante di Brindisi, e il Commissario Prefettizio, in quel periodo Sindaco pro tempore di Manduria.
La richiesta di una auto-archiviazione per una denuncia in cui la stessa Procura richiedente era stata palesemente denunciata. Denuncia, oltretutto, iscritta falsamente a carico di ignoti.
Articoli di stampa: Giudice scriveva sentenze con gli avvocati; ritardi colossali delle sentenze; Vigili Urbani, pronto intervento per il sindaco, 50 minuti; Vigili urbani, violenza sui cittadini; insabbiamenti alla Procura; giudici, cancellieri, avvocati e consulenti accusati di corruzione; ispettore di polizia denuncia i giudici che insabbiano, lo processano in un giorno; corruzione al Palazzo di Giustizia; concorsi forensi truccati ed impedimento del ricorso al Tar.
Articoli di stampa sugli innumerevoli errori giudiziari: caso on. Franzoso, caso killer delle vecchiette, caso della barberia, caso Morrone, ecc.
La denuncia è stata presentata da un magistrato, la cui procura ha già cercato, non riuscendoci, di far condannare il dr Antonio Giangrande per abusivo esercizio della professione forense, pur sapendo di essere regolarmente autorizzato a patrocinare; ovvero di farlo condannare per calunnia per la sol colpa di aver presentato per il proprio assistito opposizione provata avverso ad una richiesta di archiviazione; ovvero di farlo condannare per lesione per essersi difeso da un’aggressione subita nella propria casa al fine di impedirgli di presenziare ad una sua udienza; ovvero di farlo condannare per diffamazione per aver pubblicato le inchieste sulle consulenze o perizie false; ovvero farlo condannare per violazione della privacy e per diffamazione per aver pubblicato atti pubblici nocivi alla reputazione della stessa procura. Sempre con impedimento alla difesa.
Il processo si apre a Potenza. Foro in cui lo stesso Presidente di quella Corte di Appello aveva più volte chiesto conto alle procure sottoposte sulle denunce degli insabbiamenti, rimaste lettera morta.
Il processo si apre a Potenza, più volte sollecitata ad indagare sui concorsi forensi truccati, in cui vi sono coinvolti magistrati di Lecce, Brindisi e Taranto.
Il processo si apre a Potenza, foro in cui è rimasta lettera morta la denuncia contro alcuni magistrati di Brindisi, che a novembre 2007 hanno posto sotto sequestro per violazione della privacy (censura tuttora vigente) un intero sito dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie composto da centinaia di pagine, effettuato con atti nulli e con incompetenza territoriale riconosciuta dallo stesso foro. La procura di Taranto, investita per competenza, ha reiterato il sequestro. Il sito conteneva, alla pagina di Brindisi, le notizie di stampa nazionale riguardanti il presunto complotto della medesima procura di Brindisi contro il Giudice di Milano, Clementina Forleo, e alla pagina di Taranto, le prove sugli insabbiamenti della Procura locale.
Il processo si apre a Potenza, foro in cui è rimasta lettera morta la denuncia contro il giudice di Manduria, che condanna sempre quando il Giangrande o un suo assistito è imputato, ovvero assolve sempre quando il Giangrande o un suo assistito è persona offesa. Questo sempre in contrasto alle prove acquisite.
Il processo si apre a Potenza, dove si è costretti a presentare istanza di ammissione al gratuito patrocinio, a causa dell’indigenza procurata dalle ritorsioni del sistema di potere, che impedisce l’esercizio di qualsivoglia attività professionale. Situazione che non assicura una adeguata difesa.
Tutto questo, e anche peggio, succede a chi, non conforme all’ambiente, non accetta di subire e di tacere, per sè e per gli altri.
"Non possiamo andare avanti così - lo ha detto il primo presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, nella relazione che ha aperto la cerimonia dell’ inaugurazione dell’ Anno Giudiziario - In più, oltre a un più rigoroso richiamo dei giudici ai propri doveri di riservatezza, occorrerebbe contestualmente evitare la realizzazione di veri e propri 'processi mediatici', simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre è ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali". "La giustizia - sottolinea Carbone - deve essere trasparente ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria". “Inoltre – conclude - in Europa solo l'Italia supera la soglia dei 200mila avvocati (per l'esattezza, 213.081), più del 30% del totale europeo. (La stima, è elaborata dal Ccbe, il Consiglio degli ordini forensi d'Europa). "Tutti gli altri Paesi - scrive Carbone - si attestano ben al di sotto di questa cifra: la Spagna con 154.953, la Germania con 146.910, il Regno Unito con 139.789, la Francia con soli 47.765".
Anche nella magistratura sono presenti "sacche di inefficienza e di inettitudine". A dirlo un addetto ai lavori. Colpisce a fondo Vitaliano Esposito, Procuratore Generale della Corte di Cassazione nella sua relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario. Inoltre Esposito ha attaccato il rischio di politicizzazione della magistratura: ''I magistrati sono in crisi di identità. Ci muoviamo su un terreno impervio in cui il magistrato rischia di divenire il mediatore dei conflitti con un rischio di politicizzazione e radicalizzazione''. Esposito ha chiesto dunque ai magistrati di mantenersi estranei al conflitto con la politica: ''La magistratura deve essere estranea al conflitto con le parti politiche. L'unica politica consentita alla magistratura è quella della legalità''. Esposito ha poi spiegato che la lentezza dei processi nell'anno precedente ha portato all'aumento del 19% dei risarcimenti previsti dalla legge Pinto (quella che appunto risarcisce le vittime di giudizi troppo lunghi - ndr) per un totale di 32 milioni di euro in un solo anno.
«PROCESSO INGIUSTO: TEMPI LUNGHI, ERRORI GIUDIZIARI E INGIUSTE DETENZIONI»
Più che ispirarsi ai principi costituzionali del giusto processo, la realtà giudiziaria italiana presenta gravi disfunzioni che rivelano l’esistenza di un processo ingiusto. E’ dura l’analisi del presidente della Corte d’appello di Bari, Vito Marino Caferra, all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Assenti i penalisti che protestano per ottenere una riforma del processo.
Caferra si è soffermato a lungo sul 'processo al processo', ovvero sui processi 'derivati' dal principale con i quali i cittadini chiedono la riparazione per la violazione del termine ragionevole della durata del processo (legge Pinto), oppure la revisione per errore giudiziario (art.314 del codice di procedura penale), quest’ultima avanzata da coloro che sono stati arrestati e poi assolti. Fino al 30 giugno 2008 in corte d’appello pendevano 428 richieste di risarcimento per ingiusta detenzione.
A proposito di processi-lumaca: un processo civile dura in media 775 giorni in primo grado e 1.193 in appello. Va meglio nel penale con 441 giorni davanti al giudice monocratico, 366 al collegiale e 535 in assise. In appello il dibattimento penale dura in media 1.025 giorni. Tempi biblici che hanno fatto aumentare da 10.962 a 13.099 (+9) le prescrizioni dei reati. Proprio per evitare la proliferazione dei procedimenti penali Caferra invita i suoi colleghi della procura e del gup del tribunale a rispettare la legge e a “non chiedere (e disporre) il giudizio quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio e non consentono di pervenire ad una pronunzia di colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio”.
«CREDIBILITÀ DEI MAGISTRATI AI MINIMI TERMINI»
''Tacere e rinunciare alla discussione significherebbe certificare definitivamente la nostra sconfitta. E la sconfitta della magistratura è una sconfitta per la nostra democrazia e per il nostro futuro di uomini liberi”. E’ la considerazione fatta dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Mario Buffa, nel corso della relazione tenuta per l’inaugurazione dell’anno giudiziario.
“Noi magistrati – ha sottolineato – siamo consapevoli dell’importanza del nostro ruolo all’interno della società e del nostro dovere di fare quanto da noi dipende per esserne all’altezza. E tuttavia siamo altrettanto consapevoli che la nostra credibilità va sempre più diminuendo”. Buffa, tra le tante motivazioni, ha tra l’altro indicato “la nostra incapacità di far capire di chi è la vera responsabilità delle incredibili deficienze dell’apparato giudiziario, a cui in definitiva è legata la nostra perdita di credibilità”.
“Sta di fatto – ha detto ancora – che se anche i sondaggi dicono il contrario, che ci danno in vantaggio di fronte ad altre istituzioni, la nostra credibilità è oggi ai minimi termini. E siamo ormai circondati da sentimenti di vera e propria insofferenza quando pretendiamo di indicare responsabilità altrui sminuendo invece le nostre. Ed è triste dover constatare che noi giudici oggi siamo più temuti dai cittadini, che non rispettati”. “E anche per questo – ha concluso Buffa – ci dobbiamo sforzare di cambiare e dobbiamo cambiare e possiamo cambiare, come si legge in un recente documento della nostra associazione, solo se siamo capaci di rinnovarci al nostro interno, perché è nostro dovere e responsabilità assicurare ai cittadini una magistratura, capace, motivata e professionalmente adeguata”.
«TROPPE INTERCETTAZIONI, MISURE CAUTELARI, CENSURE E FUGHE DI NOTIZIE IMPUNITE»
Il ''notevole aumento'' delle intercettazioni, da un lato, e delle pendenze, alle quali si aggiungono le carenze di organico: sono stati questi i due principali temi che, a Potenza, hanno oggi caratterizzato la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario, nella quale gli avvocati hanno lamentato il ricorso “troppo facile” alle misure cautelari.
Il Presidente della Corte di Appello, Ettore Ferrara, e il Procuratore Generale, Vincenzo Tufano, hanno messo in evidenza i “numeri”: in tre anni, ad esempio, la durata complessiva delle intercettazioni della Procura della Repubblica potentina è stata di circa 267 anni, vale a dire oltre due secoli e mezzo, con un netto incremento nell’ultimo anno. Ferrara ha anche evidenziato “l'aumento delle pendenze”, che “è molto più preoccupante per i Tribunalì. Un caso per tutti: il Tribunale di Matera “dove in materia di lavoro e previdenza risultano pendenti circa 5.600 ricorsi, tutti assegnati a un solo giudice”.
Affermazioni ancora più “pesanti” sono arrivate sempre da Tufano (che, poco dopo lascerà l'incarico) sulle fughe di notizie, che “scandalosamente restano impunite”. In particolare, il Pg si è rivolto al Procuratore della Repubblica di Melfi (Potenza), Domenico De Facendis, al quale ha chiesto di “scoprire le fonti delle fughe di notizie” sulla risoluzione dell’omicidio dell’avvocato Francesco Lanera, ucciso nel suo studio nel 2003. I rappresentanti degli ordini degli avvocati hanno espresso un giudizio di “eccessiva facilità per l’emissione di misure restrittive della libertà”, mentre il Presidente dell’Ordine dei giornalisti, Oreste Lo Pomo, ha detto che “non bisogna mettere il bavaglio ai cronisti”.
IL RESOCONTO ANNUALE DELLO STATO DELLA GIUSTIZIA INDICA IL PERCHE' DI TANTA SFIDUCIA DEI CITTADINI NELLE ISTITUZIONI, SE GIA' LE DENUNCE DELLE FORZE DELL'ORDINE HANNO UN ESITO INCERTO.
DENUNCE ITALIA FORZE DELL'ORDINE |
TOTALE |
AUTORI IGNOTI |
AUTORI NOTI |
|
2.456.887 |
1.840.209 |
616.678 |
TOTALE CONDANNE ITALIA |
198.263 |
|
|
RAPPORTO DENUNCE-CONDANNE |
8% |
|
|
|
|
|
|
DENUNCE PUGLIA |
|
|
|
Foggia |
24.368 |
15.643 |
8.725 |
Bari |
61.003 |
44.814 |
16.189 |
Taranto |
19.333 |
13.419 |
5.914 |
Brindisi |
16.538 |
11.621 |
4.917 |
Lecce |
28.202 |
20.373 |
7.829 |
Totale |
149.444 |
105.870 |
43.574 |
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CONDANNE PUGLIA |
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Foggia |
1.923 |
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Bari |
5.639 |
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Taranto |
5.513 |
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Brindisi |
2.348 |
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Lecce |
2.113 |
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Totale |
17.536 |
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RAPPORTO DENUNCE-CONDANNE |
11% |
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Ma non c'è solo questo.
Se si trattava degli amici, la giustizia a Taranto poteva diventare strabica. E all'occorrenza anche cieca. Da questa accusa ora dovranno difendersi due alti magistrati, sospettati di aver pilotato alcuni procedimenti, approfittando del loro ruolo. Si trascina dietro una carica dirompente l'indagine condotta dai giudici di Potenza sul conto di toghe sino a poco tempo fa adagiate su poltrone strategiche del palazzo di giustizia ionico.
I pm Cristina Correale e Ferdinando Esposito hanno messo sotto inchiesta l'ex procuratore capo di Taranto Aldo Petrucci, poi alla guida della procura minorile di Lecce, e l'ex coordinatore dell'ufficio gip-gup Giuseppe Tommasino. Nello scottante caso è coinvolto anche l'avvocato Leonardo Conserva, ex sindaco di Martina Franca. Gravi le imputazioni contenute nelle informazioni di garanzia, con le quali gli inquirenti hanno concluso la loro attività. I pm lavorano sull'ipotesi di concorso in corruzione in atti giudiziari ma Petrucci, ora procuratore minorile a Lecce, deve difendersi anche dall'accusa di peculato per le tante telefonate private fatte dagli apparecchi di servizio. Su Tommasino, inoltre, aleggia la contestazione di rivelazione di segreto d'ufficio.
L'inchiesta ruota proprio sul rapporto stabilito tra le due toghe, piazzate a Taranto a presidio di snodi obbligati delle inchieste. Da quelle postazioni, sostengono i pm lucani, Petrucci e Tommasino si sarebbero scambiati favori a ripetizione sviando l'attività giudiziaria. Tutto ha preso il via da una segnalazione alla procura di Potenza, competente ad indagare sui magistrati ionici. L'attività delegata ai carabinieri ha rivelato più di una sorpresa, saltate fuori da diverse testimonianze e acquisizioni documentali. Così si sono fatti largo i sospetti su quel binomio in grado di gestire il destino dei fascicoli, spedendo in archivio quelli "sgraditi". Tra i presunti beneficiari l'ex primo cittadino di Martina, Leonardo Conserva. Il procuratore Petrucci, a parere dei pm potentini, si sarebbe assegnato un procedimento sul conto del sindaco. Le indagini sarebbero state condotte in maniera poco approfondita spianando la strada all'archiviazione, firmata puntualmente dal gip Tommasino. Ma tra sindaco e procuratore sarebbe nata una vera amicizia, tradotta dai pm nell'accusa di corruzione, in virtù delle consulenze comunali, per un valore di 283.000 euro, dirottate da Conserva verso lo studio legale in cui lavora la figlia del magistrato.
Quello che riguarda il sindaco di Martina, però, è solo uno dei capitoli del rimpallo di favori che si sostiene si sia sviluppato tra il terzo piano del Tribunale, dove c'è l'ufficio del procuratore, e il pianterreno dove si trova quello del capo dei gip. Lo stesso Tommasino, oggi in aspettativa perché componente della commissione per il concorso di notaio, sarebbe stato graziato da Petrucci. Era finito nei guai nel 2004 dopo una clamorosa indiscrezione. Un imprenditore, coinvolto nello scandalo sanitopoli, aveva saputo in anticipo del suo imminente arresto per una storia di forniture pagate a peso d'oro. Quella fuga di notizie aveva mandato su tutte le furie il pm titolare dell'inchiesta, che aveva preteso un'indagine interna. Seguendo le tracce nel sistema informatico del Tribunale si era risaliti al desk dal quale era stato violato il registro generale. Era la scrivania di un cancelliere che non aveva esitato a puntare il dito contro Tommasino.
A quel punto sarebbe intervenuto il procuratore capo che, dopo essersi assegnato l'indagine, aveva iscritto sul registro degli indagati solo il cancelliere, poi scagionato, insabbiando la posizione dell´amico gip. A distanza di anni, però, ci ha pensato la procura di Potenza a risistemare i pezzi del puzzle incriminando l'ex capo dei gip. Dopo quella ciambella di salvataggio, Tommasino avrebbe ricambiato il favore. Nel giugno del 2006 sul suo tavolo arrivò la richiesta di rinvio a giudizio per una banda accusata di rapine. Anche in questo caso sarebbe scattata l'intesa. Dal procedimento venne estromesso, con sentenza di non luogo a procedere poi annullata in Cassazione, un giovane tarantino. Quell'uomo era il marito di una conoscente del procuratore e per questo a Tommasino avrebbe chiuso un occhio. Ora i due magistrati hanno a disposizione venti giorni per farsi interrogare, nel tentativo di allontanare l'accusa di aver degradato la giustizia ad un affare tra amici.
In data 13 aprile 2011 arriva dal dr Giuseppe Tommasino una richiesta di rettifica all’articolo di cui sopra a firma di Mario Diliberto - Repubblica del 22 febbraio 2009.
Richiesta aggiornamento: «Lei è contro tutte le mafie? Onestamente non credo visto che esercita la sua attività di blogger con modalità discutibili. La invito a prendere atto che sono stato assolto con ampia formula e su richiesta del PM. di udienza in data 17 maggio 2011 dopo aver combattuto strenuamente. Un dossier a firma è anche a sua disposizione, così si chiarirà le idee». Giuseppe Tommasino
Prontamente si è riportata la richiesta di rettifica e non è certo il tono usato che può sminuire quello che io faccio per la società. Sicuramente non si conosce quello che noi facciamo e chi noi siamo. Non si conosce il mio libro, lo spot nazionale antiracket ed antiusura, il film, la nostra web tv di promozione del territorio, i nostri siti d'inchiesta o il nostro movimento politico. Tutto questo senza aver vinto alcun concorso pubblico che possa contenerci o darci l’appoggio o il potere istituzionale. L’aggiornamento avviene prontamente non per timore, ma perché devo essere grato al dr. Tommasino per aver ricevuto solo un’intimazione e non direttamente una ritorsione come hanno fatto i suoi colleghi, tanto da dover presentare istanza di rimessione per legittimo sospetto, che i processi a mio carico a Taranto, artatamente formati, possano essere inficiati da inimicizia e pregiudizio. Preme precisare, però, ad un valido tecnico di discipline giuridiche come è il dr. Tommasino che il nostro non è un blog. Un blog è un sito, generalmente gestito da una persona o da un ente, in cui l'autore (blogger) pubblica più o meno periodicamente, come in una sorta di diario online, i propri pensieri, opinioni, riflessioni, considerazioni ed altro, assieme, eventualmente, ad altre tipologie di materiale elettronico come immagini o video. Il definirmi blogger per molti è l’intento diffamatorio per denigrare il mio operato e su questo si montano dei processi. Peccato però che gli innumerevoli detrattori devono mettersi in fila e aspettare il proprio turno per colpirmi, essendo in molti, in quanto le nostre inchieste coprono l’intero territorio nazionale. Il nostro, peccato per loro, è un vero portale d’inchiesta letto in tutto il mondo. Strumento con cui si esercita il sacrosanto diritto di critica e di informazione, di cui all’art. 21 della Costituzione. Portale dove la cronaca diventa storia attingendo da fonti pubbliche. I dati riportati sono pubblici e si basano su: a) la verità dei fatti (oggettiva o “putativa”); b) l’interesse pubblico alla notizia; c) la continenza formale, ossia la corretta e civile esposizione dei fatti. In ossequio al dettato della Suprema Corte. Non è nostra intenzione danneggiare o favorire alcuno. Le nostre inchieste non riportano alcun nostro commento: bastano ed avanzano quelli dei redattori degli articoli di stampa. L’inchiesta citata dal dr Tommasino è inserita in un più ampio spettro di fatti e circostanze che minano la credibilità del sistema giustizia. L’abitudine all’omertà mediatica degli organi d’informazione territoriale non può impedirmi di dire la verità. Il fatto che per il dr. Tommasino sia intervenuta l’assoluzione, questo non salva l’immagine che il sistema giustizia dà di sé a Taranto ed in Italia. E' certo, però, che le nostre inchieste sono state fatte anche per Potenza, foro in cui, spesso, si assolvono o si archiviano le denunce contro i magistrati tarantini.
Tanto io dovevo ad un magistrato che è da me tra i più stimati a Taranto, in integrazione esplicativa alla sua richiesta di aggiornamento.
Una ispezione amministrativa a Lecce «negli uffici interessati dalle esecuzioni giudiziarie», in particolare a proposito dell’espletamento delle aste giudiziarie, è stata annunciata dal sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano in conseguenza di quanto emerso dopo l’uccisione – compiuta l’altro ieri – di un salentino, Giorgio Romano, che – secondo primi accertamenti – avrebbe fatto affari frequentando appunto le aste giudiziarie.
Mantovano ha spiegato, parlando a Lecce con i giornalisti, di aver concordato l’ispezione amministrativa col ministro della giustizia, Angelino Alfano, un’ispezione «che sia parallela e non in contrasto, come ogni accertamento ispettivo di carattere amministrativo con l’indagine penale». Per il resto – ha detto ancora al riguardo – «ci sono indagini giudiziarie in corso sulle quali l’autorità giudiziaria ha piena disponibilità, indipendenza e autonomia».
Romano è stato ucciso – a quanto è stato accertato poche ore dopo l’omicidio – da un uomo che, per gravi difficoltà economiche, aveva perso la sua casa e la sua macelleria e sperava di rientrarne in possesso tramite un accordo proprio con Romano, abituale frequentatore di aste giudiziarie.
Antonio Giangrande, Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie non è il solo a denunciare pubblicamente le anomalie IMPUNITE E SOTTACIUTE in campo forense-giudiziario.
“Il volto sporco della giustizia nel Salento” (libro – dossier). Testimonianza a cura dell’Avv. Fedele Rigliaco di Lecce.
Presentazione.
Questo dossier vuole costituire un piccolo saggio dei numerosi casi di mala-giustizia nel Salento, che il sottoscritto difensore ha raccolto a seguito dell’incarico ricevuto di svolgere investigazioni ai sensi della legge 7-12-2000, n. 397. Egli è a disposizione delle autorità competenti a fornire ogni ragguaglio che dovesse occorrere sui casi esposti e su quelli non riportati in esso di cui, comunque, è a conoscenza. Questo opuscolo si prefigge, altresì, lo scopo d’invitare le autorità a prendere i provvedimenti di competenza. Nella mia veste di difensore incaricato di svolgere indagini ai sensi legge 7-12-2000, n. 397 sono venuto a conoscenza di casi di pessima amministrazione della Giustizia da parte di alcuni magistrati della Corte di Appello di Lecce, di Bari, di Potenza, di Catanzaro e di Bologna e di sperpero di preziose risorse di questa: archiviazione di procedimenti penali “de plano” finalizzati a favorire alcuni soggetti in danno di altri, insabbiamenti d’indagini importanti, fallimenti di aziende o di privati cittadini in assenza dei presupposti di legge, o condotti in modo scorretto, istanze di fallimento avanzate da usurai privati o da Istituti bancari che hanno praticato tassi d’interesse elevati, decreti ingiuntivi accordati ad usurai o ad Istituti bancari privi di titolo, disintegrazione di aziende ad opera di Istituti bancari che applicano interessi ultralegali anatocistici in assenza di contratti, trattamento di favore riservato da magistrati ad Istituti Bancari, dispendiose ed inutili consulente, diniego da parte di alcuni magistrati delle indagini difensive di cui agli artt. 391-bis e 391-nonies, utilizzo dei processi per calunnia come spauracchio per disincentivare i cittadini a denunciare amici di magistrati, corruzione di alcuni magistrati, terrorismo che promana da una parte della magistratura, condizionamenti da parte di magistrati su avvocati, archiviazione di procedimenti penali per comportamenti estorsivi da parte del Concessionario esattore delle tasse e da parte di Enti impositori, ecc..
Segnarsi la seguente data: 21 febbraio 2011, san Pier Damiani, quarto anniversario della caduta del secondo governo Prodi. Alle 9 precise di quel lunedì mattina Luigi De Magistris, ex pubblico ministero, ora eurodeputato dell'Italia dei valori, si dovrà presentare davanti al tribunale di Salerno, prima sezione penale, aula C di udienza. Imputato in un processo a suo carico per il reato di omissione in atti d'ufficio quand'era magistrato a Catanzaro. Il rinvio a giudizio è stato deciso dal giudice dell'udienza preliminare di Salerno Dolores Zarone. Non una trascuratezza qualunque, fa presente l'avvocato leccese Felice Rigliaco, legale della parte offesa, «ma un'omissione di indagini ordinate da un gip su presunte collusioni fra magistrati di Lecce e di Potenza con ipotesi delittuose gravissime che vanno dall'associazione per delinquere all'estorsione al favoreggiamento di banche che applicano tassi usurari disinvoltamente». Che cos'avrebbe combinato De Magistris, soprannominato «Gigineddu flop» per l'esito fallimentare di gran parte delle inchieste a lui affidate ma assurto al ruolo di castigamatti ora che veste la casacca dipietrista? L'accusa è di non aver indagato su due colleghi della procura di Potenza a loro volta denunciati da un commerciante che riteneva di non aver avuto giustizia da loro. «La casta è casta», commenta l'avvocato Rigliaco. E probabilmente l'inchiesta che gli era stata affidata non garantiva a De Magistris il «grande risalto mediatico» ottenuto grazie al fascicolo «Why not» che (secondo il giudice che recentemente ha demolito il fantasioso castello accusatorio) gli aveva regalato enorme notorietà. La vicenda che riporterà De Magistris in un'aula di giustizia seduto al banco degli imputati e non a quello della pubblica accusa ha origine qualche anno fa a Nardò (Lecce), dove un commerciante vittima di usura perse lavoro e casa: Luigi Stifanelli dormiva in auto e fu il primo cittadino italiano che ebbe assegnata la residenza ufficiale non tra quattro mura ma su quattro ruote. Ritenendo di non avere avuto giustizia, l'uomo denunciò i magistrati salentini che, a suo dire, erano responsabili di ritardi e omissioni a suo danno: «Sono vittima e destinatario di decisioni e condotte gravemente persecutorie e di un vero e proprio accanimento giudiziario». Per competenza territoriale, toccava ai magistrati di Potenza indagare sui colleghi di Lecce. Il fascicolo toccò a Roberta Ianuario, pubblico ministero ora trasferito a Napoli, e Alberto Iannuzzi, all'epoca giudice per le indagini preliminari passato in corte d'appello. Il caso fu archiviato. Stifanelli non si arrese: è un tizio che in fatto di querele non guarda in faccia nessuno, ha denunciato il sindaco di Nardò, un assessore, giornalisti come Cristina Parodi. Partì un esposto anche contro le due toghe lucane che planò sul tavolo di De Magistris, in quanto Catanzaro ha la competenza territoriale sui guai dei magistrati di Potenza. Era l'inizio del 2007, il sostituto calabrese stava architettando il castello di accuse contro Prodi e Mastella e il 12 marzo chiese di archiviare il fascicolo a carico dei colleghi. In ottobre il gip chiese ulteriori indagini ma l'invito fu lasciato cadere: c'erano reati più urgenti di cui occuparsi. Siccome non c'è due senza tre, il commerciante ha denunciato anche De Magistris. E questa volta non c'è stata archiviazione ma il processo. Il gup Zarone nel decreto che dispone il giudizio descrive così l'operato del nuovo idolo giustizialista: «Quale sostituto procuratore in servizio presso la procura della Repubblica di Catanzaro e assegnatario del procedimento penale (sui colleghi lucani, ndr), omettendo di procedere alle indagini ordinate dal gip presso il Tribunale di Catanzaro, indebitamente rifiutava di compiere un atto del suo ufficio che per ragioni di giustizia doveva essere compiuto senza ritardo e comunque nel termine di sei mesi fissato dal gip». «Dagli atti di indagine - si legge ancora nel decreto - sussistono sufficienti elementi per sottoporre l'imputato al vaglio dibattimentale e non sono emerse ragioni per pronunciarne il proscioglimento».
Il seguito è cosa scontata. Trasmettiamo di seguito un esposto del commerciante di Nardò, Luigi Stifanelli, sull'assoluzione di Luigi De Magistris e pubblicata su Agenparl.it.
"Luigi De Magistris è stato assolto perché il fatto non sussiste: è la sentenza del Tribunale di Salerno nel processo per omissione in atti d'ufficio all'eurodeputato, per fatti risalenti a quando era ancora magistrato. ''Era un'accusa ingiusta e infamante - ha commentato De Magistris - ma sono stato assolto difendendomi nel processo e non dal processo, senza usare l'immunità parlamentare nè il legittimo impedimento''. Per il leader dell'Idv Antonio Di Pietro ''giustizia è stata fatta''. Questa nota dell’Ansa tace la circostanza che il Giudice che ha assolto De Magistris è la Dr.ssa Maria Teresa Belmonte, moglie dell’avv. Giocondo Santoro, fratello del Santoro famoso conduttore di Annozero. Questo Giudice costituisce il simbolo della imparzialità quando deve giudicare De Magistris. Con tale Giudice il De Magistris ha fatto certamente un grande sforzo a difendersi “nel processo”!!! E’ notoria l’attività di sponsorizzazione dell’europarlamentare dell’Idv De Magistris da parte del Santoro televisivo su di una televisione pubblica. Nessuno ha prove per dire che la decisione dell’assoluzione sia stata presa davanti al focolare dei coniugi Santoro-Belmonte allargato al noto conduttore di Annozero; è innegabile, però è che il Santoro televisivo cognato della Belmonte è il padrino dell’europarlamentare. Ciò che è certo è che la sentenza, così come formulata, getta un’ombra lugubre sulla Giustizia, quella vera. Luigi De Magistris era imputato di un grave delitto. Egli, secondo l’accusa, “...indebitamente rifiutava di compiere un atto del suo ufficio..." quando era sostituto procuratore in servizio presso la Procura della Repubblica di Catanzaro ed aveva omesso di “procedere alle indagini ordinate…dal GIP presso il Tribunale di Catanzaro” in un “procedimento…a carico dei magistrati di Potenza IANUARIO ROBERTA e IANNUZZI ALBERTO”, che si era aperto a loro carico su denuncia del sottoscritto per ipotesi delittuose di “associazione per delinquere, favoreggiamento, falsità, concorso in estorsione ed usura” a carico di “alcuni magistrati di Lecce e di Potenza”. Nel fascicolo del Giudice certamente ci sarà stata l’ordinanza del GIP di Catanzaro che ordinava al De Magistris P.M. di proseguire le indagini nei confronti di altri magistrati di Potenza e di Lecce. Nel fascicolo del Giudice certamente vi è carenza assoluta delle indagini svolte dal De Magistris. Ci si attendeva nella ipotesi più rosea per l’europarlamentare l’assoluzione con la formula che il fatto che un P.M si rifuti di eseguire un ordine del GIP non costituisca reato; invece, l’assoluzione è stata con la formula più ampia, cioè, che il fatto non sussiste, che sta a significare che non vi è stato mai ordine di alcun GIP. Invece, l’ordine del GIP rivolto al De Magistris di proseguire le indagini era ben preciso. L’assoluzione perchè il fatto non sussiste può significare anche che il De Magistris abbia compiuto uno straccio d’indagine; invece, no; è proprio egli stesso che sul suo blog ha scritto di essersi considerato il “dominus” e di non aver inteso indagare per non fare spendere denaro. Dunque, la sentenza che ha assolto il De Magistris è smaccatamente falsa. Ciò che colpisce in questo processo è la rapidità con cui si è concluso; certamente, era necessario sgomberare le ombre sul candidato sindaco di Napoli: tre udienze velocissime a distanza di pochi giorni l’una dall’altra; con la scelta mirata del giorno dell’udienza in cui vi era lo sciopero degli avvocati, e, quindi, svolta in assenza del difensore della parte civile. Ammirevole la velocità con cui il Giudice Belmonte ha concluso questo processo; sarebbe interessante sapere se questa velocità nel concludere il processo De Magistris, abbia penalizzato qualche altro imputato vero innocente, che attende prima di lui da anni la conclusione del suo processo. Eppure il reato ascritto al De Magistris riguarda il suo rifiuto di indagare, all’epoca in cui egli era P.M. a Catanzaro, sulle sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di Lecce di procedimenti penali a carico di soggetti bancari che praticavano e praticano tuttora usura ed estorsione. Altro lato oscuro della vicenda è il fatto che non siano stati escussi i testi che avevo proposto al mio difensore, l’avv. Licia Polizio; infatti, avevo proposto come “testi i soggetti menzionati nell’opposizione alla richiesta di archiviazione”, che avrebbero dovuto riferire su sistematiche archiviazioni facili da parte di magistrati di Lecce nei confronti di banche che operano usura ed estorsione e, precisamente i seguenti soggetti: l’On. Nichi Vendola, il sig. Franco Carignani, l’Avv. Fedele Rigliaco, Il giornalista de "Il Mondo" che scrisse l’articolo dal titolo "Com'è stretta la Puglia" il12 giugno 1998 N. 24, l’ex Ministro della Giustizia, on. Diliberto, il Giudice di Lecce Dr. Pietro Baffa, l’ex P.M. Dr. Aldo Petrucci, il presidente dello SNARP, sindacato nazionale antiusura, dell’anno 1999, il Giudice Dr. Gaeta di Lecce, l’ex Gip Dr. Francesco Manzo, l’ex Gip Dr. Fersini il consulente del P.M. di Lecce, Dr. Daniele Garzia, che dovrà riferire sulla seguente circostanza: la tabella dove erano indicati i tassi praticati allo Stifanelli da parte della banca erano abbondantemente superiore a quelli consentiti dalla legge il Dr. Leonardo Rinella che è stato P.M. presso la Procura di Bari, il quale aveva accertato, per il tramite del suo consulente, che la banca aveva praticato ad un cliente interessi passivi su saldi attivi; il consulente della Procura di Bari, Dr. Egizio De Tullio, il quale aveva accertato che la banca aveva praticato ad un cliente interessi passivi su saldi attivi. Altro lato oscuro della vicenda è il fatto che non siano stati acquisiti dal Giudice del dibattimento alcuni fascicoli che avevo proposto al mio difensore come richieste istruttorie. Così, infatti, scrivevo al mio difensore avv. Licia Polizio: “E’ necessario chiedere al Giudice del dibattimento l’acquisizione di alcuni fascicoli che dimostrano l’attività di “protezione dell’usura nel Salento” da parte di alcuni magistrati e che sono raccolti tutti nel Dossier a firma del Sig. Franco Carignani: 3445/94 rgnr. Tribunale di Lecce, n. 8133/ 95 RGNR del Tribunale di Lecce (Capoti), n.15950/97 RGNR del Tribunale di Bari (Bisconti - Durante), n. 2011/G/96 Presso la Direzione Nazionale Antimafia, n. 508/97 RGNR del Tribunale di Lecce, n. 1885/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 800/96/21/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 6647/97/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 3926/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 9725/97/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 19797/97/21 RGNR”. Eppure il reato ascritto al De Magistris riguarda il rifiuto di indagare sulle altrettante sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di Potenza di procedimenti penali a carico di quei magistrati di Lecce che consentono tali “facili” archiviazioni. La carenza delle suindicate indagini ha consentito ad alcuni magistrati criminali di Potenza e di Lecce di crearsi l’usbergo della immunità e, così, proseguire con la loro opera delinquenziale di copertura di gravi reati, come l’estorsione, il favoreggiamento, l’usura, la falsità, di Banche, di società di riscossione dei tributi e di personaggi importanti. Insomma, per De Magistris e per il Giudice cognato del Santoro di Annozero tutto questo è cosa da nulla; che i magistrati di Lecce o di Potenza consentano ad estortori o usurai bancari o ad esattori delle tasse usurai a proseguire nella loro attività criminale con conseguente distruzione di molte imprese, di molte famiglie e dell’economia salentina è una cosa di poco conto. Oggi, affrancato dal peso dell’accusa, il De Magistris - che aveva il dovere d’indagare e d’impedire la prosecuzione di questi reati - si appresta con estremo candore a governare la città di Napoli massacrata dall’usura bancaria. Con la sentenza della “Giudicessa” cognata del Santoro televisivo alcuni magistrati di Lecce possono proseguire impunemente a favorire l’usura e l’estorsione delle Banche e dell’esattore delle tasse in danno dei salentini; tali magistrati sanno che troveranno, prima o poi, una Dr.ssa Belmonte che scriverà una sentenza perché “il fatto non sussiste”. Eppure le archiviazioni di procedimenti penali a carico di soggetti che, con minacce di pregiudizi, riuscirono ad estorcere del denaro crearono disagio, malessere e sconcerto nella popolazione salentina. In particolar modo furono gl’imprenditori che esternarono - con esposti a tutte le Autorità ed a tutte le Istituzioni dello Stato, alla Direzione Nazionale Antimafia, alla Commissione antimafia, alle Cariche istituzionali più importanti dello Stato - il disagio per la mancata tutela penale della proprietà; nell’immaginario collettivo si ebbe a formare l’idea di una sorta di sodalizio fra magistrati, banchieri ed altri soggetti. A seguito di ciò in data 24/09/’98 l’on. Nichi Vendola, all’epoca vice-presidente della Commissione antimafia, ora Governatore della Puglia, pose il dito su questa piaga del Salento; e, con atto di sindacato ispettivo n. 4/19855 sollevò questioni riguardanti le numerose e facili archiviazioni da parte della Procura della Repubblica di Lecce dei procedimenti penali “per i reati di estorsione, usura, truffa ed altro commessi da rappresentanti delle banche a danno di imprenditori Salentini” per sapere come mai molti salentini non avevano avuto la tutela penale, nonostante che i magistrati della Procura di Lecce avessero constatato l’applicazione di alti tassi d’interesse da parte di Banche; la vicenda ebbe vasto clamore, scaturito dalla divulgazione delle notizie attraverso la stampa. Nel succitato atto l’onorevole interrogante faceva riferimento ad un articolo comparso sul settimanale “Il Mondo” del 12 giugno 1998, n. 49 che dettagliava numerosi casi di archiviazioni di procedimenti penali. Quell’interrogazione venne archiviata perché il Ministro della Giustizia dell’epoca, on. Diliberto, ebbe a fornire una risposta contenente notizie false che gli furono fornite dalle articolazioni ministeriali competenti. L'On.le Consiglio Superiore della Magistratura con le circolari nn° 8160/82 e 7600/85, 4° commissione, e con la delibera del plenum dell'11 dicembre 1996 ha esplicitato che "l'esigenza generale, consistente nella tutela dell'imparzialità e della libertà da condizionamenti che devono connotare anche nell'apparire, l'attività giudiziaria, si pone quale specificazione del principio di tutela del prestigio della Magistratura inteso come apprezzamento sociale della corretta amministrazione della Giustizia". Secondo la Corte di Cassazione, Sez. Unite, sentenza del 03 aprile 1988, n. 2265 "La responsabilità disciplinare del Magistrato, per comportamento pregiudizievole al prestigio suo e dell'Ordine Giudiziario, può conseguire anche da atti non illegittimi, ma meramente inopportuni od avventati”. Questo esposto pubblico è rivolto alle autorità in indirizzo per quanto di loro competenza, in particolare al Presidente della Repubblica, per valutare se vi sono gli elementi per promuovere procedimento disciplinare nei confronti della Dr.ssa Belmonte se per accelerare il procedimento a carico del De Magistris abbia trascurato qualche altro procedimento che aveva delle priorità o per valutare se la decisione di assolvere il De Magistris con la formula “perché il fatto non sussiste” sia stata avventata in presenza di un’ordinanza ineseguita di un GIP."
SENATO. Atto n. 4-03962
Pubblicato il 25 febbraio 2003. Seduta n. 341
BUCCIERO - Al Ministro della giustizia. - Premesso che:
in data 21 febbraio 2003 la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, accogliendo la richiesta formulata dal procuratore generale presso la Cassazione, ha disposto in via cautelare la sospensione dalle funzioni di giudice del dott. Vittorio Gaeta, del tribunale di Lecce;
tale sospensione, in attesa delle determinazioni definitive della medesima sezione disciplinare, è intervenuta di fronte all’imputazione, rivolta allo stesso Gaeta, di avere, quale presidente del tribunale del riesame di Lecce nel giugno 2002, redatto più provvedimenti di revoca della custodia cautelare in carcere per soggetti detenuti per gravi reati (con imputazioni ricollegabili alla criminalità mafiosa), la cui posizione o non era stata esaminata in camera di consiglio da tutti i componenti del riesame, o addirittura era stata definita a maggioranza nel senso del rigetto del ricorso;
parallelamente al procedimento disciplinare, è in corso davanti all’autorità giudiziaria di Potenza un procedimento penale a carico dello stesso Gaeta;
in data 23 febbraio 2003 il presidente della sezione distrettuale di Lecce dell’associazione nazionale magistrati dott. Vincenzo Scardia, chiamato a commentare la vicenda sul giornale Nuovo Quotidiano di Puglia (pag. I), ha dichiarato testualmente: “(…) personalmente, ma credo di condividere il sentimento di altri magistrati, esprimo al collega Gaeta solidarietà umana e vicinanza in un momento particolarmente doloroso dal punto di vista professionale, personale e familiare. Gaeta ha avuto indubbi meriti nell’impegno associativo. E’ sempre stato uno dei più attivi per lo sviluppo di un autentico dibattito all’interno della categoria. Per questo una nota di merito gli va tributata. (…)”;
si tratta di affermazioni particolarmente gravi, dal momento che:
a) l’ipotesi di illecito, disciplinare e penale, contestato al dott. Gaeta (la cui fondatezza ha conosciuto un primo vaglio da parte del CSM) viene superata col richiamo corporativo ai meriti associativi (sic!) del medesimo magistrato;
b) poiché la questione è sorta a seguito della denuncia da parte degli altri due giudici componenti del tribunale del riesame presieduto dal dott. Gaeta, la solidarietà nei confronti del magistrato sospeso dal servizio suona come implicita presa di distanza dai denuncianti, la cui ricostruzione dei fatti è stata ritenuta per vera dal CSM;
c) costoro vengono in tal modo implicitamente delegittimati da parte del presidente dell’organismo associativo distrettuale;
in data 24 febbraio 2003 il presidente del tribunale di Lecce dott. Giuseppe Tuccari, con una nota a sua firma pubblicata sempre sul giornale Nuovo Quotidiano di Puglia (pag. I), ha scritto testualmente, riferendosi al dott. Gaeta: “Per parte mia, posso confermare che egli sta vivendo con dignità e compostezza, fin quasi a spersonalizzarla, questa dolorosa esperienza che tocca la sua vita di uomo e di magistrato e, pertanto, sento di dovergli esprimere la mia vicinanza anche a nome dell’ufficio che rappresento”;
anche tali affermazioni sono gravi, dal momento che:
a) il presidente del Tribunale nel quale il dott. Gaeta ha finora prestato servizio, a nome anche dell’ufficio che conduce, esprime allo stesso una vicinanza per un provvedimento che è stato causato da un fatto considerato, allo stato, gravemente illecito dal CSM (altrimenti non ci sarebbe stata la sospensione dal servizio, che è la decisione cautelare più rigorosa);
b) nell’esprimere questa vicinanza anche istituzionale, il dott. Tuccari di fatto delegittima il CSM, che ha già assunto un provvedimento e sta per avviare l’approfondimento del merito della vicenda;
c) ribadendo che la questione è sorta a seguito della denuncia degli altri due giudici componenti del tribunale del riesame presieduto dal dott. Gaeta, la vicinanza, anche istituzionale, manifestata dal dott. Tuccari, si traduce in una delegittimazione, e quindi in una “lontananza”, anche istituzionale, da magistrati che in questo momento sono denuncianti e potenziali parti offese (e il cui esposto ha comunque conosciuto un primo vaglio di veridicità da parte del CSM): denuncianti che lavorano nel medesimo tribunale del quale il dott. Tuccari è presidente,
si chiede di conoscere:
quali siano le iniziative che il Ministro della giustizia intenda adottare per tutelare il prestigio dell’ordine giudiziario, compromesso dalle affermazioni pubbliche del dott. Vincenzo Scardia e del dott. Giuseppe Tuccari, rispettivamente giudice e presidente del tribunale di Lecce;
se non si ritenga opportuno l’immediato avvio dell’azione disciplinare o del trasferimento per incompatibilità ambientale nei confronti di entrambi.
1988-2005: Ecco cosa è capitato a chi ha denunciato la mafia.
1988- Luigi Di Napoli, imprenditore leccese, contesta la legittimità di un appalto riconosciuto truccato. Viene minacciato e, poi, gambizzato. Dopo avere consegnato i nastri magnetici contenenti le minacce e persistendo gravi indizi di colpevolezza a carico degli indagati, si prosciolgono questi ultimi sospettandosi la non genuinità dei nastri. Dopo avere subito l’attentato, lo si incrimina per frode processuale e calunnia ma si tenta di imporgli l’amnistia e la prescrizione. Ricorre in Cassazione per rinunciare a tali benefici e potere essere processato.
1996 – Assolto per insussistenza del fatto: i nastri non erano manipolati.
2005- Non sono mai state riaperte le indagini.
1990- Pretende che le forze dell’ordine impediscano l’installazione, da parte di operai di uno stabilimento balneare, di una rete metallica che impediva il libero accesso sulla battigia.
Viene instaurato un processo penale a suo carico per minacce a pubblico ufficiale. Deposita nella cancelleria del Tribunale istanza di ricusazione del giudice e, conseguentemente, viene instaurato a suo carico un processo per “oltraggio al magistrato in udienza” ed applicata la misura cautelare (pur essendo incensurato) dell’obbligo di dimora con obbligo di presentarsi, due volte al giorno, presso i Carabinieri. Il Tribunale del riesame conferma la misura. La Corte di Cassazione l’annulla. Condannato in primo grado, assolto in appello.
1995- Titolare di un patrimonio immobiliare del valore di oltre ventimiliardi di vecchie lire, contesta i rapporti bancari in cui appariva debitore essendo, essi, viziati per vari motivi.
1996- I rappresentanti di alcune banche minacciano il fallimento delle sue due società. Presenta denunce penali per estorsione ed usura e sollecita la Procura, fino al 2000, a richiedere il sequestro preventivo della documentazione esibita dalle banche.
1999- Il Tribunale rigetta le istanze di fallimento e la Dinauto, società di Di Napoli, ottiene titoli giudiziari in suo favore e contro una delle tre banche.
2000- La Corte d’Appello, con il Presidente precedentemente ricusato e due membri con rapporti bancari con due delle tre banche reclamanti, ordina il fallimento delle società di Di Napoli.
Novembre 2000- Dopo quattro anni dalle denunce, la Procura chiede il sequestro preventivo della documentazione esibita dalle banche solo alla vigilia del decreto della Corte d’Appello.
Il Gip dispone il sequestro. La Guardia di Finanza, recatasi in cancelleria ad eseguire il provvedimento, viene informata dell’emanazione delle sentenze di fallimento.
Il Gip dispone il sequestro anche delle sentenze di fallimento che vengono sequestrate e sigillate in busta chiusa.
2000-2003- I periti della Procura accertano la richiesta di tassi d’interesse fino al 292%. Viene richiesto il rinvio a giudizio per estorsione ed usura degli istanti il fallimento.
2003- Vari giudici delegati al fallimento vengono autorizzati ad astenersi.
12 Febbraio 2003, ore 8,30: Di Napoli, a mezzo ufficiale giudiziario, notifica al giudice delegato (privo di valida nomina) atto di citazione per danni da fatto reato.
12 Febbraio 2003- Il giudice tiene l’udienza per la formazione dello stato passivo minacciando “il fallito” di espellerlo dall’aula appena avrebbe parlato (la legge fallimentare impone di ascoltare il fallito) con l’ausilio di un poliziotto presente solo per quell’udienza. Di Napoli cerca di replicare, con tono pacato, ma viene espulso dall’aula.
Maggio 2003- Di Napoli entra in possesso di una cambiale emessa dal giudice che viene protestata. Il giudice è costretto a versare una cauzione e a proporre opposizione. Malgrado le cause pendenti, il magistrato tratta le udienze della sua stessa controparte. Dispone una consulenza per la formazione dello stato passivo dettando criteri contro legge col risultato, ovvio, di un credito infondato e contrario alle perizie della Procura della Repubblica (che hanno riscontrato tassi fino al 292%).Tutte le cause in cui è coinvolto Di Napoli vengono affidate al medesimo magistrato che viene nominato anche giudice relatore nella causa di opposizione alle sentenze di fallimento. La causa, decisa, fra l’altro, anche da altro giudice precedentemente astenutosi, viene rigettata e, dunque, attualmente pende in Corte d’Appello.
2001-2005- Varie cancellerie rilasciano attestazioni del vincolo del sequestro di cui sono gravate le sentenze a tutela della persona offesa. Di Napoli denuncia penalmente vari magistrati coinvolti nella scandalosa procedura ai suoi danni. Il curatore rinuncia all’incarico per gravi incomprensioni col giudice.
Di Napoli trascrive presso la Conservatoria dei registri immobiliari il provvedimento di sequestro della sentenza di fallimento.
5 Maggio 2005- Il giudice, con l’ausilio del nuovo curatore, dopo avere pubblicizzato suoli edificatori di indiscutibile pregio come “suoli ad uso seminativo”, li aggiudica a prezzo notevolmente inferiore. Gli offerenti, nel corso dell’udienza, vengono resi edotti del sequestro delle sentenze che inficia il loro acquisto. Le aggiudicazioni sono state opposte.
12 Maggio 2005- Di Napoli, nell’inerzia dei magistrati di Potenza ad esercitare l’azione penale contro i vari soggetti e i magistrati di Lecce coinvolti, presenta denuncia penale diretta alla Procura di Catanzaro chiedendo l’arresto del giudice delegato e del curatore.
13 Maggio 2005- Due sostituti Procuratori della Repubblica di Lecce chiedono l’arresto di Di Napoli.
24 Maggio 2005- DI NAPOLI, PERSONA OFFESA, AGLI ARRESTI DOMICILIARI. E’ accusato di avere creato il sequestro delle sentenze di fallimento.
7 Giugno 2005- Il tribunale del Riesame di Lecce conferma la misura ma dichiara l’incompetenza dei giudici di Lecce in favore dei giudici di Potenza.
30 Giugno 2005- il procedimento viene assegnato alla stessa P.M. denunciata, per le sue omissioni, presso il Tribunale di Catanzaro che chiede la conferma della misura. Gliela concede un GIP diverso dal “giudice naturale precostituito per legge”. Nella richiesta viene ravvisata la pericolosità sociale del Di Napoli per le numerose denunce e ricusazioni contro i giudici.
6 Settembre 2005- La Corte di Cassazione, su ricorso avverso il rigetto del riesame da parte dei giudici leccesi, dichiara la cessazione dell’efficacia della misura cautelare disposta dai giudici di Lecce.
6 novembre 2007 tg5 20:00 • notizia n.15 : Indignato speciale
Incontro con Luigi Di Napoli, imprenditore di Gallipoli, che è fallito e che ha perso addirittura la casa, dopo aver denunciato una banca e finanziarie che gli imponevano tassi del 300%.
Atto Camera
Interrogazione a risposta scritta 4-01923
presentata da SERGIO D'ELIA lunedì 11 dicembre 2006 nella seduta n.084
D'ELIA. - Al Ministro della giustizia, al Ministro dell'interno. - Per sapere - premesso che:
Il 21 ottobre 2006, su un quotidiano nazionale (l'Avanti), è apparsa la notizia della situazione assurda e paradossale di cui è vittima Luigi Di Napoli: «Un imprenditore salentino nel tritacarne».
già il 19 ottobre 2006, nel corso di varie edizioni del telegiornale di Telenorba (emittente locale pugliese), è stato trasmesso un servizio sulla drammatica situazione che, in quelle ore, stava vivendo, a Gallipoli, la famiglia Di Napoli con intervista rilasciata dall'avvocato Roberto Di Napoli, figlio della vittima, che, disperato, lamentava la mancata tutela dello Stato e gli abusi da parte delle Forze dell'Ordine che, per eseguire il rilascio dell'unica abitazione del Di Napoli, avrebbero, perfino, invaso i locali dell'immobile impedendone l'accesso a chiunque, compresa l'emittente televisiva;
il signor Luigi DI NAPOLI, imprenditore leccese, sarebbe, dal 1988, oggetto di una vera e propria persecuzione giudiziaria che lo ha distrutto economicamente e che sta compromettendo la serenità della sua famiglia; nel 1988, mentre contestava un appalto truccato, e riconosciuto tale nelle sedi amministrative, dopo avere ricevuto minacce, ha subito un attentato che lo costringe tuttora all'uso delle stampelle;
la sua è una storia di usura ed estorsione, di denunce reciproche tra la vittima e magistrati. Egli ha subito 21 processi e per 21 volte è stato assolto; ha sempre rinunciato ad amnistia e prescrizione per farsi processare;
il signor Di Napoli, tramite il figlio avvocato Roberto Di Napoli, sin dal 15 settembre 2006, aveva sollecitato il Commissario e il Comitato di solidarietà per le vittime dell'usura e dell'estorsione ad intraprendere ogni iniziativa al fine di far rispettare la sospensione dell'esecuzione ex articolo 20 legge n. 44 del 1999, intervenuta ope legis in favore della vittima Di Napoli in seguito al conforme parere dell'autorità amministrativa (S.E. Prefetto della Provincia di Roma) ricordando, tra l'altro, la ratio della legge n. 44 del 1999, che come ribadito dalla giurisprudenza, consente l'ammissibilità ai benefici ivi previsti anche in favore delle vittime fallite in seguito ed a causa delle condotte delittuose;
il 25 settembre 2006, Di Napoli ha subito l'accesso degli ufficiali giudiziari che gli chiedevano di rilasciare l'abitazione e, soltanto verso le ore 19, veniva comunicato il rinvio dell'esecuzione al 19 ottobre 2006; in tale data il Di Napoli afferma di aver subito un trattamento da parte sia dagli ufficiali giudiziari che dalle forze dell'ordine non in conformità con le norme vigenti in materia, subendo aggressioni fisiche che hanno comportato il ricovero dello stesso presso il locale Presidio Ospedaliero. Azione esecutiva che, stante il dolore causato al Di Napoli dalle percosse subite, è culminata con il suo arresto per presenta aggressione a pubblico ufficiale (arresto che è stato revocato soltanto lo scorso 23 novembre 2006) -:
1. le motivazioni per cui non siano stati adottati i provvedimenti al fine di fare osservare la sospensione di cui all'articolo 20 legge n. 44 del 1999 considerato che il Di Napoli ha già ottenuto pareri conformi del Prefetto di Roma che lo riconoscono meritevole dei benefici di cui alla legge antiusura ed antiestorsione;
2. se, nell'esecuzione della procedura di rilascio dell'immobile del 19 ottobre 2006 gli organi preposti abbiano agito nel pieno rispetto delle normative vigenti.(4-01923)
POLIZIOTTI A DELINQUERE.
Un colpo di mannaia e, di colpo, è stato «decapitato» il corpo della Stradale di Lecce. Un vero e proprio choc per le forze dell'ordine salentine che, di colpo, si sono trovate alle prese con un'attività concussiva che andava avanti da decenni.
GLI ARRESTI - Sono finiti in manette 16 agenti della polizia stradale di Lecce con l'accusa di associazione per delinquere finalizzata alla concussione. Gli arresti sono stati eseguiti al termine di sei mesi di indagine durante i quali sono stati fatte numerose intercettazioni. L'attività investigativa è stata coordinata dalla procura di Lecce è stata condotta dagli stessi agenti della questura e della polizia stradale.
100 AZIENDE TAGLIEGGIATE - Gli investigatori hanno scoperto cun consolidato sistema di concussione che durava da almeno 20 anni, e si concretizzava nella riscossione di somme di denaro o nell'acquisizione di beni materiali da parte dei poliziotti. A pagare erano imprenditori e commercianti - almeno un centinaio le aziende «taglieggiate» - per evitare i controlli delle loro merci sulle strade.
QUARANTA MILA EURO - Un caso particolare è quello di un poliziotto intercettato che ipotizzava con un collega, anche lui del «giro», di poter andare in pensione avendo ottenuto «mazzette» complessive di circa 40 mila euro, estorte nell'arco di un triennio. Una sorta di «liquidazione» frutto delle attività concussive. Questo lascia intendere il livello illegale attivato dai poliziotti «infedeli».
CORPO DIMEZZATO - I sedici agenti erano tutti in servizio a Lecce dove lavorano in totale circa 36 agenti. La metà del corpo è stata, quindi, decapitata dall'indagine che comunque non ha interessato il distaccamento di Maglie, la seconda sezione della polizia stradale salentina.
IL PROCURATORE - Il capo della procura salentina, Cataldo Motta, così commenta: «C'è soddisfazione per aver fatto emergere questa situazione molto grave, soddisfazione tuttavia temperata dal fatto che si tratta di agenti di polizia con i quali siamo abituati a lavorare e a condividere gli interventi per la legalità. L'aspetto che crea maggiore amarezza è proprio questo». Sul fronte delle indagini ha aggiunto: «La possibilità di un'indagine così approfondita si è presentata solo quando abbiamo avuto una denuncia non anonima dall'interno della stessa sezione di polizia stradale. E poi c'è stato l'invio, con lettera anonima, di un elenco di aziende che pagavano gli agenti».
AVETRANA, DELITTO DI SARAH SCAZZI E DINTORNI.
La Ballata ti l'Aitrana di Antonio Giangrande
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Il Poema di Avetrana di Antonio Giangrande
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Testi scritti il 24 aprile 2011, dì di Pasqua.
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"SARA SCAZZI: IL DELITTO DI AVETRANA. IL RESOCONTO DI UN AVETRANESE" è il libro scritto da Antonio Giangrande.
Spending review, accorpamento delle province di Taranto e Brindisi. Avetrana vuole Lecce. La gente di Avetrana si mobilita per cambiare provincia, stante e sotteso l’inerzia delle istituzioni avetranesi che sono restie a cogliere occasione che offre l’art. 17, 3°comma, della legge 135/2012 detta Spending review in tema di riordino delle province. E dire che proprio il Comune di Avetrana ha aderito al progetto della “Regione Salento”. Da sempre Avetrana si sente salentina, perché lo è per la storia, le tradizioni, gli usi, i costumi, il dialetto. Inoltre per ragioni di opportunità l’occasione va colta, affinchè ci si smarchi dalla supremazia delle strutture politiche, economiche e sociali di Taranto ed ancor più dall’egemonia politica di Manduria per dirimere una volta per tutte la questione sulla competenza territoriale delle zone marine viciniori ad Avetrana e la spinosa vicenda del depuratore consortile che proprio Manduria ha voluto sulla spiaggia prospiciente Avetrana. Per questo motivo, su iniziativa dell’avv. Mirko Giangrande, presidente dell’associazione “Pro Specchiarica” e vice presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e di “Tele Web Italia”, gran parte della società civile di Avetrana, con le sue associazioni più rappresentative, il 16 settembre 2012 si riunisce per approntare una lettera indirizzata al presidente del Consiglio comunale di Avetrana, affinchè lo stesso convochi un Consiglio Comunale monotematico necessario ed urgente, ai sensi dello Statuto comunale, ed ivi avviare una discussione sull’opportunità del passaggio dalla provincia di Taranto a quella di Lecce ed approntare una presa d’atto sul da farsi e se del caso, con le risultanze argomentali positive, inviare l’ipotesi d’intenti alla regione Puglia entro il 2 ottobre, ossia nei ristretti termini stabiliti dalla legge ed obbligati dall’inerzia istituzionale e politica comunale. Il Consiglio Comunale si deve assumere la responsabilità di una decisione storica, qualunque essa sia. Le ipotesi e le proposte di riordino delle province di Taranto e Brindisi devono tener conto dell’iniziativa comunale avetranese volta a modificare le circoscrizioni provinciali esistenti e comunque l’iter procedurale della stessa proposta del comune di Avetrana non potrà concludersi se non sentiti tutti i cittadini avetranesi invitati ad esprimersi tramite un referendum da indire successivamente. Molti Avetranesi pensano che è meglio contare uno tra i cento comuni leccesi e sentirsi in casa propria, che contare niente sui pochi comuni tarantini e sentirsi abbandonati da una città, Taranto, che da sempre con la sua politica, la sua burocrazia ed i suoi media si è dimostrata egocentrica e disinteressata alla sua provincia. In Avetrana (TA), da sempre si costruisce abusivamente con collusione istituzionale; da sempre le abitazioni sono inabitabili per mancanza dei requisiti igienico-sanitari. La mancanza di allacciamento alla rete fognaria o alla fossa Imof e settica porta all’inquinamento delle falde acquifere, dei fiumi e del mare. La conseguenza giuridica, mai fatta rispettare, è lo sgombero coatto per le civili abitazioni e le pene penali per le attività produttive. In data 13/12/1995, dopo che gli ispettori sanitari della USL procedevano alla chiusura delle attività commerciali per mancanza di agibilità e dei requisiti igienico-sanitari, a cui conseguiva una gravosa ammenda penale e una onerosa sanzione amministrativa, provocando la disperazione dei cittadini inascoltati dall’indifferenza degli amministratori, il dr Antonio Giangrande ha promosso e raccolto 2235 firme di cittadini Avetranesi su una proposta di intervento, al fine di invitare l’amministrazione Giovanni Scarciglia ad adottare tutte le misure necessarie per uscire dalla grave situazione ed a convincere il Prefetto ad emanare una ordinanza di sospensiva delle sanzioni emanate. Il Prefetto di Taranto ha immediatamente accolto la proposta, mentre solo l’amministrazione Conte, successivamente ha adottato le misure indicate dal Giangrande. Successivamente a Giovanni Scarciglia, in Avetrana (TA), l’Amministrazione Comunale “Conte”, indebitamente, chiede tributi già pagati, o non dovuti, diffamando il cittadino di evasione fiscale. Al ricorso presentato presso il Giudice di Pace, sostenuto da eloquenti precedenti giurisprudenziali, il loro avvocato, poi candidato alla provincia di Brindisi nel centro sinistra, ebbe a dire in modo denigratorio: "cose mai viste". In Consiglio Comunale, in data 01/03/2001, si attesta che l’Assessore dell’Amministrazione “Conte”, L. V., del centro sinistra, ha turbato gli incanti. Si dice, nell’intervento di Mario De Marco, che le buste, a suo tempo presentate, sono state manomesse e le offerte sono state artefatte e modificate, per favorire un partecipante. Si attesta che un Assessore dell’amministrazione “Scarciglia”, G. S., in concomitanza di elezioni, abusando del suo incarico, senza impegno di spesa, ha assunto del personale. L’ufficio Tributi è stato diretto da C. M., nonostante fosse perdente al concorso dichiarato truccato, tant’è che per coprire l’inghippo la sua firma di sottoscrizione, quale responsabile dell’ufficio, è stata sostituita con quella del Segretario Comunale. Lo stesso scandalo è per gli ultimi Vigili Urbani, assunti nel 2005 in virtù di concorso dichiarato truccato dalla Magistratura. Esistono da sempre “debiti fuori bilancio” illegittimi. A riguardo nel 2011 vi è stato un forte intervento della Corte dei Conti, che ha contestato la veridicità del Bilancio Consuntivo, mancando in esso da sempre l’Inventario dei Beni. A proposito di “Debiti Fuori Bilancio” sono stati riconosciuti dall’’amministrazione “Conte” debiti per parcelle di avvocati perdenti nominati dal Comune di Avetrana, che sono costati più degli avvocati vincenti delle parti private. Inoltre la stessa amministrazione non ha proceduto verso i responsabili dei debiti. Addirittura nel proseguo l’amministrazione “De Marco” ha pagato con fondi comunali (euro 14.000,00) iscritti come debiti fuori bilancio le cause giudiziarie attivate nell’interesse politico e personale dall’Amministrazione “Conte”. Quell'amministrazione attivò un ricorso al TAR, che lo rigettò perché manifestamente politico. Il ricorso fu presentato per contestare il riordino ospedaliero dell’allora Governatore della Puglia, Raffaele Fitto. Con il senno di poi, usando lo stesso criterio, si dovrebbe mandare al rogo il successivo Governatore, Nicola Vendola, che ha nominato Alberto Tedesco come assessore regionale alla Sanità, implicato nella sanitopoli pugliese. Lo stesso Vendola che ha chiuso interi reparti dell’ospedale di Manduria. Da sempre i Presidenti dei seggi elettorali sono i soliti noti e affidabili, fino a che il dr Antonio Giangrande ha costretto la Corte d’Appello a cambiare sistema di nomina. Presidenti di seggio che attestano la regolarità di elezioni nulle, in quanto non firmano le schede elettorali per autenticarle, non identificano gli elettori che votano, non impediscono agli stessi elettori la documentazione del loro voto, tramite apparecchi video-fotografici. Durante le votazioni regionali del 28 e 29 marzo 2010 nella sezione n. 5 presieduta dal dr. Antonio Giangrande, con premeditazione ed artifici, un rappresentante di lista del PD, spalleggiato da altre persone del suo partito, non nuovo a questi fatti, ha cercato di impedire il regolare svolgimento delle operazioni di voto, tentando addirittura di far chiudere il seggio dalla Polizia di Stato con accuse pretestuose di irregolarità poste in essere dal Giangrande. La stessa cosa è avvenuta l’anno seguente in occasione delle elezioni comunali, ma stavolta da parte di scagnozzi del centro destra. L’aggressione al Giangrande, quale pubblico ufficiale, con violenti insulti, ingiurie e minacce, è avvenuta nell’indifferenza dei cittadini e delle forze dell’ordine e dei magistrati. La sua colpa: aver controllato l’identità dell’elettore; controllato la validità della scheda consegnata e poi votata; impedito la propaganda politica durante il voto e la ripresa con cellulari del voto prestato; verificato l’incongruità tra schede risultate consegnate ed effettivamente date. Da sempre si costruisce e si demolisce abusivamente in mancanza delle più elementari regole di sicurezza. Per questo si muore senza che ci sia prevenzione e repressione. Si agevola lo sfruttamento del lavoro e l’evasione fiscale e contributiva. Si autenticano deleghe di pagamento di pensioni senza firma del delegante. L’assessore all’Istruzione del PD, T. N. ha discriminato i cittadini nell’assegnazione delle Borse di Studio. A Giangrande Mirko, diplomato in 4 anni, anziché 5, viene negata. Ad altri con “buono” anziché “ottimo”, viene concessa. Anzi fanno di più. L’amministrazione “De Marco” ignora scientemente il fatto che ad Avetrana lo stesso Mirko Giangrande sia diventato l’avvocato più giovane d’Italia, 25 anni e due lauree. Notizia resa nota da TV e giornali locali e nazionali. Il Sindaco Luigi Conte e l’Assessore Vito Risi assegnano privatamente, gratuitamente e senza incanto pubblico, la gestione privata degli impianti sportivi alla Polisportiva di Avetrana, dove lo stesso Vito Risi è Direttore Sportivo. Questa è l’unica beneficiaria degli impianti e li usa a fini economici. In questo modo si impedisce l’uso degli impianti ad altri soggetti. A ciò si aggiunge il contributo di 15.000 euro all’anno destinati alla Polisportiva per la tenuta degli stessi impianti. Scandaloso, perché nella vicina Manduria l’amministrazione, con delibera G.M. 279/06, gli impianti sportivi li concede facendosi pagare a tariffa oraria di 3 euro ciascuno. Per sovvenzionare illecitamente una cooperativa vicina all’Amministrazione, la CISME, l’amministrazione “Conte” le corrisponde 20 mila euro annue, le concede in comodato gratuito la struttura e le affida, gratuitamente senza incanto pubblico, la gestione privata dell’asilo nido per soli 13 bambini iscritti. Ad Avetrana, a causa della negligenza degli amministratori più volte vi è stata l’inondazione dell’abitato e, per coprire le colpe e per non essere perseguiti per disastro colposo, l’amministrazione “Conte” ha dissuaso i cittadini a chiedere i danni per calamità naturale. L’assessore al bilancio, F. G., in accordo con tutta l’amministrazione comunale, stabilisce un prezzo irrisorio per i lotti della zona industriale, di cui egli stesso è quasi unico beneficiario. Inoltre, l’Amministrazione comunale, anziché favorire lo sviluppo del lavoro, lo inibisce. Questo perché, per l’apertura di nuovi sbocchi imprenditoriali, quali possono essere le agenzie di affari, chiede 15.000 euro di cauzione, al contrario dei 2.500 euro di altre civiche amministrazioni, o dei 5.000 euro di Manduria. Con il Sindaco De Marco nulla cambia in campo della mala amministrazione. Anzi... Anche perché lui continua a fare l’avvocato, incompatibilmente con l’ordinamento forense, come all’udienza del 27 novembre 2007, difendendo in udienza pubblica Mario Fasiello. Nella seduta consiliare del 15/06/2006, nel primo Consiglio Comunale in cui, opportunamente, si dovrebbe deliberare su questioni istituzionali e non amministrative, con il benestare del responsabile dell’ufficio tecnico, ing. Spagnolo, si adotta una delibera per fini edilizi a favore della cooperativa Bosco per l’accesso a fondi P.O.R.. Tutti i consiglieri di minoranza hanno sostenuto l’illegittimità dell’atto da adottare per mancanza dei requisiti richiesti. Ad Avetrana, dal centro-destra e dal centro-sinistra, si ha l’abitudine di inviare lettere dilatorie, anonime, sgrammaticate e non provate, fin anche usando indebitamente in intestazione il nome dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e a firma del suo Presidente, dr Antonio Giangrande. La delazione anonima è stata adottata da un assessore dell’amministrazione “De Marco", contro il dr. Antonio Giangrande il quale lo ha scoperto e querelato e poi vi è stata conciliazione e remissione di querela. In Avetrana chi combatte per la legalità è emarginato dalla società: il maresciallo capo Giancarlo Inguscio, già medaglia d’oro al valor civile, viene trasferito forzatamente, perché, facendo il suo dovere, dava fastidio a chi era abituato all’impunità; l’avv. De Prezzo conferma in una sua denuncia, di cui si è chiesto conto, che il Presidente dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie, Dr Antonio Giangrande, è considerato dalle Forze dell’Ordine di Avetrana un mitomane calunniatore, spiegando così il perché degli insabbiamenti e le archiviazioni che seguivano le sue denunce, sol perché si denunciavano i reati degli intoccabili; l’assessore ai servizi sociali, Cosimo De Rinaldis, per 5 anni non ha iscritto, pur con regolare istanza l’Associazione Contro Tutte le Mafie presso l’albo comunale; l’assessore seguente Alessandro Scarciglia ha iscritto l’associazione, ma dopo un articolo di critica pubblicato su “Manduria Oggi”. Comunque il presidente del Consiglio Comunale, Cosimo De Rinaldis, delegato alle Politiche Sociali, in ogni incontro o convegni con le associazioni locali, mai ha invitato a partecipare l’Associazione contro Tutte le Mafie, pur essendo iscritta presso l’albo comunale e pur essendo la più rappresentativa in campo nazionale. In occasione del caso Sarah Scazzi l’amministrazione “De Marco” ha permesso che i media denigrassero sopra ogni misura la dignità di Avetrana, definita retrograda ed omertosa. In virtù dell’ostracismo contro il dr Antonio Giangrande, rasentando l’autolesionismo, i rappresentanti del centro destra e del centro sinistra hanno pensato bene di non promuovere il docu-film dal Giangrande prodotto, mirante a promuovere l’immagine del paese di Avetrana. Film che si è proiettato per la “Notte Bianca” in una manifestazione pubblica indipendente.
RAI 1 CENSURA SERVIZIO SULL'ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE
Atto n. 4-03178. Pubblicato il 6 dicembre 2007. Seduta n. 263
RUSSO SPENA - Al Ministro delle comunicazioni. - Premesso che:
il 20 giugno 2007 la Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi accoglieva una domanda di accesso al palinsesto RAI da parte dell'associazione "Contro Tutte Le Mafie", associazione tra l'altro riconosciuta dal Ministero dell'interno; successivamente, il 17 ottobre 2007, la RAI revocava l'autorizzazione ad insaputa dell'associazione; l'8 novembre la RAI inviava una squadra e un regista per le riprese del servizio sull'associazione, facendo pertanto presumere il superamento di ogni perplessità e l'accettazione della messa in onda del servizio; considerato che: il 15 novembre l'associazione chiedeva di conoscere la data di messa in onda e riceveva risposta certa indicante un servizio della durata di dieci minuti nella trasmissione di RAI1 del 23 novembre 2007 alle ore 10.40; di fatto, il 23 novembre la trasmissione veniva cancellata ed il palinsesto di RAI1 stravolto; immediatamente l'associazione si attivava per chiedere la motivazione dell'oscuramento del servizio telefonando alla redazione del programma di RAI1, che però negava risposta e annunciava una futura lettera di motivazione (in palese violazione della legge 241/1990 che prevede la risposta immediata in seguito a domanda d'accesso ad un servizio); solo il 3 dicembre 2007 l'associazione riceveva uno scarno comunicato in cui si rilevava che l'autorizzazione era stata rilasciata il 20 giugno e poi revocata il 17 ottobre in seguito a proposta della RAI che non reputava degna l'associazione, adducendo addirittura perplessità circa la sua organizzazione, si chiede di sapere: per quale motivo si sia intervenuto a censurare una trasmissione programmata, nonostante vi sia stato parere favorevole della Commissione di vigilanza alla divulgazione; perché la redazione abbia inviato una motivazione "postuma" ed evitato di rispondere alle domande poste nella stessa data di mancata messa in onda.
ENNESIMO RICORSO AL GOVERNO, INVIATO PER CONOSCENZA AI 630 DEPUTATI, AI 320 SENATORI, AI 72 PARLAMENTARI EUROPEI. RISULTATO: LETTERA MORTA
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SIG. PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI
SIG. MINISTRO DELLA GIUSTIZIA, DELL'INTERNO, DELLA FUNZIONE PUBBLICA, DEL LAVORO, DEI GIOVANI, DEI RAPPORTI CON LE REGIONI
E’ VERGOGNOSO, NON OTTENERE GIUSTIZIA
Giangrande Antonio, nato ad Avetrana (TA) il 02/06/1963 ed ivi residente alla via Manzoni 51. Tel. 0999708396. Cell. 328.9163996 Presidente dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie; autore del libro “L’Italia del trucco, l’Italia che siamo” ; ha svolto l’attività forense per ben 6 anni; da 11 anni vittima di bocciature ritorsive al concorso forense, nonché perseguito per aver dato notorietà alle interrogazioni parlamentari riguardanti gli insabbiamenti delle denunce presentate nel distretto della Corte d’Appello di Lecce.
PREMESSO CHE il 16, 17, 18 dicembre 2008 ha partecipato alla prova scritta del concorso forense presso la Corte di Appello di Lecce; il 26 marzo 2009 la commissione presso la Corte di Appello di Reggio Calabria si è riunita per la correzione dei 3 elaborati: IN FORMA ILLEGITTIMA; il 24 giugno 2009 (dopo 3 mesi) si sono pubblicati i risultati: giudizio identico negativo, 25, 25, 24; il 3 luglio 2009 si visionano i compiti, i verbali e i criteri di correzione: SI OTTIENE PROVA CHE I COMPITI NON SONO STATI LETTI E CORRETTI E IL GIUDIZIO RESO E’ FALSO; l’8 luglio 2009 si presenta istanza di ammissione al gratuito patrocinio con gli allegati probatori presso la Commissione del Tar di Lecce per poter presentare ricorso al TAR per manifesta irregolarità dei giudizi, su contestazioni accolte da ampia giurisprudenza amministrativa; il 7 agosto (dopo un mese e a pochi giorni dalla decadenza del ricorso) si riceve diniego dalla Commissione: MANCA IL FUMUS; il 12 agosto 2009 si presenta esposto penale ed amministrativo per fax e posta elettronica con gli allegati probatori ai vari uffici competenti di: Presidenza della Repubblica, quale capo del CSM; Presidenza del Consiglio dei Ministri (vari uffici fax 0667793289, 0667793578, 0667795441, 0667793543, 0667796571, 0658492087, 063236210, 0647887878, 0668997064, 066795807, 066797428, 066791131, 0667795049, 066794569, 066798648, 0667796569); Ministero della Giustizia (vari uffici fax 0668852864, 0668897418, 0668897768, 0668897394, 0668897523, 0668892770, 0668897350, 0668892671, 0666165680, 0666162817, 0668897951, 0666598265, 0668897519, 0668897538, 0668891493); Ministero degli Interni e sottosegretario Alfredo Mantovano (vari uffici fax 0646549832, 064741717, 0646549599, 0646549815, 064814661, 0646549725, 0646549415); Ministero della Funzione Pubblica (vari uffici fax 0668997188, 0658324118, 0668997428, 0668997060, 0668997320); Ministero del lavoro ( vari uffici fax 064821207, 0648161441, 0659945301, 0648161558); Ministero dei giovani (vari uffici fax 0667796679, 0667795715, 0667792516, 0667792039, 0667792041, 0667792376); Ministero Pari opportunità fax 06 67792471; Ministro Raffaele Fitto per i rapporti con le regioni (vari uffici fax 0667794447, 066795500, 0667794078); Presidenti di Camera e Senato; Commissioni Giustizia di Camera e Senato; Direzione Nazionale Antimafia; Antitrust; Consiglio Superiore della Magistratura; Consiglio Nazionale Forense; Consiglio di Stato; Avvocatura dello Stato; Corte dei Conti; Procura Generale ed ordinaria di Lecce, Taranto, Bari, Potenza, Catanzaro, Reggio Calabria; Prefettura di Lecce e Taranto; Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e Taranto.
RISULTATO: TUTTO LETTERA MORTA. DOMANDA: E’ PIU’ SCANDALOSO L’ABUSO O L’OMISSIONE ?!?! Tanto premesso si chiede alla S.V. di intervenire in questa vicenda, per mezzo di una interrogazione agli uffici interessati. Le competenze amministrative ed istituzionali sono varie: impedimento alla difesa; impedimento al lavoro, specie giovanile; impedimento alla libera concorrenza ed al libero accesso professionale; impedimento alla pari opportunità; commissione di reati in procedimenti concorsuali ministeriali; impedimento all’attività di un sodalizio riconosciuto dal Ministero dell’Interno; abusi ed omissioni; ecc. Giusto per sapere se merito giustizia e per non vergognarmi di essere italiano. Mi dispiace che in Italia il problema non abbia l’attenzione che merita, solo perché ritengo non dignitoso adottare forme estreme di protesta. O forse perché sono sottovalutate le mie segnalazioni. Si pensi, per esempio, che per quello forense, in Italia, presso tutte le sedi di Corte di Appello, ci sono circa 40.000 candidati all’anno e solo il 30 % di loro ottiene l’abilitazione, oltretutto senza merito. Il concorso notarile o giudiziario non è diverso. Il far passare il sottoscritto per mitomane o pazzo, condannandolo all’indigenza, non disobbliga l’autorità adita ad un doveroso riscontro. Sempre che si sia in un paese civile e giuridicamente avanzato.
Dr Antonio Giangrande
COPERTINO. IL FATTACCIO ALLA SCUOLA MORVILLO-FALCONE.
L’esasperazione contro lo “Stato canaglia”, che spreme i suoi cittadini per mantenersi e dare in cambio solo ingiustizia e disservizi, di chi emulando gli imprenditori che assaltano le sedi di Equitalia con il sostegno morale dei vessati contribuenti e con il risalto dei media, o il convincimento remoto di molti che pensano sia un bene mettere una bomba al Tribunale per farla pagare a giudici ed avvocati corrotti non può giustificare la morte di una ragazza innocente nel fiore dei suoi anni. Senza dimenticare cazzate dette intorno ad una vicenda dove avvoltoi di tutte le risme hanno strumentalizzato e speculato.
Il 9 giugno 2012 è scoppiato a piangere per Melissa, ma ha confermato tutto. E’ andato così, secondo il racconto del suo avvocato, l’interrogatorio durante l’udienza di convalida del fermo di Giovanni Vantaggiato, l’imprenditore 68enne di Copertino (in provincia di Lecce), accusato di aver compiuto l’attentato alla scuola di Brindisi nel quale è morta la studentessa di 16 anni Melissa Bassi e sono rimaste ferite in modo grave altre cinque ragazze. «Ha reso ulteriori particolari – ha spiegato l’avvocato Franco Orlando – ma sostanzialmente non è mutato assolutamente nulla. Rimane la sua confessione». Vantaggiato dinanzi al gip ha pianto ha però riferito Orlando: «L’interrogatorio è stato in alcuni momenti drammatico, il pensiero per la ragazza morta, per le ragazze rimaste ferite e in particolare un pensiero per la sua famiglia alla quale ovviamente rimane molto vicino». La prima frase sarebbe stata: “Chiedo perdono”. Il gip del tribunale di Lecce, Ines Casciaro, ha convalidato il fermo di Vantaggiato, ed ha emesso una ordinanza di custodia in carcere nei suoi confronti. Confermata l’ipotesi di reato di strage in concorso con finalità di terrorismo. Soprattutto Vantaggiato ha chiarito il movente: «Ho fatto un gesto dimostrativo perchè ho subito due truffe e perchè il fatturato negli ultimi anni è diminuito”. L’uomo ha specificato di non riuscire a sopportare l’idea di non dover essere risarcito da un suo cliente, Cosimo Parato, e da un fornitore di Avetrana, dai quali non ha ricevuto circa 400mila euro. I suoi affari, inoltre, avrebbero subito un forte ridimensionamento (da quattro a un milione di litri) da quando era cessato l’appalto con la Provincia per alcune scuole superiori di Brindisi, tra le quali proprio il professionale Morvillo. L’appalto era comunque cessato – a quanto si sa – nel 2003. A causa dei problemi economici, ha aggiunto Vantaggiato, ha dovuto ridurre da sei a una unità il personale della propria azienda e ha perso all’incirca il 70 per cento del fatturato. Inoltre sono emersi nuovi dettagli sulle modalità di realizzazione dell’innesco. Vantaggiato ha rivelato anche di aver fatto delle prove in campagna prima di trasportare, da solo, le bombole davanti all’ingresso della scuola nella notte tra il 18 e il 19 maggio 2012. L’uomo ha quindi negato di aver agito con la complicità di altre persone e ha dimostrato una notevole competenza in materia elettronica. Vantaggiato avrebbe trovato su un’enciclopedia – alla voce esplosivi – le istruzioni per miscelare la polvere pirica che ha poi versato nelle bombole che ha fatto esplodere davanti alla scuola. La truffa da 342mila euro. Due sarebbero stati gli eventi diventati un incubo per Vantaggiato: prima di tutto la scoperta di assegni a vuoto per 342mila euro dopo aver rifornito di gasolio un imprenditore agricolo di Torre Santa Susanna, piccolo comune in provincia di Brindisi. Nel 2007 aveva venduto 700mila litri e passa di gasolio più un migliaio di benzina a Cosimo Parato mai immaginando di essere costretto a sporgere denuncia.
“Tre anni di processo per niente”, avrebbero detto al gip perché se da un lato l’imputato (solo lui a fronte di quattro persone rinviate al giudizio del Tribunale) era stato riconosciuto colpevole, dall’altro non c’era stata alcuna provvisionale rispetto alla richiesta di risarcimento dei danni quantificata in 400mila euro, facendo soprattutto riferimento ad “ansie e preoccupazioni”. E’ quello che si legge nella richiesta di costituzione di parte civile, ammessa dal gip Valerio Fracassi. La sentenza è arrivata il 19 aprile 2012, quindi un mese prima dell’attentato. Vantaggiato avrebbe detto di aver pensato al processo civile ma quando ha avviato le pratiche avrebbe scoperto che in realtà c’era poco quanto niente da aggredire. “Dove e come potevo recuperare tutti quei soldi?”. Dopo il buco ci sarebbe stato un altro colpo: il mancato pagamento di un cliente di Avetrana, in provincia di Taranto. Nel frattempo anche gli appalti con le Pubbliche Amministrazioni sarebbero venuti meno, complice l’avvento del metano. E’ successo così con la Provincia di Brindisi che aveva assegnato alla sua ditta l’appalto per la fornitura di gasolio nelle scuole superiori, tra le quali figura anche il Morvillo-Falcone: in tre anni, dal 2001 al 2003, aveva incassato – a fronte di fatture emesse – la somma di tre miliardi e mezzo di lire. L’attentato a Parato. Ce l’aveva con qualcuno in particolare? “No, con chi fa le leggi visto quello che mi è successo”, avrebbe risposto. Gli è stato chiesto se fosse stato lui a organizzare e ad eseguire l’attentato ai danni di Cosimo Parato, praticamente vivo per miracolo dopo l’esplosione che avvenne la domenica mattina del 24 febbraio 2008 davanti all’ingresso della palazzina in cui risiede, a Torre. “No, non sono stato io, non c’entro niente”. Vantaggiato ha insisto: “E’ la legge il problema”. Poi ha voluto precisare: “Io non appartengo a organizzazioni criminali o terroristiche e la politica non c’entra niente”. Ma allora per quale motivo da Copertino è arrivato a Brindisi e si fermato proprio davanti all’ingresso di una scuola? La risposta è stata impressionante: “A Lecce non ci potevo andare, sono di quelle parti, Bari è troppo lontana, Brindisi è vicina: ci sono arrivato facilmente e poi me ne sono andato”. Perché il Morvillo?
Perché sarebbe stato il primo luogo che ha visto e ha ritenuto idoneo per posizionare il cassonetto con le tre bombole di gas, una volta arrivato nel capoluogo, appena superato l’incrocio del ponte del rione Sant’Angelo dove è stato “visto” dalle telecamere dei semafori. E’ stato immortalato la mattina del 19 maggio, in un orario “compatibile” con l’attentato: arrivo alle 7, strage alle 7,42, strada del ritorno imboccata due minuti dopo. E quella del 5 maggio, un sabato, alla stessa ora: in questo caso a incastrarlo c’è stata anche una telefonata che ha permesso di stabilire la presenza nella zona della scuola essendo stata agganciata la cella telefonica che serve il Morvillo.
L’orrore non ha bisogno di grandi strategie. «Bari era troppo lontana, a Lecce rischiavo di essere riconosciuto. Ho scelto Brindisi perché sta a metà strada. E poi è un centro abbastanza grande. E io volevo fare un gesto dimostrativo, qualcosa di eclatante». È andata così, banalmente. Seguendo un filo logico di bassa praticità, con gli occhi sempre chiusi sulle conseguenze. «Non ho nulla contro l’Istituto Morvillo Falcone. Ho scelto quella zona dopo un sopralluogo. Ci arrivi in due minuti e in due minuti te ne vai, con rapido accesso alla superstrada. La via è abbastanza buia, quindi si prestava a mettere le bombole e collegare l’innesco». Povera Melissa Bassi, al momento sbagliato nel punto sbagliato, al centro del delirio vendicativo di un uomo meticoloso. Così meticoloso che dal carcere ha dato disposizione alla moglie di far sparire alcuni documenti. I poliziotti, che ovviamente hanno intercettato la lettera, sono andati a sequestrarli. Un tipo indecifrabile, Giovanni Vantaggiato. Alle 9 di mattina del 9 giugno 2012 si è presentato davanti al gip Ines Casciaro per l’udienza di convalida, ed è scoppiato a piangere: «Mi metto in ginocchio - ha detto all’inizio - chiedo perdono ai genitori della bambina. Gli scriverò. Chiedo perdono anche alla mia famiglia. Della mia vita non mi importa più nulla». Gli hanno detto di calmarsi, lo hanno fatto sedere. Poi, nell’aula all’interno del carcere di Lecce, hanno iniziato a tempestarlo delle stesse domande che tutta Italia si sta facendo da tre settimane. Perché? «Perché mi hanno rubato due volte i mezzi.
Perché ho dovuto sottostare a un’estorsione. Perché me li hanno incendiati, con un danno da 50 mila euro. Per quel bidone da 345 mila euro che mi ha rifilato Cosimo Parato di Torre Santa Susanna e un’altra truffa da 120 mila euro da un fornitore di Avetrana. Ero esasperato». «Lei ce l’ha con i giudici?», gli ha domandato il gip.
«No, sono le leggi che sono sbagliate. Se ci fossero leggi migliori, non mi sarei ridotto così. Ho fatto tre anni di processo e ho ottenuto nulla. Le leggi non tutelano i commercianti». Tre ore di verbale. Con un altro momento di pianto a singhiozzi, che costringe a un’interruzione. «Ci stavo pensando da Natale. Ho comprato i telecomandi, un manuale di chimica, 30 chili di polvere pirica. Ho fatto tutto io, tutto da solo». Non è stato un giorno di ordinaria follia.
Ma un pensiero cullato a lungo, preparato con perseveranza. «Fra febbraio e marzo, per tre volte ho sperimentato la funzionalità dell’ordigno che stavo costruendo. Sono andato in una strada di campagna, dalle parti di Copertino. Tutto il circuito deve girare a 12 volt, volevo essere sicuro che la batteria non si bruciasse». Ma perché ha scelto proprio il 19 maggio per piazzare la bomba?
«Perché prima la pioggia avrebbe potuto rovinare tutto». Ed ecco gli attimi terribili che precedono la strage: «L’innesco non partiva.
Continuavo a schiacciare. È passato più di un minuto. Poi ho visto la fiammata, ho girato le spalle e me ne sono andato. Io non volevo uccidere, lo giuro. Non doveva andare così». Hanno chiesto a Vantaggiato del libro sequestrato a casa sua, «Manuale del Guerriero della Luce»: «Paolo Coelho? Chi è? Un mio cliente? Non lo conosco. No, non è mio quel libro. Io leggo riviste nautiche e cruciverba». Gli hanno chiesto della bomba gemella, esplosa nel 2008 a Torre Santa Susanna, che ha ferito il «nemico» Cosimo Parato: «Non sono stato io». Gli hanno domandato cosa abbia pensato rivedendosi nel video ripreso dalle telecamere di un chiosco, la mattina della strage: «Ho sperato che non succedesse nulla, perché l’immagine non era buona». Quanto al peso della morte, al dolore provocato, ha detto: «Ho cercato di non pensarci».
Il gip: «Come ha passato la giornata, dopo aver messo la bomba davanti alla scuola?». Giovanni Vantaggiato: «Sono andato a lucidare la mia barca».
Non ce l’ha con i giudici, «ma con chi scrive le leggi. Se fossero migliori, non sarei così esasperato». Era «frustrato» per aver subito due truffe ed estorsioni senza risarcimento. E perché colpire la scuola, in quel punto? «Volevo un gesto eclatante e lì “ci entravo comodo” (ci arrivavo bene) da Lecce. Conoscevo l’istituto poiché ci portavamo il gasolio, ma mo’ non più». E ha cominciato a preparare l’ordigno «da Natale», facendo «tre prove». Anche se quella mattina l’innesco si è inceppato, «ho dovuto schiacciare tre volte».
Complici? «No, lo giuro sui miei nipoti». In tre ore d’interrogatorio per la convalida del fermo l’Unabomber del Salento, Giovanni Vantaggiato, circoscrive il movente alla rabbia per il crollo degli affari e a vari contenziosi andati male; e fa capire che la “Morvillo Falcone” è stata scelta perché comoda sul piano logistico e vicino al tribunale che frequentava con insofferenza. Prova anche a piangere: «Mi butto in ginocchio, chiedo perdono ai parenti della bambina (Melissa), voglio scrivere loro una lettera». Ma allora, ce lo vuole dire perché la bomba? Sono le 8.40 quando il gip, e con lei i pm Guglielmo Cataldi e Milto De Nozza, chiede al killer di spiegare.
È il secondo interrogatorio ufficiale. E fa caldo, dentro il carcere di Borgo San Nicola. Vantaggiato si asciuga la fronte con una manica, quindi parte a razzo: «Sono esasperato dai problemi nella mia attività. Mi hanno rubato due volte i mezzi con il cavallo di ritorno (si paga per riaverli, di fatto un’estorsione)… una volta me li hanno incendiati, ho avuto un danno in casa da 50 mila euro, una truffa ad Avetrana da 70 mila, gasolio non pagato. Poi sono stato raggirato da Cosimo Parato». È, quest’ultimo, l’agricoltore di Torre Santa Susanna che gli ha fatto un “bidone” da 342 mila euro, saldando, nel 2007, 700 mila litri di combustibile con assegni scoperti. «Pensare che gli fece da garante un maresciallo dei carabinieri, Fiorita, nemmeno di loro ci si può fidare». Parla del processo contro Parato dopo la sua denuncia: «Quello è stato condannato, ma adesso che dovevamo avere la causa civile per i danni si è venduto tutto. Ho avuto tre anni di processo e nulla, non è tutelato chi fa il commercio… gli affari sono scesi del 70% con la metanizzazione delle scuole, per le quali avevo l’appalto di fornitura del gasolio da riscaldamento. Prima vendevo 4 milioni di litri l’anno, ora solo uno; avevo sei dipendenti, ne è rimasto uno. E quando devi utilizzare i risparmi per pagare i debiti, vuol dire che le cose vanno male». Il pm De Nozza lo interrompe: «Gliel’hai messa tu nel 2008 la bomba a Parato (che ferì gravemente l’agricoltore)?». «Assolutamente no». Poi torna sul possibile bersaglio. «Ma allora ce l’hai con i giudici, con il tribunale?». «No, con chi scrive le leggi. Fossero migliori, non sarei ridotto così». «Ho iniziato a mettere le cose da parte a Natale, non ho usato solo polvere pirica (come aveva detto la notte in cui fu fermato), ma un composto con solventi chimici, la miscela l’ho creata io». Però. «Dovevo provare la funzionalità. Il circuito è fatto apposta e deve girare a dodici volt, volevo essere sicuro che la batteria non si bruciasse. Ho fatto tre prove, in campagna. Mettevo un pochino di polvere, provavo e se c’era la fiammata voleva dire che funzionava. Ci ho lasciato tre batterie così. Ho sottovalutato la potenza, non volevo uccidere». «Sei bravo a fare ‘ste cose», le parole dei pm: «Non è che sono bravo, ho trovato su un enciclopedia, su un manuale, le istruzioni per miscelare la polvere».
E quel libro di Paulo Coelho, il Manuale del guerriero della luce sul suo comodino con appuntata la frase “agire subito”? «Chi è Coelho, un cliente? Io leggo solo riviste di nautica e mi piacciono i cruciverba». Il gip chiede: possibile fosse solo?. «Lo giuro sulla cosa più cara che ho, i miei nipotini». Come già era accaduto, usa una volta la prima persona plurale: «Abb…, no, volevo dire ho caricato…so di aver fatto del male, anche alla mia famiglia. Ma loro non c’entrano nulla». L’epilogo è ricostruito meccanicamente: «Volevo fare un gesto eclatante; Bari mi sembrava troppo lontana, a Lecce avevo paura di essere riconosciuto; a Brindisi, e soprattutto lì, ci arrivi comodo. Dall’autostrada sono due minuti e te ne vai in fretta». I pm: «Ma allora ce l’hai con la scuola? «No, anche se la rifornivo fino a qualche anno fa: ci andava un autista. L’ho scelta perché era un posto abbastanza buio per mettere la bomba».
Perché quel giorno? «Prima c’era stato brutto tempo, temevo che la pioggia potesse spegnere l’innesco». Lo stesso innesco che non funzionava a dovere e l’ha obbligato a premere il pulsante «tre volte». «Non mi sono accorto delle telecamere, quando hanno trasmesso il video in tv speravo non succedesse nulla perché l’immagine non era buona». I magistrati lo guardano storto.
«Vantaggiato, l’ha vista l’esplosione?». «Ho visto la fiammata e sono andato via. Poi, per non pensarci, mi sono messo a lucidare la barca a secco».
Sugli sviluppi merita interesse quanto scritto da Fabio Mollica su “Brindisi Report”. Prima le illazioni sulle bombole di gas, poi le ipotesi più disparate sulle piste da seguire, infine i filmati del presunto attentatore (poi rivelatosi un poliziotto) sul luogo dell’attentato, ripreso mentre raccoglie detriti. La voglia di scoop, la necessità di trovare gli autori della strage e la possibilità di rendere pubbliche le proprie opinioni attraverso il web e i social network hanno cambiato il modo di raccontare un evento tragico, e forse perfino il modo di indagare. Ed è proprio sul web che si possono trovare le analisi più “originali” (per qualcuno le più strampalate) e le tesi più azzardate. Eccone alcune.
Enzo Di Frenna, sul suo blog ospitato da “Il Fatto Quotidiano”, non ha dubbi: dietro la bomba del 19 maggio ci sarebbe la solita oscura trama ordita da massoneria, politica corrotta, servizi segreti deviati e finanza speculativa. Il perché sarebbe semplice: «Oggi il cambiamento in Italia si sta manifestando attraverso i giovani a la Rete. La politica dal basso – che scuote i palazzi del potere – usa Internet. Se tale cambiamento si dovesse propagare sul piano nazionale, l’intreccio politica-mafia sarebbe in pericolo. Quindi i mandanti sono da cercare in pezzi deviati dei poteri dello Stato, che da anni hanno stretto un patto con le grandi organizzazioni criminali. Chi ha piazzato le bombe davanti a una scuola lo ha fatto tenendo all’oscuro la Sacra Corona Unita. È gente spietata che si è infiltrata nel territorio pugliese». Tutto chiaro, enigma risolto (eccezion fatta per i nomi degli stragisti): «Ho l’impressione che i mandanti siano i membri di quella Cupola Nera- composta da massoneria, politica corrotta, pezzi deviati dei servizi segreti e finanza speculativa – che da decenni tiene in scacco l’Italia. Il cambiamento sta scuotendo le fondamenta del loro potere. Si sentono minacciati. E quindi loro minacciano. Nel modo più feroce possibile».
Più o meno sulla stessa linea è (sul suo blog) Marco Cedolin, che non propone una tesi sugli autori dell’attentato, ma è certo su chi se ne avvantaggia, e cioé «lo stato e il governo, che erano in disgrazia», con il ministro Cancellieri che ora «avrà carta bianca per reprimere tutto ciò che possa infastidire l’esecuzione degli ordini della Bce, ad iniziare dalla No Tav, da lei stessa definita la maggiore preoccupazione del governo, unitamente alle contestazioni contro Equitalia ed a tutti i focolai di conflitto sociale che potranno crearsi quando la macelleria fra qualche mese entrerà in funzione a pieno regime».
Altro blog, altra tesi, quella di Gianni Fraschetti, su informare.over-blog.it, che sulla base delle immagini viste in tv esclude categoricamente che possano essere state utilizzate bombole di gas: «Allora, vorrebbero dirci che lì vi è stato il Bleve (l’esplosione) di tre bombole e che lo stato dei luoghi successivo a tale evento è quello che abbiamo visto? Ma non raccontassero cazzate per piacere. “Lì non è esplosa nessuna bombola, però sarebbe interessante sapere perché la menzogna comincia proprio da lì”.
Quanto al movente, Frascetti ne propone uno, che porta molto lontano: all’America che non vuole il gasdotto russo South Stream: «Ecco dunque spiegati il perché di Brindisi, dove dovrebbe sbucare il South Stream, e questa strana bomba sulla quale sono state avanzate le più disparate congetture e che altro non era che un avvertimento in codice, pieno di simbolismi abbastanza difficili da decifrare per tutti, meno che da coloro che dovevano comprenderli. Insieme all’esplosivo infatti era stata collocata vicino alla scuola (le future vittime innocenti?) una bombola di gas vuota (il gasdotto?), con un po’ di morchie dentro che sono fisiologiche ed hanno provocato le ustioni ed un po’ di nerofumo sul muretto, il cui significato era chiaro. Provateci a fare il South Stream… ci dovete solo provare».
Di Frenna, Cedolin, Frascetti. Nomi poco noti, direte voi. E invece tra quanti si sono lasciati prendere la mano (e la penna) ci sono anche esperti del settore. Come il barese Aldo Giannuli, ricercatore di Storia contemporanea all’Università degli studi di Milano, già consulente delle procure di Bari, Milano (strage di piazza Fontana), Pavia, Brescia (strage di piazza della Loggia), Roma e Palermo. Nonché, dal 1994 al 2001, collaboratore della Commissione Stragi. Ecco la sua idea sui fatti di Brindisi: «Potrebbe esserci una pista diversa, di natura affaristica. Destabilizzare l’Italia potrebbe convenire per manovre speculative sui titoli italiani o sull’Euro, ma potrebbe esserci anche una ragione più specifica. Ad esempio, ragionando sull’attentato ad Adinolfi (il dirigente dell’Ansaldo) ipotizzavo che questo potrebbe anche essere messo in relazione con una pressione dei confronti del governo italiano per vendere subito ed a buon mercato il gruppo Finmeccanica, di cui, insieme all’Eni ed alle Ffss, si era ipotizzata la cessione per far fronte al debito pubblico. Della cosa poi non si è più parlato ed il progetto langue. Ora questi attentati indeboliscono la posizione dell’Italia che sembra avviata su un declino di tipo greco o sudamericano». Manca però qualsiasi elemento o riscontro. E infatti Giannuli avverte: «Non abbiamo alcun elemento concreto per sostenere che la pista affaristica collega i vari attentati, ma non c’è dubbio che, oggettivamente, essi vadano in questo senso, favorendo una svendita degli asset nazionali. Perché non proviamo a ragionarci su? È solo un’ipotesi, d’accordo, ma almeno un po’ più razionale di quella dell’improbabile pista mafiosa».
Antonio De Martini, sul blog “Ilcorrieredellacollera”, si spinge ancora più avanti, ipotizzando il complotto internazionale: «…Resta il movente dell’impedire a Monti di tornare vittorioso dagli USA coi capitali e qui ci restano due strade: il mandante è chi vuole sostituirlo oppure chi vuole che continuiamo a indebitarci pagando lauti interessi. Se il mandante fosse chi vuole sostituire Monti, farebbe parte della sua maggioranza, ma escluderei Berlusconi perché per far cadere il Premier, gli basterebbe farlo impallinare in Parlamento dopo aver portato a casa gli aiuti. Sarebbe più nel suo stile. Resta solo la seconda ipotesi, cioè che il mandante sia seduto al tavolo del G8 assieme a Monti e che in questo momento gli sta dicendo che è difficile inviare capitali in Italia perché sono stati “deployed” 20.000 uomini ed è corso del sangue sia a Genova che al Sud e i media hanno propagato le news». De Martini ha un dubbio, ma anche la risposta: «L’obiezione principale a questa personalissima ipotesi, sarebbe considerare irrealistica una alleanza armonica tra alta finanza e malavita. Il malloppo degli interessi pagati dall’Italia è di oltre 130 miliardi annui».
Insomma, secondo questi signori l’assassino di Melissa Bassi potrebbe essere seduto al tavolo del G8, o comunque avere accesso alle stanze dei bottoni, o magari a Wall Street.
Perfino il senatore leccese Giovanni Pellegrino non esclude piste degne di un film. Al Quotidiano Nazionale ha infatti dichiarato: «Mi viene da pensare a intelligence nemiche, che mascherano una sottile strategia offensiva con il carattere artigianale e dilettantesco dell’ordigno, per aumentare il terrore». L’ex presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi ricollega quello del Morvillo-Falcone a due attentati analoghi andati a vuoto: «Uno a Castelvolturno, e l’altro nel Torinese. Se fossero collegati, ci indicano una strategia precisa. Una bomba piazzata per uccidere dei ragazzi, degli studenti, come a Tolosa, come in Norvegia, è un segnale fortissimo e terrorizzante, di qualcuno che vuole comunicarci questo: siete finiti, non avete futuro».
Riguardo alle cazzate dette sul delitto di Melissa Bassi cito il pensiero di Filippo Facci di “Libero Quotidiano”. Vent’anni dopo si passa da Capaci a Brindisi, da Totò Riina a un probabile e terribile caso umano, dalla mafia militare – che è stata sconfitta – all’antimafia che ogni volta cerca di riesumarla. Non è il senno di poi, questo: comunque sia andata, bastavano trenta secondi per concludere che a Brindisi nessuna mafia o terrorismo avrebbe usato una bomba così sfigata, fatta con bombole del gas di uso comune e con un detonatore da vendita per corrispondenza, azionato da un professionista così abile da farsi riprendere da una telecamera; concludere che non c’era una sola ragione logica o territoriale perché la criminalità organizzata o chiunque altro dovesse passare dal tritolo serie T4 del 1993 (piazzato in punti culturalmente simbolici a Milano e Roma e Firenze) a un ordigno rudimentale piazzato proprio a Brindisi e proprio davanti a un istituto turistico; concludere, tra l’altro, che nessun precedente riporta a killeraggi del genere contro la popolazione e addirittura contro ragazzine di 16 anni. Tutto questo qualche addetto ai lavori l’ha anche detto subito, con tutte le accortezze del caso: ma non è bastato a fermare le solite germinazioni dietrologiche su un terreno che qualcuno, in Italia, si preoccupa sempre di irrigare a dovere.
Scriviamo questo senza neppure sapere con precisione, a Brindisi, chi sia stato il colpevole: su chi non è stato, tuttavia, sono abbastanza certo, e lo dico, mi espongo. Ecco perché mi paiono così penose le parate di chi, anche tra gli inquirenti, «non esclude» questo e quest’altro. Il procuratore capo di Brindisi è arrivato a considerare seriamente, senza elementi, che l’attentato sia ricaduto su quella scuola perché intitolata neppure a Falcone, ma a sua moglie Francesca Morvillo. Di elementi in realtà ce n’era uno solo – il video del presunto attentatore – e sono riusciti a farlo uscire sui giornali praticamente in tempo reale, probabilmente danneggiando le indagini, sicuramente indisponendo la Dda di Lecce e non solo quella: ma non scriveremo di «guerra tra procure», sennò i procuratori si dispiacciono. A Brindisi ipotizzano l’attentato mafioso, a Lecce lo escludono: ci faranno sapere.
Di Beppe Grillo non c’è da dire una parola: lui la bomba la «sentiva nell’aria» (poteva avvertire) ma ti spiegano che sparare cazzate fa parte della sua dimensione neopolitica. Peraltro sabato 9 giugno, alla manifestazione al Pantheon, si sentivano nell’aria anche i colpevoli, i soliti servizi-mafia-Stato che vorrebbero fermare il «nuovo»: a Palermo sarebbe Leoluca Orlando, uno che era già sindaco del 1985 e che mascariò Falcone come già raccontato. Nicola Zingaretti, il presidente della Provincia, ovviamente ha chiesto di colpire «i mandanti». Persino Gianni Alemanno ha parlato di attacco mafioso «che ha scelto il ventennale della morte di Falcone per lanciare un segnale». E poi la Cgil, Libera, l’Arci: chi fosse il colpevole pareva quasi secondario, il cui prodest eleggiava su tutto. Di Pietro si è scagliato contro «qualcuno che vuole il caos e che in questa situazione politica ed economica vede la possibilità di scatenarlo di nuovo». Maurizio Landini (Fiom) ha detto che «poteri occulti hanno tentato una strage per mettere paura proprio mentre sono in atto cambiamenti nel Paese». Poi il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia – poteva mancare? – ha parlato di analogie con le stragi di mafia del ’92-’93, chissà, magari c’è sotto una trattativa. Del resto Giancarlo Caselli, nume tutelare di Ingroia, aveva già parlato di «rischio di poteri occulti o deviati».
Sono ancora lì che straparlano di mafia, questi. In Italia si ammette che è stato storicamente sconfitto il terrorismo, ma quello che non vi diranno mai – mai – è che anche la battaglia contro la mafia è stata sostanzialmente vinta. La struttura gerarchico-militare è stata decapitata, i capi-latitanti sono in galera, i sottoposti pure, non si contano killer ed estorsori e picciotti e prestanome e palazzinari pure incarcerati, i sequestri di armi e droga e ingenti patrimoni ormai non si contano, le bombe e le stragi e gli omicidi seriali non ci sono più, la presa sul territorio è scomparsa o allentatissima, i traffici internazionali sono interrotti o in mano alla ‘ndrangheta.
Ovviamente persistono i piccoli clan nonché una criminalità organizzata più generica, dedita al riciclaggio, alla finanza, agli appalti «legali» soprattutto nella sanità: ma non è più un’emergenza territoriale e un terrore quotidiano. Va combattuta – come si fa in tutto il mondo – ma avrete notato come mafiologi e ciarpame antimafia, oggi, si concentrino soltanto sul passato, sulla paleontologia giudiziaria, sulla rielaborazione infinita e cervellotica di fatti ventennali, sull’eterno ritorno. Giovanni Falcone disse che la mafia è una cosa umana e che perciò avrebbe avuto una fine come tutte le cose umane. Ma parlava della mafia, non dell’antimafia: non delle cialtronate dietrologiche, delle fiaccolate e dei cortei luttuosi, dei video e degli appelli, dei clan dei familiari e degli avvoltoi, della retorica e dei picciotti della memoria.
È il terzo giorno di fila che cito Luca Telese: domani vado a farmi vedere. Però, ecco: Telese nei giorni scorsi ha lasciato Il Fatto Quotidiano perché oltretutto c’erano personaggi come Beppe Grillo e Antonio Ingroia e Giancarlo Caselli che erano diventati degli intoccabili, ha detto. L’avrà fatto anche per altre ragioni, ma ha detto così. Ciò premesso, sappiamo che subito dopo la bomba di Brindisi furono dette le peggio cazzate, e infatti su Libero ci siamo divertiti a metterle alla berlina come avevamo già fatto subito dopo l’attentato. Non siamo stati i soli: per esempio, anche Il Fatto Quotidiano si è divertito a mettere alla berlina le cazzate eccetera.
E - domanda - indovinate chi si sono dimenticati di citare? Proprio Grillo e Ingroia e Caselli, cioè quelli che avevano paventato gli scenari più foschi e inquietanti. E indovinate chi invece hanno citato? Proprio quelli che stanno sulle palle a Grillo e Ingroia e Caselli, oltreché a loro. Cioè: Grillo aveva detto, con evocazioni genere strage di Stato, che lui la bomba la «sentiva nell’aria» e l’aveva citata altre volte durante la campagna per le amministrative, roba tipo «bomba o non bomba arriveremo a Roma»; Ingroia aveva parlato di analogie con le stragi del ’92-’93 e aveva spiegato che «la mafia non riesce a fare a meno di rapporti con la politica e per mettersi sul mercato dimostra di essere ancora forte». Caselli, nume tutelare di Ingroia, aveva parlato di «rischio di poteri occulti o deviati» e via così, non la facciamo lunga. Ecco: sul Fatto, non una parola su di loro. E non una parola, a guardar bene, neppure su Antonio Di Pietro («qualcuno vuole il caos e in questa situazione politica vede la possibilità di scatenarlo di nuovo») e su Maurizio Landini della Fiom («poteri occulti hanno tentato una strage mentre sono in atto cambiamenti nel Paese») e altri ancora. E noi li comprendiamo, quelli del Fatto Quotidiano: siamo uomini di mondo e di strapaese. Al giornale di Padellaro lavora il figlio di Giancarlo Caselli (Stefano) e l’addetto stampa e compagno di vacanze di Ingroia (Travaglio) e l’ex addetto stampa di Di Pietro (sempre Travaglio) e il biografo personale di Beppe Grillo (Andrea Scazzi) e già che ci siamo: ci lavora pure il figlio del magistrato ed ex sindaco di Genova Adriano Sansa (Ferruccio) e ci scrive l’ex magistrato Bruni Tinti: i quali, tutti insieme, magari costituiscono la divisione contro i conflitti d’interesse. Però, ecco: piuttosto che coprirsi di ridicolo allora rinuncino all’articolo, non citino - come hanno fatto - solo il capo della Polizia, Antonio Manganelli, e poi naturalmente il procuratore antimafia Piero Grasso (che a Ingroia e Caselli fa venire l’orticaria) e poi Massimo D’Alema e Alfredo Mantovano e ancora un paio di ministri: tutta gente che peraltro non aveva detto granché, a ben vedere. Ripetiamo, siamo uomini di mondo e non c’è certo da prendersela con l’autrice dell’articolo omissivo, Silvia D’Onghia: nessuno, qui, sosterrà che sia andata incontro a censura. Infatti si chiama autocensura. Ci dev’essere un bel clima, da quelle parti.
A questo punto come non dare ragione, solo per una volta, però, a Carlo Bollino, il direttore della Gazzetta del Mezzogiorno, con il suo editoriale dell’11 giugno 2012. Una volta perché il direttore spesso smentisce se stesso e le sue condivisibili opinioni. Anche con Sarah aprì con un bel editoriale di critica, per poi finire egli stesso nel calderone della demagogia e della disinformazione. Sarà la medesima risonanza mediatica che le due tragedie suscitano, o saranno forse alcune singolari coincidenze (davvero tali e almeno su questo non ci sono dubbi) che le accomunano, ma l’inchiesta sul mostro di Brindisi evoca ogni giorno che passa nuove, sinistre, assonanze con quella sull’uccisione di Sarah Scazzi. E non soltanto perché Sarah e Melissa avevano la stessa età, ed entrambe sono morte a loro insaputa mentre celebravano un innocuo rito della propria adolescenza (l’una stava per andare al mare, l‘altra a scuola). E neppure perché i protagonisti si assomigliano, anche fisicamente; persone qualunque della provincia contadina (Copertino dista da Avetrana meno di 30 chilometri), con una vita e un volto apparentemente inconciliabili con l’orrore che vien loro attribuito. No, la vera similitudine dai toni sinistri è che le due indagini continuano a disvelare punti interrogativi identici, e gli identici buchi neri. Con il rischio per entrambe che al di là delle energie spese dagli investigatori l’esito processuale, si trasformi poi nella disfatta della giustizia.
IL MOVENTE. Il primo buco-nero che ritorna nelle due inchieste è la difficoltà ad identificarne il movente. Se ancora oggi, a distanza di quasi due anni, non si ha nessuna certezza sul perché Sarah Scazzi sia stata strangolata, con l’attentato di Brindisi la prospettiva investigativa rischia di essere identica. Vendetta personale? E contro chi? Gesto di follia? Ma è davvero folle Giovanni Vantaggiato? La mancanza di un movente certo rischia di rendere fragile l’intera impalcatura accusatoria, come l’andamento del processo su Avetrana sta puntualmente dimostrando.
I COMPLICI. Il secondo buco-nero riguarda l’esistenza o meno di complici. Proprio come fece Michele Misseri quando (forse tradendosi) disse «abbiamo parcheggiato l’auto» riferendosi alla Marbella con dentro il cadavere della piccola Sarah, così Giovanni Vantaggiato (subito correggendosi) ha detto agli inquirenti «abbiamo messo la bomba». Perché «abbiamo» se hanno agito da soli? Nello sforzo di ricostruire la “squadra” che ha assassinato Sarah e ne ha poi nascosto il cadavere, in due anni sono corsi fiumi di inchiostro e cascate di parole, con la procura di Taranto impegnata nel lancio di una rete via via sempre più ampia che ha finito col coinvolgere un gran numero di indiziati nessuno dei quali, però, è stato mai inchiodato alla certezza di una prova. E così ancora oggi nessuno sa dire non soltanto se Sarah sia stata uccisa davvero dalla sola Sabrina, ma neppure chi partecipò con zio Michele all’orrido espediente di buttarne il cadavere in fondo al pozzo. Anche nell’inchiesta di Brindisi si parla di «complici», un’ipotesi riportata persino nel decreto di fermo per Giovanni Vantaggiato emesso tre giorni fa dalla procura di Lecce, esattamente come accadde al momento dell’arresto di zio Michele due anni fa. Annotazioni, questa come quella, destinate a rimanere indelebili. Con un dettaglio che aggiunge al caso di Brindisi ulteriore mistero: il riferimento, esplicito ed inquietante, ad un possibile mandante.
LE MOGLI. Poi le mogli. Per oltre un anno quella di Michele Misseri è rimasta ufficialmente fuori dall’inchiesta, anche se sin dal primo giorno fu indicata come la «complice sottointesa». Un ruolo che rischia di assomigliare a quello di un altro convitato di pietra dell’inchiesta di Brindisi: la moglie di Giovanni Vantaggiato. Pare che l’uomo sia crollato addossandosi ogni colpa al solo sentire evocare dal magistrato che lo interrogava la prospettiva di coinvolgere nelle indagini la sua donna, la cui autovettura Fiat Punto di colore bianco era stata effettivamente filmata sul luogo del delitto. Un tabù identico a quello tradito sin dall’inizio da Michele Misseri, che nell’atavica logica contadina del preservare “i beni” ha sempre escluso qualunque responsabilità della moglie, alla quale aveva demandato la gestione e la titolarità del patrimonio di famiglia. Destino che accomuna (almeno in questo) Cosima alla moglie di Vantaggiato, pure lei titolare legale dell’impresa del marito. Nessuna allusione a responsabilità penali, ma sono in tanti a chiedersi come sia stato possibile che almeno la moglie non abbia riconosciuto il marito in quel video dell’attentatore trasmesso in televisione cento volte. E perché abbia taciuto. E come abbia potuto il marito chiamarla al telefono, nelle concitate fasi del fermo, chiedendo proprio a lei di far sparire l’auto usata per l’attentato, evidentemente inconsapevole di essere intercettato.
LE PROVE. Infine le prove. L’entusiasmo tradito dagli investigatori nelle ore successive alla confessione di Giovanni Vantaggiato, evoca lo stesso ottimismo dimostrato a Taranto all’indomani della confessione di Michele Misseri. Poi sappiamo come andò a finire: Misseri ritrattò tutto, e gli investigatori hanno iniziato un’estenuante rincorsa sui dettagli (fatica in parte non ancora conclusa) nel complicato tentativo di trasformare la pur cospicua quantità di indizi a disposizione, nella dimensione inconfutabile di una prova. Ecco, per restare all’analogia tra le due inchieste: cosa accadrebbe se domani anche Giovanni Vantaggiato dovesse ritrattare? Sono già emerse nelle indagini sulla strage di Brindisi prove scientifiche che inchiodano l’assassino al di là delle sue stesse ammissioni, e che invece sono sempre mancate nell’inchiesta sull’omicidio di Avetrana? Per quanto se ne sa, non ancora. Non è prova ad esempio la presenza della macchina di Vantaggiato sul luogo della strage, perché non c’è prova che ne fosse lui alla guida. Per la stessa ragione non è prova la presenza del suo telefonino nella memoria delle celle compatibili con il luogo della strage, perché non c’è prova che si trovasse davvero lì per azionare il detonatore (e poi quanto era davvero vicino alla scuola visto che le celle telefoniche coprono un raggio di oltre due chilometri?). Né può essere considerata prova quel video (almeno non una prova schiacciante) che ha immortalato l’attentatore nel gesto di azionare l’ordigno, ma che lo raffigura in modo così poco nitido al punto da non renderlo riconoscibile con certezza neppure mettendoci affianco la foto dell’arrestato. Né aiuta il fatto che manchi ancora l’arma del delitto: il telecomando con cui è stato attivato l’ordigno sembra dissoltosi nel nulla proprio come la cintura che strangolò Sarah. Questo non per dire che Giovanni Vantaggiato sia innocente. Ma solo per ricordare agli inquirenti, e a tutti noi, che la «pistola fumante» mai trovata ad Avetrana probabilmente manca pure nell’inchiesta di Brindisi, e che è assolutamente necessario che le indagini vadano avanti con la stessa determinazione dimostrata finora, e che non si trascuri nessun elemento, né si risparmi su alcuno degli strumenti investigativi a disposizione pur di ottenere la prova regina. Sollecitazione tanto più opportuna nella prospettiva (purtroppo già all’orizzonte) di una battaglia procedurale tra procure per decidere quale ha la competenza ad indagare. Ormai ossessionati dalla «sindrome di zio Michele» non vorremmo fra qualche anno ritrovare in libertà Giovanni Vantaggiato intento a urlare, anche lui inascoltato, la sua colpevolezza di fronte ad un altro “mostro” che in cella si dispera invece nel proclamare la propria innocenza. Con tutti noi, esattamente come oggi, intenti ancora a macerare ipotesi per scoprire le autentiche, ignote e a quel punto definitivamente incomprensibili, ragioni della strage.
Passare da via Vespucci per una sbirciatina alla casa di Giovanni Vantaggiato sta diventando quasi un’ossessione per decine di automobilisti che fino a ieri non sapevano nemmeno che quella strada e quella casa esistessero. Non un pellegrinaggio dell’orrore, beninteso, e nessun paragone con il circo indemoniato di Avetrana. «Ma solo curiosità - dicono due ragazze a bordo di una utilitaria di ritorno dal mare - giusto per conoscere qualcosa in più di quello che ha gettato tanto fango sulla nostra Copertino». Intanto continuano ad essere presidiati l’abitazione e il deposito di carburanti lungo la provinciale per Leverano, rispettivamente da carabinieri e polizia.
Tra l’altro, in quest’ultima struttura sottoposta a sequestro penale, le cisterne sono piene di gasolio essendo state rifornite appena due giorni prima del fermo di Vantaggiato. Nessun rapporto con l’esterno, invece, hanno deciso di avere gli inquilini dell’abitazione piantonata dai carabinieri al solo scopo di tutelarli. La moglie e le figlie dell’uomo, infatti, sono asserragliate in casa sin dalla mattina del 6 giugno scorso. Solo nella tarda mattinata di sabato, al termine di alcune perquisizioni condotte dalla polizia scientifica nell’abitazione in seguito all’intercettazione di un «pizzino» di Vantaggiato diretto alla moglie e nel quale si dava indicazione di far sparire certi documenti compromettenti, la moglie ha fatto capolino all’esterno, ma solo per chiudere il cancello della villa alle spalle degli investigatori e avendo cura di nascondere il volto ai cronisti. Poi nulla più. Nel perimetro esterno della casa incombe solo il silenzio: tra la vegetazione poco curata e pochi oggetti dall’apparente abbandono. Tra un gommone coperto da un telo e qualche giocattolo, spicca una bandierina tricolore, segno evidente dei valori patriottici appena celebrati dai nipotini di Vantaggiato in occasione del 2 giugno. Nessun parente, a quanto pare, avrebbe fatto visita alla famiglia. Nessuno in questi giorni è stato visto entrare con dei viveri. Chissà, forse di notte, è molto probabile. A girare la domanda ai vicini di casa ci si sente rispondere in maniera evasiva. Tutti si trincerano dietro il fatto che i Vantaggiato sono gente schiva e riservata. Insomma, nessuno sembra essere disposto a parlarne. Alla notizia del ritrovamento dell’arsenale nella campagne in località «Ensite», c’è chi rimane incredulo. «Non è possibile – dicono in tanti – che questo individuo che andava in giro con rotoloni da cento euro e che prima della metanizzazione consegnava gasolio da riscaldamento in quasi tutte le case del paese, fosse a contatto con l’inferno. Il fango che ci ha gettato addosso è talmente tanto che ci vorranno anni per rimuoverlo». Ad altri, invece, quell’ordigno nella campagne di Copertino ha riportato alla mente una vecchia storia secondo la quale, durante le feste di Natale l’uomo, invitato più volte da un commerciante ad acquistare i tradizionali petardi di capodanno, una volta rispose: «Tu li vendi, ma io li faccio». Sintomatica risposta della confidenza che Vantaggiato aveva con la polvere pirica. È possibile, infatti, che per mettere a segno le sue volontà stragiste possa essersela procurata mediante l’acquisto di centinaia (se non migliaia) di botti e mortaretti che molto facilmente si vendono tra Natale e Capodanno sulle bancarelle di ogni paese. Un’esistenza inquietante, insomma, quella di Vantaggiato che nessuno copertinese si sarebbe mai immaginato.
"La città di Copertino, sgomenta di fronte alle notizie del fermo del presunto autore della efferata strage del 19 maggio scorso, rinnova l'abbraccio e la solidarietà alla famiglia di Melissa Bassi e alle altre studentesse di Mesagne colpite ignobilmente dal vile attentato". Con questa nota il sindaco del paese pugliese, Giuseppe Rosafio, esprime ancora una volta il dolore che ha sconvolto la vita della sua comunità. "Non solo la comunità brindisina - aggiunge - ma tutti i cittadini italiani che hanno a cuore il futuro delle giovani generazioni e la speranza di veder crescere i nostri giovani in un clima di fiducia e di rispetto reciproco condannano con forza ogni gesto di violenza.
Non posso che esprimere, a nome dell'intera cittadinanza, la più ferma e risoluta condanna e dissociazione da un gesto sconsiderato che ha portato dolore e lutto in tante case dei nostri conterranei". "I cittadini di Copertino - ribadisce Rosafio - sono ben lontani dalla logica assurda che ha portato il presunto autore dell'attentato a compiere un gesto esecrabile, che non può avere alcuna giustificazione. E' questa la condanna, che continueremo ad esprimere a maggior ragione, che Copertino assurge suo malgrado agli onori della cronaca". "Una condanna - sottolinea - che già avevamo programmato di esprimere anche il prossimo 17 giugno in occasione della visita del cardinale Giovambattista Re, vescovo di Lauria, presso il Santuario di San Giuseppe da Copertino, con una celebrazione di una messa nel ricordo di Melissa e del grande dolore della sua famiglia".
Il dolore, a Mesagne, si è trasformato in rabbia. Una rabbia infinita contro 'quel bastardo'. Una rabbia che ha dilagato anche in rete: già dal primo pomeriggio sono stati aperti gruppi su facebook, che invocano per Vantaggiato la pena di morte o almeno, l'ergastolo.
Immediata anche la 'reazione' di twitter, con un hashtag per il reo confesso, anche se la rabbia è ancora cauta per il timore degli internauti di possibili smentite. Oltretutto, sono molti i posti in cui Vantaggiato viene paragonato a Michele Misseri, tragica figura della terribile vicenda dell'omicidio di Sarah Scazzi, ad Avetrana (Taranto). A volte, però, il semplice gusto di farsi notare non conosce limiti e rischia di cadere davvero in basso, forse troppo. A pochi giorni dalla terribile confessione di Giovanni Vantaggiato, 68enne di Copertino, il quale avrebbe dichiarato di essere l’artefice dell’attentato a Brindisi, ecco qui che su Facebook spunta un gruppo in suo onore. “Giovanni Vantaggiato eroe contemporaneo”. Un’offesa, una vergogna, uno schiaffo a Melissa Bassi. Questo gruppo e specialmente i post all’interno non fanno altro che elogiare un uomo che ha solo seminato panico e terrore. Peggio, c’è persino qualcuno che lo reputa eroe nel gruppo Facebook e posta immagini che oltraggiano la memoria di Melissa Bassi. Ci sono atroci foto, ovviamente false, in cui si tende a far riferimento ai corpi carbonizzati di Melissa e Veronica Capodieci. O peggio vi è persino un link in cui si accenna a un atto sessuale tra Vantaggiato e il povero angelo volato via. Per non parlare dello squallido post: “Giovanni Vantaggiato era solo innamorato di Melissa, ma dopo la prima volta lei era a far la p….,altrove e Giovanni è rimasto a bocca asciutta, lui giustamente ha fatto benissimo a farla saltare in aria, in questo modo ora stanno di nuovo insieme.. Ecco uno scatto dei primi paparazzi dopo l’esplosione alla scuola, lui vivo lei morta, in teneri gesti d’amore…”. Ma si può essere crudeli fino a questo punto? A quale fine? E’ davvero una vergogna. A tal proposito TrNews.it con un suo servizio al TG invita tutti a segnalare il gruppo, tramite le forme previste da Facebook: “aprite la pagina (all’indirizzo http://www.facebook.com/groups/414731801904580/), cliccate sulla rotellina in alto a destra del vostro schermo, poi cliccate ‘segnala’ e motivate con l’uso di espressioni che incitano alla violenza e all’odio.” Intanto, gli anziani che si riparano dal caldo sole di giugno sulle panchine della villa comunale non provano pietà per quell'uomo di 68 anni, reo confesso. 'Che c'entra Melissa?' ripete uno, 'che c'entra una ragazzina di 16 anni?'. E in un attimo si passa alla voglia di vendetta. 'E' meglio per lui che l'abbia fermato la polizia perché gli sarebbe andata peggio se l'avessimo avuto noi fra le nostre mani': questa frase è più volte usata dalle persone di una città che non vuole dimenticare. Proprio per questo l'edicolante di via Generale Falcone - che oggi ha raddoppiato le vendite - sulla porta d'ingresso ha ancora esposto il volantino con la scritta 'Mesagne piange Melissa'. E davanti al Comune c'è sempre il manifesto di lutto cittadino. Dentro la sede municipale il telefono del sindaco, Franco Scoditti, squilla continuamente: 'La nostra città è vittima, non carnefice come qualcuno aveva voluto far passare subito dopo l'attentato riconducendolo a collegamenti con la criminalità organizzata di Mesagne. E' vero - ammette - che qui ci sono dei problemi, ma al tempo stesso ci sono gli anticorpi.
L'arresto di Vantaggiato dà sollievo alla nostra comunità - ribadisce Scoditti - ma è solo un conforto parziale perché nulla potrà cancellare il dolore della famiglia di Melissa e delle altre ragazze ferite nell'attentato'. Il sindaco chiude la porta del suo ufficio, torna a rispondere al telefono, ma nella piazza di Mesagne la gente continua ancora a chiedersi se il 'mostro' è veramente Vantaggiato, solo lui, o se dietro di lui ci sia qualche mostro ancora più terribile.
Verrebbe da dire: la Stampa.
E proprio per questo su www.telewebitalia.eu , il portale delle tv web locali, sulla web tv di Avetrana, oltre a riportare le risorse culturali e storiche e tutto quanto riguarda il caso di Sarah Scazzi, rendicontato da Antonio Giangrande, un avetranese, si sono inseriti i personaggi che hanno dato lustro alla cittadina. Partendo dall’assunto: Avetrana, non solo Scazzi e Misseri; si sono inseriti i nomi noti in Italia e nel mondo. Si fa cenno al dr Antonio Giangrande, scrittore, i cui saggi ed inchieste sono lette in tutto il mondo, oltre che essere presidente dell’ “Associazione Contro Tutte le Mafie” e di “Tele Web Italia”. C’è l’avv. Mirko Giangrande, l’avvocato più giovane d’Italia, a venticinque anni e due lauree. C’è il dr Biagio Saracino, Cavaliere della Repubblica. C’è il prof. Antonio Iazzi dell’Università del Salento. C’è Leonardo Laserra Ingrosso, Tenente Colonnello, Maestro della banda musicale della Giardi di Finanza. C’è Leonardo Giangrande vice presidente della Camera di Commercio di Taranto e presidente della Confcommercio di Taranto. Infine c’è Vito Mancini, concorrente del Grande Fratello 12. Per qualcuno non è un vanto, ma tant’è. Comunque molti di loro, nonostante l’immeritata notorietà concessa sul portale visto in tutto il mondo, nessuna riconoscenza è stata dimostrata. Come, d'altronde la Stampa, nessun interesse ha concesso a tale evidenze. Per i media Avetrana è e sarà sempre impersonata da Michele Misseri, come Copertino sarà identificata da Giovanni Vantaggiato.
Ma a Brindisi ad essere vittima non è solo Melissa Bassi. «Ora voglio stare lontano da tutto». Angelo Rampino, il preside dell’istituto Morvillo-Falcone, è scosso. Al telefono con l’ANSA sottolinea la propria estraneità a ogni forma di coinvolgimento nell’attentato di Brindisi. Non si ritiene il bersaglio del killer e specifica di sentirsi «distrutto» e «annientato» dopo che i riflettori sono stati puntati su di lui quale possibile bersaglio dell’esplosione.
Dopo l’arrivo in Questura di Giovanni Vantaggiato, infatti, e la diffusione della sua identità, si erano diffuse voci su presunte vecchie ruggini tra l’imprenditore reo confesso dell’attentato e il dirigente scolastico che nella sua carriera ha anche prestato servizio, come docente, a Galatina, paese vicino a Copertino dove vive il proprietario del deposito di carburante agricolo fermato.
Allontana ogni sospetto, Rampino, e spiega di non essere in buone condizioni di salute. È intenzionato a restare in disparte, ancora per un pò. Nella speranza di ristabilirsi per poi ritornare al proprio lavoro. Il rientro a Brindisi, dietro la scrivania della presidenza della scuola di via Galanti, è previsto per lunedì 11 giugno. Ma non è ancora deciso nulla. Rampino è in ferie e precisa di averle richieste e di non aver subito alcun tipo di provvedimento da parte della Direzione scolastica provinciale. Si erano diffuse voci su “vacanze forzate” che però il preside smentisce. Al timone della scuola ci sono due vicepresidi che non hanno voluto rilasciare alcuna dichiarazione. L'attività didattica prosegue senza battute d’arresto, è ripresa nei giorni immediatamente successivi al drammatico 19 maggio, il giorno in cui è morta Melissa Bassi e sono rimaste ferite altre cinque studentesse, tutte ragazze mesagnesi che stavano varcando il cancello della scuola. Rampino è a casa sua e parla con un fil di voce. Chiede di essere lasciato in pace, annuncia di volersi allontanare dal caos mediatico che è destinato forse a durare ancora e che lo ha riguardato in prima persona quando è stata valutata l'ipotesi che fosse lui l’obiettivo degli ordigni rudimentali di qualcuno che avrebbe agito per mettere in atto una vendetta privata. Questa ipotesi, comunque, non è stata ancora del tutto esclusa anche se è tenuta in minore considerazione dagli investigatori che proseguono con l’attività tecnica per l'accertamento del movente. Il preside, che era stato accusato da qualcuno di essere stato oltremodo disponibile con la stampa, dopo la tragedia, ribadisce con forza di essere estraneo alla vicenda: non ne è la vittima prescelta, non ha nulla a che vedere con il titolare dell’impianto di distribuzione di carburante di Copertino, dice. Resta a casa, al momento, tempestato di telefonate cui risponde con garbo. «Adesso, però – conclude – voglio stare da solo».
Anche la giornata del preside Angelo Rampino è stata segnata da un ritorno. Era dal 29 maggio che non rimetteva piede nella sua scuola. «Ma rimango in ferie, sono solo passato velocemente per avere notizie». Sono le vacanze più amare, le sue, quelle di una persona non grata. Gli inquirenti, forse anche il ministero dell'Istruzione, avevano caldeggiato da parte sua una classica pausa di riflessione. Parlava troppo, e intanto emergevano vecchie storie non proprio commendevoli sul suo conto. «Mi avete massacrato, tutti, e non avete intenzione di smettere». Infatti la stampa ha dato la notizia, comunque non attinente ai fatti di Melissa, che Rampino nel 2003 ha patteggiato una condanna per abusi sessuali ai danni di una trentenne sua vicina di casa. Molto fiele nella sua voce. Da qualche accenno emerge anche la consapevolezza che quello alla scuola non è un arrivederci, ma un addio. «Eppure io sono certo di non avere nulla a che fare con questo benzinaio. Continuo a pensare alla mia vita, e non ci trovo niente. Non ho nemici, non ho mai ricevuto minacce». Eppure nei suoi confronti l'aria è cambiata fin da subito. Da coraggioso docente di una scuola colpita in modo terribile e persona certo non sospettata, ma che in qualche modo doveva c'entrare con quel che era accaduto. «Non so come sia potuto succedere. Ma anche se ci fosse qualcuno che mi vuole male, perché colpirmi a scuola? Sono un uomo noioso e abitudinario, con una certa tendenza alla puntualità. Sono certo di non essere il bersaglio di una ritorsione.
Ma allora, perché? Perché un benzinaio dovrebbe fare un gesto del genere?». È la cosa più importante, l'unica che ancora manca, a quanto pare.
Intanto l’11 giugno 2012: Il preside? “Non si è visto: doveva rientrare oggi dalle ferie”. Angelo Rampino, dirigente del professionale “Morvillo-Falcone”, non era nella sua stanza, quella con porta blindata, perché è stato sospeso in via cautelare. Il provvedimento. La decisione è stata assunta dall’Ufficio scolastico regionale sulla base di motivazioni che rimandano all’opportunità di non abbinare per un certo periodo di tempo il nome di Rampino all’istituto davanti al quale è stata consumata la strage che ha strappato alla vita una studentessa, Melissa Bassi, e ha ferito gravemente altre ragazze iscritte all’istituto. Non fosse altro che il preside aveva parlato un po’ troppo con i giornalisti che da ogni parte d’Italia si erano catapultati in via Galanti per cercare di avere qualche notizie. Il dirigente qualcosa, in effetti, aveva detto nelle ore successive all’attentato, come per esempio, che esistevano altre immagini oltre a quelle registrate dalle telecamere del chiosco di fronte alla scuola. E questo avrebbe violato il segreto necessario a garantire il buon esito delle indagini che, inizialmente, sembravano ruotare attorno allo stesso Rampino poiché si ipotizzava che fosse il bersaglio di qualcuno che potesse avercela con lui per qualche questione rimasta in sospeso. Scolastica o personale, si disse. Nel vortice delle indagini si scoprì che il suo ufficio non era quello di una volta: c’era stata la richiesta di montare una porta blindata nel mese di marzo. E ci si chiese per quale motivo e soprattutto se questa circostanza potesse avere o meno concreta attinenza con il movente dell’attentato.
Sospeso per aver parlato troppo. Inaudito. E cosa dire delle veline giudiziarie che sventolano fuori dalle aule dei PM. Per i responsabili in toga od in divisa, però, non vale la sospensione o addirittura l’incriminazione per violazione del segreto istruttorio. No. Per loro no, senno che paese di merda saremmo, se non fosse che in Italia non vale la forza della legge, bensì la legge del più forte.
GALATINA E LE SNIFFATE IN OSPEDALE.
Non sniffate mentre siete in servizio, scrive "Il Corriere della Sera".
La sorprendente raccomandazione è contenuta in una circolare inviata ai medici da Giuseppe De Maria, direttore sanitario dell'ospedale Santa Caterina Novella di Galatina, in provincia di Lecce. «Il personale deve astenersi durante gli orari di lavoro dall'uso di cocaina e deve intraprendere un idoneo programma di disintossicazione» anche in collaborazione con l'azienda. Su iniziativa del direttore generale della Asl, Guido Scoditti, il documento è ora nelle mani della Procura. Tutto nasce da una serie di lettere anonime fatte recapitare all'amministrazione dove si segnalano le cattive abitudini di alcuni dipendenti in camice bianco.
Ed è per pura coincidenza che proprio in questi i giorni i tecnici di alcuni ministeri abbiano terminato di aggiornare l'elenco dei lavoratori con mansioni di rischio obbligati a sottoporsi a periodici test antidroga. A conduttori di mezzi pubblici, piloti di treni e aerei, autisti di tir e furgoni privati, già inclusi in un provvedimento di tre anni fa, sono stati aggiunti medici, infermieri e ostetriche. «Il nostro obiettivo era quello di razionalizzare il sistema dei controlli per il consumo di stupefacenti da parte del personale con mansioni che richiedono il pieno possesso di tutte le capacità», spiega Giovanni Serpelloni, capo del dipartimenti per le Politiche antidroga presso la presidenza del Consiglio. La nuova lista, concordata fra i tecnici di quattro ministeri Difesa, Salute, Interno e Trasporti verrà adesso proposta alla Conferenza Stato Regioni. Si tratta di una modifica ai decreti del 2007 e 2008. Coinvolti i lavoratori che, se agiscono in condizioni psichiche alterate dal consumo di droga, possono mettere in pericolo l'incolumità dei cittadini oltre che la propria. «Per quanto riguarda gli operatori sanitari - dice Serpelloni - abbiamo proposto gli esami solo per medici, infermieri e ostetriche che hanno funzioni di assistenza ai pazienti. Non ci saranno controlli indiscriminati». Nell'elenco che ripercorre quello per i test anti alcol sono presenti, oltre ai lavoratori dell'edilizia, i conduttori di ambulanze. I decreti prevedono accertamenti antidroga a sorpresa una volta l'anno. In caso di positività il dipendente viene sospeso e avviato verso percorsi di recupero e disintossicazione. La circolare dell'ospedale di Galatina ha provocato polemiche sopratutto all'interno della stessa Asl. Il direttore generale avrebbe gradito maggior riserbo e non ha condiviso le eclatanti modalità di intervento del collega. Il foglio con l'intimazione a non sniffare è stato infatti affisso in bacheca. Coinvolto anche il mondo politico. Il Pdl regionale scalpita perché magistratura e ministero della Salute dispongano un'indagine. L'Udc in un'interrogazione giudica urgente l'intervento del presidente della Puglia e dell'assessore alla sanità.
GALLIPOLI, MAFIOPOLI.
CITTA' MAFIOSA, IPOCRISIA O GIOCO DELLE PARTI ??
«Qualcuno dovrà spiegare a che titolo l’allora assessore provinciale Flavio Fasano era presente a una riunione del Comitato nazionale per l’ordine pubblico convocata a Gallipoli pochi giorni dopo l’omicidio di Nino Padovano. In qualità di avvocato del fratello di Nino, ovvero di Rosario Padovano?». Così scrive Francesca Mandese su "Il Corriere della Sera". Alfredo Mantovano, sottosegretario all’Interno, lancia la bomba nel corso della trasmissione televisiva «Talk Sciò», condotta da Giuseppe Vernaleone e trasmessa il 16 novembre 2009 dall’emittente leccese Tele Rama.
L’esponente del governo nazionale viene intervistato sulla vicenda che vede coinvolto l’esponente del Pd leccese, ex delfino nel Salento di Massimo D’Alema ed ex assessore provinciale della giunta guidata da Giovanni Pellegrino. Il nome di Fasano è saltato fuori nel corso dell’intercettazione di una telefonata con Rosario Padovano, arrestato nei giorni scorsi perché accusato, e poi reo confesso, di essere il mandante dell’omicidio del fratello Nino, avvenuto lo scorso anno a Gallipoli. Fasano, nel suo ruolo di avvocato, dà consigli al suo assistito su come apparire estraneo al mondo della malavita.
Mantovano sviscera gli strani rapporti tra politica a malavita che si registrano a Gallipoli e chiede spiegazioni su alcuni episodi. «Le mie sono valutazioni politiche — chiarisce il sottosegretario — e non giudiziarie. E se Fasano militasse nel centrodestra, oggi da sinistra lo avrebbero massacrato. Resto stupefatto per un episodio. Quando, pochi giorni dopo l’omicidio di Nino Padovano, convoco a Gallipoli una riunione del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza, al quale vengono invitati il sindaco e il presidente della Provincia, Giovanni Pellegrino si presenta in compagnia di Fasano.
Io, un po’ a disagio, interrogo con gli occhi Pellegrino e lui risponde: 'È qui per competenza territoriale'. Oggi mi chiedo a che titolo fosse lì Fasano, a sentire le valutazioni e le analisi sull’omicidio e le strategie investigative che si intendeva adottare».
«Credo che a Gallipoli — prosegue Mantovano — vadano messi dei confini netti, perché si manifesta una realtà torbida in cui non c’è un confine netto tra ciò che è conforme alla legge e ciò che non lo è. Gallipoli ha potenzialità straordinarie dal punto di vista artistico, architettonico e turistico. Ma è come una bella donna che non è consapevole fino in fondo della sua bellezza e, anzi, non fa nulla per mostrare questa sua bellezza. E questo mi addolora come salentino. La città ha bisogno di uscire da questo stato di scarsa chiarezza dei ruoli, e può riuscirci con uno scatto di orgoglio della classe politica e di tutti i gallipolini che, però, non può essere imposto da fuori».
Il 16 settembre 2008, a Gallipoli il Consiglio Comunale rischia lo scioglimento per infiltrazioni mafiose.
La notizia è trapelata nel corso della riunione del comitato straordinario per l'ordine e la sicurezza pubblica, alla quale ha preso parte il sottosegretario all'interno Alfredo Mantovano.
Ci sono tre motivi che avrebbero portato l'assise comunale a varcare quella linea sottile "nell'intreccio tra realtà criminali e amministratori locali", che il sottosegretario vuole verificare.
Il primo è l'immediata solidarietà espressa dal sindaco Venneri - attraverso gli organi di stampa - alla famiglia di Salvatore Padovano, il boss della sacra corona unita assassinato l'altra settimana.
Il secondo è la visita in chiesa dello stesso Venneri poco prima dei funerali del boss.
La terza è la presenza di un cugino del boss in consiglio comunale: eletto nelle liste del PD e subito passato nel gruppo misto a sostegno della maggioranza.
Già nel settembre 1991 - applicando per la prima volta il decreto Scotti - il consiglio comunale di Gallipoli fu sciolto per infiltrazioni mafiose.
Occorre svolgere un'attenta verifica sulle collusioni tra mafia ed amministratori locali, ha assicurato Mantovano. Ha anche annunciato accertamenti su quei commercianti che hanno omaggiato il boss ai funerali.
Pronuncia parole dure Alfredo Mantovano, nei confronti dei politici, il sindaco Giuseppe Venneri e l’onorevole Barba, presenti al funerale di Salvatore Padovano: «Come ha insegnato la storia del contrasto alla criminalità va eliminata qualsiasi anche simbolica vicinanza tra il mondo della criminalità organizzata e la società».
Il sottosegretario contesta anche il comportamento dei docenti universitari che hanno partecipato alla presentazione del libro “Da Ciano all’8 settembre”, scritto dall’ex boss e dei giornalisti che hanno favorito interpretazioni fuorvianti sulla «nuova identità» civica che Padovano tentava di costruire di sé.
Di ritorno da Gallipoli, dove in mattinata si era tenuta la seduta straordinaria del Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica alla presenza del sottosegretario all’Interno, Alfredo Mantovano, il prefetto di Lecce Mario Tafaro, ha incontrato nel primo pomeriggio una delegazione del Pd salentino per discutere della situazione allarmante venutasi a creare a fronte di due omicidi nell’arco di una sola settimana.
Nel corso dell’incontro a Palazzo di Governo, Maritati e gli altri sono nuovamente tornati sull’omicidio Padovano, prendendo le dovute distanze e polemizzando circa la partecipazione di alcuni rappresentanti istituzionali locali al funerale dell’ex boss gallipolino della Scu.
“E’ stato un gravissimo errore politico e si è trattato di presenze a dir poco inopportune. Ma, quello che ancor più preoccupa, è l’atteggiamento di una quarantina di commercianti che avrebbero abbassato la saracinesca al passaggio del suo feretro. Perché lo hanno fatto? Hanno avuto paura? Si sono sentiti scoperti? O, piuttosto, il loro è stato un atteggiamento di accondiscendenza verso qualcuno più forte e potente?”.
A queste domande la politica è chiamata a dare una risposta, secondo Maritati, che è tornato pure sull’omicidio avvenuto a Parabita. In questo caso, il dato preoccupante ruota attorno alle aste giudiziarie: qui la magistratura ha il dovere di indagare sul presunto coinvolgimento e le successive infiltrazioni nel sistema delle aste pubbliche. Soprattutto a fronte di una sorta di denuncia giunta due anni fa sotto forma di missiva al sindaco di Parabita, Adriano Merico, dove si chiedeva all’amministrazione comunale di intervenire con urgenza e indagare chiaramente nel settore delle aste, perché ci sarebbe stato il rischio (una premonizione divenuta realtà) che qualche semplice e normale cittadino si sarebbe trasformato in un giustiziere.
PECCATO, PERO’, CHE SULLA LEGALITA’ NESSUNO PUO’ DARE LEZIONI.
I corsi e ricorsi storici ci dicono che a Gallipoli il 19 maggio 2001, alle elezioni politiche ed amministrative, via il sindaco al primo turno, recuperato grazie ai resti il senatore, l'unico a essere stato rieletto è il deputato Massimo D'Alema, che ha battuto Alfredo Mantovano per tremila voti. Tutti voti gallipolini. Gli stessi voti, dicono nel centrosinistra, che per Comune e Senato hanno preso due direzioni: o sono diventati consensi al centrodestra, oppure sono stati voti negati al centrosinistra. «Due più due fa quattro - dice Biagio Palumbo, diessino, candidato sindaco dell' Ulivo, su "Il Corriere della Sera" -. E i numeri provano, basta incrociare i dati delle schede bianche, che qui c'è stato un patto scellerato tra il centrodestra e gli uomini di D'Alema. I quali, riuniti in una lista civica, che presentava un altro candidato sindaco, sono passati sopra tutto e tutti pur di far eleggere Massimo. E questa formazione "civica" è stata allestita proprio dal factotum di D'Alema, «Flavio Fasano, iscritto ai Ds, mio amico fin da ragazzo e sindaco di questa città negli ultimi otto anni».
Natalino Palamà, artigiano, 40 anni, è uno di quelli che era in lista con i Ds «per la causa». «Sì - dice -, D'Alema sosteneva che per lui il candidato sindaco era Palumbo, però noi lo vedevamo che il rapporto privilegiato era con Fasano e i suoi». Fra questi «suoi», anche un pregiudicato, che - raccontano Elio Pindinelli (An) e lo stesso Palumbo - ha fatto campagna elettorale per D'Alema, addirittura facendo affiggere manifesti con tanto di firma: Salvatore Capoti. «Proprio quel Capoti che lo stesso Fasano nel '91 aveva indicato come uno dei soggetti responsabili delle infiltrazioni mafiose al Comune - spiegano Pindinelli e Palumbo -, che infatti venne sciolto per mafia. Poi, nessuna infiltrazione mafiosa è stata accertata, ma Fasano, da questo punto di vista vero "professionista dell' antimafia", è diventato sindaco e ha ricambiato Capoti con un altro manifesto pubblico, in cui lo "riabilitava" descrivendolo come persona rieducata dall'espiazione della pena».
I corsi e ricorsi storici ci dicono che a Gallipoli il 14 novembre 2009 appaiono dei retroscena inquietanti dietro l’omicidio del vecchio capo della Sacra corona, Salvatore Padovano, freddato a colpi di pistola, la mattina del 6 settembre dello scorso anno, da un killer di origine siciliana. Riguardano il progetto di uccidere l’ex sindaco di Gallipoli ed ex patron della Squadra di calcio alla sua prima, storica promozione in serie B, nonché senatore della Repubblica, Vincenzo Barba, oggi onorevole del Pdl, e la moglie dell’ex capo bastone del sodalizio criminale, Anna Raeli.
Ma anche la circostanza emersa dalle intercettazioni telefoniche, secondo la quale, all’indomani del delitto, il consigliere del mandante dell’assassinio sarebbe stato l’avvocato Flavio Fasano del Pd, già sindaco della città dello Jonio. A parlare dei retroscena è lo stesso stesso killer pentito, Carmelo Mendolìa, che con le sue dichiarazioni, ha fatto arrestare tre persone, accusate di essere uno il mandante dell’omicidio di Salvatore Padovano e gli altri i suoi fiancheggiatori. Il primo è Pompeo Rosario Padovano, fratello della vittima, ed i secondi, il cugino Giorgio Pianoforte e l’amico Fabio Della Ducata.
E se per il primo ormai c’è la certezza che si tratti del mandante, perché l’uomo è reo confesso, per gli altri due si tratta di fiancheggiatori ancora soltanto presunti. A sentire lo stesso Mendolìa, che avrebbe dovuto compiere anche gli altri due delitti, proprio Pompeo Rosario Padovano avrebbe ordinato l’eliminazione dell’uomo politico e della moglie di Salvatore Padovano. Il primo perché avrebbe ostacolato la sua scalata politica a Gallipoli, la seconda perché avrebbe allontanato il marito dalla famiglia e quindi anche dal fratello.
Dalle pesanti accuse, attraverso il proprio legale, l’avvocato Luigi Piccinni, Pompeo Rosario Padovano ha preso le distanze, ed ha chiesto pure scusa all’onorevole Barba, per il disagio che le rivelazioni di Mendolìa gli hanno creato.
Quanto all’avvocato Fasano, che di Pompeo Rosario Padovano un tempo è stato il legale di fiducia, si è detto vittima della capacità mimetica del pericoloso criminale. Questi, tornato libero dopo aver trascorso quasi 18 anni di carcere, aveva dato a tutti l’impressione di aver chiuso col passato di malavitoso, al punto da dedicarsi ad attività benefiche, non ultima la creazione di una cooperativa per portatori di handicap. La notizia dell’esistenza delle intercettazioni in cui più volte l’avvocato Fasano parla e dà appunto consigli al mandante dell’omicidio del vecchio boss della Scu, ha determinato l’alzata di scudi all’interno del partito. Ed in una conferenza stampa, il senatore del Pd Alberto Maritati, ha dichiarato: «Non possiamo difendere una persona solo perché ha la tessera del nostro partito».
Ecco le intercettazioni telefoniche tra Padovano e Fasano pubblicate da "Il Corriere della Sera". (Ci stupisce il fatto che la stampa, impegnata a crocifiggere il povero cristo di turno, ancora non condannato, contestualmente non denunci il reato della magistratura per la fuga di notizie sottoposte a segreto istruttorio).
E’ l’avvocato Flavio Fasano, ex assessore provinciale del Pd ed ex sindaco di Gallipoli, il consigliere di Rosario Padovano. Un ruolo che emerge dalle intercettazioni disposte dalla Procura per fare luce sull’omicidio di «Nino bomba». E dal contenuto delle telefonate emergono «il ruolo di “consigliere” assunto da Fasano e, soprattutto, la conoscenza di particolari inerenti all’omicidio».
Una delle prime conversazioni intercettate è quella del 9 settembre 2008, tre giorni dopo l’omicidio pubblicate da "Il Giornale". I due parlano di un incontro, probabilmente con un investigatore:
PADOVANO: avvocato buongiorno.
FASANO: buongiorno a te, senti, alle dodici e mezzo di questa mattina puoi andare là? Se vuoi anche a Sannicola, o Gallipoli o Sannicola,
PADOVANO: si...eh....vado a Sannicola...eh,
FASANO: allora...li dico a Sannicola, si, normale...dici anche...tanto sai che ci sono. Lui diceva che se non vuoi a Gallipoli e preferisci Sannicola...anche a Sannicola. Dico Sannicola allora,
PADOVANO: si d'accordo, mi presento normale...tanto sono,
FASANO: tutto gli devi dire tranquillamente,
PADOVANO: è logico,
FASANO: quelle cose in cui ...che hai detto...perchè insomma è la signora che bisogna adesso tenere e purtroppo anche il nipote no, anche il figlio,
PADOVANO: si, si,
FASANO: cioè dirgli tutte le perplessità tue, mi piacerebbe che tu dicessi anche che hanno parlato male di me per le cose che ho detto,
PADOVANO: va bene, è la verità, lo stanno dicendo a tutti, non lo stanno dicendo a me,
FASANO: ...mi piacerebbe insomma che sanno da che parte il sottoscritto si pone e perchè io sto nei tuoi confronti in modo...in modo diretto ad aiutarti. Allora dico alle dodici e mezzo Sannicola.
Subito dopo, in una nuova telefonata Fasano «consiglia» a Rosario Padovano di mettersi a «disposizione» degli inquirenti, facendo riferimento alla comunicazione di una misteriosa «lista» ed ad un suo ruolo di «intermediario», da confidente, per la soluzione del caso. E nell’occasione Padovano lo informa di quanto accaduto all’obitorio, e della volontà di Anna Reali (vedova di Salvatore Padovano) di negare alla madre di Nino la visita della salma.
Fasano aggiunge che Nino Padovano si «era cercato» quanto accaduto.
PADOVANO: Si avvocato,
FASANO: stavo pensando di quella lista che lei chiedeva di sapere,
PADOVANO: Si,
FASANO: che c'era, diglielo e se vuole che eh, tu sei anche disponibile a.... purchè ...incomprensibile....
PADOVANO: Si, non,
FASANO: bravo, non... ma gli dici se volete e devo fare da diciamo da intermediario io lo faccio…
PADOVANO: Si,
FASANO: perchè questa cosa si può fare, ti abbraccio,
PADOVANO: anch'io,
FASANO: senti, come è stata accolta ieri tua mamma là? Ti ha detto niente,
PADOVANO: eh,
FASANO: quando sei andato a Lecce,
PADOVANO: avvocato purtroppo le solite nefandezze,
FASANO: davvero?
PADOVANO: Anna aveva lasciato detto che non doveva vederlo né mio padre né mia madre, però io a humma humma gliel'ho fatto vedere,
FASANO: ma davvero?
PADOVANO: era un diritto di mia madre vederlo e sono andato in ospedale...cose...ho parlato,
FASANO: lo so che sei andato in ospedale, ma dico, non è che la signora ti ha impedito...incomprensibile...di vederlo,
PADOVANO: a mia madre voleva impedirlo, ha lasciato detto a quelli,
FASANO: e la signora diceva questo a tua madre,
PADOVANO: no direttamente, a quelli della camera mortuaria ha detto di non farlo vedere se veniva la madre o il padre...di non farlo vedere che era un desiderio del marito,
FASANO: va bene lasciamo perdere, senti, è inutile dirti....io oggi non vengo a dare le....
PADOVANO: si,
FASANO: non devo fare niente, voglio dire,
PADOVANO: si,
FASANO: perchè diciamo,
PADOVANO: perchè poi magari.....sottolineazione stupida da parte mia....da noi graditissima presenza vostra....magari da loro,
FASANO: appunto,
PADOVANO: mi innervosirei vedere sguardi che non meritate insomma,
FASANO: no, figurati, siccome per me lui non c'è più e se ne è andato, il fatto se lo è cercato,
PADOVANO: eh,
FASANO: le persone a cui tengo sei tu e tu madre, tuo padre e lo sapete da che parte sto,
PADOVANO: si,
FASANO: per il resto non mi interessa.
I due, poi, commentano un articolo di Nando Dalla Chiesa pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno:
FASANO: ...l'inserto, parlano pure male di me perchè ho dato solidarietà a voi, quindi...capito...incredibile, c'è Nando Dalla Chiesa,
PADOVANO: Si,
FASANO: contro Venneri e contro me, mettendomi insieme a lui per aver dato solidarietà ai figli, alla moglie e alla famiglia,
PADOVANO: nha,
FASANO: hai capito? No...voglio che tu poi, se ritieni, te lo prendi e lo fai vedere alla Paoletta, alla ragazzina,
PADOVANO: Si, si,
FASANO: gli dici guarda Fasano cosa sta prendendo per aver detto questo, lascia Venneri che è un lecchino, figurati,
L’11 settembre 2008 è il giorno della messa in onda dell’intervista a Rosario Padovano realizzata da Mauro Giliberti direttore di Teleramanews sull’omicidio del fratello. Al termine della trasmissione l’avvocato invia prima un messaggio a Rosario Padovano: “Bravo Rosario sei apparso per quel bravo ragazzo che sei!Bravo!», poi lo chiama:
PADOVANO: avvocato,
AVVOCATO: bravo!
PADOVANO: grazie, avvocato,
AVVOCATO: ti ho mandato il messaggio pure,
PADOVANO: si, si sono appena uscito perchè nel centro storico non prende, l'ho appena finito di leggere onestamente,
AVVOCATO: ... incompr. ... tu non sei convinto?Non ti è piaciuto?
PADOVANO: si, si come non mi è piaciuta, sudavo però era normale no, dico ... la tensione, mi vergognavo, siccome non sono abituato no, è logico,
AVVOCATO: hai parlato come sai parlare tu, hai fatto dei ragionamenti veramente da persona, sensibile e brava,
PADOVANO: grazie avvocato,
AVVOCATO: sei stato davvero bravo sono contento, di averti consigliato di accettare di farla,
PADOVANO: uh, e io vi ringrazio,
AVVOCATO: spero che non ti sia pentito di averlo fatto,
PADOVANO: e perchè?
AVVOCATO: no, dico,
PADOVANO: che ho fatto di male? No,no,
AVVOCATO: anche Giliberti ti ha presentato bene hai visto?
PADOVANO: si,si,
AVVOCATO: ha detto un ragazzo diverso da quello che noi pensavano di trovare,
PADOVANO: si, si mi ha fatto piacere.
Altro «consiglio» chiesto all’avvocato Fasano è quello del 10 settembre e sembra riguardare la dinamica dell’agguato a Salvatore Padovano:
PADOVANO: da mia sorella, si. Sono stato questa mattina da mio cognato e dopo vado più tardi con mio cugino Giorgio, anche. Eeh ... stavo dicendo... oggi no! Leggevo sul giornale... che insinuavano... praticamente ..insinuavano ora, sospettano che... il killer avesse agito a volto scoperto no? E che per paura i presenti non... non dicevano... non rivelavano il nome, insomma.
FASANO: come fanno a sapere queste cazzate i giornalisti?
PADOVANO: oh! appunto! Eeh ... il fatto è... che.... insomma Giorgio non... non è proprio il tipo, come abbiamo parlato, avrebbe detto su... poi una cosa strana, perché io ho capito come se si sono convin... la dinamica dovrebbe rivedersi... vorrei un consiglio vostro...
FASANO: ..incomp... tu puoi venire nel pomeriggio da me a Lecce?
Ancora un consiglio:
PADOVANO: Avvocato buonasera;
FASANO: ehi Rosario ciao;
PADOVANO: ho appena visto... dieci minuti fa ho visto la chiamata vostra;
FASANO: eh, lo so!
PADOVANO: purtroppo.. dico.. capite sulla piazza cose... stavo per telefonarvi, condoglianze e cose e....incomprensibile... (si accavallano le voci),
FASANO:...senti sai che stavo pensando?
PADOVANO: si!
FASANO: il capitano lo hanno sostituito;
PADOVANO: si!
FASANO: se n'è già andato via;
PADOVANO: si!
FASANO: l'unica persona della quale c'è d'avere proprio, proprio fiducia è proprio il colonnello dei carabinieri di Lecce;
FASANO: uh lo facciamo questa cosa, se cosi vado ne parlo e magari dico che andate tu e Giorgio a Lecce;
PADOVANO: si! si!
FASANO: per spiegargli le cose;
PADOVANO: si! facciamo così allora,
FASANO: purchè Giorgio però poi questa volta...
PADOVANO: ...no! lui ufficialmente verrebbe per la cosa è logico;
FASANO: uh!
PADOVANO: facciamo così avvocato? come volete fare?
In un’altra conversazione, poi, Rosario Padovano mette al corrente l’avvocato di un imminente incontro con soggetti monteronesi:
PADOVANO: domani sto ricevendo... una visita... da Monteroni.. da me non gradita, però insomma....
FASANO: e perchè la stai facendo... perchè?
PADOVANO: ah! ed io se era tutto normale, no? l'avremmo fatta come... pensavamo noi. Però... stanno venendo... eeh... ascolto.
FASANO: vabbè registra no?
PADOVANO: si, si, si è logico.
Risultano conversazioni telefoniche tra Angelo Padovano e Ivan Tornese, figlio di Mario Tornese, per concordare un incontro a Monteroni. Dall’esame delle celle impegnate dal cellulare di Rosario Padovano sarebbe emersa anche la sua presenza a Monteroni.
Fasano: “Non voglio essere di imbarazzo a nessuno, nemmeno al partito. Nella mia storia ho condotto tante battaglie, in particolare nella mia città, proprio con quello che fu il clan Padovano, quando il Sindaco dell’epoca fece sciogliere il consiglio comunale nel quale presentai la denuncia firmata Flavio Fasano e depositata in Procura. La mia città allora si rivolse contro quel Sindaco perché è più facile restare rintanati nelle proprie case e non prendersi a cuore le vicende delle società. Io invece credo che il primo obiettivo della politica sia l’impegno sociale. Vi posso giurare che con la mafia non c’entro nulla”, continua con voce rotta da commozione, “forse da professionista ho peccato di mettere cuore per una persona che ritenevo socialmente debole, in quanto aveva passato la maggior parte dei suoi anni in carcere, e non volevo rigettarlo in pasto al mondo mafioso. Non mi candido se il partito non lo vorrà”.
L’ex sindaco di Gallipoli Flavio Fasano, è stato già condannato il 25 febbraio 2005 a cinque mesi di reclusione e 15mila euro di multa dai giudici della prima sezione penale del Tribunale di Lecce, che l’hanno riconosciuto colpevole di abusivismo edilizio. Il dispositivo è stato letto dopo 14 ore di camera di consiglio. La vicenda risale al 1996 - quando Fasano era primo cittadino - in relazione alle concessioni edilizie rilasciate per l’insediamento turistico "Praia del sud" nella zona di Punta pizzo.
Ma sulla reputazione di Flavio Fasano pende anche un intervento istituzionale.
Legislatura: XIII Ramo: Camera
Tipo Atto: INTERROGAZIONE A RISPOSTA ORALE Numero atto: 3/05542
Data presentazione: 18-04-2000 Seduta di presentazione: 711
Presentatore: MANTOVANO Alfredo
Al Presidente del Consiglio dei ministri. - Per sapere - premesso che:
da tempo sono in corso procedimenti giudiziari, penali e amministrativi, relativi alla concessione del bene demaniale Lido San Giovanni, nel comune di Gallipoli: una vicenda resa inutilmente lunga e complicata da una serie di gravi, illegittimi e illeciti comportamenti del sindaco della cittadina jonica, avvocato Flavio Fasano, Costui, nonostante il Tar e il Consiglio di Stato in ripetute e anche recenti occasioni abbiano fornito con più provvedimenti di identico tenore chiare indicazioni sulla legittimazione degli aspiranti all'assegnazione, individuandoli nelle ditte Cospi e Ravenna, ha più volte posto ostacoli a che le pronunce giudiziarie avessero coerente esecuzione, fino a disporre la demolizione della struttura esistente nel Lido, che è del demanio e non del Municipio. A causa di tale suo comportamento in data 22 febbraio 2000 il sindaco di Gallipoli è stato condannato dal tribunale di Lecce per il reato abuso di ufficio alla pena di sei mesi di reclusione, mentre è stato chiesto il suo rinvio al giudizio del medesimo tribunale per una serie considerevole di abusi, di falsi ideologici, di danneggiamenti aggravati e di diffamazioni, contestatigli singolarmente ovvero in concorso con altri funzionari pubblici.
Il ministero dei Trasporti e della navigazione, che a suo tempo aveva condiviso l'orientamento di dare esecuzione alle sentenze dei giudici amministrativi, procedendo alla comparazione fra le domande di Ravenna e della Cospi, ha successivamente, con nota del 13 marzo 2000, imposto alla Capitaneria di porto di Gallipoli di soprassedere in attesa di valutare anche le istanze presentate dal sindaco della stessa città, sì che si è reso necessario un nuovo ricorso al Tar, col quale i giudici amministrativi hanno ribadito quanto già più volte ordinato;
dopo la sentenza di condanna penale, relativa a fatti di gravità minore rispetto a quelli per i quali sarà tra breve nuovamente giudicato, l'avvocato Flavio Fasano ha rassegnato le dimissioni da sindaco, che sono state seguite dall'immediata solidarietà da parte di esponenti del suo partito - il che è in sé comprensibile -, ma anche da prese di posizione dapprima del prefetto di Lecce, il quale ha detto di essere più che certo che la sentenza di primo grado avrà, nel successivo corso, un esisto positivo (Quotidiano di Lecce, 12 marzo 2000), del ministro dell'interno il quale ha testualmente dichiarato ai mass media, rivolgendosi allo stesso Fasano: sono dalla tua parte (Quotidiano di Lecce, 14 marzo 2000). E' evidente la grave delegittimazione che posizioni del genere provocano sull'operato della magistratura inquirente e giudicante, tanto che alcuni esponenti della magistratura associata salentina hanno pubblicamente protestato. Una delegittimazione tanto più grave in quanto il presidente del Consiglio dei ministri ha ripetutamente ostentato vicinanza alla persona dell'avvocato Flavio Fasano, da ultimo nella campagna elettorale per il voto del 16 aprile 2000 -:
se non ritenga gravemente inopportuno, oltre che lesivo per il prestigio della magistratura, il comportamento seguito dal prefetto di Lecce e dal ministro dell'interno nei confronti del sindaco di Gallipoli, oltre che la particolare vicinanza più volte manifestata dallo stesso Presidente del Consiglio dei ministri;
se, soprattutto dopo la pronuncia in sede amministrativa non ritenga illegittima la nota del 13 marzo 2000 del ministero dei trasporti e della navigazione, e quindi non ritenga di sollecitare quest'ultimo alla doverosa autotutela;
se non ritenga che lo Stato debba costituirsi parte civile nei procedimenti penali a carico del sindaco di Gallipoli, per riaffermare il senso della legalità più volte violata e messa in dubbio anche dai comportamenti di autorevoli cariche istituzionali. (3-05542)
GALLIPOLI E L'ASSENTEISMO.
Nuovo blitz antiassenteismo. Nuovo blitz, vecchio vizio.
In totale sarebbero 20 le persone denunciate per truffa aggravata ai danni dello Stato.
I controlli risalgono allo scorso mese e si sono avvalsi di appostamenti e riprese degli impiegati, persone impiegate in mansioni diverse, che entravano e uscivano da palazzo Balsamo a qualsiasi ora della giornata, dopo aver timbrato il cartellino.
Nel marzo del 2007, sempre il palazzo comunale nella città “BELLA” venne interessato da un rastrellamento con una raffica di deferimenti, in totale ben 32.
Il giro venne scoperto grazie alla segnalazione dei cittadini, quelli inviperiti che si recavano presso gli uffici per chiedere certificati ed informazioni, non trovando nessuno mai dietro gli sportelli.
GALLIPOLI. BANCOPOLI E INGIUSTIZIOPOLI
Denunciato da una banca e assolto con formula piena Luigi di Napoli, che rinuncia anche alla prescrizione.
1988-2005: Ecco cosa è capitato a chi ha denunciato la mafia.
1988- Luigi Di Napoli, imprenditore leccese, contesta la legittimità di un appalto riconosciuto truccato. Viene minacciato e, poi, gambizzato. Dopo avere consegnato i nastri magnetici contenenti le minacce e persistendo gravi indizi di colpevolezza a carico degli indagati, si prosciolgono questi ultimi sospettandosi la non genuinità dei nastri. Dopo avere subito l’attentato, lo si incrimina per frode processuale e calunnia ma si tenta di imporgli l’amnistia e la prescrizione. Ricorre in Cassazione per rinunciare a tali benefici e potere essere processato.
1996 – Assolto per insussistenza del fatto: i nastri non erano manipolati.
2005- Non sono mai state riaperte le indagini.
1990- Pretende che le forze dell’ordine impediscano l’installazione, da parte di operai di uno stabilimento balneare, di una rete metallica che impediva il libero accesso sulla battigia.
Viene instaurato un processo penale a suo carico per minacce a pubblico ufficiale. Deposita nella cancelleria del Tribunale istanza di ricusazione del giudice e, conseguentemente, viene instaurato a suo carico un processo per “oltraggio al magistrato in udienza” ed applicata la misura cautelare (pur essendo incensurato) dell’obbligo di dimora con obbligo di presentarsi, due volte al giorno, presso i Carabinieri. Il Tribunale del riesame conferma la misura. La Corte di Cassazione l’annulla. Condannato in primo grado, assolto in appello.
1995- Titolare di un patrimonio immobiliare del valore di oltre ventimiliardi di vecchie lire, contesta i rapporti bancari in cui appariva debitore essendo, essi, viziati per vari motivi.
1996- I rappresentanti di alcune banche minacciano il fallimento delle sue due società. Presenta denunce penali per estorsione ed usura e sollecita la Procura, fino al 2000, a richiedere il sequestro preventivo della documentazione esibita dalle banche.
1999- Il Tribunale rigetta le istanze di fallimento e la Dinauto, società di Di Napoli, ottiene titoli giudiziari in suo favore e contro una delle tre banche.
2000- La Corte d’Appello, con il Presidente precedentemente ricusato e due membri con rapporti bancari con due delle tre banche reclamanti, ordina il fallimento delle società di Di Napoli.
Novembre 2000- Dopo quattro anni dalle denunce, la Procura chiede il sequestro preventivo della documentazione esibita dalle banche solo alla vigilia del decreto della Corte d’Appello.
Il Gip dispone il sequestro. La Guardia di Finanza, recatasi in cancelleria ad eseguire il provvedimento, viene informata dell’emanazione delle sentenze di fallimento.
Il Gip dispone il sequestro anche delle sentenze di fallimento che vengono sequestrate e sigillate in busta chiusa.
2000-2003- I periti della Procura accertano la richiesta di tassi d’interesse fino al 292%. Viene richiesto il rinvio a giudizio per estorsione ed usura degli istanti il fallimento.
2003- Vari giudici delegati al fallimento vengono autorizzati ad astenersi.
12 Febbraio 2003, ore 8,30: Di Napoli, a mezzo ufficiale giudiziario, notifica al giudice delegato (privo di valida nomina) atto di citazione per danni da fatto reato.
12 Febbraio 2003- Il giudice tiene l’udienza per la formazione dello stato passivo minacciando “il fallito” di espellerlo dall’aula appena avrebbe parlato (la legge fallimentare impone di ascoltare il fallito) con l’ausilio di un poliziotto presente solo per quell’udienza. Di Napoli cerca di replicare, con tono pacato, ma viene espulso dall’aula.
Maggio 2003- Di Napoli entra in possesso di una cambiale emessa dal giudice che viene protestata. Il giudice è costretto a versare una cauzione e a proporre opposizione. Malgrado le cause pendenti, il magistrato tratta le udienze della sua stessa controparte. Dispone una consulenza per la formazione dello stato passivo dettando criteri contro legge col risultato, ovvio, di un credito infondato e contrario alle perizie della Procura della Repubblica (che hanno riscontrato tassi fino al 292%).Tutte le cause in cui è coinvolto Di Napoli vengono affidate al medesimo magistrato che viene nominato anche giudice relatore nella causa di opposizione alle sentenze di fallimento. La causa, decisa, fra l’altro, anche da altro giudice precedentemente astenutosi, viene rigettata e, dunque, attualmente pende in Corte d’Appello.
2001-2005- Varie cancellerie rilasciano attestazioni del vincolo del sequestro di cui sono gravate le sentenze a tutela della persona offesa. Di Napoli denuncia penalmente vari magistrati coinvolti nella scandalosa procedura ai suoi danni. Il curatore rinuncia all’incarico per gravi incomprensioni col giudice.
Di Napoli trascrive presso la Conservatoria dei registri immobiliari il provvedimento di sequestro della sentenza di fallimento.
5 Maggio 2005- Il giudice, con l’ausilio del nuovo curatore, dopo avere pubblicizzato suoli edificatori di indiscutibile pregio come “suoli ad uso seminativo”, li aggiudica a prezzo notevolmente inferiore. Gli offerenti, nel corso dell’udienza, vengono resi edotti del sequestro delle sentenze che inficia il loro acquisto. Le aggiudicazioni sono state opposte.
12 Maggio 2005- Di Napoli, nell’inerzia dei magistrati di Potenza ad esercitare l’azione penale contro i vari soggetti e i magistrati di Lecce coinvolti, presenta denuncia penale diretta alla Procura di Catanzaro chiedendo l’arresto del giudice delegato e del curatore.
13 Maggio 2005- Due sostituti Procuratori della Repubblica di Lecce chiedono l’arresto di Di Napoli.
24 Maggio 2005- DI NAPOLI, PERSONA OFFESA, AGLI ARRESTI DOMICILIARI. E’ accusato di avere creato il sequestro delle sentenze di fallimento.
7 Giugno 2005- Il tribunale del Riesame di Lecce conferma la misura ma dichiara l’incompetenza dei giudici di Lecce in favore dei giudici di Potenza.
30 Giugno 2005- il procedimento viene assegnato alla stessa P.M. denunciata, per le sue omissioni, presso il Tribunale di Catanzaro che chiede la conferma della misura. Gliela concede un GIP diverso dal “giudice naturale precostituito per legge”. Nella richiesta viene ravvisata la pericolosità sociale del Di Napoli per le numerose denunce e ricusazioni contro i giudici.
6 Settembre 2005- La Corte di Cassazione, su ricorso avverso il rigetto del riesame da parte dei giudici leccesi, dichiara la cessazione dell’efficacia della misura cautelare disposta dai giudici di Lecce.
6 novembre 2007 tg5 20:00 • notizia n.15 : Indignato speciale
Incontro con Luigi Di Napoli, imprenditore di Gallipoli, che è fallito e che ha perso addirittura la casa, dopo aver denunciato una banca e finanziarie che gli imponevano tassi del 300%.
Atto Camera
Interrogazione a risposta scritta 4-01923
presentata da SERGIO D'ELIA lunedì 11 dicembre 2006 nella seduta n.084
D'ELIA. - Al Ministro della giustizia, al Ministro dell'interno. - Per sapere - premesso che:
Il 21 ottobre 2006, su un quotidiano nazionale (l'Avanti), è apparsa la notizia della situazione assurda e paradossale di cui è vittima Luigi Di Napoli: «Un imprenditore salentino nel tritacarne».
già il 19 ottobre 2006, nel corso di varie edizioni del telegiornale di Telenorba (emittente locale pugliese), è stato trasmesso un servizio sulla drammatica situazione che, in quelle ore, stava vivendo, a Gallipoli, la famiglia Di Napoli con intervista rilasciata dall'avvocato Roberto Di Napoli, figlio della vittima, che, disperato, lamentava la mancata tutela dello Stato e gli abusi da parte delle Forze dell'Ordine che, per eseguire il rilascio dell'unica abitazione del Di Napoli, avrebbero, perfino, invaso i locali dell'immobile impedendone l'accesso a chiunque, compresa l'emittente televisiva;
il signor Luigi DI NAPOLI, imprenditore leccese, sarebbe, dal 1988, oggetto di una vera e propria persecuzione giudiziaria che lo ha distrutto economicamente e che sta compromettendo la serenità della sua famiglia; nel 1988, mentre contestava un appalto truccato, e riconosciuto tale nelle sedi amministrative, dopo avere ricevuto minacce, ha subito un attentato che lo costringe tuttora all'uso delle stampelle;
la sua è una storia di usura ed estorsione, di denunce reciproche tra la vittima e magistrati. Egli ha subito 21 processi e per 21 volte è stato assolto; ha sempre rinunciato ad amnistia e prescrizione per farsi processare;
il signor Di Napoli, tramite il figlio avvocato Roberto Di Napoli, sin dal 15 settembre 2006, aveva sollecitato il Commissario e il Comitato di solidarietà per le vittime dell'usura e dell'estorsione ad intraprendere ogni iniziativa al fine di far rispettare la sospensione dell'esecuzione ex articolo 20 legge n. 44 del 1999, intervenuta ope legis in favore della vittima Di Napoli in seguito al conforme parere dell'autorità amministrativa (S.E. Prefetto della Provincia di Roma) ricordando, tra l'altro, la ratio della legge n. 44 del 1999, che come ribadito dalla giurisprudenza, consente l'ammissibilità ai benefici ivi previsti anche in favore delle vittime fallite in seguito ed a causa delle condotte delittuose;
il 25 settembre 2006, Di Napoli ha subito l'accesso degli ufficiali giudiziari che gli chiedevano di rilasciare l'abitazione e, soltanto verso le ore 19, veniva comunicato il rinvio dell'esecuzione al 19 ottobre 2006; in tale data il Di Napoli afferma di aver subito un trattamento da parte sia dagli ufficiali giudiziari che dalle forze dell'ordine non in conformità con le norme vigenti in materia, subendo aggressioni fisiche che hanno comportato il ricovero dello stesso presso il locale Presidio Ospedaliero. Azione esecutiva che, stante il dolore causato al Di Napoli dalle percosse subite, è culminata con il suo arresto per presenta aggressione a pubblico ufficiale (arresto che è stato revocato soltanto lo scorso 23 novembre 2006) -:
1. le motivazioni per cui non siano stati adottati i provvedimenti al fine di fare osservare la sospensione di cui all'articolo 20 legge n. 44 del 1999 considerato che il Di Napoli ha già ottenuto pareri conformi del Prefetto di Roma che lo riconoscono meritevole dei benefici di cui alla legge antiusura ed antiestorsione;
2. se, nell'esecuzione della procedura di rilascio dell'immobile del 19 ottobre 2006 gli organi preposti abbiano agito nel pieno rispetto delle normative vigenti.(4-01923)
MAGLIE. AMBIENTE E GIUSTIZIA: CHI COPRE CHI?
La Liguria e la Puglia: ILVA e diossina, territori legati a doppio filo.
A parte la scelta adottata dalla Fiom genovese e tarantina (da buoni comunisti) di stare dalla parte della magistratura, più che dalla parte degli operai, vogliamo cercare di capire chi copre chi, in riferimento alle magagne intorno alla questione ambiente e giustizia.
«Vogliamo che si faccia piena luce sul passato, in particolare su tutte le ricerche sulla diossina negli alimenti che non hanno mai registrato a Taranto alcun superamento dei limiti di legge, mentre quando noi abbiamo fatto fare quelle stesse analisi, sono emersi incredibili e scandalosi superamenti – affermano, come riferito da Maria Rosaria Gigante su La Gazzetta del Mezzogiorno, gli ambientalisti Rosella Balestra, Alessandro Marescotti e Fabio Matacchiera e sollecitano l’assessore regionale alle Politiche della salute della giunta Vendola, Ettore Attolini, perché si faccia luce su tali questioni. - Come mai dal 2002 al 2007 sono state analizzate cozze, orate, spigole, carne, uova, latte e mangimi senza mai trovare negli alimenti consumati a Taranto alcun superamento per diossina e Pcb?» Gli ambientalisti forniscono proprio gli esiti delle 72 analisi effettuate dal 16 ottobre 2002 a 23 maggio 2007 presso l'Istituto zooprofilattico di Foggia da cui risulta che non c’è mai stato alcuno sforamento (tutti i dati sono riportati sul sito www.tarantosociale.org). E’ bastato, invece, il pezzo di formaggio alla diossina a febbraio 2008 a scatenare la questione e ad aprire una vera e propria emergenza diossina col conseguente piano regionale di monitoraggio di latte e carni all’interno di un raggio di una ventina di chilometri dalla zona industriale. Proprio per la diossina ha chiuso la Copersalento di Maglie, per decenni un sansificio, poi trasformato in inceneritore di rifiuti e quindi in stabilimento per la produzione di energia. Varie sono state le denunce, le ispezioni, le chiusure, fino a quella definitiva posta dalla provincia di Lecce, dovuta all'inquinamento. La Copersalento è stata, infatti, accusata di aver superato per oltre 400 volte i limiti massimi di emissione di diossina. Per tutto ciò si aspetta di capire cosa succede a nostra insaputa. Da attente segnalazioni scopriamo alcune cose che la gente deve sapere, ma che nessuno dice.
Esito positivo inchieste giudiziarie=0
Risposte istituzionali ed amministrative=0
Atto Camera
Interrogazione a risposta scritta 4-08079 presentata da ELISABETTA ZAMPARUTTI, lunedì 19 luglio 2010, seduta n.354
ZAMPARUTTI, BELTRANDI, BERNARDINI, FARINA COSCIONI, MECACCI e MAURIZIO TURCO. - Al Ministro della salute, al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare.
- Per sapere - premesso che:
a Maglie, Ezio Armando Capurro è proprietario della Copersalento, per decenni un sansificio, poi trasformato in inceneritore di rifiuti e quindi in stabilimento per la produzione di energia. Varie sono state le denunce, le ispezioni, le chiusure, fino a quella definitiva posta dalla provincia di Lecce, dovuta all'inquinamento. La Copersalento è stata, infatti, accusata di aver superato per oltre 400 volte i limiti massimi di emissione di diossina;
secondo quanto
riporta Terra di giovedì 8 luglio 2010, in Liguria, il pubblico
ministero Biagio Mazzeo ha chiesto e ottenuto di sequestrare l'area
dell'ex oleificio di Avegno, di proprietà del consigliere regionale
Ezio Armando Capurro, perché la zona non è stata bonificata e si è
trasformata in una discarica pericolosa -: Ministero/i delegato/i a rispondere e data delega |
|
Delegato a rispondere |
Data delega |
MINISTERO DELLA SALUTE |
19/07/2010 |
MINISTERO DELLA SALUTE |
19/07/2010 |
Attuale delegato a rispondere: MINISTERO DELL'AMBIENTE E DELLA TUTELA DEL TERRITORIO E DEL MARE delegato in data 10/09/2010
Stato iter:
IN CORSO
Fasi iter:
SOLLECITO IL 12/10/2010
SOLLECITO IL 01/12/2010
SOLLECITO IL 12/01/2011
SOLLECITO IL 03/02/2011
SOLLECITO IL 03/03/2011
SOLLECITO IL 06/04/2011
SOLLECITO IL 15/04/2011
SOLLECITO IL 23/05/2011
SOLLECITO IL 06/07/2011
SOLLECITO IL 21/09/2011
SOLLECITO IL 16/11/2011
SOLLECITO IL 15/02/2012
SOLLECITO IL 28/05/2012
SOLLECITO IL 04/07/2012
SOLLECITO IL 27/07/2012
L’inchiesta svolta da Floriana Bulfon su Terra News parla di un politico dotato di ubiquità. Armando Capurro, già sindaco di centrodestra di Rapallo, è consigliere regionale della lista Burlando.
Amico del ministro Fitto, in Liguria chiede più inceneritori. Ma in Puglia il Pd lo accusa di danni ambientali. Rapallo eletto sindaco con una lista di destra, in regione Liguria con la sinistra. In Liguria a difendere i valori della lista Burlando, a Maglie un tempo in società con il cugino di Fitto. Ezio Armando Capurro è un uomo “dall’esperienza molteplice”, come lui stesso afferma. Docente, industriale, già sindaco di Rapallo e ora consigliere regionale della lista Burlando in Liguria. Proprio Claudio Burlando ha visto in lui il politico ideale e ha deciso di candidarlo nella sua lista civica alle ultime elezioni regionali. Il presidente ex ministro Ds, oggi Pd, ha scelto Capurro per le sue qualità e poco importa che qualcuno in quel di Maglie, in quella Puglia terra natale di Capurro, sostenga che sia un caro amico del ministro berlusconiano Raffaele Fitto. Importa ancor meno che il Pd in Puglia affermi che il Capurro industriale abbia causato con il suo stabilimento danni ambientali, diossina e controverso aumento di tumori. “La fabbrica della morte”, lo chiama il sito del Pd di Maglie. Questioni di poco conto, questioni pugliesi. Meramente locali. A dire il vero, qualche questione è stata aperta anche in Liguria, da quando il pm Biagio Mazzeo ha chiesto e ottenuto di sequestrare l’area dell’ex oleificio di Avegno di proprietà del consigliere perché la zona non è stata bonificata e si è trasformata in una discarica pericolosa. Ma poco importa anche questo. Capurro è uomo di oleifici e inceneritori, uomo di destra e di sinistra. E a Maglie, nel cuore del Salento, lo conoscono tutti bene. E' il proprietario della Copersalento, per decenni un sansificio, poi trasformato in inceneritore di rifiuti e quindi in stabilimento per la produzione di energia. Tortuosi gli assetti societari dell’impianto che ha visto tra i proprietari anche Raffaele Rampino, cugino del sindaco di Maglie Antonio Fitto, parente di Raffaele. E varie le denunce, ispezioni, chiusure, fino a quella definitiva posta dalla Provincia di Lecce. Denunce dovute all’inquinamento. La Copersalento è stata infatti accusata di aver superato per oltre 400 volte i limiti massimi di emissione di diossina. Carne alla diossina e livello di inquinamento oltre i limiti, in base alle rilevazioni dell’Arpa, tali da risultare “gravemente pericolosi per la salute”. Problemi del Capurro industriale, certo, e del Capurro pugliese. Ma appare curioso che il Capurro consigliere ligure si appelli a Burlando con una interrogazione con oggetto «conferimento rifiuti dalla Provincia di Imperia alla discarica di Scarpino». La provincia di Imperia, quella cara all’ex ministro Scajola. Il Capurro ligure sostiene che per fronteggiare il problema dei rifiuti occorra dare attuazione immediata di un Piano di Rifiuti che permetta di risolvere le criticità e il superamento delle fasi emergenza. Capurro consigliere regionale vuole sapere come si intenda, e con quali tempi, realizzare più moderni impianti di trattamento finale dei rifiuti che prevedano il recupero energetico. Insomma, termovalorizzatori o gassificatori, indispensabili per risolvere i problemi dei rifiuti.
Saranno l’anello di congiunzione tra il Capurro pugliese e quello ligure?
MORCIANO DI LEUCA E LA POLITICA.
Tutta la stampa ne parla. Sono finiti agli arresti domiciliari per concussione in concorso il sindaco di Morciano di Leuca, Giuseppe Picci e il comandante dei vigili urbani Anastasio Giovanni.
Secondo l’accusa avrebbe favorito illegalmente due attività commerciali penalizzandone una terza. Si tratta della creperia della famiglia Urso costretta secondo l’impianto accusatorio e non vendere più le crepes per non infastidire le due attività care al sindaco. I titolari delle attività in questione avrebbero favorito il primo cittadino in campagna elettorale, rischiavano di perdere i clienti attratti dalla creperia Urso e per questo madre padre e figlia sarebbero stati minacciati più volte da Picci e dal comandante dei vigili urbani con diffide verbali. Il clima da tempo si era fatto teso e la famiglia Urso ormai, alla vista dei due arrestati, aveva cominciato ad avvertire un crescente stato d’ansia. Per questo la titolare della creperia ha deciso di denunciare i fatti alla magistratura, il pm ha fornito elementi di prova e testimonianze che si sono rilevate determinanti. Il gip Annalisa De Benedictis, una volta valutato il quadro indiziario, ha emesso l’ordinanza di applicazione della misura cautelare per il sindaco di Morciano di Leuca e il comandante dei vigili urbani. Con l'accusa di concussione sono stati arrestati il sindaco e il comandante della polizia municipale di Morciano di Leuca, nel Salento. Gli arresti sono stati disposti dal gip del tribunale di Lecce Annalisa De Benedictis, che ha concesso al primo cittadino Giuseppe Picci, avvocato di 44 anni, e al comandante Giovanni Anastasio, di 53, gli arresti domiciliari. Secondo l'accusa, Picci e Anastasio, già durante l'estate del 2009, hanno costretto - con minacce, diffide e sanzioni pecuniarie - una famiglia di ambulanti (composta da marito, moglie e figlia), che gestiva un chiosco della marina di Torre Vado, a non vendere più crepes, nonostante la validità della licenza in loro possesso. Le pretese dei due arrestati - secondo la procura - servivano a rispettare un impegno preso dal politico con i venditori di crepes che solitamente affollano il litorale salentino, che avrebbero sostenuto Picci alle elezioni del giugno 2009. Alla terza sanzione amministrativa sarebbe scattata, per legge, la chiusura del chioschetto. Nell'estate del 2010, con specifica ordinanza, il sindaco avrebbe ordinato la chiusura dell'attività per una settimana, per mancanza dell'autorizzazione. Provvedimenti che, sempre secondo l'accusa, si sarebbero aggiunti ad una serie di diffide anche verbali e aggressive. Il tutto sarebbe stato orchestrato per rispettare un impegno preso con i titolari di attività commerciali che preparavano e vendevano crêpes, che avrebbero sostenuto il sindaco Giuseppe Picci nella tornata elettorale del giugno 2009.
Morciano, il sindaco e il comandante della municipale respingono ogni accusa. "Non c'è stata alcuna concussione e alcun abuso di potere, abbiamo semplicemente esercitato le nostre funzioni e i nostri poteri in maniera del tutto regolare". Si sono difesi così, nell'interrogatorio di garanzia dinanzi al gip annalisa De Benedictis, il sindaco di Morciano, Giuseppe Picci, 44 anni avvocato, e il comandante della polizia municipale, Giovanni Anastasio, 53enne, arrestati con l'accusa di concussione. L'ordinanza di custodia cautelare degli arresti domiciliari è stata emessa dallo stesso gip del Tribunale di Lecce. Picci e Anastasio, che hanno dunque respinto ogni accusa, secondo l'ipotesi accusatoria avrebbero cercato, a partire dalla stagione estiva 2009, in tutti i modi di costringere i gestori di un chiosco nella marina di Torre Vado (moglie, marito e figlia) a non produrre e vendere più crêpe, nonostante tale prodotto rientrasse nelle autorizzazioni ricevute. Il tutto sarebbe stato orchestrato per rispettare un impegno preso con i titolari di attività commerciali che preparavano e vendevano crêpe, che avrebbero sostenuto il sindaco Giuseppe Picci nella tornata elettorale del giugno 2009. Per attuare il loro piano i due arrestati avrebbero avuto nei confronti dei gestori del chiosco "ripetute condotte di minacce e diffide verbali, tanto da generare uno stato d'ansia ogni qualvolta di avvicinavano" alle loro presunte vittime. I due indagati, assistiti dall'avvocato Francesco Vergine, hanno ripercorso gli eventi legati alle concessioni dei chioschi in un mercatino di Torre Vado. Ad ogni venditore, secondo un accordo stipulato con gli stessi gestori, sarebbe stata assegnata l'autorizzazione per la vendita di un determinato prodotto. I denuncianti, in particolare, avrebbero dovuto produrre e vendere un dolce di origine belga. La vendita delle crepe avrebbe disatteso questo accordo, provocando tensioni e malumori negli altri commercianti. I successivi provvedimenti amministrativi, del tutto regolari a loro dire, sarebbero stati emessi solo per questo.
NARDO'. BANCOPOLI E INGIUSTIZIOPOLI.
Segnarsi la seguente data: 21 febbraio 2011, san Pier Damiani, quarto anniversario della caduta del secondo governo Prodi, scrive "Il Giornale". Alle 9 precise di quel lunedì mattina Luigi De Magistris, ex pubblico ministero, ora eurodeputato dell'Italia dei valori, si dovrà presentare davanti al tribunale di Salerno, prima sezione penale, aula C di udienza. Imputato in un processo a suo carico per il reato di omissione in atti d'ufficio quand'era magistrato a Catanzaro. Il rinvio a giudizio è stato deciso dal giudice dell'udienza preliminare di Salerno Dolores Zarone. Non una trascuratezza qualunque, fa presente l'avvocato leccese Felice Rigliaco, legale della parte offesa, «ma un'omissione di indagini ordinate da un gip su presunte collusioni fra magistrati di Lecce e di Potenza con ipotesi delittuose gravissime che vanno dall'associazione per delinquere all'estorsione al favoreggiamento di banche che applicano tassi usurari disinvoltamente». Che cos'avrebbe combinato De Magistris, soprannominato «Gigineddu flop» per l'esito fallimentare di gran parte delle inchieste a lui affidate ma assurto al ruolo di castigamatti ora che veste la casacca dipietrista? L'accusa è di non aver indagato su due colleghi della procura di Potenza a loro volta denunciati da un commerciante che riteneva di non aver avuto giustizia da loro. «La casta è casta», commenta l'avvocato Rigliaco.
E probabilmente l'inchiesta che gli era stata affidata non garantiva a De Magistris il «grande risalto mediatico» ottenuto grazie al fascicolo «Why not» che (secondo il giudice che recentemente ha demolito il fantasioso castello accusatorio) gli aveva regalato enorme notorietà. La vicenda che riporterà De Magistris in un'aula di giustizia seduto al banco degli imputati e non a quello della pubblica accusa ha origine qualche anno fa a Nardò (Lecce), dove un commerciante vittima di usura perse lavoro e casa: Luigi Stifanelli dormiva in auto e fu il primo cittadino italiano che ebbe assegnata la residenza ufficiale non tra quattro mura ma su quattro ruote. Ritenendo di non avere avuto giustizia, l'uomo denunciò i magistrati salentini che, a suo dire, erano responsabili di ritardi e omissioni a suo danno: «Sono vittima e destinatario di decisioni e condotte gravemente persecutorie e di un vero e proprio accanimento giudiziario». Per competenza territoriale, toccava ai magistrati di Potenza indagare sui colleghi di Lecce. Il fascicolo toccò a Roberta Ianuario, pubblico ministero ora trasferito a Napoli, e Alberto Iannuzzi, all'epoca giudice per le indagini preliminari passato in corte d'appello. Il caso fu archiviato. Stifanelli non si arrese: è un tizio che in fatto di querele non guarda in faccia nessuno, ha denunciato il sindaco di Nardò, un assessore, giornalisti come Cristina Parodi. Partì un esposto anche contro le due toghe lucane che planò sul tavolo di De Magistris, in quanto Catanzaro ha la competenza territoriale sui guai dei magistrati di Potenza. Era l'inizio del 2007, il sostituto calabrese stava architettando il castello di accuse contro Prodi e Mastella e il 12 marzo chiese di archiviare il fascicolo a carico dei colleghi. In ottobre il gip chiese ulteriori indagini ma l'invito fu lasciato cadere: c'erano reati più urgenti di cui occuparsi. Siccome non c'è due senza tre, il commerciante ha denunciato anche De Magistris. E questa volta non c'è stata archiviazione ma il processo. Il gup Zarone nel decreto che dispone il giudizio descrive così l'operato del nuovo idolo giustizialista: «Quale sostituto procuratore in servizio presso la procura della Repubblica di Catanzaro e assegnatario del procedimento penale (sui colleghi lucani, ndr), omettendo di procedere alle indagini ordinate dal gip presso il Tribunale di Catanzaro, indebitamente rifiutava di compiere un atto del suo ufficio che per ragioni di giustizia doveva essere compiuto senza ritardo e comunque nel termine di sei mesi fissato dal gip».
«Dagli atti di indagine - si legge ancora nel decreto - sussistono sufficienti elementi per sottoporre l'imputato al vaglio dibattimentale e non sono emerse ragioni per pronunciarne il proscioglimento».
Il seguito è cosa scontata. Trasmettiamo di seguito un esposto del commerciante di Nardò, Luigi Stifanelli, sull'assoluzione di Luigi De Magistris e pubblicata su Agenparl.it.
"Luigi De Magistris è stato assolto perché il fatto non sussiste: è la sentenza del Tribunale di Salerno nel processo per omissione in atti d'ufficio all'eurodeputato, per fatti risalenti a quando era ancora magistrato. ''Era un'accusa ingiusta e infamante - ha commentato De Magistris - ma sono stato assolto difendendomi nel processo e non dal processo, senza usare l'immunità parlamentare nè il legittimo impedimento''. Per il leader dell'Idv Antonio Di Pietro ''giustizia è stata fatta''. Questa nota dell’Ansa tace la circostanza che il Giudice che ha assolto De Magistris è la Dr.ssa Maria Teresa Belmonte, moglie dell’avv. Giocondo Santoro, fratello del Santoro famoso conduttore di Annozero. Questo Giudice costituisce il simbolo della imparzialità quando deve giudicare De Magistris. Con tale Giudice il De Magistris ha fatto certamente un grande sforzo a difendersi “nel processo”!!! E’ notoria l’attività di sponsorizzazione dell’europarlamentare dell’Idv De Magistris da parte del Santoro televisivo su di una televisione pubblica. Nessuno ha prove per dire che la decisione dell’assoluzione sia stata presa davanti al focolare dei coniugi Santoro-Belmonte allargato al noto conduttore di Annozero; è innegabile, però è che il Santoro televisivo cognato della Belmonte è il padrino dell’europarlamentare. Ciò che è certo è che la sentenza, così come formulata, getta un’ombra lugubre sulla Giustizia, quella vera. Luigi De Magistris era imputato di un grave delitto. Egli, secondo l’accusa, “...indebitamente rifiutava di compiere un atto del suo ufficio..." quando era sostituto procuratore in servizio presso la Procura della Repubblica di Catanzaro ed aveva omesso di “procedere alle indagini ordinate…dal GIP presso il Tribunale di Catanzaro” in un “procedimento…a carico dei magistrati di Potenza IANUARIO ROBERTA e IANNUZZI ALBERTO”, che si era aperto a loro carico su denuncia del sottoscritto per ipotesi delittuose di “associazione per delinquere, favoreggiamento, falsità, concorso in estorsione ed usura” a carico di “alcuni magistrati di Lecce e di Potenza”. Nel fascicolo del Giudice certamente ci sarà stata l’ordinanza del GIP di Catanzaro che ordinava al De Magistris P.M. di proseguire le indagini nei confronti di altri magistrati di Potenza e di Lecce. Nel fascicolo del Giudice certamente vi è carenza assoluta delle indagini svolte dal De Magistris. Ci si attendeva nella ipotesi più rosea per l’europarlamentare l’assoluzione con la formula che il fatto che un P.M si rifuti di eseguire un ordine del GIP non costituisca reato; invece, l’assoluzione è stata con la formula più ampia, cioè, che il fatto non sussiste, che sta a significare che non vi è stato mai ordine di alcun GIP. Invece, l’ordine del GIP rivolto al De Magistris di proseguire le indagini era ben preciso. L’assoluzione perchè il fatto non sussiste può significare anche che il De Magistris abbia compiuto uno straccio d’indagine; invece, no; è proprio egli stesso che sul suo blog ha scritto di essersi considerato il “dominus” e di non aver inteso indagare per non fare spendere denaro. Dunque, la sentenza che ha assolto il De Magistris è smaccatamente falsa. Ciò che colpisce in questo processo è la rapidità con cui si è concluso; certamente, era necessario sgomberare le ombre sul candidato sindaco di Napoli: tre udienze velocissime a distanza di pochi giorni l’una dall’altra; con la scelta mirata del giorno dell’udienza in cui vi era lo sciopero degli avvocati, e, quindi, svolta in assenza del difensore della parte civile. Ammirevole la velocità con cui il Giudice Belmonte ha concluso questo processo; sarebbe interessante sapere se questa velocità nel concludere il processo De Magistris, abbia penalizzato qualche altro imputato vero innocente, che attende prima di lui da anni la conclusione del suo processo.
Eppure il reato ascritto al De Magistris riguarda il suo rifiuto di indagare, all’epoca in cui egli era P.M. a Catanzaro, sulle sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di Lecce di procedimenti penali a carico di soggetti bancari che praticavano e praticano tuttora usura ed estorsione. Altro lato oscuro della vicenda è il fatto che non siano stati escussi i testi che avevo proposto al mio difensore, l’avv. Licia Polizio; infatti, avevo proposto come “testi i soggetti menzionati nell’opposizione alla richiesta di archiviazione”, che avrebbero dovuto riferire su sistematiche archiviazioni facili da parte di magistrati di Lecce nei confronti di banche che operano usura ed estorsione e, precisamente i seguenti soggetti: l’On. Nichi Vendola, il sig. Franco Carignani, l’Avv. Fedele Rigliaco, Il giornalista de "Il Mondo" che scrisse l’articolo dal titolo "Com'è stretta la Puglia" il12 giugno 1998 N. 24, l’ex Ministro della Giustizia, on. Diliberto, il Giudice di Lecce Dr. Pietro Baffa, l’ex P.M. Dr. Aldo Petrucci, il presidente dello SNARP, sindacato nazionale antiusura, dell’anno 1999, il Giudice Dr. Gaeta di Lecce, l’ex Gip Dr. Francesco Manzo, l’ex Gip Dr. Fersini il consulente del P.M. di Lecce, Dr. Daniele Garzia, che dovrà riferire sulla seguente circostanza: la tabella dove erano indicati i tassi praticati allo Stifanelli da parte della banca erano abbondantemente superiore a quelli consentiti dalla legge il Dr. Leonardo Rinella che è stato P.M. presso la Procura di Bari, il quale aveva accertato, per il tramite del suo consulente, che la banca aveva praticato ad un cliente interessi passivi su saldi attivi; il consulente della Procura di Bari, Dr. Egizio De Tullio, il quale aveva accertato che la banca aveva praticato ad un cliente interessi passivi su saldi attivi. Altro lato oscuro della vicenda è il fatto che non siano stati acquisiti dal Giudice del dibattimento alcuni fascicoli che avevo proposto al mio difensore come richieste istruttorie. Così, infatti, scrivevo al mio difensore avv. Licia Polizio: “E’ necessario chiedere al Giudice del dibattimento l’acquisizione di alcuni fascicoli che dimostrano l’attività di “protezione dell’usura nel Salento” da parte di alcuni magistrati e che sono raccolti tutti nel Dossier a firma del Sig. Franco Carignani: 3445/94 rgnr. Tribunale di Lecce, n. 8133/ 95 RGNR del Tribunale di Lecce (Capoti), n.15950/97 RGNR del Tribunale di Bari (Bisconti - Durante), n. 2011/G/96 Presso la Direzione Nazionale Antimafia, n. 508/97 RGNR del Tribunale di Lecce, n. 1885/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 800/96/21/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 6647/97/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 3926/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 9725/97/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 19797/97/21 RGNR”. Eppure il reato ascritto al De Magistris riguarda il rifiuto di indagare sulle altrettante sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di Potenza di procedimenti penali a carico di quei magistrati di Lecce che consentono tali “facili” archiviazioni. La carenza delle suindicate indagini ha consentito ad alcuni magistrati criminali di Potenza e di Lecce di crearsi l’usbergo della immunità e, così, proseguire con la loro opera delinquenziale di copertura di gravi reati, come l’estorsione, il favoreggiamento, l’usura, la falsità, di Banche, di società di riscossione dei tributi e di personaggi importanti. Insomma, per De Magistris e per il Giudice cognato del Santoro di Annozero tutto questo è cosa da nulla; che i magistrati di Lecce o di Potenza consentano ad estortori o usurai bancari o ad esattori delle tasse usurai a proseguire nella loro attività criminale con conseguente distruzione di molte imprese, di molte famiglie e dell’economia salentina è una cosa di poco conto. Oggi, affrancato dal peso dell’accusa, il De Magistris - che aveva il dovere d’indagare e d’impedire la prosecuzione di questi reati - si appresta con estremo candore a governare la città di Napoli massacrata dall’usura bancaria. Con la sentenza della “Giudicessa” cognata del Santoro televisivo alcuni magistrati di Lecce possono proseguire impunemente a favorire l’usura e l’estorsione delle Banche e dell’esattore delle tasse in danno dei salentini; tali magistrati sanno che troveranno, prima o poi, una Dr.ssa Belmonte che scriverà una sentenza perché “il fatto non sussiste”. Eppure le archiviazioni di procedimenti penali a carico di soggetti che, con minacce di pregiudizi, riuscirono ad estorcere del denaro crearono disagio, malessere e sconcerto nella popolazione salentina. In particolar modo furono gl’imprenditori che esternarono - con esposti a tutte le Autorità ed a tutte le Istituzioni dello Stato, alla Direzione Nazionale Antimafia, alla Commissione antimafia, alle Cariche istituzionali più importanti dello Stato - il disagio per la mancata tutela penale della proprietà; nell’immaginario collettivo si ebbe a formare l’idea di una sorta di sodalizio fra magistrati, banchieri ed altri soggetti. A seguito di ciò in data 24/09/’98 l’on. Nichi Vendola, all’epoca vice-presidente della Commissione antimafia, ora Governatore della Puglia, pose il dito su questa piaga del Salento; e, con atto di sindacato ispettivo n. 4/19855 sollevò questioni riguardanti le numerose e facili archiviazioni da parte della Procura della Repubblica di Lecce dei procedimenti penali “per i reati di estorsione, usura, truffa ed altro commessi da rappresentanti delle banche a danno di imprenditori Salentini” per sapere come mai molti salentini non avevano avuto la tutela penale, nonostante che i magistrati della Procura di Lecce avessero constatato l’applicazione di alti tassi d’interesse da parte di Banche; la vicenda ebbe vasto clamore, scaturito dalla divulgazione delle notizie attraverso la stampa. Nel succitato atto l’onorevole interrogante faceva riferimento ad un articolo comparso sul settimanale “Il Mondo” del 12 giugno 1998, n. 49 che dettagliava numerosi casi di archiviazioni di procedimenti penali. Quell’interrogazione venne archiviata perché il Ministro della Giustizia dell’epoca, on. Diliberto, ebbe a fornire una risposta contenente notizie false che gli furono fornite dalle articolazioni ministeriali competenti. L'On.le Consiglio Superiore della Magistratura con le circolari nn° 8160/82 e 7600/85, 4° commissione, e con la delibera del plenum dell'11 dicembre 1996 ha esplicitato che "l'esigenza generale, consistente nella tutela dell'imparzialità e della libertà da condizionamenti che devono connotare anche nell'apparire, l'attività giudiziaria, si pone quale specificazione del principio di tutela del prestigio della Magistratura inteso come apprezzamento sociale della corretta amministrazione della Giustizia". Secondo la Corte di Cassazione, Sez. Unite, sentenza del 03 aprile 1988, n. 2265 "La responsabilità disciplinare del Magistrato, per comportamento pregiudizievole al prestigio suo e dell'Ordine Giudiziario, può conseguire anche da atti non illegittimi, ma meramente inopportuni od avventati”. Questo esposto pubblico è rivolto alle autorità in indirizzo per quanto di loro competenza, in particolare al Presidente della Repubblica, per valutare se vi sono gli elementi per promuovere procedimento disciplinare nei confronti della Dr.ssa Belmonte se per accelerare il procedimento a carico del De Magistris abbia trascurato qualche altro procedimento che aveva delle priorità o per valutare se la decisione di assolvere il De Magistris con la formula “perché il fatto non sussiste” sia stata avventata in presenza di un’ordinanza ineseguita di un GIP."
PARABITA E LA MAFIA.
DELITTI PADOVANO E ROMANO: CITTADINI MAFIOSI O SFIDUCIATI DALLA GIUSTIZIA?
Una ispezione amministrativa a Lecce «negli uffici interessati dalle esecuzioni giudiziarie», in particolare a proposito dell’espletamento delle aste giudiziarie, è stata annunciata dal sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano in conseguenza di quanto emerso dopo l’uccisione di un salentino, Giorgio Romano, che – secondo primi accertamenti – avrebbe fatto affari frequentando appunto le aste giudiziarie.
Mantovano ha spiegato, parlando a Lecce con i giornalisti, di aver concordato l’ispezione amministrativa col ministro della giustizia, Angelino Alfano, un’ispezione «che sia parallela e non in contrasto, come ogni accertamento ispettivo di carattere amministrativo con l’indagine penale». Per il resto – ha detto ancora al riguardo – «ci sono indagini giudiziarie in corso sulle quali l’autorità giudiziaria ha piena disponibilità, indipendenza e autonomia».
Romano è stato ucciso – a quanto è stato accertato poche ore dopo l’omicidio – da un uomo che, per gravi difficoltà economiche, aveva perso la sua casa e la sua macelleria e sperava di rientrarne in possesso tramite un accordo proprio con Romano, abituale frequentatore di aste giudiziarie.
Di ritorno da Gallipoli, dove in mattinata si era tenuta la seduta straordinaria del Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica alla presenza del sottosegretario all’Interno, Alfredo Mantovano, il prefetto di Lecce Mario Tafaro, ha incontrato nel primo pomeriggio una delegazione del Pd salentino per discutere della situazione allarmante venutasi a creare a fronte di due omicidi nell’arco di una sola settimana.
Nel corso dell’incontro a Palazzo di Governo, Maritati e gli altri sono nuovamente tornati sull’omicidio Padovano, prendendo le dovute distanze e polemizzando circa la partecipazione di alcuni rappresentanti istituzionali locali al funerale dell’ex boss gallipolino della Scu.
“E’ stato un gravissimo errore politico e si è trattato di presenze a dir poco inopportune. Ma, quello che ancor più preoccupa, è l’atteggiamento di una quarantina di commercianti che avrebbero abbassato la saracinesca al passaggio del suo feretro. Perché lo hanno fatto? Hanno avuto paura? Si sono sentiti scoperti? O, piuttosto, il loro è stato un atteggiamento di accondiscendenza verso qualcuno più forte e potente?”.
A queste domande la politica è chiamata a dare una risposta, secondo Maritati, che è tornato pure sull’omicidio avvenuto a Parabita. In questo caso, il dato preoccupante ruota attorno alle aste giudiziarie: qui la magistratura ha il dovere di indagare sul presunto coinvolgimento e le successive infiltrazioni nel sistema delle aste pubbliche. Soprattutto a fronte di una sorta di denuncia giunta due anni fa sotto forma di missiva al sindaco di Parabita, Adriano Merico, dove si chiedeva all’amministrazione comunale di intervenire con urgenza e indagare chiaramente nel settore delle aste, perché ci sarebbe stato il rischio (una premonizione divenuta realtà) che qualche semplice e normale cittadino si sarebbe trasformato in un giustiziere.
PORTO CESAREO E GLI ABUSI EDILIZI.
Da “La Repubblica”: "Punta Grossa". Colata di cemento nell'area protetta. Sigilli al mega resort da 50 milioni.
Sono 129 gli indagati, tra cui funzionari di Regione Puglia e Comune, responsabili di aver avallato la costruzione del complesso turistico con l'approvazione di una variante urbanistica dichiara illegittima. La struttura nata su una delle area più belle del Salento ha cambiato volto alla zona di Porto Cesareo.
Un lussuoso resort da 50 milioni di euro con villette, alberghi, solarium, centri estetici, anfiteatro, discoteca, impianti sportivi e strutture commerciali. Una struttura ricettiva tra le più imponenti del Salento, affacciata - come si legge negli annunci sui siti di promozione turistica - "su un tratto di mare all’interno del Parco nazionale marino e nelle immediate vicinanze del Parco regionale di Porto Cesareo; in una delle più belle aree naturali della costa ionica del Salento, in località Torre Lapillo, a circa 10 km a nord di Porto Cesareo".
Un paradiso per turisti e per chi aveva lì comprato la casa al mare sequestrato dalla guardia di finanza per abusivismo: 129 le persone indagati per reati ambientali, tra cui i responsabili del Comune e della Regione che hanno rilasciato le autorizzazioni e i 120 proprietari di appartamenti. Un pezzettino di Puglia dall'inestimabile valore paesaggistico, che ha cambiato faccia dopo l'immensa colata di cemento arrivata con una variante urbanistica illegittima. Aree che avrebbero dovuto essere protette perché rappresentano la vera ricchezza del Salento e che, invece, sono state “devastate” come ha sottolineato il procuratore della Repubblica di Lecce, Cataldo Motta. I 9 pubblici ufficiali coinvolti nello scandalo sono l’ex sindaco di Porto Cesareo Vito Foscarini, i 3 responsabili dell’epoca degli assessorati regionali all’Ambiente e all’Urbanistica (Luigi Ampolo, Giuseppe Lazzazzera e Luca Limongelli), 2 responsabili dell’Ufficio tecnico comunale (Cosimo Coppola e Giovanni Ratta), 2 progettisti (Claudio Conversano e Antonio Nestola) e il legale rappresentante delle società coinvolte (Franco Iaconisi).
La struttura turistica sequestrata oggi è il resort Punta Grossa di Porto Cesareo, di proprietà della società Fgci srl. Le indagini delle fiamme gialle hanno accertato che il villaggio è stato realizzato in seguito a una lottizzazione abusiva a scopo edilizio di terreni in località Serricelle, aree protette che per le loro caratteristiche paesaggistiche sono state dichiarate di notevole interesse pubblico.
Tra queste le zone di Palude del conte, Duna di Punta Prosciutto e altre dichiarate riserve marine. La costruzione del complesso immobiliare che sorge su un'area molto vasta ha inoltre causato una rilevante trasformazione urbanistica delle aree interessate, sottoposte a vincoli ambientali e paesaggistici, anche in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti e delle normative edilizia, urbanistica ed ambientale.
In particolare va sottolineato che prima dell'edificazione del complesso turistico, il consiglio comunale di Porto Cesareo aveva approvato una variante urbanistica al piano regolatore generale, attribuendo ai terreni in località "Serricelle", precedentemente tipizzati come agricoli, specifica destinazione turistico-alberghiera.
Tuttavia, l'intera procedura che ha portato alla variante urbanistica al piano regolatore è da considerarsi illegittima, in quanto basata su due conferenze di servizi, rispettivamente risalenti agli anni 2002 e 2006, di cui la prima annullata con sentenza del Tar Puglia, confermata dal Consiglio di Stato e la seconda indetta illecitamente.
Inoltre, la suddetta variante urbanistica è stata approvata senza tener conto delle prescrizioni di non alterazione del paesaggio regionale esistente, previste dal Piano urbanistico territoriale tematico.
La realizzazione del complesso immobiliare sarebbe stata possibile grazie ad alcuni illeciti commessi dal sindaco pro tempore e dai responsabili pro tempore dell'Ufficio tecnico del Comune di Porto Cesareo nonché dai progettisti e direttori dei lavori per la costruzione del residence, indagati per reati contro la fede pubblica ed abuso d'ufficio, i quali avrebbero falsamente attestato, nei loro pareri e relazioni, che non esistevano altre aree urbanisticamente idonee alla realizzazione di strutture turistico-ricettive, riattivando il procedimento amministrativo che ha portato alla variante urbanistica del piano regolatore. Le fiamme gialle spiegano inoltre, che sono stati denunciati alla procura della repubblica presso il tribunale di Lecce i responsabili pro tempore degli assessorati all'Urbanistica e all'Ambiente della Regione Puglia per aver fornito pareri irregolari ed illegittimi, omettendo i controlli, obbligatori per legge, sulle attestazioni fornite dai funzionari comunali nonché sul rispetto dei vincoli paesaggistici ed ambientali. Tra i 129 indagati - residenti in tutta Italia e responsabili del reato ambientale di lottizzazione abusiva - ci sono I 120 proprietari di appartamenti adibiti a case-vacanza all'interno del villaggio vacanze.
Ma non è tutto, perché se nella realizzazione dell’enorme mostro di cemento, i militari hanno individuato una serie di illegittimità urbanistiche e ambientali, il prosieguo delle indagini ha poi permesso di scrivere un altro capitolo relativo a presunte violazioni relative all’organizzazione societaria delle due Srl che hanno costruito e gestito il resort. Alla luce delle evidenti violazioni che avevano caratterizzato la costruzione del villaggio, infatti, risultava impossibile procedere ad una formale compravendita immobiliare, per cui sarebbe stata effettuata un’operazione di riorganizzazione societaria, realizzata attraverso il conferimento di un patrimonio immobiliare di 108 appartamenti, fittiziamente mascherata come cessione di ramo d’azienda, della Fgci Srl verso una multiproprietà azionaria, cretata ad arte ed avente la stessa compagine sociale, denominata Punta Grossa srl. Le quote sarebbero quindi state cedute a 120 soggetti che, in teoria acquistavano parte del capitale sociale, in realtà diventavano padroni degli appartamenti. Nel momento in cui i proprietari volevano vendere la casa, la società riscattava la quota di appartenenza e la cedeva ad un nuovo inquilino, che conquistava così il suo spazio vitale nel paradiso salentino. Oltre a configurare illeciti penali, tale operazione di gestione straordinaria ha consentito di evadere l’Irap per 6 milioni e mezzo e l’Iva per 2 milioni, come evidenziato dalle ispezioni tributarie che si sono concluse con il recupero di elementi positivi di reddito per 7 milioni e 200mila euro.
RUFFANO E LA POLITICA.
COLPEVOLE FINO A PROVA CONTRARIA?
Luigi Nicola Fiorito si deve fare da parte: non è più sindaco di Ruffano. Lo ha stabilito il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con un decreto emesso giovedì 28 maggio 2009 con il quale, oltre ad aver rimosso Fiorito dalla carica elettiva, ha decretato anche lo scioglimento del consiglio comunale. Il provvedimento, di gravità estremamente eccezionale, è stato adottato dal Capo dello Stato «considerato che i pregiudizi e i procedimenti penali che gravano sul suddetto amministratore nonchè la condotta complessivamente tenuta dal medesimo hanno ingenerato nella comunità di Ruffano una situazione di tensione che espone l’ordinaria e civile convivenza a gravi rischi di turbativa e minaccia la sicurezza delle istituzioni locali, viste le condizioni di fatto lesive degli interessi della comunità territoriale».
A determinare il provvedimento del Presidente della Repubblica era stata una relazione del Ministro dell’Interno Roberto Maroni, che aveva motivato la sua richiesta con articolate argomentazioni. «Una serie di situazioni e circostanze», si legge nella relazione, «riconducibili direttamente o indirettamente alla condotta di Fiorito o alla sfera delle sue relazioni, ha determinato nella comunità locale un potenziale pericolo per l’ordinata e civile convivenza e una sospetta illegalità nell’attività amministrativa dell’ente locale, foriera di pericolo per la sicurezza e la credibilità delle istituzioni, che adombrano una concreta minaccia per la salvaguardia dell’ordine pubblico, la cui tutela è compito primario dello Stato».
Ma su cosa si basa in concreto la richiesta del Ministro dell’Interno? «Invero accertamenti condotti dalle forze dell’ordine e che hanno portato all’avvio di una significativa vicenda penale, hanno evidenziato la posizione dominante dell’amministratore nell’ambito di un macchinoso sistema affaristico», scrive Maroni, «nel quale i poteri derivanti dalla carica elettiva vengono strumentalizzati per fini non conformi ai pubblici interessi. A ciò aggiungasi il coinvolgimento dello stesso sindaco in un procedimento penale per reati ambientali, insieme ad un personaggio di spicco della locale criminalità organizzata, correo in azioni di rapina, porto illegale di armi ed altro, oltre che personalmente autore di condotte intimidatorie e violente a danno di esponenti proprio dell’amministrazione comunale di Ruffano».
Ma sulla decisione del Ministro dell’Interno di chiedere la revoca di Fiorito hanno pesato anche le «pendenze penali che vedono coinvolto il sindaco, anche per ipotesi di reato particolarmente gravi, quali corruzione, abuso d’ufficio, minaccia, falsità in atti e violazione della normativa urbanistica». Ma c'è stato qualcosa che ha determinato in particolare la richiesta del provvedimento di revoca da parte del Ministro Maroni: «La recente sentenza di condanna in primo grado riportata da Fiorito per l’ipotesi di reato di minaccia aggravata». Da domani i cittadini di questo grosso e laborioso comune del Sud Salento potranno cominciare a scrivere una pagina nuova della storia della loro comunità.
Sarebbero quattro le vicende giudiziarie che vedono coinvolto Nicola Fiorito in qualità di sindaco di Ruffano e che avrebbero determinato la decisione del Ministero dell’Interno di chiedere al Presidente della Repubblica «la rimozione dello stesso Fiorito dalla carica di sindaco e lo scioglimento del consiglio comunale».
La prima (al pari di tutte le altre, ancora da dimostrare) si riferisce alla costruzione di un supermercato su un territorio agricolo di proprietà della suocera di un consigliere comunale e madre di un amico e socio in affari di Fiorito (in quanto contitolari della società «Gestione Immobiliari & Turistiche Srl»). Benchè su questo terreno non si potesse costruire il sindaco avrebbe consentito la realizzazione di un immobile destinato ad ospitare un supermercato, consentendo tra l’altro alla proprietaria del suolo di incassare dalla vendita una somma pari 484.200 euro. In questa vicenda, per altro, alla ditta costruttrice il sindaco concedeva persino lo scomputo degli oneri di urbanizzazione secondaria pari a 17,576 euro.
Un’altra vicenda determinante nel procedimento di rimozione del sindaco riguarderebbe l’affidamento della gestione della segnaletica stradale e della gestione della strumentazione di controllo delle infrazioni al codice stradale. Il sindaco avrebbe affidato l’appalto ad una ditta ricevendo denaro in cambio e predisponendo documenti falsi per dare la parvenza di legittimità all’operazione.
Altro caso in questione sarebbe quello relativo alla realizzazione di due lotti della rete fognaria, uno pari 1.232.583,79 euro e l’altro di 951.613,76. In questa vicenda il sindaco - sempre stando all’ipotesi degli investigatori - avrebbe costretto il titolare della ditta a pagare una tangente pari al 7 per cento del fatturato totale.
La quarta faccenda si riferisce alla gestione del servizio di pubblica affissione. Fiorito avrebbe costretto il titolare della ditta appaltatrice ed un suo dipendente a riscuotere (con bollette false da lui consegnate) somme in nero per la Tosap, obbligando la ditta a versargli il 50 per cento delle somme incassate.
Nicola Fiorito, il sindaco destituito dall’incarico, affiderà le sue ragioni ad un manifesto pubblico e ad un comizio nella piazza principale del paese. «Voglio capire», dice a caldo Nicola Fiorito, «le motivazioni che hanno spinto il ministro Maroni a questa decisione che ha colto di sorpresa non solo me personalmente ma tutta la mia maggioranza. Ma se dalla mia parte politica nessuno era a conoscenza che il ministero dell’Interno fosse sul punto di decidere per la destituzione, altrettanto non si può dire sul conto dell’opposizione. Da qualche giorno, infatti, alcuni dei miei avversari politici avevano già diffuso a denti stretti la notizia in paese. In che modo ne erano venuti a conoscenza? » Le domande ed i quesiti del sindaco aumentano dopo la lettura del decreto firmato dal Presidente della Repubblica. «Secondo il ministero dell’Interno sono una persona che non ha equilibrio e che ha generato in paese uno stato conflittuale con i diversi apparati della macchina organizzativa municipale», dice il sindaco, «ma sono intenzionato a difendermi prontamente da queste accuse che non stanno nè cielo né in terra. Ho già dato mandato all’avvocato Pietro Quinto e nel ricorso al Tar che presenteremo ribatteremo a tutto, punto su punto».
Pietra dello scandalo, secondo le notizie ribalzate da Roma, oltre alle diatribe interne al Comune con un operatore ed il comandante della polizia municipale, sarebbe la decisione assunta dal sindaco Fiorito di riaprire nel 2001 una discarica di rifiuti, di proprietà di un «personaggio di spicco della locale criminalità organizzata », «In quel periodo si era in piena emergenza ambientale», spiega Fiorito, «e decisi il ricorso a quella struttura per evitare che i rifiuti invadessero le strade. Quella ordinanza faceva seguito ad una delibera licenziata dall’amministrazione precedente alla mia. Era stato proprio il sindaco Rocco Stradiotti ad individuare quel sito. Io ho solo preso atto dei deliberati e dei carteggi esistenti. E ci tengo a sottolineare la serietà e l’integerrima figura di Stradiotti, vicequestore di Lecce, che ha sempre operato nella legalità ed in coerenza con la sua funzione di pubblico ufficiale».
SANARICA E LA POLITICA.
Sindaco, vice-sindaco, ragioniere comunale e responsabile del servizio finanziario del comune di Sanarica sono finiti sotto processo. Il gup Nicola Lariccia ha disposto il rinvio a giudizio dei quattro imputati dopo una lunga camera di consiglio accogliendo le richieste del pubblico ministero Giovanni Gagliotta. Respinte le richieste degli avvocati difensori che avevano invocato il proscioglimento dei loro assistiti. Sergio Santese, primo cittadino di Sanarica, venne arrestato il 18 febbraio 2008 dai finanzieri del nucleo di polizia tributaria in un'operazione in cui vennero indagati anche il vicesindaco Fernando Caputo, il ragioniere comunale Antonio Perrone e Oronzo Nuzzachi, responsabile del servizio finanziario a Palazzo di Città. Le accuse per tutti erano e rimangono tentata concussione e abuso d'ufficio.
In particolare, Santese avrebbe indotto un architetto, senza riuscire nel suo intento, a dividere in tre parti le somme di un finanziamento pubblico finalizzato alla realizzazione di infrastrutture nel Pip. Due terzi di 80mila euro dovevano essere consegnati a Santese e Caputo, ma l'architetto si rifiutò. Sempre sindaco e vice-sindaco avrebbero spinto l'architetto nei lavori relativi all'attivazione di una stazione di servizio per carburanti sulla provinciale Maglie-Poggiardo a versare somme di denaro per sollecitare la pratica relativa all'autorizzazione della gestione della stazione.
Il primo cittadino, inoltre, in un'altra circostanza, avrebbe "persuaso" il manager di una società privata delegata all'analisi di fatture e bollette Enel e al relativo recupero crediti per l'illuminazione pubblica a farsi versare 6 mila euro, come "tangente" per il suo interessamento in merito alla liquidazione di una parcella gonfiata di 37 mila euro. Somme, secondo gli inquirenti, che sarebbero state elargite tramite l'emissione di due bonifici di 10 mila euro ciascuno effettuati dai funzionari Antonio Perrone, ragioniere comunale e Orazio Nuzzachi, responsabile del servizio finanziario. Nel processo sono state identificate persone offese il sindaco pro-tempore di Sanarica e l'amministratore unico di una società con sede a Galatone. Sergio Santese è difeso dagli avvocati Pasquale e Giuseppe Corleto, Fernando Caputo è assistito da Luigi e Alberto Corvaglia, Antonio Perrone da Luigi Rella, infine Andrea Starace assiste Orazio Nuzzachi.
SAN DONATO E LA PUBBLICA DECENZA.
Arrestato comandante dei vigili di San Donato di Lecce, trovato con 3,5 kg di eroina. In manette il capo della municipale di San Donato. In auto aveva un kg di stupefacente; il resto della droga era nella sua abitazione. Si indaga per capire se facesse parte di un’organizzazione criminale operante tra l’Italia e l’Albania racconta Chiara Spagnolo su “La Repubblica” . Eroina per un valore di 80.000 euro è stata trovata in possesso del comandante della polizia municipale di San Donato di Lecce, Damiano Montinaro di 51 anni. Droga pronta per essere immessa sul mercato, sospettano i militari della guardia di finanza che, nel pomeriggio di domenica, hanno fatto la sorprendente scoperta e tratto in arresto il capo dei vigili urbani del piccolo centro salentino e il suo presunto complice albanese, Edmont Beshaj, residente a Lecce e impiegato in una ditta che ripara televisori. Entrambi sono finiti in manette su disposizione del sostituto procuratore di turno, Francesca Miglietta, con l’accusa di detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti, dalla quale potranno cercare di liberarsi a partire dalle prossime ore, quando saranno sottoposti all’interrogatorio di convalida davanti al gip. Intanto, però, lo scandalo ha travolto il paese di San Donato, anche alla luce del fatto che – dalle notizie fornite nel corso di una conferenza stampa tenuta presso il Comando provinciale delle fiamme gialle di Lecce (alla quale hanno partecipato il comandante provinciale colonnello Vincenzo Rella e il comandante del Nucleo di polizia tributaria maggiore Vito Pulieri) – la posizione di Montinaro appare ben più grave di quella del suo presunto complice. Sua era infatti l’auto, un Maggiolone, a bordo del quale i due uomini viaggiavano quando sono stati fermati per un controllo all’ingresso di Poggiardo e proprio Montinaro era alla guida del veicolo. I militari in servizio, intorno alle 17 di domenica pomeriggio 2 settembre 2012, hanno notato una vettura che percorreva più volte la rotatoria, come se fosse alla ricerca di qualcuno e hanno deciso di fermarla. Un veloce accertamento è bastato per scoprire che, sul tappetino davanti al sedile anteriore – praticamente ai piedi dell’albanese – era posizionata una busta con due panetti di eroina del peso di un chilo. Grande è stata la sorpresa nel momento in cui, controllando i documenti dei viaggiatori, i finanzieri si sono resi conto di trovarsi davanti il, comandante della polizia municipale di San Donato. Sorpresa aumentata ulteriormente durante la perquisizione nell’abitazione estiva del capo dei vigili a Roca (nel comune di Melendugno), che ha consentito di trovare altri cinque panetti di eroina, due in una cassapanca e tre in un borsone, per un peso complessivo di due chili e mezzo. I controlli nell’abitazione di Edmont Beshaj hanno dato invece esito negativo, dal momento che non è stata trovata droga ma solo 735 euro in contanti che sono stati sequestrati insieme al Maggiolone su cui i due viaggiavano. Le indagini proseguono ora con l’obiettivo di chiarire a chi appartenesse la sostanza stupefacente e se Montinaro e Beshaj agissero in proprio o facessero parte di un’organizzazione criminale, con tutta probabilità operante tra l’Italia e l’Albania.
SPECCHIA E LA POLITICA.
CONDANNATO SINDACO DI SPECCHIA.
Due anni e dieci mesi più l’interdizione da pubblici uffici (pena senza sospensione) per Antonio Lia nell’ambito della vicenda, a cavallo tra il 2000 ed il 2002, dell'acquisto di un frantoio ipogeo di Specchia.
E’ la sentenza di primo grado emessa dalla prima sezione penale del Tribunale di Lecce nella serata odierna. L’accusa nei confronti del primo cittadino specchiese è di falso, truffa e tentata concussione. Lia è stato condannato anche al risarcimento danni nei confronti della parte civile. Stante la non sospensione della pena, si attende una decisione del Prefetto nei riguardi di Lia. Condannati a dieci mesi altri due imputati, i coniugi Santo Pizza e Lucia Indino. Assolto, invece, per non aver commesso il fatto, il tecnico comunale Antonio Surano.
LOTTE DI POLTRONE. CHI COMANDA A LECCE? ADRIANA POLI BORTONE "POLI POLTRONE" O RAFFAELE FITTO "IL PETTINATO, FIGLIO DI UN VECCHIO DEMOCRISTIANO"?
Da Wikipedia. Raffaele Fitto (Maglie, 28 agosto 1969) è un politico italiano, presidente della Regione Puglia dal 16 aprile 2000 al 4 aprile 2005. Ministro per gli Affari Regionali nel Governo Berlusconi IV dal 2008 al 2011.
Biografia. È figlio del politico democristiano Salvatore Fitto, anch'egli presidente della Regione Puglia dal 1985 al 1988. Dopo aver conseguito la maturità scientifica nel 1987 con il voto di 38/60, nel 1994 si laurea in Giurisprudenza con il voto di 108/110.
Attività politica. Subito dopo l'improvvisa morte del padre Salvatore inizia la militanza politica nella Democrazia Cristiana, nelle file della quale a vent'anni è eletto consigliere regionale nel maggio 1990.
Nel 1994, con lo scioglimento della DC, aderisce al Partito Popolare Italiano e nel 1995 segue il segretario Rocco Buttiglione nella minoranza del partito favorevole ad un'alleanza con Forza Italia, che prende il nome di Cristiani Democratici Uniti. In occasione delle elezioni regionali pugliesi del 1995 si candida con la CDU e viene riconfermato consigliere regionale: diventa quindi assessore e vicepresidente della Regione Puglia nella giunta di centrodestra di Salvatore Distaso.
Nel 1998, in polemica con il tentativo della CDU di avviare un progetto neocentrista, lascia il partito e insieme ad altri esponenti fonda i Cristiani Democratici per la Libertà con lo scopo di proseguire l'alleanza con la coalizione di centro-destra del Polo per le Libertà.
Nel giugno 1999 è eletto parlamentare europeo nella circoscrizione Sud con Forza Italia fino a quando si dimette nel giugno 2000. In occasione delle elezioni regionali pugliesi del 2000, Fitto si candida alla presidenza della regione Puglia con il sostegno del Polo e riesce a sconfiggere l'esponente ulivista Giannicola Sinisi con il 53,9% dei consensi. Fitto diviene così il più giovane presidente di Regione italiano. Negli stessi anni i Cristiani Democratici per la Libertà confluiscono organicamente in Forza Italia.
Ricandidatosi alle elezioni regionali pugliesi del 2005 è sconfitto dal candidato di centro-sinistra Nichi Vendola per 14.000 voti, pari allo 0,6%. Coordinatore regionale di Forza Italia fino al 2009, Fitto è stato per un anno a capo dell'opposizione di centrodestra in Consiglio regionale, prima di dimettersi, optando per il seggio di parlamentare.
Nelle elezioni politiche del 2006 è eletto alla Camera dei deputati in Forza Italia nella circoscrizione Puglia e diviene componente della I Commissione (Affari Costituzionali) della Camera. Nel 2006 è stato nominato da Silvio Berlusconi responsabile di Forza Italia per l'Italia meridionale. Nel dicembre 2007 è nominato responsabile, per il Popolo della Libertà, ai Rapporti con altri partiti e movimenti.
Alle elezioni politiche del 2008 è rieletto con il PdL alla Camera dei deputati nella circoscrizione Puglia e a maggio dello stesso anno è nominato Ministro degli Affari Regionali e le Autonomie Locali del Governo Berlusconi IV. All'indomani delle elezioni regionali del 2010, considerato l'esito negativo per il centro-destra nella regione Puglia, rassegna le proprie dimissioni da Ministro, assumendosi piena responsabilità della sconfitta elettorale, ma il Consiglio dei ministri le respinge. Nel giugno 2010 alle funzioni di ministro per gli affari regionali si aggiunge quello per "la coesione territoriale" con alle dipendenze il Dipartimento per lo sviluppo e la coesione economica, precedentemente del Ministero dello sviluppo economico.
Alle elezioni politiche del 2013 si ricandida alla Camera come capolista del PDL nella circoscrizione Puglia, ed è rieletto.
Il 16 novembre 2013, con la sospensione delle attività del Popolo della Libertà, aderisce a Forza Italia. Il 24 marzo 2014 diventa membro del Comitato di Presidenza di Forza Italia.
Il 16 aprile 2014 viene candidato, alle Elezioni europee del 2014 (Italia) come capolista di Forza Italia nella Circoscrizione Italia meridionale (che raccoglie le regioni Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata e Calabria).. Viene rieletto a Strasburgo con 284.547 voti, risultando il secondo candidato più votato in assoluto in Italia in un'unica circoscrizione, dietro all'esponente del Partito Democratico Simona Bonafè, e il primo assoluto in quella del Sud.
La rottura con Berlusconi. Fitto in forte dissenso con Berlusconi fonda una corrente in Forza Italia con il nome di Ricostruttori. Nell'aprile 2015 in Puglia si consuma la rottura con la dirigenza di Forza Italia dato che Fitto sostiene come candidato presidente alle regionali 2015 Francesco Schittulli, mentre Forza Italia candida Adriana Poli Bortone di Fratelli d'Italia.
Procedimenti giudiziari. Inchiesta "La Fiorita" per tangenti in sanità. Nel 2006 Fitto è stato indagato dalla procura di Bari a seguito del finanziamento di 500.000 euro da parte di Tosinvest, società di Antonio Angelucci, alla lista La Puglia prima di tutto creata dallo stesso Fitto in occasione delle elezioni regionali del 2005. Secondo la procura, tale somma sarebbe stata una tangente pagata per ottenere dalla Regione Puglia la gestione di undici residenze sanitarie assistite nell'ambito di un appalto da 198 milioni di euro. Il 20 giugno 2006 la Procura di Bari ha chiesto alla Camera dei deputati l'autorizzazione a procedere con gli arresti domiciliari di Fitto, nel frattempo diventato deputato. La Camera ha respinto l'autorizzazione all'arresto con 457 voti favorevoli su 462 presenti. Il 12 ottobre 2009 la Procura di Bari ha chiesto il rinvio a giudizio per Fitto, insieme a numerosi altri imputati, ritenuto colpevole di associazione per delinquere, peculato, concussione, corruzione, falso, abuso d'ufficio e illecito finanziamento ai partiti. L'11 dicembre 2009 il giudice dell'udienza preliminare ha rinviato a giudizio Fitto per abuso d'ufficio, due episodi di corruzione, finanziamento illecito ai partiti, peculato e un altro abuso e lo ha prosciolto per gli altri reati. Il 12 febbraio 2013 Fitto è stato condannato in primo grado a quattro anni di reclusione e a cinque di interdizione dai pubblici uffici per i reati di corruzione, illecito finanziamento ai partiti e abuso d'ufficio, venendo assolto per gli altri capi d'imputazione. Inchiesta sul fallimento Cedis. Il 3 febbraio 2009, Raffaele Fitto è stato rinviato a giudizio con l'accusa di concorso in turbativa d'asta e di interesse privato del curatore fallimentare per aver venduto a prezzo di favore (per sette milioni di euro, a fronte di un valore stimato di 15,5 milioni di euro) la società commerciale Cedis, all'epoca dei fatti in amministrazione straordinaria, a un contraente predeterminato (la società Sviluppo Alimentare, riconducibile all'imprenditore Brizio Montinari) durante la sua presidenza della Regione Puglia. Prima dell'avvio del processo Fitto accusò i magistrati inquirenti di essere "un manipolo di legionari" e ne denunciò l'operato presso il Consiglio Superiore della Magistratura che, il 4 aprile 2009 archiviò la denuncia e aprì un nuovo fascicolo per ingerenze politiche sull'operato dei magistrati. Alla fine di marzo, infatti, il guardasigilli Angelino Alfano, compagno di partito di Fitto, all'epoca dei fatti pure ministro, aveva disposto un'ispezione ministeriale presso la procura di Bari. L'ispezione aveva determinato un'indagine per abuso d'ufficio a carico dei due ministri, poi archiviata. Il 6 luglio 2012 il pubblico ministero ha chiesto il proscioglimento di Fitto per intervenuta prescrizione dei reati. Dopo la rinuncia dello stesso Fitto alla prescrizione, questi è stato assolto il 22 ottobre successivo "per non aver commesso il fatto".
A Francesca Pascale non piace Raffaele Fitto. Galeotto fu l'accento salentino «troppo marcato», scrive “Lecce News”. Dall'Italia. Dalla politica al gossip, anzi alla chiacchiera spicciola il passo è breve. Di esempi se ne potrebbero fare milioni. Non di rado accade, infatti, che i temi seri, importanti, addirittura determinanti all’interno di un partito sconfinino in altri meno seri che assumono la forma di pettegolezzi, dicerie, voci, calunnie che soffiano come un venticello, come si diceva ne «il barbiere di Siviglia». L’ultimo caso risale a qualche ora fa, quando all’interno di Forza Italia è scoppiato un vero e proprio polverone dopo il retroscena prontamente riportato dal Corriere della Sera. Il motivo? Alcune parole pronunciate da Francesca Pascale contro mister 284.544 preferenze, Raffaele Fitto. «Ma avete visto come parla? E quello sguardo fisso in camera? Pure l’accento, troppo marcato...» avrebbe detto, il condizionale è d’obbligo, la giovane fidanzata di Silvio Berlusconi. Come se non bastasse, non è solo la marcata salentinità a non andare giù alla bella Francesca. I “difetti” di Fitto andrebbero oltre: sorride poco, non è a suo agio davanti alle telecamere, è troppo rigido e ingessato e... chi più ne ha più ne metta! Una descrizione del leader dei lealisti non certo lusinghiera quella che sarebbe uscita dalla bocca della Pascale e riportata dalle pagine del quotidiano di via Solferino. Apriti cielo. I salentini, come è solito fare quando viene toccata una loro caratteristica, si sono subito schierati a difesa del deputato salentino. L'accento? "Non si avverte". E come hanno fatto notare da più parti, forse, sarebbe il caso di riportare l’attenzione su questioni ben più serie.
Raffaele Fitto: "Silvio, ti adoro ma ora vai via". Parla il ribelle di Forza Italia: "Non lascerò il partito perché voglio rifondarlo". E aggiunge: "Detesto l'abitudine italiana di andarsene quando non si è d'accordo", scrive Stefania Rossini su “L’Espresso”. Raffaele Fitto Raffaele Fitto è un uomo di 45 anni con i modi e i tratti dell’eterno ragazzo. Quasi un imprinting lasciatogli dal suo esordio precoce in politica, quando ventenne si trovò a prendere il testimone del padre, governatore democristiano della Puglia, morto in un incidente d’auto. Un compito assolto senza più fermarsi: giovanissimo presidente della sua regione, più volte parlamentare italiano ed europeo, ministro nell’ultimo governo Berlusconi, oggi impegnato a scalare la dirigenza di quel che resta di Forza Italia. Del democristiano del Sud porta con sé un elettorato fedele, fatto di persone in carne ed ossa, di contatto fisico, di strette di mano, di implicite promesse. Leader carnale in una politica ormai tutta mediatica, predilige ancora il novecentesco “territorio”, fa più uso di comunicati che di tweet ed è più presente nei telegiornali che nei talk-show. Metodi che la politica 2.0 ritiene superati, ma che Fitto impone con una presenza quotidiana e martellante. "E' indispensabile uscire da una condizione di ipocrisia. Ci sono degli errori clamorosi compiuti negli ultimi mesi, il primo è quello della linea politica del nostro partito rispetto all'approccio nei confronti del governo Renzi sul tema delle riforme". Durissimo attacco dell'europarlamentare di Forza Italia Raffaele Fitto nei confronti dei vertici del suo partito. "L'ufficio di presidenza è un organismo che, oltre a non avere nessuna valenza statutaria e giuridica, non ha alcuna valenza di carattere politico - ha aggiunto Fitto - Ecco perché ribadiamo con assoluta nettezza la necessità di un azzeramento totale degli organismi di partito". video di Francesco Giovannetti. Così di lui sappiamo parecchio. Sappiamo che è stato a lungo un pupillo di Berlusconi, che lo considerava una “protesi” del proprio corpo, ma che poi lo lasciò andare, forse deluso dalla sua difficoltà a sorridere e dal suo lungo argomentare. Sappiamo che oggi è il maggiore oppositore interno del vecchio leader e che, se non vincerà la battaglia in Forza Italia, potrebbe fare un partito tutto suo, forte di un seguito di 40 parlamentari. Ma niente, o molto poco, è trapelato finora della sua storia privata, dei pensieri e dei sentimenti che l’hanno accompagnato in questa bruciante, eppure già lunghissima, carriera politica. Abbiamo provato a farci raccontare anche questo.
Fitto, come ci si trasforma in poco tempo da protesi di Berlusconi a sua spina nel fianco?
«Dicendo pubblicamente la verità. Ripetendo che Forza Italia ha mandato in onda in questi mesi il proprio suicidio politico, perché ha accettato tutti i diktat di Renzi senza colpo ferire e rinunciando a un’identità costruita in vent’anni. Berlusconi non ha indovinato un solo passaggio politico».
Adesso però sembra aver cambiato rotta. È troppo tardi?
«Non lo so. Io continuo a chiedere l’azzeramento del gruppo dirigente, le primarie per ricostruirlo e una discussione politica sui temi veri: tasse, debito, Europa, sicurezza...».
Ma non è ascoltato. Perché non fa un partito suo?
«Detesto l’abitudine tutta italiana di andarsene quando non si è d’accordo. Voglio fare la mia battaglia dentro Forza Italia e anche fuori, tra la nostra gente che è delusa e arrabbiata. Non dia retta alle voci: non lascerò Berlusconi».
Resta evidente che siete passati al conflitto duro. Come accade solo alla fine di un amore.
«Con lui va così. Il rapporto politico diventa anche personale, nel bene e nel male. Ma la mia stima e il mio affetto sono intatti».
Non si sono incrinati neanche quando Berlusconi le ha gridato, come fosse un insulto: “Figlio di un vecchio democristiano”?
«È stato un momento di tensione che ho voluto superare. Lei saprà che ho perso mio padre, grande uomo, grande politico e grande guida della mia adolescenza, quando avevo appena compiuto 19 anni. Il giorno prima festeggiavo con lui il mio compleanno, il giorno dopo lui non c’era più. Quella perdita ha segnato la mia vita. Mi ha incupito, forse per sempre».
Ma le ha regalato la politica.
«Non ne ero digiuno. L’ho respirata in casa e seguendo mio padre nelle campagne elettorali. L’ho assimilata nel mio paese, Maglie, che ha dato i natali a molti politici, tra cui Aldo Moro, che ancora ci guarda da una statua dove è rappresentato, un po’ esageratamente, con “l’Unità” sotto il braccio».
Si racconta che furono i notabili democristiani, guidati da sua madre, a farle occupare subito il posto lasciato vuoto.
«Vede come il pettegolezzo politico riesce a rendere volgare una storia di lacrime e fatica? Vuole che le racconti come è andata?».
Certo.
«Migliaia e migliaia di persone vennero a farci le condoglianze in casa, notabili e no. Al momento del funerale erano diventate decine di migliaia tanto che dovemmo trasferirci dalla chiesa alla piazza. Lì, in preda alla rabbia che spesso si accompagna al dolore, decisi di dire alcune parole di ringraziamento. Forse vennero bene, non lo so più. Ma fu quello il mio battesimo alla politica».
Lei però era un ragazzino. Davvero nessuno l’aiutò?
«La Democrazia cristiana era la nostra casa. Al di là delle correnti, Enzo Scotti, Ciriaco De Mita e molti altri furono vicini alla mia famiglia. Io cominciai a lavorare nel partito e due anni dopo, un po’ per le capacità che stavo mettendo in campo ma certo molto di più perché ero il figlio di Salvatore Fitto, divenni consigliere regionale con 75 mila voti, il più alto risultato in Italia».
Aveva vent’anni e una strada ormai obbligata. Pensa mai a che cosa si è lasciato indietro? A quale altra vita ha rinunciato?
«All’inizio sì, ma oggi raramente. Mi lasciavo alle spalle un’infanzia diligente e un’adolescenza un po’ scapestrata. Tanta motocicletta con mirabili impennate, poca scuola, spesso marinata con giustificazioni false, tanto calcio con allenamenti quotidiani che mi hanno portato a rompermi i legamenti. E un po’ di botte ai giovani comunisti».
Fitto un picchiatore? Si stenta a crederlo.
«Non esageriamo. Andava così all’epoca. Bastava un manifesto che non doveva essere attaccato e ci si picchiava di brutto. Se ricordo quegli scontri con persone che poi hanno avuto ruoli nel Pci e nei Ds, riconosciamo tutti che erano momenti formativi. Mettevano in campo un’idealità politica di cui oggi si sente la mancanza».
Come coltiva la sua, se ancora ne ha?
«Ce l’ho, eccome. La mia bombola di ossigeno è il territorio dove la gente vera, con l’applauso e soprattutto con la critica, mi indica la strada. Poi c’è il mio pantheon che non tradisco: Margaret Thatcher, di cui sto leggendo in questi giorni una biografia politica, e Ronald Reagan. A loro mi sono ispirato quando, da governatore della Puglia, ho contenuto la spesa pubblica tagliando 21 ospedali e bloccando molte assunzioni. Una politica di risanamento che mi è costata la rielezione, ma che rifarei».
Va bene, l’aiuto a sfidare l’impopolarità. Che cosa pensa di questo papa?
«Per esprimermi aspetterei la conclusione del Sinodo. È giusto aprire alla società, però la religione ha alcuni punti fermi che vanno trattati con cautela. Bergoglio è molto mediatico, Ratzinger era più profondo».
Lei è un credente praticante?
«Sì, ma tengo per me la mia religiosità. Se vado a messa cerco di non farne un evento plateale. Sono fatti privati, come la mia vita familiare».
È vero, si sa tutto del suo essere stato figlio, ma niente del suo essere padre. Se ne sente all’altezza?
«Fisicamente non sono molto presente, ma sono un padre attento e, qualche volta, anche un po’ rigido. Ho due maschietti vicini di età, nove e otto anni, molto complici e per questo impegnativi. Credo sia mio compito insegnare loro a rispettare le regole. Di tenerezza ne hanno a volontà dalla loro mamma».
Le devo dare atto che lei è un uomo del Sud consapevole e convinto. Rispetta le tradizioni anche con sua moglie?
«Guardi, mia moglie Adriana è la cosa più bella che mi sia capitata nella vita. È la mia forza e il mio porto sicuro. L’ho conosciuta nel 2003, ci siamo guardati e ci siamo sentiti innamorati. Lei ha rinunciato a fare l’avvocato per la famiglia. L’avrei sposata anche subito, ma i miei impegni politici ci hanno fatto perdere due anni. Anche quando è nato il nostro primo figlio la politica ci si è messa di mezzo».
Come?
«Eravamo in piena campagna elettorale per le politiche del 2006, Berlusconi era venuto a Bari a fare la manifestazione di chiusura. Prima di salire sul palco gli avevo detto che forse mi sarei assentato perché mia moglie era al termine della gravidanza. Per fare un inizio di comizio ad effetto, lui annunciò: “Facciamo gli auguri a Raffaele perché sta nascendo il figlio”. Adriana fu inondata di telegrammi e fiori quando ancora era lontana dalle doglie. Fu una cosa divertente di buon augurio».
Che fa nel tempo libero, se ne ha?
«Torno sempre a casa e inseguo la mia grande passione: il calcio. Lo gioco con i miei figli, li accompagno ai loro allenamenti nella scuola di calcio a cui li ho iscritti, guardo con loro le partite della mia Juventus. Ascolto la musica del grande Ennio Morricone, che per me è la cosa più rilassante che esista, e leggo qualcosa. Oltre che alla biografia della Thatcher, ora sto leggendo“Open” di Andre Agassi, dove il tennista spiega come sia stato quasi obbligato a diventare un campione sacrificando molte altre possibilità della sua vita».
Sta parlando di sé?
«No, a me oggi va bene così. Ma siccome ho cominciato molto presto, penso che farò politica ancora per un po’ e poi mi costruirò una vita più tranquilla realizzando un progetto nella mia terra di Puglia a cui penso da tempo».
Quale?
«Un agriturismo, anzi una grande masseria che sia abitazione e impresa, dandoci insieme un rifugio e un reddito».
Mi permette di non crederci?
«Anche mia moglie non ci crede e ride sempre quando glielo dico. Ma la stupirò. Anzi vi stupirò tutti».
Fitto il "ribelle"? Sulle barricate si spettina...Non definite Fitto un ribelle. Non gli si confà al carattere, allo stile, alla biografia, al modo di parlare, di vestire, di pettinarsi, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. Elogiatelo o condannatelo, se credete, ma non definite Raffaele Fitto un ribelle. Non gli si confà al carattere, allo stile, alla biografia, al modo di parlare, di vestire, di pettinarsi. Fitto è nato democristiano nella città natale di Aldo Moro e alle elementari era già governatore in pectore, sulla scia di suo padre. Ne prese il posto da ragazzo, per la morte prematura di suo padre Totò in un tragico incidente; non era maggiorenne quando pronunciò, davanti alla salma di suo padre, un discorso memorabile di autoinvestitura politica nel nome del padre, che commosse tutti. Diventò presto leader nel Leccese, e «Salento Salento» arrivò a Bari da governatore. Vi arrivò un po' da colonizzatore, vista l'antica ostilità tra Lecce e Bari, approfittando della morte prematura di Tatarella che aveva lasciato sguarnito il califfato di Bari. Ma Fitto si mosse bene e governò con prudenza. Buon amministratore, scarso comunicatore, si fece poi battere da Vendola perché ebbe l'idea un po' infelice sotto elezioni di chiudere alcuni ospedali malandati e di presentarsi come risanatore dei conti; ma alla gente interessano più gli ospedali che i bilanci. E Vendola, preso sotto gamba, ebbe facile gioco con le sue arti affabulatorie di poeta e demagogo a vincere la partita, anche se era dato per perdente. A Vendola, Fitto offrì il bis perché non accettò accordi nel centrodestra per opporgli candidature più forti ma più indipendenti da lui. Nel tempo Raffaele ha mantenuto il profilo coerente di un giovane notabile democristiano, rispettabile centrista, con un suo partito personale pugliese, poco spazio alle idee e alle novità, più attento alla gestione del territorio. Un tempo delfino di Berlusconi, ora vogliono farlo passare per piraña anti-Silvio, ma non è nel suo temperamento. Il problema è che se non hai seguito gli alfaniani, non vuoi patti con Renzi, non vuoi sterzare a destra e detesti il lepenismo di Salvini (ma Bossi secessionista ed estremista, partner per tanti anni, andava bene?), lo spazio che resta è stretto e indefinito. Solo un politico audace e visionario potrebbe tentare l'impresa di fondare un centrodestra che non c'è. Ma un oculato, pettinato, stimato democristiano potrà mai rivoltare il reale nel nome dell'ideale? Potrà mai compromettere la permanente per salire sulle barricate? E poi se Bari, per lui leccese, era già terra straniera, Roma e Milano non sono su un altro pianeta? Chissà se vedremo un giorno un Fitto in versione scapigliata e scamiciata, con inflessione grillina, che incita alla rivolta, con sprezzo del pericolo e della pettinatura.
da Wikipedia. Adriana Poli Bortone (Lecce, 25 agosto 1943) è una politica italiana.
Biografia. Nel 1961 conseguì la maturità classica presso il Liceo Classico "Giuseppe Palmieri" di Lecce, nel 1967 divenne docente di latino e greco presso il medesimo Istituto, subito dopo aver conseguito la laurea in lettere. Nel 1968 diviene assistente alla cattedra di Letteratura Latina della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Lecce, quindi dal 1985 Professore associato di Letteratura latina presso l'Università degli Studi di Lecce. Attualmente si trova in pensione.
Carriera politica. Aderì da giovane al Movimento Sociale Italiano. Nel 1967 viene eletta Consigliere comunale del capoluogo salentino nella lista della fiamma e sempre riconfermata fino al 1998. È stata Segretario nazionale femminile dal 1981 al 1994 e componente dell'esecutivo nazionale del partito dal 1981.
È eletta Deputato al Parlamento italiano per la prima volta nel 1983, per il MSI in Puglia. Viene riconfermata alla Camera nel 1987, 1992, 1994 e nel 1996. Durante il mandato come Deputato al Parlamento italiano è stata capogruppo in Commissione Cultura, componente della Commissione di Vigilanza RAI, Vicepresidente della Commissione speciale per le Telecomunicazioni, Vicepresidente della commissione d'inchiesta sulla Federconsorzi; componente della Commissione Agricoltura della Camera dei deputati, componente della Commissione Speciale Pensioni; membro dell'esecutivo della Commissione Interparlamentare; è stata componente della Commissione Autorizzazioni a procedere e della Commissione Politiche dell'UE.
Aderisce nel 1995 al congresso di Fiuggi ad Alleanza Nazionale dove è nell'esecutivo nazionale fino al 2000. In AN è stata anche responsabile delle Politiche per il Mezzogiorno, delle relazioni con le categorie produttive e del Dipartimento Agricoltura.
Ministro delle Risorse Agricole. Nel 1994 viene eletta Vicepresidente della Camera dei deputati nominata, successivamente, Ministro delle Risorse agricole, alimentari e forestali del Governo Berlusconi I (1994-1995). Sulla base di tale esperienza è stata la presentatrice della proposta di legge di costituzione di una commissione parlamentare d'inchiesta sul dissesto della Federconsorzi.
Sindaco di Lecce (1998-2007). Viene eletta Sindaco di Lecce nel 1998. Nel maggio 2002 viene rieletta Sindaco raccogliendo un largo consenso, il 68,9% di voti. Nel dicembre 2004 il Consiglio Nazionale dell'ANCI la nomina vice presidente vicario dell'Associazione e componente del Comitato Direttivo. Nel maggio 2007 termina il suo secondo mandato di Sindaco del Comune di Lecce e viene eletta consigliere comunale nelle file di Alleanza Nazionale con 2240 preferenze. Da luglio 2007 è vicesindaco e Assessore alla Cultura, Politiche Comunitarie e Fascia Costiera. Dopo la costituzione degli Ambiti Territoriali Ottimali, nell'ottobre 2002 è stata nominata presidente dell'ATO Le/1.
Eurodeputato di AN. È stata eletta Deputato al Parlamento europeo nel 1999 nella lista di Alleanza Nazionale per la Circoscrizione Sud, aderendo al gruppo Unione per l'Europa delle Nazioni (UEN). È stata membro della Commissione per le Politiche regionali, trasporti e turismo e titolare della Delegazione interparlamentare per le relazioni con il Sud-Est d'Europa. Nel giugno 2004, con 93.000 preferenze, viene rieletta con AN per la Circoscrizione Sud, Deputato al Parlamento Europeo, aderendo al gruppo Unione per l'Europa delle Nazioni (UEN). Nell'ambito del nuovo mandato europeo è stata nominata Vicepresidente della Delegazione per l'Albania, Bosnia ed Erzegovina, Serbia e Montenegro; componente le Commissioni Ambiente e Politiche Regionali; componente dell'Assemblea Euromediterranea. Il 6 febbraio 2009, in un intervento a Radio 24, ha giustificato le sue assenze al 65% delle sedute del Parlamento Europeo, adducendo motivi di "scomodità in quanto meridionale" e un'otite cronica a causa della quale le risulta faticoso prendere l'aereo. Nel luglio 2005 Gianfranco Fini la nomina Coordinatrice regionale del partito in Puglia. Nel febbraio del 2007 le viene affidato il compito di costituire e dirigere la Scuola nazionale per la formazione dei quadri dirigenti di Alleanza Nazionale.
Senatrice del PDL e Io Sud. Si è dimessa da europarlamentare nel 2008 per accettare la candidatura al Senato nella lista del PDL, dove è eletta nella circoscrizione Puglia. Nel marzo 2009 non partecipa al primo congresso del PDL, lascia il gruppo, e fonda il movimento autonomista Io Sud, con il quale, appoggiata dall'UDC, si è candidata alla presidenza della Provincia di Lecce. Ha raccolto il 21,89% dei consensi. Al Senato è passata al gruppo Misto, quindi dall'ottobre 2009 al gruppo UDC-SVP-Autonomie. Alle elezioni regionali italiane del 2010 in Puglia ha presentato la propria candidatura con Io Sud, appoggiata da Unione di Centro, Movimento per le Autonomie, Rifondazione democristiana, Rinascita popolare, Democristiani e Libertà, Lista Per il Sud e Lega Meridionale. L'ufficializzazione ha posto fine a numerose voci che la vogliono candidata per il Popolo della Libertà, che le ha preferito Rocco Palese. Ottiene circa l'8% dei consensi. Il 26 febbraio 2011 annuncia la sua adesione al gruppo parlamentare di Coesione Nazionale, a sostegno della maggioranza di governo e all'interno dell'area politica e culturale del centrodestra. Nel 2012 è stata la prima parlamentare ad inaugurare la consuetudine, nel sottoporre la sua candidatura per l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, di inviare al Presidente della Camera la "sua" voce Wikipedia quale curriculum vitae valido per la selezione.
L'adesione a Fratelli d'Italia. Il 9 aprile 2014 Adriana Poli Bortone annuncia la sua adesione a Fratelli d'Italia - Alleanza Nazionale.
Candidata alla Presidenza Regione Puglia 2015. L'11 aprile 2015 Forza Italia annuncia che la sua candidata presidente alle elezioni regionali in Puglia del 31 maggio è la Poli Bortone. Tale annuncio segue la rottura politica con Raffaele Fitto ed il ritiro del sostegno di Forza Italia a Francesco Schittulli quale candidato alla presidenza. L'ex ministro, il giorno successivo, accetta la proposta di Forza Italia. La sua candidatura però non viene ben accolta dal suo partito, Fratelli d'Italia, che intende appoggiare Schittulli. Da parte sua, la Poli Bortone ha affermato di essere pronta a lasciare il partito della Meloni. Il 15 aprile il partito di cui fa parte la Poli Bortone prende la sua decisione definitiva ossia sostenere la candidatura di Schitulli e non quella della sua esponente Poli Bortone che si ritrova così ad essere sostenuta solo da Forza Italia e da Noi con Salvini.
Procedimenti giudiziari. Nel giugno 2008 è stata rinviata a giudizio, insieme al sindaco di Lecce Paolo Perrone (PDL) e ad altre otto persone, con l'accusa di abuso d'ufficio. Secondo le accuse, nel 2002 la Poli Bortone e Paolo Perrone (all'epoca rispettivamente sindaco e vicesindaco di Lecce), affidarono in via diretta una serie di lavori pubblici ad una cooperativa di lavoratori ex - detenuti. Poli Bortone è stata poi assolta con formula piena dalla seconda sezione penale del tribunale di Lecce nel novembre 2009.
Il 27 settembre 2009 Adriana Poli Bortone risulta coinvolta in un'altra inchiesta: è indagata per rivelazione di segreti d'ufficio e tentato abuso d'ufficio. In base alle accuse, la Poli Bortone avrebbe anticipato notizie sul piano urbanistico riservate sui terreni al marito e ai rappresentanti di una società lussemburghese interessata all'acquisto di un'area agricola. Il 3 dicembre 2009 il Giudice dell'udienza preliminare di Lecce Annalisa De Benedictis ha assolto Adriana Poli Bortone dal reato contestato stabilendo che "il fatto non sussiste".
Nel marzo 2012 è indagata dalla procura della Corte dei conti di Bari per un danno erariale attorno ai 750mila euro. L'oggetto dell'indagine è un incarico assegnato a Massimo Buonerba (il suo consulente giuridico, poi finito in carcere per presunte mazzette) che avrebbero potuto svolgere gli uffici interni del Comune di Lecce. Il 14 febbraio 2013 è condannata per omesso controllo.
Nel gennaio 2015 viene rinviata a giudizio insieme ad altre persone per peculato e abuso d'ufficio in riguardo all'avallo di un'operazione onerosissima a favore del costruttore Pietro Guagnano e a danno del Comune di Lecce: si tratta della trasformazione dell contratto di affitto per i palazzi di via Brenta, dove ha tra l'altro sede il tribunale civile di Lecce, in un contratto di leasing sulla base di 14 milioni di euro, prezzo nettamente superiore rispetto a quello di mercato. Il processo prenderà il via il 4 maggio.
Sul web Adriana diventa Poli Poltrone. Tormentone contro l’ex sindaca. Nato su twitter il nomignolo spopola: «Arrivista, si illude di durare per sempre». Emiliano la accredita come «unica avversaria», Zullo affonda: si spartiscono le poltrone, scrive Adriana Logroscino su “Il Corriere del Mezzogiorno”. È vero, e l’ex sindaca di Lecce Poli Bortone l’ha fatto rilevare fin da subito: sui social network è partita, contestuale alla sua candidatura a presidente della Regione, una persistente scia di «Forza Adriana», preceduta dall’hashtag di ordinanza. Da qualche giorno, però, circola anche un’altra campagna che ambisce a essere virale: #Adriana PoliPoltrone che punge la donna della destra su quello che per molti è il suo punto debole, una ipersensibilità alle luci della ribalta che la malconsiglierebbe. È Twitter il palcoscenico su cui la già ex sindaca, ex ministra, ex senatrice ed ex candidata alle regionali del 2010, viene apertamente accusata di narcisismo, brama di potere, vanità, che sarebbero alla base della nuova candidatura che spaccherebbe, per la seconda volta di seguito, il fronte moderato alle prossime elezioni. Il nomignolo «Poli Poltrone» circola già da qualche giorno in rete. Ed è stato attribuito soprattutto agli «haters», in italiano odiatori, categoria in costante aumento sui social. «Le figuracce della Poli Poltrone non si contano più». E «Sei dal 1967 in politica, basta!». E ancora «Il suo avversario è l’avidità che l’ha accecata trasformandola in Poli funzione e polipoltrone. Ha svenduto la Puglia». Ora però l’ha sdoganato anche Francesco Storace: in un articolo sul Giornale d’Italia l’attuale segretario de La Destra definisce l’ex compagna di partito «una donna di straordinario carisma, ma è illusorio pensare che sia eterno, soprattutto dopo tante capriole dalla destra al centro e viceversa nel corso della sua carriera politica. Già sulla rete è ribattezzata Poli Poltrone, e ci chiediamo il perché di questa imprevedibile forma di autolesionismo politico. Una storia gloriosa fatta a pezzi dalla vanagloria al tempo della pensione». I ricostruttori fittiani, schierati a sostegno del candidato avverso Francesco Schittulli, attaccano l’ex sindaca per un altro aspetto. «Tuba con Michele Emiliano, sperando di governare con lui domani — scrive Ignazio Zullo, capogruppo di Forza Italia alla Regione —. Come sono carini». Anche in questo caso il sarcasmo di Zullo prende le mosse dal precedente, le ultime elezioni regionali. «È successo nel 2010 con Vendola quando lui e la Poli si spartivano poltrone dopo aver fatto perdere il centrodestra. E il lupo, si sa, perde il pelo ma non il vizio e ci riprova stavolta con Emiliano». «Si sta ripetendo lo stesso copione e - aggiunge - dopo le lacrime di commozione per la candidatura forte e autorevole di Schittulli, l’ex sindaco di Lecce ha deciso di aiutare il suo alleato Emiliano. È un motivo in più, per il centrodestra, per andare avanti con ancora più entusiasmo e più coraggio in questa campagna elettorale. L’orgoglio dei pugliesi che non sopportano più l’accattonaggio politico spinto e ben rappresentato in queste competizioni, si farà sentire. Schittulli è il candidato della Puglia e con il vincente supporto nostro e di Raffaele Fitto supererà gli accordi del centrosinistra, quello ufficiale e l’altro ufficioso».
E dire che il 31 ottobre 2012 Alberto Mello scriveva su “20 centesimi”: Adriana Poli Bortone saluta Lecce: ha segnato un’epoca. Chissà se Adriana Poli Bortone, nel caso leggesse questo articolo, sarebbe contenta di essere paragonata allo storico sindaco monarchico di Lecce, dominus della politica cittadina dal dopoguerra alla fine degli anni ’60, Oronzo Massari. Eppure, guardando indietro negli anni, alla ricerca di figure così permeanti non solo della politica ma anche del carattere della città di Lecce, non si trovano altri paragoni all’altezza. Ci sono Bonea, De Pietro, Leccisi, ma nessuno ha lasciato una traccia così profonda come il monarchico e la senatrice. E anche sul declino di questi due personaggi storici della politica cittadina si trovano delle assonanze. Massari fu strozzato, nella sua ultima legislatura da sindaco, dall’assalto dei democristiani ai suoi uomini che gli furono sottratti uno a uno fino a firmare lo scioglimento del Consiglio comunale. Era il 1967. Ad Adriana Poli Bortone è toccata una sorte simile. I democristiani del 2000, mascherati sotto le insegne del Pdl, durante gli ultimi due anni hanno fatto lo stesso con lei. Fedelissimi sottratti al suo ultimo partito, IoSud, e ricompensati con poltrone prestigiose o con candidature di sicuro successo. “Mercato”, lo definì lei, prima di arrendersi e firmare, per salvare la “sua” stagione politica da un redde rationem che si annunciava sanguinoso, quella alleanza politica a sostegno di Paolo Perrone (Pdl) a cui, con aria sufficiente, finì per stringere la mano a un convegno sul Mezzogiorno, la sua ultima battaglia. Oggi Poli Bortone fa sapere che non si ricandiderà alle elezioni politiche. Lo fa con queste parole: “Non mi ricandiderò alle prossime elezioni politiche. La scelta dell’auto-rottamazione giunge sia per la veneranda età di 69 anni sia, soprattutto, per la delusione e l’amarezza provata nel corso della legislatura”. Si tratta della conclusione di una carriera politica che forse non è giusto definire carriera, dato che per lei la politica e la vita, spesso, sono state la stessa cosa. Era il 1967, l’anno della fine dell’era massariana, quando lei, da giovane professoressa di latino del Liceo Palmieri (a 24 anni), militante del Movimento Sociale Italiano, entrò in Consiglio Comunale insieme ad altri sei “camerati” (tra i quali Gaetano Gorgoni e l’allora segretario leccese del Msi Pino Leccisi che più tardi diventerà una figura centrale della Dc pugliese, e più tardi uno dei fondatori di Forza Italia). Da allora e fino al 2007, quando lasciò da sindaco Palazzo Carafa, mentre in molti si affannavano alla ricerca di una deroga alla legge che le impediva il terzo mandato, non ne uscì più. Si può dire che, tra luci e ombre, come ogni carriera politica, la sua storia ha segnato la storia di Lecce e che la senatrice sia stata certamente, insieme a Giovanni Pellegrino sulla sponda politica opposta, la dominatrice della politica leccese negli ultimi trent’anni. Complessa e ricca di spunti la sua biografia politica, certamente impossibile da raccontare in un singolo post. È entrata in Parlamento per la prima volta nel 1983 dove è stata rieletta per cinque volte, l’ultima nel 2008, ed è stata europarlamentare di An dal 2004. In mezzo ci sono un’esperienza da ministro dell’Agricoltura del primo governo Berlusconi e soprattutto i due mandati da sindaco di Lecce (dal 1998 al 2007), oltre al travagliato passaggio dall’Msi ad An e da questa a IoSud. Esponente della destra popolare, amica sincera di donna Assunta Almirante (che qualche anno fa venne apposta a Lecce per partecipare alla sua festa di compleanno), Adriana Poli Bortone ha avuto un ruolo importante nella direzione politica della destra Italiana. In un partito nel quale lo spazio per le donne era ridotto è stata lei la portabandiera del “sesso debole”, dal 1981 al 1994, ricoprendo per lo stesso periodo l’incarico di componente dell’esecutivo nazionale. Poi Fini la nominò coordinatrice regionale del partito nella Puglia di Tatarella, incarico che lei ricoprì cercando di arginare le ambizioni di quella fauna politica che era di destra e si ritrovò ad essere, improvvisamente, centro-destra. Fedele alle sue idee, pur accompagnando An in una alleanza sempre più stretta con Forza Italia, Adriana Poli ha sempre rifiutato di entrare nel Popolo della Libertà. Del suo stretto rapporto con Silvio Berlusconi e con il suo “delfino” pugliese Raffaele Fitto 20centesimi ha scritto abbondantemente in un altro post. Quello che qui conta è cercare di raccontare cosa lascia alla città la figura politica di Adriana Poli Bortone. Di certo la sindaca è stata nei suoi due mandati la garante di quel patto che ha sempre retto il governo della città facendolo pendere verso la destra. E cioè la straordinaria coincidenza degli interessi dei ceti popolari leccesi con quelli del mondo del “padronato” e del fitto sottobosco di professionisti che lo circonda, lo asseconda, lo radica nel tessuto sociale, escludendo e lasciando all’egemonia della sinistra esclusivamente il ceto medio progressista che trova nell’Università di Lecce, nell’associazionismo “dentro le mura” (quello culturale spesso fine a sé stesso) e nei (deboli) partiti della sinistra la sua sparuta rappresentanza. La Poli, a Lecce, è riuscita a salvare questo patto proprio quando il centrosinistra sembrava aver trovato, grazie al lavoro politico di Giovanni Pellegrino e alla penetrazione della sinistra negli orientamenti della Lecce “che conta”, la chiave per romperlo. Era la metà degli anni ’90 e vinse alle amministrative l’indipendente socialista Stefano Salvemini contro un centrodestra litigioso che si divise tra Faggiano e Fiore. Durò poco e ricompattando con il suo carisma le neonate Forza Italia e An, attraverso un accordo con i democristiani (a partire dall’emergente Fitto) che prevedeva una Lecce patrimonio di Alleanza Nazionale e una Regione Puglia saldamente in mano ai moderati, “l’Adriana”, come la chiamavano – e la chiamano – nei quartieri popolari, cementò con spirito “massariano” una egemonia che dura ancora oggi. Un dominio costruito attraverso il ricorso alla prebenda pubblica, attraverso l’attenzione per le esigenze del “popolo” a scapito delle finanze comunali, con centinaia di posti di lavoro creati dal nulla con i carrozzoni Lupiae Servizi e, in parte, Sgm, con le assegnazioni di case ai leccesi bisognosi e con gli ottimi rapporti con la migliore imprenditoria cittadina. D’altra parte è stato con Adriana Poli Bortone sindaco che Lecce è uscita dall’ombra, diventando, secondo l’intuizione della senatrice, “porta d’Europa”, nella visione di un Mediterraneo protagonista dello sviluppo del Mezzogiorno. È stato con lei che la città ha consolidato la riqualificazione del centro storico, cominciata da Salvemini. È stato con lei che Lecce ha lavorato al recupero di una identità culturale attraverso l’arte, il patrimonio archeologico e l’architettura barocca. È stato con lei che sono arrivate in maniera significativa le prime comitive turistiche. Dall’altro lato, vuoi per un vezzo, vuoi per lo spirito un po’ retrò – diciamo pure “nostalgico” – Adriana Poli ha cercato di recuperare le atmosfere della Lecce anni ’30 portando la voce Tito Schipa in Piazza Sant’Oronzo ogni giorno a mezzogiorno in punto, diffusa da un altoparlante posto sul suo balcone, ha cercato – invano – di riutilizzare la tettoia liberty che aveva fatto rimuovere dal mercato coperto di Piazza Libertini, ha avuto l’idea di ricostruire la vecchia Filovia che negli anni del fascismo attraversava la città. Quella che oggi si chiama Filobus e rappresenta il più grosso spreco per le casse pubbliche che Lecce abbia mai prodotto. Uno scandalo per il quale, per una oscura storia di presunte tangenti, si trova agli arresti uno dei suoi uomini più fidati, Massimo Buonerba. Quello che diceva, con la Poli al governo “Cumandamu nui allu Comune de Lecce” e che la stessa Poli ha difeso pubblicamente dopo l’arresto. Tutto questo, ma non solo, è stato il “polibortonismo” a Lecce, finito già da qualche tempo con la nuova ascesa dei democristiani (oggi ben rappresentati dal sindaco Perrone). Oggi la Poli saluta e la città di Lecce, salutando lei, in fondo, saluta una parte della sua storia. Altro che “auto-rottamazione”.
Ed ancora…
Adriana, signora del Sud che dà l’anima a Casini pur di guidare la Regione. La Poli Bortone è fuggita da An per un ministero negato Sempre in lizza per una poltrona, non è abituata a rinunciare, scrive Giancarlo Perna su "Il Giornale”. Insinuandosi nell’animo esacerbato di Adriana Poli Bortone, quella serpe tentatrice di Casini l’ha spinta a candidarsi alla guida della Puglia per l’Udc. Sarà il terzo incomodo tra il governatore comunista Nichi Vendola che punta al bis, e Rocco Palese del Pdl. Per quali circostanze Adriana, una vita nel Msi-An, si sia indotta a salire sulla zattera alla deriva di Pierferdy merita il racconto e giustifica il tono letterario dell'incipit. Diventare governatore della Puglia è da tempo l’idea fissa della leccese Poli Bortone. Gianfranco Fini in persona, il suo ex leader, le aveva dato il via libera di giocarsi la carta nominandola nel 2006 coordinatrice di An in Puglia. In questa veste, e col piglio che le ha dato madre natura, Adriana ha braccato Vendola. Convinta che inguaierà la Puglia come Bassolino la Campania, la signora ha denunciato le magagne della sanità precedendo i magistrati. Ha puntato il dito sui rifiuti che si accumulano a ritmi napoletani dopo il blocco dei termovalorizzatori voluto da Nichi per fisime ecologiste di tipo pecoraroscaniesco. Il clou dell’offensiva è stato un maestoso corteo antivendoliano che nel gennaio 2008 ha sfilato per Bari guidato dalla guerresca signora. Il successo dell’iniziativa è stato premiato da Fini facendola capolista del Pdl per il Senato nelle politiche 2008. Eletta trionfalmente, la neosenatrice si aspettava un ministero per lenire l’attesa della poltrona pugliese. L’accordo era per le Politiche comunitarie, dicastero che le andava a pennello essendo eurodeputata da dieci anni. In extremis, c’è stato però il voltafaccia di Fini che le ha preferito l’aggraziato Andrea Ronchi, il beniamino del principe. Intervistata dopo la delusione, Adriana non le mandò a dire. Fini, che è piuttosto pavone, se la prese e la cancellò. La senatrice andò sulle furie. Cominciò col disertare l’aula di Strasburgo segnalandosi per le basse presenze. Si giustificò accampando un’otite non conciliabile con la pressurizzazione aerea. Poi, avvilita dall’emarginazione, abbandonò il gruppo del Pdl a Palazzo Madama, si trasferì in quello dell’Udc e fondò un suo partito «Io Sud» che, già dal nome, più autoreferenziale non si può. Tutto questo spiega perché Adriana, per le regionali di marzo, ha dato retta alle sirene dell’Udc. A Pierferdy, che se l’è accaparrata approfittando del suo disagio, spetta però di diritto - spero siate d’accordo - l’appellativo di serpe che gli ho affibbiato all’inizio. L’obiettivo della serpe è meschino: danneggiare il Pdl che lo snobba. Infatti, a votare Adriana - data la sua storia tutta nel centrodestra - saranno i suoi tradizionale elettori di An, più che i quattro gatti dell’Udc. Voti dispersi a danno del Pdl. Vendola gongola e il Cav piange, tanto è vero che se ne è uscito con un appello: Adriana si ritiri e altrettanto faccia Palese, il candidato Pdl, ne troveremo un altro che ci piaccia a tutti (il magistrato Stefano Dambruoso). Perché la pacetta attacchi, bisognerà che la signora ammansisca i suoi rancori. È offesa con gli ex di An che, per ripicca verso i suoi recenti capricci, l’hanno isolata per mesi. Lo è ancora di più con Raffaele Fitto, l’ex governatore pugliese di centrodestra. Il giovanotto ha lavorato a lungo per impedirle di essere la candidata del centrodestra. Affetto da napoleonismo, Fitto non tollera concorrenza locale di personaggi popolari. E Adriana lo è. Per bloccarla ha sostenuto Rocco Palese, già suo braccio destro ed eccellente assessore al Bilancio della Regione (lasciò le casse pingui). Ma spirito di vendetta a parte, se desse retta al Cav, Poli Bortone dovrebbe rinunciare perfino al tentativo di sedere sulla sospirata poltrona. Farà il sacrificio? Insomma, un pasticcio. Mi sembra si sia capito che Adriana è un tipo peperino. Se la tocchi, reagisce. Ha un’eccellente opinione di sé e tende all’egocentrismo. Anzi, al poli-centrismo come dicono i suoi fan giocando sul cognome. È anche, come si è visto, un tipo irrequieto. Adriana Poli, oggi sessantaseienne, discende da una nota famiglia leccese. Laureata in Lettere ha insegnato prima latino e greco al liceo classico, poi latino all’università cittadina. Ha sposato, e ne ha due figli, un gentiluomo salentino, l’avvocato Giorgio Bortone, di una decina d’anni più anziano. Fu lui, storico consigliere regionale del Msi, a introdurla in politica. Ha subito dimostrato di averne il bernoccolo. È di parlantina sciolta e comiziante nata, perfetto contraltare, in questo, del fantasioso e pindarico Vendola. Per cui nelle prossime settimane, i pugliesi ne vedranno delle belle. Spinta dal marito, Adriana ha fatto carriera nel Msi anche se andava d’accordo a fasi alterne con Pinuccio Tatarella, allora ras delle Puglie. Nel 1983, a quarant’anni, è approdata alla Camera. Ci è rimasta ininterrottamente per cinque legislature fino al 1999, prima di diventare eurodeputato e sindaco di Lecce. Bella donna, alta, capigliosa e viso etrusco, Adriana era vezzeggiatissima dai colleghi della Camera. Libera nei comportamenti, al pari del consorte, e larga di idee sul piano ideologico, aveva simpatizzato con un fascinoso deputato comunista, Franco Ferri, vent’anni di più. L’inclinazione era sbocciata in commissione Istruzione di cui erano membri. Stavano insieme alla buvette sgranocchiando panini o in Transatlantico sui divani finché, per un’improvvisa lite, uno dei due si alzava di scatto e l’altro gli/le correva dietro. Poi si riappacificavano. Se ne accorsero i cronisti, divertiti per un duetto tra una missina e un comunista, che negli anni ’80 erano cani e gatti. Lo notò però anche il segretario Almirante e non gradì. Tanto più che Ferri era un Pci a 24 carati, direttore dell’Istituto Gramsci e medaglia d’argento della Resistenza. Ci fu - si disse - un richiamo. Poi Ferri, già malato, morì e la cosa venne archiviata. Qualche chiacchiera ci fu anche quando Poli Bortone, ministro dell’Agricoltura del Berlusconi primo, mostrò un debole per un alto burocrate che ebbe carta bianca. La cosa suscitò il malumore dei colleghi e il malcapitato pagò poi lo scotto con il ministro successivo. Pettegolezzi a parte, all’Agricoltura Poli Bortone se la cavò con onore. Mise sotto esame la Federconsorzi, feudo Dc, e tempo dopo promosse una Commissione d’inchiesta sull’elefantiaco carrozzone. All’irrequietezza umana di Adriana corrispondeva quella politica. Tra le correnti missine, aderì a quella di Servello. Né carne, né pesce. Così, una volta votò Fini segretario. Un’altra, gli preferì Pino Rauti. Il volto migliore l’ha però mostrato di recente come sindaco di Lecce. Lo è stata per dieci anni con soddisfazione dei cittadini e qualche strascico giudiziario. Due finiti nel nulla. Uno che - pare - stia per scoppiare. Ma c’è un tempo per ogni cosa. Se resterà nella lizza, dove Adriana dà il meglio di sé, sarà un godimento.
Per capire le Puglie, leggete un bel libro, scrive Paolo Pillitteri su “L’Opinione”. Non riuscite a capire i giochi proibiti della “polis” d’oggigiorno? Non vi raccapezzate nella matassa pugliese, fra cambi e scambi di ruoli come in una commedia di Carlo Goldoni? Non perdete più tempo a seguire questi sentieri di guerra di cartapesta. È peggio. Leggete, piuttosto, un bel libro; per esempio, uno della bravissima Luciana D’Aleo che proprio della sua regione, anzi della sua Lecce, tratteggia percorsi di persone dentro un andirivieni storico che le rende simboli di una parte del Paese e, al tempo stesso, individua nelle donne - che sono le interpreti assolute del libro “Via delle Bombarde” - il surplus necessario, il tocco magico, ovvero l’eterno femminino. Un consiglio ai politici che si stanno scornando nel “campo di Agramante” salentino e altrove. Leggetevi questo libro, chissà. Forse ne intuisce qualcosa lo stesso Silvio Berlusconi. Quando, infatti, al Cavaliere è sfuggita l’ennesima bordata, signorile intendiamoci, contro Giorgia Meloni, ovvero “la Pulce” che pizzica forte le sconclusionate pattuglie pugliesi berlusconiane, s’è capito che la questione, seppure politica come sempre, è più complessa, più ampia, più articolata, come si dice, insomma, è questione di donne. Sì, perché l’inserimento di Adriana Poli Bortone (nella foto) da Lecce (Lecce è importante assai, come vedrete) nel contesto elettorale pugliese ha ulteriormente scompaginato le carte politiche (si fa per dire) e riportato il loro gioco agli schemi che Matteo Renzi bolla a fuoco relegandoli nel detestato gioco del “Monopoli” col suo eterno ritorno al sempre uguale. Il deprecabile ritorno al punto di partenza. In realtà la partita pugliese ha più di un attore in proscenio, ed è fuori d’ogni dubbio che il fomite centrale è quel Raffaele Fitto che ha deciso di condurre un assedio alla fortezza, invero periclitante, del suo partito con l’asprezza che qualcuno definisce da “parricidio”, altri, più semplicemente, da sopravvivenza. E già questa parola la dice lunga sullo stato delle cose - e della salute - del centrodestra. Ma è quel nomignolo scagliato dalla reggia arcoriana contro la Meloni in crescita nei sondaggi che ci aiuta a decrittare uno scenario politico in cui l’oggetto del contendere, ovvero il potere in una regione, e che regione, è bensì ridotto a scontro interno ma, ed è qui il bello della faccenda, tale scontro è condotto dalle donne. I cui disegni sono tutti da decifrare. Scomparsi i Toti e gli Alfano nazionali, appannati i comprimari regionali, primeggia ancora, per inerzia, il buon Fitto; ma si scorge, sul fondale variopinto, una trama intricata, un gioco di luci e di ombre, un gioco di dame. Noi non sappiamo come stanno davvero le faccende e, ad essere sinceri, non ci interessa più di tanto, salvo che per una riflessione sull’incombente tempesta, ché la questione di fondo, come si diceva una volta, non è né nominalistica né di piccolo cabotaggio regionale, è una questione di linea politica laddove per “politica” s’intende una visione delle cose, un progetto per il futuro, un percorso da affrontare, una “weltanschauung”, direbbero i tedeschi: una visione del mondo. Dopo il “Nazareno”, che era non tanto o soltanto un accordo, ma una politica vera e propria, si è finiti nella terra di nessuno, in una specie di Campo di Marte i cui riflessi si riverberano all’interno di quel centro destra nel quale l’obbligo di alleanze elettorali - ora regionali, domani nazionali - si scontra con le contraddizioni reciproche e le contrapposizioni di schieramento logorando i contendenti. Ma non tutti. Non le donne, non le dame, le pulci, la professoressa, la sindaca o la capolista intorno cui ruotano gli stanchi pavoni dell’esausta “civitas centrodestrista”. E veniamo al libro e alla necessaria lettura, soprattutto da parte dei giocatori politici in campo. È una storia del Sud, delle Puglie, di Lecce “la bella addormentata”, in un arco lungo di tempo, dalla prima guerra agli anni Settanta, passando per il fascismo cui Lecce, tanto pigra quanto sarcasticamente imperturbata, riserva ironie pungenti persino al quasi concittadino Achille Starace facendo arrabbiare, negli anni, il missino Giuseppe Caradonna che bollava la città come menefreghista, assorta in altri mondi, dedita al bridge, al baccarà, alla musica e alle donne, alle corna. Le donne, insomma. Ma, attenzione, l’intimismo che sorregge la trama del libro rischia di ingannare, salvo costringerci a completare il quadro e il contesto, come a farne una metafora, un paradigma, una chiave di lettura. Certo, la sottomissione della donna al machismo dominante è una linea conduttrice e pure dal fatalismo della sonnolenza meridionale derivano considerazioni a loro volta pessimiste. Ma la chiave, come si diceva, è un’altra, ed è suggerita dall’andare e venire nel tempo delle storie personali che rispecchiano passivamente il corso degli avvenimenti, dallo sbarco sulla luna all’assassinio di Kennedy. Essa è racchiusa nello scrigno segreto della capacità della donna, qui ritratta con sagace costruzione stilistica, sia essa pragmatica o sognatrice o scalatrice, di autoriscattarsi, di ritrovare il bandolo della matassa almeno per il tempo e lo spazio di una vita, di un sogno, di una speranza. Sicché, il senso della constatazione “si è capovolto il mondo e non ce ne siamo accorte” è solo apparentemente una lapide degna comunque di “Spoon River”, ma l’alba di una consapevolezza. Di un nuovo inizio. Cose che una certa politica stenta a capire. Perché non legge.
XILELLA FASTIDIOSA: RESPONSABILITA' DI STATO.
Xylella: responsabilità di Stato.
L’inettitudine e l’imperizia dei governanti, la demagogia, l’ignoranza e la falsità di un certo mondo ambientalista e gli appetiti di coloro che ne vogliano fare un business sono più dannosi della malattia. Si vuol desertificare il Salento sterminando tutte le piante in loco. Come dire: c’è una persona malata, si annientano tutti i conviventi e tutti i suoi compaesani. E' l'Isis europea che si abbatte sul patrimonio ambientale salentino.
Il grido d’aiuto lanciato dagli alberi salentini che possono avere una vita millenaria comincia ad espandersi e diffondersi, purché non si affronti la questione con un allarmismo che non solo sarebbe inutile, ma rischia di essere dannoso. Certo, nemmeno il complottismo può funzionare quasi che i salentini siano stati vittime di chissà quale trama ordita da chi lo vuol vedere piegato agli interessi extralocali.
All’inizio il progressivo ammalarsi delle piante venne riferito ad una molteplicità di fattori tra i quali figurava anche un batterio parassita, la Xylella fastidiosa. Con il corollario della prospettazione di un pericolosissimo rischio di contagio. Quasi che il Salento fosse diventato una bomba pronta ad esplodere contaminando il resto del Paese e persino l’Europa.
Ed ecco allora che si cerca di capire chi è il responsabile.
Parlare di responsabilità dello Stato italiano: di questo sì che si può parlare.
Il dr Antonio Giangrande, scrittore e presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, autore del libro Agrofrodopolitania”, imputa al Governo la responsabilità della diffusione della malattia degli ulivi salentini e ne spiega analiticamente i motivi.
La Procura di Lecce apre un’inchiesta - al momento a carico di ignoti - per diffusione colposa della malattia degli ulivi nel Salento? I responsabili ci sono e non sono ignoti: è il Governo centrale e tutti quelli ambientalisti da strapazzo che si sciacquano la bocca con il termine “tutela dell’ambiente e della natura”, ma che in realtà sono più dannosi dei germi patogeni della Xylella. Non è una tesi campata in aria o di stampo complottistico. Ma la consapevolezza che i responsabili tanto ignoti non sono. Di sicuro vi è che il patrimonio olivicolo del Salento ha registrato un attacco grave ad opera di un processo chiamato CoDiRo (Complesso del disseccamento rapido degli ulivi).
Precisiamo che gli ulivi del Salento hanno centinaia di anni. Molti di loro erano centenari già all’epoca di Dante. Queste creature tante ne hanno viste e tanto ne avrebbero da raccontare sugli umani. «I miei ulivi stanno bene - precisa a Leccenews24 l'anziano agricoltore con gli occhi lucidi che lasciano trapelare una certa preoccupazione - ma ci sono campagne vicino alla mia dove è arrivata "quella cosa"». «Io non ci credo che non ci sia una cura, è impossibile. Guardi quest'albero, è storto, piegato su se stesso, sembra sul punto di spezzarsi da un momento all'altro. Eppure sono settant'anni che lo trovo sempre lì. Così mio padre. E mio nonno, non è bello?». Per un attimo stentiamo a capire come si fa a definire un albero "bello" poi basta guardarlo con un occhio diverso per rendersi conto che non esiste altro termine per descrivere quel tronco massiccio e contorto, che affonda le sue radici nel terreno puntellato di pietre e che si dirama verso il cielo con le sue chiome argentee e rigogliose. Queste lo sono ancora. Non una foglia marrone, non un ramo secco. Niente. A pensarci bene persino un genio della pittura come Renoir se n'era accorto, in una lettera datata 1889 scriveva testualmente «L'olivo, che brutta bestia! Non potete sapere quanti problemi mi ha causato. Un albero pieno di colori, neanche tanto grosso, e le sue foglioline, sapeste come mi hanno fatto penare! Un soffio di vento, e tutta la pianta cambia tonalità perché il colore non è nelle foglie ma nello spazio tra loro. Un artista non può essere davvero bravo se non capisce il paesaggio». L'anziano che abbiamo incontrato non sarà il maestro dell'impressionismo, ma il messaggio è più o meno lo stesso: la terra è un patrimonio naturalistico di inestimabile valore che deve essere tutelato, protetto. E i primi che dovrebbero farlo sono i contadini. Eppure sembrano essere diventati l’ultima ruota del carro, semplici spettatori di un dramma diventato ormai inarrestabile. «Le malattie ci sono da sempre, perché questa sarebbe diversa? Possibile che si possa combattere solo con l'eradicazione? Ma quando mai? - prosegue il contadino convinto che una soluzione ci sia e che basta solo trovarla – prima di prendere qualunque decisione bisogna fare molta attenzione perché i nostri ulivi, millenari e non, sono stati ottenuti mediante l’innesto della varietà (Cellina di Nardò e Ogliarola) su ceppo di selvatico resistente a ogni tipo di malattia. Non a caso i nostri uliveti sono soprannominati “uliveti reali” (così come classificate nelle carte geografiche dell’IGM) per la bellezza delle piante e la bontà delle olive e degli oli prodotti». «Non bisogna dimenticare poi che questa tipologia di alberi è riuscita anche a resistere all’incuria grazie al suo legame con la terra da cui estrae la linfa vitale per sopravvivere». «L’unico torto di questi alberi ultra secolari e alcuni addirittura millenari che sono gli unici testimoni viventi della storia dell’uomo è che non hanno mai chiesto niente a nessuno, nemmeno alle istituzioni che investono fior di milioni per un edificio storico, dove per edificio storico si intende anche un fabbricato con meno di cento anni, e delle piante non si sono mai interessati. Adesso devono pensare pure agli ulivi, che sono veri e propri monumenti. Glielo dobbiamo». «Queste cose succedono da quando abbiamo smesso di rispettare la terra – ci dice – gli ulivi sono stati dimenticati in primis dall’uomo, sono stati bistrattati, sono stati relegati in uno stato di assoluto abbandono, che solo l’inversione di rotta degli ultimi anni, forse salverà…». «Lei è favorevole all’eradicazione?» chiediamo al 70enne pur conoscendo la risposta e, infatti, perentorio, pronuncia un secco NO «al massimo si più tagliare tanto dalla radice. Usciranno dei polloni che nel giro di pochi anni possono diventare nuovi alberi di pregio, mantenendo così facendo la varietà autoctona nel nostro territorio». E poi usa un termine che strappa quasi un sorriso “scattunare”, questo bisogna fare. Prima di salutarci ci dice una frase che ci lascia un po’ l’amaro in bocca «dai batteri dobbiamo difenderci, ma se dobbiamo difenderci anche dagli uomini, siamo davvero spacciati». Quando si dice vecchia saggezza contadina.
Attenzione!!! Lo Stato Italiano, genuflesso al potere degli altri Stati europei, Francia in primis, gli ulivi li vuole eradicare, cioè sdradicare. Basterebbe tagliare il tronco in modo che germoglino nuove piante su quelle radici e in pochi anni tutto ritornerebbe allo status quo. Ma ciò non si può fare. Sarebbe troppo semplice e nessuno speculerebbe sulla disgrazia.
Eppure la strage degli ulivi in Salento diventa un caso internazionale con l'inerzia del Governo italiano che non difende il suo territorio. Nel Consiglio dei 28 ministri dell’agricoltura Ue del 16 marzo 2015, la sentenza per la Puglia: “Abbattere tutti gli alberi infettati dal batterio Xylella fastidiosa”. La richiesta è stata comunicata dal Commissario alla Salute Vytenis Andriukaitis, al Ministro italiano dell'Agricoltura, Maurizio Martina. L'eradicazione degli ulivi resta al centro della strategia Ue per contrastare la Xylella fastidiosa, il batterio killer che sta distruggendo gli ulivi del Salento. I paesi europei che si sentono più vulnerabili all'espansione del batterio Xylella, in particolare Francia, Grecia e Spagna, chiedono di abbattere almeno un decimo dei circa 9 milioni di alberi dell'area del Salento, mentre l'Italia ritiene sufficiente il piano del commissario Giuseppe Silletti, che prevede interventi più contenuti. In Italia, invece, lo scontro si è già spostato sul piano legale, dopo che la sezione di Lecce del Tar di Puglia ha accolto il ricorso di due avvocati proprietari di un uliveto a Oria, la località da cui dovrebbero partire le misure di emergenza. L’Europa ce lo chiede: “Prima di tutto dobbiamo essere molto chiari, tutti gli alberi colpiti dal batterio Xylella fastidiosa devono essere rimossi e questa è la prima cosa”. Colpi di accetta e motoseghe, dunque, su migliaia di ulivi e non solo. Anche su lecci, mandorli, ciliegi, albicocchi e tutte le altre piante, appartenenti ad almeno 150 specie, che risulteranno attaccate dal patogeno da quarantena arrivato dalle Americhe. Una raccomandazione che avrà come contraltare, in caso di mancato adempimento, l’avvio di una procedura di infrazione comunitaria. Non ha usato mezze misure il commissario europeo alla Salute e sicurezza alimentare, Vytenis Andriukaitis, al termine del Consiglio dei 28 ministri dell’agricoltura. Per Bruxelles, il contagio va contenuto dentro i confini della Puglia meridionale, a costo di applicare la soluzione più “dolorosa”. Come dire: gli abbattimenti dovranno essere ovunque, pure nei diecimila ettari intorno a Gallipoli, epicentro del contagio originario, e non solo mirati nei dodici focolai individuati e nella “fascia di eradicazione”. È questa striscia la prima sorvegliata speciale, lunga 50 chilometri e profonda 15, una sorta di fossato immaginario a cavallo tra le province di Lecce, Brindisi e Taranto. Le ruspe entreranno in azione innanzitutto lì, a tutela di una “fascia cuscinetto” al momento indenne. Tutta la penisola salentina, invece, è dichiarata “zona infetta”, sebbene sia interessata dal fenomeno solo in parte, in quaranta comuni. Spetterà agli stessi proprietari l’obbligo di tagliare le piante colpite, concetto al limite della discrezionalità, visto che sono ritenute tali quelle identificate “sia con analisi di laboratorio che con riscontro dei sintomi ascrivibili all’infezione di Xylella fastidiosa”, ma anche quelle “individuate come probabilmente contagiate”. Per chi si opporrà? Sanzioni amministrative e interventi in sostituzione da parte dell’agenzia regionale Arif. Così anche per chi non effettuerà le arature entro aprile e per chi si rifiuterà da maggio di usare insetticidi chimici.
Eppure la strage degli ulivi in Salento ha delle chiare responsabilità dello Stato italiano che ha legiferato sotto la spinta di un pseudo ambientalismo da strapazzo senza sentire i contadini. Ma andiamo per ordine. Oggi, il tanto decantato prodotto biologico profuso dagli ambientalisti ha portato i proprietari dei terreni a non trattare con prodotti naturali o chimici terreni e piante. Questa neo cultura impedisce di lavorare i terreni o le piante, con arature e concimazioni. Dietro lo spirito ambientalista, spesso, però, si nasconde la grave crisi dell’agricoltura. Non si curano i terreni e le piante per mancanza di liquidità e, perciò, si abbandonano. L’abbandono provoca l’essiccamento delle piante. Per quanto riguarda la potatura delle piante e la produzione delle stoppie i nostri antenati bruciavano in loco quanto si era potato. Ciò produceva concime e, di fatto, impediva che si propagasse l’infezione da parte di qualche pianta malata. Ma i nostri governanti, spinti dai soliti ambientalisti, ha ribaltato secolari sistemi di coltivazioni. Ricordiamo che l’art. 13 del D.Lgs. 205/2010, modificando l’art. 185 del D.Lgs. 152/2006, stabiliva che “paglia, sfalci e potature, nonché altro materiale agricolo o forestale naturale non pericolosi...", se non utilizzati in agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di energia mediante processi o metodi che non danneggiano l'ambiente o mettono in pericolo la salute umana devono essere considerati rifiuti e come tali devono essere trattati. Accendere falò in campagna per bruciare questi residui è quindi contro la legge poiché integrerebbe il reato, non solo amministrativo ma anche penale, di illecito smaltimento dei rifiuti. Sono già accaduti casi di verbali molto importanti a carico di agricoltori, sanzionati ai sensi dell' art. 256 del D.Lgs 152/2006 che prevede: “la pena dell'arresto da tre mesi a un anno o l'ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro se si tratta di rifiuti non pericolosi” come sono considerate stoppie e ramaglie.
Eppure la strage degli ulivi in Salento diventa un caso legislativo. Con il decreto legge del 24 giugno 2014 n. 91, in vigore dal 25 giugno, si risolve il problema della bruciatura delle stoppie e dei residui vegetali che ha creato tanti problemi negli ultimi anni in quanto considerati rifiuti speciali. Il comma 8 dell’art. 14 del decreto legge modifica l’articolo 256 – bis del decreto legislativo 152/2006 ( “Codice Ambientale”) relativo alla combustione illecita di rifiuti, prevedendo che tali disposizioni “non si applicano al materiale agricolo e forestale derivante da sfalci, potatura o ripuliture in loco nel caso di combustione in loco delle stesse. Di tale materiale è consentita la combustione in piccoli cumuli e in quantità giornaliere non superiori a tre metri steri per ettaro nelle aree, periodi e orari individuati con apposita ordinanza del Sindaco competente per territorio. Nei periodi di massimo rischio per gli incendi boschivi, dichiarati dalle regioni, la combustione di residui vegetali agricoli e forestali è sempre vietata.”. Ergo: Il Parlamento riconosce di aver emanato una legge sbagliata. Dalla nuova norma si capisce che il legislatore aveva fatto una gran boiata nell’alterare il naturale smaltimento dei residui di potatura. Si riconosce, inoltre, che lo spostamento di quei residui in altre aree di smaltimento ha prodotto il propagarsi del contagio.
Eppure la strage degli ulivi in Salento diventa un caso giudiziario. La procura di Lecce indaga sull’origine del batterio Xylella fastidiosa che sta decimando gli alberi di ulivo salentini. L’inchiesta, secondo quanto riferiscono alcuni quotidiani, starebbe seguendo due possibili strade. La prima è che il batterio sia arrivato in Puglia in occasione di un convegno scientifico che fu organizzato nel settembre 2010 dall’Istituto agronomico mediterraneo. Con una particolarità. Uno dei possibili indiziati, l’Istituto agronomico mediterraneo di Valenzano (Bari), “gode per legge di immunità assoluta”, spiega il pm di Lecce, titolare dell’inchiesta Elsa Valeria Mignone in un’intervista a Famiglia Cristiana. “L’autorità giudiziaria italiana non può violare il domicilio dell’istituto, non può effettuare sequestri, perquisizioni o confische”, spiega il magistrato. La seconda pista ipotizza che il batterio killer sia stato introdotto con le piante ornamentali importate dall’Olanda e provenienti dal Costa Rica. Ergo: Mancato controllo dello Stato o di Organi pubblici sull’introduzione di organismi dannosi nel territorio nazionale.
Eppure la strage degli ulivi in Salento diventa un caso finanziario. Tredici milioni di euro a disposizione del commissario straordinario per l’emergenza-ulivi. Lo ha annunciato il direttore dell’area Politiche per lo sviluppo rurale della Regione, Gabriele Papa Pagliardini. Le attività riguarderanno prevalentemente la lotta ai vettori del batterio, attraverso arature, sfalciature, potature e utilizzo di principi attivi che dovranno impedire ai cicadellidi di diffondere Xylella. Ovviamente si dovrà investire anche sulla ricerca, per sconfiggere il batterio là dove ha già attecchito (si parla di circa 40mila ettari infetti su un totale di 95mila coltivati a uliveto). Ma sulla ricerca di somme di denaro non si è parlato. Ergo: lo Stato finanzia l’estirpazione delle piante, ma non finanzia la ricerca per debellare la causa. Eppure basta poco. Basta dar credibilità a chi di piante se ne intende ed aiutarli finanziariamente a praticarne la cura.
Eppure la strage degli ulivi in Salento diventa un caso mediatico. L’idea è nata sul web, per iniziativa dello scrittore Pino Aprile, scrive Flavia Serr. Su La Gazzetta del Mezzogiorno. E dopo una valanga di «post», «tweet» e «ri-tweet», ecco che la grande mobilitazione promette di portare in piazza migliaia di persone (11mila le adesioni raccolte sulla rete). Tutti uniti sotto lo slogan «Difendiamo gli ulivi». Lo stesso grido di battaglia che è diventato un hashtag e ha inondato i social network (Facebook, Twitter e Instagram), fino a coinvolgere decine di artisti e volti noti dello spettacolo, salentini e pugliesi di nascita o «de core», mobilitati da Nandu Popu dei Sud Sound System, agguerritissima «sentinella» degli ulivi. Fra gli altri, sono scesi in campo (e ci hanno messo la faccia) Federico Zampaglione dei Tiromancino, Claudia Gerini, Emma Marrone, Samuele Bersani, Marco Mater azzi, Elio degli Elio e le Storie Tese, Fabio Volo, Raffaele Casarano, Après la classe, solo per citarne alcuni. E nelle scorse ore, anche Giuliano Sangiorgi dei Negramaro, direttamente da New York dove sta ultimando il nuovo disco del gruppo, ha pubblicato su Fb una sua foto con il cartello in mano «#Difendiamo gli ulivi». Allo scatto, ha aggiunto anche un messaggio: «Queste straordinarie creature che stanno per essere eradicate, questi alberi secolari, chiamati “ulivi”, rappresentano centinaia, per non dire migliaia, di anni della storia e della vita di un popolo, come il nostro. So poco di agricoltura o di botanica. Ma so per certo una cosa: loro (le straordinarie creature) meriterebbero una riflessione ampia e consapevole e tutti noi abbiamo diritto di conoscere, di sapere se e perchè “nostri simili” stanno per lasciare la vita terrena. Abbiamo diritto alla verità». Sangiorgi in piazza ci sarebbe venuto oggi, e col pensiero c’è. Ed è vicino a quel movimento che chiede maggiore chiarezza sulle cause del disseccamento rapido degli ulivi e su tutte le possibili cure per affrontarlo. Insieme a Sangiorgi, il resto della «famiglia » Negramaro sposa la battaglia, con il batterista Danilo Tasco e il chitarrista «Lele» Spedicat o. Già nei giorni scorsi, un fiume di altre «star» pugliesi si sono dette pronte a mobilitarsi in difesa degli ulivi: dal regista Edoardo Winspeare allo stilista Ennio Capasa, passando per i comici Nuzzo e Di Biase, i fotografi Flavio&Fr ank, fino ad arrivare al rapper Caparezza che su Twitter ha scritto: «Arruolatemi tra le sentinelle degli ulivi. Urge chiarezza sulla xylella». Così, Le Iene il 2 aprile 2015 hanno mandato in onda un servizio con Nadia Toffa sull'argomento. Fabio Ingrosso e Nadia Toffa si sono recati nel Salento dove moltissime coltivazioni di ulivi sono state infettate da un batterio molto pericoloso originario della California, di cui in Europa in precedenza non si era riscontrata alcuna traccia. Il parassita si chiama "xylella" e rischia di decimare migliaia di ulivi secolari. La UE ha chiesto misure drastiche di intervento che prevedono l'eradicazione degli alberi malati seguendo una precisa mappatura. Ma l'eradicazione, per la quale sono stati stanziati diversi milioni di euro, è davvero l'unica soluzione? La Iena lo chiede ad un gruppo di ricercatori e, in seguito, ad alcuni contadini del posto che hanno adottato delle cure naturali per provare a salvare gli ulivi. Testimonial del servizio Caparezza a Albano Carrisi, due musicisti che, come molti altri artisti si stanno schierando contro l'eradicazione degli ulivi. Toffa ha spiegato con parole molto semplici qual è la situazione, dal punto di vista geografico (cioè per quali zone si sta prevedendo l'eradicazione), ma anche dal punto di vista storico: «Fino a oggi la Xylella non aveva mai colpito gli ulivi, e non è detto che sia la Xylella a far ammalare gli ulivi» sono state le sue parole, che contribuiscono a sollevare molti dubbi su quello che sta accadendo. Sono meno di 300, ha detto Toffa, gli ulivi malati: e allora perché l'eradicazione si preannuncia tanto massiva? Il servizio de Le Iene suggerisce un metodo per risanare gli ulivi dalle parole di un agricoltore, che ha curato le sue piante malate, oggi in salute, in alcuni mesi, irrorandole con una mistura di calce e solfato di rame, un rimedio della nonna che a quanto pare, nel caso dell'agricoltore intervistato, ha sortito il suo effetto. La parola degli ulivicoltori è al momento molto importante nel Salento: un'eradicazione massiva li getterebbe sul lastrico.
Eppure la strage degli ulivi in Salento diventa una denuncia per la mancanza di volontà di trovare un rimedio curativo naturale per le piante. Quelli del movimento 5 Stelle di Tuglie hanno intervistato un agricoltore.
Domanda: Poltiglia bordolese, suggestione o via percorribile?
Risposta. Noi non interveniamo sul batterio, rafforziamo le autodifese della pianta con rimedi naturali. Non è affatto una suggestione, io curo ancora molte patologie dell’apparato respiratorio con i rimedi della nonna a base di erbe. Abbiamo solo utilizzato vecchie pratiche agronomiche, il solfato di rame è un antibatterico e un antifungino, l’idrossido di calcio (calce) è un disinfettante naturale usato da secoli. La vecchia poltiglia bordolese autoprodotta non porta ricchezza alle casse delle multinazionali dell’agrochimica. Successivamente siamo intervenuti alla radice, con un prodotto naturale a base di aglio, che alcuni ricercatori spagnoli venuti fin qui ci hanno gratuitamente consegnato per la nostra sperimentazione empirica. Ci siamo accertati che fosse un prodotto naturale e registrato e lo abbiamo usato alla base della pianta, intervenendo sulle radici.
D. Quali i sintomi della malattia?
R. La sintomatologia si nota dall’alto della chioma per poi diffondersi su tutta la branca, sino al basso della pianta. Proprio come una verticillosi.
D. Che fare appena si sospetta che l’uliveto potrebbe essere stato contaminato?
R. Noi non ci sostituiamo agli organi preposti, di certo non ci atterremo a quelle norme scellerate previste dalla quarantena che prevedono l’uso massiccio di diserbanti e insetticidi per uccidere i fantomatici insetti “vettori”.
D. E in termini di prevenzione?
R. Curare la terra e gli olivi. Una buona potatura aiuta la pianta a rivegetare, ossigenare il terreno con un leggero coltivo, ritornare alle buone pratiche dell’innerbimento e del “sovescio”: così facendo si restituisce alla pianta sostanza organica a costo zero. Disinfettare la pianta con la solita poltiglia bordolese autoprodotta (grassello di calce e solfato di rame). All’occorrenza, disinfettare e nutrire i tronchi con solfato di ferro e calce alle dosi consigliate.
D. Come si trasmette il batterio?
R. Non capisco il perché alcuni soggetti si accaniscono sul batterio e non sulla moltitudine di funghi tracheomicosi presenti sulla pianta e sulla radice. Credo che si stia facendo cattiva informazione: abbiamo perso il contatto con la realtà, e quindi dobbiamo tornare a essere più umili, prima con noi stessi e poi con madre Terra. Con la rivoluzione “verde” dettata dall’agrochimica sponsorizzata da alcune Università, abbiamo contribuito a distruggere la biodiversità e rotto quell’equilibrio biologico perfetto, frutto del creato. Io non uccido nessun essere vivente!
D. La falda inquinata, magari da rifiuti tossici, da percolato, può essere una spiegazione alla xylella?
R. Una cosa è certa: la nostra Terra è martoriata.
D. L’uso scriteriato della chimica e la smania di far produrre ogni anno le piante può aver influito sulla diffusione del batterio?
R. L’altro giorno leggevo la retro etichetta di una nota multinazionale dei diserbanti, recita così: “Buona Pratica Agricola nel controllo delle malerbe, l’applicazione degli agrofarmaci non è corretta se viene realizzata con attrezzature inadeguate”. Come possiamo ben notare, le stesse multinazionali dell’agrochimica, che prima ci avvelenano e poi ci “curano”, stravolgono il senso delle parole.
Domenica 5 Ottobre 2014 a Trani abbiamo concluso la 3 giorni del 2° meeting “Terra e Salute”, tra i relatori spiccavano alcuni nomi noti del mondo accademico, il prof. Cristos Xiloyannis e il prof. Pietro Perrino, ed erano entrambi a conoscenza della drammatica situazione in cui versano i nostri olivi, ne abbiamo parlato a lungo, sono concordi con le nostre analisi e con i nostri metodi naturali di intervento. La flora batterica è completamente assente, le sostanze nutritive di origine organica sono granelli di sabbia, la chimica non aiuta certo la pianta, anzi, contribuisce ad abbassare le autodifese.
D. L’eradicazione di cui si parla può fermare il batterio?
R. Che facciamo, applichiamo l’eutanasia agli olivi viventi? Di olivi completamente morti non ce ne sono e l’eradicazione non è una via percorribile e non risolve il problema batterio. Con i batteri e altri patogeni dobbiamo convivere, Dio non ha creato animali per essere uccisi, dobbiamo cercare il giusto equilibrio. Gli olivi sono la bellezza del nostro paesaggio agro-culturale. I nostri olivi non si toccano!
D. Posto che si eradichi, il pollione che nascerà crescerà sano?
R. Nelle zone più interessate all’essiccamento, Li Sauli, Castellana, ecc., possiamo notare che l’arbusto olivo reagisce, ma non ha la forza per mantenere tutto il peso della chioma, perché mancano le sostanze nutrienti naturali. Quindi, è la pianta che lascia morire parte di se stessa. Quando viene potata e quindi alleggerita dal suo carico, l’olivo reagisce, perché concentra le proprie energie nutritive sui pochi rami rimasti.
D. Cosa pensa dell’ipotesi che la xylella sia stata portata per boicottare l’olio di Terra d’Otranto?
R. Se sia stata importata o no, non sta a noi verificarlo, avevamo dei dubbi e per questo presentammo un esposto in Procura. Una cosa è certa: questa nostra martoriata Terra è sotto attacco, e gli avvoltoi sono troppi, la nostra Terra fa gola a molti speculatori, fa gola pure alle mafie del cemento.
D. Che interessi si giocano sul nostro olio?
R. La nostra Regione era la terra più vitata d’Italia, poi ci convinsero a estirpare circa il 30-40% deiDSC_1301 nostri vitigni, con punte del 50% nel Salento in cambio di 10-12 milioni delle vecchie lire per ha, quote cedute alle Regioni del Nord. Non vorrei che si praticasse lo stesso parassitismo per i nostri olivi: il Sud ha già dato troppo al Nord.
D. La raccolta 2014 è iniziata, la produzione calerà. Dall’estero arrivano disdette di ordini: può rassicurare il consumatore che nonostante il batterio l’olio prodotto è di ottima qualità?
R. L’attuale annata è scarsa in tutto il Bacino del Mediterraneo, e non a causa del batterio. La nostra preoccupazione è per le prossime annate, fin quando i nostri olivi non si riprenderanno. Quest’anno la produzione non sarà sufficiente a soddisfare tutte le richieste, e l’essiccamento non incide minimamente sulla qualità del prodotto. Siamo preoccupati dell’invasione di olio proveniente dagli impianti ultra-intensivi dell’Australia.
Eppure la strage degli ulivi in Salento diventa una denuncia sugli aspetti speculativi dell’ambiente. Scrive Antonio Bruno. La speculazione della Green Economy Industriale, la stessa che sta devastando impunemente il nostro Paese con pannelli e pale eoliche nelle campagne! La stessa lobby politico-imprenditoriale trasversale che ha devastato la campagna di Puglia con mega torri eoliche e che falcidia uccelli e stupra paesaggio, e con deserti sconfinati di pannelli fotovoltaici. Non un solo albero è stato piantato contro il “climate change” in Salento, contro la desertificazione, ma i suoli sono stati strappati all’agricoltura e alla vita, e desertificati artificialmente al fotovoltaico. E’ quello della Green Economy Industriale un mercato drogato da iperincentivazione pubblica e di rapina! A partire dalla costituzione della Banca Mondiale a Washington (accordi di Bretton Wood), uno dei primi obiettivi fissati fu quello di riportare ricchezza nel Salento a beneficio dei salentini, attraverso proprio l’ampio progetto di riforestazione del Salento, mediante la piantumazione massiccia di piante autoctone, ma non fu mai portato a termine! Il paradosso è che se ogni giorno sul Financial Times o sul The Guardian si parla di riforestazione inglese per combattere il “climate change”, non si riesce a capire come sia possibile che Governo, Regione e province ignorino del tutto questa necessità per il Salento, terra d’Italia con il minor numero di boschi, a causa di artificiali disboscamenti selvaggi. Mentre un tempo non lontano era tra le più verdi e pittoresche regioni d’Italia, ed era anche più ricca d’acqua in superficie, proprio grazie alla presenza del fitto manto boschivo! Una foga economica degenerante, sviluppatasi purtroppo a partire dal Protocollo di Kyoto, trasformato ingiustamente in cavallo di Troia della frode. Ora, con la scusa dei fuochi accesi stupidamente nei campi dai contadini per smaltire le ramaglie, si son giustificati inceneritori di biomasse-ramaglie, ed in realtà anche rifiuti, a fini termoelettrici, di potenze fino ad 1MW, realizzabili attraverso la incostituzionale L.R. 31/2008 della Puglia, con una semplice DIA Dichiarazione di Inizio Attività presentata al comune interessato! Un intero nocivo e pericoloso opificio industriale realizzato con una DIA! Tutto questo quando invece bastava un’ordinanza dei sindaci per vietare quei fuochi inutili fumosi ed indiscriminati nei campi, ed invitare i contadini a triturare le ramaglie e altri scarti in loco, al fine di farne compost. Non a caso nel mercato vi sono biotrituratori che triturano e spargono sminuzzati scarti vegetali e organici in generale sui suoli, che in piccolissime pezzature vanno incontro a rapidissimi processi di compostaggio naturale al suolo. Serviva alimentare queste centrali a biomasse solide con scarti locali, secondo la filiera corta, quale allora migliore trovata delle ramaglie e degli scarti di potatura dei prossimi uliveti e vigneti per giustificarne l’autorizzazione, spiegando che si sarebbe eliminato il problema dei fuochi nei campi! Problema risolto portando tutta la biomassa in uno stesso luogo, magari alle porte di una città, e accendendo lì nelle fornaci di quell’industria elettrica un fuoco perenne, 24 ore su 24! Questa l’hanno chiamata soluzione ecocompatibile! Ma allora non era meglio lasciar accendere quei fuochi sparsi nei campi, con un effetto di diluizione dei fumi anziché concentrarli tutti a danno di una comunità? E poi c'è il business del Pellet. Perché questo combustibile - definito eco - è ormai un business da diversi zero, vista l'enorme richiesta di questo combustibile. Mentre le analisi sui Pellet provenienti dalla Lituania della NaturKraft continuano ad essere eseguite nei laboratori dei reperti speciali dei Vigili del Fuoco di Roma, alcuni organi di stampa hanno riportato la notizia di altre anomalie riscontrate in Pellet prodotti da una decina di aziende italiane. Ricordiamo che i pellet devono essere prodotti con lo scarto della lavorazione di legno vergine. Ossia, è vietato il riutilizzo di legno già impiegato per altri scopi o altri prodotti. Quindi, per dirla in altre parole, deve trattarsi di materiale di scarto proveniente dalle industrie che producono e trasformano il legno vergine. Nel caso riportato da organi di stampa nazionale, sembrerebbe che questo non stia succedendo. Anzi, nei pellet si troverebbero tracce di legno utilizzate da mobilio vario, tra cui anche bare funerarie. Non solo. Il Nucleo operativo ecologico (Noe) di Treviso ha denunciato 14 persone di 10 aziende delle province di Treviso e Vicenza per la produzione di pellet da residui di lavorazione del legno di provenienza illegale. Gli investigatori hanno precisato che l’indagine non ha attinenze con i controlli sull’esistenza di presunto materiale radioattivo nei pellet in atto da alcuni giorni. La Procura di Treviso ha posto sotto sequestro un’azienda di San Michele di Piave (ritenuta la maggiore produttrice di pellet in Italia) assieme a oltre 20 mila tonnellate di legno trattato che sarebbe stato trasformato in combustibile per stufe e bruciatori. Insomma, in questi pellet si troverebbero residui di lavorazione di mobili, cornici, bare e altri prodotti trattati con vernici e colle. Perché questo? Perché gli scarti di legno trattato costano all’incirca la metà del legno vergine. Contaminato.
Ecco dimostrato. Responsabile di tutto è lo Stato e un certo ambientalismo speculativo.
Terremoto xylella. La Procura blocca le eradicazioni: dieci indagati (anche Silletti), ulivi sequestrati, scrive “Il Quotidiano di Puglia” del 18 dicembre 2015. Terremoto sul piano di contenimento della diffusione della xylella fastidiosa. La Procura di Lecce esce allo scoperto con un decreto di sequestro preventivo che blocca le eradicazioni degli ulivi. E mette sott’inchiesta i protagonisti della lotta contro l’essiccamento rapido. Primo fra tutti il colonnello della Forestale, Giuseppe Silletti, 62 anni, commissario per l'emergenza xylella e responsabile dei due piani di intervento che portano il suo nome. I nomi. Le 58 pagine di decreto di sequestro preventivo a firma del procuratore capo Cataldo Motta, dell’aggiunto Elsa Valeria Mignone e del sostituto Roberta Licci sono in corso di notificazione in queste ore e riguardano anche Antonio Guario, 64 anni, nel ruolo di ex dirigente dell’Osservatorio fitosanitario regionale di Bari; Giuseppe D’Onghia, 59 anni, dirigente del Servizio Agricoltura area politiche per lo sviluppo rurale della Regione Puglia”; Silvio Schito, 59 anni, dirigente dell’Osservatorio fitosanitario regionale di Bari, Giuseppe Blasi, 54 anni, capo dipartimento delle Politiche europee ed internazionali e dello Sviluppo rurale del Servizio fitosanitario centrale; Nicola Vito Savino, 66 anni, docente universitario e direttore del centro di ricerca, sperimentazione e formazione in agricoltura Basile Caramia” di Locorotondo; Franco Nigro, 53 anni, micologo di Patologia vegetale dell’università di Bari; Donato Boscia, 58 anni, responsabile della sede operativa del Cnr dell’istituto per la Protezione sostenibile delle piante; Maria Saponari, 43 anni, ricercatrice del Cnr dell’istituto per la Protezione sostenibile delle piante; e Franco Valentini, 44 anni, ricercatore dello Iam di Valenzano. I reati contestati. L’inchiesta dell’aggiunto Mignone e del sostituto Licci contesta violazioni colpose e dolose delle disposizioni ambientali, diffusione di una malattia delle piante, falso ideologico, turbativa violenta del possesso di cose immobili in merito all’obbligo delle eradicazioni, nonché deturpamento o distruzione di bellezze naturali. Gli sviluppi. La Procura di Lecce che indaga dopo gli esposti presentati nella primavera dell’anno scorso dalle associazioni ambientaliste, ribalta le certezze sull’efficacia del piano Silletti annunciate dall’Unione europea e dal Ministero delle Politiche agricole: non vi sarebbe prova - secondo la Procura - che la Xylella fastidiosa sia stata importata dal Costarica. Come non vi sarebbe prova dell’efficacia delle eradicazioni, anzi l’essiccamento non ha fatto altro che aumentare. Ci sarebbe invece un concreto pericolo per l’incolumità della salute pubblica con l’uso massiccio di pesticidi, alcuni dei quali vietati ed autorizzati in via straordinaria: già nel 2008, quando ancora non si parlava ufficialmente di Xylella, nel Salento ne furono impiegati 573mila 465 chili su 2 milioni 237mila 792 chili in tutta Italia. L’attenzione è tutta sui campi di sperimentazione della lebbra dell’ulivo: gli stessi dove si è poi diffusa la Xylella. Fra questi la zona fra Gallipoli, Alezio e Taviano, Lecce nel parco Rauccio, il Nord Salento fra Sud e Trepuzzi ed il Sud di Brindisi. Le istituzioni sono state accusate di aver avuto un approccio scientifico univoco che non ha fermato il disseccamento ed ha invece messo in pericolo la salute della popolazione. Gli avvisi di garanzia sono legati al provvedimento di sequestro preventivo, provvedimento che rende necessario informare le persone coinvolte nelle indagini. L'inchiesta prosegue.
Xylella, sequestrati tutti gli ulivi da abbattere: 10 indagati. C’è anche commissario straordinario Silletti. Il provvedimento della Procura di Lecce riguarda gli esemplari destinati all’abbattimento secondo il piano di contenimento del batterio. Iscritti nel registro degli indagati anche i ricercatori di Cnr e Iam. I reati contestati vanno dalla diffusione colposa di una malattia delle piante alla distruzione o deturpamento di bellezze naturali, scrive Tiziana Colluto il 18 dicembre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". Svolta nell’inchiesta della Procura di Lecce sulla diffusione del batterio Xylella fastidiosa. Sono dieci i nomi che sono stati iscritti sul registro degli indagati. Tra loro, oltre a funzionari della Regione Puglia, ricercatori del Cnr e dello Iam e componenti del Servizio Fitosanitario centrale, c’è anche Giuseppe Silletti, comandante regionale del Corpo Forestale, nelle vesti di commissario straordinario per l’emergenza fitosanitaria. Rispondono dei reati di diffusione colposa di una malattia delle piante, inquinamento ambientale colposo, falsità materiale e ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, getto pericoloso di cose, distruzione o deturpamento di bellezze naturali. I nomi sono riportati nel decreto con cui le pm Elsa Valeria Mignone e Roberta Licci dispongono il sequestro preventivo d’urgenza di tutte le piante di ulivo interessate dalle operazioni di rimozione immediata come previsto dal Piano Silletti e individuate nell’ordinanza del commissario del 10 dicembre scorso. Sotto chiave sono finiti anche tutti gli ulivi interessati dalla richiesta di rimozione volontaria “sulla base del verbale dell’Ispettore fitosanitario, in cui si rileva la presenza di sintomi ascrivibili a Xylella fastidiosa”, in esecuzione alle previsioni della nota di Silletti del 3 novembre scorso. Inoltre, sono sequestrate tutte le piante di olivo già destinatarie dei provvedimenti di ingiunzione e prescrizione di estirpazione di piante infette emessi dall’Osservatorio fitosanitario regionale. Su quei terreni, ad ogni modo, si consente qualunque intervento colturale che non sia il taglio degli alberi al colletto del tronco o la loro eradicazione. Il decreto è stato notificato a Silletti nel pomeriggio del 18 dicembre dagli agenti del Nucleo ispettivo del Corpo Forestale dello Stato. Gli altri indagati sono l’ex e l’attuale dirigente dell’Osservatorio fitosanitario regionale, Antonio Guario e Silvio Schito; Giuseppe D’Onghia, dirigente del Servizio Agricoltura Area politiche per lo sviluppo rurale della Regione Puglia; Giuseppe Blasi, capo dipartimento delle Politiche europee e internazionali e dello sviluppo rurale del Servizio fitosanitario centrale; Vito Nicola Savino, docente dell’Università di Bari e direttore del Centro di ricerca Basile Caramia di Locorotondo; Franco Nigro, docente di Patologia vegetale presso Università di Bari; Donato Boscia, responsabile della sede operativa dell’Istituto per la protezione sostenibile delle Piante del Cnr; Maria Saponari, ricercatrice presso lo stesso istituto del Cnr; Franco Valentini, ricercatore presso lo Iam di Valenzano. Nelle 58 pagine di decreto, viene ripercorsa l’intera vicenda, a partire dalla prima segnalazione dei sintomi di disseccamento degli ulivi, già dal 2004-2006 e poi nel 2008. All’inizio, però, si attribuirono le cause solo alla lebbra dell’olivo, per la quale, tra il 2010 e il 2012, sono stati anche avviati campi sperimentali “per testare prodotti non autorizzati” per combattere la malattia e per il diserbo degli oliveti con fitofarmaci Monsanto. Nelle varie tappe anche i primi convegni italiani su Xylella, come quello nell’ottobre 2010 presso lo Iam di Bari. Infine, le analisi, fatte svolgere dalla Procura su ulivi di San Marzano (Ta) e Giovinazzo (Ba), con gli stessi sintomi delle piante salentine. Hanno dato esito negativo. E per gli inquirenti questa è la prova per cui “la sintomatologia del grave disseccamento degli alberi di ulivo non è necessariamente associata alla presenza del batterio, così come d’altronde non è, ancora allo stato, dimostrato che sia il batterio, e solo il batterio, la causa del disseccamento”.
Xylella, procura di Lecce: “Ue tratta in errore. Batterio presente in Salento da 20 anni. Indagheremo su fondi emergenza”. “Non voglio dire che l’Unione Europea sia stata ingannata, ma ha ricevuto una falsa interpretazione dei fatti - ha detto il procuratore capo Cataldo Motta in conferenza stampa - l'inchiesta non è conclusa", continua Tiziana Colluto il 19 dicembre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". “L’Unione Europea è stata tratta in errore da quanto rappresentato dalle istituzioni regionali con dati impropri sulla vicenda Xylella”: è la stoccata lanciata dal procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, all’indomani del sequestro di tutti gli ulivi salentini destinati all’estirpazione e dell’avviso di garanzia a dieci indagati, tra cui il commissario straordinario Giuseppe Silletti. “Non voglio dire che l’Ue sia stata ingannata, ma ha ricevuto una falsa interpretazione dei fatti – ha ribadito Motta durante la conferenza stampa convocata in mattinata in Procura, a Lecce –. Uno dei dati non esatti è legato proprio alla diffusione recente del batterio sul territorio, ciò che è stato dato per scontato e ha motivato i provvedimenti di applicazione dei protocolli da quarantena”. Viene capovolta, così, l’intera prospettiva: secondo la ricostruzione fatta dalle pm Elsa Valeria Mignone e Roberta Licci, Xylella è presente nel Salento “da almeno 15 o 20 anni”. Cosa significa? Che “la quarantena per un batterio che sta sul territorio da tanto tempo dovrebbe essere assolutamente inutile” e, quindi, non sarebbe giustificata la proclamazione dello stato di emergenza fatta dal governo. “Ben altre sarebbero state le misure da attendersi anche a livello europeo a tutela dello Stato italiano e della Regione Puglia”, scrivono gli inquirenti. Sono bollate, infatti, come “inidonee” le drastiche misure di contenimento del parassita, quali l’uso massiccio di pesticidi e il taglio di migliaia di ulivi, tra l’altro senza la necessaria e preventiva valutazione di impatto ambientale. “I tentativi fatti in tutto il mondo – hanno spiegato i magistrati –hanno dimostrato l’inutilità dell’estirpazione. I rimedi vanno studiati e attuati con gradualità”. È quello che si ritiene sia mancato. E di fronte all’assunto, più volte ribadito dall’Osservatorio fitosanitario regionale, per cui basta la semplice rilevazione dell’esistenza di Xylella per applicare il regime di quarantena, la Procura ha ribattuto: “Quelle misure hanno un senso se l’introduzione è recente. È poi anche una questione di gradualità dei mezzi di contenimento. Se avete l’influenza non vi fate abbattere. A maggior ragione in un territorio che fonda non solo l’economia ma anche la propria immagine sugli oliveti, questo contemperamento di interessi doveva essere tenuto presente”. I test di fitofarmaci non autorizzati per combattere la lebbra dell’olivo e per diserbare i terreni sono i principali indiziati del disseccamento che ha colpito le piante. Tra il 2010 e il 2012, sono stati avviati dei campi sperimentali appositi nelle campagne intorno a Gallipoli, cuore del primo focolaio dell’infezione. In particolare, in quel periodo è stato concesso per due volte l’utilizzo in deroga, nel secondo caso prolungato, di un fitofarmaco di nome Insigna della Basf, distribuito in grossi quantitativi dai consorzi agrari ai coltivatori. “E’ possibile – scrivono i pm – che questo secondo impiego del prodotto per un periodo così lungo e senza limitazioni di trattamenti abbia scatenato l’esplosione della sintomatologia che ha poi portato alla ricerca di altri patogeni. Altamente probabile è dunque l’ipotesi che prodotti impiegati, unitamente ad altri fattori antropici e ambientali, abbiano causato un drastico abbassamento delle difese immunitarie degli alberi di olivo, favorendo la virulenza dell’azione dei funghi e batteri, tra i quali Xylella fastidiosa”. A questi si sono aggiunti i test del Roundup Platinum di Monsanto. “Quel che è dato acquisito – è riportato nel decreto – è che le due società interessate alle sperimentazioni in campo nel Salento sono collegate tra loro da investimenti comuni, avendo la Monsanto acquisito sin dal 2008 la società Allelyx (specchio di xylella…) dalla società brasiliana Canavialis ed avendo la Basf a sua volta investito 13,5 milioni di dollari in Allelyx nel marzo 2012”. Il workshop tenuto presso l’Istituto agronomico mediterraneo di Bari, nell’ottobre 2010, è una delle strade indicate dalla Procura per l’introduzione in Italia del batterio da quarantena “in violazione della normativa di settore”. Oltre al muro di gomma che i magistrati avrebbero, almeno all’inizio, riscontrato a causa del particolare regime di immunità giurisdizionale di cui gode lo Iam, gli occhi sono puntati sull’importazione di campioni di Xylella a fini di studio, in parte su vetrini e in parte tramite piantine già inoculate. I materiali, provenienti da Belgio e Olanda, avrebbero dovuto viaggiare scortati da specifici passaporti, di cui in parte, secondo gli inquirenti, si è persa traccia, tanto da parlare di “gravi irregolarità nella documentazione di accompagnamento”. “L’inchiesta non è conclusa”, ha specificato Motta. Sono almeno tre i filoni su cui si continuerà ad indagare. Il primo attiene alla destinazione dei finanziamenti piovuti sulla Pugliadopo la proclamazione dello stato di emergenza da parte del governo. Il secondo, invece, riguarda gli “inquietanti aspetti relativi al progettato stravolgimento della tradizione agroalimentare e della identità territoriale del Salento per effetto del ricorso a sistemi di coltivazione superintensiva e introduzione di nuove cultivar di olivo”. Il riferimento è all’accordo tra l’Università di Bari, “che ha gestito in maniera monopolistica lo studio” del batterio, e la spagnola Agromillora Research srl. L’intesa, approvata dal senato accademico nell’ottobre 2013, riguarda la valutazione e commercializzazione di nuove selezioni di olivo, nate dall’ibridazione di due cultivar, Leccino (considerata resistente a Xylella) e Ambrosiana. L’ateneo barese incasserà il 70 per cento delle royalties sul fatturato annuo derivante dallo sfruttamento del brevetto. Il terzo filone d’indagine riguarda la ricerca. “Da notizie in corso di verifica giunte alla polizia giudiziaria operante – è riportato nel decreto di sequestro – sembrerebbe che il Comitato (di natura tecnico-scientifica, istituito dal Ministero delle Politiche agricole e composto da 16 esperti, ndr) compia mera attività di facciata con poca possibilità di entrare nel merito dei fatti per i quali è stato istituito, in quanto i membri appartenenti al gruppo di ricerca di Bari non forniscono chiari risultati di ricerca da poter essere valutati in seno alle riunioni del Comitato”. È certo che su questo ci saranno nuovi ascolti. Ed è certo anche che ciò apre la porta all’individuazione di eventuali nuove responsabilità sull’omesso controllo in capo al Ministero delle Politiche agricole.
Ulivi malati, ricercatori sotto accusa. Motta: «Ingannata l’Unione europea». Il procuratore di Lecce parla dopo il sequestro delle piante malate. Dieci indagati, scrive Antonio Della Rocca il 19 dicembre 2015 su “Il Corriere della Sera”. «L’Unione Europea è stata tratta in errore da quanto è stato rappresentato con dati impropri e non del tutto esatti», ha spiegato il capo della Procura di Lecce, Cataldo Motta, illustrando i punti salienti dell’inchiesta sulla gestione dell’emergenza Xylella fastidiosa, il patogeno considerato concausa del disseccamento rapido degli ulivi salentini. La Procura ha disposto il sequestro degli ulivi malati e tra gli indagati, oltre a studiosi, ricercatori e funzionari della Regione, vi è anche Giuseppe Silletti, il commissario governativo per l’emergenza Xylella. «Ci siamo trovati di fronte a direttive europee, in parte molto rigorose, come l’eradicazione degli ulivi, che sono state emesse dall’Unione europea sulla falsa rappresentazione della situazione», ha specificato Motta. La Procura, che nel corso delle indagini, peraltro ancora in corso, si è avvalsa della collaborazione di un pool di periti, ha anche emanato un decreto di sequestro di tutti gli ulivi che, in base alla più recente ordinanza commissariale, dovrebbero essere abbattuti nell’ambito delle misure di contrasto alla batteriosi scoperta nel 2013 nelle campagne di Gallipoli. Secondo la Procura, inoltre, non ci sarebbe stato finora il necessario «confronto allargato» tra organismi scientifici per poter stilare adeguate strategie di contenimento della diffusione del batterio. Piuttosto, lo studio si sarebbe concentrato in un regime quasi monopolistico nelle mani di pochi ricercatori. Inoltre, ha sottolineato Motta, «non è stato accertato il nesso di causalità tra il batterio Xylella fastidiosa e la malattia», e malgrado si possa ipotizzare che il fenomeno del disseccamento sia presente nel Salento da almeno 15 anni, si è deciso, in modo inappropriato, di procedere con l’abbattimento delle piante. Un metodo che, a giudizio della Procura, non rappresenta la soluzione più idonea per combattere un fenomeno ormai diffuso e radicato da molti anni.
Xylella, il procuratore di Lecce accusa: "Europa ingannata, lucrano sull'emergenza". Per il capo dei pm Cataldo Motta alla base del caos ci sarebbe una conoscenza incompleta del problema: "Il commissario ha privilegiato solo ipotesi che portavano all'eradicazione", scrive chiara Spagnolo il 19 dicembre 2015 su “La Repubblica”)"L'Unione europea è stata tratta in inganno con una falsa rappresentazione dell'emergenza xylella fastidiosa, basata su dati impropri e sull'inesistenza di un reale nesso di causalità tra il batterio e il disseccamento degli ulivi". Per questo l'inchiesta della Procura di Lecce "indagherà anche sui finanziamenti stanziati e usati per l'emergenza, considerato che di emergenza non si tratta". Il giorno dopo il sequestro di tutti gli ulivi salentini per cui è stata disposta l'eradicazione e l'invio di avvisi di garanzia al commissario di governo e a nove fra dirigenti e ricercatori che si sono occupati del caso, è il capo della Procura leccese, Cataldo Motta, a spiegare il motivo di un provvedimento che ha posto fine ai tagli di alberi e forse anche all'esperienza del commissario Giuseppe Silletti. Alcuni ambientalisti, entrati nella stanza del procuratore poco prima della conferenza stampa, hanno applaudito e mostrato un cartello di ringraziamento ai pm che hanno condotto l'inchiesta. Sul cartello la scritta: "C'è un giudice a Lecce, anzi due. Grazie". A quest'ultimo viene contestato di avere disposto Piani inappropriati e addirittura dannosi per l'ambiente salentino, a causa del massiccio uso di fitofarmaci. E di eradicazioni a tappeto, che non sembrano affatto risolutive. Il nodo sta tutto nel fatto che la xylella è presente in Puglia "da almeno venti anni" e che allo stato esistono ben nove ceppi diversi, che ne mostrano la mutazione genetica. "Ciò escluderebbe la necessità di interventi emergenziali - ha chiarito Motta - e la stessa legittimazione della quarantena, che è stata la base da cui l'Europa è partita per imporre misure drastiche". Secondo quanto hanno accertato gli uomini del Corpo forestale (di cui fra l'altro il commissario Silletti è comandante regionale), alla base del caos xylella ci sarebbe innanzitutto una conoscenza incompleta del problema, "determinata dalla scarsità di confronto scientifico e dall'aver privilegiato solo alcune ipotesi, che portavano inevitabilmente alle eradicazioni". Per questo il sostituto procuratore Elsa Valeria Mignone - che ha coordinato l'indagine assieme alla collega Roberta Licci - si è augurata che "inizi proprio da ora un confronto scientifico vero sulla materia", al fine di individuare la strada giusta per combattere il disseccamento rapido degli ulivi. Sul fatto che i tagli non siano la scelta migliore, i magistrati non hanno dubbi: "l'eradicazione del batterio non si fa con l'estirpazione delle piante - ha chiarito il procuratore capo - E anche l'Unione europea non ha mai imposto di abbattere immediatamente tutti gli alberi malati ma di contenere la malattia, provando prima altre soluzioni". Tentativi che, a quanto pare, non sono stati fatti. E sui quali, a questo punto, bisogna ragionare perché l'Ue chiede comunque risposte che fino a pochi giorni fa si pensava dovessero pagare dalle eradicazioni. Intanto gli indagati penseranno a difendersi. I reati contestati sono diffusione colposa della malattia delle piante, falso ideologico e materiale in atto pubblico, inquinamento ambientale e deturpamento delle bellezze naturali.
Procuratore di Lecce: «Falsi i dati sulla xylella inviati all'Europa», scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 19 dicembre 2015. «L'Europa ha ricevuto una falsa interpretazione dei fatti sulla Xylella, così come realmente accaduto nel Salento. E’ stata tratta in errore da quanto rappresentato dalle istituzioni regionali con dati impropri». Lo ha detto il procuratore della Repubblica di Lecce, Cataldo Motta nel corso di una conferenza stampa che si è tenuta stamattina per illustrare i presupposti dell’inchiesta che ha portato al sequestro di tutti gli ulivi delle province di Brindisi e Lecce interessati da provvedimenti di abbattimento decisi nel corso dell’ultimo piano redatto dal commissario straordinario Giuseppe Silletti. «L'indagine non è compiuta» ha specificato poi il procuratore Motta in riferimento all’inchiesta sulla gestione dell’emergenza Xylella fastidiosa che ha portato ieri all’emissione di un decreto di sequestro d’urgenza a firma dei magistrati Elsa Valeria Mignone e Roberta Licci che indagano su dieci persone tra cui anche il commissario straordinario per l'emergenza Xylella, Giuseppe Silletti. Accertamenti sarebbero in corso - a quanto si è appreso - anche sulla modalità di concessione e utilizzo dei finanziamenti pubblici. L’inchiesta parte dal presupposto, ha spiegato Motta: «che non è stato accertato il nesso di causalità tra il complesso del disseccamento rapido degli ulivi e la Xylella Fastidiosa». «Abbiamo trovato alberi non colpiti da disseccamento che sono però risultati positivi alla Xylella - ha detto Motta - e alberi secchi che non sono invece risultati contagiati». Hanno applaudito e mostrato un cartello di ringraziamento ai due pm che hanno condotto l'inchiesta, Elsa Valeria Mignone e Roberta Licci, alcuni ambientalisti che hanno fatto ingresso nella stanza del procuratore della Repubblica di Lecce, Cataldo Motta, poco prima della conferenza stampa. Sul cartello mostrato c'è scritto: "C'è un giudice a Lecce, anzi due. Grazie".
Terremoto xylella, il governatore Emiliano: "Il provvedimento è una liberazione", scrive “Lecce Sette” sabato 19 dicembre 2015. Il commento del governatore di Puglia, Michele Emiliano, in relazione alla svolta nelle indagini della Procura di Lecce sull'affaire Xylella. “La notizia del provvedimento di sequestro da parte della Procura della Repubblica di Lecce è arrivata come una liberazione. Finalmente avremo a disposizione dati tecnici ed investigativi per discutere con l’Unione Europea della strategia finora attuata per contrastare la Xylella, fondata essenzialmente sull’eradicazione di massa di alberi malati e sani”. Così in una nota il governatore Michele Emiliano, a poche ore dalla notiza della clamorosa svolta nelle indagini della Procura di Lecce sull'affaire xylella. “Questa strategia viene messa totalmente in dubbio dalle indagini effettuate da magistrati scrupolosi, prestigiosi e notoriamente stimati per la prudenza che li ha sempre contraddistinti nell’esercizio delle funzioni – commenta - Credo anche che possiamo considerare chiusa la fase della cosiddetta emergenza. La malattia è ormai insediata, e non può più essere totalmente debellata. Dobbiamo dunque riscrivere da zero le direttive da impartire agli agricoltori e a tutti gli altri soggetti interessati, che potranno consistere in tutti quegli atti e quelle azioni che non comportino l’eradicazione delle piante”. “In questi mesi la Regione Puglia ha sempre ribadito alla Procura della repubblica di Lecce la sua disponibilità a fornire collaborazione alle indagini in corso. E anche oggi ribadisco questa disponibilità assieme alla piena fiducia negli uffici giudiziari leccesi. Mi sento di dire che questo intervento è l’equivalente di quello della magistratura tarantina nel caso Ilva”, si legge nella nota e conclude: “La Regione Puglia è persona offesa degli eventuali reati commessi si riserva di indicare elementi di prova che possano contribuire all’accertamento della verità. In caso di rinvio a giudizio si costituirà parte civile nei confronti di tutti gli imputati”.
Xylella, M5S: Emiliano chieda scusa agli agricoltori, scrive “Inchostro Verde” il 19 dicembre 2015. Accolgono con estrema soddisfazione la decisione della Procura di bloccare le eradicazioni i Consiglieri regionali del Movimento 5 Stelle. Le indagini dei magistrati si incardinano infatti sulle stesse tesi che i pentastellati ribadivano da tempo sia in Consiglio regionale che nelle piazze pugliesi e che sono state oggetto di una mozione votata all’unanimità dal Consiglio solo qualche giorno fa. In merito alle dichiarazioni di Emiliano replicano così: “Oggi, Emiliano, con la sua Giunta, dovrebbe solo tacere” dichiarano Rosa Barone, Gianluca Bozzetti, Cristian Casili, Mario Conca, Grazia Di Bari, Marco Galante, Antonella Laricchia e Antonio Trevisi “proprio lui che aveva promesso di scatenare l’inferno in campagna elettorale contro la Xylella e che non ha fatto nulla se non limitarsi ad istituire un tavolo multidisciplinare sul tema identico a quello proposto dal M5S. Addirittura usando le stesse parole per definirlo e convocando gli stessi esperti che il M5S aveva dichiarato di voler coinvolgere. Proprio lui Presidente di una Regione che ha osato arrivare a costituirsi contro quei poveri agricoltori che hanno dovuto subire passivamente la distruzione dei loro terreni e che si “erano azzardati” a fare ricorso. Dopo aver deliberato per le eradicazioni, aver richiesto al Ministero l’accelerazione di queste procedure, questo dovrebbe essere il giorno della vergogna. Quelle parole che oggi usano per guadagnare qualche titolo sulla stampa piuttosto le usino per porgere le loro scuse agli agricoltori e ai cittadini nei comitati, con le loro decisioni li hanno soltanto umiliati. Oggi Emiliano parla di “soddisfazione perchè finalmente qualcuno ha portato delle prove” ma mente sapendo di mentire perchè quelle stesse prove le aveva portate il Movimento 5 Stelle in Regione Puglia da mesi, aveva convocato addirittura esperti che ripetevano le nostre stesse tesi ed aveva presentato una mozione votata all’unanimità dall’intero Consiglio Regionale (su cui Emiliano e la sua Giunta si erano invece vergognosamente astenuti) ed incardinata sulle stesse identiche tesi che oggi anche i magistrati portano avanti. Quali altre prove aspettava Emiliano che il Movimento 5 Stelle non gli avesse portato sotto gli occhi da tempo?”. I 5 Stelle non risparmiano una stoccata neanche le altre forze politiche: “Non possiamo non ricordare inoltre che, affinchè fosse votata in Consiglio Regionale, la nostra mozione ha dovuto subire delle modifiche perchè per i vecchi partiti ‘i nostri termini erano troppo forti’. Oggi invece tutti si spellano le mani nell’applaudire i magistrati. Saremmo felici di constatare che non è mai troppo tardi per cambiare idea se non fosse che la loro incoerenza ha lasciato morire migliaia di alberi e le speranze degli agricoltori. Se fossimo stati noi ad amministrare questa regione, tutto ciò non sarebbe mai successo”.
Xylella, la denuncia di "Nature": in Italia ricercatori sotto accusa come per il sisma a L'Aquila. La prestigiosa rivista scientifica dedica sul proprio sito un articolo sull'inchiesta della Procura di Lecce che ha chiamato in causa, insieme col commissario straordinario Silletti, anche nove ricercatori, scrive “La Repubblica” il 22 dicembre 2015. Indice puntato contro i ricercatori ancora una volta in Italia: lo rileva la rivista scientifica internazionale Nature, che sul suo sito dedica un articolo alla diffusione della xylella in Puglia e ai nove ricercatori sospettati di avere avuto un ruolo nella diffusione del batterio che ha gravemente danneggiato gli uliveti. Nell'inchiesta è coinvolto anche il commissario straordinario Giuseppe Silletti. Non è la prima volta che in Italia i ricercatori salgono sul bando degli accusati: è già accaduto nella vicenda giudiziaria seguita al terremoto dell'Aquila, con sette ricercatori sul banco degli accusati (sei dei quali assolti dalla Cassazione nel novembre scorso). Nella conferenza stampa del 18 dicembre scorso, citata anche da Nature, i magistrati avevano additato l'attività scientifica effettuata da ricercatori di Università di Bari, Istituto agronomico mediterraneo (Iam) di bari e Centro di ricerca e sperimentazione in agricoltura Basile Caramia di Locorotondo (Bari). Per i magistrati, come ha ampiamente riferito Repubblica nei giorni scorsi, sono i "protagonisti assoluti e incontrastati nella storia xylella". Nessuna dichiarazione in merito da parte dei ricercatori. Uno degli accusati, il responsabile dell'unità di Bari dell'Istituto per la protezione sostenibile delle piante del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), Donato Boscia, ha detto di essere "certo che emergerà quanto prima la nostra completa estraneità". Il sospetto, per lui come per gli altri ricercatori, è di aver diffuso il batterio e presentato false documentazioni alle autorità giudiziarie, oltre che di inquinamento ambientale e deturpazione del paesaggio naturale. "Sono accuse folli", ha detto a Nature Boscia, che non ha intenzione di commentare una vicenda sulla quale è in corso un'indagine. Computer e documentazione dei ricercatori erano stati confiscati nel maggio scorso e da allora, osserva la rivista, "non è stata resa nota alcuna evidenza contro i ricercatori". Eppure, prosegue Nature, permane il sospetto che la xylella sia stata importata dalla California in occasione di uno workshop organizzato nel 2010 dall'Istituto agronomico mediterraneo. Più volte in passato, tuttavia, i ricercatori hanno affermato che in quell'occasione non era stata utilizzata la xylella. Nature rileva che il ceppo di xylella diffuso in Puglia, originario di Costa Rica, Brasile e California, è stato identificato per la prima volta in Europa, nell'Italia meridionale, nel 2013. Per la maggior parte dei ricercatori, conclude la rivista, è molto probabile che il batterio sia arrivato in Italia con piante ornamentali importate dal Costa Rica.
Xylella, l'ombra del complotto con le multinazionali. I pm: "Il batterio importato durante un convegno". I magistrati leccesi sono convinti che, al contrario di quanto sostenuto da Università e Istituto agronomico del mediterraneo (Iam), il batterio sia stato importato dallo Iam nel corso dell'evento nel 2010, scrive Giuliano Foschini su "La Repubblica" del 20 dicembre 2015. Mettiamola così: se ha ragione la Procura di Lecce, si tratta del più grande complotto mai realizzato da attori istituzionali ai danni di un territorio e della loro principale ricchezza: la natura. Università, politica, centri di ricerca, multinazionali, tutti insieme per un piano diabolico e infame. Se invece i magistrati di Lecce stanno sbagliando, si tratta di un attacco violentissimo alla scienza. Per capire come stanno le cose sarà quindi necessario aspettare le prossime settimane, quando altre istituzioni, a partire dall'Unione europea passando dal governo italiano, dovranno evidentemente dire qualcosa. Prendere una posizione. Perché mai come in questo momento è opportuno sapere. La prima domanda da farsi è: il batterio della xylella causa l'essiccamento degli ulivi? Su questo la comunità scientifica aveva pochi dubbi: sì. E invece la Procura, sulla base di altre perizie, nel decreto di sequestro spiega esattamente il contrario. "E' stata fornita una falsa rappresentazione della realtà con riguardo all'asserito, ma assolutamente incerto, ruolo specifico svolto dalla xylella fastidiosa nella sindrome del disseccamento degli alberi di ulivo - si legge negli atti - e con riguardo all'asserita, ma assolutamente incerta, presenza nel Salento di una popolazione omogenea del batterio e della sua recente introduzione dal Costa Rica. I magistrati sono convinti che, al contrario di quanto sostenuto da Università e Istituto agronomico del mediterraneo (Iam), il batterio sia stato importato dallo Iam nel corso di un famoso convegno del 2010. Che dai documenti che attestavano l'ingresso in Italia della xylella "emergessero gravi irregolarità". E che la documentazione originale non è mai stata ritrovata anche perché i ricercatori dello Iam avrebbero finto di cercarle nel corso della perquisizione. Ma non basta: la Procura, senza per il momento fare contestazioni formali, nota due cose: la prima è che ci sono interessi nella diffusione del batterio. Chi, per esempio, ha puntato su nuovi tipo di coltivazioni dell'olivo come la Sinagri srl, spin off dell'Università di Bari, che lavora con Iam e Basile Caramia, gli enti incaricati dei controlli sulla xylella. E che ha tra i suoi 'amici' i professori Vito Savino, all'epoca preside della facoltà di Agraria; Angelo Godini, "fautore dell'eliminazione del deviato degli alberi di ulivo e in particolare di quelli monumentali ", e Giovanni Paolo Martelli, "lo stesso che poi suggerirà, in base a una mera "intuizione" di fine agosto 2013, di indagare la presenza della xylella quale causa dei fenomeni di disseccamento dell'ulivo". "Savino, Godini e Martelli - scrive ancora la Procura - condividono peraltro un medesimo approccio culturale nell'Accademia dei Georgofili, di cui fa parte anche il professor Paolo De Castro, già ministro dell'Agricoltura e attualmente eurodeputato, che ha riferito in commissione proprio sulla questione xylella". Negli atti è poi raccontato uno strano episodio: nel 2010-2011 in Salento si tengono "campi sperimentali di nuovi prodotti contro la 'lebbra dell'olivo', epoca prima della quale - nota la Procura - non era esploso il fenomeno del disseccamento rapido". Per questo motivo li ministero autorizza l'uso di alcuni diserbanti particolari, per un periodo limitato di qualche mese, in zone specifiche del Salento. La Forestale ha contattato alcuni dei proprietari dei terreni e altri testimoni: raccontavano di aver visto in quel periodo persone che "in abiti civili, con tute bianche modello 'usa e getta' in dotazione alla polizia scientifica, si aggiravano fra gli olivi con in mano dei barattoli di colore blu e bianco. Effettuavano anche alcune manovre, alla base degli alberi". Gli alberi avevano dei cartelli. Bene: durante il sopralluogo della polizia giudiziaria, si è notato che "la maggior parte degli alberi di olivo, sui quali erano stati appesi i cartelli, erano quasi completamente bruciati: alcuni mesi addietro si era sviluppato un incendio". Strano, perché aveva colpito alcuni alberi e alcuni no. "Sembrerebbe che abbiano colpito - dice la procura soltanto quelli legati alla sperimentazioni della "Lebbra dell'olivo" ovvero la prove in campo del Roundpop Platinum della Monsanto. L'incendio dovrebbe essere dunque di natura dolosa con finalità di eliminare ogni possibile traccia di quanto fatto sugli alberi ". Che cos'è la Monsanto? E' un leader nella realizzazione dei pesticidi. Ed è la stessa ditta che finanza un convegno sulla xylella nel 2010, nel quale "presenta un progetto di nome Gipp per la buona pratica di diserbo nell'oliveto di Puglia". La pratica prevede una serie di interventi compreso l'uso di un diserbante totale che serve per mantenere "pulito da erbacce l'oliveto". Bene, si tratta proprio del Roundpop, lo stesso che avrebbe potuto bruciare quegli ulivi. E' la stessa società che nel 2007 ha acquisito la società "Allelyx - scrive la Procura - Parola specchio di xylella...".
Xylella, Bruxelles a pm di Lecce: “Dati non sbagliati, avanti con taglio degli ulivi”. Ma i test furono condotti in serre bucate. Enrico Brivio, portavoce dell'Esecutivo comunitario per l'Ambiente, la Salute e la Sicurezza alimentare, risponde a Cataldo Motta, capo della procura salentina, che sabato scorso aveva parlato di una "falsa interpretazione dei fatti". La rimozione degli alberi, quindi, deve continuare. Ma dalle carte dell’inchiesta emerge uno dei dettagli più pesanti: le prove di patogenicità sono state condotte all’interno di vivai non a norma, scrive Tiziana Colluto il 22 dicembre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". L’Ue tira dritto sull’emergenza Xylella, nonostante l’alt della Procura di Lecce: la Commissione europea “non ha al momento alcuna indicazione del fatto che l’Italia le avrebbe comunicato dati sbagliati”, ha detto il portavoce dell’Esecutivo comunitario per l’Ambiente, la Salute e la Sicurezza alimentare, Enrico Brivio. Dunque, avanti con le procedure di eradicazione del batterio, comprese quelle di abbattimento degli ulivi. “Se gli alberi sono sotto sequestro, non si possono toccare”, si mette di traverso il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, che ha chiesto ai pm di essere ascoltato come persona offesa e di acquisire il decreto di sequestro e le consulenze allegate per inviarle a Bruxelles. In quelle carte, tra le varie prove raccolte, c’è qualcosa di clamoroso: i test di patogenicità, vale a dire la prova del nove del rapporto di causa-effetto tra Xylella e disseccamento delle piante, sono stati condotti in serre bucate, non a norma, e sono stati avviati cinque mesi prima dell’autorizzazione rilasciata dall’Osservatorio fitosanitario nazionale. L’Ue: “Le misure vanno attuate” – Quella di Brivio è la risposta implicita alle parole del procuratore capo: “Non voglio dire che l’Ue sia stata ingannata, ma ha ricevuto una falsa interpretazione dei fatti. E’ stata tratta in errore da quanto è stato rappresentato con dati impropri e non del tutto esatti”, aveva detto Cataldo Motta, nella conferenza stampa di sabato mattina. “La Commissione europea non commenta le inchieste giudiziarie in corso”, ha replicato il portavoce dell’Esecutivo comunitario, ricordando che due settimane fa l’Ue ha messo in mora l’Italia per non aver pienamente realizzato il piano contro la Xylella. “E’ molto importante che queste misure siano attuate”, ha ribadito, poiché, laddove si è diffusa, “la Xylella è uno dei patogeni delle piante più pericolosi, con un enorme impatto economico sull’agricoltura”. Come ammesso dallo stesso Brivio, “resta da capire pienamente il ruolo specifico svolto dalla Xylella e le sue implicazioni” nella diffusione della sindrome del disseccamento rapido degli ulivi in Salento; tuttavia, il batterio “è stato trovato in piante giovani che mostravano i segni della sindrome e che non avevano altri patogeni”. Dunque, nessun passo indietro su quanto dettato da Bruxelles nella decisione di esecuzione di maggio e recepito dal Ministero delle Politiche agricole e dal commissario straordinario Giuseppe Silletti, anche lui tra i dieci indagati. I provvedimenti prevedono la rimozione degli alberi infetti e delle piante potenziali ospiti in un raggio di cento metri, nei focolai fuori dalla provincia di Lecce, soprattutto nel Brindisino. Tagli congelati, per il momento, prima dal Tar Lazio e ora dalla Procura. Sulla stessa sponda dell’Ue ci sono la Società Italiana di Patologia Vegetale e la Società Entomologica Italiana, che si dicono “sconcertate” dal decreto di sequestro degli ulivi. Per il tramite dei loro rispettivi presidenti, Giovanni Vannacci e Francesco Pennacchio, entrambe affermano di non essere a “conoscenza di nuove evidenze sperimentali, validate dalla comunità scientifica, tali da modificare le linee guida già espresse nel documento rilasciato al termine del convegno nazionale”, organizzato sull’argomento il 3 luglio scorso a Roma. “Le motivazioni degli interventi di contenimento – aggiungono – originano dal solo riscontro della presenza di un organismo da quarantena qual è Xylella fastidiosa, e non dal nesso di causalità tra questo e la sindrome di disseccamento rapido dell’olivo. Le solide basi di conoscenza fornite dalla ricerca internazionale, recepite dall’Ue e dalle organizzazioni fitoiatriche nazionali e internazionali, consentono di concludere che la diffusione di X. fastidiosa sul territorio nazionale ed europeo aprirebbe prospettive drammatiche per l’agricoltura. La misura del suo potenziale impatto economico può essere stimata dal confronto con episodi precedenti, quale la diffusione in Brasile di questo patogeno, ritenuto responsabile di danni per circa 100 milioni di euro l’anno”. Eppure, per gli inquirenti a traballare è l’impianto stesso su cui si fondano i piani di contenimento del batterio. La consulenza allegata al decreto “ha posto in serio dubbio – hanno scritto i pm – l’attendibilità delle conclusioni scientifiche rappresentate all’Europa e che hanno costituito il presupposto delle determinazioni assunte sia a livello europeo che a livello nazionale”. Il riferimento è soprattutto alla presenza di più ceppi, e non di uno solo, di Xylella sul territorio: almeno nove, segno di una presenza del patogeno sul territorio “da 15-20 anni”, così tanti da non poter giustificare, secondo la Procura, lo stato di emergenza. I protocolli da quarantena, a suo avviso, sono stati tradotti in un “piano di interventi univocamente diretto alla drastica e sistematica distruzione del paesaggio salentino, benché costituisca ormai dato inconfutabile che l’estirpazione delle piante non è assolutamente idonea né a contenere la diffusione dell’organismo nocivo né a impedire la diffusione del disseccamento degli ulivi né tantomeno a contribuire in alcun modo al potenziamento delle difese immunitarie delle piante interessate”. Cuore delle indagini resta l’assenza di un dimostrato nesso di causalità tra Xylella e disseccamento degli ulivi. Ad appurarlo dovranno essere i test di patogenicità svolti dal Cnr di Bari. Ma quali? È su questo che, dalle carte dell’inchiesta, emerge uno dei dettagli più pesanti: quelle prove sono state condotte all’interno di serre non a norma. Il5 novembre scorso, infatti, la polizia giudiziaria e uno dei consulenti tecnici della Procura hanno fatto un sopralluogo nel vivaio dell’Arif (Agenzia regionale per le risorse irrigue e forestali), in contrada Li Foggi, a Gallipoli, culla dell’infezione. È quello uno dei luoghi in cui sono state messe a dimora numerose piantine di varie specie, nelle quali Xylella è stata veicolata mediante infezione naturale da parte del vettore e inoculo artificiale del batterio. I risultati sono destinati, molto probabilmente, ad essere invalidati: “La rete della serra presentava una grossa fessura che ne permette il contatto diretto con l’esterno e che pertanto non è garantito l’isolamento totale delle piante in essa allocate per la sperimentazione”. Non una sottigliezza, dunque. Tra l’altro, quelle prove sono iniziate a partire dal 4 luglio 2014, mentre il Cnr è entrato in possesso della necessaria autorizzazione alla detenzione e manipolazione del patogeno da parte del Servizio fitosanitario nazionale solo il 16 dicembre 2014.
«Xylella, attacco al paesaggio», scrive Pino Ciociola il 23 dicembre 2015 su “Avvenire”. Territorio sotto attacco. Affaire Xylella: dai «protagonisti istituzionali e non», c’è stata «perseveranza colposa, tale da sfiorare la previsione dell’evento se non il dolo eventuale, nell’adozione di un piano d’interventi univocamente diretto alla drastica e sistematica distruzione del paesaggio salentino». Si legge a pagina 51 dell’'Ordinanza di sequestro preventivo d’urgenza' degli ulivi, firmata dalle pm Elsa Valeria Mignone e Roberta Licci e dal capo della Procura leccese, Cataldo Motta. Altro «dato inconfutabile» (fra molti): «Proprio le misure imposte dai Piani Silletti, ivi compreso l’uso massiccio dei pesticidi, rappresentano un serio rischio per l’incolumità pubblica». E ancora, «è stata fornita una falsa rappresentazione della realtà riguardo all’asserito, ma assolutamente incerto, ruolo specifico svolto dalla Xylella nella sindrome del disseccamento degli ulivi». Insomma, la realtà è «molto più articolata e complessa» di quella riportata «alla Comunità Europea». E col «serio dubbio» sull’«attendibilità » di quelle conclusioni scientifiche rappresentate all’Europa», ma che sono state «il presupposto delle determinazioni assunte a livello europeo e nazionale». Il capo della Procura leccese l’aveva spiegato sabato scorso: «Le indagini non sono compiute» e ne appaiono chiari i motivi scorrendo l’ordinanza, emessa insieme a 10 avvisi di garanzia. Ricostruzione con prove e testimonianze (queste ultime a volte false o contraddittorie) di quanto 'accade' dal 2009, cioè quando «appare già indubbio sia databile il fenomeno del disseccamento degli ulivi in Salento». Lunga storia dalla quale, per gli inquirenti, «emerge chiaramente la colposa inerzia degli organi preposti al controllo fitosanitario nazionale e della Regione Puglia nell’attenzionare l’ingravescente fenomeno del disseccamento degli ulivi» e «l’assoluta imperizia dei suddetti organi e dei soggetti con essi interfacciatisi quali unici interlocutori, vale a dire Iam, Università di Bari e Cnr». Il lavoro della Procura appare certosino, le sue conclusioni anche. È «ormai dato inconfutabile – scrivono i magistrati – che la estirpazione delle piante non è assolutamente idonea né a contenere la diffusione del disseccamento, né a contribuire al potenziamento delle difese immunitarie delle piante», anzi dov’è stata realizzata, per esempio a Trepuzzi, «ha comportato una esplosione del fenomeno del disseccamento!». Fra gli altri dati «acquisiti», poi, c’è che «almeno dal 2013» si sapeva come «al disseccamento rapido dell’ulivo contribuissero diverse concause» e che «la manifestazione della sintomatologia del disseccamento non sia necessariamente correlata alla presenza della Xylella». Passo indietro. I primi anomali disseccamenti sugli ulivi vengono notati nel 2008 nelle campagne fra Gallipoli, Racale, Alezio, Taviano e Parabita. Ed è sempre «dato conclamato» che negli anni 2010/2011 e 2013 «sono state condotte in territorio salentino sperimentazioni anche con l’uso di prodotti fortemente invasivi». Torniamo ai giorni nostri. Da marzo scorso alcuni agricoltori si accorgono che uomini in tu- ta bianca («Modello 'usa e getta' in dotazione alla polizia scientifica», spiega la Procura) si aggirano fra gli ulivi con barattoli di vernice blu e bianca, affiggono cartelli con la scritta «Campo sperimentale». Accade che poi questi ulivi brucino e qualche volta stranamente o miratamente. Morale? «Si ritiene – scrive la Procura – che l’incendio di ulivi sui quali sarebbero avvenute le sperimentazioni legate alla 'lebbra dell’ulivo', ovvero le prove in campo del Roundop Platinum della Monsanto, sia di natura dolosa con finalità d’eliminare ogni possibile traccia di quanto fatto sugli alberi». Nuovo passo indietro: la multinazionale aveva promosso a Bari nel 2013 il 'Progetto Gipp', con l’utilizzo del 'Roundup Platinum' del Roundup 360 power con glifosato e l’'Area manager Centro Sud' della Monsanto, Lino Falcone, raccontava che «il 'Progetto Gipp' non nasce dal caso, abbiamo lavorato due anni per studiare la situazione malerbologica nell’uliveto pugliese e individuare gli aspetti critici». Infatti il Roundup è un diserbante totale – annota la Procura leccese – e il glisofato «si trasmette nel terreno, predispone le piante a malattie e tossine» e provoca diverse altre conseguenze. L’11 settembre 2014 c’è un’altra serata di presentazione del Progetto Gipp e del Roundup platinum, stavolta nel leccese, in un resort a Lequile. Detto che «non è pervenuta risposta» alla richiesta d’informazioni «sulle aree interessate da campi di sperimentazione all’Osservatorio Fitosanitario regionale», i magistrati vanno avanti: «Le due società interessate alle sperimentazioni in Salento, Monsanto e Basf, sono collegate da investimenti comuni, avendo la Monsanto acquisito dal 2008 la società Allelyx (leggete la parola al contrario... ndr) dalla società brasiliana Canavialis e avendo la Basf nel marzo 2012 investito 13,5 milioni di dollari nella 'Allelyx'». Contattata, l’azienda rimanda al suo blog: «Non c’è nessuna ragione plausibile per cui Monsanto, i cui prodotti servono ad aiutare gli agricoltori, farebbe qualcosa che può causare problemi agli olivicoltori italiani», si legge ad esempio sull’Affaire Xylella. La Procura non ha dubbi: dai primi disseccamenti e «senza che ne fossero state individuate le cause – si legge nell’Ordinanza –, sono state condotte in territorio salentino sperimentazioni anche con l’uso di prodotti fortemente invasivi, tanto da essere vietati per legge, in un contesto di grave compromissione ambientale» e senza «alcun previo studio sull’impatto che avrebbero avuto sull’ambiente». Ma l’Affaire Xylella è appunto complesso. Ci sono – sottolinea la Procura leccese – laboratori che «hanno effettuato analisi e ricerche su campioni di ulivo senza il necessario accreditamento» e 10 mesi prima di ottenerlo, come il Centro di ricerca, sperimentazione e formazione in agricoltura 'Basile Caramia' (a Locorotondo). L’Università di Bari che «ha effettuato prove in campo e serra senza la necessaria autorizzazione» e 4 mesi prima di ottenerla. A proposito. Pagina 35 fra le 59 dell’Ordinanza: «Ciò che è emerso è che in Salento potrebbero esserci più ceppi differenti» di Xylella, «per lo meno nove!» e «nonostante i ricercatori del Cnr di Bari Donato Boscia e Maria Saponari in più occasioni ufficiali sostengano essercene uno solo».
LA PAROLA CAZZO NEL DIALETTO SALENTINO.
Nessuno se ne abbia a male se il contenuto di questo scritto è un po' volgare... nel nostro dialetto molti concetti, anche molto diversi, vengano riassunti da un'unica semplice parola: "cazzo" ....diciamo come i puffi sostituivano tutti i verbi con il verbo puffare. "Cazzo" in italiano è una brutta parola, ma nel nostro dialetto è molto importante in quanto insieme ad altre spiega chiaramente il senso della vita....In Italiano la parola CAZZO risulta volgare, nel dialetto salentino invece è usata comunemente per sottolineare e accentuare i concetti. Scopriamo degli esempi:
Non saprei = cce cazzu ne sacciu
Chi se ne importa = cce cazzu me na futtu
La situazione è grave = mo su cazzi
Sei proprio testardo = sinti propriu na capu de cazzu
Hai la faccia tosta = tieni la facci ti cazzu
Chi sei? = ci cazzu sinti?
Non ti ho mai visto prima = chi cazzu te canusce
Chi ti credi di essere = ci cazzu ti criti ca sinti?
Non valete niente = non baliti nu cazzu
Mi fai cadere le braccia = e cce cazzu
Grazie, ma lo sapevo già = grazie allu cazzu
Ti stai ponendo con aria un po’ troppo saccente = sta ‘rrivi bellu bellu cazzu cazzu
Chi ti autorizza a parlarmi in questo modo? = ma ci cazzu sinti tie?
Mi stai chiedendo qualcosa che io posso darti = ma cce cazzu vuej de mie?
Non dovresti interessarti ai fatti che non ti riguardano = fatti li cazzi toj
Sei una persona un po’ assillante = sinti propriu nu cacacazzi
Non ti stai impegnando a sufficienza = nnu ‘mbali nu cazzu
Non ti ho mai visto prima = chi cazzu te canusce
Dove sei? = addu cazzu stai
Dove sei stato? = a du cazzu si statu??
Dove sei andato? = addo cazzzu sisciutu
Con chi sei uscito? = cu ci cazzu si statu?
Non riesci a masticare? = non dai cazzu?
Hai un’ottima capacità di schiacciare (le noci con i denti) = Tei nu bellu cazzu
Schiacciare mandorle = addu fatichi allu cazzu e quanto guadagni 5 lire e lu cazzu francu
Non riesco a masticare = mi manca lu cazzu
Che disgrazia ci è capitata = Capu ti stu cazzu!!! Ce cazzanculu ca mu cappatu!!!!
Ti hanno fatto un bidone= hai piatu nu cazzunculu
Ti hanno fatto un regalo = ce cazzu ete? ci cazzu l'ave ndutu?
Mi hai pestato il piede = m'ha cazzatu lu pede
Che mangi oggi? = ci cazzu mangi osci?...
Non sono affari tuoi = nu su cazzi toi
E mo li rivedi i soldi prestati = Cu lu cazzu ca me tae li sordi
Niente di niente! = Cazzi ttaccati cu li mazzi
Caspita! Accipicchia! = Capu de stu cazzu
Adesso basta! = m'a cagatu lu cazzu?
Mi offenderei. Oltre al danno, La beffa = lu cazzu nun è ca te ncazzi...ete ca te toli
Con chi mi pare = cu ci cazzu me pare... e cu ci cazzu voiu
Non ho niente = No tegnu nu cazzu
Chi ti vuole = ma ci cazzu ti voli
Fatti i fatti tuoi- fatte li cazzi toi!
Non devi guardare proprio niente = no a uardare propriu nu cazzu
Dove andiamo? = a du cazzu amu scire???
Non abbiamo capito niente = imu kina nà casa de cazzi ma nn imu capitu nu cazzu!!
E ti pareva = e nà cazzuu!!
Oggi sarà dura = osce so cazzi amari
Questo sì che è un bel pasticcio = quistu si ca è nu bellu cazzunculu!
Che brutto tempo!! = Che cazzu de tiempu
Non abbiamo risolto niente = imu dittu missa allu cazzu
Non saprei che cosa fare = che cazzu aggiu fare?????
L'hai fatto male! = l'ha fattu a cazzu!
Quando lo si usa troppo la parola cazzo nel discorso = ma sempre cu lu cazzu m'ucca stai?!
Non prendermi in giro = lu cazzu ca te futte!!!!
Prendi quel coso =- piya du cazzunculu
Se mi arrabbio sono fatti tuoi = ci mi incazzu so cazzi toi
Relatore che continua a parlare fino a farti arrivare allo sbadiglio = sinceramente ma'ggiù ruttu lu cazzu
Persona che ti deride e maltratta = e basta mo ma'ggiu cacatu lu cazzu
Espressione di meraviglia = Stu cazzu!
Sono entusiasta se penso che la volgarità intesa come “vulgus” (dal latino: popolo, plebe, massa) rappresenta anche il lato più intimo di un popolo: il linguaggio. Ad oggi troppi volgari provano ad arrampicarsi sull’inutile montagna della raffinatezza o eleganza millantata. Ogni stile, cultura e usanza ci deve appartenere per rappresentarla al meglio, altrimenti è più rispettoso studiarla, ammirarla e rispettarla. Volgare non è qualcosa da evitare, ma da custodire, facendo in modo che non si mescoli facilmente con altri termini come maleducazione, ignoranza e menefreghismo. Per questo in Salento la parola cazzo è usata sempre: come il cacio su tutti i tipi di pietanza.