Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
ITALIA RAZZISTA
PRIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
ITALIA RAZZISTA
TUTTI CONTRO TUTTI,
NONOSTANTE GLI INCERTI NATALI
PRIMA PARTE
CHI MIGLIORE DI CHI?
LA MAFIA TI UCCIDE, TI AFFAMA, TI CONDANNA
IL POTERE TI INTIMA: SUBISCI E TACI
LE MAFIE TI ROVINANO LA VITA. QUESTA ITALIA TI DISTRUGGE LA SPERANZA
UNA VITA DI RITORSIONI, MA ORGOGLIOSO DI ESSERE DIVERSO
SOMMARIO PRIMA PARTE
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
INTRODUZIONE.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
IL TERRONE RAZZISTA.
RAZZISTA (D)A CHI?
FELTRI CONTRO TUTTI.
LEGGE MANCINO: ARMA IDEOLOGICA.
VADE RETRO, SALVINI.
MARCELLO FOA E LE FACCE TOSTE.
CHI DICE TERRONE E’ SOLO UN COGLIONE.
L'ITALIA DEL PREGIUDIZIO E DEL PRECONCETTO.
RAZZISMO E STEREOTIPI.
I MURI NELL'ERA DI INTERNET.
IL RAZZISMO IMMAGINARIO.
QUELLI CHE...SONO RAZZISTI INTERESSATI.
QUELLI CHE…SONO RAZZISTI CON ARTE, SENZA PARTE.
QUELLI CHE...SONO RAZZISTI E BASTA.
IL PAESE DELLE BANANE ED IL REFERENDUM DA PRESA PER IL CULO.
MERIDIONALI: MAFIOSI PER SEMPRE.
IL RACKET DEI TURISTI NORDISTI.
ITALIANI. MAFIOSI PER SEMPRE.
MAFIA COMUNISTA. IL RACKET DELLE OCCUPAZIONI ABUSIVE DEGLI IMMOBILI.
IL RAZZISMO DEGLI ANTIRAZZISTI.
I VERI RAZZISTI STANNO A SINISTRA, NON AL NORD ITALIA.
QUELLI CHE SONO RAZZISTI...A RAGIONE.
L’ITALIA DELL’INVIDIA E DELL’IMBECILLITA’.
PARLIAMO DELL'ITALIA RAZZISTA.
IL BINARIO UNICO E LO STATO RAZZISTA.
DAGLI ALLO ZINGARO ED AL MERIDIONALE…
RAZZISMO. C’E’ INSULTO ED INSULTO…
L’ISLAM, L’ACCOGLIENZA E L’IPOCRISIA DEI BUONISTI.
PROFUGOPOLI.
TERREMOTO, RAZZISMO E SCIACALLAGGIO.
A SINISTRA: RAZZISTI AL CONTRARIO.
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
COS'E' IL TERRORISMO? TERRORISTI E FIANCHEGGIATORI.
LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE. L’ALTRA FORMA DI CENSURA: IL POLITICAMENTE CORRETTO.
NAPOLETANO: CAMORRISTA PER NASCITA. QUELLO CHE PENSANO GLI ALTRI…E LO DICONO!
IO NON SONO RAZZISTA, MA….
NON SONO RAZZISTA, MA CHI PENSA AGLI ITALIANI?
ANTIFASCISTA UN PO' FASCISTA.
IMMIGRATI DI OGGI COME I MERIDIONALI DI IERI.
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
SOMMARIO SECONDA PARTE
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
TUTTI DENTRO CAZZO!
LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.
ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
STATO DI DIRITTO?
CHI E’ IL POLITICO?
CHI E’ L’AVVOCATO?
DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
ITALIA DA VERGOGNA.
ITALIA BARONALE.
CASA ITALIA.
ITALIA. SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
ITALIA: PAESE ZOPPO.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.
FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.
ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.
LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.
LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.
LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.
L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
NON VI REGGO PIU’.
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
SE NASCI IN ITALIA…
DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.
GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.
L’ANTIMAFIA DEI RECORD.
LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. STOP A RICORSI PROLISSI ED A TESTIMONI INUTILI.
IL SUD TARTASSATO.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
CALABRIA: LUCI ED OMBRE. COME E' E COME VOGLIONO CHE SIA. "NDRANGHETISTI A 14 ANNI E PER SEMPRE.
L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.
CALCIO E RAZZISMO.
SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA PEGGIO.
ITALIA RAZZISTA ED ANTIMERIDIONALISTA.
SULLA PELLE DEGLI IMMIGRATI…
L’ITALIA DELL’INTOLLERANZA.
OMOFOBIA E CACCIA ALLE STREGHE. CARLO TAORMINA. QUANDO L’OPINIONE E’ DISCRIMINATA.
OLOCAUSTO: QUELLO CHE GLI STORICI NON DICONO.
HITLER, STALIN E GLI ALTRI. IL GIORNO DELLA MEMORIA....PERDUTA!
LE FOIBE E LA CULTURA ROSSO SANGUE DELLA SINISTRA COMUNISTA.
LA SCUOLA DELL'INDOTTRINAMENTO IDEOLOGICO.
L’ISLAM, LA SINISTRA E LA SOTTOMISSIONE.
LA VERA MAFIA E’ LO STATO. E PURE I GIORNALISTI? DA ALLAM ALLA FALLACI.
QUANTI GALLI NELLA LEGA?
LA GARA ALL'INTOLLERANZA. LA LEGA INTOLLERANTE SE LE CERCA E GLI INTOLLERANTI SINISTRI AGGREDISCONO.
IN LEGA TUTTI SI LEGALIZZANO.
LA LEGA SUL LASTRICO PER LADROCINIO?
BESTIARIO NAZIONALE.
IL RAZZISMO E’ DI SINISTRA.
ITALIANI. RAZZISMO ED ESASPERAZIONE.
C’E’ SEMPRE UN TERRONE, PIU’ TERRONE DI UN ALTRO.
E.....SE PER SENTENZA NON SI E’ PIU’ MASCHILISTA?
IPOCRISIA E POLITICALLY CORRECT.
LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE. L’ALTRA FORMA DI CENSURA: IL POLITICAMENTE CORRETTO.
VIOLENZA E SCHIAVITU’: QUELLO CHE NON SI VEDE.
LE SCHIAVE RUMENE, LA MAGISTRATURA ORBA ED IL SOLITO RAZZISMO DEL NORD PER UN PROBLEMA COMUNE.
GENTE MERIDIONALE, BOSS A TUTTI I COSTI CON I PROCESSI MEDIATICI.
ANTIMAFIA RAZZISTA E CENSORIA. PERCHE’ CE L’HANNO CONTRO I MERIDIONALI?
LA FAVELA IN RIVA AL TEVERE.
GLI ZINGARI SONO I VERI PADRONI DI ROMA. E NON SOLO.
PIEMONTE…VERGOGNA. SI FA MA NON SI DICE.
LEGA NORD: IL MOSTRO C’E’ SOLO SE CONVIENE.
IMMIGRATI. SEI MITI RAZZISTI DA SFATARE.
ITALIANI AFFAMATI ED IL CIBO PAGATO DALLO STATO E BUTTATO VIA DAI PROFUGHI.
PARENTOPOLI IN SALSA LEGHISTA OD ALTRO?
I BOSSI ED I LEGHISTI. LADRI A CHI?
STADI. TIFO E RAZZISMO. I PICCOLI IMBECILLI CRESCONO.
IL RAZZISMO HA RADICI NELLA POLITICA, NELLA CULTURA E NELLA SCIENZA.
LA POLITICA ED IL RAZZISMO. DIVERSI SI', MA NON MIGLIORI.
MAFIA E SPAGHETTI. L’ITALIANO VISTO DAGLI ALTRI. MAFIA ED IDEOLOGIE, AUTOLESIONISMO ALL’ITALIANA. DELLA SERIE: FACCIAMOCI DEL MALE.
ITALIA TERRA DI EMIGRAZIONE.
GLI ITALIANI SONO TUTTI STRANIERI.
ITALIANI. LE ORIGINI ETNICHE.
ITALIANI CON IL SANGUE MULTIETNICO NON HANNO RAZZA NE’ PATRIA E PUR SONO RAZZISTI.
PARLIAMO DELLA QUESTIONE SETTENTRIONALE E DI QUELLA MERIDIONALE.
ITALIANI MIGLIORI DI CHI? PARLIAMO DI ANTROPOLOGIA: CHI E COSA SIAMO.
ITALIA RAZZISTA? QUANDO SONO I PENULTIMI A VIETARE L’INGRESSO AGLI ULTIMI.
QUANDO LA TV CRIMINALIZZA UN TERRITORIO.
ITALIANI. FRATELLI COLTELLI.
POLENTONIA, PADANIA (O PATANIA), BARBARIA CONTRO TERRONIA.
I RAZZISTI NORDISTI.
QUEL NORD CHE HA EDUCATO IL SUD ALL’INFERIORITA’.
ROMA COME IL NORD RAZZISTA.
IL DECALOGO PER I MERIDIONALI CHE EMIGRANO AL NORD.
L’ITALICA GUERRA CIVILE: CHI E’ PIU’ RAZZISTA?
RAZZISMO. NAPOLI AL CENTRO DELL’ATTENZIONE.
RAZZISMO E NORD ITALIA. BORGHEZIO E CALDEROLI. LA LEGA NORD PADANIA E L’ITALIA SETTENTRIONALE.
LEGA NORD: LA GARA A CHI E' PIU' RAZZISTA.
RAZZISMO TRA ITALIANI DEL NORD E DEL SUD.
LA LEGA NORD PADANIA RAZZISTA CHE VUOL ZITTIRE.
LA LEGA SECESSIONISTA.
“TERRONI FUORI DAI MARONI”.
RADIO PADANIA, RADIO VERGOGNA.
LE “CAZZATE” DI BOSSI.
IL BOSSI PENSIERO E L’EMULO DEI LEGHISTI.
PREGHIERE ED INNI PADANI E RAZZISTI.
IL RAZZISTA CHE NON TI ASPETTI, CON I NATALI INDEGNI.
PRIMA PARTE
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande)
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Tra i nostri avi abbiamo condottieri, poeti, santi, navigatori,
oggi per gli altri siamo solo una massa di ladri e di truffatori.
Hanno ragione, è colpa dei contemporanei e dei loro governanti,
incapaci, incompetenti, mediocri e pure tanto arroganti.
Li si vota non perché sono o sanno, ma solo perché questi danno,
per ciò ci governa chi causa sempre e solo tanto malanno.
Noi lì a lamentarci sempre e ad imprecare,
ma poi siamo lì ogni volta gli stessi a rivotare.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Codardia e collusione sono le vere ragioni,
invece siamo lì a differenziarci tra le regioni.
A litigare sempre tra terroni, po’ lentoni e barbari padani,
ma le invasioni barbariche non sono di tempi lontani?
Vili a guardare la pagliuzza altrui e non la trave nei propri occhi,
a lottar contro i più deboli e non contro i potenti che fanno pastrocchi.
Italiopoli, noi abbiamo tanto da vergognarci e non abbiamo più niente,
glissiamo, censuriamo, omertiamo e da quell’orecchio non ci si sente.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Simulano la lotta a quella che chiamano mafia per diceria,
ma le vere mafie sono le lobbies, le caste e la massoneria.
Nei tribunali vince il più forte e non chi ha la ragione dimostrata,
così come abbiamo l’usura e i fallimenti truccati in una giustizia prostrata.
La polizia a picchiare, gli innocenti in anguste carceri ed i criminali fuori in libertà,
che razza di giustizia è questa se non solo pura viltà.
Abbiamo concorsi pubblici truccati dai legulei con tanta malizia,
così come abbiamo abusi sui più deboli e molta ingiustizia.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Abbiamo l’insicurezza per le strade e la corruzione e l’incompetenza tra le istituzioni
e gli sprechi per accontentare tutti quelli che si vendono alle elezioni.
La costosa Pubblica Amministrazione è una palla ai piedi,
che produce solo disservizi anche se non ci credi.
Nonostante siamo alla fame e non abbiamo più niente,
c’è il fisco e l’erario che ci spreme e sull’evasione mente.
Abbiamo la cultura e l’istruzione in mano ai baroni con i loro figli negli ospedali,
e poi ci ritroviamo ad essere vittime di malasanità, ma solo se senza natali.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Siamo senza lavoro e senza prospettive di futuro,
e le Raccomandazioni ci rendono ogni tentativo duro.
Clientelismi, favoritismi, nepotismi, familismi osteggiano capacità,
ma la nostra classe dirigente è lì tutta intera da buttà.
Abbiamo anche lo sport che è tutto truccato,
non solo, ma spesso si scopre pure dopato.
E’ tutto truccato fin anche l’ambiente, gli animali e le risorse agro alimentari
ed i media e la stampa che fanno? Censurano o pubblicizzano solo i marchettari.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Gli ordini professionali di istituzione fascista ad imperare e l’accesso a limitare,
con la nuova Costituzione catto-comunista la loro abolizione si sta da decenni a divagare.
Ce lo chiede l’Europa e tutti i giovani per poter lavorare,
ma le caste e le lobbies in Parlamento sono lì per sé ed i loro figli a legiferare.
Questa è l’Italia che c’è, ma non la voglio, e con cipiglio,
eppure tutti si lamentano senza batter ciglio.
Che cazzo di Italia è questa con tanta pazienza,
non è la figlia del rinascimento, del risorgimento, della resistenza!!!
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Questa è un’Italia figlia di spot e di soap opera da vedere in una stanza,
un’Italia che produce veline e merita di languire senza speranza.
Un’Italia governata da vetusti e scaltri alchimisti
e raccontata sui giornali e nei tg da veri illusionisti.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma se tanti fossero cazzuti come me, mi piacerebbe tanto.
Non ad usar spranghe ed a chi governa romper la testa,
ma nelle urne con la matita a rovinargli la festa.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Rivoglio l’Italia all’avanguardia con condottieri, santi, poeti e navigatori,
voglio un’Italia governata da liberi, veri ed emancipati sapienti dottori.
Che si possa gridare al mondo: sono un italiano e me ne vanto!!
Ed agli altri dire: per arrivare a noi c’è da pedalare, ma pedalare tanto!!
Antonio Giangrande (scritta l’11 agosto 2012)
Il Poema di Avetrana di Antonio Giangrande
Avetrana mia, qua sono nato e che possiamo fare,
non ti sopporto, ma senza di te non posso stare.
Potevo nascere in Francia od in Germania, qualunque sia,
però potevo nascere in Africa od in Albania.
Siamo italiani, della provincia tarantina,
siamo sì pugliesi, ma della penisola salentina.
Il paese è piccolo e la gente sta sempre a criticare,
quello che dicono al vicino è vero o lo stanno ad inventare.
Qua sei qualcuno solo se hai denari, non se vali con la mente,
i parenti, poi, sono viscidi come il serpente.
Le donne e gli uomini sono belli o carini,
ma ci sposiamo sempre nei paesi più vicini.
Abbiamo il castello e pure il Torrione,
come abbiamo la Giostra del Rione,
per far capire che abbiamo origini lontane,
non come i barbari delle terre padane.
Abbiamo le grotte e sotto la piazza il trappeto,
le fontane dell’acqua e le cantine con il vino e con l’aceto.
Abbiamo il municipio dove da padre in figlio sempre i soliti stanno a comandare,
il comune dove per sentirsi importanti tutti ci vogliono andare.
Il comune intitolato alla Santo, che era la dottoressa mia,
di fronte alla sala gialla, chiamata Caduti di Nassiriya.
Tempo di elezioni pecore e porci si mettono in lista,
per fregare i bianchi, i neri e i rossi, stanno tutti in pista.
Mettono i manifesti con le foto per le vie e per la piazza,
per farsi votare dagli amici e da tutta la razza.
Però qua votano se tu dai,
e non perché se tu sai.
Abbiamo la caserma con i carabinieri e non gli voglio male,
ma qua pure i marescialli si sentono generale.
Abbiamo le scuole elementari e medie. Cosa li abbiamo a fare,
se continui a studiare, o te ne vai da qua o ti fai raccomandare.
Parlare con i contadini ignoranti non conviene, sia mai,
questi sanno più della laurea che hai.
Su ogni argomento è sempre negazione,
tu hai torto, perché l’ha detto la televisione.
Solo noi abbiamo l’avvocato più giovane d’Italia,
per i paesani, invece, è peggio dell’asino che raglia.
Se i diamanti ai porci vorresti dare,
quelli li rifiutano e alle fave vorrebbero mirare.
Abbiamo la piazza con il giardinetto,
dove si parla di politica nera, bianca e rossa.
Abbiamo la piazza con l’orologio erto,
dove si parla di calcio, per spararla grossa.
Abbiamo la piazza della via per mare,
dove i giornalisti ci stanno a denigrare.
Abbiamo le chiese dove sembra siamo amati,
e dove rimettiamo tutti i peccati.
Per una volta alla domenica che andiamo alla messa dal prete,
da cattivi tutto d’un tratto diventiamo buoni come le monete.
Abbiamo San Biagio, con la fiera, la cupeta e i taralli,
come abbiamo Sant’Antonio con i cavalli.
Di San Biagio e Sant’Antonio dopo i falò per le strade cosa mi resta,
se ci ricordiamo di loro solo per la festa.
Non ci scordiamo poi della processione per la Madonna e Cristo morto, pure che sia,
come neanche ci dobbiamo dimenticare di San Giuseppe con la Tria.
Abbiamo gli oratori dove portiamo i figli senza prebende,
li lasciamo agli altri, perché abbiamo da fare altri faccende.
Per fare sport abbiamo il campo sportivo e il palazzetto,
mentre io da bambino giocavo giù alle cave senza tetto.
Abbiamo le vigne e gli ulivi, il grano, i fichi e i fichi d’india con aculei tesi,
abbiamo la zucchina, i cummarazzi e i pomodori appesi.
Abbiamo pure il commercio e le fabbriche per lavorare,
i padroni pagano poco, ma basta per campare.
Abbiamo la spiaggia a quattro passi, tanto è vicina,
con Specchiarica e la Colimena, il Bacino e la Salina.
I barbari padani ci chiamano terroni mantenuti,
mica l’hanno pagato loro il sole e il mare, questi cornuti??
Io so quanto è amaro il loro pane o la michetta,
sono cattivi pure con la loro famiglia stretta.
Abbiamo il cimitero dove tutti ci dobbiamo andare,
lì ci sono i fratelli e le sorelle, le madri e i padri da ricordare.
Quelli che ci hanno lasciato Avetrana, così come è stata,
e noi la dobbiamo lasciare meglio di come l’abbiamo trovata.
Nessuno è profeta nella sua patria, neanche io,
ma se sono nato qua, sono contento e ringrazio Dio.
Anche se qua si sentono alti pure i nani,
che se non arrivano alla ragione con la bocca, la cercano con le mani.
Qua so chi sono e quanto gli altri valgono,
a chi mi vuole male, neanche li penso,
pure che loro mi assalgono,
io guardo avanti e li incenso.
Potevo nascere tra la nebbia della padania o tra il deserto,
sì, ma li mi incazzo e poi non mi diverto.
Avetrana mia, finchè vivo ti faccio sempre onore,
anche se i miei paesani non hanno sapore.
Il denaro, il divertimento e la panza,
per loro la mente non ha usanza.
Ti lascio questo poema come un quadro o una fotografia tra le mani,
per ricordarci sempre che oggi stiamo, però non domani.
Dobbiamo capire: siamo niente e siamo tutti di passaggio,
Avetrana resta per sempre e non ti dà aggio.
Se non lasci opere che restano,
tutti di te si scordano.
Per gli altri paesi questo che dico non è diverso,
il tempo passa, nulla cambia ed è tutto tempo perso.
La Ballata ti l'Aitrana di Antonio Giangrande
Aitrana mia, quà già natu e ce ma ffà,
no ti pozzu vetè, ma senza ti te no pozzu stà.
Putia nasciri in Francia o in Germania, comu sia,
però putia nasciri puru in africa o in Albania.
Simu italiani, ti la provincia tarantina,
simu sì pugliesi, ma ti la penisula salentina.
Lu paisi iè piccinnu e li cristiani sempri sciotucunu,
quiddu ca ticunu all’icinu iè veru o si l’unventunu.
Qua sinti quarche tunu sulu ci tieni, noni ci sinti,
Li parienti puè so viscidi comu li serpienti.
Li femmini e li masculi so belli o carini,
ma ni spusamu sempri alli paisi chiù icini.
Tinimu lu castellu e puru lu Torrioni,
comu tinumu la giostra ti li rioni,
pi fa capii ca tinimu l’origini luntani,
no cumu li barbari ti li padani.
Tinimu li grotti e sotta la chiazza lu trappitu,
li funtani ti l’acqua e li cantini ti lu mieru e di l’acitu.
Tinimu lu municipiu donca fili filori sempri li soliti cumannunu,
lu Comuni donca cu si sentunu impurtanti tutti oluni bannu.
Lu comuni ‘ntitolato alla Santu, ca era dottori mia,
ti fronti alla sala gialla, chiamata Catuti ti Nassiria.
Tiempu ti votazioni pecuri e puerci si mettunu in lista,
pi fottiri li bianchi, li neri e li rossi, stannu tutti in pista.
Basta ca mettunu li manifesti cu li fotu pi li vii e pi la chiazza,
cu si fannu utà ti li amici e di tutta la razza.
Però quà votunu ci tu tai,
e no piccè puru ca tu sai.
Tinumu la caserma cu li carabinieri e no li oiu mali,
ma qua puru li marescialli si sentunu generali.
Tinimu li scoli elementari e medi. Ce li tinimu a fà,
ci continui a studià, o ti ni ai ti quà o ta ffà raccumandà.
Cu parli cu li villani no cunvieni,
quisti sapunu chiù ti la lauria ca tieni.
Sobbra all’argumentu ti ticunu ca iè noni,
tu tieni tuertu, piccè le ditto la televisioni.
Sulu nui tinimu l’avvocatu chiù giovini t’Italia,
pi li paisani, inveci, iè peggiu ti lu ciucciu ca raia.
Ci li diamanti alli puerci tai,
quiddi li scanzunu e mirunu alli fai.
Tinumu la chiazza cu lu giardinettu,
do si parla ti pulitica nera, bianca e rossa.
Tinimu la chiazza cu l’orologio iertu,
do si parla ti palloni, cu la sparamu grossa.
Tinimu la chiazza ti la strata ti mari,
donca ni sputtanunu li giornalisti amari.
Tinimu li chiesi donca pari simu amati,
e donca rimittimu tutti li piccati.
Pi na sciuta a la tumenica alla messa do li papi,
di cattivi tuttu ti paru divintamu bueni comu li rapi.
Tinumu San Biagiu, cu la fiera, la cupeta e li taraddi,
comu tinimu Sant’Antoni cu li cavaddi.
Ti San Biagiu e Sant’Antoni toppu li falò pi li strati c’è mi resta,
ci ni ricurdamo ti loru sulu ti la festa.
No nni scurdamu puè ti li prucissioni pi la Matonna e Cristu muertu, comu sia,
comu mancu ni ma scurdà ti San Giseppu cu la Tria.
Tinimu l’oratori do si portunu li fili,
li facimu batà a lautri, piccè tinimu a fà autri pili.
Pi fari sport tinimu lu campu sportivu e lu palazzettu,
mentri ti vanioni iu sciucava sotto li cavi senza tettu.
Tinimu li vigni e l’aulivi, lu cranu, li fichi e li ficalinni,
tinimu la cucuzza, li cummarazzi e li pummitori ca ti li pinni.
Tinimu puru lu cummerciu e l’industri pi fatiari,
li patruni paiunu picca, ma basta pi campari.
Tinumu la spiaggia a quattru passi tantu iè bicina,
cu Spicchiarica e la Culimena, lu Bacinu e la Salina.
Li barbari padani ni chiamunu terruni mantinuti,
ce lonnu paiatu loro lu soli e lu mari, sti curnuti??
Sacciu iù quantu iè amaru lu pani loru,
so cattivi puru cu li frati e li soru.
Tinimu lu cimitero donca tutti ma sciri,
ddà stannu li frati e li soru, li mammi e li siri.
Quiddi ca nonnu lassatu laitrana, comu la ma truata,
e nui la ma lassa alli fili meiu ti lu tata.
Nisciunu iè prufeta in patria sua, mancu iù,
ma ci già natu qua, so cuntentu, anzi ti chiù.
Puru ca quà si sentunu ierti puru li nani,
ca ci no arriunu alla ragioni culla occa, arriunu culli mani.
Qua sacciu ci sontu e quantu l’autri valunu,
a cinca mi oli mali mancu li penzu,
puru ca loru olunu mi calunu,
iu passu a nanzi e li leu ti mienzu.
Putia nasciri tra la nebbia di li padani o tra lu disertu,
sì, ma ddà mi incazzu e puè non mi divertu.
Aitrana mia, finchè campu ti fazzu sempri onori,
puru ca li paisani mia pi me no tennu sapori.
Li sordi, lu divertimentu e la panza,
pi loro la menti no teni usanza.
Ti lassu sta cantata comu nu quatru o na fotografia ti moni,
cu ni ricurdamu sempri ca mo stamu, però crai noni.
Ma ccapì: simu nisciunu e tutti ti passaggiu,
l’aitrana resta pi sempri e no ti tai aggiu.
Ci no lassi operi ca restunu,
tutti ti te si ni scordunu.
Pi l’autri paisi puè qustu ca ticu no iè diversu,
lu tiempu passa, nienti cangia e iè tuttu tiempu persu.
Testi scritti il 24 aprile 2011, dì di Pasqua.
INTRODUZIONE.
Il razzismo anti-italiano nella stampa europea, scrive il 29 maggio 2018 Mister Totalitarismo. In queste settimane la stampa estera si è scatenata nel dipingere gli italiani come i soliti buffoni, anche se i motteggi che rimangono confinati nell’ambito della satira potrebbero pure essere tollerati (a patto che sia rispettato il principio di reciprocità): mi riferisco, per esempio, alla vignetta dell’Economist che ritrae Conte nelle vesti Arlecchino servitore di due padroni, oppure a quella della “Süddeutsche Zeitung”, decisamente meno riuscita, che trasforma Di Maio e Salvino nei dottori “Peste e Colera”. In effetti è nota la mancanza di senso d’umorismo da parte dei tedeschi (nonostante loro si credano divertentissimi): un altro esempio è la copertina dell’inserto settimanale della “FAZ”, che mostra un’Ape furgonata colorata di verde bianco e rosso che si lancia in un burrone, mentre il guidatore fa il gesto dell’ombrello. Al di là dello stucchevole titolo (“Mamma Mia!”) e della qualifica di Sorgenkind (“monello”), termine che è stato più volte chiesto ai tedeschi di non utilizzare verso gli altri Paesi europei, è quel gestaccio compiuto da braccia pelose che appare già un sintomo di una incipiente disumanizzazione, la stessa messa in atto, sempre “scherzosamente”, nei confronti dei greci (vedi questa vignetta del 2015 dal quotidiano olandese “de Volkskrant”). Almeno a parole, siamo già arrivati ai limiti della soglia di sicurezza con il vergognoso editoriale di Jan Fleischhauer per lo “Spiegel” (Die Schnorrer von Rom, 24 maggio 2018; traduzione italiana), che lancia sgradevolissime accuse collettive contro gli italiani: “barboni”, “scrocconi” (Schnorrer), “violenti”, “fannulloni” ed “evasori”. La reazione delle nostre istituzioni è stata tutt’altro che immediata: in maniera quasi beffarda, il Presidente della Repubblica ha trovato occasione di protestare (nel modo più sommesso possibile) soltanto dopo esser venuto incontro ai desiderata di Berlino con l’affossamento del governo Lega-M5S (non a caso lo stesso “Spiegel”, insieme ad altre testate tedesche, ha poi celebrato la decisione di Mattarella definendola “coraggiosa e determinata”). Dopo il “via libera” dall’alto, anche l’ambasciatore italiano ha infine fatto sapere alla redazione dello storico settimanale amburghese che «la dialettica politica appartiene alla libertà di stampa e al discorso democratico. Ciò che lascia un retrogusto pessimo è il modo in cui questa critica è indirizzata ad un intero popolo». Perlomeno una reazione a livello istituzionale, per quanto contenuta e tardiva, c’è stata: diverso il caso della stampa italiana, che al di là di una generica indignazione (talvolta ipocrita, perché sappiamo che c’è chi condivide “idealmente” i contenuti di certi articoli e vignette), non ha però ribattuto alle sparate razziste dello “Spiegel”, le quali, proprio a causa del nostro Selbsthass, potrebbero addirittura apparire credibili a una parte dell’opinione pubblica. A tal proposito, segnaliamo la lodevole eccezione dell’Agenzia Giornalistica Italia, che si è almeno presa qualche minuto per smentire punto su punto le accuse del “brillante pubblicista”: gli italiani lavorano più dei tedeschi; l’Italia è un contributore netto dell’Ue; la Germania ha un debito esterno più alto del nostro; le famiglie italiane sono meno indebitate di quelle tedesche; la nostra ricchezza totale è quasi il doppio del nostro debito pubblico. Del resto, come dicevamo, lo squallore dei tedeschi nel campo dell’umorismo è un dato di fatto, e loro stessi in fondo ne sono consapevoli: per esempio, nel suo celebre romanzo Lui è tornato, lo scrittore Timur Vermes ritrae un Adolf Hitler redivivo che si fa grasse risate con le barzellette della “Bild”. «Afferrai una copia della “Bild” e cominciai a sfogliarla. Quel giornale divulgava una piacevole mistura di collera popolare e malignità. Le pagine di apertura erano dedicate alle balordaggini politiche: ne veniva fuori l’immagine di una matrona cancelliera ingenuotta ma in fondo mansueta che camminava impacciata tra un’orda di nani che cercavano di ostacolarla. Il quotidiano rivelava, inoltre, l’assurdità di ogni decisione cosiddetta “legittimata”. Quel magnifico rotocalco scandalistico, per esempio, riteneva l’idea di un’unione europea ripugnante. Ma più di ogni altra cosa ne apprezzai i metodi raffinati. Per esempio: nella colonna umoristica, tra le storielle sulle suocere e i mariti cornuti, era piazzata senza dare nell’occhio la seguente barzelletta: “Un portoghese, un greco e uno spagnolo vanno in un bordello. Chi paga? La Germania”. Era di grande effetto. Streicher ci avrebbe naturalmente aggiunto un disegno raffigurante quei tre meridionali sudati e non rasati intenti a palpeggiare con le loro luride dita una ragazzina innocente, mentre l’onesto lavoratore tedesco sgobbava – ma in fondo, in questo caso specifico, una tale vignetta sarebbe stata d’impaccio: avrebbe tolto allo scherzo la sua intelligente discrezione». C’è da notare che la barzelletta sugli europei del Sud che vanno in un bordello è stata effettivamente pubblicata dalla “Bild” (Gehen ein Portugiese, ein Grieche und ein Spanier in den Puff. Wer zahlt? Deutschland!), il che è tutt’altro che sorprendente, ma resta comunque inquietante. Quindi, per quanta tolleranza si possa usare nei confronti della mestizia teutonica, sarà sempre necessario mantenere l’attenzione alta nei confronti del problema e tenere sul chi vive la diplomazia, in modo da avere la possibilità di una reazione immediata, soprattutto per scongiurare la deriva stile Der ewige Jude che purtroppo contraddistingue tradizionalmente la satira tedesca. Peraltro non è affatto detto che sia necessario sobillare chissà quale istinto sciovinistico per dar forza alle proprie rimostranze: basterà richiamarsi all’europeismo e sfruttarlo, almeno per una volta, a favore dell’Italia. Perché, al di là delle polemiche attuali, il paradosso è sempre più evidente: quale foglio europeo si permetterebbe mai di lanciare accuse collettive (per giunta utilizzando quei toni) verso un Paese africano, arabo o asiatico? Persino nei confronti della Turchia, altra bestia nera dell’aggressivo giornalismo tedesco (piuttosto indulgente nei confronti dei propri Schulden), esiste comunque l’alibi del “Sultano” a impedire la demonizzazione di un intero popolo. Non vorremo dedurre da tutto questo che in Europa l’unico razzismo consentito sia quello nei confronti degli stessi europei.
La vignetta razzista anti-italiana del 1888, scrive lunedì 15 giugno 2015 "Il Post". Fu pubblicata da un giornale americano e racconta storie e pregiudizi che ci sono familiari. Sta girando in questi giorni sui social network una vignetta razzista e anti-italiana originariamente pubblicata sul quotidiano di New Orleans The Mascot nel 1888. La vignetta si intitola “Per quanto riguarda gli italiani” e mostra alcune scene di vita degli immigrati italiani a New Orleans e alcuni consigli su come liberarsi di loro: arrestandoli e uccidendoli. Nella parte superiore della vignetta ci sono tre immagini e tre didascalie: si vedono delle persone sedute su un marciapiede, descritte come “una seccatura per i pedoni”; un gruppo di uomini che dormono in una stanza sovraffollata, descritta come “le loro camere da letto”, e infine un gruppo di uomini che litigano e combattono con coltelli e bastoni, “un rilassante passatempo pomeridiano”. La parte inferiore della vignetta, invece, contiene due immagini più crude: una con degli uomini in una gabbia che altre due persone stanno calando in mare da un molo, e una con quelli che sembrano dei poliziotti armati di manganello che arrestano gli italiani e li chiudono in un carro: la prima immagine è descritta come “il modo di liberarsi di loro”, la seconda come “il modo di arrestarli”. Durante la seconda metà del Diciannovesimo secolo circa 10 milioni di italiani emigrarono verso gli Stati Uniti da tutte le regioni d’Italia. In particolare a New Orleans arrivarono moltissimi siciliani, grazie a una rotta navale che collegava Palermo e New Orleans. Molte delle persone che viaggiavano verso gli Stati Uniti lo facevano con l’idea di lavorare per qualche anno prima di tornare in Italia dalle loro famiglie e questo fece sì che per molti anni le comunità di immigrati italiani fossero particolarmente chiuse e isolate: imparare la lingua e integrarsi nella cultura statunitense non era una loro priorità. Come in molte altre città degli Stati Uniti dove arrivarono immigrati italiani, anche a New Orleans si sistemarono in un quartiere della città che venne soprannominato “Little Palermo”. Come testimonia la vignetta del The Mascot, il sentimento anti-italiano era piuttosto diffuso nella popolazione locale, tanto da essere trattato apertamente dai giornali, che allora erano lontani come idea dai giornali attuali e più apertamente incentrati sulle opinioni e le argomentazioni di parte. Proprio a New Orleans nel 1891 ci fu uno dei più gravi episodi di violenza razzista contro la comunità italiana: il più grave linciaggio della storia degli Stati Uniti. Nel 1890 il capo della polizia della città David Hennessy era stato ucciso e la polizia aveva arrestato diversi membri della comunità italiana accusandoli dell’omicidio. Qualche mese dopo, nel 1891, un processo stabilì l’innocenza degli imputati e l’infondatezza delle accuse. La sentenza fu accolta con grande rabbia da una parte della popolazione di New Orleans, che il giorno dopo si radunò per “porre rimedio agli errori della giustizia”, come diceva un annuncio pubblicato su un giornale locale il 13 marzo del 1891. Il 14 marzo circa 3.000 persone si radunarono a Canal Street e la folla linciò 11 persone di origine italiana, nessuna delle quali legata al processo per l’omicidio di David Hennessy.
Ci definiva mafiosi e scrocconi. Bufera fake news sullo Spiegel. Uno dei più conosciuti e pluri-premiati reporter del settimanale tedesco è accusato di aver inventato molti dei suoi scoop, scrive Bartolo Dall'Orto, Mercoledì 19/12/2018, su "Il Giornale". Hanno definito l'Italia in ogni modo, facendole la morale. Non si contano le copertine dedicate agli italiani "mafiosi", "scrocconi", "aggressivi" e "ricattatori", rappresentati come una pistola adagiata su un piatto di spaghetti o come tanti Schettino. Ma stavolta a finire nella bufera c'è la redazione dell'autorevolissimo e riverito settimanale tedesco "Der Spiegel": uno dei loro più celebri e pluri-premiati reporter, infatti, è accusato di aver inventato molti dei suoi scoop, di aver creato dal nulla fonti che non esistevano e protagonisti che nulla c'entravano con le storie raccontate. Si tratta di un vero e proprio terremoto per la stampa tedesca. Un caso clamoroso dal suo punto di vista. Il Der Spiegel, infatti, è noto per le procedure di controllo degli articoli e il "fact checking" che realizza sulle notizie (ha un team specializzato per questo). Qualcosa però non deve aver funzionato. È stato lo stesso giornale tedesco, sul suo sito, a rivelare quello che un redattore non ha esitato a chiamare "un lutto di famiglia". Per la redazione si tratta del "punto più basso della nostra storia lunga oltre settant'anni". A finire nella bufera è il trentatreenne Claas Relotius, che avrebbe ammesso le sue colpe ed è stato licenziato su due piedi. Non si tratta di un redattore di secondo piano, ma uno dei reporter di punta. Sette anni in redazione, la maggior parte da freelance e da poco più di un anno come redattore assunto. Uno dei più in vista. Per i suoi reportage ha vinto tutti i più importanti premi giornalistici del Paese: si ricordano il Premio per il reporter dell'anno, il Premio Peter Scholl-Latour senza contare la nomina di "Journalist of the Year" della Cnn e dell'European Press Prize. Nel suo curriculum il giornalista ha scritto anche per l'edizione tedesca del Financial Times, per la Zeit on line, per il domenicale della Frankfurter Allgemeine. Per la Zeit ha pubblicato (nel 2012) anche un reportage sui "profughi che salvano Riace dal declino" (esatto, quella di Mimmo Lucano). I dubbi sul suo operato sono sorti quando cominciarono ad arrivare mail dall'Arizona su un reportage scritto da Relotius. Molti si chiedevano come avesse fatto a scrivere senza aver contattato fonti o raccolto dati in zona. E così un collega ha iniziato a indagare su di lui. Alla fine, però, il giornalista ha confessato. Almeno 14 suoi articoli avrebbero citazioni fasulle, dettagli inventati e luoghi fittizi. Una commissione apposita di interni e esterni ha valutato così i suoi lavori e alla fine si è arrivati al licenziamento. "Questa rivelazione - scrive ancora lo Spiegel in un grande articolo pubblicato sulla homepage del proprio sito - è uno shock per la redazione, per la casa editrice e per tutti i suoi collaboratori".
Pregiudizio contro gli italiani. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il pregiudizio contro gli italiani (a volte antitalianismo o, più raramente, italofobia) è un fenomeno di discriminazione etnica contro gli italiani e l'Italia. Il contrario è l'italofilia. Il fenomeno è attestato soprattutto nei paesi del Nordamerica (Stati Uniti d'America, Canada), dell'Europa centro-settentrionale (Germania, Svezia, Austria, Svizzera, Belgio, Francia, Regno Unito) e balcanici (Slovenia e una parte della Croazia). Le cause sono attribuite all'emigrazione italiana di massa nel XIX e XX secolo, a eventi storici, soprattutto di natura bellica, o a ostilità nazionalistiche ed etniche.
Casistica. Nel 1861 la paventata francesizzazione forzata causò l'esodo nizzardo e in risposta a ciò si verificarono i vespri nizzardi.
Nel linciaggio di New Orleans (1891) furono linciati undici italiani, quasi tutti siciliani, accusati di aver ucciso il capo della polizia urbana.
Il massacro di Aigues-Mortes, nell'agosto del 1893, fu scatenato da un conflitto tra operai francesi e italiani (soprattutto piemontesi, ma anche lombardi, liguri, toscani) impiegati nelle saline di Peccais, che si trasformò in un vero e proprio eccidio con morti in numero ancora non accertato e un centinaio di feriti tra i lavoratori italiani. La tensione che ne seguì fece sfiorare la guerra tra i due Paesi.
Dopo l'assassinio con un pugnale, nel 1894 del presidente della Repubblica francese Marie François Sadi Carnot da parte dell'anarchico Sante Caserio, in Francia si ebbero numerosi atti di violenza ed intolleranza contro gli immigrati italiani.
A Tallulah (Louisiana), nel luglio del 1899 furono linciati 5 italiani (tre fratelli e altri due estranei alla vicenda), accusati di aver ferito il dottore del paese dopo che questi aveva ucciso una capra appartenente ai tre fratelli.
Nel periodo 1918-20 due italiani furono assassinati durante gli incidenti di Spalato.
In un tribunale dell'Alabama, nel 1922 (processo Rollins versus Alabama), una donna italiana venne dichiarata "non appartenente alla razza bianca", criterio sul quale si fondò il giudizio della corte.
Durante il processo agli anarchici italiani Sacco e Vanzetti, avvenuto a Boston nel 1927, il pregiudizio contro gli immigrati (italiani) emerse con chiarezza e contribuì, pur non essendo il pregiudizio decisivo, alla loro condanna a morte.
A Kalgoorlie, in Australia Occidentale, nel 1934 le case abitate dai provenienti dal Sud Europa vennero incendiate e gli italiani, gli jugoslavi e i greci dovettero scappare dalla città.
Nel periodo 1943-70, in Istria e Dalmazia furono costretti all'esilio più di 300.000 italiani e ne furono assassinati tra i 15.000 e i 30.000.
Il sentimento anti-italiano in Svizzera si manifestò nel 1971 con l'uccisione dell'immigrato italiano Alfredo Zardini.
Il presidente statunitense Richard Nixon, durante la sua visita in Italia all'inizio degli anni settanta, dichiarò che gli italiani non solo si comportavano in modo diverso dagli altri europei, ma avevano anche un "odore" diverso.
La copertina della rivista tedesca Der Spiegel nel 1977, il periodo più acuto degli anni di piombo, mostrava la foto di un piatto di spaghetti conditi con sopra una pistola, in riferimento alla presenza del terrorismo in Italia. Fu replicata nel 2006, in occasione dei mondiali di calcio: l'intento era ironico, ma con sfumature razziste, vista la decontestualizzazione dell'immagine (originariamente riferita a fatti di violenza).
Nel 1990 all'appassionato di golf John A. Segalla, ricco imprenditore dello Stato del Connecticut, venne negata l'iscrizione a un prestigioso ed esclusivo circolo del golf a causa del cognome italiano. Per tutta risposta si costruì un proprio campo da golf nel 1993.
In una rivista giapponese del 2006 è apparsa una classifica intitolata Itaria-jin no ya-na tokoro besto ten (Le dieci cose peggiori degli italiani), che li descrive come bugiardi, ritardatari e irrispettosi delle regole.
Nel 2006 il quotidiano tedesco Die Zeit pubblica sulla versione on-line un articolo sulla qualificazione dell'Italia (a spese della Germania) alla finale dei Mondiali di calcio del 2006, titolandolo Mafia in Finale; l'intento è satirico, ma viene considerato offensivo e di cattivo gusto.
Il 10 ottobre 2007, in Germania, il Tribunale di Bückeburg ha ridotto da 8 a 6 anni di carcere la pena di un cameriere italiano riconosciuto colpevole di stupro, sequestro di persona e violenza di gruppo verso la sua ragazza. Nel formulare la sentenza si tenne anche in considerazione la sua origine sarda: "Si deve tenere conto delle particolari impronte culturali ed etniche dell'imputato. È sardo. Il quadro del ruolo dell'uomo e della donna, esistente nella sua patria, non può certo valere come scusante, ma deve essere tenuto in considerazione come attenuante".
Nel 2008, in Germania, la catena di negozi Media Markt ha commissionato una serie di spot pubblicitari che hanno per protagonista un italiano vestito come un buzzurro (canottiera con stemma tricolore, occhiali da sole sulla fronte, catena d'oro al collo, baffetti neri e parlata maccheronica), che si comporta come un truffatore sempre pronto a turlupinare il prossimo compiacendosi dei suoi biechi sotterfugi. La macchietta appare molto simile al personaggio di Alberto Bertorelli, protagonista di una vecchia sit-com della BBC.
Nel 2009 nei canali televisivi olandesi è iniziato a girare uno spot che, per spronare i cittadini a studiare le lingue, mostrava un uomo olandese insultare tre pizzaioli italiani chiamandoli "pagliacci di pasta" ("pastapippo"), giacché li aveva sentiti mentre facevano apprezzamenti in italiano sulla figlia.
Nel 2012, a proposito del naufragio della Costa Concordia, il settimanale tedesco Der Spiegel sembra assumere Francesco Schettino a simbolo del modo di comportarsi degli italiani, provocando una replica di Alessandro Sallusti sul Giornale. Tuttavia si trattò di un fraintendimento, dovuto a una errata traduzione dell'articolo, che anzi invitava a non generalizzare tali eventi di cronaca.
Tipologia di termini dispregiativi.
Termini tipici:
Breshkagji (albanese, dalla parola breshka (tartaruga) pigri);
Schinkebròtli (svizzero tedesco, panino al prosciutto);
Garlics (dall'inglese garlic, aglio);
Pepperoni (Stati Uniti d'America);
Maccaronì (negli anni cinquanta e sessanta in Belgio contro i minatori italiani, anche in Francia);
Spaghettivreter (mangia spaghetti) (Belgio, Olanda);
Itak (Belgio);
italiohn (Belgio);
pizzavreter (Belgio, Olanda);
pizzaman pronunciato pizamann (Olanda);
italiaantje piccolo italiano, per via della statura più piccola rispetto all'etnia nordica (Belgio, Olanda);
Los Polpettoes, Pizzagang, Spaghetti, Espaguetis (Spagna);
Spaghettifresser (mangiaspaghetti, nei paesi di lingua tedesca, il verbo fressen si usa per gli animali);
Pastar (da pronunciare "pashtar", parola croata che significa Colui che mangia la pasta);
Makaroniarz (polacco, un appassionato della pasta, makaron è la pasta);
Makaronarji/Makaroni (Slovenia);
Broccoli (storpiatura di Brooklyn, così pronunciato dagli emigranti italiani che arrivavano nel porto di New York tra la fine del secolo XIX e l'inizio del XX);
Pastaskole (Minoranze Anglo- Danesi in Italia, scuole pasta, chiaro riferimento al livello scolastico più basso e a sottolineare la differenza culturale).
Termini riferiti all'onomastica:
Pepino: in Albania;
Dago: negli USA è usato per tutti i popoli "latini". Deriva dal nome proprio Diego o forse dalla parola dago (coltello); "Dago, where's your monkey?" veniva rivolta agli italiani, identificati genericamente come quelli che chiedevano l'elemosina con l'organino e la scimmietta che ballava;
Gino/Gina (Canada);
Guido/Guidette (USA);
Tony (negli USA con l'intento di evidenziare il comunissimo nome italiano e fare allo stesso tempo un gioco di parole, Antonio = Tony = To NY ovvero tradotto A NY = colui che viene - sbarca - a New York);
Alfonso (Lituania, sinonimo di racconta bugie. Raccontare frottole può essere espresso con "makaronų kabinti");
Tano (da "napolitano", in Argentina e Uruguay);
Tulio/Tulia (Slovenia).
Termini riferiti alle abitudini linguistiche:
Digic (croato, derivato dall'italiano dire attraverso il dialettale giuliano-veneto digo);
Digó (gergo ungherese, derivato dall'italiano dico attraverso la pronuncia, anche meridionale, digo);
Goombah (area di New York, dall'italiano compare, attraverso il dialettale cumpà);
Minghiaweisch (dal dialettale siciliano minchia e dallo svizzero tedesco weisch? (capisci?), usata in Ticino per definire gli italiani di seconda generazione presenti in Svizzera tedesca, evidenziandone la difficoltà a parlare in italiano senza influenze dialettali e senza influenze tedesche);
Paisà (area di New York, derivato dall'italiano paesano, attraverso il dialettale paisà);
Rital (francese, da franco-italien: evidenziava la difficoltà degli immigrati a pronunciare la r francese);
Walsche e Sentas (Alto Adige, derivato dalla diffusa abitudine degli italiani di rivolgersi all'interlocutore con l'espressione "senta", percepita come uno sgradevole imperativo);
Wop (tra i più usati negli USA, è la storpiatura anglosassone del dialettale napoletano guappo; per altri è acronimo di without papers/passport, senza documenti);
Zabar (dal croato zaba, rana: fa riferimento alla pronuncia degli abitanti del nord Italia, che viene accostata ai suoni emessi dalle rane).
Termini riferiti a pregiudizi etnici:
Greaseball (Stati Uniti, Regno Unito, Australia, letteralmente palla di unto): deriva dall'abitudine degli abitanti del sud Europa di usare brillantina per capelli e da un pregiudizio sulle condizioni poco igieniche;
Guinea (dalla falsa credenza che gli italiani siano in parte africani, non tanto per la fisionomia di alcuni abitanti ma per il presunto minore sviluppo economico se paragonato a quello dei paesi di lingua inglese. È diminutivo di Guinea Negro, usato negli anni '50/'60 negli Stati Uniti);
Mozzarellanigger (mozzarella negro, riferimento sia al consumo di mozzarella che alla percezione dell'Italia come paese povero, al pari dell'Africa);
Wog (utilizzato, soprattutto in Australia, contro le popolazioni dell'Europa meridionale e del Mediterraneo);
Termini riferiti alla storia:
Katzelmacher, Katzener: deriva dall'accusa di tradimento lanciata dall'Impero austro-ungarico al Regno d'Italia in occasione della prima guerra mondiale. L'Italia nel 1914 si rifiutò di entrare in guerra al fianco dell'Austria, a cui era legata dalla Triplice Alleanza; poi nel 1915 le dichiarò guerra, schierandosi dalla parte dei suoi avversari della Triplice Intesa. Dopo la guerra il Regno d'italia incorporò terre abitate prevalentemente da popolazioni di lingua tedesca, come l'Alto Adige. Katzelmacher deriva da "fattori di gattini", nel senso della prolificità familiare, oppure da "venditori di cucchiai", per le attività dei commercianti ambulanti transfrontalieri. I due termini sono diffusi in tutti i paesi di lingua tedesca e nelle aree della Repubblica italiana che in passato erano austriache. Il termine si diffuse rapidamente nell'Impero austro-ungarico grazie all'opera satirica del disegnatore Arpad Schmidhammer al suo libello "Maledetto Katzelmacher", che raffigura la caricatura di un bandito meridionale;
Verräter (dal tedesco traditori), generalizzazione attribuita agli italiani già nella prima guerra mondiale e ancora di più dopo l'Armistizio di Cassibile (8 settembre 1943). Diffusa in Germania e in alcune zone dell'Austria;
Taliani, talijans, 'talianat, tajam, tainel: diffusi nelle "province irredente", in particolare nel litorale adriatico del Friuli e dell'area slovena, e nel Trentino;
Talianots: termine di lingua friulana traducibile con italianotto, chiara definizione di scherno per definire il classico stereotipo italiano;
Taliani de legno (diffuso nel litorale adriatico e in particolare a Trieste, ma anche in Istria e nell'ex Friuli austriaco. L'origine è attribuita a Wilhelm von Tegetthoff, ammiraglio austriaco vincitore della battaglia di Lissa, che avrebbe commentato: «Omini de fero su barche de legno ga batù omini de legno su barche de fero». Tuttavia il motto fa parte della tradizione orale del nordest adriatico, ma la sua origine è tutt'altro che certa.
Lianta de gnole: espressione usata a Trieste in particolare, che deriva da un gergo locale che inverte le sillabe per rendersi poco comprensibile, ed in questo caso ha invertito il termine del capitolo precedente, si usa in genere nei confronti degli italiani che accentuano caratteristiche a loro attribuite dall'immaginario collettivo, come pretendere spaghetti in Scandinavia, invocare la mamma, dire «lei non sa chi sono io», ecc.;
Regnicoli: diffuso in tutte le "terre irredente", deriva dagli immigrati provenienti dal Regno d'Italia, con residenza in Austria, ma senza cittadinanza. Il termine veniva usato anche sulla stampa italiana, non era spregiativo ma lo divenne dopo il 1918. Ampiamente citato da molte fonti, compreso L'Italia dei cent'anni di Comandini;
Cabibi: usato nel litorale adriatico, sembra che derivi dal film Le notti di Cabiria. Indica gli italiani meridionali ed alcune volte, per estensione, tutti gli italiani. Citato nei dizionari vernacolari;
Cifarielli, abbreviato CIF: usato a Trieste, era un sinonimo di cabibo e rivolto ai regnicoli. Deriva da un fatto di cronaca nera che fece scalpore avvenuto nel 1905 a Napoli: l'omicidio d'onore commesso dallo scultore Cifariello a Napoli. I delitti d'onore erano sconosciuti ai codici penali mitteleuropei. Il termine fu usato anche dall'irredentista Attilio Tamaro nel 1919 e dalla polizia in un rapporto prefettizio, per manifestare quanto fosse diffuso in città, dopo l'arrivo degli italiani, e di come alcuni loro costumi fossero poco accetti dalla popolazione[33]. Citato anche in Filosofia Quotidiana di Manlio Cecovini e in alcuni dizionari vernacolari.
Marinielli: usato a Trieste, e in particolar modo sul Carso e nella comunità slovena, deriva dal cognome di un soldato italiano che per primo, si dice, impalmò una donna di lingua madre slovena. Si riferisce al fascino mediterraneo che farebbe presa sulle donne nordiche, poco abituate dai loro uomini alle attenzioni e alle galanterie meridionali. Il termine nasconde un doppio senso, "el mariniel ve frega", riferito alla presunta attitudine all'abbandono dei seduttori mediterranei, una volta raggiunto il loro scopo;
Pigne, per estensione pignate (pentole): usato a Trieste, era un riferimento allo stemma d'Italia che assomigliava ad una pigna;
Scafuri: usato a Trieste e in Istria, deriva dallo sloveno cefurj, termine spregiativo con il quale si indicano i popoli del meridione della ex Jugoslavia, per estensione applicato anche agli italiani.
Altri termini:
Mafiamann e Mafiosi (singolare) o Mafioso: (Germania);
Itaka (Germania da Italienischer Kamerad) ironico ricordo della Seconda Guerra Mondiale;
Carcamano (Brasile, significa furbone, truffatore): deriva dall'atto di calcare la mano sul piatto della bilancia barando sul peso, ma può indicare una persona morta di fame, o zampe di vacca nel senso di persona tirchia, che resta con le mani chiuse e non spende;
Tschinggali (Svizzera, fine Ottocento): deriva dalla trascrizione del suono cinq!, usato nel gioco della morra, diffusissima tra gli italiani. Nello spettacolo teatrale Italiani Cìncali si specula sul fatto che Tschinggali possa essere una storpiatura di Zingari, cioè vagabondi. In Svizzera erano così definiti gli italiani lavoratori, con intento chiaramente dispregiativo e allusivo alla loro condizione di "vagabondi, ladri e poco igienici". La popolazione Romanì è vittima dello stesso pregiudizio;
Magnaramina (in Ticino, significa rosicchia-reticolato; ma ramina e anche pentola in veneto): usato in particolare nei confronti dei lavoratori frontalieri;
Shitalian (parola macedonia che fonde le parole inglesi Italian, italiano, e shit, merda);
Italiashka (russo, significa "italianaccio");
Tanos (Argentina): detto per le navi che arrivavano nel porto di Buenos Aires in maggioranza da Napoli e quindi abbreviativo di napolitanos;
Babi (molto spregiativo, usato nella regione di Marsiglia e in generale nelle Bouches-du-Rhône): deriva dall'occitano e significa, in prima istanza, rospo.
Le irragionevoli ragioni del razzismo anti-italiano. Perché gli italiani si lasciano insultare senza reagire? Scrive Regina di Giove il 30 agosto 2013. E’ opinione consolidata in ogni parte del mondo, in primo luogo in Italia, che quello italiano sia il popolo più corrotto e corruttibile del mondo. Ed è opinione altrettanto consolidata che all’origine di tale supposta, spiccata inclinazione degli italiani alla corruzione e alla delinquenza organizzata (italiani = mafiosi) ci sia la religione cattolica. Naturalmente, questa consolidata opinione affonda le radici nel protestantesimo, che notoriamente ha orrore di tutti i sacramenti, specialmente quello della confessione. “Poiché sono convinti che basti confessarsi per stare a posto con la coscienza, i cattolici fanno le peggiori porcherie”. Credo non ci sia bisogno di spiegare quanto sia errata questa visione del cattolicesimo in generale e del sacramento della confessione in particolare. Oltre all’anti-cattolicesimo protestante, dietro il moderno anti-italianismo c’è il razzismo biologico. In breve, secondo il razzismo biologico la presunta spiccata tendenza alla corruzione degli gli italiani avrebbe cause genetiche. Dopo che l’illuminismo aveva ridotto l’uomo a un essere puramente biologico, interamente formato dall’ambiente, la pseudo-scienza razzista, il ritratto del cui infame fondatore appare tuttora sulle banconote inglesi (Charles Darwin), suddivise l’umanità in razze superiori e inferiori. Secondo questa pseudo-scienza, ancora molto cara a inglesi e tedeschi, i nordici dai capelli biondi e occhi azzurri sarebbero uomini a tutti gli effetti, mentre i “negri” sarebbero metà uomini e metà scimmie (leggete L’origine dell’uomo di quel porco di Darwin, se non ci credete). E gli italiani? Come tutti i mediterranei, gli italiani sarebbero a metà strada fra i nordici e i “negri”: in sostanza sarebbero per un quarto scimmie. Quell’artista fallito di Monaco, quello con i baffetti, riuscì sedurre il popolo tedesco solo perché il popolo tedesco già aveva accolto da parecchi decenni le deliranti idee razziste, a dire il vero, i tedeschi quelle idee non le hanno mai abbandonate del tutto I tedeschi hanno un urgente bisogno di una terapia psichiatrica intensa per guarire da un patologico complesso di superiorità, che francamente li rende ridicoli, dal momento che la Germania negli ultimi decenni non ha dato contributi significativi né alla scienza né all’arte, a parte un paio di film di Wim Wenders. Almeno noi “piccoli italiani” fino a poco tempo fa abbiamo avuto decine di geni del cinema. E per pudore non mi soffermerò sul fatto che le donne di razza superiore manifestano una spiccata tendenza a darla ehm… concedersi con una velocità che sfida le leggi della fisica agli inferiori maschi mediterranei. A dire il vero, il razzismo eugenetico con sfumature anti-italiane non era e non è tuttora popolare solo in Germania, ma anche in Gran Bretagna, Francia, paesi scandinavi e tutti gli altri paesi del nord. Se non teniamo conto della sopravvivenza di questa cultura razzista, non riusciamo a capire perché oggi – nonostante l’Italia sia ancora la settima potenza industriale mondiale – gli italiani siano trattati con disprezzo nei suddetti paesi. Non dimentichiamoci mai della campagna derisoria contro Berlusconi che ha infiammato i media di tutti i paesi occidentali fino a poco tempo fa. Non dimentichiamoci mai delle risatine di Merkel e di Sarkozy. Credete che agli inglesi, ai francesi, ai tedeschi e agli americani interessi qualcosa della politica di Berlusconi? Assolutamente no: non sanno neppure se è di destra o di sinistra. A noi sembrava che stessero insultando unicamente il politico Berlusconi, in realtà stavano insultando il popolo di cui è stato fino a poco tempo fa il sommo rappresentante. Hanno insultato Berlusconi per insultare gli italiani. Mi dicono che oggi un italiano non può camminare per strada a Parigi o Berlino o Londra senza essere deriso dagli autoctoni, che si credono tuttora geneticamente superiori. Perché ci lasciamo insultare? Ma torniamo alla corruzione e all’evasione fiscale. Ebbene, l’idea che gli italiani siano più corrotti degli altri è la più grande, la più spudorata menzogna di tutti i tempi. La corruzione non ha né cause genetiche né cause religiose: ha una sola causa, che si chiama peccato originale. Ora, non c’è massima più vera di questa: “L’occasione fa l’uomo ladro”. Parafrasando questa massima, “L’occasione fa l’uomo corrotto”. Ebbene, molta burocrazia, molte tasse e molta spesa pubblica sono precisamente occasioni che fanno l’uomo corrotto. I grandi liberali della scuola austriaca (Mises, Hayek) lo dicevano già negli anni Venti che la spesa pubblica alimenta la corruzione, la pigrizia, gli sprechi, il parassitismo. Insomma, gli austriaci hanno detto quello che i razzisti non volevano sentirsi dire, e cioè che i “biondi” non hanno meno probabilità dei “mori” di cedere alla tentazione del furto e della corruzione. E oggi la storia dà loro ragione: il parassitismo, la corruzione, gli sprechi hanno prodotto debiti insostenibili in quasi tutti i paesi occidentali. E non è che la Germania sia messa tanto meglio dell’Italia dal punto di vista economico: sta solo leggermente meglio. Ma dallo stare leggermente meglio di un malato grave allo stare bene ce ne corre. La verità che i giornali italiani non dicono è che sprechi, parassitismi e corruzione proliferano anche nei paesi del nord. Tuttavia, i giornalisti dei paesi del nord nascondono con cura all’opinione pubblica internazionale i panni sporchi dei loro paesi per non danneggiarne l’immagine. Noi invece laviamo i panni sporchi in pubblico e quasi supplichiamo gli inglesi, i tedeschi, i francesi e gli americani di insultarci. Ma chi conosce bene la politica interna degli altri paesi, sa bene che tutti i paesi occidentali sono pieni di corrotti e corruttori. Anche gli Usa. Gli americani onesti guardano a Washington come a una sentina di corruzione. Potrei fare tantissimi esempi. Se è vero che in Italia proliferano i fasi invalidi, nella “civilissima” gran Bretagna si moltiplicano senza controllo le ragazze madri. Infatti, molte ragazzine di pura razza britannica si fanno mettere incinte dai primi che capitano in discoteca solo per intascare i generosi sussidi che il governo britannico regala alle ragazze madri. Nei civilissimi Stati Uniti è successo che i funzionari statali profumatamente stipendiati dal governo per monitorare l’andamento della borsa di Wall Street non si siano accorti dell’arrivo della tempesta finanziaria: infatti, erano troppo impegnai a scaricare da internet e a testare personalmente tonnellate di materiale porno. Insomma, lo stato è una macchina che produce corruzione in tutto il mondo.
E veniamo all’evasione fiscale. Rispetto a quell’immensa macchina per distruggere le ricchezze faticosamente prodotte dai cittadini che si chiama spesa pubblica, l’evasione fiscale è un problema minore. Secondo la propaganda sinistrese anti-italiana il debito pubblico sarebbe causato dall’evasione fiscale. Ridicolo. La verità che i giornali non dicono è che, anche recuperando tutta l’evasione fiscale fino a all’ultimo centesimo, i debito pubblico resterebbe altissimo. E infatti, secondo logica, il debito pubblico lo fa chi spende i soldi delle tasse, non chi si rifiuta di pagare le tasse. Nella maggioranza dei casi l’evasione fiscale è solo una forma di disperata autodifesa. Ascoltate le urla di dolore degli imprenditori: le tasse stanno uccidendo le loro imprese e le loro vite. Perché non dovrebbero fuggire all’estero? E se non possono fuggire all’estero, perché non dovrebbero cercare di non farsi prendere anche le mutande da quella associazione a delinquere che ha nome di Equitalia? Equitalia è l’equivalente post-moderno degli esattori del principe Giovanni. Ma purtroppo non abbiamo Robin Hood. La verità che i governi nascondono all’opinione pubblica è che tutti i paesi europei – non solo i “maiali” del sud – sono ridotti in fin di vita da enormi, inestinguibili debiti pubblici. Da quando Obama ne è presidente, anche gli Usa stanno cominciando a morire sotto il peso del debito. I politici questo lo sanno ma non lo dicono, per non perdere voti. Intanto, le grosse multinazionali cominciano a spostare armi e bagagli nei paesi emergenti dell’Asia, dove il cancro del debito pubblico non è ancora in metastasi. Su Repubblica è apparso di recente un articolo agghiacciante: Maurizio ricci, “Lo shopping è monodose”, Repubblica, 22 ottobre 2012. L’autore illustra le strategie di marketing che i grossi gruppi multinazionali adotteranno in Europa nei prossimi anni: “L’indicazione certifica ufficialmente – fuori da ogni pregiudizio o ironia, perché le multinazionali sono notoriamente senza cuore, dunque spietatamente lucide – che l’Europa può ormai essere considerata un continente povero, sul bordo del Terzo mondo. E, come nei paesi poveri, una delle strategie di vendita è ridurre le dimensione delle confezioni, per rendere la spesa più abbordabile. Oppure, rendere i prodotti meno complessi e sofisticati, dunque più economici”. Insomma, siamo ridotti come i sovietici. Loro facevano la fila per il pane, noi faremo la fila per comprare gli scarti negli hard-discount. E tutto per merito del britannico John Maynard Keynes. La realtà è questa. Ma nessuno vuole guardare la realtà. E’ più comodo continuare a pensare che gli italiani siano tutti brutti, sporchi e cattivi. Per aiutare la gente a guardare in faccia la realtà, c’è una cosa da fare subito: fare capire agli italiani che anche i paesi cui loro guardano come a fari di civiltà sono insozzati dalla corruzione. Faccio un appello ai giornalisti d’inchiesta: spulciate con cura i giornali dei paesi che si credono più evoluti del nostro, stanate uno per uno e sbattete in prima pagina le facce e i nomi dei corrotti, degli spreconi e dei ladri di pura razza ariana, di pura razza vikinga e di pura razza anglosassone. Solo allora gli italiani non accetteranno più di farsi insultare, alzeranno la testa e capiranno che loro nemico numero uno è lo STATO.
Avevo già affrontato il problema del razzismo anti-italiano in questo articolo dell'1 agosto 2013.
Berlusconi condannato, italiani insultati e coperti di sputi dagli stranieri. E dopo questa ignobile, farsesca condanna di Silvio Berlusconi, preparatevi ad una tempesta di sputi, insulti ed offese da parte degli stranieri (specialmente nord europei e americani) contro gli italiani. Consiglio a tutti gli italiani in ascolto di non passare le vacanze all’estero per non rovinarsele. Ma gli sputi, gli insulti e le offese ve li meritate, perché non reagite. Nessuno vuole denunciare e protestare, tranne me e qualcun altro. Gli articoli scritti dai bulletti ignoranti alcolizzati onanisti britannici come Tobias Jones ve li meritate tutti. Come ho scritto, l’anti-razzismo è il nuovo razzismo. Ma sul The Guardian potete trovare un articolo in cui il vecchio razzismo eugenetico (che comprende il razzismo anti-italiano) si fonde mirabilmente col nuovo razzismo: Why is Italy still so racist?
Riassunto del contenuto dell’articolo: tutti gli italiani insultano la Kyenge perché sono dei trogloditi sottosviluppati che sanno fare solo la pizza. Anche nell’area commenti trovate una tempesta di offese verso gli italiani. Ma nessuno di questi commenti è stato cancellato. Invece hanno cancellato il mio commento. Perché? Perché denunciavo le offese implicitamente razziste contenute nell’articolo e nei commenti. Un articolo di rara insipienza, in cui non c’è il benché minimo accenno alla questione della difficoltà di integrazione della maggior parte degli immigrati.
IO NO MI SPIEGHERO’ MAI PERCHE’ GLI ITALIANI SI LASCIANO INSULTARE E OFFENDERE SENZA REAGIRE.
Quello che non mi spiegherò mai è perché nessuno protesta contro il rigurgito di razzismo anti-italiano, che si cela sotto Ia satira anti berlusconiana. Io sono praticamente l’unica a metterci la faccia e a pubblicare commenti di protesta sui giornali fognari in cui appaiono articoli razzisti conto gli italiani. Naturalmente, i miei commenti vengono immediatamente cancellati. E se mando ad un giornale italiano una lettera in cui denuncio questi fatti, la mia lettera viene ignorata. Sulle riviste scientifiche peer reviewed si scrive che gli italiani da Roma in giù sono stupidi per ragioni genetiche (lo ha scritto due anni fa tal Lynn). E solo io protesto. Insomma, ne deduco che agli italiani piace essere insultati. Ma fin quando si lasceranno insultare, fin quando non alzeranno la testa, l’Italia non potrà essere la grande nazione che merita di essere. Tutti ci insultano e dicono che dopo il Cinquecento non abbiamo fatto più niente, a parte la pizza. Pazzesco. Basta studiare un poco di storia del Novecento, per scoprire che l’Italia ha dato tantissimo anche alla cultura del Novecento: quello italiano è il primo cinema al mondo per qualità (Fellini, Antonioni eccetera), l’energia nucleare è stata scoperta in Italia (Fermi), il primo prototipo del personal computer è stato inventato da un italiano. L’elenco dei contributi dell’Italia al progresso potrebbe continuare, ma mi fermo qui. Gli italiani non sanno farsi rispettare. Accettano e anzi incoraggiano gli insulti. Perché? Perché la patria dell’anti-italianismo razzista è l’Italia. L’anti-italianismo è stato inventato dalla intellighenzia di sinistra. E’ un uno strumento di propaganda. Negli anni ’50 gli intellettuali nullafacenti e benestanti della sinistra terrazzara dicevano: gli italiani non votano comunista perché sono stupidi e ignoranti, se fossero intelligenti voterebbero comunista e l’Italia sarebbe un paese normale. Oggi gli intellettuali nullafacenti e benestanti della sinistra terrazzara dicono: gli italiani votano Berlusconi perché sono stupidi e ignoranti, se fossero intelligenti voterebbero per la sinistra e l’Italia diventerebbe un paese normale. In effetti, questi intellettuali nullafacenti che insultano il popolo fanno una vita da nobili dell’ancien régime con i soldi del popolo (infatti sono quasi tutti giornalisti che campano di aiuti di Stato alla stampa). E nei loro party in terrazza (tipo La grande bellezza) invitano i giornalisti stranieri e, sorseggiando un cocktail dietro l’altro (tutti a nostre spese, ovviamente), li istruiscono: “Mi raccomando, sui vostri giornali insultate l’Italia berlusconiana, così gli italiani, a forza di essere insultati, capiranno la lezione e voteranno per noi”. Dunque l’anti-italianismo degli intellettuali italiani affonda le radici nel marxismo anti-cattolico. Similmente, il razzismo anti-italiano di inglesi, francesi, tedeschi e compagnia affonda le radici nella cultura giacobina-massonica, che è allo stesso tempo anti-cattolica e darwinista-eugenista-razzista. Quello che i nordici hanno sempre odiato del popolo italiano, è il suo tenace attaccamento alla Chiesa cattolica, che per un pazzo rincoglionito di nome Lutero era la Babilonia del diavolo... Accecati dall’odio, i nordici post-protestanti hanno cercato di spiegare il persistente attaccamento di gran parte degli italiani alla fede cattolica con argomenti razzisti. Lo spiego nel commento che ho pubblicato sul Guardian in calce al porco articolo do Tobias Jones contro l’Italia. Naturalmente i porci lo hanno subito cancellato.
Il Censis dice che siamo incazzati, razzisti e prepotenti. Ora la domanda è: come voteremo? Scrive il 12 dicembre 2018 Marco Brando, Giornalista e scrittore, su "Il Fatto Quotidiano". Un fantasma iracondo si aggira anche per l’Italia. Però, dalle nostre parti non si materializza lo spettro francese col gilet giallo, impegnato nel costruire barricate. Semmai imperversa uno spiritaccio incolore, descritto dall’ultimo Rapporto – il 52°- del Centro Studi Investimenti Sociali (Censis). Che aspetto ha? Quello della «delusione per lo sfiorire della ripresa e per l’atteso cambiamento miracoloso». Gli italiani sono descritti in preda a un «sovranismo psichico prima ancora che politico», che «talvolta assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio, quando la cattiveria – dopo e oltre il rancore – diventa la leva cinica di un presunto riscatto e si dispiega in una conflittualità latente, individualizzata, pulviscolare». In parole povere siamo incazzati, razzisti, egoisti e prepotenti. Ne sappiano qualcosa noi frequentatori di blog e di social network. Il mirino dell’odio di massa prima di tutto è puntato (con il contributo di partiti che cavalcano l’onda e la rendono più impetuosa) contro migranti e rom. Nella storia l’attacco alle minoranze non è un fenomeno nuovo. Però oggi il nostro subconscio razzista è esibito con un’irruenza cui non si assisteva dai tempi delle leggi razziali fasciste, varate più di 80 anni fa. Cosicché due italiani su tre vedono con negatività l’immigrazione. I più arrabbiati trionfano nelle categorie fragili: il 71% di chi ha più di 55 anni e il 78% dei disoccupati, mentre il dato scende al 23 tra gli imprenditori. Il 58% ritiene che gli immigrati ci privino di posti di lavoro, il 63 che rappresentino un peso per il sistema assistenziale; soltanto il 37% sottolinea il loro effettivo apporto positivo per l’economia e la previdenza sociale, in un Paese in calo demografico. Infine, per il 75% l’immigrazione aumenta il rischio di criminalità e il 59,3 esclude la possibilità di raggiungere un buon livello di integrazione tra etnie e culture nei prossimi dieci anni. La rabbia italiana, che sconfina nella cattiveria gratuita, spiega, secondo i ricercatori del Censis, anche il successo delle politiche nazionalpopuliste e anti-Unione europea. Sono – valutano i ricercatori del Censis – «dati di un cattivismo diffuso che erige muri invisibili, ma spessi». Inoltre, guardando al futuro il 35,6% degli italiani è pessimista, deluso e impaurito, il 31,3 è incerto, soltanto il33,1 è ottimista. Un fenomeno comune a molti Paesi della Ue e non solo, ma che nel nostro appare più accentuato, nonostante sia ancora compresso dall’illusione che i politici prestigiatori tirino fuori la bacchetta magica. La situazione descritta nel Rapporto sembra riflettersi nelle disposizioni varate da un governo che, da un lato, stimola l’odio usandolo come arma di distrazione di massa, dall’altro lo traduce in scelte politiche. Risultato: Amnesty International ha appena sostenuto che l’Italia gestisce in maniera “repressiva” il fenomeno delle migrazioni, mette a rischio i diritti umani dei richiedenti asilo, adotta spesso nella politica una retorica xenofoba e pratica sgomberi forzati, senza offrire alternative. Tuttavia – siccome l’odio non riempie le pance, non fa trovare un lavoro e non incrementa i conti in banca – è legittimo chiedersi come si trasformeranno gli elettori, divisi in tre parti quasi uguali. Per quanto tempo quell’italiano su tre che alcuni mesi fa ha votato i partiti oggi al potere può rimanere imbambolato, seppur arrabbiato, in attesa del colpo di bacchetta magica? Ancora più enigmatica è la capacità di resistenza allo stress da parte del cittadino su tre che non ha votato durante le scorse elezioni. Pure l’italiano su tre (poco meno) che ha votato i partiti oggi all’opposizione può sentirsi frustrato: dal fatto che la suddetta opposizione venga fatta, poco e male, da fazioni che non riescono ad ammettere i propri gravi errori. In tutti i casi, è angosciante la sempre più estesa allergia nei confronti delle urne e del sistema della rappresentanza. È vero che negli ultimi 4 anni la fluidità del consenso nell’era del web ha già dimostrato come un partito (il Pd) possa più che dimezzare i voti, mentre un altro (la Lega) possa triplicarli o quadruplicarli. Tuttavia è pure vero che lo spettro peggiore potrebbe essere quello del crollo strutturale degli equilibri democratici, causato dalla latitanza di massa in occasione delle elezioni. Perché molti altri potrebbero convincersi della tesi (quasi un proverbio, ormai) secondo la quale “i politici sono tutti uguali”; quindi è inutile votare. Se voterà un italiano su due, per fare un’ipotesi solo apparentemente pessimistica, che cosa sarà del governo del Paese? Chi sarà “nominato” da un elettorato forse minoritario rispetto ai non votanti delusi? Quali altre fonti di rabbia e rancore si innescheranno tra gli autoesclusi? La reazione, da parte di chi non è ancora in overdose da “rancorismo” e masochismo, dovrebbe essere quella di offrire alla discussione prospettive pratiche, realizzabili, civili e democratiche. Certo, in questo clima non è facile discutere pacatamente. Infatti, dopo migranti e rom, nella graduatoria dell’odio i “santoni del cambiamento” aggiungono gli “eretici”, quelli che al suddetto cambiamento, sempre imminente e mai evidente, non credono. Però quando il gioco si fa duro, come è noto, i duri possono – o potrebbero – cominciare a giocare. Forse è ora.
Repubblica, il professore spiega: la matematica ci dice come diventiamo razzisti, scrive l'1 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". Ci mancava il professore. A dirci che la matematica spiega come si diventa razzisti. Ma insomma, l'allarme-razzismo è il trend del momento (come l'allarme-fascismo lo era stato all'inizio del 2018, prima delle elezioni). E quindi il gioco val bene una lunga intervista al prof. La fa Repubblica, che chiede a Lucio Biggiero, docente di organizzazione aziendale (?) all'università de L'Aquila ed esperto di modelli computazionali, come una società diventa razzista. "Esistono solidi studi matematici di simulazione sociale che dimostrano come una società anche appena intollerante corre un alto rischio di diventare fortemente razzista. Con i modelli sulla segregazione razziale si può dimostrare che per generare una società segregazionista non è necessario essere né intenzionalmente né totalmente razzisti, e neanche esserlo al 50 per cento. Thomas Schelling, un economista americano Premio Nobel nel 2005, dimostrò che è sufficiente un dosaggio di razzismo (inteso come intolleranza a vicini di casa diversi dal proprio tipo) superiore al 33 per cento. I suoi risultati furono sorprendenti". E ancora: "La possibilità di generare una società totalmente razzista a partire da comportamenti individuali debolmente razzisti ricorda molto i meccanismi che hanno portato all’organizzazione dello sterminio di massa degli ebrei e degli altri gruppi sociali ad essi equiparati. Tanta letteratura scientifica li ha analizzati in profondità ed è sempre emerso che, in fondo, i fanatici, i razzisti al cento per cento, erano relativamente pochi. La stragrande maggioranza assentiva e si assoggettava alle regole".
Daisy Oskue, parla il figlio del consigliere Pd: "Il razzismo non c'entra. Non sapevamo che fare". Dopo l'aggressione alla discobola, a parlare è Federico, il ragazzo che quella sera era alla guida dell'auto: "Siamo stati dei cretini", scrive Giovanna Stella, Venerdì 03/08/2018, su "Il Giornale". Quella che è stata soprannominata la "banda dell'uovo" ha colpito Daisy Osakue domenica 29 agosto a Moncalieri, Torino. I tre ragazzi italiani sono stati individuati e uno di questi è pure il figlio di un consigliere del Partito democratico, Roberto De Pascali. E proprio su di lui è ricaduta una parte dell'attenzione pubblica. Il motivo? I giorni immediatamente successivi all'aggressione a Daisy, la Sinistra - come da copione - ha iniziato a parlare di "attacco razzista". E per questo motivo, se l'era presa con il ministro dell'Interno e con le sue politiche che - a loro dire - "incitano all'odio razziale". Ora, l'attenzione è ricaduta sul figlio del consigliere del Pd. Il giovane si chiama Federico De Pascali ed è stato intervistato da La Stampa. In quattro battute ha voluto esprimere tutto il suo dispiacere e ha ribadito che il movente "razzismo" non sussiste. "Perché abbiamo lanciato le uova? Perché non sapevamo cosa fare. L'abbiamo sentito dire in giro e l'abbiamo fatto anche noi. Comunque lo giuro, il razzismo non c'entra nulla. Adesso vorrei solo chiedere scusa a Daisy", dice il ragazzo. Scuse e giustificazioni non troppo forti. Eppure sono quelle che lui ha utilizzato con la stampa. Il ragazzo, poi, racconta che quella sera era a bordo dell'auto: era lui a guidare, "non ho visto chi ha tirato le uova tra i miei due amici". Federico - dice - che la "banda dell'uovo" ha capito la gravità del loro terribile gesto quando hanno iniziato a parlarne tutti. Stampa, Facebook, Twitter, televisione... "Abbiamo subito pensato di costituirci (cosa che non hanno fatto, ndr) - spiega -. Uno di noi è stato male e siamo tornati a Torino". Poi il resto lo hanno fatto i carabinieri, ovviamente, perché loro se ne sono andati al mare. L'adolescente, quindi, confessa che lui e i suoi amici avevano lanciato le uova già altre volte, "solo per divertirci, per sporcare i vestiti". Nell'intervista Federico si pente (a modo suo), dice di non aver parlato con suo padre "perché non ho avuto tempo, sono tornato dal mare mercoledì sera e quando mi sono svegliato c'erano i carabinieri in casa" (giustificazione piuttosto debole visto il putiferio che hanno scatenato e visto il forte desiderio di costituirsi. Ricordiamo che loro hanno agito domenica, ndr) e confessa che dopo aver lanciato il primo uovo sono passati al secondo. "Siamo stati dei cretini - conclude -. Non sono un razzista. L'abbiamo scelta a caso. In quella zona abita un mio amico, il razzismo non c'entra".
Daisy Osakue: quando l'Avvenire titolava "Vergogniamoci", scrive il 2 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". "Vergogniamoci" titolava martedì scorso il quotidiano dei vescovi l'Avvenire, accogliendo in pieno la tesi del razzismo sull'aggressione alla discobola Daisy Okasue, e implicitamente dando dei razzisti a tutti gli italiani, che dovevano vergognarsi. Nell'occhiello, poi, scriveva che "per Salvini il razzismo non c'è". E infatti razzismo non c'è stato, almeno nei casi delle aggressioni a colpi di uova nel torinese. I responsabili sono tre deficienti di 19 anni, uno addirittura figlio di un esponente del Pd. Chissà che domani l'Avvenire non titoli la sua prima pagina. "Ci vergogniamo". O almeno "Scusate".
Il razzismo è diventato la normalità in Italia. Non si può più parlare di un pericolo, ma di una realtà quotidiana, diffusa. Figlia di un mutamento antropologico, scrive Giuseppe Catozzella il 18 dicembre 2018 su "L'Espresso". Jorge Luis Borges coltivava rispetto e venerazione per la parte animale che risiedeva al fondo della sua natura. La tigre è un simbolo che ricorre spesso nella sua poesia: è la potenza naturale del corpo prima della civilizzazione. Ma Borges gli animali li preferiva in carne e ossa. In “L’altra tigre”, dice infatti che «persevera nel cercare […] quella che non è nei versi», perché «nel suo mondo non ci sono nomi né passato né futuro, solo un istante vero». La società rimuove la nostra animalità per autofondarsi (come ci ha insegnato Foucault), ma gli scrittori non possono che farci continuamente i conti. È quello che fa Francesco Piccolo in “L’animale che mi porto dentro” (Einaudi, 2018), declinata nella pulsione sessuale come fondamento delle relazioni. Nietzsche la metteva così: «La scienza nell’ottica dell’arte, e l’arte nell’ottica della vita»: solo un ritorno all’animale dentro di noi ci innalza a superuomini, eliminando le false credenze. Il corpo è lì (e comanda, senza che lo sappiamo), la nostra natura animale è lì, ed è sempre pronta a venire fuori, non appena le maglie sociali della civilizzazione si allentano. Questo può accadere per vari motivi. Uno dei più forti è il risentimento collettivo nei confronti del Leviatano, dello Stato stesso: una crisi economica in questo senso è un efficace detonatore. Insomma, la strada per tenere a bada la nostra animalità è faticosa: è il cammino della civiltà che, tra gli altri, ha raccontato Rousseau nel Contratto sociale. In ogni caso, proprio su quella teoria nicciana il fascismo e il nazismo hanno poi fatto leva per giustificare filosoficamente la sopraffazione sul più debole, che poi condurrà alla “soluzione finale”. Negli anni Venti e Trenta, le “basi materiali” per una rivincita dell’animalità repressa c’erano tutte, come mostra Antonio Scurati in “M, il figlio del secolo” (Bompiani, 2018): una gravissima crisi economica mondiale; l’impoverimento improvviso della classe media; il “solleticamento” dello scontento da parte di abili convogliatori di rabbia e frustrazione animalesca per fini elettorali.
La Storia trascorre, e si ripropone oggi in un “eterno ritorno”. L’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani dell’Osce, così come la commissione parlamentare “Jo Cox”, parlano di un aumento impressionante di reati di violenza a sfondo di odio razziale negli ultimi mesi, in Italia. Solo da giugno a ottobre sono una settantina (omicidi, accoltellamenti, sprangate, investimenti). A ben vedere, le basi materiali sono molto simili a quelle degli anni Venti. L’omicidio del nigeriano Emmanuel Chidi Namdi, a Fermo; il neonazista Luca Traini che leggeva il Mein Kampf che a Macerata spara trenta colpi contro sei stranieri; l’uccisione a Firenze del senegalese Idy Diane; quella del maliano Soumaila Sacko, in Calabria. Ma cos’è il razzismo, sulla cui base animale e biologica si commettono questi crimini? Si può prendere per buona la definizione che ne dà lo storico Fredrickson in “Breve storia del razzismo” (Donzelli, 2002): «Quando differenze che potrebbero essere considerate etnoculturali vengono invece considerate innate, indelebili e immutabili». Una tara innata, animale, biologica. «Andiamo a picchiare i neri», (Pomigliano). «’A negri qua non ce potete sta’, se non ve n’annate so’ affari vostra», (Tarquinia). «Non mi faccio visitare da un negro», (Cantù). «Gas per i negri», (Isola del Gran Sasso). «Non possiamo smettere finché voi negri siete qui», (Pavia). «Sporco negro, odio i negri», (Riccione). Sono tutte frasi pronunciate nel giro di un pugno di giorni dopo la famosa dichiarazione di Attilio Fontana, attuale Governatore della Lombardia: «Dobbiamo decidere se la nostra etnia, se la nostra razza bianca, se la nostra società deve continuare a esistere o se deve essere cancellata». Come nel secolo scorso, quello che sta accadendo è un involgarimento del dibattito pubblico e uno scivolamento progressivo dalla banalizzazione alla normalizzazione, fino alla rivendicazione delle violenze razziste. Come scrive Michela Murgia in “Istruzioni per diventare fascisti” (Einaudi, 2018) , anche sul versante razziale è avvenuto «il passaggio da avversario a nemico. […] Occorre parlare del nemico in maniera deformata e de-umanizzata, per esempio identificandolo con animali». E questa è una tecnica che finché porterà voti verrà perseguita. Su questo punto riflette anche il libro di Luigi Manconi e Federica Resta “Non sono razzista, ma” (Feltrinelli, 2017). Ma questo discorso pubblico inneggiante alla razza e all’odio, proprio come negli anni Trenta sta giustificando un comportamento violento privato, animale. Stanno tornando a circolare liberamente molte parole dell’ideologia razzista e deumanizzante che ha permesso il fascismo e il colonialismo, così come sembra riaffacciarsi una concezione della donna e della famiglia di stampo regressivo (per esempio, la mozione anti-aborto approvata a Verona, che fa tornare in mente le “culle vuote” del Ventennio). La dichiarazione del governo di differenziare gli orari di apertura degli esercizi commerciali “etnici” da quelli italiani. Il caso della mensa scolastica di Lecco, dove i bambini stranieri sono stati divisi dagli italiani. Il caso del comune milanese di Cinisello, dove la giunta ha chiesto il bollo della censura per ogni libro proposto nei progetti di lettura municipali. Lo stesso Ius sanguinis, che àncora la cittadinanza al “sangue” e non al luogo di nascita. La demonizzazione dello straniero come portatore di malattie (ideologia alla base del sequestro della nave Aquarius, mutuata dalla campagna fascista per la conquista dell’Etiopia).
Che cosa sta succedendo a noi italiani? Non eravamo mica “italiani brava gente”, come ha detto in un’intervista poi strumentalizzata l’attrice polacca Kasia Smutniak («il razzismo non è nel dna degli italiani»)? I numerosissimi episodi di violenza su stranieri però dicono il contrario. Di sicuro ci sta accadendo di essere vittime di un rimosso collettivo. Era la mattina del 18 settembre del 1938 quando Benito Mussolini, annunciava le leggi razziali. Sotto, in «un solo palpito di attesa e di amore», 150 mila persone esultavano, affollando piazza dell’Unità di Trieste in camicia nera e fez. Mussolini disse che occorreva «una chiara, severa coscienza razziale che stabilisca non soltanto delle differenze, ma delle superiorità nettissime». Poi tuonò contro chi credesse che quella non era farina del sacco italiano che «coloro i quali fanno credere che noi abbiamo obbedito a imitazioni o peggio a suggestioni sono dei poveri deficienti». E a ragione, perché era stata proprio l’Italia a inventare l’apartheid tra “sudditi” e “cittadini” nelle sue colonie. Prima al mondo, come prima anche nel parlare di “razza” italiana (parola che serviva a Mussolini per costruire un nazionalismo tutto ancora da creare, che doveva passare dal sanare il razzismo tra il Nord e il Sud, tra “nordici” e “sudici”, come si usava dire, e veniva scritto offensivamente anche negli atti parlamentari). Recentemente sono usciti due bei libri che si misurano con il mutamento antropologico in atto a causa dell’iperconnessione delle nostre vite. “The Game “(Einaudi, 2018) di Alessandro Baricco, che sulla scia del suo maestro Vattimo legge la questione filtrandola attraverso l’estetica della vita: tutto ciò che si può esporre verrà esposto al gioco della “macchina” estetica del gradimento, con relativa cessione alla “macchina”, da parte nostra e per contraccolpo, di ciò che di nostro credevamo proprio più “trasparente” e vero. Ed “Epocalisse” (Mimesis, 2018) di Marco Pacini, che riflette lucidamente più sulla perdita questa volta intellettiva e ragionativa che cediamo al Grande cervello comune, al grande server centrale. In tutti e due i libri, consapevolmente, c’è un grande, enorme, presente-assente, il grande invitato irriducibile, che si dimena, oggi più che mai, e che non cessa il suo ruggire: è il corpo. La tigre di Borges che da dentro ci avvampa.
Stangati i cori a Koulibaly. San Siro chiuso due gare. E l'Inter scarica i razzisti. Pugno duro del giudice sportivo. Il giocatore: «Sono orgoglioso del colore della mia pelle», scrive Davide Pisoni, Venerdì 28/12/2018, su "Il Giornale". Due partite a porte chiuse, una gara senza la curva. È la stangata del giudice sportivo all'Inter per i reiterati «cori insultanti di matrice territoriale» contro Napoli e per il «coro denigratorio di matrice razziale» nei confronti di Kalidou Koulibaly. Il presidente della Federcalcio aveva chiesto la «linea dura» ed è stato ascoltato. Ma il bollettino del posticipo da vergogna del boxing day non finisce qui. Perché lo stesso difensore senegalese è stato squalificato per due giornate: una per l'ammonizione ricevuta per il fallo su Politano in quanto diffidato, l'altra per l'applauso ironico. Stesso trattamento riservato a Lorenzo Insigne per aver rivolto al direttore di gara «un epiteto gravemente insultante», sanzione aggravata per il fatto di essere il capitano. Il tutto è conseguenza anche del clima che si era creato attorno alla partita. Alla vigilia Aurelio De Laurentiis aveva detto: «Mazzoleni mi preoccupa, con noi è sempre stato cattivo e non imparziale». Parole criticate duramente da Allegri: «Da alcuni presidenti parole pesanti contro gli arbitri». San Siro è stato così il teatro del peggio. La curva dell'Inter ha ripetutamente insultato i napoletani e Koulibaly, dal settore ospiti in avvio è partito subito un coro contro Mazzoleni. Ancelotti, che da quando è arrivato a Napoli sta portando avanti la battaglia contro gli insulti territoriali e razzisti, e i giocatori azzurri hanno chiesto almeno tre volte la sospensione della gara. Lo speaker ha fatto due annunci, senza successo. Nel finale poi la situazione è precipitata. La goccia che ha fatto traboccare il vaso già pieno degli insulti vomitati dagli spalti, sono stati i «buu» a Koulibaly, a detta di Ancelotti già scosso dall'ambiente di San Siro, ma comunque il migliore in campo. Lo stesso Koulibaly ieri ha risposto via social: «Sono orgoglioso del colore della mia pelle. Di essere francese, senegalese, napoletano, uomo». Al fianco del difensore Cristiano Ronaldo: «Nel mondo e nel calcio ci vorrebbero sempre educazione e rispetto. No al razzismo e a qualunque offesa e discriminazione!». Tra gli altri il classico «siamo tutti Koulibaly» di Boateng, che ai tempi del Milan era stato protagonista di un gesto eclatante abbandonando il campo in un'amichevole contro la Pro Patria. Il primo azzurro di colore, Joseph Dayo Oshadogan parla di «piaga sociale», mentre Gattuso difende l'Italia che «non è razzista, ma le partite vanno sospese». Non per Sandro Mazzola: «Sarebbe successo di peggio. Meglio andare avanti, avvertendo i giocatori che poi sarebbe stata annullata e rigiocata...». L'avvocato del Napoli Mattia Grassani è duro: «Con il caso Koulibaly, il sistema ha toccato il fondo. Ricorso? Non è consentito essendo una giornata più una. Per Insigne valutiamo». Anche l'Inter sta considerando di ricorrere contro un provvedimento che la farà giocare senza pubblico in coppa Italia contro il Benevento, in campionato contro il Sassuolo mentre contro il Bologna solo la curva resterà chiusa. Inoltre il prefetto di Firenze ha chiuso il settore ospiti per la sfida contro l'Empoli di domani. Il club nerazzurro in un comunicato ha rivendicato la sua storia fatta di «integrazione, accoglienza e futuro... Noi abbiamo detto no a ogni forma di discriminazione», l'impegno nel mondo con gli Inter Campus e chi non accetta «la nostra storia, questa storia, non è uno di noi». Valori ribaditi sui social dal presidente Steven Zhang accompagnati dallo slogan «Inter against racism». Alle scuse ci ha dovuto pensare il sindaco di Milano, Giuseppe Sala: «Chiedo scusa a Koulibaly, a nome mio e della Milano sana che vuol testimoniare che si può sentirsi fratelli nonostante i tempi difficili in cui viviamo». Sala ha proposto Asamoah capitano e poi aggiunto: «Ero a disagio, ho avuto la tentazione di lasciare lo stadio, ma volevo riflettere con calma. Se la cosa si ripetesse alzerei i tacchi e me ne andrei». La lezione di un boxing day da fuori di testa.
Scontri Inter-Napoli, il blitz militare degli ultrà con martelli e roncole. Milano, follia prima di Inter-Napoli: l’agguato di un centinaio di teppisti. Armati di martelli e roncole, uno di loro muore travolto da un Suv, scrivono Andrea Galli e Cesare Giuzzi su "Il Corriere della Sera" il 28 dicembre 2018. Indossano giubbotti scuri, cappucci e sciarpe, in un tratto poco coperto dalle telecamere e non presidiato dalle forze dell’ordine. Cento-venti tifosi di Inter, Varese e Nizza, uniti dalla militanza nell’estrema destra, sono schierati come plotoni, pronti all’assalto. Il campo scelto per la battaglia è l’incrocio tra via Novara e via Fratelli Zoia, a due chilometri dal Meazza dove tra un’ora si giocherà Inter-Napoli. È un attacco pianificato: fra le armi, ci sono punte da muratore, roncole, mazzette e martelli acquistati prima di Natale, quando i negozi erano aperti. Bottiglie, pietre e bastoni di legno completano l’arsenale, nascosto insieme a tondini di ferro e bottiglie in un parco in mezzo ai palazzi. A pochi metri dal luogo dell’attacco contro i tifosi napoletani che provocherà un morto e quattro feriti, e dimostrerà ancora una volta l’incapacità del calcio di liberarsi dalla sanguinaria prigionia degli ultrà.
Le violenze e il pirata. Le 19.20 di mercoledì, giorno di Santo Stefano. Gli abitanti del civico 7 di via Fratelli Zoia vedono dalle finestre la «formazione» in movimento. Non fanno in tempo a dare l’allarme. Il gruppo si raduna e accelera il passo verso via Novara, un viale a quattro corsie su una doppia carreggiata che porta allo stadio. Il fumo rosso delle torce si mischia alla nebbia. Qui viene bloccata la carovana di pullmini dei napoletani: una settantina di ultrà che scendono per respingere l’assalto. Ed è qui che Daniele Belardinelli, 39enne capo del gruppo di estrema destra «Blood Honour» del Varese calcio gemellato con la curva interista, viene investito da un Suv. Belardinelli è parte attiva del commando. Non è chiaro se su quel fuoristrada viaggino altri tifosi napoletani o se chi è alla guida si sia trovato circondato e nel panico abbia accelerato per scappare. Le violenze durano più di dieci minuti. Sono gli ultrà napoletani, non quelli interisti, ad accorgersi di quell’uomo a terra, il corpo quasi diviso in due parti. I partenopei avvisano gli interisti che trascinano Belardinelli su una station wagon. La macchina raggiunge il vicino pronto soccorso dell’ospedale San Carlo. Il lungo intervento chirurgico d’emergenza è inutile. Il referto parla di lesioni alla milza e all’aorta toracica, di fratture alle gambe e di ossa del bacino frantumate dal peso del fuoristrada. Belardinelli muore alle 4.30. L’automobilista del Suv è ricercato. Forse soltanto i testimoni potranno aiutare la polizia nella caccia al pirata.
Il grande depistaggio. Alle 19.20, quando scatta l’offensiva, i capi e i pezzi grossi degli ultrà interisti sono al chiuso del «Baretto», il ritrovo della tifoseria organizzata alle spalle del secondo anello verde del Meazza. Fingono disinteresse, sanno di essere osservati speciali della Digos perché Inter-Napoli è da sempre una partita ad altissimo rischio. Specie dopo i precedenti del 14 gennaio 2015, del 9 gennaio 2016 e del 21 ottobre 2017. Ma quando via radio arrivano le notizie del blitz militare di via Novara, la Questura, che schiera trecento agenti in azione fin dal primo pomeriggio, capisce che la calma apparente copre in realtà una trappola perfetta nella sua azione devastante. Un’«internazionale» degli ultrà studiata, premeditata. Vedette lungo il percorso di avvicinamento a Milano, che hanno segnalato i tragitti della carovana dei napoletani. L’arsenale e il suo allestimento (c’erano martelli appena acquistati con ancora le etichette). E la trentina di tifosi francesi del gruppo «Ultras populaire sud» del Nizza e altrettanti varesini. Tutti arrivati senza «preavviso».
Il summit operativo. Il sospetto della Digos è che l’azione sia stata organizzata attraverso sistemi instant messenger come TorChat. Ma potrebbe esserci stato un incontro operativo fra i capi, forse il giorno di Natale. Nella notte tra mercoledì e ieri sono stati fermati tre tifosi interisti: due ultrà degli Irriducibili e uno dei Boys, tutti con precedenti da stadio ma mai sottoposti a «Daspo». Altri sei, tra i quali chi ha accompagnato Belardinelli in ospedale, sono indagati. Il bilancio è provvisorio. Si procede velocemente in avanti, ma restano sospese delle domande, che il Corriere ha rivolto al questore Marcello Cardona. Una prima delle altre: perché in quel preciso punto i tifosi non erano scortati? «Non possiamo seguire ogni singolo spettatore. I napoletani sono arrivati da decine di città e sono entrati a Milano da differenti ingressi. Non appena sono esplosi gli scontri siamo intervenuti». Un altro interrogativo: l’agguato poteva essere previsto? «Ormai esistono chat difficili da intercettare... Noi abbiamo fatto il possibile. Forse di più. Piangiamo un morto e potevano essercene molti altri. Ho preso in considerazione l’ipotesi di annullare la partita, ma in curva già girava la notizia del ferimento di Belardinelli. Non giocare, avrebbe trasformato Milano in uno scenario di guerra».
Fermare le partite per razzismo: ecco chi decide e come funziona la norma. E' il responsabile dell'ordine pubblico e non l'arbitro a stabilire se sospendere o no. Cosa dice l'articolo 62 delle regole Figc, scrive Giovanni Capuano il 27 dicembre 2018 su "Panorama". Non è l'arbitro che può decidere la sospensione di una partita in presenza di cori razzisti o discriminatori. Non con le regole attuali della Figc che, di concerto con il Ministero dell'Interno, consegnano tutto il potere al responsabile dell'ordine pubblico. E' scritto nell'articolo 62 delle Noif Figc. Eccone i passaggi fondamentali: "Il responsabile dell'ordine pubblico dello stadio" che rileva la presenza di uno o più striscioni esposti dai tifosi, cori, grida e ogni altra manifestazione discriminatoria costituenti fatto grave "ordina all'arbitro, anche per tramite del quarto ufficiale o dell'assistente di non iniziare o sospendere la gara". Al provvedimento, dicono le regole attuali, andrà data la massima pubblicità: "Il pubblico presente dovrà essere informato sui motivi del mancato inizio o della sospensione con l'impianto di amplificazione sonora o altro mezzo adeguato". I messaggi servono anche per invitare il pubblico a togliere gli striscioni e a interrompere gli eventuali cori. Nel comma 8 dell'articolo 62 è dettagliato cosa deve accadere in caso di sospensione della partita: "I calciatori dovranno rimanere al centro del campo insieme agli ufficiali di gara. Nel caso di prolungamento della sospensione, in considerazione delle condizioni climatiche ed ambientali, l'arbitro potrà insindacabilmente ordinare alle squadre di rientrare negli spogliatoi". La decisione ultima sulla ripresa del gioco è, però, sempre delegata al responsabile dell'ordine pubblico: "L'arbitro riprenderà o darà inizio alla gara solo su ordine del responsabile". La sospensione o il ritardo non potranno durare oltre 45 minuti. L'arbitro dovrà segnalare nel suo referto tutto quanto accaduto e la Giustizia sportiva emetterà i suoi provvedimenti sulla base di quella relazione.
Inter-Napoli, Koulibaly: perché la partita non è stata sospesa? Chi può fermarla? L'arbitro può interrompere solo momentaneamente un match, la decisione finale spetta al responsabile dell'ordine pubblico, scrive di Alessandro Bocci il 27 dicembre 2018 su "Il Corriere della Sera".
La partita tra Inter e Napoli doveva essere sospesa per i cori razzisti nei confronti di Koulibaly?
La decisione di sospendere una gara spetta al responsabile dell’ordine pubblico, un funzionario facente capo al ministero dell’Interno e presente allo stadio.
Qual è il compito dell’arbitro in presenza di cori razzisti o di discriminazione territoriale?
Il direttore di gara, in presenza di cori razzisti o discriminatori, ha la facoltà di chiedere attraverso lo speaker, l’interruzione dei suddetti cori e qualora non venga ascoltato può chiedere che il messaggio venga mandato sino a tre volte.
L'arbitro può sospendere la partita?
Solo provvisoriamente, richiamando le squadre al centro del campo oppure mandandole nello spogliatoio.
Perché Mazzoleni non ha interrotto Inter-Napoli?
Evidentemente non ha avuto la percezione che la situazione fosse così grave.
Secondo i vertici arbitrali come si è comportato Mazzoleni?
Bene, seguendo il regolamento. Mazzoleni è stato promosso sia dal designatore Rizzoli che dal presidente Aia Nicchi.
Cosa succede se il responsabile dell’ordine pubblico decide di sospendere una partita in via definitiva?
Lo speaker deve informare subito i tifosi di cosa sta succedendo per favorire il deflusso dallo stadio.
Perché Irrati sospese Lazio-Napoli per cori contro Koulibaly e Gavillucci ha fatto altrettanto in Sampdoria-Napoli?
Non è una questione di semplice regolamento, ma di sensibilità dell’arbitro.
L'arbitro Gavillucci, dalla A ai ragazzi: aveva sospeso un match per razzismo. Ha fermato Samp-Napoli l'anno scorso. «Dismesso» dall'attività ufficialmente per «motivate ragioni tecniche» lui ha fatto causa all'associazione arbitri, scrive Guido De Carolis il 27 dicembre 2018 su "Il Corriere della Sera". Da Udinese-Bologna a Vis Sezze-Samagor. Dalle serie A ai Giovanissimi della provincia di Latina. La discesa all’inferno dell’arbitro Claudio Gavillucci si è compiuta in appena sette mesi. Il 20 maggio 2018 arbitrava la sua 50ª e ultima partita in serie A, il 3 dicembre era su un anonimo campo di periferia a gestire dei ragazzini. Quello che è successo in mezzo ha una motivazione ufficiale: è stato dismesso dall’Associazione italiana arbitri perché ultimo nella classifica di rendimento. C’è poi un’altra versione, tutta da verificare: ha pagato la decisione di aver sospeso per 3 minuti Sampdoria-Napoli del 13 maggio 2018 per cori di discriminazione territoriale intonati dai tifosi blucerchiati contro i napoletani. Era il 31’ della ripresa e il 39 enne Gavillucci decise di fermare la partita, vinta poi 2-0 dalla squadra allenata da Maurizio Sarri. L’episodio fece discutere, Gavillucci applicò il regolamento. Anche allora, come accaduto a San Siro l’altra sera in Inter-Napoli, lo speaker dello stadio aveva richiamato i tifosi. L’Aia a fine stagione escluse dalla Commissione arbitrale di serie A Gavillucci: «Dismesso per motivate ragioni tecniche». «Ha fatto quello che era suo dovere e in suo potere fare», racconta l’avvocato Gianluca Ciotti, difensore di Gavillucci che ha fatto causa all’Aia per la dismissione. «Ha applicato il regolamento e dopo due annunci dello speaker ha sospeso la partita. I cori erano stati colti da tutti e non poteva ignorarli. Era la scelta giusta», sottolinea il legale. Scese in campo il presidente della Sampdoria, Massimo Ferrero, per chiedere alla sua curva di smetterla. Un gesto coraggioso. «La scelta di sospendere una partita è difficile, l’arbitro ha una pressione enorme. E quella decisione fu giusta. Chissà perché però non pesò in modo positivo sul giudizio degli osservatori che dovevano valutare la prestazione di Gavillucci», spiega l’avvocato. A fine stagione l’Aia stila una classifica sul rendimento dei 22 arbitri di serie A, Gavillucci risulta ultimo. Era già accaduto l’anno prima, alla fine della stagione 2016-17, ma come d’abitudine era stato confermato. A 39 anni l’Aia di solito non pensiona gli arbitri per motivi tecnici, si suppone che un direttore di gara formato, con 50 partite di serie A alle spalle e non vicino al limite massimo d’età dei 45 anni, sia comunque una risorsa. L’Aia ha fatto una valutazione differente, per quanto legittima. Tra lui, ultimo in classifica, e il primo della passata stagione c’era un decimale di differenza nella valutazione (8.4 Gavillucci, 8.5 Rocchi), in mezzo gli altri. Per quanto non usuale, la dismissione è un provvedimento lecito. Gavillucci però non l’accetta e fa ricorso, anche perché c’è solo un altro caso simile di dismissione negli ultimi anni e risale al 2008-09, si tratta dell’arbitro Michele Cavarretta. Il 23 luglio l’Aia fornisce le valutazioni di rendimento a Gavillucci, motivando così la sospensione. Il primo grado di giudizio ha confermato la scelta dell’Aia, ora si vedrà cosa accadrà a metà gennaio davanti alla Corte federale d’appello. Restano due gesti. La scelta normale e coraggiosa di Gavillucci di fermare una gara per combattere il razzismo. Quella dell’Aia di dismettere l’arbitro. Poteva diventare uno spot sul fair play, si è preferito dismettere tutto con una semplice raccomandata.
'Ndrangheta, spaccio e croci nazi Le curve crocevia della criminalità. Lo scopo è fare soldi e menare le mani. Anche ricattando i club, scrive Luca Fazzo, Venerdì 28/12/2018, su Il Giornale". Giusto per fare un po' di nomi e cognomi. Gennaro De Tommaso detto «Genny a Carogna», capo dei Mastiffs del Napoli, l'anno scorso è stato arrestato per traffico di stupefacenti. Luca Lucci, l'ultrà del Milan divenuto famoso per i suoi selfie con il ministro Matteo Salvini, è amico di narcotrafficanti e assassini. Il suo capo Giancarlo «Sandokan» Lombardi, che da decenni detta legge sulla Sud di San Siro, è un pregiudicato e un fascista. I fratelli Franco e Alessandro Todisco, figure fisse della Curva Nord dell'Inter, sono i fondatori di Cuore Nero, gruppo neonazista. Daniele De Santis, l'ultrà romanista che uccise il napoletano Ciro Esposito, faceva parte dei Boys, fondati da «Marione» Corsi, fascista e membro dei Nar. Il volto nuovo della curva della Juve, Rocco Dominello, è un affiliato alla 'ndrangheta, cosca Pesce-Bellocco di Rosarno. Occorre andare avanti? Brandelli di biografe, stralci di schede segnaletiche che raccontano un trend ormai fuori controllo: la mutazione genetica delle curve degli stadi italiani, divenute ormai un crocevia di ideologia e di affari criminali dove il calcio entra veramente poco, e dove due passioni sovrastano tutte le altre: il desiderio di fare soldi e la voglia di menare le mani. L'ideologia fascista conta più che altro come collante interno e per le alleanze nazionali e internazionali: la love story più solida nelle curve italiane, quella tra interisti e laziali, è saldata da svastiche e rune. E lo stesso vale per le alleanze continentali, come l'asse tra la curva del Verona e gli Ultras Sur del Real Madrid, che portano in dote bandiere naziste, o il patto di ferro tra la Sud del Milan e i Grobari («Becchini») del Partizan di Belgrado, nazionalisti e omofobi, già protagonisti dell'assalto al gay pride del 2010, e infiltrati in profondità da esponenti del narcotraffico. La commistione tra curve e politica non è un fenomeno nuovo, nasce insieme ai primi gruppi ultrà negli anni Settanta. Nuova è la conquista delle curve dalla alleanza tra tifo, malavita e politica che poggia su due pilastri: un patto trasversale tra le tifoserie più importanti sancita a partire dal vertice del 3 settembre 2009; e la sudditanza da parte dei club. L'esempio più eclatante, perché l'immagine ha fatto il giro del mondo, è la genuflessione del capitano del Napoli Marek Hamsik davanti a «Genny a' Carogna», il 3 maggio 2014 prima della finale di Coppa Italia. Ma che dire dell'Inter che permette agli ultras di salire sul pullman della squadra e minacciare i giocatori? O del Milan che subisce i ricatti a raffica dei capicurva, contro i quali si batte invano (e pagandone le conseguenze) Paolo Maldini? La vergognosa trattativa tra la Juventus e il clan Dominello è solo l'ultima puntata di un serial che si trascina da tempo. Spaccio di droga, traffico di biglietti, ricatti alla società (e i cori razzisti di mercoledì a San Siro fanno parte di quest'ultima sotto-categoria): questo è il groviglio di interessi che i clan si spartiscono in curva, in un clima di impunità dove tutto diventa possibile, compreso l'assalto ad una caserma dei carabinieri, per «vendicare» il tifoso laziale Gabriele Sandri, compiuto dai tifosi interisti l'11 novembre 2007. In testa al gruppo i fratelli Todisco, quelli di Cuore Nero. Ma nel corteo c'è anche Franco Caravita, il capo indiscusso della curva nerazzurra: interista duro e puro ma pronto a scendere a scendere a patti con i rivali di sempre in nome degli interessi comuni. C'è anche lui, all'incontro cruciale dei capicurva del 23 settembre 2009. E del suo omologo rossonero Giancarlo Capelli è anche socio in affari.
Non tutti gli ultras sono violenti: la solidarietà del tifo juventino, scrive il 28/12/2018 Maurizio Marrone su Il Giornale. Un tifoso morto, diversi arresti, un agguato organizzato: questo il bilancio della tragedia di mercoledì sera a Milano, in via Novara, vicinissimo allo stadio San Siro, prima della partita Inter-Napoli. Saprete tutti l’accaduto: i van che trasportano i tifosi napoletani vengono assaliti da un centinaio di ultras interisti, alcuni anche del Varese e del Nizza. Gli uni attaccano e quelli rispondono, inizia un fuggi fuggi generale e un ultrà del Varese, Marco Belardinelli, viene travolto da un suv. Ricoverato, muore nella notte in sala operatoria. Sarebbe forte la tentazione di scrivere articolesse pensose sulla violenza degli ultras: ma non tutti gli ultras “fanno casino”. Ci sono dei giovani delle curve – e non sono la minoranza – che vanno allo stadio solo e soltanto per amore per lo sport; altri, poi, svolgono opere di volontariato e assistenza per le persone più sfortunate e, in generale, si battono per dei valori sani (Redazione). Ritrovo alla “Piola” bianconera a due passi dallo stadio Juventus, nel quartiere operaio delle Vallette: il raduno può sembrare un qualunque ritrovo pre-partita dei tifosi della Vecchia Signora, invece si tratta di un momento simbolico per il cuore di Torino, che non dimentica la ferita mai rimarginata dei disordini di piazza San Carlo in occasione della finale di Champions League 2017. Parte il sodalizio tra l’associazione Quelli di via Filadelfia, nella quale si riconoscono tutte le sigle della curva juventina e la Onlus I sogni di nonna Marisa, fondata dai familiari di Marisa Amato, rimasta paralizzata nella tragedia costata la vita ad Erika Pioletti. Obiettivo: contribuire a umanizzare il reparto di neurologia dell’Ospedale infantile torinese Regina Margherita. Non sono nuovi alle opere di solidarietà gli ultras di Via Filadelfia, che, tra iniziative per commemorare le vittime dell’Heysel oppure contro il codice di gradimento e il caro-curva, hanno già raccolto fra i ragazzi delle gradinate quasi trentamila euro in favore della Fondazione per la ricerca sui tumori dell’apparato muscolo scheletrico, anche con campagne trasversali insieme alla tifoseria granata, quale il Derby della solidarietà promosso dal Caffè Vergnano. L’ultimo crowdfunding di Quelli di via Filadelfia si è sposato, però, con il sapore dei tipici cioccolatini sabaudi, i gianduiotti firmati Ziccat. Il cuore bianconero, insomma, batte forte per aiutare tanti bambini malati a realizzare il sogno di giocare a calcio. A dispetto della triste notizia di ieri della morte del tifoso investito da un van prima della partita Inter-Napoli, ci sono dei giovani delle curve che si battono per dei valori sani.
Calcio e violenza: morto il tifoso dell'Inter investito prima di Inter-Napoli. Ecco chi era Daniele Berlardinelli, ultras coinvolto negli scontri. La rabbia del Questore: "Agguato squadrista, vietare trasferte fino a fine stagione", scrive Giovanni Capuano il 27 dicembre 2018 su "Panorama". E' morto il tifoso dell'Inter investito da un va prima della partita Inter-Napoli che si è disputata a San Siro la sera del 26 dicembre 2018. Si chiamava Daniele Belardinelli, aveva 35 anni ed era originario di Varese. Era un ultras dell'Inter con Daspo precedenti per reati da stadio anche se al momento non risultava avere alcuna limitazione. Belardinelli è morto nelle prime ore della mattina all'ospedale San Carlo di Milano dove era stato trasportato d'urgenza da alcuni compagni. Aveva lesioni gravi alla milza, all'aorta toracica e addominale, diverse fratture in parti del corpo dovute quasi certamente all'investimento anche se sarà l'autopsia a dare elementi decisivi per la ricostruzione della dinamica del suo ferimento e della morte.
La ricostruzione dei fatti. Secondo quanto raccontato dalla Questura di Milano, gli incidenti si sono sviluppati tra le 19,30 e le 19,50 in zona Viale Novara a circa due chilometri dallo stadio. Un centinaio di ultras dell'Inter hanno teso un agguato nella zona di transito dei van con supporter del Napoli e uno di questi è stato circondato da gente armata di mazze e catene. "Agguato" e "azione squadrista ignobile" le ha definite il questore di Milano, Marcello Cardona che ha ripercorso i tragici avvenimenti. Nella colluttazione nata dall'agguato un uomo è rimasto ferito lievemente per una coltellata, mentre Belardinelli è stato travolto dal van che cercava di farsi largo per sfuggire all'agguato. Il questore Cardona, ha spiegato che si sta cercando di rintracciare il suv scuro e che non esistono al momento certezze circa la consapevolezza di chi era alla guida del mezzo riguardo l'investimento e l'uccisione del tifoso avversario. Tre ultras interisti sono stati arrestati con l'accusa di rissa aggravata e lesioni. Sono stati identificati grazie a video e testimonianze dei presenti. Non sono esclusi altri fermi col procedere delle indagini. Perquisizioni sono state effettuate in diverse abitazioni.
Il pugno duro contro la curva dell'Inter. Il questore Cardona ha anche annunciato di aver richiesto "con procedura d'urgenza" alcune misure eccezionali nei confronti della tifoseria nerazzurra: il blocco delle trasferte per tutta la durata del campionato e la chiusura della Curva Nord di San Siro fino a marzo 2019 per un totale di 5 partite di campionato e una di Coppa Italia. La presenza di ultras di Nizza e Varese rende ancora più inquietante lo scenario della notte di Inter-Napoli, costellata anche di odioso buuu razzisti nei confronti del giocatore senegalese Koulibaly e con polemiche che si sono trascinate ben oltre la fine della gara.
Chi era Davide Belardinelli. Davide Belardinelli, 35 anni, abitava nella zona di Morazzone in provincia di Varese ed era noto come uno dei capi dei “Blood Honour”, la grangia più estrema del tifo organizzato del Varese. Era a Milano per via del gemellaggio con la Curva Nord dell'Inter. La Questura di Varese ha spiegato che era "sorvegliato speciale per reati connessi a manifestazioni sportive". Nel corso della sua carriera da capo tifoso era incappato in due Daspo: nel 2007 per scontri a margine di Varese-Lumezzane e nel luglio 2012 dopo un'amichevole tra Como e Inter. Al momento degli incidenti nei pressi di San Siro non aveva alcuna limitazione per l'accesso allo stadio. Il Daspo del 2012 si era concluso nel 2017. Belardinelli era campione di arti marziali; combatteva per la "Fight Academy" di Morazzone con la quale aveva vinto alcune gare. Era socio di una ditta di pavimentisti e piastrellisti con sede in Svizzera nel Canton Ticino.
Scontri Inter-Napoli, chi è il tifoso morto: Daniele Belardinelli aveva già due Daspo. Daniele Belardinelli, il tifoso morto a Milano. Il 39enne di Varese è uno dei capi di Blood and Honour, gruppo neofascista, e campione di scherma corta. Sposato, con due figli, lavorava come piastrellista in Svizzera, scrive il 27 dicembre 2018 La Repubblica". Classe 1979, di Buguggiate, provincia di Varese, e uno dei capi del gruppo neofascista 'Blood and Honour': Daniele “Dede” Belardinelli, il tifoso varesino morto a Milano negli scontri tra gli ultrà di Inter e Napoli prima della partita giocata ieri sera a San Siro, era un volto noto delle curve. Sposato, con due figli, era - spiega la questura di Varese - "un sorvegliato speciale per reati connessi a manifestazioni sportive, con parecchi precedenti specifici". Nel 2012 aveva ricevuto dal questore di Varese un Daspo - cioè un divieto di avvicinamento agli stadi - per cinque anni, perché coinvolti negli scontri durante una partita amichevole Como-Inter, finita con due ore di guerriglia urbana. E un altro l'aveva ricevuto nel 2007, sempre di 5 anni, per gli scontri a margine dell'incontro Varese-Lumezzane. Perché le due tifoserie, quella di Varese e quella interista, sono da sempre molto vicine: e quindi il sospetto degli investigatori è che Belardinelli sia arrivato a Milano a dare man forte agli ultrà nerazzurri che avevano pianificato l'agguato ai minivan di tifosi napoletani poco lontano dallo stadio. Uno dei capi del gruppo neofascista, tra i più estremisti della galassia nera d'Italia, quindi, ma anche un campione locale di scherma corta, come raccontano le cronache. Belardinelli, che avrebbe compiuto 40 anni a marzo, nel 2015, come atleta della “Fight Academy” di Morazzone aveva vinto durante un torneo internazionale l'oro in tre specialità: coltello, giacca e coltello (scherma in cui un indumento viene usato come scudo) e "Capraia" (combattimento con i due atleti legati per le braccia). Racconta di lui un suo ex compagno di squadra: "Non ha mai avuto una squalifica durante le gare, mai un richiamo, non si è mai lamentato per le decisioni degli arbitri, era serio durante le competizioni e sorridente nella vita". "Amava il calcio, ma non ne parlavamo molto perché io tifo Juventus e lui tifava Inter, non so cosa dire, era un ragazzo solare". Sono le parole di uno zio di Daniele Belardinelli, che abitava nella zona di Morazzone, in provincia di Varese. "Ci incontravamo ogni tanto perché tutti e due lavoravamo nell'edilizia (Belardinelli lavorava in Svizzera come piastrellista) - ha proseguito lo zio - non so cosa sia successo, ho saputo la notizia dal telegiornale". Questa mattina alcuni ultrà dei "Blood Honour" si sono radunati davanti allo stadio comunale varesino 'Franco Ossola', chiedendo novità sulle condizioni del loro compagno, poi deceduto.
Tifosi morti: da Plaitano a Belardinelli, la sottile linea nera che parte nel 1963. Il decesso del 35enne Daniele Belardinelli allunga la terribile lista di vite spezzate per violenze nate dalla passione per il calcio: storie di tifosi uccisi dentro gli stadi o dopo le partite, una serie di tragedie lunga 45 anni e che comprende anche il poliziotto Filippo Raciti (2007) e il napoletano Ciro Esposito (2014), scrive il 27 dicembre 2018 Repubblica. Dentro uno stadio o lontano diversi chilometri, c'è un filo nero che accomuna le tragiche storie di tifo e vite spezzate. E' diversa da tutte le altre la dinamica della morte di Daniele Belardinelli, 35enne varesino tifoso nerazzurro, deceduto poche ore dopo essere stato investito nel corso di tafferugli tra opposte tifoserie scoppiati prima di Inter-Napoli nella serata di Santo Stefano, ma allunga la terribile lista di decessi per violenze nate dal tifo. Una lunga serie di tragedie cominciata negli anni Sessanta e proseguita fino a oggi, tra le quali c'è anche quella del poliziotto Filippo Raciti ucciso a Catania nel 2007 durante gli scontri fra opposte tifoserie di Palermo e Catania. L'ultima in ordine di tempo prima di questa, era stata quello di Ciro Esposito, il giovane tifoso del Napoli, ferito in occasione della finale di Coppa Italia del 3 maggio 2014 e poi morto all'ospedale Gemelli di Roma il 25 giugno successivo. Ecco il triste elenco dei "delitti da tifo":
28 aprile 1963 - Allo stadio "Vestuti" si gioca la sfida tra Salernitana e Potenza, decisiva per la promozione in serie B. A causa di un rigore non concesso ai campani i tifosi invadono il campo, scoppia la guerriglia e un poliziotto spara un colpo in aria: il proiettile raggiunge sugli spalti Giuseppe Plaitano, 48enne tifoso della Salernitana, e lo uccide.
28 ottobre 1979 - A un'ora dall'inizio di Roma-Lazio, dalla Curva Sud occupata dai sostenitori giallorossi parte un razzo sparato da un 18enne che attraversa tutto lo stadio e colpisce al volto Vincenzo Paparelli, tifoso laziale, causandogli lesioni gravissime. L'uomo viene subito portato in ospedale ma non c'è niente da fare.
8 febbraio 1984 - Alla fine di Triestina-Udinese, partita di coppa Italia, scoppiano gravi incidenti che obbligano le forze dell'ordine ad intervenire. Nel corso degli scontri il tifoso triestino Stefano Furlan muore a causa delle gravi lesioni cerebrali, causate molto probabilmente dalle percosse ricevute dalla polizia.
30 settembre 1984 - Al termine di Milan-Cremonese, il tifoso rossonero Marco Fonghessi viene accoltellato da un altro supporter del Milan: scambiato per un ultrà grigiorosso, Fonghessi reagisce contro coloro che tagliano le gomme alla sua vettura e un 18enne lo colpisce a morte.
9 ottobre 1988 - Scontri tra tifoserie rivali al termine di Ascoli-Inter allo stadio "Del Duca". Nazzareno Filippini, 32enne tifoso bianconero, viene gravemente ferito e muore poco dopo in ospedale.
4 giugno 1989 - Una ventina di ultras rossoneri, poco prima di Milan-Roma, cercano di aggredire quattro tifosi giallorossi. Uno di loro, il 18enne Antonio De Falchi, muore durante la fuga stroncato da un arresto cardiaco.
18 giugno 1989 - In occasione della partita Fiorentina-Bologna, i tifosi viola tendono un agguato al treno che trasporta gli ultras emiliani. Una bottiglia molotov esplode all'interno di un vagone e provoca il ferimento di due tifosi toscani, uno dei quali è Ivan Dall'Oglio, appena quattordicenne, che rimane irrimediabilmente sfigurato al volto.
10 gennaio 1993 - Al termine di Atalanta-Roma, Celestino Colombi, 42enne tifoso nerazzurro, muore stroncato da un infarto dopo essere rimasto coinvolto per caso nelle cariche della polizia.
30 gennaio 1994 - Aggredito da alcuni tifosi del Messina dopo il derby col Ragusa, il 22enne Salvatore Moschella muore gettandosi dal treno su cui viaggia, in prossimità della stazione di Acireale. Cinque le persone arrestate, delle quali due minorenni.
29 gennaio 1995 - Prima della partita Genoa-Milan, il tifoso rossoblu Vincenzo Spagnolo viene accoltellato a morte da un 18enne supporter rossonero, Simone Barbaglia, che sarà condannato a 15 anni di carcere per l'omicidio.
1 febbraio 1998 - Fabio Di Maio, 32enne tifoso del Treviso, muore per arresto cardiaco dopo l'intervento della polizia che cerca di sedare un accenno di rissa al termine della partita tra la formazione veneta e il Cagliari.
24 maggio 1999 - Il giorno dopo Piacenza-Salernitana, sfida decisiva per la permanenza in serie A, il treno su cui viaggiano verso casa oltre tremila tifosi granata prende fuoco vicino la stazione di Salerno. Nel rogo, appiccato dagli stessi tifosi, perdono la vita quattro giovani supporters granata: Vincenzo Lioni e Ciro Alfieri, 15 anni, Simone Vitale, 21, e Giuseppe Diodato, 23.
17 giugno 2001 - Antonino Currò, tifoso messinese di 24 anni, muore dopo esser rimasto in coma alcun giorni per una bomba carta lanciata dalla curva del Catania.
20 settembre 2003 - Sergio Ercolano, ventenne tifoso del Napoli, cade nel vuoto e muore a seguito di scontri con la polizia prima del derby con l'Avellino.
27 gennaio 2007 - Ermanno Licursi, dirigente della Sammartinese (terza categoria), muore a Luzzi, nel cosentino, a seguito dei colpi ricevuti mentre cerca di sedare una rissa in campo nella partita con la Cancellese. Il dirigente si accascia rientrando negli spogliatoi.
2 febbraio 2007 - L'ispettore di polizia Filippo Raciti perde la vita negli scontri scoppiati, al termine del derby Catania-Palermo, fuori lo stadio "Massimino" tra i tifosi etnei e le forze dell'ordine.
11 novembre 2007 - Gabriele Sandri, 28enne tifoso della Lazio, muore nella stazione di servizio di Badia al Pino, vicino Arezzo, sull'autostrada A1. Fatale un proiettile sparato da un agente della polizia stradale, Vincenzo Spaccarotella, intervenuto per sedare una rissa tra supporters di Lazio e Juve.
30 marzo 2008 - Matteo Bagnaresi, 28enne tifoso del Parma, viene travolto e ucciso, nell'area di servizio "Crocetta", tra Asti e Alessandria, da un pullman di tifosi juventini diretti allo stadio Olimpico di Torino. Fatale, stando alle prime ricostruzioni, la manovra dell'autista del mezzo. Rinviata, in segno di lutto, la sfida tra la Juventus e gli emiliani, in programma per la 12esima giornata di ritorno. In quella del girone d'andata c'era stata la morte di Sandri.
25 giugno 2014 - Ciro Esposito, 31enne tifoso del Napoli, muore 50 giorni dopo esser stato ferito a Roma da un colpo di pistola prima di Napoli-Fiorentina, finale di Coppa Italia del 3 maggio. A sparare Daniele De Santis, ultrà della Roma.
27 dicembre 2018 - Daniele Belardinelli, 35enne varesino tifoso dell'Inter, muore poche ore dopo essere stato investito nel corso di tafferugli tra opposte tifoserie scoppiati prima di Inter-Napoli. Trasportato all'ospedale San Carlo e sottoposto ad intervento chirurgico, spira per le ferite riportate.
Storie di tifo e morte, da Paparelli a Belardinelli, scrive il 27 dicembre 2018 Sky tg 24. Dal tifoso laziale ucciso da un razzo all’Olimpico nel 1979 al 39enne deceduto dopo essere stato investito da un suv fuori da San Siro prima di Inter-Napoli. Nella lista di chi ha perso la vita anche il poliziotto Filippo Raciti. Da Vincenzo Paparelli, laziale morto durante un derby contro la Roma nel 1979 a Daniele Belardinelli (CHI ERA), che sarebbe rimasto ucciso dopo essere stato investito da un suv negli scontri prima di Inter-Napoli del 26 dicembre 2018. Da 40 anni in Italia si muore a causa di una partita di calcio. O meglio per tutto quello che di violento spesso accade attorno al rettangolo di gioco. Sono 17 le persone, tifosi e non, che hanno perso la vita a ridosso di una partita di calcio in seguito a incidenti tra supporter. Nella lista di chi è stato ucciso, c’è anche il poliziotto Filippo Raciti, deceduto a Catania nel 2007, nei tafferugli prima del derby siciliano fra Palermo e Catania. Ecco, in ordine cronologico, tutte le vittime.
Vincenzo Paparelli. Il 28 ottobre 1979, Vincenzo Paparelli, di 33 anni, tifoso laziale, muore allo stadio Olimpico dopo essere stato colpito in volto da un razzo partito dalla Curva Sud, dove siedono i tifosi della Roma. Paparelli, in Curva Nord, attendeva l'inizio del derby della Capitale.
Marco Fonghessi. È il 30 settembre 1984 quando Marco Fonghessi, 21enne, viene accoltellato a morte dopo Milan-Cremonese, da un tifoso milanista come lui che lo scambia per un rivale quando reagisce agli ultrà che tagliano le gomme della sua auto.
Nazzareno Filippini. Il 9 ottobre 1988. Nazzareno Filippini, 32enne tifoso dell'Ascoli, viene ferito e muore poco dopo gli scontri allo stadio "Cino e Lillo Del Duca" in occasione della partita tra i bianconeri marchigiani e l'Inter.
Antonio De Falchi. Un assalto degli ultrà rossoneri lanciato ai danni dei rivali giallorossi costa la vita ad Antonio De Falchi, 18 anni, romanista, che muore di infarto durante la fuga prima di Milan-Roma. Era il 4 giugno 1989.
Salvatore Moschella. Nell'elenco delle vittime c'è anche chi non ha nulla a che vedere con le partite, come Salvatore Moschella, 22 anni, un giovane disoccupato di Melilli (Siracusa) che stava andando al Nord per cercare lavoro. Moschella muore il 30 gennaio 1994 gettandosi dal treno dopo essere stato aggredito da tifosi del Messina dopo il derby col Ragusa.
Vincenzo Spagnolo. Il 29 gennaio 1995, Vincenzo Spagnolo, 25 anni, tifoso rossoblù, viene accoltellato a morte da un ultrà rossonero prima di Genoa-Milan.
Vincenzo Lioni, Ciro Alfieri, Simone Vitale e Giuseppe Diodato. Vincenzo Lioni e Ciro Alfieri, entrambi 15enni, Simone Vitale, 21enne, e Giuseppe Diodato, 23enne, muoiono nel rogo del treno che riporta tremila tifosi della Salernitana a casa dopo la partita di Piacenza. Il fuoco era stato appiccato dagli stessi tifosi, nei pressi della stazione di Salerno. Era il 24 maggio 1999.
Antonino Currò. Il 17 giugno 2001, Antonino Currò, tifoso messinese di 24 anni, muore dopo esser rimasto in coma alcun giorni per una bomba carta lanciata dalla curva del Catania, durante il derby siciliano.
Sergio Ercolano. Il 20 settembre 2003, Sergio Ercolano, ventenne tifoso del Napoli, cade nel vuoto e muore a seguito di scontri con la polizia prima del derby campano tra gli azzurri e l’Avellino.
Filippo Raciti. E tra le vittime c'è anche l'ispettore capo della polizia Filippo Raciti, catanese di 40 anni, morto il 2 febbraio 2007 per un trauma epatico riportato in seguito agli scontri tra agenti e tifosi prima del derby Catania-Palermo. Per la sua morte sono stati condannati due ultrà rossazzurri Antonino Speziale, minorenne all’epoca dei fatti, e Daniele Micale.
Gabriele Sandri. Gabriele Sandri, 28enne tifoso della Lazio, muore nella stazione di servizio di Badia al Pino, ferito dal proiettile sparato dall'agente della polizia stradale Vincenzo Spaccarotella. Era l'11 novembre 2007.
Matteo Bagnaresi. Nemmeno un anno dopo dalla morte di Sandri che suscita una valanga di polemiche, Matteo Bagnaresi, 28enne tifoso del Parma, perde la vita, il 30 marzo 2008, in un'area di servizio tra Asti e Alessandria, investito dalla manovra incauta di un pullman di tifosi juventini.
Ciro Esposito. Il 25 giugno 2014, Ciro Esposito, 31enne tifoso del Napoli, muore 50 giorni dopo esser stato ferito a Roma da un colpo di pistola prima di Napoli-Fiorentina, finale di Coppa Italia. A sparare Daniele De Santis, ultrà della Roma.
Daniele Belardinelli. Daniele Belardinelli, 39enne di Varese, muore in ospedale a Milano, il 27 dicembre 2018, all’indomani di Inter-Napoli. Il 39enne sarebbe deceduto dopo essere rimasto investito da un suv.
Ciro e le altre «vittime del calcio». Ventidue morti in 50 anni di violenze. Da Plaitano, colpito dal proiettile di un poliziotto nel 1963, alla morte del tifoso napoletano dopo oltre 50 giorni di agonia, scrive il 25 giugno 2014 "Il Corriere della Sera". La morte di Ciro Esposito, il giovane tifoso del Napoli, ferito in occasione della finale di Coppa Italia del 3 maggio scorso, morto all’ospedale Gemelli di Roma dove era ricoverato da quella sera, è l’ultima di una lunga serie di tragedie cominciata negli anni Sessanta. Eccole.
28 aprile 1963 - Allo stadio «Vestuti» si gioca la sfida tra Salernitana e Potenza, decisiva per la promozione in serie B. A causa di un rigore non concesso ai campani i tifosi invadono il campo, scoppia la guerriglia e un poliziotto spara un colpo in aria: il proiettile raggiunge sugli spalti Giuseppe Plaitano, 48enne tifoso della Salernitana, e lo uccide.
28 ottobre 1979 - A un’ora dall’inizio di Roma-Lazio, dalla Curva Sud occupata dai sostenitori giallorossi parte un razzo sparato da un 18enne che attraverso tutto lo stadio e colpisce al volto Vincenzo Paparelli, tifoso laziale, causandogli lesioni gravissime. L’uomo viene subito portato in ospedale ma non c’è niente da fare.
8 febbraio 1984 - Alla fine di Triestina-Udinese, partita di Coppa Italia, scoppiano gravi incidenti che obbligano le forze dell’ordine a intervenire. Nel corso degli scontri il tifoso triestino Stefano Furlan muore per le gravi lesioni cerebrali, causate molto probabilmente dalle percosse ricevute dalla polizia.
30 settembre 1984 - Al termine di Milan-Cremonese, il tifoso rossonero Marco Fonghessi viene accoltellato da un altro supporter del Milan: scambiato per un ultrà grigiorosso, Fonghessi reagisce contro coloro che tagliano le gomme alla sua vettura e un 18enne lo colpisce a morte.
9 ottobre 1988 - Scontri tra tifoserie rivali al termine di Ascoli-Inter allo stadio «Del Duca». Nazzareno Filippini, 32enne tifoso bianconero, viene gravemente ferito e muore poco dopo in ospedale.
4 giugno 1989 - Una ventina di ultras rossoneri, poco prima di Milan-Roma, cercano di aggredire quattro tifosi giallorossi. Uno di loro, il 18enne Antonio De Falchi, muore durante la fuga stroncato da un arresto cardiaco.
18 giugno 1989 - In occasione della partita Fiorentina-Bologna, i tifosi viola tendono un agguato al treno che trasporta gli ultras emiliani. Una bottiglia molotov esplode all’interno di un vagone e provoca il ferimento di due tifosi toscani, uno dei quali è Ivan Dall’Oglio, appena quattordicenne, che rimane irrimediabilmente sfigurato al volto.
10 gennaio 1993 - Al termine di Atalanta-Roma, Celestino Colombi, 42enne tifoso nerazzurro, muore stroncato da un infarto dopo essere rimasto coinvolto per caso nelle cariche della polizia.
30 gennaio 1994 - Aggredito da alcuni tifosi del Messina, dopo la partita Messina-Ragusa, il 22enne Salvatore Moschella muore gettandosi dal treno su cui viaggia, in prossimità della stazione di Acireale. Cinque le persone arrestate, delle quali due minorenni.
29 gennaio 1995 - Prima della partita Genoa-Milan, il tifoso rossoblu Vincenzo Spagnolo viene accoltellato a morte da un 18enne supporter rossonero, Simone Barbaglia, che sarà condannato a 15 anni di carcere per l’omicidio.
1 febbraio 1998 - Fabio Di Maio, 32enne tifoso del Treviso, muore per arresto cardiaco dopo l’intervento della polizia che cerca di sedare un accenno di rissa al termine della partita tra la formazione veneta e il Cagliari.
24 maggio 1999 - Il giorno dopo Piacenza-Salernitana, sfida decisiva per la permanenza in serie A, il treno su cui viaggiano verso casa oltre tremila tifosi granata prende fuoco vicino la stazione di Salerno. Nel rogo, appiccato dagli stessi tifosi, perdono la vita quattro giovani supporters granata: Vincenzo Lioni e Ciro Alfieri, 15 anni, Simone Vitale, 21 anni e Giuseppe Diodato, 23 anni.
17 giugno 2001 - Durante Messina-Catania, Antonino Currò, 24 anni tifoso giallorosso, viene colpito da una bomba-carta lanciata dalla curva avversaria. Il giovane finisce in coma e dopo qualche giorno muore.
20 settembre 2003 - Sergio Ercolano, ventenne tifoso del Napoli, muore precipitando nel vuoto durante gli scontri tra tifosi e polizia prima del derby tra l’Avellino e la formazione partenopea.
27 gennaio 2007 - Ermanno Licursi, un dirigente della Sammartinese (terza categoria), muore a Luzzi, nel cosentino, a seguito dei colpi ricevuti mentre cerca di sedare una rissa in campo nella partita con la Cancellese. Il dirigente si accascia rientrando negli spogliatoi.
2 febbraio 2007 - L’ispettore di polizia Filippo Raciti perde la vita negli scontri scoppiati, al termine del derby Catania-Palermo, fuori dallo stadio «Massimino» tra i tifosi etnei e le forze dell’ordine.
11 novembre 2007 - Gabriele Sandri, 28enne tifoso della Lazio, muore nella stazione di servizio di Badia al Pino, vicino Arezzo, sull’autostrada A1. Fatale un proiettile sparato dall’agente della polizia stradale Spaccarotella intervenuto per sedare una rissa tra supporters di Lazio e Juve.
30 marzo 2008 - Matteo Bagnaresi, 28enne tifoso del Parma, viene travolto e ucciso, nell’area di servizio «Crocetta», tra Asti e Alessandria, da un pullman di tifosi juventini diretti allo stadio Olimpico di Torino. Fatale, stando alle prime ricostruzioni, la manovra dell’autista del mezzo. Rinviata, in segno di lutto, la sfida tra la Juventus e gli emiliani, in programma per la 12esima giornata di ritorno.
25 giugno 2014 - Ciro Esposito, 31enne giovane tifoso del Napoli, muore a seguito del ferimento con un colpo di pistola in occasione della finale di Coppa Italia del 3 maggio precedente tra Napoli e Fiorentina in programma a Roma. Esposito è rimasto tra la vita e la morte per oltre 50 giorni.
Inter-Napoli, Koulibaly e i cori razzisti di San Siro: l'espulsione del difensore è un caso, scrive il 26 dicembre 2018 Repubblica TV. Il Napoli perde male a Milano, contro l'inter: 1-0 nei minuti di recupero, con i partenopei ridotti in 10 per l'espulsione di Koulibaly all'80' (e poi in 9 per il rosso a Insigne al 94'). Il difensore del Napoli ha rimediato un doppio giallo dopo un fallo e un applauso irriverente nei confronti dell'arbitro. A Sky Calcio Club, tuttavia, Fabio Caressa ha fatto notare come al momento del gesto di Koulibaly dagli spalti piovessero ululati razzisti. Cori di questo tipo - e altri di discriminazione territoriale nei confronti dei sostenitori del Napoli - avevano causato, già prima nel corso del match, un richiamo dello speaker dello stadio ai tifosi nerazzurri. Dalle immagini Sky si intuisce come dopo il rosso a Koulibaly sia Callejon sia Insigne si rivolgano all'arbitro, facendogli notare con ampi gesti i cori che avrebbero innervosito il loro compagno di squadra.
Calcio, da Balotelli a Koulibaly: quei cori razzisti che sporcano gli stadi, scrive Martina Tartaglino il 27 dicembre 2018 su Repubblica TV. Da Mario Balotelli a Kevin Prince Boateng, da Sulley Muntari fino a Kalidou Koulibaly. Non sono pochi gli episodi di razzismo che si sono verificati negli stadi italiani negli ultimi anni. Spesso i cori e gli insulti verso alcuni giocatori hanno indotto i direttori di gara a sospendere le partite, altre volte a reagire sono stati gli stessi calciatori con gesti di protesta anche eclatanti.
Koulibaly: "Mi sento napoletano, quando andrò via piangerò! In Italia razzismo sui meridionali, vedete Insigne! Ancelotti, Sarri e Benitez..." Da quand'è a Napoli, ormai una vita, Kalidou Koulibaly è stato bravo a guadagnarsi pian piano la scena, scrive il 28.10.2018 Tutto Napoli. Da quand'è a Napoli, ormai una vita, Kalidou Koulibaly è stato bravo a guadagnarsi pian piano la scena, fino a divenire uno dei più forti difensori d'Europa, tanto cercato sul mercato. Il centrale azzurro, parlando anche di questo, ha rilasciato un'intervista al Corriere dello Sport: "Mi sento francese e senegalese da quando sono nato. Quando uno mi chiedeva di dove ero, rispondevo che ero francese ma anche senegalese da parte dei miei genitori. Per me era molto impotante. Poi, quando sono arrivato in Italia, a Napoli, dopo un anno e mezzo mi sentivo già cittadino napoletano. Perché io, Kalidou Koulibaly, sono, mi sento, francese, senegalese e napoletano". Lei ha ma avvertito rischi di razzismo? "Quando ho firmato la gente diceva che l'Italia è molto razzista. Io volevo rendermi conto da solo, non volevo ascoltare la gente, mi piace vedere le cose con i miei occhi. Tra quello che pensa la gente o quello che dice e quello che veramente è la realtà c'è un mondo di differenza. Il mio portiere di casa, che si chiama Ciro, mi ha detto "Quando arrivi a Napoli piangi due volte: quando arrivi e quando parti”. Io gli ho detto “Non ho pianto quando sono arrivato ma se un giorno dovrò andare via, spero il più tardi possibile, è sicuro che piangerò". Aveva ragione quando mi ha detto così, io sono molto felice qui. La gente parla a volte male di Napoli e non sa che cosa è Napoli. Quando non la vivi non puoi sapere che cosa è davvero". In campo le è capitato qualche episodio in cui è stato fischiato per il colore della sua pelle? "Sì, in altri stadi, non a Napoli. Quando sono arrivato non li ho sentiti durante il mio primo anno, ma già dal secondo ho iniziato a rendermi conto e mi dava fastidio. I 'buu' mi infastidiscono, non li accetto, perché non sono solo contro di me, per il colore della mia pelle, a volte sono anche contro i napoletani, la gente del Sud. Questo mi dispiace molto perché quando sei in un Paese dove tu devi trasmettere un senso di appartenenza e poi fischi contro la gente del Sud, o fai cori razzisti, finisci col contraddirti. Le faccio un esempio calcistico: quando uno come Insigne, che è un fuoriclasse assoluto, forse il migliore giocatore dell'Italia, è fischiato in alcuni stadi perché è meridionale, poi quando va in Nazionale come lo devi trattare? Io non capisco questo tipo di atteggiamento e spero che evolva velocemente. Stiamo cambiando, ma penso che dobbiamo ancora fare degli sforzi perché l'Italia deve andare avanti da questo punto d vista e dobbiamo aiutarci a farlo. Un altro esempio: la Nazionale francese che ha tanti giocatori di colore, di altre origini, che hanno vinto il Mondiale. Per me questa è la cosa più bella che possa succedere". Ha avuto allenatori come Benitez, Sarri e Ancelotti nel Napoli. Mi dice le differenze tra questi tre allenatori? "Poca e molta. Poca perché sono tutti e tre grandi allenatori. Il calcio di Benitez e quello di Ancelotti si somigliano molto. Ho avuto la fortuna anche di giocare con mister Sarri e il suo calcio era per me veramente bellissimo. Lui mi ha permesso di vedere il calcio e le partite in un'altra maniera. La sua filosofia era concentrata sulla tattica, tutto era previsto con lui. Oggi, quando guardo una partita di qualsiasi squadra, non la vedo più come quattro o cinque anni fa. E lo devo a lui. Benitez mi ha fatto scoprire il calcio vero. Io ero in Serie B in Francia, poi in Belgio, lui mi ha dato la possibilità di andare per la prima volta in Serie A, in un campionato molto importante. Il suo calcio è molto simile a quello di Ancelotti perché sono allenatori che hanno vinto, allenato grandi squadre e la loro visione del gioco ha molti punti di contatto. Ancelotti, tutti lo conoscono, ha vinto molto, ma quello che mi sorprende di più è l'umiltà che ha ancora e anche la voglia di vincere che non smettere di avere. Un uomo veramente perbene e lo ringrazio molto perché mi dà ancora la voglia di andare avanti, di crescere di far vedere che sono un giocatore sempre più forte. Con lui spero di fare qualcosa di bello perché è uno che dà fiducia a tutti e penso che non si sentirà mai un giocatore parare male di lui, perché ha grandi valori e trasmette serenità. A mia moglie dico sempre che spero, alla sua età di essere una persona simile a lui".
Thuram, il calcio e il razzismo: «Ancelotti ha squarciato i silenzi», scrive Francesco De Luca su Il Mattino il 30 novembre 2018. Lilian Thuram non ha smesso di correre e lottare come ha fatto in campo per 28 anni, dal primo campionato con il Monaco all'ultimo con il Barcellona, vincendo Europeo e Mondiale con la Francia. Corre per il mondo perché lotta contro il razzismo, il primo avversario di quest'uomo nato in Guadalupe, un nemico ostinatamente sfidato ma non ancora battuto. Il periodo più lungo della sua carriera - dal 1996 al 2006 - lo ha vissuto in Italia, indossando le maglie di Parma e Juve. Il suo primo allenatore è stato Ancelotti, che ha recentemente aperto il fronte contro i vergognosi cori da stadio, che tormentano da anni giocatori e tifosi del Napoli. Anzi, un'intera città.
«Sospendere le partite in caso di insulti»: cosa pensa della proposta di Ancelotti?
«Una premessa. È importante che ci sia una persona che dica che tutto questo non si può fare perché il vero problema è rappresentato da allenatori e giocatori che non dicono niente per paura di mettersi contro quei tifosi. Loro guardano e fanno finta di non vedere, manca la volontà di denunciare. Con un intervento come quello di Ancelotti si prende la direzione giusta».
Interrompere una partita, come gli arbitri sono stati sollecitati a fare dalla Federcalcio italiana, è un'azione utile?
«Se si interrompe una partita per cori razzisti o per insulti, il calcio si ferma a riflettere. Questo è un mondo professionistico basato sul business, dunque si può aprire una riflessione se c'è un intervento così forte contro un male che non è soltanto di questo settore ma della società. Il calcio provi a risolvere questa situazione: non la legittimi con il silenzio».
Come e dove nasce questa vergogna, questa persecuzione nei confronti di atleti neri ed ebrei o di una squadra meridionale?
«È una questione culturale. Chi non è oggetto di atti di razzismo non si rende conto che questa è violenza pura ed ecco perché non dà peso a certi episodi. C'è una differenza tra il razzismo per le origini e per il colore della pelle. Nei confronti dei meridionali che si trasferivano al nord per lavoro vi era un profondo ostracismo negli anni 50 e 60: si arrivava a negare l'ingresso in un locale. Fuori dagli stadi, la società non fa differenza tra italiani e napoletani mentre ancora oggi c'è chi invece rifiuta la legittimità, lo status di italiano, a chi è nero. Io ho giocato tanti anni con Fabio Cannavaro, lo considero mio fratello. Quando ascoltavo i cori che facevano contro di lui negli stadi perché era napoletano, gli dicevo che non era giusto e che non si poteva far finta di niente di fronte a coloro che si sentivano superiori ad altri e ovviamente non lo erano».
Siamo tutti Koulibaly (ma il razzismo non sia strumentalizzato). La notte della vergogna di San Siro, la guerra senza armi di Ancelotti, le polemiche pretestuose di De Laurentiis e un calcio che si delegittima da solo, scrive Giovanni Capuano il 27 dicembre 2018 su "Panorama". Siamo tutti Koulibaly. E siamo stati tutti anche Zoro, Balotelli, Eto'o e Boateng per citare alcune delle vittime del razzismo da stadio che non è folklore e nemmeno una tassa da pagare senza ribellarsi come troppi vorrebbero farci credere. Siamo tutti Koulibaly perché assistere al corredo sonoro osceno e razzista di Inter-Napoli porta a solidarizzare con un uomo, prima ancora che un giocatore, la cui unica colpa nella testa degli idioti da curva è di avere la pelle nera e giocare per la squadra avversaria. Il razzismo da stadio non è uno scherzo, è una cosa dannatamente seria e che si deve estirpare in un solo modo e, cioé, seguendo il modello inglese: colpire il responsabile e cancellarlo dalla possibilità di rimettere piede in uno stadio. Loro lo fanno, pur tra rigurgiti e difficoltà, quindi si può fare. E' l'unica soluzione seria senza perdersi in discorsi culturali e sociologici che vanno bene per un dibattito da salotto ma non per rendere respirabile nel minor tempo possibile il clima dei nostri stadi.
La notte di San Siro e la guerra di Ancelotti. La notte dei buuu razzisti di San Siro contro Koulibaly non può passare impunita, ma detto questo una riflessione si impone perché, proprio per la sua natura grave e inaccettabile, il razzismo da stadio va combattuto con un minimo di coerenza e senza improvvisazione. Sostenere che il difensore del Napoli, perfetto e migliore in campo per 80 minuti, sia stato espulso da Mazzoleni che non ha compreso come la sua reazione (applausi verso l'arbitro) fosse indirizzata al contesto razzista della serata e non una solenne arrabbiatura per l'ammonizione appena presa - sacrosanta - fa un torto allo stesso anti razzismo e assapora di strumentalizzazione. Dire che l'arbitro Mazzoleni avrebbe dovuto sospendere la partita e mandare tutti a casa significa non conoscere le regole. Quelle che affidano ai responsabili dell'ordine pubblico la decisione sul prosieguo o meno di una partita. All'arbitro, insieme agli uomini della Procura Figc, compete di segnalare comportamenti non consoni, chiedere che il pubblico sia sensibilizzato e, come misura estrema, fermare per qualche minuto la partita. Una testimonianza simbolica cui non si può ridurre tutto il dibattito.
Il nostro calcio autolesionista. Invece c'è un arbitro che è stato messo alla gogna e che lo era stato portato anche prima, alla vigilia del match, da dichiarazioni irresponsabili di un presidente come De Laurentiis che da mesi va in giro autoproclamandosi campione d'Italia morale senza che nessuno faccia scattare un deferimento o una qualsiasi forma di tutela da parte dell'ordinamento che anche lui dovrebbe rappresentare. A De Laurentiis la designazione di Mazzoleni non piaceva. Puzzava perchè lo riteneva "cattivo" e "non imparziale" con il Napoli. Il crollo nervoso finale della squadra di Ancelotti lascia supporre che i calciatori avessero assimilato in tutto e per tutto il pensiero del loro numero uno. Fa niente che Mazzoleni, questione cori spiegata a parte, se proprio ha commesso un errore lo ha fatto negando un rigore nel finale all'Inter. I fatti non esistono, lasciano spazio alle ricostruzioni di parte. Allegri ha attaccato ADL lamentandosi di un sistema che consente ai massimi dirigenti di spargere veleno impuniti. Allegri ha esagerato col nervosismo e con le polemiche in campo a Bergamo, ma il discorso post gara non fa una piega. Il nostro è un calcio che si sta sparando nei piedi. Prima di De Laurentiis era stato Preziosi a evocare malafede e complotti, poi Cairo a proseguire in un conteggio strumentale di torti e favori per il suo Torino. Anche Duncan, centrocampista del Sassuolo, ha argomentato che si decide a tavolino chi deve vincere attaccandosi a un gol non concesso alla sua squadra per questione di millimetri. Non da un arbitro ma dalla tecnologia. Nessuno di loro è stato chiamato a dare conto delle proprie parole. Tutti hanno lavorato con impegno certosino a distruggere il giocattolo del quale sono protagonisti. Se si potesse scrivere una letterina di Natale per il presidente Gravina (ma siamo fuori tempo massimo) conterrebbe due sole richieste: pene certe per i razzisti da stadio e la rimozione dal sistema di chi piega costantemente ai propri interessi la causa comune. Ci sarebbe una Procura Figc con i poteri di farlo, ma evidentemente non è interessata.
Gli scontri di Inter-Napoli, gli insulti a Koulibaly: una battaglia culturale. Il nostro errore, l’errore di tutti noi che amiamo il calcio e pensiamo ogni giorno al calcio, o addirittura viviamo di calcio, è di aver dato un alibi all’integralismo degli ultrà di aver accettato la loro narrativa, di credere che lo facciano davvero per i colori delle loro squadre, scrive Antonio Polito il 27 dicembre 2018 su "Il Corriere della Sera". «Papà, perché fischiano sempre Koulibaly?». Mio figlio, nove anni, doveva essere il protagonista della serata. Viaggio premio da Roma a San Siro per farlo esordire da interista nel tempio del Meazza. «Boxing day», l’avevano chiamato, e io ci avevo creduto: Natale col calcio, festa e bambini allo stadio. Gli ho risposto: «Lo fanno perché ha la pelle nera, e loro sono razzisti». E lui: «Ma allora perché non fischiano anche Asamoah?». Il quale, pur essendo nerazzurro, è effettivamente nero quanto Koulibaly. Logica stringente. D’altra parte avevamo fatto il viaggio in metro fino a San Siro chiacchierando schiacciati l’uno contro l’altro con un ragazzo di colore di Capetown, Sudafrica, turista e tifoso interista. Ed eravamo seduti affianco a due cinesi, ma non cinesi di Milano, cinesi cinesi, tifosi nerazzurri. Ed eravamo lì per una squadra che si chiama Internazionale perché fu frutto della scissione dal Milan di un gruppo di soci che non accettavano la chiusura autarchica e sciovinista agli stranieri. Come si fa ad essere razzisti e interisti?
E infatti il razzismo non spiega tutto ciò che è successo a Milano dentro e fuori lo stadio. C’è una logica precedente, tribale e belluina, nei comportamenti degli ultrà. Essi si ritengono tribù in guerra per il territorio con tutte le altre, e soprattutto con la tribù dei poliziotti, che odiano sopra ogni altra cosa. Quindi la regressione è a prima del razzismo, che è un frutto malato dell’Ottocento. Il modello è l’orda barbarica, che marca il terreno come fanno gli animali, con l’esibizione rituale quando va bene e con il sangue quando va male. L’insulto razziale, o «territoriale» come dice il codice sportivo, è usato per eccitare la violenza. Nero o napoletano fa lo stesso: purché sia nemico. Come altro si può spiegare la spedizione punitiva organizzata ed eseguita ore prima della partita, quindi senza alcuna connessione con gli eventi sportivi sul campo, a danno di una carovana di tifosi napoletani? E i cori indegni di incitamento al Vesuvio, stupidi come le vecchie barzellette? Come comprendere altrimenti la presenza ai fatti di ultrà del Varese e perfino del Nizza, pare aggregatisi per vecchi conti da regolare con i tifosi partenopei? Il nostro errore, l’errore di tutti noi che amiamo il calcio e pensiamo ogni giorno al calcio, o addirittura viviamo di calcio, è di aver dato un alibi all’integralismo ultramico, di aver accettato la loro narrativa, di credere che lo facciano davvero per i colori delle loro squadre. Ieri tanti bravi e onesti tifosi nerazzurri ripetevano sui social di «vergognarsi» peri «buuu» contro Koulibaly. Vergognarsi? Dunque ritengono gli autori di quei cori parte della loro stessa comunità? Solo del comportamento di un connazionale, o di un correligionario, o di un parente, ci si può vergognare. E noi, interisti anonimi, che cosa abbiamo in comune, oltre all’umana pietà per una vita distrutta e per due bambini rimasti orfani, con un uomo che militava in un gruppo chiamato Blood and Honour, aveva già alle spalle due Daspo ed era campione di un’arte marziale chiamata «giacca e coltello»? Perché non riusciamo neanche noi ad uscire da una concezione tribale e territoriale del tifo, come se fossimo servi della gleba cui la nascita assegna un destino, e gli interisti, o gli juventini, o i napoletani, fossero una specie a sé, antropologicamente distinta? Anche noi, che pure non siamo ultrà, ci scherziamo su per tutta la settimana, ci provochiamo sui social: partecipiamo al gioco. Questo errore lo fa anche il mondo del calcio ufficiale, quando accetta che l’alibi degli ultrà invada la giustizia sportiva, e giustifica o condanna un comportamento arbitrale, una ammonizione o una punizione, in relazione a ciò che succede sugli spalti. Perfino la «responsabilità oggettiva», istituto giuridico che esiste solo nel calcio, e a dire il vero neanche nel calcio nella maggioranza dei paesi europei, accetta la stessa logica quando punisce la società e il pubblico di una squadra per ciò che fanno gli ultrà: senza nessun risultato tangibile, a dire il vero, ma con l’aggravante di consegnare in mano a un gruppo di violenti un’arma di ricatto formidabile nei confronti delle società e dei presidenti, ché se non fanno ciò che vogliono succede il casino (ricatto che abbiamo visto più volte funzionare). La vera battaglia culturale da ingaggiare è un’altra: scacciare la logica tribale dagli stadi. Carlo Ancelotti, con la sua cultura cosmopolita acquisita sui campi di mezza Europa, forse oggi l’uomo più maturo e razionale del nostro pallone, l’aveva detto qualche mese fa, in tempi non sospetti: basta con gli insulti. Pur non essendo di colore, gli avevano dato del «maiale» in uno stadio italiano, per la semplice ragione che contro quella squadra lui aveva vinto una Champions. Sospendiamo le partite al primo insulto, aveva proposto. Chiudiamo le curve, se sono il territorio dei fuorilegge. Portiamo anche tra i calciatori il principio secondo cui civiltà ed educazione vengono prima di tutto (e che a terra non si sputa). Ora che abbiamo un «duro» al Viminale non dovrebbe essere difficile: essendo a sua volta ultrà, conosce bene la materia.
Luigi De Magistris: "Cori? È razzismo di Stato". Il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris usa la tragedia di San Siro per attaccare (ancora una volta) il ministro degli interni, Matteo Salvini, scrive Luca Romano, Giovedì 27/12/2018, su "Il Giornale". Il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris usa la tragedia di San Siro per attaccare (ancora una volta) il ministro degli interni, Matteo Salvini. Su Twitter il primo cittadino partenopeo ha commentato così la morte del tifoso nerazzurro: "Poteva mai essere sospesa la partita Inter-Napoli in un Paese che vive sempre più di razzismo di Stato e che vede nel Governo un ministro dell’Interno che dovrebbe garantire la sicurezza negli stadi ma che cantava qualche anno fa cori razzisti contro i napoletani?". Poi ai microfoni di Radio CRC, il sindaco di Napoli è tornato a rincarare la dose sui cori contro Koulibaly. "Condivido quello che ha detto Ancelotti, la partita andava assolutamente interrotta come tra l’altro più volte sollecitato. Questo ha inciso sicuramente su uno stato di agitazione e nervosismo da parte dei nostri giocatori. Ho apprezzato tantissimo il tweet di Koulibaly - ha detto De Magistris - ieri sera sul tardi, che ho condiviso perché credo che quello sia il messaggio che appartiene anche a me come essere umano, napoletano, italiano e cittadino del mondo". Infine un altro affondo sul governo: "Purtroppo il razzismo nel nostro paese avanza, anziché arretrare. Il compito dello Stato - ha sottolineato il primo cittadino di Napoli - deve essere quello di arginarlo, ma noi abbiamo anche rappresentati del governo che attualmente incitano alla discriminazione razziale, incitano alle divisioni sul colore della pelle e sulle provenienze geografiche".
Gad Lerner: «Io, interista, ho visto crescere la volgarità contro i meridionali». Il giornalista: «Sottocultura autorizzata dal leghismo che è al potere», scrive Gabriele Bojano il 28 dicembre 2018 su "Il Corriere del Mezzogiorno".
«Questo non è più un problema di tifo violento, siamo di fronte a veri e propri criminali politici che si annidano nella squadra del cuore». Il giornalista e conduttore televisivo Gad Lerner, da supporter neroazzurro di lungo corso qual è (non a caso inaugurò l’ultimo suo programma tv, La difesa della razza, intervistando due capi-ultras) si trovava allo stadio Meazza l’altra sera a vedere Inter-Napoli. «Mi domandavo il perché di questo speciale accanimento - dice - quasi che si cercasse ad ogni costo lo scontro, la squalifica. Non sapevo degli incidenti che erano avvenuti prima della partita».
Che idea ti sei fatto di quanto accaduto?
«Io frequento San Siro fin da ragazzo e ho visto crescere purtroppo questa sottocultura, volgare e razzista, contro i meridionali, in particolare i napoletani. Si tratta secondo me di un sottoprodotto del leghismo, queste persone si sentono legittimate a comportarsi così perché la Lega è al potere, se non avessimo un capo ultras che è diventato responsabile dell’ordine pubblico non ci sarebbe questo senso di impunità».
Razzismo di Stato lo ha definito il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, che ha ricordato anche i cori razzisti contro i napoletani intonati anni fa dallo stesso Salvini.
«Sono insulti alla nostra civiltà e sono una minaccia che prima o poi raggiunge tutti noi. Non dimentichiamoci che appena una settimana fa il ministro dell’Interno è andato a stringere la mano a un capo degli ultras condannato per violenza e spaccio di droga. È come mettere un incendiario alla guida dei vigili del fuoco».
Cosa bisogna fare allora?
«Serve la mano pesante, bisogna passare dalle parole ai fatti. Bisogna interrompere le partite. Ha fatto bene Ancelotti a minacciare di lasciare il campo di gioco, la stessa cosa però dovrebbero farla e non solo chiederla giocatori, allenatori, presidenti delle società, tutti insieme, per emarginare i facinorosi».
Due gare a porte chiuse e una senza curva è un buon provvedimento punitivo?
«A me fa molta rabbia, perché ho acquistato un abbonamento che costa molto e non potrò andare a vedere la mia squadra per colpa di questi razzisti, che non sono solo imbecilli ma criminali politici perché hanno una connotazione di estrema destra dichiarata e sbandierata».
I cori razzisti contro Koulibaly fanno il paio con quelli contro gli ebrei.
«Non puoi immaginare il fastidio che proviamo io e i miei figli tutte le volte che dalla curva intonano i cori contro i milanisti dando loro degli ebrei, come se fosse una parolaccia. Su Koulibaly invece l’altra sera è successa una cosa assai curiosa».
Quale?
«Le stesse persone che lo insultavano hanno applaudito qualche minuto dopo Asamoah per un salvataggio decisivo. Quello della squadra avversaria era uno sporco negro, questo della loro squadra un eroe. Mah».
25 anni di insulti leghisti. Che il Sud non dimentica. Da Salvini a Borghezio e Bossi. La svolta nazionalista della Lega non cancella 25 anni di offese e insulti contro il Sud. Ecco i peggiori, scrive Mauro Orrico il 10 febbraio 2018 su Face Magazine. Una delle ultime campagne elettorali di Matteo Salvini, quella delle recenti elezioni amministrative, è stata tra le più costose che la “casta” ricordi: oltre 8 mila agenti hanno scortato il leader leghista nelle sue tappe in giro per lo Stivale. Agenti – hanno accusato Pd e M5S – sottratti al controllo delle nostre città per difendere il Capitano – così lo chiamano i suoi seguaci – dalle decine di contestazioni che lo hanno accolto, soprattutto al sud. I motivi? Non solo le posizioni della Lega su migranti e sicurezza. Ma anni di insulti, allusioni, offese leghiste contro i meridionali. Recentemente Matteo Salvini ha chiesto scusa per i suoi attacchi, togliendo perfino la parola Nord dal “marchio” Lega. Una svolta che, più di un cambiamento culturale, ha il sapore di una metamorfosi di facciata, finalizzata ad espandere il consenso oltre i confini padani. La conversione leghista non trova però riscontri nell’attività parlamentare. Ilfattoquotidiano.it ha monitorato le proposte di legge del Carroccio depositate in Parlamento dall’inizio dell’ultima legislatura. Tra tutti i testi, sono pochissimi quelli rivolti al Sud. Tra questi, uno riguarda il tema immigrazione a Lampedusa e Linosa. E poco altro. Resta una storia fatta di insulti, allusioni, volgarità gratuite e vecchi pregiudizi che buona parte del Sud non dimentica, nonostante la netta crescita di consensi per Matteo Salvini in tutto il paese.
25 ANNI DI INSULTI CONTRO IL SUD. ECCO I PEGGIORI.
2009. Festa di Pontida del 13 giugno. Matteo Salvini intona il coro: “Senti che puzza scappano anche i cani, stanno arrivando i napoletani”. In seguito ha precisato: “Sono troppo distanti dalla nostra impostazione culturale, dallo stile di vita e dalla mentalità del Nord. Non abbiamo nessuna cosa in comune. Siamo lontani anni luce”.
2011. In merito al terremoto a L’Aquila, l’europarlamentare Mario Borghezio dichiara: “Questa parte del Paese non cambia mai, l’Abruzzo è un peso morto per noi come tutto il Sud. Il comportamento di molte zone terremotate dell’Abruzzo è stato singolare, abbiamo assistito per mesi a lamentele e sceneggiate”.
Agosto 2012. Matteo Salvini su Facebook: “Una sciura siciliana grida e dice “vogliamo l’indipendenza, stiamo stanchi degli attacchi del Nord”. Evvaiiiiiiii”.
Settembre 2012. Vito Comencini, segretario di sezione e vice coordinatore provinciale dei Giovani padani, su Radio Padania, dice: «Carta igienica al Sud, che devono ancora capire a cosa serve».
Novembre 2012. Donatella Galli, consigliera leghista della provincia di Monza e Brianza, invoca l’aiuto dei vulcani per pulire il sud: “Forza Etna, Forza Vesuvio, Forza Marsili!!!”. La seguente dichiarazione, inizialmente attribuita a Matteo Salvini, è invece di Luca Salvetti, dei Giovani Padani di Mantova ed è stata pronunciata nel corso del Congresso dei Giovani Padani del 2013: “Ho letto sul Sole 24 Ore che, ancora una volta, verranno aiutati i giovani del Mezzogiorno. Ci siamo rotti i coglioni dei giovani del Mezzogiorno, che vadano a fanculo i giovani del Mezzogiorno! Al Sud non fanno un emerito cazzo dalla mattina alla sera. Al di là di tutto, sono bellissimi paesaggi al Sud, il problema è la gente che ci abita. Sono così, loro ce l’hanno proprio dentro il culto di non fare un cazzo dalla mattina alla sera, mentre noi siamo abituati a lavorare dalla mattina alla sera e ci tira un po’ il culo”. Se oggi Salvini si dichiara acerrimo nemico dell’euro, poco tempo fa non la pensava nello stesso modo. E il Sud, a suo dire, l’euro non lo meritava.
2014. Riguardo ad una possibile riforma della Scuola, il solito Matteo Salvini dichiara: “Bloccare l’esodo degli insegnanti precari meridionali al Nord”.
Dicembre 2014. Il leader del Carroccio scrive su facebook: “Chi scappa non merita di stare qui, lo considero un fannullone. E non è un caso che siano AFRICANI o MERIDIONALI ad andarsene, gente senza cultura del lavoro”. Questo post è tuttavia stato segnalato dal sito Bufale.net come un fake. I 99 Posse che hanno condiviso il post affermano il contrario. Leonardo Muraro, presidente della provincia di Treviso: “E’ proprio per questo che invito ad assumere trevigiani: i meridionali vengono qua come sanguisughe”. E, ancora, un’altra storica “perla” salviniana: “Carrozze metro solo per milanesi”.
NON SOLO SUD: LE PEGGIORI SPARATE LEGHISTE. Ma non solo i meridionali sono stati al centro di anni di insulti leghisti. Anche i migranti, le ex ministre, gli omosessuali, i disabili e tutte le minoranze. E perfino i terremotati dell’Emilia. Ecco alcuni dei più raccapriccianti.
“Terremoto nel nord italia… Ci scusiamo per i disagi ma la Padania si sta staccando (la prossima volta faremo più piano)…” (Stefano Venturi, segretario della Lega di Rovato, Brescia, sul terremoto in Emilia nel 2012)
“Ma mai nessuno che se la stupri, così tanto per capire cosa può provare la vittima di questo efferato reato? Vergogna”. (Dolores Valandro, consigliere leghista di quartiere a Padova)
“Bisognerebbe vestirli da leprotti per fare pim pim pim col fucil”. (Giancarlo Gentilini, ex sindaco di Treviso, alla Festa della Lega nel 2008)
“Agli immigrati bisognerebbe prendere le impronte dei piedi per risalire ai tracciati particolari delle tribù”. (Mario Borghezio su Radio24, nel 2012)
“Crediamo sia giunto il momento di prevedere sul treno degli appositi vagoni per extracomunitari, e delle carrozze riservate ai poveri italiani”. (Erminio Boso e Sergio Divina, consiglieri provinciali di Trento)
“La civiltà gay ha trasformato la Padania in un ricettacolo di culattoni”. (Roberto Calderoli, novembre 2010)
“Nella vita penso si debba provare tutto tranne due cose: i culattoni e la droga”. (Renzo Bossi, ex consigliere regionale della Lombardia)
“I disabili nella scuola? Ritardano lo svolgimento dei programmi scolastici, più utile metterli su percorsi differenziati”. (Pietro Fontanini, presidente della provincia di Udine)
“Meglio noi del centrodestra che andiamo con le donne, che quelli del centrosinistra che vanno con i culattoni”. (Umberto Bossi, ex ministro delle Riforme per il Federalismo).
Contro i meridionali, ecco come parla l’Italia razzista, pubblica il 25 Ottobre 2014 Il Sud On LIne. Tratta dalla pagina Facebook di “Briganti”. Una rassegna di citazioni di segno razzista contro il Sud.
“Sono lieto che Napoli abbia delle notti così severe. La razza diventerà più dura. La guerra farà dei napoletani un popolo nordico” – BENITO MUSSOLINI dopo i pesantissimi bombardamenti alleati sulla città – diari di Ciano 1937-1943.
“Noi siamo Celti e Longobardi..! Non siamo MERDACCIA Levantina e Mediterranea.. Noi siamo Padani..!”(Borghezio, europarlamentare).
“Senti che puzza scappano anche i cani stanno arrivando i napoletani o colerosi terremotati con il sapone non vi siete mai lavati…napoli merda, …” (Salvini, europarlamentare).
“E’ proprio per questo che invito ad assumere trevigiani: i meridionali vengono qua come sanguisughe.” (Leonardo Muraro, presidente della provincia di Treviso).
“Siamo stanchi di sentire in tv parlare in napoletano e romano.” (Luca Zaia, presidente della regione Veneto).
“Questa parte del Paese non cambia mai, l’Abruzzo e’ un peso morto per noi come tutto il Sud.” (Borghezio, europarlamentare).
“Gli immigrati bisognerebbe vestirli da leprotti per fare pim pim pim col fucile.” (Giancarlo Gentilini, vice sindaco di Treviso).
“Quegli islamici di merda e le loro palandrane del cazzo! Li prenderemo per le barbe e li rispediremo a casa a calci nel culo!” (Mario Borghezio, europarlamentare).
“Agli immigrati bisognerebbe prendere le impronte dei piedi per risalire ai tracciati particolari delle tribù.”(Erminio Boso, europarlamentare).
“La civiltà gay ha trasformato la Padania in un ricettacolo di culattoni.” (Roberto Calderoli, ministro della Semplificazione Normativa).
“Nella vita penso si debba provare tutto tranne due cose: i culattoni e la droga.” (Renzo Bossi, consigliere regionale della Lombardia).
“Gli omosessuali? La tolleranza ci può anche essere ma se vengono messi dove sono sempre stati… anche nelle foibe.” (Giancarlo Valmori, assessore all’ambiente di Albizzate)
“A Gorgo hanno violentato una donna con uno scalpello davanti e didietro. E io dico a Pecoraro Scanio che voglio che succeda la stessa cosa a sua sorella e a sua madre.” (Giancarlo Gentilini, vice sindaco di Treviso).
“Carrozze metro solo per milanesi.” (Matteo Salvini, eurodeputato).
“Sono stato, sono e rimarrò un razzista secondo le ultime direttive UE poichè credo, e aspetto smentita da quei pochi che mi leggono, che certe notizie riportate solo da Il Giornale definiscano chiaramente che tra razza e razza c’è e ci deve essere differenza.” (Giacomo Rolletti, assessore all’ambiente di Varazze).
“Gli sciacalli vanno fucilati. Bisogna dare alle forze dell’ordine l’autorità di provvedere all’esecuzione sul posto. Ci vuole la legge marziale.” (Leonardo Muraro, presidente della provincia di Treviso).
“Darò immediatamente disposizioni alla mia comandante affinché faccia pulizia etnica dei culattoni.” (Giancarlo Gentilini, vice sindaco di Treviso).
“I disabili nella scuola? Ritardano lo svolgimento dei programmi scolastici, più utile metterli su percorsi differenziati.” (Pietro Fontanini, presidente della provincia di Udine)
“E’ un reato offrire anche solo un the caldo ad un immigrato clandestino.” (Luca Zaia, presidente della regione Veneto).
“Viva la famiglia e abbasso i culattoni!” (Roberto Calderoli, ministro della Semplificazione Normativa).
“Rispediamo gli immigrati a casa in vagoni piombati.” (Giancarlo Gentilini, vice sindaco di Treviso).
“Finché ci saremo noi, i musulmani non potranno pregare in comunità.” (Marco Colombo, sindaco di Sesto Calende).
“Vergognati, extracomunitario!” (Loris Marini, vicepresidente della sesta circoscrizione di Verona).
Se ancora non si è capito essere culattoni è un peccato capitale.” (Roberto Calderoli, ministro della Semplificazione Normativa).
“Parcheggi gratis per le famiglie, esclusi stranieri e coppie di fatto. (Roberto Anelli, sindaco di Alzano).
Voglio la rivoluzione contro i campi dei nomadi e degli zingari: io ne ho distrutti due a Treviso. (Giancarlo Gentilini, vice sindaco di Treviso).
“Noi ci lasciamo togliere i canti natalizi da una banda di cornuti islamici di merda.” (Mario Borghezio, eurodeputato)
“L’immigrato non è mio fratello, ha un colore della pelle diverso. Cosa facciamo degli immigrati che sono rimasti in strada dopo gli sgomberi? Purtroppo il forno crematorio di Santa Bona non è ancora pronto.” (Piergiorgio Stiffoni, senatore).
“Fermiamo per un anno le vendite di case e di attività commerciali a tutti gli extracomunitari.” (Matteo Salvini, eurodeputato).
“E’ inammissibile che anche in alcune zone di Milano ci siano veri e propri assembramenti di cittadini stranieri che sostano nei giardini pubblici.” (Davide Boni, capodelegazione nella giunta regionale della Lombardia).
“I gommoni degli immigrati devono essere affondati a colpi di bazooka.” (Giancarlo Gentilini, vice sindaco di Treviso). Tratta dalla pagina Facebook di “Briganti”.
Furia Napoli verso cori razzisti sentiti a Udine e Torino: Juve-Inter senza tifosi? Scrive il 25 novembre 2018 Calcio Mercato.com. Ancelotti ha lanciato la sfida aperta, o meglio la trappola perfetta, per il mondo ultras che, puntualmente, non ci ha messo un secondo per cascarci a piè pari, attirando ancora una volta verso di sè non solo l'attenzione di tutto il mondo calcistico italiano, ma anche quello delle istituzioni che, tirate per la giacchetta dall'allenatore del Napoli, questa volta difficilmente potranno chiudere un occhio. I cori di discriminazione territoriale sono una piaga che colpisce il Napoli e la città di Napoli in tutta Italia e questa le sanzioni potrebbero essere estremamente salate. Quasi tutti i quotidiani sportivi nazionali e in particolare quelli partenopei hanno evidenziano questa mattina come nelle gare Udinese-Roma e Juventus-Spal si siano sentiti ancora una volta i classici cori anti-Napoli. A Udine è stato cantato "Vesuvio lavali col fuoco" e a Torino dalla curva della Juventus si è levato anche qualche coro più sgradevole rivolto anche verso la Fiorentina e Firenze. Il presidente della FIGC, Gabriele Gravina non si è nascosto ed ha immediatamente sottolineato come: "il ripetersi di cori con evidente riferimento alla discriminazione territoriale è un comportamento incivile che va condannato e contrastato con determinazione". Per questo prende sempre più piede l'ipotesi di fermare le partite in corsa, ma anche di applicare alla lettera i regolamenti. "Bisogna applicare rigorosamente le norme" ha aggiunto Gravina e per questo, secondo il Mattino se confermata la provenienza dei cori soprattutto per quanto riguarda Juventus-Spal potrebbe essere chiusa per almeno due giornate la curva bianconera (perchè recidiva) arrivando, di fatto, al big match Juventus-Inter con la curva chiusa. Il rischio è concreto, ora la palla passa al giudice sportivo.
Razzismo e violenza: anche la Premier League non è più un modello? Banane in campo, insulti, cori antisemiti e una bottiglia in testa a un giocatore. Gli inglesi alle prese con una nuova emergenza negli stadi, scrive Giovanni Capuano il 20 dicembre 2018 su "Panorama". Cosa succede nel mondo dorato della Premier League? C'è un'emergenza razzismo e violenza che attraversa gli stadi inglesi considerati da anni un modello da esportare ovunque per il clima che si respira? Non esiste risposta, ma il crescendo di episodi delle ultime settimane ha fatto scattare l'allarme e portato a una riflessione che riguarda l'intero ambiente del football d'Oltremanica. Non si tratta di un problema solo etico e di ordine pubblico. Il modello Premier League è vincente e smisuratamente ricco rispetto al resto d'Europa anche perché presenta al mondo un'immagine perfetta: stadi moderni, pieni, grande spettacolo e nessuna sporcatura. Il problema hooligans è stato, almeno all'apparenza e dentro gli impianti, sconfitto da almeno vent'anni. Tutto questo piace e viene pagato oro dalle tv di tutto il mondo. Nelle ultime settimane, però, l'ingranaggio sembra essersi arrestato. Dalla bufera razzismo sul Chelsea alla banana lanciata in campo contro Aubameyang fino all'ultimo gesto di uno sconsiderato che ha colpito l'attaccante del Tottenham Dele Alli in testa con una bottiglietta di plastica. A Wembley, nel santuario del football inglese. Abbastanza per far suonare l'allarme.
Gli episodi che allarmano la Premier League. Solo restando al mese di dicembre, l'escalation è stata sconcertante. Si è cominciato con la banana lanciata in campo all'indirizzo di Aubameyang nel corso di Arsenal-Tottenham di Premier League costata un bando di 4 anni con multa di 500 sterline al tifoso responsabile (prontamente identificato). Poi il caso Sterling, insultato con epiteto razzista nel corso di Chelsea-Manchester City. Un episodio che ha costretto il mondo del calcio britannico a cominciare a riflettere su se stesso dal momento che molti hanno fatto notare come lo stesso giocatore fosse stato oggetto di una lunga campagna stampa negativa pur in assenza di comportamenti realmente censurabili. E' razzismo questo? I tifosi del Chelsea, peraltro, hanno causato anche l'apertura di un'inchiesta disciplinare da parte dell'Uefa nel corso dell'ultima trasferta d'Europa League contro il Vidi. L'accusa? Presunti cori antisemiti indirizzati verso i rivali del Tottenham. E' intervenuto anche il tecnico Sarri per condannare ogni forma di discriminazione, ricordando anche i suoi trascorsi napoletani e le difficoltà di altri ambienti calcistici. Poi la bottiglietta in testa a Dele Alli durante Arsenal-Tottenham di Coppa di Lega. Nessuna conseguenza fisica per il calciatore, però la scena ha fatto il giro del mondo e non è piaciuta.
La repressione e l'appello della Premier League. Certo, resta sempre la notevole differenza rispetto all'Italia (e non solo) che in Inghilterra i colpevoli li identificano nel giro di qualche ora, li processano e li mettono al bando per qualche anno o per sempre. Non solo un giudice, ma gli stessi club che ben comprendono il rischio della deriva e che hanno stadi e legislazione attrezzata per colpire il singolo e non la massa. Una lezione che dovremmo imparare anche noi, invece di inseguire le chiusure di settori e stadi lasciando in mano agli ultras una formidabile arma di ricatto contro le società. Questo, però, non consola i dirigenti della Premier League che stanno correndo ai ripari. Lo scorso 14 dicembre, nel pieno della bufera, la lega professionistica che raccoglie i club più ricchi del mondo ha lanciato un appello pubblico chiedendo al pubblico di segnalare comportanti non appropriati e di denunciarli sia agli stewards negli stadi che attraverso la piattaforma Kick It Out che in Inghilterra raccoglie segnalazioni e casi. Le statistiche sono impietose. Nella scorsa stagione gli abusi legati al solo calcio professionistico sono saliti a 214 con un aumento del 10%. Le tipologie? Più della metà delle segnalazioni (53%) riguarda episodi di razzismo e uno su 10 antisemitismo.
Nera italiana cacciata dall'ufficio postale: «Lei qui non può entrare». L'episodio è avvenuto venerdì nel centro di Milano. La donna, di origine somala, aveva il volto scoperto e riconoscibile, ma il direttore l'ha mandata via lo stesso con modi bruschi. A nulla le è servito mostrare la carta d'identità del nostro Paese. L'azienda: «Non è la nostra policy», scrive Alessandro Gilioli il 12 novembre 2018 su "L'Espresso". Ai razzisti a volte va male. Di rado, purtroppo, ma a volte capita. È capitato ad esempio al dottor Giuseppe De Luca, direttore dell'ufficio postale di Corso di porta Ticinese, angolo via Urbano III, nel centro di Milano. Uno degli uffici postali storici della città. A lui è andata male perché la donna nera che ha cacciato dal suo ufficio postale non solo è cittadina italiana, ma fa anche da badante a due anziani avvocati. Che, nonostante gli anni, sono scesi dal loro appartamento per constatare con i loro occhi se quello che denunciava la donna era vero. Era vero: e loro ne sono stati testimoni. Ma c'è di più, per lo sfortunato direttore delle poste di via Urbano III: uno dei due avvocati ha il figlio che da un po' di anni fa il giornalista. Cioè chi scrive, qui. Allora, andiamo con ordine. È venerdì 2 novembre, sono le 2 del pomeriggio e la signora O. decide di passare all'ufficio postale durante la sua pausa pranzo, prima di andare da mio padre. È correntista, deve sbrigare delle pratiche. La signora O. è un'italiana di origine somala, da 25 anni nel nostro Paese. Nera, di religione musulmana, quando è fuori casa indossa un foulard che le copre i capelli e le spalle, lasciandole libera la fronte e libero il mento. Non è neppure un hijab, tecnicamente. È proprio un semplice e sobrio foulard sul capo. Quando è in casa di mio papà se lo toglie - O. è tutto fuori che una bacchettona, la conosco da molti anni. Quando esce invece si mette questo benedetto foulard, per rispetto, dice. Ogni tanto, quando scendiamo in farmacia o per un'altra commissione, qualcuno ci guarda di traverso, ma poi la smette; una volta una signora in un negozio le ha detto di tornarsene a casa sua (che peraltro è a Milano); ma finora O. non era mai stata cacciata via da nessuna parte. Ora è successo. Il 2 novembre, appunto, in corso di porta Ticinese, nel pieno centro di Milano. O. è entrata nell'ufficio postale. Ha preso il numeretto. Si è seduta ad aspettare. Quando è arrivato il suo turno, è andata al bancone. L'impiegato stava per iniziare a sbrigare, quando dietro di lui è passato il direttore dell'ufficio postale, il signor De Luca appunto. Un uomo di mezza età, con i capelli bianchi e gli occhiali. Ha guardato O. e ha preso a urlare che lei se ne doveva andare di lì - e anche subito. O., che è sempre e entrata senza problemi in tutti gli altri uffici postali, ha chiesto perché. Quello ha ricominciato a gridare che lì non ci poteva stare con il foulard che aveva: se ne andasse subito, non aveva visto il cartello all'ingresso? . Via via, fuori di qui. O. se n'è andata piangendo. È salita a casa di mio padre in uno stato psicologico difficile da descrivere. Poi gli ha raccontato l'accaduto. Mio padre ha 88 anni. Mio zio 85. Insieme hanno fatto gli avvocati per più di mezzo secolo. E insieme erano quando O. spiegava quello che le era successo. Sono scesi, l'ufficio postale è sotto casa. Hanno chiesto di parlare col direttore. Dopo un po' ce l'hanno fatta. Il direttore però ha sbraitato anche con loro. E no, quella donna non poteva entrare, doveva andarsene, c'era il cartello all'ingresso. Il cartello all'ingresso mostra un casco e un passamontagna barrati. Non si può entrare con il volto coperto. Il che ha senso, per ovvi motivi di sicurezza. Peccato che O. non avesse affatto il volto coperto. Non ce l'ha mai. Ha un foulard. Non ha il capo coperto più di una suora. Anzi meno. Chissà se il direttore De Luca caccia anche le suore, quando entrano nel suo ufficio postale. Non credo. In ogni caso, il volto di O. era perfettamente riconoscibile e lei aveva pieno diritto a entrare in quell'ufficio. Non lo dico io, lo dice lo Stato italiano che ha timbrato una foto con quel foulard - che lascia libero tutto il viso - nella foto della carta d’identità: documento che mio padre ha dato al direttore di quell’ufficio, ma che non è bastato a farla entrare. Lo dicono poi la legge (numero 533 del 1977) e la giurisprudenza: la questione si pone ovviamente in caso di burqa (volto interamente coperto) e anche di niqab (solo gli occhi scoperti), ma non in caso di hijab (volto scoperto fino al mento compreso), figuriamoci di foulard (solo capo coperto). Lo dice perfino la delibera regionale lombarda del 2016 (fatta da una giunta leghista) che proibisce l'ingresso negli uffici pubblici solo a chi «non è riconoscibile». Lo dice infine l'azienda Poste Italiane che, contattata, ha specificato che ovviamente il divieto d'ingresso nei suoi uffici riguarda chi indossa caschi da moto, passamontagna o in generale ha il volto coperto e non riconoscibile: nessun altro. O. all'inizio non voleva rendere pubblica questa denuncia. "Ho paura di avere problemi", diceva. È normale. È orribile ma è normale, in questa Italia, in questo periodo. Poi si è convinta, con fatica. Pensando ai suoi figli. Italiani come lei, neri come lei. Che in questo Paese sono nati e vivranno. Non si può lasciare passare tutto, se si pensa a loro. Ha chiesto l'anonimato in pubblico, almeno. E spero che lo si possa mantenere, per lei che ha curato mia mamma fino all'ultimo giorno. Spero che la questione si risolva in una indagine aziendale interna, niente tribunali. I due anziani avvocati possono testimoniare, se Poste Italiane crede. Anche se forse impedire senza motivo a una persona di entrare in un locale pubblico qualche profilo legale ce l'ha, in effetti. Ma non importa. Quello che importa è che Poste Italiane si scusi, e molto. E che mandi subito quel direttore a contare i francobolli in un paesino lontano. Lontano da tutto ma soprattutto dalle persone. Anche se in realtà il direttore d'ufficio postale Giuseppe De Luca è già lontano: da ogni rispetto, da ogni civiltà.
Aggiornamento del 19 novembre 2018. La precisazione e la nostra risposta:
Lei qui non può entrare. In nome e per conto del sig. Giuseppe De Luca (direttore dell'ufficio postale MI 21 sito in corso di Porta Ticinese angolo via Urbano III), che sottoscrive a conferma del mandato conferito, di quanto di seguito esposto e ad ogni effetto di legge, invio la presente per richiedere la rettifica di tutto ciò che viene riferito nell'articolo indicato perché riproduce circostanze del tutto false. Ciò semplicemente perché i fatti descritti non sono mai accaduti. La signora di origine somala protagonista della vicenda non è stata affatto cacciata dall'ufficio postale, né sono mai stati fatti riferimenti offensivi o razzisti verso la sua persona o in ragione del fatto che indossasse un foulard a coprirle i capelli e le spalle. L'articolo de L'Espresso (che il corrispondente articolo de La Repubblica rilancia) è stato redatto senza avere mai avuto occasione di interpellare il mio assistito (quale diretto interessato) e, cosa gravissima, è stato scritto dal Vicedirettore de L'Espresso, Alessandro Gilioli, che si è avvalso di una prestigiosa testata giornalistica per raccontare fatti di famiglia come fosse un suo blog personale. Il medesimo afferma di avere quali uniche fonti della notizia due anziani prossimi congiunti (padre e zio) e la loro badante somala quale presunta vittima dei fatti descritti. L'attacco del Gilioli, personale e diretto verso il sig. De Luca, accusato falsamente di razzismo e di avere negato un servizio pubblico costituisce diffamazione con l'aggravante dell'attribuzione di fatti determinati; altresì, è lesivo della dignità e dell'onore (è scritto nell'articolo de L'Espresso: "Quello che importa è che Poste Italiane si scusi, e molto. E che mandi subito quel direttore a contare i francobolli in un paesino lontano. Lontano da tutto ma soprattutto dalle persone. Anche se in realtà il direttore d'ufficio postale Giuseppe De Luca è già lontano: da ogni rispetto, da ogni civiltà"). Inoltre, il sig. De Luca, identificato nominativamente nel testo dell'articolo e del quale viene altresì riferito il luogo di lavoro, ha immotivatamente subito dal Gilioli (e sta subendo dai lettori che postano i commenti anche su altre testate e sui social network) un vero e proprio linciaggio mediatico che mette a rischio anche l'incolumità della sua persona e il suo posto di lavoro. A causa di tale aggressivo, improvvido, distorto e fazioso utilizzo dello strumento di informazione, mosso più da rancore e da ragioni personali del Gilioli che dal dovere di informazione pubblica- atteggiamento che non si confà ad un Vicedirettore di testata nazionale - deriva la necessità di una immediata rettifica sia sui quotidiani online sia su quelli cartacei e la conseguente rimozione degli articoli stessi dalle edizioni online. l fatti realmente avvenuti sono i seguenti. Il giorno 2 novembre 2018 il Direttore dell'ufficio postale sig. De Luca, in ausilio al personale di sportello, era personalmente alla postazione n. 6 dell'ufficio sopra citato e da lui diretto. Alle ore 13:42, chiamata a quello sportello dal Gestore Code automatico dell'ufficio, si avvicinava una signora che chiedeva di effettuare un'operazione di prelievo dal libretto di risparmio postale intestato al figlio minore. Il sig. De Luca, esaminato il libretto, le spiegava che - trattandosi di libretto non emesso dal quell'ufficio e non essendo lei l'intestataria - per effettuare il prelievo sarebbero stati necessari dei controlli, con una particolare procedura informatica dell'ufficio, per verificare i poteri delle persone autorizzate ad operare sul libretto stesso e la verifica della potestà genitoriale. Il tutto avrebbe richiesto un po' di tempo, ma la signora sembrava impaziente e riferiva che non capiva il perché della procedura, visto che aveva prelevato altre volte senza problemi. A quel punto il sig. De Luca le riferiva che, per fare più in fretta, si sarebbe potuta rivolgere all'ufficio presso il quale era stato rilasciato il libretto, già in possesso di tali dati. Conclusasi così la discussione, la signora si allontanava dall'ufficio senza che fosse avvenuto alcun alterco o degenerazione del livello e del tono della conversazione. Il sig. De Luca alle 13:47 già aveva ripreso l'operatività allo sportello effettuando un'altra operazione. Lo stesso giorno 2 novembre, dopo quanto descritto, né la signora, né alcun altro che parlasse per suo conto si presentava in ufficio. Le circostanze esposte potranno essere in ogni sede confermate dai dipendenti dell'ufficio che occupavano le postazioni vicine. Addirittura, circa mezz'ora dopo i fatti descritti, la medesima signora si recava presso l'ufficio postale MI 30 per prelevare dal libretto come suggeritole e, pertanto, non si recava a casa Gilioli a piangere. Non corrisponde perciò al vero che "O. è entrata nell'ufficio postale. Ha preso il numeretto. Si è seduta ad aspettare. Quando è arrivato il suo turno, è andata al bancone. L'impiegato stava per iniziare a sbrigare, quando dietro di fui è passato il direttore dell'ufficio postale, il signor De Luca appunto. Un uomo di mezza età, con i capelli bianchi e gli occhiali. Ha guardato O. e ha preso a urlare che lei se ne doveva andare di lì e anche subito. O., che è sempre e entrata senza problemi in tutti gli altri uffici postali, ha chiesto perché. Quello ha ricominciato a gridare che lì non ci poteva stare con il foulard che aveva: se ne andasse subito, non aveva visto il cartello all'ingresso? Via via, fuori di qui", che "O. se n 'è andata piangendo. È salita a casa di mio padre in uno stato psicologico difficile da descrivere" (articolo de L'Espresso) e che "viene cacciata, non dall'impiegato allo sportello, ma direttamente dal direttore che indica alla donna il cartello esposto all'entrata. Vi si vieta di entrare nell'ufficio pubblico con caschi, passamontagna o, comunque, con il volto coperto" (articolo de La Repubblica). l signori Gilioli (padre e zio dell'attuale Vicedirettore ed estensore dell'articolo de L'Espresso in contestazione) si sono invece recati all'ufficio postale non nell'immediatezza dei fatti, ma il giorno successivo, 3 novembre 2018 e nemmeno per difendere la dignità e l'onorabilità (mai lese) della signora, quanto piuttosto per chiedere delucidazioni sul motivo per il quale alla stessa era stato rifiutato il "cambio di un vaglia" (laddove invece si trattava di richiesta di prelievo da un libretto postale). Anche a loro il sig. De Luca spiegava nuovamente tutta la procedura per il prelievo da un libretto intestato ad un minore e, anche per sicurezza dell'interlocutore, effettuava una chiamata al cali center operativo centrale di Poste per la conferma della correttezza della procedura stessa. In tale occasione non si è mai discusso del documento di identità dell'interessata né lo stesso è stato consegnato al sig. De Luca, anche perché non ve ne era motivo visto che il prelievo in questione era già stato effettuato il giorno precedente. Non corrisponde perciò al vero che il 2 novembre gli stessi Gilioli "nonostante gli anni, sono scesi dal loro appartamento per constatare con i loro occhi se quello che denunciava la donna era vero. Era vero: e loro ne sono stati testimoni", che "Hanno chiesto di parlare col direttore. Dopo un po' ce l'hanno fatta. Il direttore però ha sbraitato anche con loro. E no, quella donna non poteva entrare, doveva andarsene, c'era il cartello all'ingresso" e che "In ogni caso, il volto di O. era perfettamente riconoscibile e lei aveva pieno diritto a entrare in quell'ufficio. Non lo dico io, lo dice lo Stato italiano che ha timbrato una foto con quel foulard - che lascia libero tutto il viso- nella foto della carta d'identità: documento che mio padre ha dato al direttore di quell'ufficio, ma che non è bastato a farla entrare" (articolo de L'Espresso). Giuseppe De Luca. Avv. Oronzo De Donno
Risponde Alessandro Gilioli:
1. È falso che l’articolo sia stato scritto senza tentare di interpellare il signor De Luca. Al contrario, lunedì 12 novembre alle ore 9.18 ho telefonato all’ufficio postale di via Urbano III a Milano qualificandomi con nome, cognome e professione chiedendo del signor De Luca. Mi è stato risposto da un impiegato che il direttore non c’era. Ho chiesto di averne il cellulare e mi è stato risposto che non era possibile. Allora ho lasciato il mio numero di cellulare chiedendo di essere richiamato. Nessuno ha mai richiamato. L’avvenuta telefonata è facilmente comprovabile in sede giudiziaria, avendo lasciato traccia sul mio telefono. Prima della pubblicazione dell’articolo, alle 11.09, è stato contattato per correttezza e informazione anche l’ufficio stampa di Poste Italiane.
2. È falso, oltre che ingiurioso verso il diritto di cronaca, che l’articolo dell'Espresso tratti di «fatti di famiglia» (!), trattandosi invece di un episodio di cronaca e discriminazione di evidente interesse pubblico.
3. È falso, oltre che ridicolo, affermare che l’articolo in questione sia «mosso da rancore», non avendo io mai conosciuto in precedenza il signor De Luca, né avendo mai avuto a che fare con lui, e quindi non potendo avere alcun motivo di «rancore».
4. Riguardo la piena veridicità dei fatti esposti dall'Espresso - in primo luogo l’allontanamento dall’ufficio postale della signora a causa o pretesto del suo vestiario - le persone citate nell’articolo sono pronte a rendere la loro testimonianza sia nell’indagine interna di Poste Italiane sia, in caso di azione legale, di fronte alla magistratura.
5. È falso che gli avvocati si siano recati all’ufficio postale «non per difendere la dignità e l’onorabilità della signora ma per chiedere delucidazioni» sulla pratica; al contrario si sono recati all’ufficio postale proprio perché increduli che la signora fosse stata cacciata a causa del suo vestiario, cosa che invece è stata purtroppo loro confermata (peraltro in modo aggressivo e ineducato) dal signor De Luca.
6. È falso che non sia stata consegnata al signor De Luca la carta d’identità della signora; al contrario, gli è stata consegnata da un suo impiegato - su richiesta di uno dei due avvocati - ed è stata trattenuta per diversi minuti nell’ufficio di De Luca prima di essere restituita.
7. Aggiungo infine che Poste Italiane non ha smentito l’autenticità dei fatti ma si è limitata a ricordare pubblicamente sui social il suo atteggiamento abitualmente aperto e non discriminatorio verso le minoranze etniche.
Per Salvini ci sono "prima gli italiani", ma al ministero assumono cinesi. Al Mise, dicastero guidato da Di Maio, qualche giorno fa hanno assunto una ragazza di nazionalità cinese che vive a Shanghai e non parla italiano. L’ha voluta nel suo staff Michele Geraci, sottosegretario vicinissimo al capo della Lega e a Beppe Grillo. Ora arrivano rilievi della Corte dei Conti, e le preoccupazioni dei nostri servizi segreti, scrive Emiliano Fittipaldi il 4 dicembre 2018 su "L'Espresso". Il sottosegretario Michele Geraci, numero due di Luigi Di Maio al ministero dello Sviluppo economico, è buon amico di Matteo Salvini. Eppure il motto «Prima gli italiani! Prima il loro diritto al lavoro!» non deve averlo convinto più di tanto. Così, come suo assistente personale, ha fatto assumere al ministero una ragazza di nazionalità cinese. Una ventiseienne che non parla italiano e che risiede a Shanghai, e che da qualche giorno è diventata dipendente del Mise con un contratto da 36 mila euro l'anno. Non è chiaro come mai Geraci si sia speso anima e corpo per l'assunzione della giovane Lingjia Chen, nata nella provincia dello Zhejiang nel 1992, e perché l’abbia voluta a tutti i costi nel suo staff. Ma è certo che – dopo settimane di pressioni - qualche giorno fa il gabinetto del dicastero di Di Maio ha formalizzato la sua assunzione tra i dipendenti pubblici del Mise. La Chen, però, non metterà probabilmente mai piede in Italia: la sua postazione di lavoro è stata allestita, con scrivania e computer, nella sede di Shanghai del nostro Istituto per il commercio con l'estero, dove pare si debba concentrare soprattutto sul tema dell'export. «Non parla l'italiano, ma solo mandarino e dialetto wu. Per molti non ha qualificazioni professionali tali da giustificare l'assunzione al Mise» protesta qualche suo nuovo collega. «Si presenta a tutti come assistente personale del Geraci, che ha le deleghe per il Commercio internazionale ed è a capo della cosiddetta "Task Force Cina" voluta da lui e da Di Maio. Ma lui non l’ha piazzata nella Task Force, che comprende un elenco di centinaia di persone. La Chen lavora direttamente per lui: ha accesso all'agenda di Geraci e a tutti i dossier sensibili del governo curati dal sottosegretario. Una cosa che in genere viene fatto da personale italiano, soprattutto per motivi di sicurezza». Dal curriculum pubblicato su Linkedin risulta che la Chen lavori da qualche mese anche per la sede di Pechino della Boston Consulting, e che si occupi delle «relazioni esterne dell’economista Michele Geraci», direttore pure del Global Policy Institute, dall’ottobre del 2015: la giovane assistente cura «i rapporti con i media, l'organizzazione di conferenze, Pr Events, e il coordinamento dei social media». Ma la Chen segnala di essere «membro importante» di una ricerca energetica per gli investimenti dell’Eni in Cina e di aver curato in passato contatti tra l’istituto diretto da Geraci e i governanti cinesi per un documentario sulla società e l’economia della Cina. Al Mise, in effetti, sono sorpresi. E anche qualche importante esponente della nostra intelligence vuole vederci chiaro. Geraci, però, non ha voluto sentire ragioni. Anzi: lo scorso 30 settembre ha persino preso carta e penna, e inviato una lettera - su carta intestata del Mise - alla sede di Intesa Sanpaolo, con cui chiede l'apertura di un conto corrente per la sua collaboratrice. «La presente» scrive Geraci nella missiva «per confermare che la signorina Lingjia Chen farà parte dello staff del Prof. Michele Geraci presso il ministero dello Sviluppo economico, con contratto e condizioni in via di definizione. A tal fine, si richiede l'apertura di un conto corrente presso la vostra banca su cui verranno canalizzati i compensi di tale attività». Dopo la firma del contratto, anche alla Corte dei Conti – dove ogni nuovo decreto di assunzione viene messo ai raggi X - vogliono capirne di più: al Mise sono infatti arrivati alcuni rilievi in merito al permesso di soggiorno, alla possibilità che l'incarico sia o meno riservato ai cittadini dell'Unione europea, e richieste per scongiurare eventuali conflitti di interesse. Geraci non è un sottosegretario banale. Ex ingegnere elettronico, ex broker alla Merrill Lynch, alla Schroders e alla Bank of America, un Mba al Mit di Boston (L’Espresso ha controllato, il master l’ha preso davvero) si trasferito in Cina nel 2008, ed è rimasto in Oriente per dieci anni, fino alla chiamata al governo voluta direttamente da Matteo Salvini. In Cina tiene lezioni per alcune università (la Nottingham University e la Zhejiang University, dove pare abbia incontrato la giovane Chen rimanendone professionalmente folgorato), e in passato ha lavorato a progetti di ricerca che «si sono rivolti a governi e società private, mirati ad offrire raccomandazioni politiche orientate alla pratica e non accademiche» si chiarisce in un suo curriculum vitae «Gli argomenti di mio interesse hanno ricompreso la politica monetaria, le disparità di reddito, le migrazioni, l’urbanizzazione, la crisi economica europea, nonché la tematica di fusioni e acquisizioni. Parlo italiano, inglese, cinese, spagnolo e francese». È nel giugno del 2018 che Geraci fa il grande passo, e decide di entrare nel governo pentastellato. Se è Salvini ad averlo voluto fortemente come sottosegretario al Mise, Geraci ha ottime entrature anche tra i Cinquestelle: sono anni che scrive sul blog di Beppe Grillo articolesse sulla Cina, descritta come una sorta di paradiso in terra, e panacea di tutti i mali italici. Secondo Geraci il regime cinese può aiutarci comprando il nostro made in Italy e i nostri Btp per rifinanziare il debito, ma il professore (a contratto) nei suoi recenti incontri con le autorità cinesi ha ipotizzato anche di far entrare Pechino dentro Alitalia, nelle società dei porti italiani (in primis quello di Trieste), mentre qualche giorno fa ha annunciato di aver trovato un «importante gruppo cinese interessato a valutare l’acquisto del Palermo: ho il contatto, ma bisogna verificare se davvero il presidente Zamparini ha ceduto o meno la società». Tra le uscite di Geraci che hanno fatto maggiore scalpore, c’è sicuramente quella dello scorso giugno, quando il sottosegretario (fan accanito sia della flat tax salviniana sia del reddito di cittadinanza made in Casaleggio) ha spiegato come l’Italia debba prendere esempio dal governo di Pechino. Su temi eticamente sensibili come la gestione dei flussi migratori, l’ordine pubblico, i rapporti con l’Africa. Letto il post, un gruppo di 23 tra professori universitari e ricercatori, tra i maggiori esperti italiani della Cina al mondo, hanno deciso di rispondere al sottosegretario, stigmatizzando le sue «affermazioni azzardate» in una lunga lettera pubblica: «Geraci non menziona come nel caso cinese si sia trattato di migrazione interna, quindi assolutamente non comparabile con i flussi migratori della nostra area mediterranea, e per di più pilotata fin dall’inizio dal governo di Pechino. In secondo luogo…le statistiche sulla criminalità in Cina spesso sono edulcorate dal funzionari locali a cui conviene mostrare il successo della propria amministrazione», senza dimenticare «il sistema brutale con cui il crimine viene represso in Cina, che utilizza ancora la tortura nelle proprie stazioni di polizia: dure campagne anticrimine hanno ancora luogo a cadenze regolari». Geraci in un post dello scorso aprile, sempre sul blog di Grillo, ha infine affermato che difendersi dall’invasione dei prodotti cinesi è, di fatto, impresa impossibile. Dunque, la nostra unica possibilità è legata alla valorizzazione delle nostre competenze sostenibili, quali arte, storia, pensiero, cultura. «Il reddito di cittadinanza» ragiona Geraci «deve essere concepito come un investimento che lo stato fa per sprigionare quel potenziale innato in ognuno di noi e liberare i giovani dall’assillo dello stipendio. Un assillo che porta a fare scelte di studio e di lavoro non consone alla propria indole e toglie risorse alle arti liberali che invece sono il supporto del nostro paese». Il reddito di cittadinanza non deve deve essere considerato un bonus per i fannulloni, «ma» aggiunge letteralmente il sottosegretario «un metodo per continuare lungo la tradizione delle arti liberali, un investimento che lo Stato può fare per cercare di far emergere cento mille nuovi Michelangelo dalla Cappella Sistina commissionata da Giulio II. È un investimento che lo Stato fa per cercare di trasformare un fannullone di oggi in un potenziale talento». In attesa che la promessa dei grillini diventi realtà e tutti gli italiani abbiano almeno 780 euro al mese per provare a diventare novelli Raffaello, Geraci ha deciso di dare un reddito di 36 mila euro l'anno a un giovane talento. Cinese, s’intende.
«Prima l'italiano». E il ministero di Di Maio caccia la collaboratrice cinese. Il sottosegretario Michele Geraci, in quota Lega, aveva voluto un contratto da 36 mila euro l'anno per una sua giovane assistente di Pechino. Ma la Corte dei Conti boccia l'assunzione: un dipendente del Mise deve conoscere la lingua del governo che la paga, scrive Emiliano Fittipaldi il 18 dicembre 2018 su "L'Espresso". Michele Geraci, sottosegretario allo Sviluppo Economico e numero due di Luigi Di Maio, ci aveva provato in tutti i modi ad assumere la giovane Lingjia Chen nel suo staff. Per la ragazza ventiseienne che parla solo mandarino e dialetto wu il professore a contratto e fedelissimo di Matteo Salvini s'era speso anima e corpo. Aveva spinto il Mise a farle un contratto da 36 mila euro annui, e aveva chiesto personalmente all'istituto Intesa Sanpaolo, con una lettera su carta intestata del Mise, l'apertura di un conto corrente per la sua fidata collaboratrice. «La presente» scriveva lo scorso 30 settembre Geraci nella missiva «per confermare che la signorina Lingjia Chen farà parte dello staff del Prof. Michele Geraci presso il ministero dello Sviluppo economico, con contratto e condizioni in via di definizione. A tal fine, si richiede l'apertura di un conto corrente presso la vostra banca su cui verranno canalizzati i compensi di tale attività». Geraci aveva insistito sia con chi lo sconsigliava sia con il gabinetto del ministero, che alla fine aveva dato (pare controvoglia) via libera alla chiamata. La scelta del sottosegretario è infatti anomala: non s'era mai visto prima un neo dipendente del Mise non risiedere in Italia ma a 9000 chilometri di distanza, che non parla una parola d'italiano, e che per molti non ha qualifiche professionali tali da giustificare un contratto in una posizione così delicata. La Chen, secondo i desiderata di Geraci che ha le deleghe per il Commercio con l'estero, è stata assunta infatti come assistente personale del politico, un incarico che permette – di fatto - di conoscere nei dettagli l'agenda del numero due del Mise e di lavorare su dossier sensibili del governo nazionale. La Chen, però, quel contratto non l'avrà più. Dopo l'articolo dell'Espresso fa che aveva raccontato la strana storia della ragazza originaria dello Zhejiang, e dopo che al dicastero di Di Maio e nei ranghi della nostra intelligence qualcuno avevano drizzato le antenne, è stata la Corte dei Conti a levare le castagne dal fuoco, esprimendosi negativamente sull'assunzione. «La Chen non conosce l'italiano», hanno confermato qualche giorno fa i giudici contabili, suggerendo che un dipendente del governo italiano non può non conoscere la lingua in cui si parla al dicastero che la paga. Un rilievo logico e banale. Che ha costretto Geraci a recedere dall'intento, e il Mise a ritirare precipitosamente il contratto già firmato. Non sappiamo se la pupilla del sottosegretario, che aveva ottenuto una scrivania alla sede di Shangai del nostro Istituto per il commercio estero, ora dovrà lasciare il suo lavoro all'Ice. O se Geraci riuscirà a piazzarla nella “Task Force Cina”, gruppo di un migliaio di persone che dovrebbero migliorare i rapporti commerciali tra Roma e Pechino, guidato proprio da Geraci. È certo però che è stato solo l'intervento della Corte dei Conti a certificare l'ovvietà: se non conosci l'italiano, non puoi diventare dipendente del governo italiano. Nemmeno se sei la favorita, professionalmente parlando, di un importante membro dell'esecutivo.
Il perenne telegiornale anti-Salvini. Informazione dominata dal pensiero unico. Spazio ai soliti Saviano e Gino Strada, porte chiuse a chi ha idee differenti, scrive Marcello Veneziani su Il Tempo il 14 Luglio 2018. Va in onda TeleRazza, il telegiornale monografico a reti unificate che ogni giorno invade le case degli italiani. Razzismo è la parola chiave più ricorrente, anzi ossessiva, che apre e chiude i servizi sugli sbarchi, sui migranti, sulle reazioni a Salvini, che sono sempre dieci volte più ampie delle dichiarazioni proSalvini. Uno a dieci è la regola della rappresaglia sancita dai nazisti. Ma anche nei servizi dall’estero, parlando di Trump la parola chiave nei tg è razzismo, come mostravano ieri gli ampi reportage sui quattro sciamannati che si agitavano a Londra contro il presidente Usa, come se fossero la voce profonda degli inglesi (che invece a larga maggioranza sono per i conservatori, i nazionalisti, la Brexit e per l’alleanza atlantica con l’America di Trump). È impressionante ascoltare i telegiornali, della Rai e non solo, dedicati ogni giorno a colpire Salvini. Gli attacchi sono palesi, indiretti, occulti, istituzionali, subliminali, e si estendono nello sport, nello spettacolo, nei concerti ripresi dalle telecamere. E occupano mezzo telegiornale, tre volte al dì prima dei pasti. Per infilzare il fantoccio di Salvini vengono fatti sfilare Mattarella e il Papa (che a volte si scambiano i ruoli e le magliette), Mortina e il suo moribondo Pd, i Leucociti (non so come chiamare i militanti di LeU), i Magistrati, gli Eurocrati, varie associazioni, l’Anpi, le femministe, le Ong, i Vegani, le Anime Belle, i Preti, i Saviano, i GinoStrada (mai un opinionista del versante opposto). A volte la salvinofobia si estende anche in ambiti impropri: per esempio si legge la finale Croazia-Francia come se fosse la sfida tra Salvini e Macron, lo scontro finale tra i nazionalisti, populisti, razzisti croati e gli internazionalisti, bellagentisti, illuministi francesi. Ogni giorno tir di merda vengono rovesciati nelle discariche dei quotidiani nazionali contro Salvini e il razzismo. L’accusa di demagogia, fake news e populismo diventa in certi casi grottesca e autobiografica. Ne cito un paio. La famosa frase di Tito Boeri, il presidente dell’Inps, che gli immigrati ci pagheranno le pensioni è di una trita, falsa demagogia come nemmeno i più beceri dei populisti. È facile dimostrare, conti alla mano e casi precisi, che i minimi versamenti dei migranti all’Inps sono largamente superati dagli sgravi fiscali di cui beneficiano, dagli assegni di sostegno e dai costi dei medesimi per la sanità, la scuola, ecc. È imbarazzante che un presidente dell’Inps usi un gergo da bar dello sport e lo faccia deprecando quelli che usano argomenti da bar dello sport... Le bufale degli antipopulisti sono peggiori di quelle populiste... Altro esempio sulla sorellastra minore di Salvini, la Meloni. L’hanno massacrata perché ha chiesto di cancellare la legge sulla tortura approvata l’anno scorso. Il sottinteso è che la Salvini’s sister, razzista de roma, sgarbatella e fascistella, voglia ripristinare la tortura in Italia. Nella loro falsificazione idiota e demagogica, i giornali non si sognano di dire che da noi la tortura è reato da secoli, dai tempi di Beccaria; e che quella legge approvata lo scorso anno, non introduceva finalmente il reato di tortura che era già in pieno vigore; ma semplicemente mirava a intimidire la polizia e i carabinieri. Perché dopo ogni scontro, ogni saccheggio, ogni violenza, quel che resta poi nei media è sempre e solo la reazione vera e presunta delle forza dell’ordine. Lo stesso linciaggio, la sventurata subì pochi giorni prima quando osò come tanti far notare il rolex e la maglietta rossa di Gad Lerner. Le hanno rinfacciato di prendere lo stipendio di parlamentare (come si sa, lei è l’unica a ritirarlo, gli altri lo respingono al mittente) e di aver ostentato una volta nientemeno che una borsa di Vuitton. Come dire, sei populista, ergo devi usare le buste di plastica o meglio di carta riciclabile. Ma l’orologio rolex, le mega-terrazze, gli stipendi pazzeschi, non sono in sé un crimine e un misfatto, ma fanno impressione se sono ostentati da chi si mette dalla parte dei disperati e dei migranti. C’è contraddizione, sì o no, a fare i pauperisti griffati? Ma la Spocchiosa Macchina da Guerra dei Media, l’Uniforme telegiornalismo del nostro Paese, marciano imperterriti contro il Razzista alle porte, il Feroce Salvini. Suggerimento finale. Per fare la telecronaca quotidiana dei razzi contro i razzisti, ossia dei missili lanciati ogni giorno contro Salvini, suggerirei di ingaggiare in Rai un’esperta a livello mondiale: Ri Chun-hee, la speaker nordcoreana. È la più adatta al ruolo e al regime dell’informazione nostrana.
Violenza contro i migranti, non è solo razzismo: «Il vero problema è l'emulazione». Negli ultimi sei anni i crimini d’odio sono aumentati esponenzialmente. Trentatré solo negli ultimi due mesi. Insulti, botte e spari contro immigrati e italiani di origini straniere sono all’ordine del giorno. Luigi Manconi: «Non è una cospirazione bianca, né raptus. Ma l’intimidazione contro l’altro è ormai un’attività domestica», scrive Federico Marconi l'1 agosto 2018 su "L'Espresso". Trentatré aggressioni a sfondo razziale, più di una ogni due giorni. Dal 2 giugno, data di insediamento del governo Lega-5 Stelle, è stato un continuo succedersi di violenze e intimidazioni contro migranti e italiani di origine straniera. Un dato significativo nonostante le rassicurazioni dei due vicepresidenti del Consiglio: «Non c’è nessun allarme razzismo» hanno affermato, quasi in coro, Matteo Salvini e Luigi Di Maio commentando due drammatici casi di cronaca recente, molto diversi tra loro ma che hanno scosso l'opinione pubblica. Come quello di Aprilia, dove un migrante marocchino ha perso la vita dopo essere stato scambiato per un ladro. O di Moncalieri dove un uovo tirato da un auto in corsa ha ferito all’occhio la campionessa di atletica Daisy Osakue, mentre la Procura sta cercando i responsabili e ha aperto un fascicolo per lesioni senza aggravanti. Eppure le parole della giovane sportiva sono chiare: «Non voglio usare la carta del razzismo né del sessismo però a mio avviso stavano cercando una persona di colore». «In Italia il razzismo è un fenomeno minoritario, di una minoranza che negli ultimi tempi è purtroppo cresciuta costantemente» afferma Luigi Manconi, coordinatore dell’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (UNAR). «E voglio aggiungere che parlare di Italia come di un Paese razzista è sbagliato: così si applica il meccanismo essenziale del razzismo, cioé omologare e attribuire a un tutto le caratteristiche di una parte». Manconi però punta il dito contro la xenofobia, «che è qualcosa di ben diverso», sempre più forte e diffusa. Una mentalità che sempre più spesso sfocia nella violenza: «Abbiamo calcolato che da gennaio 2018 a luglio 2018 ci sono state undici persone colpite da proiettili di fucile o pistola, ad aria compressa o meno. Non credo sia un’operazione clandestina, una macchinazione inquietante strisciante nel Paese». Ma la situazione è comunque grave: «Non è una cospirazione bianca, ma nemmeno l’effetto di un raptus. In tutti questi crimini è centrale l’effetto emulazione: questi “cecchini” sono comuni cittadini, la violenza e l’intimidazione diventano attività domestica». I protagonisti delle aggressioni degli ultimi mesi sono infatti padri di famiglia, pensionati, studenti. Uomini comuni che aggrediscono altri uomini comuni solo perché diversi da loro. Insulti, sputi, botte aumentano di giorno in giorno, così come gli spari: i primi sono stati quelli che nella notte tra il 2 e 3 giugno hanno ferito a morte Soumalia Sacko nella piana di San Ferdinando. Dalle lupare si passa alle mazze da baseball, come quella con cui cinque giorni dopo, l’8 giugno, un 27enne è stato aggredito a Sarno, in Campania. Il 12 giungo, a Napoli, un algerino protesta contro un auto che non si ferma sulle strisce pedonali e viene accoltellato da tre giovani. A metà giugno aggressioni contro cittadini indiani, dominicani e maliani hanno luogo a Palermo, Roma, Cagliari e Caserta. Nella cittadina campana, il 19 giugno, due ragazzi vengono aggrediti da un gruppo di giovani che gridava «Salvini, Salvini». Due giorni dopo, sempre nella città della reggia, un giovane chef migrante viene ferito dai colpi di un fucile a pallini. Violenze e aggressioni non mancano nemmeno al Nord. Il 30 giugno a Trento un ragazzo viene aggredito dal datore di lavoro dopo la richiesta di ferie: «Ti brucio vivo brutto islamico». Il giorno dopo a Torino un ragazzo del Gabon si vede aizzare contro un pitbull al grido di «negro di merda». Il 2 luglio invece, sulla costa ligure, un venditore ambulante è vittima della stessa sorte davanti a una folla plaudente, mentre chi provava a difenderlo veniva aggredito a sua volta. Poi tornano i fucili, ad aria compressa, come quelli che feriscono una ragazza nigeriana l’8 luglio a Forlì, due ragazzi, nigeriani anche loro, il 12 luglio a Latina, la bimba rom il 19 luglio a Roma, e ancora un migrante il 27 luglio sempre a Caserta. Le trentatré aggressioni degli ultimi due mesi gettano luce sulla crescita costante dei crimini di matrice discriminatoria. Stando ai dati dell’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (OSCAD) dal 2012 al 2016 questo tipo di violenze sono aumentati di undici volte: erano 73 sei anni fa, 803 nel 2016, anno dell’ultima rilevazione. Di questi 803 crimini, più di un terzo (338) sono dovuti a razzismo e xenofobia. Secondo Cronache di ordinario razzismo, lavoro prodotto con le segnalazioni raccolte dai volontari di Lunaria, sono state 557 le violenze razziste e gli atti discriminatori tra gennaio e dicembre 2017. Tra gennaio e marzo 2018, mesi della campagna elettorale, Lunaria ne ha ricevute 169. Numeri preoccupanti in un Paese dove costantemente si alimenta la paura e l’odio contro il diverso.
IDEOLOGIE. L'immigrato è sacro: come ti invento il razzismo, scrive Rino Cammilleri l'1-08-2018 su "La Nuova Bussola Quotidiana”. La sinistra culturale italiana sta inventando da decenni una narrazione sul razzismo italiano. L'immigrato è il nuovo proletario sfruttato, per questo è diventato sacro e intoccabile. Ogni fatto di cronaca è un pretesto buono per alimentare questa versione dei fatti. L’emigrato è sacro e guai a chi lo tocca. Sei poi è africano, è ancora più sacro. Il presidente Mattarella, per esempio, in visita di stato in Armenia, al deporre una corona di fiori sul sacrario del genocidio insieme al presidente armeno, non imita quest’ultimo, che si fa il segno della croce, dunque nemmeno il memoriale del genocidio è per lui sacro. Però alza la voce contro l’Italia-farwest se un cretino spara ad aria compressa su una bambina nomade. Una ragazza di origine nigeriana si becca un uovo in un occhio ed ecco tutti i giornali e i tiggì fare la conta, tutte le volte che danno la notizia, di quanti neri nell’ultimo mese si sono fatti la bua per colpa dei bianchi. Sicuramente il Tg2 metterà, se continua così, il numeretto in alto a destra dello schermo, così come per i «femminicidi». Cioè, ogni volta che ci sarà un caso, ci ricorderà tutti i precedenti, in modo che gli italiani non si scordino il sacro dovere di santificare il migrante. L’americanata del «razzismo» ha prodotto negli Usa discriminazioni al contrario, alle quali l’odiato (non a caso) Trump sta cercando di porre rimedio. Ora, la sinistra nostrana cerca di americanizzarci anche in questo, noi che non abbiamo avuto né capanne dello zio tom né guerre di secessione. Le sinistre, eredi del giacobinismo, sono maestre nella guerra degli slogan: i loro avi l’hanno inventata ed è il motivo per cui cercano indefesse di introdurre i loro temi ideologici nelle scuole. Le quali, dal Sessantotto in poi, sono diventate il luogo privilegiato del conformismo politicamente corretto, complice lo scarso livello critico della classe insegnante. Berlusconi, dal canto suo, fin dal 1994 commise lo stesso errore della Dc, trascurando la cultura, le arti e la scuola in un gramscismo al contrario. Perì di propaganda e demonizzazione, malgrado i voti che aveva. Due-tre anni fa, d’estate, ero a cena in un ristorante all’aperto, a Pisa, con una coppia di amici e il loro figlio di dieci anni. La città era da sempre un feudo rosso, perciò gli ambulanti africani erano intoccabili. Cenare fuori era un tormento, ti si avventavano addosso come le cavallette, uno dietro l’altro, senza fine. Ero impegnato in una animata discussione quando arrivò il primo, insistente nel voler vendermi le sue cianfrusaglie. Gli dissi che non mi interessava, dovetti ripeterlo cinque volte, alzando vieppiù la voce. Alla fine, spazientito, mi levai in piedi e lo mandai a quel paese a male parole. Ebbene, il bambino mi diede del «razzista», e a nulla servì spiegargli che avrei agito così anche con un ambulante italiano se fastidioso e importuno. Eh, i corsi di antirazzismo glieli avevano fatti a scuola, perciò il decenne si comportava come i cani di Pavlov. Così, la sinistra e i suoi utili idioti non devono fare altro che ribattere i loro slogan fino allo sfinimento, ansiosi come sono che un movimento razzista, dai e dai, prima o poi nasca davvero. Né si tratta di un fenomeno solo italiano: sui giornali esteri la Lega è qualificata di «partito xenofobo», e lo stesso fanno i giornalisti italiani con tutte le destre europee; basta solo che chiedano una qualche disciplina dell’«accoglienza» e l’etichetta è già pronta. Naturalmente, come tutti sanno, per far nascere un fenomeno basta evocarlo con sufficiente reiterazione. L’iperprotezione dell’immigrato creerà fatalmente un movimento di rigetto, e allora, se prenderà i voti delle maggioranze esasperate, gli si darà del «populista» (da qual pulpito viene poi, la predica: se c’era un partito populista in Italia era il loro papà, il Pci) e lo si demonizzerà in tutti i modi. Se prenderà altre vie, meglio: la sinistra ha un bisogno disperato di un «proletariato» da cavalcare, e se non c’è lo crea. Come da copione, quando la sinistra perde alle urne fa ricorso alla piazza: il segretario del Pd, Martina, ha appena annunciato una grande «mobilitazione» antirazzista per settembre. Pensate che dopo le ultime elezioni, le sinistre si stiano estinguendo? Errore: come si fa a comandare pur essendo una risicata minoranza glielo ha insegnato Marx, ed è una lezione che non hanno mai dimenticato. Anche perché non sanno fare altro.
Otto Bitjoka, un grande africano: "La sinistra usa i neri come carta igienica, ora basta". Intervista di Sergio Luciano dell'1 Agosto 2018 su "Libero Quotidiano". «Attenzione cari fratelli e figli miei, siete usati e sarete sistematicamente buttati via come la carta igienica, mi permetto di consigliarvi da vecchio leone disincantato. Non è più accettabile essere strumento di lotta politica nelle mani di una sinistra contro i sovranisti populisti». Otto Bitjoka ama sorprendere, e non le manda mai a dire. E interviene a modo suo - dall’alto della sua stazza di camerunense bantu con laurea alla Cattolica di Milano, imprenditore e banchiere naturalizzato italiano (ha fondato Extrabanca) - sulla diatriba in atto tra buonisti e cattivisti, sospinta dall’opposizione piddina e Leu contro la Lega di Salvini. Lo fa con un incandescente post su Facebook, che poi commenta e dettaglia con Libero: «Il nostro problema - scrive sul social network - si affronta con un approccio post-ideologico. Ai giovani leaderini sindacalisti dei braccianti (ogni allusione all’italo-ivoriano Aboubakar Soumahoro è molto probabilmente voluta, ndr) consiglio di guardare verso le nostre parti, l’Africa ha il 68% delle terre incolte del pianeta, il 65% della forza lavoro trova occupazione nell’agricoltura. Impegniamoci tutti per fare diventare il nostro amato Continente, il granaio del mondo. Il nostro sguardo deve andare oltre, la nostra capacità d’auto strutturarsi è messa alla prova in questo particolare momento storico in Italia. Questa è la nostra vera sfida!»
Scusi, Bitjoka, ma lei - con l’esperienza e la credibilità che ha - non si rende conto che denunciando le strumentalizzazioni che la sinistra farebbe del problema migratorio sta facendo un gran regalo a Salvini?
«La sinistra ha sempre considerato l’immigrazione come una questione di accoglienza dove manifestare la sua magnanimità. Lo sa anche lei, che dico il vero: la sinistra ha sempre strumentalizzato».
Lo vede che è di destra?
«Macché: anche la destra ci ha sempre criminalizzato, l’obiettivo è stato uguale, mettere nel tritacarne gli immigrati».
Allora questo o quello per lei pari sono!
«Sì, ma gli immigrati, negli anni, si sono fidati di più della sinistra che della destra, salvo poi renderci conto che ci usano sempre e ci gettano. Io non voglio dare l’idea di essere diventato di destra: non è così. Sono un non-allineato. Affermo però che la sinistra ha tradito e adesso gli immigrati sono un po’ come orfani. Mentre io personalmente sono sicuro che si può - e oggi si deve, visto che è al potere - negoziare con l’istituzione gestita dalla destra. Se vogliamo disintermediare il nostro destino dobbiamo imparare a parlare con tutti. Con Salvini sarà difficile ma si può parlare. Leggo che la sinistra preannuncia per settembre una grande manifestazione antirazzista: benissimo, facciano ciò che vogliono, ma non si arroghino l’esclusiva della rappresentanza degli immigrati».
Ma cosa dovrebbe fare la sinistra, secondo lei?
«Se fosse appena appena intelligente potrebbe mettersi accanto all’Unione delle comunità africane in Italia per sostenerla, ma perderebbe protagonismo e invece vuole essere al centro dell’attenzione. Siamo noi però a voler essere e poter essere protagonisti e non vogliamo essere a rimorchio delle agende altrui…»
Scusi, ci faccia capire: lei si era candidato col Pd…
«L’ultima volta, sì, alla Regione Lombardia, con la lista di Ambrosoli. In precedenza due volte con i verdi del Sole che ride. Oggi ho preso atto che sono un indipendente e quindi nessuno mi vuole perché non mi metto in riga».
Cos’è per lei l’integrazione?
«È il successo attraverso la meritocrazia. Io non penso che gli africani in Italia debbano portare un pezzo d’Africa qua, dico che sono italiani, ma devono vivere guardando l’Africa. La sinistra ha avuto spesso la tendenza di cooptare i mediocri, in cambio della sudditanza. Perché tutti vogliono parlare di integrazione, ma nessuno la vuole sul serio, nessuno vuole che in nome dell’integrazione un immigrato diventi dirigente, o docente…»
Ancora una cosa: lei ama definirsi provocatoriamente "negro", non dice mai "nero". Perché?
«Perché sono titolato a dirlo, so di cosa parlo, ho studiato per sette anni di letteratura africana. È una scelta che risale alla corrente letteraria della negritudine nata negli anni Cinquanta che aveva visto giusto. Oggi del resto si parla di afrocentrismo, di afrocrazia… c’è una semantica nuova, serve una nuova grammatica che richiede anche una nuova ortografia».
Ok, ma per dire cosa, al di là delle parole?
«Per dire che tra 15 anni sarà l’Africa a dare le carte dello sviluppo. Per gli africani emigrati, per quelli che saranno rimasti e per il mondo».
"Noi, clochard italiani al gelo scavalcati dagli extracomunitari". Tra i senzatetto accampati sotto i portici di via Vittor Pisani: "Perché il Comune di Milano si è dimenticato di noi?" Scrivono Marianna Di Piazza e Fabio Franchini, Giovedì 20/12/2018, su "Il Giornale". Duemilasettecento posti letto per i senzatetto in ventitré strutture sparse in tutta Milano, un numero unico per le segnalazioni attivo ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette. È il "Piano freddo" 2018 dell’amministrazione Sala, che però, nonostante le migliorie sbandierate dalla giunta, si dimentica di tanti clochard italiani. Ne conosciamo alcuni in via Vittor Pisani, quel vialone porticato che collega Piazza della Repubblica alla Stazione Centrale. In una sera di dicembre, con il termometro che indica uno striminzito grado centigrado, incontriamo diversi connazionali che non riescono a ottenere un posto letto dal Comune. Avvolti da coperte e imberrettati, sono pronti ad affrontare l'ennesima notte al gelo. Hanno tutti tra i 45 e 60 anni, hanno figli e hanno perso il lavoro. "La situazione è drammatica, perché le temperature incominciano a calare e c’è tanto freddo. Abbiamo fatto alcune domande per un ricovero al coperto, ma purtroppo essendo italiani siamo presi in considerazione un po' diversamente…", ci spiegano. Non ce l'hanno direttamente con gli extracomunitari, ma accusano le istituzioni locali di privilegiare gli stranieri in difficoltà, anziché i molti italiani in povertà: "Quando sono andato a chiedere aiuto, ho detto che sono di Venezia e mi hanno risposto: 'Perché non ritorni a casa?'. Su questo versante loro ci passano davanti, hanno una sorta di corsia preferenziale". Da un sacco a pelo un po' appartato un uomo si alza e ci viene incontro. "Non è giusto che sia così – tuona –. La cosa allarmante è che sei fai una passeggiata qui di italiani ne trovi parecchi: il Comune dovrebbe iniziare e pensare perché ce sono così tanti per strada. E cosa fanno per noi? Niente. Abbiamo cercato un dormitorio, veniamo però preceduti da una sfilza di immigrati e richiedenti asilo. Ma l’Italia è fatta dagli italiani, non dagli extracomunitari. La guerra l’hanno fatta i nostri nonni. Non abbiamo più diritti, noi?". A poco a poco iniziano a radunarsi intorno a noi e a sfogarsi: "Questa mattina siamo andati a farci la doccia all’Opera San Francesco, in Piazza Tricolore: su una cinquantina di persone, eravamo solo cinque o sei italiani". Una coppia di signori si ferma a lascia una pizza: ringraziano e le addentano. Dopo aver messo qualcosa in pancia, ci spiegano come nessuno del Comune sia passato di lì ad aiutarli in qualche modo. Chi passa, invece, sono i volontari di alcune associazioni e la Croce Rossa: "Ci forniscono coperte, sacchi a pelo, tè caldi e brioches". Quello che manca sempre, però, è un posto al chiuso dove andare a dormire, oltre che un lavoro che non si trova. "Quando provo a chiedere in qualche posto se c’è bisogno di una mano, appena mi vedono mi chiudono la porta in faccia – raccontano –. Poi ogni giorno è dramma, perché appena giri la testa ti rubano tutto, a partire dalle coperte. Per questo andiamo a lavarci e a fare la doccia a rotazione: almeno uno di noi rimane sempre a fare da sentinella. Perché senza coperte dove vai? Come la passi la notte?".
"Pd ipocrita, non basta definirsi antifascisti per essere democratici". È il retaggio culturale degli eredi del Partito comunista mettere all'indice tutte le idee a loro contrarie. Compresa la famiglia, scrive Matteo Forte, Consigliere comunale, martedì 19/12/2017, su "Il Giornale". È tornata la parolina magica che la sinistra milanese rispolvera in vista della prossima campagna elettorale: antifascismo. Ed ecco che a Palazzo Marino viene presentata una bella mozione che di più democratiche non ce n'è. La mozione, firmata in pompa magna da tutti i consiglieri di maggioranza, sottomette la concessione di spazi pubblici, contributi e patrocini ad una dichiarazione in cui il richiedente certifica il suo antifascismo e il suo essere contro il razzismo, le discriminazioni di genere e d'orientamento. A più di settant'anni, però, è giunto il momento che qualcuno di insospettabile dica una cosa che ormai anche nella storiografia più recente è stata sdoganata: non basta essere antifascisti per dirsi democratici. Il concetto di antifascismo fu egemonizzato fin da subito dall'Unione sovietica di Stalin che, vedendo nel fascismo nient'altro che l'ultimo stadio dello stato borghese, lo faceva coincidere con l'anticapitalismo. Da allora è passata l'idea che antifascisti, e quindi sinceramente democratici, sono solo quelli di sinistra. Tale retaggio culturale affligge ancora oggi gli eredi del Pci, quelli che il «comunismo italiano era un'altra cosa» e i loro giovani nipotini dem. I democratici di oggi finiscono per rigettare nel campo del fascismo tutte le idee che loro osteggiano. È fascista chi, per esempio, si oppone alla «colonizzazione ideologica» nelle scuole medie statali da parte di esponenti dell'Arcigay, com'è capitato all'assessore Deborh Giovanati del Municipio 9. Lei ha sollevato il caso di sedicenti «corsi contro la discriminazione» in cui si parlava a ragazzini adolescenti di «pansessualismo» e si invitava una consigliera Pd a presentare il suo libro su Islam e integrazione. Giovanati ha chiesto semplicemente se i genitori fossero stati opportunamente informati e se, nel caso, fosse prevista una pluralità di voci su temi così delicati in cui risulta violento andare contro le convinzioni più intime delle famiglie. Apriti cielo. Sono fioccati interventi sdegnati di parlamentari Pd contro la presunta ingerenza del Municipio nell'autonomia della scuola. Sono fioccate mozioni di censura contro l'assessore. È intervenuta l'Anpi zonale durante una seduta dell'ex consiglio di zona. La libertà è solo quella di poter esprimere le idee politicamente corrette e più accreditate. Le altre sono semplicemente fasciste. Ecco perché nella mozione liberticida ancora in discussione a Palazzo Marino si richiede l'autocertificazione pure contro le discriminazioni di genere e d'orientamento sessuale. Del resto non è un caso che la madrina delle unioni civili, la senatrice Cirinnà, abbia espressamente minacciato: «L'intuizione del grande sociologo Bauman è ormai da tempo una dura realtà: la società liquida, nella quale abbiamo dovuto abituarci a vivere, ci pone quotidianamente di fronte a nuove sfide culturali, sociali, intellettuali, per cui il tema della libertà d'espressione è indubbiamente la nuova frontiera che dobbiamo definire». In un regime sotto il Patto di Varsavia non avrebbero saputo fare di meglio. Per questo ancora oggi non basta dirsi solo antifascisti per difendere la libertà.
L'egemonia rossa è morta, ma la nevrosi resta, scrive Paolo Guzzanti, Sabato 07/07/2018, su "Il Giornale". Ci fu un tempo in cui la sinistra comunista era veramente egemone nella cultura italiana. L'egemonia era nata col fascismo che, incredibile ma vero, conteneva quel che poi sarebbe stato il Pci di Palmiro Togliatti. Il partito egemone di sinistra stabilì per decenni quali fossero i film, i romanzi, i poeti, i pittori, gli attori degni del certificato di esistenza in vita. Tutti gli altri erano sdegnosamente confinati in un cono d'ombra e di disprezzo. Da questa supremazia, in parte giustificata dalla qualità, nacque e si sviluppò la grandissima spocchia, anzi il razzismo ariano degli intellettuali di sinistra. Poi, così come del gatto di Cheashire nelle avventure di Alice rimase soltanto una dentiera, dell'egemonia culturale di sinistra rimase soltanto la spocchia genetica. Non si deve mai dimenticare che Stalin cominciò la seconda guerra mondiale dalla parte di Hitler, sostenuto dallo spudorato consenso degli intellettuali comunisti di tutto il mondo, salvo quelli americani. L'egemonia è morta ma restano ridicole eruzioni di rabbia psicosomatica. Gli ex egemoni vivono come una nevrosi post traumatica la marcia trionfale di Salvini fingendo di non sapere che musica e arrangiamento di quella marcia è opera loro. È il frutto della paura che hanno inoculato negli italiani pur di saziare il proprio narcisismo di falsi buoni, mentre sono ormai solo scarti, cassonetto giallo della differenziata tossica.
La liberazione dalla retorica, scrive Marcello Veneziani su Il Tempo il 25 aprile 2018. Cosa ne direste se facessimo un programma televisivo intitolato Arcipelago Gulag? Che ce ne siamo andati di testa, il gulag è chiuso da svariati decenni. È storia vecchia. E invece c’è un programma nuovo di zecca, intitolato La difesa della Razza, di Gad Lerner, dedicato a una rivista e agli eventi terribili di ottant’anni fa. Eventi evocati tre volte al giorno dopo i pasti. Il programma ha l’evidente funzione di soffiare sul fuoco dell’antirazzismo e di stabilire un ponte infame tra i razzisti del passato e la stampa di centro-destra d’oggi. Partendo proprio da Il Tempo, a cui Lerner ha voluto dedicare l’incipit del programma, attaccandosi al fatto che quella rivista infame, molto letta (e a volte anche scritta) da tanti che poi diventeranno comunisti, socialisti, laici, democristiani, ebbe la sua sede nello stesso palazzo de Il Tempo. Se le colpe ricadono pure sugli inquilini dei palazzi, figuratevi che colpe dovrebbero ricadere su chi ha militato in movimenti che decretarono di uccidere per esempio il commissario Calabresi. Gad Lerner militava in Lotta Continua in anni assai più recenti del ’38 ma nessuno si sognerebbe oggi di rinfacciargli il suo passato militante; immaginate con che spirito si possa rinfacciare a uno che è nato molti anni dopo la caduta del fascismo e che mai ha sostenuto tesi razziste, qualche legame con la difesa della razza… E invece lui ci ha provato e ha preso a pretesto la prima pagina de Il Tempo su Mussolini uomo dell’anno per stabilire un ponte infame tra il razzismo e questa testata. Ignorando in malafede il senso evidente di quella pagina e di quel testo, ribaditogli anche dal Direttore Chiocci: col vostro antifascismo fuori tempo e fuori senno avete reso Mussolini il personaggio più attuale dell’anno. Questo per dirvi che i secoli passano, e perfino i millenni, ma intorno al 25 aprile gli avvoltoi spiccano puntuali il loro volo, tra carogne e carcasse. E noi che ci chiedevamo: come sarà quest’anno il 25 aprile dopo la sfuriata antifascista dello scorso anno, dopo la cacciata delle sue vestali e l’avvento del magma grillino e del destro-leghismo? Rientreranno i toni e gli allarmi che hanno vistosamente stancato gli italiani o riprenderanno comunque, nonostante appaiano alla popolazione irreali, subdoli e posticci? Lerner su Raitre ti fa cadere le braccia e le residua fiducia nel buon senso, nell’onestà storica e nella voglia di voltare pagina. Una decina d’anni fa ci fu un tentativo di rendere la Liberazione un patrimonio di tutti. Fu quando Berlusconi al governo volle ribattezzarla Festa della Libertà, implicando la conciliazione tra vincitori e vinti e l’integrazione con la Libertas dello Scudo crociato e la freedom in senso atlantico e occidentale. Ma il tentativo non attecchì, la sinistra militante si votò all’Urfascismo e all’antifascismo eterno. Quando l’uso carognesco della storia finirà di incombere nella carne e nello spirito dei figli, dei nipoti e dei pronipoti? Un tempo pensavo che vi potesse essere nel nome dell’Italia una pacificazione tra eredi e posteri del fascismo e dell’antifascismo, ma la pacificazione fallì e la tensione nel tempo crebbe anziché spegnersi. Lo ha confermato il maestrino della sinistra ricreativa, Fazio. Poi pensavo che avremmo digerito il fascismo quando lo avremmo sottratto alla politica e restituito alla storia. Ciascuno ha i suoi giudizi storici divergenti, ma senza alcuna ricaduta nel presente o tra i presenti, nella politica e addirittura nel futuro. Ma la storicizzazione del fascismo tarda a diventare senso comune, prevale il Precetto. E la Dannazione. Infine pensai che ci avrebbe pensato l’oblio, la rimozione di ogni passato in un’epoca che non ricorda ma si vive addosso, campa solo del momento. Quel processo avviene in ogni campo e uccide ogni memoria, meno che in tema di fascismo, elevato a totem e tabù. E con gli anni peggiora. Cresce il vilipendio dei cadaveri, l’oltraggio ai morti e la loro dannazione, la discriminazione tra morti e morti. L’industria delle pompe funebri lavora a tempo pieno. E come ogni impresa funebre non è finalizzata alla memoria e all’onorata sepoltura ma al profitto. Politico. Ma veniamo al 25 aprile. Da italiano avrei voluto che la Resistenza avesse davvero liberato l’Italia, scacciando l’invasore. Avrei voluto che la Resistenza fosse stata il secondo Risorgimento d’Italia. E avrei voluto che il 25 aprile avesse unito un’Italia lacerata. Sarei stato fiero di poter dire che l’Italia si era data con le sue stesse mani il suo destino di nazione sovrana e di patria libera. Ma devo purtroppo dire che l’Italia non fu liberata dai partigiani ma dagli alleati. Il concorso dei partigiani fu secondario. Sanguinoso ma secondario. La sconfitta del nazismo sarebbe avvenuta comunque. I partigiani, poi, duole dirlo, non agirono col favore degli italiani ma di una minoranza: ci furono altre due italie, una che rimase fascista e l’altra che si ritirò dalla contesa e ripiegò neutrale e spaventata nel privato o altrove. Devo purtroppo aggiungere che almeno la metà dei partigiani non voleva restituire la patria alla libertà e alla sovranità nazionale e popolare ma voleva instaurare una dittatura comunista internazionale. Altro che risorgimento. E il proposito di unire gli italiani non rientrò mai nelle celebrazioni in rosso sangue del 25 aprile. Fu sempre una festa contro. Non posso poi dimenticare tre cose. La prima è che la guerra partigiana ebbe episodi di valore e di coraggio ma anche di gratuita, feroce e impunita violenza. Dimenticare gli uni o gli altri è un oltraggio alla verità e alla memoria dei suoi eroi e delle sue vittime. La seconda è che molti italiani che restarono fascisti fino alla fine combatterono e morirono senza macchiarsi di alcuna ferocia, pagarono di persona la loro lealtà, la loro fedeltà a un’idea, a uno Stato e a una Nazione; mezza classe dirigente dell’Italia di domani, e anche di più, fu falciata dalla guerra civile. Molti di loro furono risorgimentali autentici, mazziniani e patrioti. Sia tra gli antifascisti che tra i fascisti vi furono coloro che pensarono, credettero e combatterono nel nome della patria. Reputo il fascismo morto e sepolto da una montagna di anni, definitivamente. Ma non sono disposto a negare, attutire o rimuovere la verità e calpestare il sacrificio di quei ragazzi. Il sangue dei vinti. Infine reputo l’antifascismo una pagina di dignità, fierezza e libertà quando il fascismo era imperante; ma non altrettanto reputo l’antifascismo a babbo morto, cioè a fascismo sconfitto e finito. Era coraggioso opporsi al regime fascista, non giurargli fedeltà, ma non fu coraggioso sputare sul suo cadavere e oltraggiarlo. E più infame è farlo ancora oggi, oltre settant’anni dopo. Nonostante tutto reputo la Resistenza una pagina decisiva nella storia d’Italia ma reputo infami le stragi di civili, i vili agguati e poi le uccisioni a guerra finita. Si fa peccato a dire tutto questo? Sono pronto a peccare, nel nome della verità, della dignità e della libertà di giudizio. MV, Il Tempo 25 aprile 2018
Centri sociali contro gli agenti: è guerriglia anche a Napoli. Gli antagonisti in piazza contro il comizio di Casapound. Ai poliziotti: "Il mondo vi detesta, siete dalla parte dei fascisti", scrive Chiara Sarra, Domenica 18/02/2018, su "Il Giornale". "Il mondo vi detesta. Siete dalla parte dei fascisti". Lo hanno urlato - come riporta RaiNews24 - gli antagonisti dei centri sociali ai poliziotti schierati in assetto anti sommossa a Napoli, dove un corteo antifascista è sceso in strada per protestare contro un meeting elettorale di Casapound. Il leader della formazione di estrema destra Simone Di Stefano, infatti, partecipa a un incontro del movimento all'hotel Ramada, in via Galileo Ferraris, non lontano dalla stazione Centrale. Ed è proprio fuori dalla stazione che si sono concentrati i centri sociali, che hanno marciato con uno striscione che recita: "Stop razzismo e fascismo". Ad applaudirli, mentre sfilavano per le strade del quartiere Vasto, anche gli immigrati residenti nella zona. Le forze dell'ordine hanno blindato l'area circostante l'hotel e non sono mancati momenti di tensione e guerriglia, con bombe carta e fumogeni lanciati in direzione degli agenti, tra automobilisti e passanti spaventati. Un gruppo formato da una trentina di attivisti è stato poi fermato: gli agenti ha fatto piazzare gli antagonisti per qualche minuto contro un muro. Negli scontri due manifestanti sono stati feriti e portati in ospedale per le medicazioni.
La ladra rom trasformata in vittima, scrive Andrea Indini l'8 dicembre 2018 su “Il Giornale”. Ci sono delle notizie che finiscono per fare delle capriole senza senso e raccontare tutt’altra realtà. È accaduto, per esempio, in questi giorni a una fermata della metropolitana di Roma. Una ladra di etnia rom, come ce ne sono tante sui vagoni capitolini, ha provato a mettere le mani in tasca alla persona sbagliata. Sebbene fosse già stata fermata dai vigilantes, si è presa una scarica di botte da uno dei presenti ed è così diventata la bandiera degli anti razzisti che, in men che non si dica, l’hanno trasformata in vittima. Non importa che la rom abbia usato una bimba piccola, tenuta in braccio, per avvicinarsi e derubare un malcapitato. Non importa che il tentato furto sia l’ultimo di un’infinita lista di colpi messi a segno nella metropolitana capitolina. Non importa nemmeno che, dopo essere stata fermata dai vigilantes e pestata dall’esagitato giustiziere, la ladra sia stata rimessa in libertà come se non fosse successo nulla di grave. Gli occhi di tutti si sono infatti concentrati sulla giustizia fai da te (per deprecarla ovviamente) e su una giornalista che, intervenendo per difendere la rom, si è presa pure qualche parolaccia. Lungi dal difendere la “giustizia fai da te”. Non è mai la risposta giusta. Nemmeno quando lo Stato ti lascia in balia di balordi che nove volte su dieci restano impuniti per i crimini che compiono un giorno sì e l’altro pure. Il caso di Roma mette a nudo, ancora una volta, la percezione di insicurezza degli italiani che si sentono abbandonati dalle istituzioni. È quindi sbagliato bollare l’episodio come un caso di razzismo, come hanno invece fatto i giornali progressisti. Ieri il Censis ha portato a galla il malessere di questo Paese: ci siamo “incattiviti”. È un dato di fatto. Ma anziché scavare fino in fondo per capire cosa ci ha portati a questo punto, la sinistra strumentalizza qualsiasi scontro (fisico) con uno straniero o una minoranza per gridare all’emergenza fascismo. È una lettura politica che non riflette la realtà. I danni della microcriminalità sono enfatizzati da una generalizzata percezione di insicurezza che non fa bene a nessuno. L’altro è ormai percepito con sospetto. E questo perché per anni lo Stato non è stato capace di garantire la sicurezza ai propri cittadini. Ora ne paghiamo le conseguenze. Bollarle come “rigurgito del fascismo” e trasformare una ladra in una vittima significa solo ritardare la ricerca della soluzione e magari ritrovarci, fra qualche anno, in un’emergenza ancora più allarmante. Lo stesso viene fatto con i ladri ammazzati in casa per screditare la riforma della legittima difesa. I due casi sono ovviamente di diversi, ma il modo di strumentalizzarli ha la stessa matrice.
Sempre contro gli italiani, scrive Marcello Veneziani su Il Tempo il 29 ottobre 2018. L’altro giorno Michele Serra confessava onestamente su la Repubblica che quando sente la notizia di uno stupro si augura vivamente che gli stupratori siano italiani, perché teme l’ondata razzista contro i neri. Altrettanto onestamente ammettiamo che a gran parte degli italiani succede esattamente l’inverso, preferiscono pensare che gli stupratori siano immigrati, come del resto il più delle volte accade. Entrambi brutti vizi, ma se permettete il primo è leggermente peggiore. Dopo l’onesta ammissione, però, l’antico vizio fazioso dell’uomo di sinistra prendeva il sopravvento in Serra e ristabiliva il razzismo etico: voi italo-razzisti di questa contrapposizione ci campate, noi antirazzisti illuminati invece ne soffriamo e prima ancora la denunciamo, e a differenza di voi rozzi noi ne siamo consapevoli. No, Michele, posso assicurarti che anch’io ne soffro, non mi piace patire di questi pregiudizi e soprattutto di questi odi incrociati. Però poi ho collegato l’osservazione di Serra a una serie di eventi recenti e ho notato una cosa che poi vi dirò. Dunque, mettiamoli in fila. Gli spacciatori nigeriani che straziano il corpo e la vita di Pamela a Macerata passano nel dimenticatoio rispetto al gesto folle di Traini che volendo vendicare la ragazza spara all’impazzata, senza uccidere nessuno, contro un gruppo di neri. Ma il meraviglioso mondo della sinistra ricorda di Macerata solo il gesto di Traini, e l’ex direttore di Repubblica Ezio Mauro addirittura gli dedica un libro per inveire contro l’Uomo Bianco. Secondo episodio, più recente, lo stupro e poi lo strazio di Desirée, a Roma ad opera di un branco di nigeriani, senegalesi, gambiani, spacciatori di droga. A sinistra insistono a definire la povera ragazza una drogata, e Gad Lerner tiene a far sapere che la droga era di casa nella famiglia italiana di lei. Come a dire, ben gli sta, ecco gli spacciatori made in Italy. Terza storia, infinita il caso Cucchi. Come voi sapete l’unica etnia nera che suscita livore e disprezzo a sinistra è l’etnia dei Carabinieri, con le loro divise nere e il loro minaccioso ruolo di garantire ordine e sicurezza al paese. Il caso Cucchi, non dello spacciatore Cucchi ma del geometra Cucchi, per carità, diventa l’occasione per processare, discreditare, delegittimare l’Arma dei Carabinieri. In un paese sano si sarebbe portati a circoscrivere la vicenda ai diretti, presunti colpevoli, lasciando che la giustizia faccia il suo corso. Da noi no, non basta cercare coperture dei superiori ma si deve allargare il cerchio nero del discredito anche ai vertici dell’Arma che cercano come è giusto e naturale, difendere l’onorabilità dei Carabinieri e limitare la portata della brutta storia ai soli responsabili. Ed è inutile ricordare che ogni giorno migliaia di carabinieri rischiano la vita e l’incolumità per garantirci ordine e sicurezza, acciuffano delinquenti di vario tipo, spesso rimessi presto in libertà. Ma no, hanno le divise, usano le armi, quindi sono per natura violenti, il caso Cucchi docet. Ma non finisce qui. Quest’anno è il centenario della Vittoria, l’anniversario in cui l’Italia vinse una guerra, fu una tragedia, una catastrofe di morti ma fu anche un evento glorioso per l’Italia e un evento da ricordare anche per quanti sacrificarono la loro vita sul fronte. Ma di quell’evento cruciale non si parla affatto, se non per parlare dei generali felloni, delle diserzioni e delle carneficine. Mai nessuno che ricordi quei poveri soldati morti al fronte, quegli eroi, quei militi ignoti, quel momento in cui un popolo si scoprì patria. In compenso, si commemorano da svariati mesi, quasi ogni giorno, su tg, giornali, con le istituzioni, le infami leggi razziali del ’38. Sembra che sia la cosa più importante che abbia fatto l’Italia, e non solo il fascismo, nel Novecento sia quella. Mettete in fila queste vicende diverse e traete la conclusione: di fronte a ogni evento storico, giudiziario, di cronaca nera, la sinistra mediatica, politica, intellettuale e di potere, è sempre contro gli italiani, contro la nostra storia, contro chi tutela la nostra sicurezza. Sempre dalla parte di chi viola, violenta, ferisce, colpisce, o si commemorano solo le pagine di cui dovremmo vergognarci. Una costante, metodica, fanatica campagna di odio contro se stessi, contro l’Italia e contro gli italiani, giustificazionista verso gli spacciatori neri, gli stupratori neri (o anche romeni). E se un quartiere si ribella ai furti e alle sopraffazioni dei rom, la Premiata Ditta è sempre sistematicamente dalla parte dei rom contro gli italiani, con la benedizione delle Istituzioni. Eccoli, gli antiitaliani, gli antipopolari, gli anti-noi, eccoli i fautori dell’Arrivano i loro, del Viva gli stranieri abbasso i connazionali, la setta che predica “forza i lontani abbasso i vicini”. E’ la stessa logica che porta a preoccuparsi di chi vuole sbarcare e a trascurare i vecchi di casa propria, i loro disagi, la loro povertà, la loro solitudine. Capite perché allora questo razzismo a rovescio fa doppiamente male e suscita avversione, anche virulenta nella gente comune? Per carità, manteniamo la calma, la civiltà, la compostezza, i barbari di fuori e i loro complici di dentro non devono trascinarci nell’imbarbarimento e nella brutalizzazione. Però ristabiliamo la verità, ristabiliamo i fatti. E ripartiamo dall’amor patrio anziché dall’odio per i vicini che è la vera matrice del buonismo in favore dei lontani più distanti. Fino a quando disprezzerete gli italiani, gli italiani disprezzeranno voi. MV, Il Tempo 29 ottobre 2018
Marcello Veneziani: "Ma che razzisti sono gli anti-razzisti", scrive il 6 Agosto 2018 su Libero Quotidiano. Più razzisti dei razzisti ci sono gli anti-razzisti. A sostenerlo è Marcello Veneziani che su il Tempo spiega la sua tesi partendo da una premessa: innanzitutto "Il riconoscimento delle razze implica le differenze tra le etnie e non la superiorità o l'inferiorità razziale. Diventa razzismo quando si impone il primato di una razza e si dispone la persecuzione di un'altra, fino all'aberrazione estrema dello sterminio". Fatta questa premessa, continua Veneziani "arrivo a dire che rispetto a queste premesse sono relativamente pochi i reati compiuti dai medesimi tra violenze, stupri, furti, aggressioni, disordine sociale. E in rapporto a questi, sono ancora più esigui gli episodi di intolleranza da parte degli italiani che si possano veramente ricondurre al razzismo. Casi di maleducazione, difficile convivenza, violenza scoppiano ogni giorno, soprattutto nei luoghi più degradati o negli spazi pubblici più affollati di mi Daisy Osakue l'atleta azzurra ferita da un lancio di un uovo. Ma il razzismo non c' entra". E conclude: "Oggi il peggior razzismo è esercitato da una minoranza contro la maggioranza degli italiani. E il razzismo dell'antirazzismo. Oggi il razzismo più opprimente e intimidatorio, è etico, e non etnico; è quello culturale, politico, ideologico di una «razza eletta» rispetto al popolaccio che sceglie di pancia il sovranismo ed è perciò bollato come naturaliter razzista. Il razzismo degli antirazzisti diventa delinquenziale quando identifica l'amor patrio, il legame identitario e nazionale, col razzismo, che nella peggiore delle ipotesi è una sua degenerazione". Purtroppo "il razzismo da tempo soffia anche nei tribunali, perché è facile il passaggio tra l'accusa ideologica e l'accusa penale. Volenterosi magistrati non mancano a supporto della caccia al razzista. E assurdo tenere in vita leggi speciali, come la legge Mancino, per colpire il razzismo e dintorni. Bastano le leggi ordinarie del nostro codice che puniscono ogni violenza e sopraffazione compiuta".
Il politicamente corretto odia l’Immigrazione sana, la dimostrazione è Toni Iwobi, scrive il 9 marzo 2018 Andrea Pasini su "Il Giornale". Mario Balotelli e Cécile Kyenge che cosa hanno in comune? Sono il volto dell’integrazione, mal riuscita, all’ombra del tricolore. Esempio di uomini e donne arroganti e spacconi che vogliono spiegarci, a tutti i costi, che l’immigrazione ha un colore, possibilmente arcobaleno, avvolto nella bandiera dei diritti, senza doveri, sventolata dalla sinistra. Quella sinistra politicamente corretta che si è indignata per l’elezione del primo senatore con la melanina scura della storia della Repubblica italiana: Toni Iwobi. Qual è il problema? Il problema è che Toni Iwobi rappresenta la Lega. Il senatur rappresenta, per il movimento capitanato da Matteo Salvini, il responsabile federale del Dipartimento Immigrazione e Sicurezza. Un verde, come lo ha definito Vittorio Feltri un “negro bergamasco”. Nel suo editoriale la penna della città dei Mille, sulle colonne di Libero, scrive: “Il suo motto è ‘REALISMO, NON RAZZISMO’. Per questo egli dice: migrazione solo se c’è lavoro, e siccome oggi c’è ‘soprassaturazione dell’occupazione’ (usa questa parola accademica, ma va bene lo stesso), vanno bloccati i flussi. Come? Svelando l’inganno a quelli che sono invogliati a partire dai buonisti bugiardi. (…) Vanno ‘aiutati a casa loro’, con investimenti governati da aziende nostre, che possano prosperare loro e far prosperare i locali. Fornisce qui altre ricette, a cui mi inchino, e che so costituiscono il programma di Matteo Salvini su questo tema che non è un’emergenza ma ci assedierà per decenni (se riusciremo a sopravvivere)”. Realista proprio come piace a noi. Realista quel tanto che basta per sorpassare, senza voltarsi, i cattocomunisti da strapazzo che voglio farci invadere senza possibilità di difesa. Forse sono cieco io o forse non gliel’hanno detto ancora che è nero. Ma vergogna!”. Le polemiche ai tempi dei social network. Le parole arrivano dal profilo Instagram di Mario Balotelli. Il viziato centravanti del Nizza. Il bizzoso talento sprecato ai tempi dell’Inter, appassito in quel di Manchester, sfiorito a Milano sponda Milan e timidamente riapparso in Costa Azzurra. Dall’alto della sua sapienza apostrofa, con un tackle impreciso e rozzo, il leghista con toni poco lusinghieri. Eccolo il nodo cruciale. L’ideologia politica ha un colore, soprattutto quello della pelle. Una follia, figlia di questo tempo malato, dove il senno è un diritto arrogato, unicamente, dalle sinistre. Adriano Scianca, direttore de Il Primato Nazionale scrive: “Secondo il nuovo Sartre, ovvero Mario Balotelli, se un nero si candida con la Lega è perché è cieco di fronte al colore della propria pelle. Applausi a scena aperta dalle sinistre. Ora, senza entrare nel merito della questione Iwobi, mi interessa molto questo ragionamento di Balotelli. Quindi esistono posizioni politiche che discendono direttamente dal colore della pelle? Ma questo vale solo per un certo tipo di pigmentazione oppure è valido anche per me? È possibile pensare, votare e schierarsi in quanto nero ma non è possibile farlo in quanto bianco? Eppure avevo capito che le razze non esistessero. Sono curioso, spiegatemi”. Spiegatelo al nuovo governatore lombardo, Attilio Fontana, che per una frase sulla “razza bianca” è stato crocifisso sull’altare di Giorgio Gori. Con i risultati delle urne che stridono rispetto alla realtà, patinata, del mondo irreale dei media. Mai un giorno nell’illegalità per il neo senatore Toni Iwobi. Quarant'anni nel nostro che è diventato, anche, il suo Paese. Una condotta esemplare, un esempio vincente di integrazione, di lavoro al servizio della comunità. La dimostrazione che non tutti gli extracomunitari appartengono alla cerchia del PD e della politica fatta sulle pelle, è il caso di dirlo, delle minoranze etniche. Il rapper Tommy Kuti, anche lui originario della Nigeria, in un suo brano dal titolo #Afroitaliano canta: “Quando tutta sta gente non mi conosceva/ Fanculo i razzisti, quelli della Lega/ Ogni 2 Giugno su quella bandiera/ Mando una foto ai parenti in Nigeria / Mangiando una fetta di pizza per cena”, chi glielo racconta ora che ha sbagliato bersaglio nelle sue liriche? Senza citare chi paragona Iwobi ad un maggiordomo, ad un novello zio Tom, allo Stephen, interpretato da Samuel L. Jackson, capo della servitù, negriero tra i negri, del film Django Unchained. Come sostiene Scianca una contraddizione in termini, fortissima, laddove la RAZZA esiste solo a comando. Anzi di razza ne esiste solo una quella bianca, con cui diventa impossibile scendere a patti, scendere a compromessi, anche solo semplicemente confrontarsi per ottenere risultati concreti. Figuriamoci per un nigeriano che ha deciso di investire le proprie competenze con la Lega, follia. Nicola Porro definisce Roberto Saviano un minus habens, perché suggerisce a Matteo Salvini di bere la propria urina. Quando Gomorra diventa realtà. Quando l’astio verso Iwobi, verso la trionfante Lega, i dati elettorali parlano chiaro, diventa motivo di acredine incontrollata. Serve, a questo punto, citare il Vate Gabriele D’Annunzio per apostrofare gli amici politicamente corretti. Il poeta abruzzese definì, al culmine di una lite, Filippo Tommaso Marinetti un “cretino fosforescente”. Ecco cosa sono codesti minus habens: cretini fosforescenti. Perché esaltano il proprio livore rendendosi visibili, anche dalla Luna, in tutta la loro cafonaggine. Si legge sulle pagine del Giornale: «“Vorrei ringraziare tutti coloro che hanno condiviso le manifestazioni di sostegno per Mustafa”, ha scritto ieri pomeriggio Mohamed Ali Arafat, sindacalista a Piacenza, per annunciare l’avvenuta scarcerazione del compagno di lotta. “La liberazione di Moustafa è solo il primo di una serie di passaggi necessari a liberare tutti i protagonisti di quella grande giornata di lotta antirazzista – si legge nella pagina Facebook di Si Cobas Piacenza – Chiediamo con forza la liberazione di tutti i compagni arrestati per i fatti di Piacenza e una piena assoluzione per loro e per i compagni piacentini colpiti da denunce e perquisizioni. La necessità di lottare contro il razzismo e le sue sedi è sotto gli occhi di tutti: quotidianamente si succedono gli atti di terrorismo a matrice fascista e leghista contro immigrati o le intimidazioni contro esponenti delle lotte sociali e sindacali. Per noi la dimostrazione empirica della debolezza propria delle argomentazioni razziste continua a risiedere nei risultati che giornalmente otteniamo nei luoghi di lavoro, dove solo lottando uniti, italiani e immigrati fianco a fianco, si può ottenere ciò che padronato governo provano a sottrarci”». C’è una classe dirigente, meglio… una conventicola, meglio… una cosca nazionale avida di avidità sovranazionali… che ha permesso tutto questo. Che tutto questo difende e promuove. Una cosca che dopo il 4 marzo barcolla tragicamente, che si attacca alle corde, che prova a legare. Adesso va messa al tappeto. Dopo le consultazioni Mattarella dovrà contarla e decretarne il k.o. tecnico alzando il braccio a un governo Centrodestra-5Stelle. I nodi da sciogliere saranno tanti. Il parlamento dovrà parlamentare. Il destino del Paese resterà incerto e le scie di condensazione aleggeranno su di noi. Ma avremo scongiurato, forse per sempre, le magnifiche sorti e progressive. Questa è la mia immodesta opinione sul da farsi; ora ditemi la vostra!
Vittorio Feltri il 4 Febbraio 2018 su "Libero Quotidiano": chiudiamo le frontiere, o sarà soltanto l'inizio. A forza di condannare il razzismo che non c’era, il razzismo è arrivato, come nel nostro piccolo avevamo previsto. L’accoglienza indiscriminata e continuativa di immigrati, specialmente neri, ha provocato il rigetto. Era ovvio che prima o poi qualcuno si sarebbe ribellato all’invasione degli africani. Gli imbecilli che hanno spalancato le porte agli stranieri sono stati pregati da noi di non esagerare, nel timore che nel breve il casino sarebbe scoppiato. Non ci hanno dato retta, anzi si sono abbandonati a una serie di attacchi nei nostri confronti come se auspicassimo l’esplosione di episodi di violenza contro la gente di colore, verso la quale non nutriamo alcun sentimento negativo. Anzi, facciamo di tutto affinché riceva l’assistenza che merita. Il problema, che abbiamo sempre fatto presente ai fessi del governo e in generale della sinistra acefala di stampo boldriniano, è un altro: l’aumento degli ingressi nel nostro Paese, se non controllato, era fatale che avrebbe acceso la miccia del razzismo. Ciò in effetti è avvenuto nelle Marche come dimostra l’ultimo fatto di cronaca: un cittadino di Macerata, arbitrariamente interprete di una esasperazione diffusa, ha premuto il grilletto a casaccio contro poveri nigeriani incolpevoli, simbolicamente responsabili di aver ridotto l’Italia a ricettacolo di spacciatori di droga e di assassini capaci di uccidere e di fare a pezzi una ragazza indigena di 18 anni. Non possiamo non condannare una simile azione disgustosa; è altrettanto vero che per giudicarla occorre comprenderne il movente. Che è esattamente quello che abbiamo indicato: il sovraffollamento di extracomunitari non viene sopportato dalla massa, che pertanto si ribella anche in forme violente. Nessuno in linea di principio ce l’ha coi signori dalla pelle scura, ma se costoro si impadroniscono delle città e incrementano attività delinquenziali, fatalmente vanno incontro a reazioni da parte di nostri connazionali privi di scrupoli. Non c’è da stupirsi se i neri dilaganti nel ramo della delinquenza incrementano il razzismo, poiché i nostri concittadini si sentono assediati da uomini sconosciuti e pronti a delinquere. I quali non hanno altri mezzi che non siano criminali per sopravvivere in una società che proclama di accogliere chiunque senza poterlo fare. Chiudere le frontiere significa evitare guai, però la nostra politica non è in grado di farlo per mancanza di coraggio e dignità. La fabbrica del razzismo ormai è aperta e tra un po’ ci azzanneremo per le strade: sarà battaglia tra bianchi e neri che non saranno razze, ma sono diversi. Basta guardarli in faccia. Vittorio Feltri
Leggi razziali, 80 anni fa la nascita del razzismo di Stato in Italia. Cos'erano e perché è importante ricordare i provvedimenti contro gli ebrei che portarono il nostro paese a condividere le responsabilità della Shoah, scrive Eleonora Lorusso il 5 settembre 2018 su "Panorama". Nel settembre del 1938 l'Italia fascista varò le leggi razziali, firmate senza battere ciglio dal re Vittorio Emanuele III, che macchiò per sempre di infamia Casa Savoia.
Le leggi razziali in Italia. Il Regime di Benito Mussolini, con il Regio Decreto del 5 settembre del '38, si adeguò di fatto alla legislazione antisemita della Germania nazista, che fin dal 1933, anno dell'ascesa al potere del Führer, varò una serie di provvedimenti contro gli ebrei, che portarono all'Olocausto, ovvero il genocidio di 6 milioni di persone, compresi donne e bambini, ricordati con la Giornata della Memoria, il 27 gennaio. Nel 1933 si stima che ci fossero 13 milioni di ebrei in Europa, dei quali circa 40.000 in Italia. Anche questi diventarono progressivamente vittime di un "razzismo di Stato", prima tramite leggi discriminatorie a livello sociale ed economico, poi con la violenza vera e propria.
I primi provvedimenti. Anche dopo l'introduzione delle prime norme anti-semite in Germania, in Italia non si assisteva ancora a forme di discriminazione. Dopo che i Patti Lateranensi avevano definito l'ebraismo come culto ammesso, il governo fascista nel 1930 emanò la Legge Falco, che istituiva e rendeva obbligatoria l'iscrizione all'Unione delle comunità ebraitiche italiane, vista con favore però degli ebrei come forma di semplificazione burocratica. Fu, invece, nel 1938 che la situazione cambiò profondamente. Il 14 luglio viene redatto il primo il primo documento che parlava ufficialmente di "razza ariana italiana". Era redatto da 10 docenti universitari di Neuropsichiatria, Pediatria, Antropologia, Demografia e Zoologia, e tra i firmatari figuravano anche Giorgio Almirante, Giorgio Bocca, Giuseppe Bottai, Giovanni Gentile, Giovanni Papini, Amintore Fanfani, accanto a Pietro Badoglio, Emilio Balbo e Galeazzo Ciano.
La nascita della "razza ariana italiana". Il testo era diviso in punti e sanciva alcuni concetti ritenuti fondamentali:
1) Le razze umane esistono;
2) Esistono grandi razze e piccole razze;
3) Il concetto di razza è un concetto puramente biologico. Esso quindi è basato su altre considerazioni che non i concetti di popolo e di nazione, fondati essenzialmente su considerazioni storiche, linguistiche, religiose;
4) La popolazione dell'Italia attuale è nella maggioranza di origine ariana e la sua civiltà è ariana.
Al punto 5 si definiva "leggenda l'apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici", affermando che "dopo l'invasione dei Longobardi non ci sono stati in Italia altri notevoli movimenti di popoli capaci di influenzare la fisionomia razziale della nazione;
6) Esiste ormai una pura "razza italiana";
7) E' tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti;
8) È necessario fare una netta distinzione fra i Mediterranei d'Europa (Occidentali) da una parte, e gli Orientali e gli Africani dall'altra;
9) Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l'occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all'infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l'unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani.
10) I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli Italiani non devono essere alterati in nessun modo.
La discriminazione a scuola, nel lavoro e nella società. Dalla definizione di razze alla discriminazione ed espulsione di cittadini (e bambini) ebrei dalla vita sociale e dal mondo lavorativo e scolastico il passo fu breve. Con la Disciplina dell'esercizio delle professioni da parte di cittadini di razza ebraica, del 29 giugno del 1939, venivano imposte limitazioni e divieti, in particolare per chi era "giornalista, medico-chirurgo, farmacista, veterinario, ostetrica, avvocato, procuratore, patrocinatore legale, esercente in economia e commercio, ragioniere, ingegnere, architetto, chimico, agronomo, geometra, perito agrario, perito industriale". Con il Regio decreto legge N.1728 nel novembre 1938 (Provvedimenti per la Difesa della Razza Italiana) si stabilì poi il divieto di matrimoni misti tra ebrei e "cittadini italiani di razza ariana". Proibito anche prestare servizio militare o come domestici presso famiglie non ebree; possedere aziende con più di 100 dipendenti, essere proprietari di terreni o immobili oltre un certo valore; essere dipendenti di amministrazioni, enti o istituti pubblici (quindi anche scuole di ogni grado), banche di interesse nazionale o imprese private di assicurazione. Venivano fatte eccezioni per i familiari di caduti nelle "guerre libica, mondiale, etiopica e spagnola, e caduti per la causa fascista"; mutilati, invalidi, volontari di guerra o decorati, iscritti al Partito Fascista della prima ora, legionari di Fiume o per coloro che avevano ottenuto benemerenze eccezionali. Dopo l’armistizio dell’8 settembre, esattamente il 13 dicembre 1943, iniziò anche per gli ebrei italiani il periodo di deportazione e sterminio.
L'esempio della Germania. Le leggi razziali italiane seguirono l'esempio di quelle tedesche, emanate a partire dal 1933 e proseguite tra il '35 e il '38. Si iniziò con la Legge per il rinnovo dell'Amministrazione Pubblica, che pensionava gli impiegati pubblici non di discendenza ariana. Seguirono le leggi per la protezione dei caratteri ereditari, del sangue e dell'onore tedesco, oltre a quelle sulla cittadinanza, sui nomi, sul passaporto degli Ebrei, fino all'Ordinanza per l'esclusione dall'economia tedesca per questi ultimi.
Cibo razionato per i bambini. A gennaio del 1942, la Conferenza di Wannsee discusse invece della "Soluzione Finale" della questione ebraica, mentre il 18 settembre del 1942 venne emanato un Decreto per il razionamento alimentare per gli Ebrei, che vietava loro di ricevere carne e prodotti derivati, uova, farinacei (dolci, pane bianco, panini, fecola di grano, ecc) e latte fresco. Le uniche eccezioni erano ammesse per bambini e ragazzi ebrei fino ai 10 anni, che potevano ricevere la razione di pane uguale a quella dei "normali consumatori" e per i bambini ebrei fino ai 6 anni d'età, che potevano contare sulla razione di grassi assegnata ai coetanei tedeschi, ma senza sostituti del miele e senza cacao in polvere. I ragazzi di età compresa dai 6 ai 14 anni non ricevettero invece più il supplemento di marmellata, mentre i bambini ebrei sino ai 6 anni continuarono a poter avere mezzo litro di latte fresco scremato al giorno.
Le recenti polemiche: da Vittorio Emanuele III ad Attilio Fontana. Il 17 dicembre scorso è rientrata in Italia la salma dell'ex re Vittorio Emanuele III, non senza polemiche: la Comunità ebraica italiana ha espresso "profonda indignazione", ricordando l'ex re come "complice di quel regime fascista di cui non ostacolò l'ascesa", colui che "avallò le leggi razziali" e che con quell'atto ha "gettato discredito e vergogna su tutto il paese", come spiegato da Noemi Di Segni. E' di pochi giorni fa, invece, la bufera scatenata dalle parole del candidato di centrodestra alla Presidenza della Regione Lombardia. Attilio Fontana, parlando di immigrazione, ha sostenuto la necessità di difendere la "razza bianca" dall'invasione di migranti. Dopo essersi scusato per "l'espressione sbagliata" ha anche ricordato la Costituzione ("È la prima a parlarne")...Il riferimento è all'articolo 3, che però recita: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
Le leggi razziali e la loro voce: "La Difesa della Razza" (1938-1943). Diretto da Telesio Interlandi, il periodico fu strumento di divulgazione dell'antisemitismo e delle teorie razziste del fascismo, alle quali si cercò di dare una pretesa base scientifica, scrive Edoardo Frittoli il 5 settembre 2018 su "Panorama". Il primo numero del quindicinale "La Difesa della Razza" uscì esattamente un mese prima della firma delle leggi razziali, il 5 agosto del 1938. Il 14 luglio precedente fu stilato il "manifesto degli scienziati razzisti", effetto della sempre più stretta omologazione ideologica con la Germania nazista. Tra i firmatari più eminenti tra gli accademici italiani furono il patologo Nicola Pende, l'antropologo Lidio Cipriani, il demografo Franco Savorgnan, lo zoologo Edoardo Zavattari, il neuropsichiatra Arturo Donaggio. Secondo alcune fonti il testo del manifesto sarebbe stato dettato dallo stesso Mussolini e affermava l'esistenza delle diverse razze umane secondo una classificazione che pretendeva di basarsi sull'esperienza scientifica. Uno dei primi articoli del manifesto accusava gli Ebrei per la loro pretesa di ritenersi una razza separata e superiore alle altre, con l'aggravante politica di aver costituito la spina dorsale dell'antifascismo. La rivista quindicinale "La Difesa Della Razza", fortemente voluta da Mussolini in funzione divulgativa delle teorie razziste nella cultura e nell'educazione degli Italiani doveva riprendere, approfondire e sviluppare i temi contenuti nel manifesto razzista, dopo essere stata legittimata, rafforzata e resa autorevole dalla firma delle leggi del settembre 1938.
Il razzismo in rotativa. Stampato a Roma dall'editore Tumminelli, il quindicinale fu diretto sin dal primo numero da Telesio Interlandi, già direttore del fasciatissimo quotidiano "Il Tevere". Intransigente verso alcuni degli esponenti più moderati degli anni del regime fascista come Balbo, Bottai e Piacentini, Interlandi espresse sulle pagine della rivista il punto di massima adesione ed omologazione al razzismo nazionalsocialista, tanto da ricevere durante gli anni della direzione alcuni rimproveri di Mussolini che desiderava distinguere il razzismo italiano da quello hitleriano. Un altro eccesso nella linea editoriale di Interlandi fu la scelta estrema di abbracciare un approccio zoologico alla teoria delle razze umane, facendo inorridire gli antropologi e aprendo un delicato fronte con la Chiesa cattolica. Nel primo numero de "La Difesa della Razza", diffuso in circa 150mila copie, era riportato integralmente il testo del Manifesto degli scienziati razzisti con una grafica chiara ed ordinata. Il punto focale degli articoli si concentrava sulla teorizzazione dell'esistenza biologica delle razze umane e di conseguenza dichiarava l'esistenza di una "pura razza italiana" di origine ariano-nordica non ben definita in termini scientifici. Tra le piccole e grandi razze europee non poteva naturalmente figurare alcuna contaminazione dall'Africa. Nel caso ad esempio dell'invasione araba della Sicilia, i redattori del manifesto si premurarono sin da subito di escludere ogni tipo di mescolanza rimasta attraverso i secoli. La volontà enunciata nelle pagine di apertura del primo numero del quindicinale era certamente quella di dare una base biologica ed ereditaria al carattere antropologico della popolazione italiana, senza dimenticare l'aspetto psicologico relativo alla formazione di una consapevolezza collettiva dell'appartenenza ad una nobile razza ariana. Per quanto riguarda gli Ebrei, il manifesto li indicava come non appartenenti alla razza italiana. Anche in questo caso l'affermazione non presentava basi scientifiche ma piuttosto la diseguaglianza si sarebbe sviluppata per una sorta di segregazione naturale dovuta alle antiche origini non-europee dei semiti.
Italiani, gente ariana. All'interno del numero 1 del periodico si affronta anche la questione delle popolazioni, o meglio razze, del continente africano con particolare attenzione alle popolazioni indigene delle colonie dell'Impero fascista. Altra teoria razzista enunciata già dal primo numero della rivista sarà quella del sangue. La divisione pseudo-scientifica delle razze umane si basava, secondo gli accademici del manifesto, sulla presunta analisi della distribuzione etnico-geografica dei gruppi sanguigni. Naturalmente la razza italiana sarebbe biologicamente analoga (teoria mancante di ogni prova scientifica abbinata) alle più pure razze ariane germaniche e scandinave. Durante gli anni della diffusione de "La Difesa della Razza", sulle pagine del giornale furono colpiti, oltre agli Ebrei, anche le razze "inquinate dal meticciato" in cui si pretese di dimostrare scientificamente il pericolo della progressiva corruzione dell'arianesimo dovuta all'origine aggressiva dei caratteri delle razze inferiori contaminanti.
L'antisemitismo per tutti. La grafica semplice e curata del quindicinale volle "aiutare" gli italiani nel processo di assimilazione dell'odio antisemita con tavole e vignette che sintetizzavano le malefatte degli Ebrei e ribadivano i divieti e le restrizioni dettati dalle leggi promulgate nel settembre 1938. Molte e variegate furono le firme che si avvicendarono sulle pagine del periodico razzista: spicca quella di Julius Evola, poi escluso da Interlandi per avere introdotto teorie vicine al razzismo esoterico caro al Terzo Reich ma sgradito agli "scienziati" fascisti e per l'esplicito desiderio di Mussolini di mantenere separati nell'approccio l'antisemitismo germanico da quello italiano. A "La Difesa della Razza" collaborarono nomi importanti della politica italiana nel dopoguerra. Tra questi ultimi figurano Giovanni Spadolini e Amintore Fanfani, tra i grandi giornalisti dell'Italia repubblicana Indro Montanelli. Per alcuni anni il segretario di redazione sarà Giorgio Almirante che- come il direttore Interlandi- diventerà esponente di primo piano del Ministero della Cultura Popolare della RSI.
La fine delle pubblicazioni e la caduta del Fascismo. L'ultimo numero del quindicinale uscì il 20 giugno del 1943, un mese prima dell'arresto di Mussolini. Lo stesso Interlandi fu catturato e rinchiuso nelle carceri del Forte Boccea di Roma. Fuggito dopo l'occupazione tedesca della Capitale, fu attivo come responsabile della propaganda radiofonica della Repubblica Sociale per l'Italia Liberata. Sarà arrestato nuovamente dopo una breve latitanza nelle campagne del bresciano l'11 ottobre 1945. Sarà graziato per gli effetti dell'amnistia Togliatti l'anno successivo. Morirà 20 anni dopo a Roma, nel 1965, portando con sè nella tomba il terribile bagaglio della corresponsabilità per aver sostenuto e divulgato quelle idee che formarono la base pseudo-scientifica dell'Olocausto degli Ebrei italiani.
L'Italia ebbe le leggi razziali. Ma non fu mai antisemita. Hannah Arendt e Gideon Hausner, procuratore generale al processo contro Eichmann, elogiarono il comportamento del nostro Paese. Che in pratica ignorò il diktat nazista, scrive Marcello Veneziani, Lunedì 27/01/2014, su "Il Giornale". Oggi è il Giorno della Memoria anche se da dieci giorni se ne parla ampiamente sui giornali e in tv. Non ha torto Elena Loewenthal, studiosa di cultura ebraica, a scrivere un libretto Contro il giorno della memoria e a proporre un intenso silenzio più che una così retorica esibizione a settant'anni dalla Shoah. Per la ricorrenza sarà proiettato oggi e domani in alcune città il film di Margarethe von Trotta dedicato ad Hannah Arendt, la principale studiosa ebrea del nazismo e dei regimi totalitari, sfuggita alle persecuzioni naziste. Il film trae spunto dal celebre testo della Arendt, La banalità del male (edito da Feltrinelli), nato dai suoi reportage per il processo al nazista Adolf Eichmann, cinquant'anni fa in Israele. La banalità del male è importante anche per le pagine dedicate agli italiani in relazione alle deportazioni. Scrive la Arendt: «L'Italia era uno dei pochi paesi d'Europa dove ogni misura antisemita era decisamente impopolare». Infatti, aggiunge, «l'assimilazione degli ebrei in Italia era una realtà». La condotta italiana «fu il prodotto della generale spontanea umanità di un popolo di antica civiltà». Un popolo che dai tempi dei Romani conviveva con gli ebrei, e continuò a conviverci, con alti e bassi, anche all'ombra della Chiesa cattolica e del Papa re pur nella considerazione degli ebrei come popolo deicida. «La grande maggioranza degli ebrei italiani - scrive la Arendt - furono esentati dalle leggi razziali», concepite da Mussolini «cedendo alle pressioni tedesche». Perché gran parte degli ebrei erano iscritti al Partito fascista o erano stati combattenti, nota la Arendt, e i pochi ebrei veramente antifascisti non erano più in Italia. Persino il più razzista dei gerarchi, Roberto Farinacci, «aveva un segretario ebreo». Si potrebbe ricordare il concordato del 1931 tra lo Stato fascista e la comunità israelitica italiana, accolto con soddisfazione dagli ebrei. A guerra intrapresa «gli italiani col pretesto di salvaguardare la propria sovranità si rifiutarono di abbandonare questo settore della loro popolazione ebraica; li internarono invece in campi, lasciandoli vivere tranquillamente finché i tedeschi non invasero il paese». E quando i tedeschi arrivarono a Roma per rastrellare gli ottomila ebrei presenti «non potevano fare affidamento sulla polizia italiana. Gli ebrei furono avvertiti in tempo, spesso da vecchi fascisti, e settemila riuscirono a fuggire». Alcuni con l'aiuto del Vaticano. Le stesse tesi aveva espresso al processo Eichmann il procuratore generale Gideon Hausner, il quale definì l'Italia «la nazione più cara a Israele». I nazisti, aggiunge la Arendt, «sapevano bene che il loro movimento aveva più cose in comune con il comunismo di tipo staliniano che col fascismo italiano e Mussolini, dal canto suo, non aveva molta fiducia nella Germania né molta ammirazione per Hitler». L'Italia fascista, secondo la studiosa ebrea, adottò nei confronti dei rastrellamenti un sistematico «boicottaggio». Nota la Arendt: «il sabotaggio italiano della soluzione finale aveva assunto proporzioni serie, soprattutto perché Mussolini esercitava una certa influenza su altri governi fascisti, quello di Pétain in Francia, quello di Horthy in Ungheria, quello di Antonescu in Romania, quello di Franco in Spagna. Finché l'Italia seguitava a non massacrare i suoi ebrei, anche gli altri satelliti della Germania potevano cercare di fare altrettanto... Il sabotaggio era tanto più irritante in quanto era attuato pubblicamente, in maniera quasi beffarda». Insomma il caso di Giorgio Perlasca, il fascista che salvò cinquemila ebrei, non fu isolato. Quando il fascismo, allo stremo della sua sovranità, cedette alle pressioni tedesche, creò un commissariato per gli affari ebraici, che arrestò 22mila ebrei, ma in gran parte consentì loro di salvarsi dai nazisti, come scrive la studiosa ebrea. Nota la Arendt, perfino eccedendo, che «un migliaio di ebrei delle classi più povere vivevano ora nei migliori alberghi dell'Isère e della Savoia». Insomma «gli ebrei che scomparvero non furono nemmeno il dieci per cento di tutti quelli che vivevano allora in Italia». Si può dire che morirono più italiani nelle foibe comuniste che ebrei italiani nei campi di sterminio? Odiosa contabilità, ma per amore di verità va detto. Certo, la Shoah nel suo complesso è una catastrofe imparagonabile. Anche per gli storici israeliti Leon Poliakov e George Mosse l'Italia boicottò le deportazioni naziste e protesse gli ebrei. Le origini culturali dell'antisemitismo per la Arendt sono riconducibili a leader, movimenti e ideologi di sinistra. Ne “Le origini del totalitarismo” ricorda che fino all'affaire Dreyfus in Francia, «le sinistre avevano mostrato chiaramente la loro antipatia per gli ebrei. Esse avevano seguito la tradizione dell'Illuminismo, considerando l'atteggiamento antiebraico come una parte integrante dell'anticlericalismo». In Germania, ricorda, i primi partiti antisemiti furono i liberali di sinistra, guidati da Schönerer e i socialcristiani di Lueger. Non si tratta di assolvere regimi né di cancellare o relativizzare le leggi razziali del '38 che infami erano e infami restano. Né si tratta di salvare il fascismo dal nazismo e dal razzismo, ma di riconoscere la pietà e la dignità del popolo italiano, che in quella tragedia si comportò con più umanità. Magari in altri casi no, si pensi alla guerra civile, al triangolo rosso, alle stragi d'innocenti o di vaghi sospettati; ma nel Giorno della Memoria della Shoah, ricordiamoci che gli italiani furono meno bestie di tanti altri. Per una volta non denigriamoci. Quanto alla Arendt, fu dura per lei la sorte di apolide, straniera nella sua terra natia, la Germania, poi vista con diffidenza per la sua relazione giovanile con Heidegger, quindi detestata dalla sinistra per la sua critica al totalitarismo e al comunismo, e pure in aperto conflitto col mondo ebraico. Dopo aver letto La banalità del male lo studioso di mistica ebraica Gershom Scholem la accusò (il carteggio è riportato in fondo a Ebraismo e modernità, edito da Feltrinelli) di avversare il sionismo e di non amare gli ebrei. «Io non amo gli ebrei - rispose lei - sono semplicemente una di loro». Una lezione di verità per tutti.
Il concordato dimenticato tra ebrei e fascisti, scrive Marcello Veneziani su Il Giornale il 27 gennaio 2015. Se questa è la Giornata della Memoria, è giusto ricordare oltre le sciagurate leggi razziali e gli orrori della Shoah, un evento positivo e obliato che riguardò gli ebrei e lo Stato italiano, nel 1930. Fu il Concordato tra Stato fascista ed ebrei. Lo Stato pontificio e poi lo Stato laico e liberale non avevano riconosciuto giuridicamente la comunità israelitica in Italia; lo fece il regime di Mussolini. Fu insediata una commissione paritaria, tre rappresentanti ebrei e tre giuristi per lo Stato italiano. In particolare se ne occupò un giurista cattolico liberale, Nicola Consiglio, che aveva avuto un ruolo importante nei Patti Lateranensi (è stato pubblicato il suo diario a cura di Luca de Ceglia). Consiglio elaborò la legge che portò al pieno riconoscimento delle comunità israelitiche. Scrive Renzo De Felice: «Il governo fascista accettò pressocchè in toto il punto di vista ebraico». A legge varata, il presidente del consorzio ebraico, Angelo Sereni, telegrafò a Mussolini «la vivissima riconoscenza degli ebrei italiani» e sulla rivista Israel Angelo Sacerdoti definì la nuova legge “la migliore” fra quelle emanate dagli stati. Consiglio ricevette una medaglia d’oro dalla Comunità ebraica. Poi arrivarono le sanzioni economiche per l’impresa d’Etiopia, quindi l’alleanza con Hitler e le infami leggi razziali. Poi nell’Italia antifascista, il presidente del nefasto tribunale della razza, Gaetano Azzariti, diventò collaboratore di Togliatti e Presidente della Corte Costituzionale… Gli assurdi testacoda della storia.
Un regime di buffoni, scrive Marcello Veneziani su Il Tempo il 14 settembre 2017. Da dove può nascere a 72 anni dalla fine del fascismo una legge che vieta la propaganda fascista e la compravendita di oggettistica in materia? Da forme patologiche di odio, di psicosi e di fobia. E da ignoranza, malafede e stupidità. Non riesco a trovare migliori spiegazioni per capire il movente di approvare subito, a tambur battente, appena si sono riaperte le camere, una legge così grottesca, così anacronistica, in piena tempesta di violenze sessuali e stupri, di emergenza dei flussi migratori e di allarme terrorismo islamista. Nel centenario della nascita del comunismo, il più grande orrore totalitario del Novecento, per quantità di vittime, durata ed estensione, in Italia si apre una ridicola campagna antifascista per reprimere il mercatino nostalgico del web e le sue propaggini di vintage & folclore. E si approva, in un paese che già prevede due leggi speciali ad hoc che puniscono quel reato d’opinione, vale a dire la legge Scelba e la legge Mancino, un’ennesima legge acchiappafantasmi, fasciofoba e canagliesca. Viviamo sotto un regime di buffoni che ridicolizzano le cose serie – come il fascismo, lo stesso antifascismo, la storia e la guerra civile – e prendono sul serio le cose ridicole o innocue, come il suk di busti del duce, le canzoni fasciste, i saluti romani, le caricature del fascio. Potremmo limitarci a ridere di questa legge surreale. E a confidare che non riusciranno ad applicarla senza essere spernacchiati dalla gente; e comunque la sua nefandezza sarà temperata dalla notoria inefficienza della nostra giustizia. Però poi ci resta una forma di rabbia e di amarezza perché vediamo stuprata ancora una volta la verità, la storia, il rispetto umano. Stupro di gruppo. Chi renderà onore a quanti hanno combattuto, dato la vita, per la patria nel nome dell’Italia fascista, senza commettere alcun crimine, rientra nel reato di propaganda fascista? Chi ricorderà il più grande poeta del novecento, finito in una gabbia come una scimmia e poi in un manicomio criminale perché fascista, Ezra Pound, sarà passibile di condanna? Chi ricorderà il più grande filosofo italiano del Novecento, ucciso perché fascista, Giovanni Gentile, sarà anche lui sotto tiro a norma di legge? Chi difenderà la memoria dei fratelli Govoni, del grecista Pericle Ducati, del poeta cieco Carlo Borsani, dei fascisti veri e presunti che versarono “il sangue dei vinti”, dalle zone carsiche al triangolo rosso, potrà farlo senza incorrere in quella legge liberticida? Chi sosterrà che se vogliamo eliminare in Italia le opere del fascismo dovremmo raderla al suolo, e trasformare Roma in Cartagine, sarà condannato in virtù della legge? E chi ricorderà che il fascismo ebbe grande e duraturo consenso di popolo, ammirazione nel mondo e da parte dei più grandi statisti dell’epoca, sostegno da parte delle menti più acute del suo tempo, verrà processato? Potrei continuare all’infinito. Riconoscendomi appieno in tutte queste affermazioni, mi condannerete per effetto di quella legge infame? Sono pronto a ripeterle ad una ad una volta che passerà al Senato e diventerà legge. L’effetto che produce una legge come questa è di alimentare nei ragazzi il fascino del proibito, nell’opinione pubblica la convinzione di vivere sotto un regime liberticida, che ha paura delle opinioni e non si cura delle vere necessità e priorità del popolo, e in chi conosce la storia, ha passione di verità, il desiderio di riaffermare con forza caparbia l’altra metà negata della storia. Il vostro problema è che prendete la parte per il tutto, siete perdutamente settari, faziosi, partigiani. Mentre c’è un solo modo di vedere bene le cose, diceva Ruskin, vederle per intero. Per finire vi offro tre curiosità.
Sapete che durante il regime fascista morirono più antifascisti italiani in Unione sovietica, che nell’Italia fascista? Centinaia di italiani, comunisti, antifascisti e a volte anche ebrei, che erano fuggiti dall’Italia fascista, furono uccisi nella Russia comunista con l’avallo del segretario del suo partito, il sullodato Togliatti. In Italia, persino sotto il Duce, avrebbero avuto una sorte migliore…
Sapete poi che il presidente dell’infame Tribunale della razza, nonché firmatario del «Manifesto della razza», Gaetano Azzariti, diventò il più stretto collaboratore del leader del Pci, Palmiro Togliatti al ministero di Grazia e Giustizia, dopo essere stato Guardasigilli con Badoglio? Avete mai avuto nulla da ridire, sul fatto che poi, grazie a questi precedenti, lo stesso Azzariti sia diventato il primo presidente della Corte costituzionale fino alla sua morte nel 1961?
Infine. Sapevate che il primo concordato tra lo Stato italiano e gli ebrei fu fatto nel 1930 dal regime fascista? Una commissione composta da tre rappresentanti degli ebrei e tre giuristi varò un concordato in cui, scrive De Felice, «il governo fascista accettò pressoché in toto il punto di vista ebraico».
Il presidente del consorzio ebraico, Angelo Sereni, telegrafò a Mussolini «la vivissima riconoscenza degli ebrei italiani» e sulla rivista ebraica Israel Angelo Sacerdoti definì la nuova legge «la migliore di quelle emanate in altri Stati». Se ricordate le infami leggi razziali, ricordatevi pure di questo: e chiedetevi cos’è successo nel frattempo, a chi e a cosa attribuire il cambio di passo…Ma voi non sapete, e se sapete fingete di non sapere. Mi vergogno di voi non solo al cospetto di tutti costoro che ho citato, ma anche nei confronti di chi il fascismo lo affrontò a viso aperto, pagando di persona. Sfruttate come iene, corvi e sciacalli la memoria di costoro e martoriate i corpi senza vita di coloro che furono onesti, puliti, a volte anche grandi, però dalla parte “sbagliata”. Vilipendio di cadavere, oltraggio alla memoria, omissioni plurime e aggravate, questi sono i vostri reati di cui nessuno avrà il coraggio di accusarvi e nessuno di voi avrà il pudore di vergognarsi. Chi l’avrebbe mai detto che dopo tre quarti di secolo dalla sua sepoltura, nell’era della fibra, noi dovessimo star lì ancora a discutere di fascismo e di antifascismo viventi…
PS A Roma al centro anziani, militanti antifascisti aggrediscono quelli di Casa Pound. Viva la libertà, la democrazia e la legge Fiano. MV, Il Tempo 14 settembre 2017
Intervista di Carlo Moretti su "La Repubblica" del 5 settembre 2018. Sono trascorsi vent' anni dalla morte di Lucio Battisti, era il 9 settembre 1996 e quel giorno un senso di smarrimento attraversò il paese per la scomparsa di uno dei più grandi protagonisti della musica italiana e della cultura popolare. I suoi maggiori successi, quelli nati dal sodalizio artistico con Mogol, 50 anni dopo mantengono una forza straordinaria e continuano ad essere fonte d' ispirazione per tanti artisti. «Scrissi una lettera a Lucio poco prima che morisse, gliela feci arrivare attraverso un'infermiera dell'ospedale in cui era ricoverato che, per caso, avevo conosciuto a una cena. Gli scrissi due righe, gli dicevo che speravo potesse riprendersi e che per qualunque sua necessità io c' ero, ma non seppi nulla per dieci anni dopo la sua morte. Poi seppi che leggendo quella lettera Lucio aveva pianto: sapeva di essere condannato».
Com' erano alla fine i vostri rapporti?
«I rapporti personali non sono mai cambiati. C' era stata però una mia decisione presa per ragioni di principio. Ritenevo che dovessimo partecipare agli utili in modo eguale visto che avevamo scritto uno la musica e l'altro il testo. Non fu possibile. Ma in seguito Lucio accettò un mio invito come niente fosse, tra noi non era cambiato nulla».
Con Lucio non discutevate i testi?
«Io scrivevo ascoltandolo suonare e Lucio se aveva bisogno di chiarimenti mi chiedeva, tutto qui: il giorno dopo sapeva tutto a memoria, mai visto con un foglietto in mano, era serissimo, una bomba, di un livello fantastico, davvero internazionale».
Quale album o canzone ama di più?
«La parte musicale di Anima latina.
È un capolavoro assoluto, mi dà ancora i brividi».
I vostri primi successi furono affidati ai Dik Dik, ai Ribelli, all' Equipe 84, ma lei convinse Lucio a cantare.
«Inizialmente non voleva ma la migliore versione per me era sempre la sua. Ho litigato con tutti per questo, a cominciare dalla Ricordi. Ho anche minacciato le dimissioni»
In 15 anni come si è evoluto il vostro rapporto?
«È rimasto sempre lo stesso, erano le canzoni a cambiare. Lucio era costante, tranquillo, sereno, studiava i più grandi, da Otis Redding a Frank Zappa. Nessuno aveva neanche la metà delle sue conoscenze musicali. Anch' io sono rimasto lo stesso, del resto i più grandi successi mondiali li ho fatti prima di conoscere Lucio. Hanno calcolato che nella mia carriera ho venduto 523 milioni di copie nel mondo».
Che idea si fece della volontà di Lucio di ritirarsi dalle scene?
«Glielo consigliai io. Almeno all'inizio. Poi si convinse da solo.
Negli anni Settanta fecero piangere De Gregori quando lo accusarono, lui di sinistra, di essere uno sporco miliardario. E il '68 era stato una follia: o eri falce e martello, Mao Tse-tung o eri un fascista. Gli dissi: "Non andare più in giro, finiranno per sputarti addosso, meglio stare a casa che essere contestato nei concerti"».
Vi accusarono di essere fascisti per i "boschi di braccia tese" nel testo di "La collina dei ciliegi".
«Ma era un'invocazione: i palmi, levati uno verso l'altro, sono diventati saluti fascisti. Una follia».
Lucio smise però anche con la televisione.
«Era poco propenso già da prima. Teatro 10 con Mina nel '72 glielo feci fare io. Del resto lo seguivo quando andava a fare quelle puntate, ci mettevo anch' io le mie idee. Lui però era una macchina da guerra in studio di registrazione, suonava tutti gli strumenti».
Infatti si è ritirato facendo solo dischi, quelli senza di lei. Che giudizio ne dà?
«Aveva cambiato il modo di lavorare, ora scriveva musica sui testi. Quando venne a trovarmi gli chiesi perché avesse scelto di scrivere la musica su testi nonsense.
Mi rispose: "Avevo due strade, o scrivevo su testi in inglese o su testi nonsense". Mi ha spiegato che non voleva si facessero paragoni con le canzoni che avevamo scritto noi».
Guerra ai briganti, non alle mafie. Una politica scellerata e disastrosa. Enzo Ciconte ricostruisce le vicende della repressione spietata del banditismo in Italia (Laterza). Il 6 settembre l’autore dialoga con Gian Antonio Stella al Festivaletteratura, scrive Gian Antonio Stella il 5 settembre 2018 su "Il Corriere della Sera". Uno scontro tra briganti e soldati in un dipinto realizzato dal francese Horace Vernet durante il suo soggiorno in Italia. «C’è un diffuso mercato delle teste. È abituale trovare in vari tribunali ambigui figuri che si aggirano con capienti ceste piene di teste tagliate e messe sotto sale perché si conservino meglio e più a lungo». Gela il sangue il racconto di Enzo Ciconte sui momenti più bui della guerra al brigantaggio. Quando, appunto, era in vigore in vari Stati italiani «la regola che, ucciso un bandito e portata la sua testa al podestà, si aveva diritto a scegliere tra una taglia proporzionata alla nomea della vittima e la cancellazione del bando a carico di un parente, di un amico o di un servitore». La testa di un bandito per la libertà di un altro. Ammesso che il decapitato fosse sul serio un brigante e non un poveretto messo a morte perché spiantato, come un certo Antonio Benaglio che il Consiglio dei Dieci veneziano ordinò ai rettori di Bergamo di arrestare «trattandosi di sogeto di conditione vile et consuetudinario nei delitti li soli inditii bastano per ordinarne la retentione». Fu spietata e disumana, per secoli, soprattutto nel Mezzogiorno ma non solo, la repressione dei «briganti», criminali o idealisti che fossero, di cui parlerà oggi lo storico calabrese presentando a Mantova il libro La grande mattanza. Storia della guerra al brigantaggio (Laterza). Basti ricordare che quasi tre secoli prima dell’eccidio degli abitanti di Casalduni e Pontelandolfo, il peggior crimine compiuto dalle truppe italiane dopo l’Unità, Papa Sisto V era stato così duro nel «metter ordine» che, scrive la Treccani, «il noto avviso del 18 settembre 1585» ironizzava che «quell’anno erano state esposte più teste di banditi a ponte S. Angelo che meloni al mercato». «Per distruggere il brigantaggio abbiamo fatto scorrere il sangue a fiumi: ma ai rimedi radicali abbiamo poco pensato», ammonì Paquale Villari. Certo, non tutti furono ciechi. Il deputato milanese Giuseppe Ferrari, raggiunta faticosamente Pontelandolfo, denunciò in Parlamento già nel 1861: «Io vi proposi di fare un’inchiesta affinché una metà della nazione conoscesse appieno l’altra metà, e le due parti della Penisola si unissero fraternamente; mi rispondeste essere l’inchiesta inutile, i mali passeggeri…». Tutti sordi. E così, spiega Ciconte, «esiste un numero sterminato di libri o articoli che hanno descritto le efferatezze, la crudeltà, gli eccidi, le stragi, gli episodi di gratuita e selvaggia violenza dei briganti» e insieme, per citare Giuseppe Galasso, «pagine e pagine di romanzieri o di storici» che al contrario li descrivono «come eroi, uomini senza paura in grado di tenere testa ai potenti del tempo, giovani affascinanti con un grande sprezzo del pericolo», al punto che «le figure dei briganti e le loro gesta sembrano essere entrate nell’albo d’oro delle memorie locali». Ma «come si conciliano o si spiegano due letture così opposte e divergenti?» Risposta non facile. A volte i briganti furono davvero dei ribelli che via via combattevano le angherie spagnole, francesi, borboniche, savoiarde… Altre erano disperati oppressi dalla fame, altre ancora criminali calzati e vestiti o un impasto degli uni e degli altri. La grande mattanza si concentra però non sui vinti (torto o ragione che avessero), ma sulla belluina «ferocia di Stato» dei vari repressori. Che dichiaravano d’aver tutti lo stesso obiettivo: «Il Terrore. Seminare il Terrore». Ed ecco le teste mozzate riposte in piccole gabbie di cui scrive Édouard Gachot parlando di «cinquecento gabbie esposte lungo la strada per Napoli». E l’ordine di Gioacchino Murat: «È una guerra di sterminio che voglio contro questi miserabili!» E l’invettiva del generale Manhès contro gli abitanti di Serra San Bruno: «Vivrete come i lupi delle vostre foreste. Voi donne, genererete figli che vi saranno aspidi!» E la lettera del generale Morozzo Della Rocca a Cavour: «Un po’ di metodo soldatesco è medicina salutare a codesto popolo». E certi messaggi da brivido: «La testa di Palma mi giunse ieri verso le sei e mezzo. È una figura piuttosto distinta e somigliante ad un fabbricante di birra inglese. La testa l’ho fatta mettere in un vaso di cristallo ripieno di spirito…». Solo le mafie, sostiene l‘autore de La grande mattanza, furono lasciate in pace: «Negli anni cruciali della costruzione dello Stato unitario c’è una guerra spietata ai briganti, ma la stessa durezza non è rivolta a fenomeni criminali e mafiosi noti e conosciuti in Campania, Sicilia e Calabria. Con i moderni agglomerati mafiosi lo Stato sceglie il quieto vivere, la convivenza, la coabitazione…». Una scelta scellerata, «le cui conseguenze arrivano sino a noi».
Nord e magia, scrive Sebastiano Caputo il 2 luglio 2018 su "Il Giornale". Cambiano le geometrie della politica italiana ma il raduno di Pontida sembra rimanere nell’immaginario leghista il punto di congiunzione tra passato e futuro, identità culturale e innovazione estetica, ideologia e orizzonti ideali. Forse solo un massimo esperto di folklore e religioni del Mezzogiorno d’Italia come Ernesto de Martino potrebbe spiegare l’evoluzione di questa kermesse che per la prima volta della sua storia, nel linguaggio come nella partecipazione, è riuscita a riunire persone provenienti sia dal Centro che dal Sud Italia – le due macroregioni che Gianfranco Miglio rinominò “Etruria” e “Mediterranea” – al punto che l’intervento senza complessi di Nello Musumeci, Presidente della Regione Sicilia, ha strappato gli applausi persino dagli irriducibili che indossavano ancora i fazzoletti verdi di bossiana memoria. Non mancano i riti insieme a quel cerimoniale che guida questo incontro lontano anni luce dai soliti aperitivi elettorali stracittadini. C’è una dimensione mistica su quel pratone in provincia di Bergamo. A cominciare dall’albero della vita in ricordo di Gianluca Buonanno che ha sostituito la divinizzazione dell’ampolla del Dio Po. E ancora Alberto da Giussano, figura ricorrente, e con lui la simbologia che va dal carroccio fino agli elmi e le corna. L’uomo meridionale, per sua natura, ne è attratto, scoprendo così che anche a Nord, in fondo, l’Italia, vive ancora di superstizioni, culti, misteri, incantesimi. E’ l’elemento magico, soprannaturale, che subentra di forza di fronte all’indigenza, la precarietà dell’esistenza, il pericolo, che attanaglia un’intera penisola, senza distinzioni territoriali. Matteo Salvini a Pontida sembra un caudillo sudamericano, trascinato da una folla che si rispecchia nel capo carismatico, espressione di una nuova sintesi geografica impensabile fino a qualche anno fa. Perché alla base del suo successo c’è il compimento di un vero e proprio capolavoro politico. Quando diventò segretario, la Lega era un partito in via d’estinzione, poi col passare dei mesi e degli anni, Salvini è riuscito a cambiare linguaggio (“Prima gli italiani” anziché “prima il Nord”), estetica (il blu anziché il verde), obiettivi (la nazione anziché la secessione), superando la dicotomia destra-sinistra e aprendo le porte della Padania a tutti gli italiani. La transizione sovranista, dettata da un sentimento popolare diffuso e allo stesso tempo da un fiuto politico sorprendente, ha ribaltato gli schemi tradizionali della politica e integrato ad un progetto ideologico più ampio candidati indipendenti appartenenti ad una classe intellettuale priva di punti di riferimento. Così oggi, dopo aver messo all’angolo Silvio Berlusconi, Matteo Salvini si ritrova al governo con un Movimento 5 Stelle molto più pragmatico e organizzato, che non ha paura di condurre battaglie impopolari, nel nome dell’interesse nazionale. Mario Sechi su List, riporta un passaggio necessario del libro L’anno dei barbari di Giampaolo Pansa” in cui Franco Zeffirelli racconta le sue impressioni su Pontida nel lontano 1993. “La Lega mi interessa molto. Questi uomini, i nostri contemporanei che l’hanno espressa, mi piacciono. E gente pesantemente calunniata. Hanno detto di loro cose incredibili, che non hanno alcun fondamento. Qui non c’è nessuna traccia di fascismo e di razzismo […] Mi pare una franchezza di linguaggio che era ora di adottare. Qui la gente parla come mangia, per fortuna! L’Italia non è omogenea, né etnicamente né culturalmente. Dunque le idee della Lega si possono applicare ovunque!”. “Il Maestro Zeffirelli” come lo chiamava Sechi, allora giovane inviato, aveva centrato il punto essenziale del fenomeno leghista in un Paese che per tradizione ha sempre disprezzato l’autorità ed è rimasta sempre fedele alle sue specificità territoriali, culturali, linguistiche. Un Paese, anti-unitario per vocazione, federalista per temperamento, anarchico per definizione, che a Pontida, epicentro della secessione, ha ritrovato un compromesso geografico storico.
Senti chi parla….
Reddito di cittadinanza, Briatore: «Una follia, al Sud la gente non ha voglia di lavorare», scrive Sabato 29 Settembre 2018 "Il Mattino". Al Sud la gente già non ha voglia di lavorare, dare anche un reddito di cittadinanza sarebbe una follia. Parola di Flavio Briatore. «Se adesso danno pure un reddito di cittadinanza, questa mi sembra una follia vera. Per me è una follia perché paghi la gente che sta sul divano. Sul divano ci sono già gratis, poi addirittura li paghi. Prenderanno il divano a due piazze. Investimenti in Meridione? Ci sono difficoltà enormi. E la gente non ha voglia. Chi aveva voglia è andato fuori dal Sud», ha detto l'imprenditore ed ex manager della Formula 1. «Quando abbiamo avuto la possibilità di avviare un’attività a Otranto, nel nostro gruppo c’erano diversi pugliesi. Abbiamo dato la possibilità di tornare, ma nessuno ha voluto. Rimane chi non si sbatte molto per trovare un lavoro, se adesso danno anche il reddito di cittadinanza è finita», sostiene ancora Briatore che tuttavia ha fiducia nel nuovo governo. «Mi sembra ci sia molto entusiasmo - afferma Briatore -. Mi sono simpatici sia Salvini che il grillino, lasciamoli fare. Faccio il tifo per loro, certo. Come dovrebbero fare tutti. Su immigrazione e fisco sto con Salvini. Ha ragione quando dice che i clandestini bisogna bloccarli prima che arrivino. Bisogna bloccare i barconi, ormai sappiamo da dove partono. Investire e creare posti di lavoro lì. La flat tax è da fare subito, immediatamente, subitissimo. Se premia i ricchi va bene perché vuol dire che se uno risparmia con la flat tax, investe più nell’azienda, crea più posti di lavoro».
Flavio Briatore indagato per corruzione: tangenti al fisco per riavere lo yacht, scrive Martedì 25 Settembre 2018 Il Quotidiano di Puglia. Guai per Flavio Briatore. L'imprenditore è indagato in una vicenda di corruzione per la quale il suo commercialista, A.drea P.rolini, è finito agli arresti domiciliari insieme all'ex direttore provinciale dell'Agenzia delle Entrate di Genova Walter Pardini. La guardia di finanza ha eseguito le misure questa mattina. L'accusa è di corruzione. Per la stessa vicenda è anche indagato Flavio Briatore. Secondo l'accusa, il professionista avrebbe corrotto il funzionario pubblico, per tentare di «ammorbidire» la posizione di Briatore per la maxi-evasione fiscale legata al suo yacht, il Force Blue.
A Briatore sono gli uomini del sud a non piacergli, ma le donne…Oltre alla ex moglie Elisabetta Gregoraci… Caterina Balivo e Flavio Briatore, l’indiscrezione sul passato spiazza il pubblico, scrive il 31 maggio 2018 La Voce di Napoli. Momenti di imbarazzo si sono vissuti durante una puntata di Detto Fatto quando Giovanni Ciacci, capo-tutor del programma, ha parlato di un ex flirt della conduttrice napoletana con un vero e proprio play boy a cui però Caterina avrebbe dato un due di picche. Indiscrezione che ha imbarazzato non poco la Balivo che ha cominciato a sorridere. Ciacci improvvisamente ha detto: “Caterina è l’unica ad aver detto ‘No’ a un famoso playboy…“. Le parole sono state dette durante la rubrica di Gio Gio, finestra del programma che si occupa di Ballando con le Stelle. Si stava parlando proprio di uomini affascinanti quando Ciacci ha detto: “Per essere playboy devi essere molto ricco e quello che ha corteggiato Caterina lo è veramente”. Parole a cui la conduttrice ha controbattuto ironicamente, dicendo: “Ora però è vecchiarello”. Ciacci ha anche detto che questa persona sarebbe stata con Naomi Campbell, non ha però rivelato il nome. Per il pubblico, però si tratterebbe di Flavio Briatore, il gossip è scoppiato spiazzando il pubblico, non ci resta che aspettare altre rivelazioni.
Boom di meridionali al raduno Lega, Bossi: “Vabbè, ci sono gli Africa…”, scrive Saverio Nappo su Internapoli il 3 luglio 2018. Nel weekend appena trascorso, si è tenuto il raduno leghista a Pontida. Luogo sacro per il sentimento e l’orgoglio leghista, si tiene ogni anno a due passi dalla sorgente del fiume Po. Gli enormi spazi, i prati e le vie concessi dal Comune di Pontida vengono invasi dai seguaci del partito che fu di Umberto Bossi e che ora è guidato da Matteo Salvini. Proprio grazie all’illuminante visione politica di Salvini, intelligente nell’intercettare il diffuso malcontento che caratterizza il Paese reale, la Lega Nord ha raggiunto livelli di consenso popolare che mai aveva conosciuto sotto la guida chiusa e dichiaratamente separatista di Umberto Bossi. Il neo Ministro dell’Interno nonché Vice Premier – assieme a Di Maio del M5s -, per sbaragliare la concorrenza politica dei suoi alleati, in primi, e dei suoi competitor, poi, ha puntato sull’apertura all’elettorato del Sud Italia. Elettorato da sempre agli antipodi degli ideali, se così possiamo definirli, della Lega Nord.
A Bossi, i meridionali al raduno proprio non piacciono. Una mossa, quella del team-Salvini, che è risultata vincente. La voglia di cambiamento, la speranza per un cambiamento di rotta e il ritorno dell’intolleranza hanno reso cieco l’elettorato meridionale. Che si è lasciato convincere. E che ha votato Lega Nord, in massa. La storia della nuova generazione leghista, non più razzista e anti meridionalista, francamente, ha convinto solo l’elettorato medio, in evidente difficoltà di comprensione della verità vera. Il lupo, si sa, perde il pelo ma non il vizio. Ecco, quindi, che ciò che era chiaro a molti, è diventato cristallino a tutti. Grazie ad Umberto Bossi, non a caso. Durante il raduno di Pontida, il collega del Corriere del Mezzogiorno ha intervistato il Senatùr, chiedendogli un parere sul boom di neo leghisti meridionali arrivati al raduno. Bossi non ci ha pensato minimamente a seguire l’esempio del suo successore. Non ha indorato alcuna pillola e ci è andato giù pesante, schietto e sincero. «Eh, come no, se ci porti anche gli Africa… ma non è una gara a chi porta più gente. Dalla Lega ci si aspettano risposte chiare ai problemi». Poi, ancora. «Guardi, ho visto un sacco di gente interessata solo ad essere mantenuta. Parliamoci chiaro: non è una Regione del Sud che riesca a pagarsi la propria Sanità». Chissà cosa ne pensano i fan della Lega che poi sono rientrati al di sotto del Garigliano.
Bossi shock contro Salvini: «Pienone di meridionali a Pontida? Vogliono farsi mantenere...», scrive Martedì 3 Luglio 2018 "Il Mattino". Al raduno di Pontida in molti hanno notato una novità, impensabile fino a qualche anno fa: c'erano tantissimi meridionali. Un particolare strano, se si pensa che la Lega dalla sua nascita professava la secessione del Nord Italia lasciando fuori i meridionali. Quest'anno però Matteo Salvini, che si è professato di 'allargare' il consenso del Carroccio in tutta Italia, ha fatto il pienone. All'ex leader Umberto Bossi però non è andata giù. Intervistato dal Corriere della Sera, il Senatùr ha usato parole forti: «E come no. Se ci porti lì anche l'Africa... Ma non è una gara a chi porta più gente. Dalla Lega ci si aspettano risposte chiare ai problemi», ha detto Bossi, che a Pontida non ci è andato. Aveva mal di schiena, «non stavo tanto bene», si giustifica. C'erano autobus che portavano militanti anche dal Sud. «Guardi - replica Bossi - ho visto solo un sacco di gente interessata ad essere mantenuta. Parliamoci chiaro: non c'è una Regione del Sud che riesca a pagarsi la propria sanità. Cosa si vuole, che si continui a caricarla addosso alle regioni settentrionali?». Quando gli fanno notare che la Lega ora è accreditata al 30%, mentre con lui al massimo aveva preso il 10%, risponde: «Non credo molto ai sondaggi, la gente vota nelle urne. E comunque, se tutti i giorni fai una promessa e sollevi polveroni qualcuno finisci per tirarlo dalla tua parte. Ma i cittadini mica sono stupidi. Oggi ti votano, domani ti voltano le spalle se non mantieni tutte le promesse che hai elargito». Anche la federazione europea lanciata da Salvini non gli va giù: «Ma non si va da nessuna parte, non scherziamo. Come potete pensare che francesi o tedeschi si facciano mettere il cappello in testa da noi italiani? Su dai, guardiamo in casa nostra e rispondiamo alla nostra gente. Quella del Nord, eh...».
E il Senatùr disse: «Andiamo con Silvio, ha soldi e donne… ». Era il 1994 e il Senatùr Bossi aveva già conquistato mezzo Nord. Silvio Berlusconi capì che senza di lui non avrebbe vinto, scrive Paolo Delgado il 23 Settembre 2018 su "Il Dubbio". Cene, caminetti, vertici. E poi alleanze, rotture, guerre all’ultimo sangue, ricomposizioni: da 25 anni nulla condiziona la politica italiana quanto i travagliati rapporti Arcore e Pontida, tra Forza Italia e la Lega, tra Silvio Berlusconi e Umberto Bossi prima, Matteo Salvini adesso. «Quello deve solo sborsare e portarci la gnocca, che a Canale 5 ce n’ha tanta», così si esprimevano graziosamente i soldati di Bossi una venticinquina d’anni fa. Il Cavaliere non era ancora entrato in politica. Esitava, si fingeva indeciso per moltiplicare l’effettaccio della discesa in campo. Ma il suo arrivo era nell’aria e la Lega doveva farci i conti. La battutaccia in questione, una delle tante, era di pochi minuti successiva al discorso con cui Umberto Bossi aveva aperto le porte al dialogo con Arcore. Non era scontato in partenza. All’epoca la Lega, col vento in poppa al Nord, un partitone che in pochissimi anni aveva conquistato da solo oltre il 50% dei voti a Milano, si ammantava di nuovismo e inneggiava a Di Pietro. Bossi però aveva capito subito che liberarsi del Cavaliere non sarebbe stato facile. Riunì l’assembleona e spiegò che in una prima fase sarebbe stato necessario allearsi con una parte dei vecchi e decrepiti poteri. Solo che Berlusconi non portò solo ‘ soldi e gnocca’ ma anche una macchina da guerra costruita dalla struttura Publitalia e vinse le elezioni alleato sì con il Carroccio, ma derubricato a comprimario. Generoso offrì ministeri a spiovere, ma il bastone del comando se lo tenne stretto. Che al capo leghista la situazione andasse stretta si capì subito, anche se molti dei suoi, invece, si accomodarono papali. Il 25 aprile di quell’anno di grazia 1994 una oceanica manifestazione convocata dal Manifesto spazzò sotto il diluvio le strade di Milano. Qualche leghista la criticò sprezzante: il Senatùr, come si chiamava allora, lo bacchettò di brutto: «Quando il popolo si muove bisogna sempre ascoltarlo». Andò oltre, fece addirittura capolino, per qualche nanosecondo, ai margini del corteo, in serata. Nulla di strano: «Noi siamo gli eredi della lotta antifascista». Il disagio s’impennò d’estate. Berlusconi tentò la carta del cosiddetto «decreto salvaladri». Né la Lega né Alleanza Nazionale potevano accettarlo. S’impose una ritirata che lasciò il trionfatore di pochi mesi prima trasformato in anatra zoppa. In estate Bossi si presentò a villa Certosa, ospite del Cavaliere che quanto a forme non sfigura al confronto di un piccolo borghese ottocentesco, in tenuta rapper- coatta: canottiera rigorosamente a coste. Un segnale che valeva cento discorsi politici. Quel che ossessionava il leghista era proprio la rapidità con cui i suoi barbari si stavano abituando alla greppia di re Silvio. Per la fine di dicembre il governo era caduto e Bossi era il nemico numero uno di "Berluskaiser", o "Berluskaz" o comunque gli passasse per la mente di bollare l’ex alleato. Quella della Lega era stata una scommessa arrischiata. Se si fosse votato subito dopo la crisi, il Carroccio sarebbe stato travolto. Anche grazie alla proverbiale cedevolezza di Berlusconi invece si votò dopo un anno e mezzo, e Bossi vinse la scommessa. La Lega superò nelle elezioni del 1996 il 10%, massimo storico sino al 2018. Per due anni Berlusconi e l’allora suo più stretto alleato Gianfranco Fini avevano ripetuto che con Bossi non avrebbero mai più avuto nulla a che fare. «Nemmeno un caffè», giurava tassativo Fini. Quel risultato cambiò tutto. Nell’Italia bipolarista di vent’anni fa, il Polo di destra non poteva permettersi di lasciare senza collare il 10% dei voti e la Lega aveva dimostrato di essere impermeabile alle sirene del ‘ voto utile’. Bisogna cambiare strada e Berlusconi si attrezzò a farlo nei cinque anni successivi, quelli dell’opposizione e della «traversata del deserto». Per la Lega la situazione non era più rosea: poteva costringere la destra alla sconfitta, ma nulla di più. Bossi tentò la carta del secessionismo, furono gli anni delle ampolle e del dio Po: alle elezioni amministrative del 1999, terreno favorevole per il Carroccio, i consensi dimezzarono rispetto a tre anni prima. Il nuovo matrimonio con il partito azzurro, non più "Polo" ma "Casa" delle libertà nasceva, esattamente come il primo, sulla base dell’interesse reciproco. Eppure le cose andarono in direzione opposta. Berlusconi aveva mangiato la foglia e non intendeva ripetere l’errore del ‘ 94. Stavolta la Lega fu vezzeggiata e corteggiata, a spese di una An che si riteneva giustamente costretta a restare fedele volente o nolente. L’ascesa al ministero dell’Economia di un forzista molto vicino al Carroccio come Giulio Tremonti, rinsaldò l’intesa. Nel 2004 Bossi colpito da ictus rischiò la vita e perse per sempre il controllo sul linguaggio. Berlusconi, che è notoriamente generoso, si fece in quattro per salvarlo senza badare a spese. Si creò un rapporto personale, fondato anche sulla gratitudine di Bossi, che non sarebbe venuto meno fino al 2011. I caminetti di Berlusconi, Bossi e Tremonti sono stati in quegli anni la vera tolda di comando dei governi di centrodestra. Dalla guerra che dal 2011 ha lacerato il Carroccio è uscita fuori una Lega tutta diversa, tanto da non adoperare mai la parola un tempo magica di ‘ federalismo’. Tra Salvini e un Berlusconi invecchiato non ci sono certo i rapporti che guerre e riappacificazioni avevano cementato tra il Cavaliere e Bossi. L’uomo chiave della Lega moderata, il leader che era stato contrario alla rottura rischiando l’espulsione già nel 1994, Roberto Maroni, è fuori gioco così come l’ex onnipotente ministro dell’Economia che era la vera cerniera tra i due partiti e tra i due leader. Con Salvini la relazione è tornata a fondarsi in equa misura sull’interesse e sulla reciproca diffidenza. Però quell’asse continua a orientare la politica italiana.
Diede del “terrone” a Napolitano: la Procura di Brescia ordina la carcerazione per Bossi, subito sospesa. Il fondatore della Lega Nord deve scontare un anno e quindici giorni. E i guai giudiziari non sono ancora terminati, scrive Emilio Randacio il 26/09/2018 su "La Stampa". La condanna definitiva per vilipendio all’ex capo dello Stato, Giorgio Napolitano, gli ha fatto saltare ogni beneficio. Per il fondatore della Lega, Umberto Bossi,il rischio di scontare parte delle condanne fin qui inanellate è una ipotesi più che concreta. Il 12 settembre la Cassazione aveva confermato l’anno e 15 giorni per gli insulti al Quirinale. La colpa, riconosciuta, di Bossi è quella di avere del «terrone» a Napolitano durante un comizio. La procura generale di Brescia ha sommato tutte le condanne del senatur - dagli 8 mesi per i finanziamenti illeciti di Carlo Sama - e ha disposto la carcerazione visto che i benefici sono ampliamenti sforati. Provvedimento immediatamente sospeso - Bossi e vicino agli 80 anni-, per permettere al parlamentare leghista di chiedere misure alternative al carcere. Compreso il differimento della pena per i problemi di salute che, da oltre 10 anni, attanagliano l’ex segretario di via Bellerio. Anche se i grattacapi con la giustizia, non sono ancora finiti, visto che tra Milano e Genova si attendono i processi d’appello per le malversazione dei fondi pubblici gestiti dal Carroccio.
Umberto Bossi chiamò Napolitano "terùn"? Massacrato dai giudici: ai servizi sociali, scrive il 27 Settembre 2018 Tommaso Montesano su "Libero Quotidiano". Albino, provincia di Bergamo, 29 dicembre 2011. Umberto Bossi, leader della Lega, partecipa alla seconda edizione della festa provinciale del Carroccio. Nel corso del comizio, quello che fino a poche settimane prima era stato il ministro delle Riforme dell’ultimo governo Berlusconi, appena sostituito con l’esecutivo tecnico di Mario Monti, si scaglia contro Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica. Il linguaggio è quello tipico delle manifestazioni politiche. Il tono di Bossi, com’era nella natura del Senatùr, è concitato, travolgente. Solo che il fondatore della Lega, per l’occasione, aggiunge qualcosa: l’espressione «terùn» - terrone - e il gesto delle corna con la mano destra all’indirizzo del Capo dello Stato, napoletano di nascita. Otto anni dopo, quell’intemerata polemica è costata a Bossi, dopo l’apertura del procedimento penale per vilipendio al presidente della Repubblica, prima la condanna in via definitiva a un anno e quindici giorni di reclusione (lo scorso 12 settembre); poi, ieri, un ordine di carcerazione. Avete capito bene: Bossi deve andare in carcere per aver dato del «terrone» a Napolitano. Solo la contestuale emissione, da parte del sostituto procuratore generale di Brescia Gian Paolo Volpe, di un decreto di sospensione della pena ha salvato l’attuale senatore della Lega dalla prigione. Un atto, quello dei magistrati, che adesso consente a Bossi di chiedere, entro trenta giorni, di accedere a una delle misure alternative di detenzione: l’affidamento in prova ai servizi sociali (come fece Silvio Berlusconi dopo la condanna per i diritti tv Mediaset); la detenzione domiciliare; la semilibertà; la sospensione dell’esecuzione della pena detentiva e l’affidamento in prova. Se il fondatore del Carroccio non opterà per nessuna delle pene alternative, la procura generale di Brescia si attiverà per far scontare a Bossi il periodo di reclusione. Il reato di vilipendio è disciplinato dall’articolo 278 del Codice penale e prevede la pena della reclusione, che oscilla da uno a cinque anni di carcere. In primo grado, il 22 settembre 2015, il tribunale di Bergamo aveva inflitto a Bossi un anno e sei mesi di reclusione. In appello, l’11 gennaio 2017, la condanna era stata confermata, seppure con una lieve riduzione della pena (dodici mesi). Pochi giorni fa, il procedimento ha terminato il suo corso con la pronuncia della prima sezione penale della corte di Cassazione. Non paga, la Suprema corte ha condannato Bossi anche a pagare 2mila euro alla Cassa delle ammende. Ieri è arrivato il sigillo delle toghe bresciane, con la firma dell’ordine di carcerazione (poi sospeso). A nulla sono valse, in tutti questi anni, le tesi della difesa, secondo cui le parole di Bossi si sarebbero dovute far rientrare nell’esercizio delle sue funzioni istituzionali. Nel comizio incriminato, il Senatùr contestò Napolitano con queste parole: «Abbiamo subìto anche il presidente della Repubblica, che è venuto a riempirci di Tricolori, sapendo che non piacciono alla gente del Nord. Mandiamo un saluto al presidente della Repubblica. Napolitano, Napolitano, nomen omen, non sapevo fosse un terùn». Quindi il gesto delle corna. Apriti, cielo: alle parole di Bossi seguirono polemiche a tutto spiano, decine di querele e l’esposto che diede vita all’iter giudiziario. Con l’ipotesi di un «attacco sovversivo contro l’Unità d’Italia e i suoi organi costituzionali». A colpi di «terùn».
Regione Lombardia, caso Maroni, condanna a un anno: «Gli incarichi alle collaboratrici? Un suo interesse». Il Tribunale ha motivato la sentenza sull’ex governatore della Lombardia nel processo per i contratti di Maria Grazia Paturzo e Mara Carluccio, scrive Luigi Ferrarella il 18 settembre 2018 su "Il Corriere della Sera". Sarebbe stato un problema sistemare in Regione Lombardia le due amiche della cui collaborazione (già sperimentata al ministero dell’Interno) l’allora presidente leghista della Regione Roberto Maroni non voleva privarsi: sia per l’ipoteca della Corte dei Conti che avrebbe posto «un profilo di danno erariale», sia per la «difficile gestione anche mediatica delle ripercussioni» sul tema «costi della politica, oggetto di interesse del partito di Maroni». È così che il Tribunale di Milano — nel motivare la condanna in primo grado a un anno (pena sospesa) per turbata libertà del procedimento di scelta del contraente, e l’assoluzione dall’induzione indebita — inquadra i contratti temporanei a Mara Carluccio in Eupolis (ente di ricerca sotto controllo regionale) e a Maria Grazia Paturzo in Expo. Nel primo caso «Maroni, personalmente (ne è stata acquisita prova diretta) e per il tramite di Giacomo Ciriello» (suo capo staff, 1 anno di pena), «incaricò» il leghista segretario generale del Pirellone, Andrea Gibelli (oggi n.1 di Ferrovie Nord Milano, 10 mesi e 20 giorni di pena), «di segnalare al direttore generale di Eupolis, Alberto Bugnoli», otto mesi patteggiati), il nome di Mara Carluccio (sei mesi di pena). E «l’agire di Brugnoli», che «ricevette da Gibelli il curriculum di Carluccio ben prima dell’avviamento della selezione» sfociata in un incarico su misura da 29 mila euro, fu «rivolto all’esclusivo scopo di compiacere» l’«interesse personale di Maroni» e «non già per soddisfare una esigenza della PA». Nel secondo caso (cioè il viaggio a Tokyo di Paturzo, poi annullato, di cui Maroni nel maggio 2014 cercava di accollare le spese all’Expo di Beppe Sala), il Tribunale riporta due pagine di sms e intercettazioni per dare «la prova diretta della» invece sempre negata «esistenza di una relazione non solo professionale», foriera perciò di atti alla Procura, per ipotesi di false dichiarazioni, a carico di Paturzo e delle testi Isabella Votino (portavoce di Maroni) e Cristina Rossello (avvocato e parlamentare di Forza Italia). Ma negli sms e telefonate che il pm Eugenio Fusco qualificava come «pressioni» di Maroni su Cristian Malangone (il braccio destro di Sala già assolto definitivamente) i giudici Guadagnino-Amicone-Vanore ravvisano invece non «la perentorietà» di una pressione illecita, ma «la riproposizione di una richiesta più sbrigativa delle precedenti».
"Maroni salvo dal carcere solo perché si è dimesso". Le motivazioni della condanna, scrive Luca Fazzo, Martedì 18/09/2018, su "Il Giornale". E adesso forse si capisce qualcosa di più sui motivi per cui Roberto Maroni, tra lo stupore generale, l'8 gennaio scorso annunciò che non si sarebbe ricandidato alla carica di governatore della Lombardia. In quei giorni l'ex ministro degli Interni era sotto processo a Milano per i favori che avrebbe fatto a due donne del suo staff ma sembrava che la conseguenza peggiore in caso di condanna potesse essere la sua incandidabilità. Ora però arrivano le motivazioni della sentenza che ha messo fine a quel processo, dimezzando i capi d'imputazione e condannando Maroni solo per la accusa più lieve. E in questa sentenza si legge che a Maroni, condannato a un anno, viene concessa la sospensione condizionale solo perché intanto ha scelto di lasciare la carica. E quindi si può prevedere che non farà altri reati. Se l'italiano (benché giuridico) ha ancora un senso, vuol dire che se il governatore lombardo fosse rimasto al suo posto, avrebbe rischiato di finire ai domiciliari o in affidamento ai servizi sociali. Contro la concessione della condizionale pesava la «presenza di un precedente penale specifico», un'altra condanna di cui ieri, peraltro, i legali di Maroni negano l'esistenza. L'aspra conclusione cui approdano i giudici fa un certo effetto anche perché arriva al termine di novanta pagine dedicate in larga parte a riabilitare l'ex governatore, riconoscendone l'innocenza dall'accusa più grave che gli era stata mossa dal pm Eugenio Fusco: concussione per induzione, per avere costretto i vertici di Expo a imbarcare con lui in una missione a Tokyo la sua collaboratrice Maria Grazia Paturzo, che la sentenza definisce legata da Maroni «da una relazione non solo professionale». Qualunque fosse il sentimento che legava i due, per i giudici la presenza della Paturzo nella missione «aveva una sua giustificazione formale», visto il suo incarico; e soprattutto Maroni non fece nulla di illecito per imporla. Per l'accusa, la prova regina era un sms che un collaboratore di Maroni manda ai vertici di Expo: «Il Pres ci tiene», una sorta di ultimatum. Invece per i giudici nel messaggio «non sono ravvisabili né la perentorietà né il carattere ultimativo», «il contenuto del messaggio appare qualificabile più come una riproposizione della richiesta». E «le considerazioni del pm appaiono, più che fondate su effettivi dati sostanziali, una forzata interpretazione del dato letterale».
Maroni pubblicherà a novembre un libro “sulle vittime della giustizia mediatica”. Lo aveva annunciato, tra le tante idee raccontate dopo la rinuncia alla corsa per le ultime elezioni regionali, e ora su Il Foglio spiega che ci sono un tema e una data di pubblicazione, scrive di Tomaso Bassani su "Varesenews.it" il 21 settembre 2018. Nella nuova vita di Roberto Maroni, ex ministro, ex governatore della Lombardia ed ex segretario della Lega Nord oggi, formalmente, solo consigliere comunale varesino, c’è anche spazio per la scrittura. Lo aveva annunciato, tra le tante idee raccontate dopo la rinuncia alla corsa per le ultime elezioni regionali, e ora spiega che ci sono un tema e una data di pubblicazione. Lo ha raccontato Maroni stesso nella sua rubrica pubblicata su Il Foglio dove toglie il velo sul libro al quale sta lavorando e che uscirà a novembre. Si tratta di una pubblicazione su quelli che l’ex governatore definisce “le vittime dei casi di giustizia mediatica”. “Tanti processi, tanto risalto mediatico, pochissime condanne – scrive Maroni -. Un principio di civiltà giuridica consacrato dalla Costituzione. Peccato che in questa Italia succeda l’esatto contrario. La sentenza di condanna mediatica arriva subito, talvolta precede persino l’informazione all’interessato di essere sottoposto a indagine. E poi recuperare è quasi impossibile”.
Per denunciare tutto questo Roberto Maroni sta scrivendo il suo libro: “manca il coraggio di parlar chiaro, io lo farò in un libro che uscirà a novembre”.
Lega, Tribunale di Milano dispone sequestro di 1,9 milioni a carico dell’avvocato Matteo Brigandì. Il provvedimento, richiesto dal pm Paolo Filippini e disposto dal giudice Marco Formentin, è stato depositato nelle scorse settimane e per il momento, da quanto si è saputo, il sequestro ha riguardato un immobile di Brigandì in Piemonte, mentre gran parte dei soldi, circa 1,67 milioni, sarebbe stata da lui trasferita su un conto in Tunisia, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 27 settembre 2018. Il Tribunale di Milano ha disposto un sequestro preventivo ai fini della confisca da quasi 1,9 milioni di euro a carico dell’avvocato Matteo Brigandì, storico legale in passato della Lega e dell’ex leader Umberto Bossi, a processo per patrocinio infedele e autoriciclaggio perché, secondo l’accusa, “quale avvocato della Lega (è parte civile, ndr)” rendendosi “infedele ai suoi doveri professionali” avrebbe omesso “di denunciare il proprio conflitto di interessi” in relazione a un decreto ingiuntivo da lui richiesto per avere appunto quasi 1,9 milioni di compensi per la sua attività. Il provvedimento, richiesto dal pm Paolo Filippini e disposto dal giudice Marco Formentin, è stato depositato nelle scorse settimane e per il momento, da quanto si è saputo, il sequestro ha riguardato un immobile di Brigandì in Piemonte, mentre gran parte dei soldi, circa 1,67 milioni, sarebbe stata da lui trasferita su un conto in Tunisia. Per questo la Procura ha attivato una rogatoria per arrivare a bloccare quei soldi. Il processo, intanto, è stato aggiornato all’8 novembre. A Brigandì, che è stato anche parlamentare della Lega, viene contestato, infatti, anche l’autoriciclaggio perché avrebbe prima investito quei soldi “sottoscrivendo” una polizza vita e poi dopo un “disinvestimento trasferiva – scrive il pm nell’imputazione – la somma di 1,67 milioni” su un conto di una banca in Tunisia. Oggi il processo è stato aggiornato a novembre, perché il giudice Formentin passerà ad altro ufficio e, dunque, il dibattimento, di fatto non ancora iniziato, verrà celebrato da un altro giudice della decima sezione penale. Nel processo la Lega, rappresentata in aula dal legale Lorenzo Bertacco, è parte civile contro Brigandì per ottenere il risarcimento dei danni subiti. Oggi avrebbero dovuto presentarsi in aula i primi testimoni dell’accusa, tra cui anche l’ex governatore lombardo Roberto Maroni, ma c’è stato il rinvio per il cambio del giudice. Con un nuovo giudice, tra l’altro, la Procura potrebbe anche richiedere di nuovo l’esame in aula di alcuni testi, tagliati dalle liste nella scorsa udienza, tra cui anche il leader della Lega Matteo Salvini perché, aveva spiegato il pm, in passato aveva firmato un atto di transazione con cui il Carroccio rinunciava ad ogni pretesa nei confronti di Brigandì. Poi, però, già in udienza preliminare, la Lega è entrata come parte civile per chiedere i danni allo storico legale di Bossi. Nel frattempo, è arrivato il provvedimento di sequestro preventivo, anche se il ‘congelamento’ di gran parte dei soldi passerà per l’esito della rogatoria attivata in Tunisia.
25 anni di insulti leghisti. Che il Sud non dimentica. Da Salvini a Borghezio e Bossi. La svolta nazionalista della Lega non cancella 25 anni di offese e insulti contro il Sud. Ecco i peggiori, scrive Mauro Orrico il 10 febbraio 2018 su "Face Magazine". Una delle ultime campagne elettorali di Matteo Salvini, quella delle recenti elezioni amministrative, è stata tra le più costose che la “casta” ricordi: oltre 8 mila agenti hanno scortato il leader leghista nelle sue tappe in giro per lo Stivale. Agenti – hanno accusato Pd e M5S – sottratti al controllo delle nostre città per difendere il Capitano – così lo chiamano i suoi seguaci – dalle decine di contestazioni che lo hanno accolto, soprattutto al sud. I motivi? Non solo le posizioni della Lega su migranti e sicurezza. Ma anni di insulti, allusioni, offese leghiste contro i meridionali. Recentemente Matteo Salvini ha chiesto scusa per i suoi attacchi, togliendo perfino la parola Nord dal “marchio” Lega. Una svolta che, più di un cambiamento culturale, ha il sapore di una metamorfosi di facciata, finalizzata ad espandere il consenso oltre i confini padani. La conversione leghista non trova però riscontri nell’attività parlamentare. Ilfattoquotidiano.it ha monitorato le proposte di legge del Carroccio depositate in Parlamento dall’inizio dell’ultima legislatura. Tra tutti i testi, sono pochissimi quelli rivolti al Sud. Tra questi, uno riguarda il tema immigrazione a Lampedusa e Linosa. E poco altro. Resta una storia fatta di insulti, allusioni, volgarità gratuite e vecchi pregiudizi che buona parte del Sud non dimentica, nonostante la netta crescita di consensi per Matteo Salvini in tutto il paese.
25 ANNI DI INSULTI CONTRO IL SUD. ECCO I PEGGIORI
2009. Festa di Pontida. Matteo Salvini intona il coro: “Senti che puzza scappano anche i cani, stanno arrivando i napoletani”. In seguito ha precisato: “Sono troppo distanti dalla nostra impostazione culturale, dallo stile di vita e dalla mentalità del Nord. Non abbiamo nessuna cosa in comune. Siamo lontani anni luce”.
2011. In merito al terremoto a L’Aquila, l’europarlamentare Mario Borghezio dichiara: “Questa parte del Paese non cambia mai, l’Abruzzo è un peso morto per noi come tutto il Sud. Il comportamento di molte zone terremotate dell’Abruzzo è stato singolare, abbiamo assistito per mesi a lamentele e sceneggiate”.
Agosto 2012. Matteo Salvini su Facebook: “Una sciura siciliana grida e dice “vogliamo l’indipendenza, stiamo stanchi degli attacchi del Nord”. Evvaiiiiiiii”
Settembre 2012. Vito Comencini, segretario di sezione e vice coordinatore provinciale dei Giovani padani, su Radio Padania, dice: «Carta igienica al Sud, che devono ancora capire a cosa serve».
Novembre 2012. Donatella Galli, consigliera leghista della provincia di Monza e Brianza, invoca l’aiuto dei vulcani per pulire il sud: “Forza Etna, Forza Vesuvio, Forza Marsili!!!”
La seguente dichiarazione, inizialmente attribuita a Matteo Salvini, è invece di Luca Salvetti, dei Giovani Padani di Mantova ed è stata pronunciata nel corso del Congresso dei Giovani Padani del 2013: “Ho letto sul Sole 24 Ore che, ancora una volta, verranno aiutati i giovani del Mezzogiorno. Ci siamo rotti i coglioni dei giovani del Mezzogiorno, che vadano a fanculo i giovani del Mezzogiorno! Al Sud non fanno un emerito cazzo dalla mattina alla sera. Al di là di tutto, sono bellissimi paesaggi al Sud, il problema è la gente che ci abita. Sono così, loro ce l’hanno proprio dentro il culto di non fare un cazzo dalla mattina alla sera, mentre noi siamo abituati a lavorare dalla mattina alla sera e ci tira un po’ il culo”. Se oggi Salvini si dichiara acerrimo nemico dell’euro, poco tempo fa non la pensava nello stesso modo. E il Sud, a suo dire, l’euro non lo meritava.
2014. Riguardo ad una possibile riforma della Scuola, il solito Matteo Salvini dichiara: “Bloccare l’esodo degli insegnanti precari meridionali al Nord”.
Dicembre 2014. Il leader del Carroccio scrive su facebook: “Chi scappa non merita di stare qui, lo considero un fannullone. E non è un caso che siano AFRICANI o MERIDIONALI ad andarsene, gente senza cultura del lavoro”. Questo post è tuttavia stato segnalato dal sito Bufale.net come un fake. I 99 Posse che hanno condiviso il post affermano il contrario.
Leonardo Muraro, presidente della provincia di Treviso: “E’ proprio per questo che invito ad assumere trevigiani: i meridionali vengono qua come sanguisughe”.
E, ancora, un’altra storica “perla” salviniana: “Carrozze metro solo per milanesi”.
NON SOLO SUD: LE PEGGIORI SPARATE LEGHISTE. Ma non solo i meridionali sono stati al centro di anni di insulti leghisti. Anche i migranti, le ex ministre, gli omosessuali, i disabili e tutte le minoranze. E perfino i terremotati dell’Emilia. Ecco alcuni dei più raccapriccianti.
“Terremoto nel nord italia… Ci scusiamo per i disagi ma la Padania si sta staccando (la prossima volta faremo più piano)…” (Stefano Venturi, segretario della Lega di Rovato, Brescia, sul terremoto in Emilia nel 2012)
“Ma mai nessuno che se la stupri, così tanto per capire cosa può provare la vittima di questo efferato reato? Vergogna”. (Dolores Valandro, consigliere leghista di quartiere a Padova)
“Bisognerebbe vestirli da leprotti per fare pim pim pim col fucil”. (Giancarlo Gentilini, ex sindaco di Treviso, alla Festa della Lega nel 2008)
“Agli immigrati bisognerebbe prendere le impronte dei piedi per risalire ai tracciati particolari delle tribù”. (Mario Borghezio su Radio24, nel 2012)
“Crediamo sia giunto il momento di prevedere sul treno degli appositi vagoni per extracomunitari, e delle carrozze riservate ai poveri italiani”. (Erminio Boso e Sergio Divina, consiglieri provinciali di Trento)
“La civiltà gay ha trasformato la Padania in un ricettacolo di culattoni”. (Roberto Calderoli, novembre 2010)
“Nella vita penso si debba provare tutto tranne due cose: i culattoni e la droga”. (Renzo Bossi, ex consigliere regionale della Lombardia)
“I disabili nella scuola? Ritardano lo svolgimento dei programmi scolastici, più utile metterli su percorsi differenziati”. (Pietro Fontanini, presidente della provincia di Udine)
“Meglio noi del centrodestra che andiamo con le donne, che quelli del centrosinistra che vanno con i culattoni”. (Umberto Bossi, ex ministro delle Riforme per il Federalismo).
Da: Pacho Pedroche Lorena (venerdì 22 settembre 2018). Salve, sono Lorena Pacho, giornalista spagnola presso il giornale El País. Sto lavorando presso un servizio sugli avvocati italiani che chiedono l'omologazione del titolo di studio in Spagna. Sarebbe possibile parlare con il Dr. Giangrande, per favore, per fare qualche domanda sul processo e come funziona in Italia? in relazione con i sui libri L' Italia dei concorsi pubblici truccati ed esame di avvocato. La ringrazio cordiali saluti. La ringrazio tanto, gradisco molto questa soluzione e la ringrazio. Invio qua delle domante, si senta libero di rispondere a tutte oppure solo a una parte. Anche si senta libero per la lunghezza, ma non è necessario sia molto lungo. L'obiettivo di questo servizio è per una parte fare capire ai lettori spagnoli perchè in tanti vano in Spagna per diventare avvocato spiegando come è il processo in Italia, perchè è così lungo, difficile e tortuoso accedere alla abilitazione alla professione di avvocato e quale sono le ombre e difetti di questo processo:
- Quali sono le particolarità que definiscono meglio il processo per l'abilitazione alla professione di avvocato? (per fare capire ai lettori spagnoli perchè in tanti vano in Spagna per l'omologazione.
«In Italia per diventare avvocato bisogna laurearsi in Giurisprudenza (in legge). Poi si segue un periodo di praticantato con corsi obbligatori onerosi ed esosi e solo alla fine si affrontano gli esami di abilitazione organizzati dal Ministero della Giustizia. Le commissioni di esame di avvocato sono composte da avvocati, professori universitari e magistrati. La stessa composizione che abilita gli stessi magistrati ed i professori. Con scambio di ruoli e favori. Io ho partecipato per 17 anni all’esame di abilitazione, fino a che ho detto basta! In questi anni ho vissuto tutte le fasi delle riforme emanate per rendere, in effetti, impossibile l’iscrizione all’albo tenuto dagli avvocati più anziani. All’inizio della mia esperienza il praticantato era di due anni e poi affrontavi l’esame con le commissioni del proprio distretto, portando i codici annotati solo con la giurisprudenza. Allora non si sentiva parlare di migrazione verso la spagna di aspiranti avvocati. Se eri bocciato, bastava riprovare ed aspettare. Da sempre, però, vi era la litania che gli avvocati erano troppi. Ad oggi il praticantato si svolge con corsi di formazione obbligatori ed a pagamento per 18 mesi e l’esame sarà svolto con soli codici senza annotazioni della giurisprudenza. Inoltre, con l’avvento del cosiddetto governo “liberale” di Silvio Berlusconi, l’allora Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, ha previsto la transumanza degli elaborati degli esami. Spiego meglio. Le commissioni di esame di avvocato del Nord Italia erano avare nell’abilitare, per limitare la concorrenza. Roberto Castelli era del partito di Matteo Salvini, attuale vice premier. La lega Nord, prima di essere anti immigrati è stata da sempre anti meridionale. Se il loro motto oggi è “prima gli italiani”, allora era “prima i settentrionali”. Nel Nord d’Italia vi era la convinzione che le commissioni del sud Italia erano prodighi, per questo vi erano più idonei all’esame di avvocato. La stessa Ministro Gelmini del Governo Berlusconi, lei impedita a Brescia, ha fatto l’esame in Calabria. A loro dire, poi, la massa di idonei emigrava al Nord, togliendo lavoro ai locali, che tanto avevano fatto illecitamente per tutelare se stessi. Secondo questa riforma di stampo razzista le prove scritte sono visionate da commissioni estratte a sorte, con spostamento dei plichi con gli elaborati da nord a sud e viceversa, con aggravio di tempo e di denaro. In questo modo sono avvantaggiati i candidati del nord Italia, i cui compiti sono corretti dalle commissioni del sud, rimaste benevoli. I partiti statalisti di sinistra non hanno fatto altro che confermare questo iniquo sistema».
- Secondo Lei, che senso ha rendere obbligatorio l'esame di Stato per gli avvocati?
«Non ha senso rendere obbligatorio un esame che non garantisce il merito, tenuto conto che i candidati, oltretutto, hanno sostenuto tantissimi esami all’università. Benissimamente a fine studio universitario potrebbero sostenere l’esame finale di abilitazione (come in altri paesi) avente valore di esame di Stato. Poi ci pensa il mercato: chi vale, lavora».
- Funziona il sistema dei concorsi di abilitazione alla professione forense in Italia?
«Il sistema di abilitazione forense in Italia non funziona perché non garantisce il merito, ma è stabilito solo per limitare l’accesso ai giovani aspiranti avvocati per la tutela di rendita di posizione o per garantire i propri protetti».
-Perchè è così alta la percentuale di concorrenti che non superano, che non passano gli esami di avvocato?
«La percentuale di idonei diventa di anno in anno sempre minore. Perché negli anni hanno limitato l’intervento degli avvocati nella tutela dei diritti (vedi ricorsi contro le sanzioni amministrative o per i sinistri stradali o per onerosità delle cause, o per il gratuito patrocinio); ovvero hanno imposto delle tasse e dei contributi esosi. Questo porta la lobby degli avvocati a tutelare gli interessi corporativi sempre più ristretti, negando l’accesso ai nuovi. I giovani per aggirare l’ostacolo prendono altre strade: ossia, la migrazione per ottenere la meritata professione per la quale hanno studiato per anni e che per questo non possono fare altro. Inoltre il fatto di diventare avvocato non dà sicurezza di reddito, perché comunque ai giovani avvocati è impedito entrare in un certo sistema di potere che assicura lavoro. Per lavorare come avvocato devi essere protetto ed omologato».
-Si può parlare di qualche irregolarità, anomalie nella fase di correzione ed in che modo? Possiamo parlare di altre anomalie?
«Il mio parere è per cognizione di causa diretta e per aver studiato e cercato prove (in testi ed in video da visionare sul mio canale su Dailymotion) per oltre venti anni per dimostrare che l’esame di avvocato in particolare, ma ogni esame di abilitazione o concorso pubblico in Italia è truccato (irregolare). Il frutto del mio lavoro sono i saggi “ESAME DI AVVOCATO. ABILITAZIONE TRUCCATA”, in particolare. E “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI” per quanto riguarda tutti i concorsi pubblici e gli esami di Stato.
Nei miei saggi si dimostra con prove inoppugnabili dove si annida il trucco:
Nelle fasi preliminari (tracce conosciute);
Durante le prove (copiature e dettature);
Durante le correzioni (commissioni irregolari e compiti non corretti, ma dichiarati tali);
Durante la tutela giudiziaria (disparità di giudizio rispetto a ricorsi simili o uguali).
Da tener conto che i commissari sono professionisti diventati tali in virtù di concorsi analoghi, quindi truccati».
- Quale sarebbe l'obiettivo di truccare questi esami di avvocati?
«Si truccano gli esami per garantire un proprio familiare o un proprio amico o conoscente. O per tutelare l’interesse corporativo».
- Lei vuole aggiungere qual cosa altro che pensa può essere utili per i lettori spagnole oppure importante per capire la situazione e questo fenomeno.
«Io sin dalla prima volta ho denunciato le anomalie. Sin dal principio mi hanno minacciato che non sarei diventato avvocato. Pensavo che valesse la forza della legge e non, come è, la legge del più forte. Per 17 anni mi hanno sempre dato voti identici per tutte le tre prove annuali, senza che il compito sia stato corretto (mancanza di tempo calcolato dal verbale). Le mie denunce pubbliche hanno provocato la reazione del potere con procedimenti penali a mio carico da cui sono uscito sempre assolto. I giornalisti, anche loro figli del sistema, mi oscurano, non impedendomi, però, di essere seguitissimo sul web, attraverso le mie opere pubblicate su Amazon. Si dà il caso che sia una giornalista spagnola a chiedere un mio parere e non una italiana. Il fatto che i giovani italiani vadano in Spagna o in Romania o in altre località molto più liberali che l’Italia, per poter realizzare i loro sogni, hanno la mia piena solidarietà. E’ solo un atto di puro stato di necessità che discrimina eventuali reati commessi. Se lo fanno violando le norme non sono meno colpevoli di chi nella loro patria illiberale, viola le norme impunemente. Perché negli esami di Stato e nei concorsi pubblici chi aiuta o favorisce o raccomanda qualcuno a scapito di altri viola una noma penale grave, costringendo gli esclusi a spendere tantissimi soldi che non hanno. E solo per poter lavorare».
Lega, da Bossi a Salvini il nemico è sempre il diverso. L'attuale leader della Lega è cresciuto e si è nutrito della retorica anti meridionalista del Senatùr, mutuandone i paradigmi. Così il terrone di ieri è diventato l'immigrato clandestino di oggi, scrive Andrea Pietrobelli il 3 luglio 2018 su "Lettera 43". Viva el leon che magna el teron. Per anni in Veneto, ma non solo, questo è stato uno dei motti che i militanti della Lega intonavano quando si affrontavano temi che riguardavano il Meridione. La gente del Sud - i «terroni» - era descritta come il male del Nord principalmente per tre motivi: l'immigrazione, l'assistenzialismo e la criminalità. Il Mezzogiorno, nella narrazione nordista, non solo era la cancrena della nazione, non solo rubava il lavoro con una massa di persone che occupavano posti che spettavano ai polentoni, ma sprecava anche tutte le risorse che le Regioni settentrionali stanziavano all'odiato Stato centrale per aiutare sostentamento e sviluppo di quella disgraziata parte d'Italia.
IL MEZZOGIORNO PROSECUZIONE DELL'AFRICA. Per i leghisti di allora il 'terrone', oltre che rubare il lavoro, era anche tendenzialmente fancazzista e geneticamente portato alla disonestà e alla mafia. Così il Sud diventava, nelle parole della prima Lega, la prosecuzione dell'Africa e dei suoi abitanti. Più che italiani, erano più simili a marocchini, tunisini, egiziani: non solo per situazione economica e tessuto sociale, anche per questioni di sangue. Tutta propaganda con cui Umberto Bossi ha costruito il suo consenso: dal mito della Padania alla retorica anti-italiana, con tanto di Mondiale di calcio giocato in un campionato a parte, dalla secessione fino all'inseguimento di un federalismo che non ha ancora visto concretamente la luce nonostante anni di governo a trazione Fi-Lega.
L'ULTIMO RUGGITO DI BOSSI. Non stupisce, quindi, che Bossi, nell'intervista al Corriere della Sera del 3 luglio, abbia risfoderato l'antica retorica della 'sua' Lega Nord in chiave anti Salvini, capofila di un neo-nazionalsovranismo (che in realtà di nuovo ha veramente poco) che ha sacrificato l'istanza secessionista sull'altare dell'orgoglio italico. Parlando della sua Pontida "invasa" dai meridionali, il Senatùr non è andato per il sottile: «Ho visto solo un sacco di gente interessata a essere mantenuta». E sul successo dell'edizione "populista" ha commentato sarcastico: «Se ci porti lì anche l'Africa...». C'è una linea di continuità nella tecnica di propaganda. L'operazione di Salvini è stata semplice: sostituire il terrone e il Sud bossiani con i migranti e gli Stati da cui fuggono. O, meglio, da cui non dovrebbero fuggire. Ma sono così diversi Bossi e Salvini? Sì e no. L'attuale leader della Lega, che è cresciuto e si è nutrito della retorica anti meridionalista del Senatùr, ha lavorato negli ultimi anni, a suon di felpe e territorialismi, per creare un leghismo nazionale. Su questo, rispetto al suo maestro, la sterzata è stata netta e, a vedere i risultati, vincente. C'è però una linea di continuità nella tecnica di propaganda. L'operazione di Salvini è stata semplice: sostituire il terrone e il Sud con i migranti e gli Stati da cui fuggono. O, meglio, da cui non dovrebbero fuggire.
POPULISMI DI OGGI, CAMICIE VERDI DI IERI. Per il Capitano e i suoi discepoli, i migranti «non fanno nulla dalla mattina alla sera», sono mantenuti, aumentano la criminalità. Esattamente come un campano o un calabrese che negli Anni 90 si trovava a vivere al Nord, per cercare fortuna o perché spinto dalla fame. Una retorica che qualcuno ha definito dell'egoismo, che strizza l'occhio alla xenofobia e che sembra far breccia nel cuore dei populisti di oggi esattamente come nelle Camicie verdi di ieri.
C'È SEMPRE UNO PIÙ A NORD. Sia Salvini sia Bossi, partendo da problemi reali che andrebbero affrontati seriamente, evocano uno straniero più debole e che sta più a Sud come nemico del popolo, come ragione delle disgrazie del "popolo" e pronto a rovinarci ancora di più la vita. Esattamente come, per gli Stati del Nord Europa, Germania in primis, l'Italia è un peso morto, un Paese corrotto, criminale e assistenzialista, che tendenzialmente non vuole pagare i suoi debiti (non a caso lo Spiegel ci ha definiti «scrocconi») e che gestisce le risorse europee sprecandole. Quindi attento Salvini: parafrasando Pietro Nenni, c'è sempre uno più a Nord che ti epura.
CI VUOLE LA BBC PER RIPESCARE UN GRANDE ANEDDOTO SU SALVINI - L'EX MOGLIE PUGLIESE, FABRIZIA: ''AL MATRIMONIO SI È SPOGLIATO, HA INDOSSATO LA CAMICIA VERDE LEGHISTA MENTRE I SUOI AMICI INTONAVANO CORI ANTIMERIDIONALI, CON I MIEI 200 PARENTI CHE FISCHIAVANO, ULULAVANO 'BUUUU''' - LEI ALLE NOZZE ERA INCINTA, SI SEPARARONO POCO DOPO. TRE ANNI FA DISSE: 'CON QUESTA TIZIA (LA ISOARDI) NON E' UNA STORIA VERA. LA SUA ANIMA GEMELLA E'...'
Da repubblica.it l'8 agosto 2018. Un lungo ritratto di Matteo Salvini, tra pubblico e privato, sotto il titolo: "Può l'Italia fidarsi di quest'uomo?". La Bbc riserva al ministro dell'Interno un articolo del corrispondente James Reynolds che ha un attacco un po' di maniera sull'immagine del leader leghista che a differenza degli altri politici italiani in completo e camicia solo raramente indossa la cravatta ma quasi sempre slacciata. Un Salvini che - mentre parla con i giornalisti durante la campagna elettorale del 4 marzo - fuma e controlla il telefono (ndr, in realtà negli ultimi mesi Salvini ha provato più volte a smettere di fumare"). Si racconta il suo exploit elettorale imprevisto, la coalizione con i 5Stelle, la scelta da parte della coalizione di uno "sconosciuto professore di diritto" come premier sostanzialmente "privo di potere", insomma un percorso che ha portato il leader leghista a diventare l'uomo forte dell'esecutivo italiano. La ricostruzione del passato di Salvini sconfina un po' nel folclore: gli esordi come "secessionista di estrema sinistra", con la "spilletta di Che Guevara" nei comunisti Padani. La mancata stretta di mano al presidente Ciampi, quando era in Consiglio comunale a Milano ("Lei non mi rappresenta"), i cori contro i napoletani e al tempo stesso il matrimonio con una pugliese, Fabrizia Ieluzzi (la coppia ha divorziato nel 2010), che racconta: "Al taglio della torta, ha indossato la maglietta verde e insieme ai suoi amici ha cominciato a cantare cori antimeridionali, con tutti i miei parenti che hanno cominciato a fischiare". Ma l'articolo della Bbc individua alcune chiavi del successo di Salvini: l'aver deciso, a un certo punto, la trasformazione del partito da secessionista a nazionalista e l'aver individuato due nemici: l'Europa e i migranti. L'avversario principale non era più dunque lo Stato italiano: nel mirino entravano Unione europea e immigrazione. In pratica, la chiave del successo per la Bbc è nel suo profilo da camaleonte in grado di adattare il messaggio politico al mutare delle situazioni. Ma anche le sue caratteristiche umane, la capacità di presentarsi come il "ragazzo della porta accanto" - con la passione per calcio e donne - rispetto ai politici italiani per motivi diversi percepiti come distanti, irraggiungibili. E di alternare attacchi feroci ai migranti - dipinti in campagna elettorale come "ladri e criminali" - a selfie e battute. Un ritratto forse più concentrato sulle origini di Salvini che sull'attuale svolta a destra del ministro dell'Interno. Che comunque non tralascia l'evocazione di Mussolini. "Il linguaggio diretto di Salvini ricorda ad alcuni italiani quello di Mussolini negli anni Venti e Trenta, quando gli insulti furono seguiti dalla persecuzione delle minoranze" e dalle leggi razziali, scrive James Reynolds. L'articolo si conclude con una riflessione sull'internazionale sovranista - i legami con Marine Le Pen, ma anche con Trump e Putin - e con una previsione a tinte forti: che il futuro dell'Unione europea possa giocarsi proprio nella competizione tra Matteo Salvini e il presidente francese Emmannuel Macron.
L'aneddoto del Buuu al matrimonio raccontato da Fabrizia Ielluzzi a Sara Faillaci su''VANITY FAIR'' nel 2015. «Quando arrivi in alto, devi tenere gli occhi aperti perché c’è sempre qualcuno che ti liscia il pelo, o che sta con te perché vuole ottenere qualcosa. Teo è un po' ingenuo da questo punto di vista, ci sta che qualcosa ci sia stato con questa tizia (Elisa Isoardi, ndr), non ne ho idea, ma di certo non è una storia». Di Matteo «Teo» Salvini, Fabrizia Ieluzzi è stata l'unica moglie. Si sono sposati trentenni nel 2003, quando lei – già incinta di Federico, primogenito del leader leghista – era una giornalista radiofonica in carriera con la passione per la politica, simpatizzante per Forza Italia, e lui un semplice consigliere comunale milanese. Il matrimonio è durato a malapena due anni, seguito subito dopo dalla lunga relazione tra Salvini e la sua compagna storica Giulia Martinelli, madre della secondogenita Mirta. Rapporto, quest’ultimo, che sarebbe stato messo in crisi proprio dal flirt con la conduttrice Rai. Ma Fabrizia Ieluzzi, che in tutti questi anni non ha mai rilasciato interviste, spiega a Vanity Fair che secondo lei quella con la Isoardi è una storia senza futuro. «Da ex moglie, quindi vale doppio, posso testimoniare che Matteo e Giulia sono due anime gemelle, le metà della stessa mela», dice l'ex Signora Salvini. «Lei è una militante della Lega, sono cresciuti insieme; anzi, posso dire che lui l'amava da quando erano pistolini, c'era anche prima di me. Lei è nel suo cuore, non la levi nemmeno con lo scalpello. Ti pare che bastano due tette che camminano per riuscirci? Io sono pronta a scommettere che torneranno insieme. Una cosa del genere, nell'economia di una vita insieme, si supera». Nell'intervista che Vanity Fair pubblica nel prossimo numero, Fabrizia Ieluzzi racconta tutto della loro storia. L'improbabile colpo di fulmine – lui nordista, lei pugliese –, i romanticissimi sms del corteggiamento di Salvini, la cerimonia di nozze dove lo sposo improvvisa uno striptease (testimoniato dalle foto che Vanity Fair ha ottenuto in esclusiva) per indossare una camicia verde mentre i giovani padani intonano il coro «Secessione» e i parenti meridionali della sposa rispondono a suon di «Buuu!», l'affetto della nonna di lei che lo rimpinza e gli parla in un dialetto per lui incomprensibile. E poi le inevitabili incomprensioni, la separazione, la nuova vita professionale di lei, la serena famiglia allargata costruita con Giulia Martinelli e i due figli, i difetti di Salvini come compagno e i suoi pregi come padre, il suo carisma politico e la sua incapacità di farsi consigliare. E la volta che il piccolo Federico è andato a un concerto di Fedez, «nemico» di papà.
Nordisti e sudisti sempre colpa degli altri, risponde Aldo Cazzullo il 5 settembre 2018 su "Il Corriere della Sera".
Caro Aldo, un ascoltatore di Prima Pagina si è chiesto perché l’Italia non è simile alla Germania sul versante economico. Per l’elevato debito pubblico, è stato risposto. A mio avviso anche per Garibaldi che ha riunito due Italie fondamentalmente diverse. Ce ne rendiamo conto adesso. Le nazioni tedesche sono due: Germania e Austria a motivo della loro origine storica ed economica, e non sentono il bisogno di fondersi. Senza Garibaldi avremmo ancora il regno storico delle Due Sicilie di stampo agricolo e turistico, quest’ultimo in costante ascesa, rimpianto da tanti meridionali. Dall’altra parte avremmo il Nord altamente industrializzato e con un Lombardo-veneto che gareggia con la ricca Baviera, anche in Italia avremmo la nostra Germania. Bruno Mardegan Bellagio (Co)
Caro Bruno, La sua lettera conferma una cosa che ho sempre pensato. La convinzione dei nordisti, secondo cui il Settentrione sarebbe come la Baviera se non fosse gravato dal peso del Sud, va di pari passo con quella dei sudisti, secondo cui il Mezzogiorno sarebbe ricco e felice se il Nord non l’avesse invaso, conquistato, colonizzato. Al di là del fondo di verità che può anche esserci dietro i rispettivi lamenti (una città come Napoli ha sicuramente perso peso politico, demografico ed economico con l’unificazione; il Nord sarebbe sicuramente ancora più ricco senza decenni di Cassa del Mezzogiorno e di assunzioni folli alla Regione Sicilia), le due visioni combaciano perfettamente in un punto: la colpa dei nostri mali non è nostra, ma di altri italiani. È una visione consolatoria, quindi popolare. Piace e va di moda, perché è una delle cose che molti italiani amano sentirsi dire. Ma è sbagliata e alla lunga controproducente: perché se i nostri problemi non dipendono da noi, allora non possiamo fare nulla per risolverli. Mi ostino invece a credere in un’Italia unita che esce dalla crisi tutta insieme. Ma — e su questo sono d’accordo con lei — visti i tempi è sempre più difficile.
Esistono gli Italiani? scrive FunnyKing il 20 luglio 2014 su "Rischio Calcolato". La domanda non è provocatoria. Ovvero, nell’espressione geografica comunemente conosciuta e chiamata “Italia”, non vi è dubbio che ufficialmente esista ed eserciti il monopolio della violenza un soggetto conosciuto sotto il nome di “Repubblica Italiana”. Ma gli italiani come popolo esistono davvero? E se esistono sono la maggioranza dei residenti all’interno dei limiti territoriali millantati dall’entità conosciuta come “Repubblica Italiana”. Dunque all’interno dell’entità “Repubblica Italiana” ovvero entro i suoi presunti confini vivono persone, uomini donne e bambini ed anno una lingua più o meno comune, una passione maggioritaria per il giuoco del calcio, una serie infinita di sfrenati campanilismi che si spingono da quelli regionali a quelli delle singole città, fino ai quartieri e alle singole vie (e non mi stupirei si arrivasse ai caseggiati). Essi, costretti dalla legge, chi più chi meno (e se ci riescono) pagano le tasse e sono dediti principalmente ad una singola vera passione nazionale: fare esclusivamente i propri interessi, o al massimo quelli della propria famiglia o clan. Il tratto squisitamente individualista dei residenti nell’entità “Repubblica Italiana” è tanto più evidente quanto più i singoli hanno successo, e si mimetizza in finto socialismo per coloro che per sfortuna o demerito non raggiungono il successo personale. Nel senso che questi ultimi trovano conveniente coalizzarsi (temporaneamente) per espropriare parte o tutto del “successo” ottenuto dai loro co-residenti più bravi o fortunati.
Si noti come in questa definizione ci finisca sia il Brambilla con la Fabbrichetta e il conto nel paradiso fiscale, come il tipico comunista/socialista fino a quando i soldi li mettono gli altri. Insomma tutte le sfumature di grigio da un estremo all’altro.
Ora. In una situazione come questa credo sia perfettamente inutile aspettarsi un sussulto nazionale, uno sforzo di miglioramento collettivo, un cambiamento tedesco (questa è la mia personalissima utopia, lo so bene). Solo una guerra persa e il completo disastro per tutti, ha fatto vivere per un brevissimo periodo qualcosa che potesse davvero essere definito Stato Italiano, quei pochi anni dell’immediato dopoguerra e la fase costituente. Poi più nulla, 60 anni di guerra fra singoli, clan, famiglie e consorterie varie. Però i residenti nell’espressione geografica comunemente chiamata “Italia” hanno anche un altro tratto comune, sono individualisti e geniali. E lo dimostrano in tutto il mondo, ovunque sono andati a mettere radici. E tanto più la nazione nella quale si sono stabiliti ha i tratti della “grande nazione” con un nocciolo culturale comune che la tiene insieme, buone leggi, stabilità e ordine essi prosperano. Proprio perchè si trovano nella situazione di potersi fare bene gli “affari propri”, senza che qualche loro simile stia al governo.
Avete fatto caso al fatto che in i residenti e i nativi dell’espressione geografica conosciuta sotto il nome di Italia a fianco di una miriade di fantastiche e geniali piccole aziende e imprese non sono quasi mai riusciti a creare un colosso multinazionale? Pensateci bene. Esistono davvero gli Italiani. Io vorrei che esistessero, ma il che presupporrebbe una coscienza comune e una responsabilità civile collettiva, e siccome quello che vorrei io o che vorreste voi è irrilevante di fronte alla realtà dei fatti, probabilmente meglio sarebbe polverizzare l’espressione geografica generalmente conosciuta sotto il nome di “Repubblica Italiana” o “Italia” in molte entità con leggi proprie e più confacenti ai Clan e alle Famiglie o agli individui che le popolano. Per inciso esisterebbe un valido esempio, e non a caso li si è formato il grandioso pensiero del filosofo più rappresentativo della cultura media e mediana dei residenti nell’espressione geografica chiamata Italia. Tale grandioso filosofo giustamente siede in parlamento e dovrebbe presto essere fatto Senatore a vita. Il suo unico e semplice enunciato, che definisce alla perfezione 60 milioni di persone è: Te lo dico da amico, fatti li cazzi tuoi (Antonio Razzi docet)
Gli italiani non esistono. Siamo un grande mix genetico. Tranne i Sardi. La distribuzione genetica in Italia per linea paterna. La penisola dal punto di vista genetico è divisa da una linea che separa più Est da Ovest che Nord da Sud. L’unica che fa storia a sé è la Sardegna, scrive Luigi Ripamonti il 3 maggio 2018 su "Il Corriere della Sera". Gli Italiani? Non esistono. «Si tratta solo di un’aggregazione di tipo geografico. Abbiamo identità genetiche differenti, legate a storie e provenienze diverse e non solo a quelle» spiega Davide Pettener, antropologo del Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Bologna, che ha creato una banca di campioni di Dna per tracciare la storia genetica degli Italiani insieme a Donata Luiselli del Dipartimento di Beni Culturali di Ravenna e collaboratori, Lo studio rientra in un progetto mondiale finanziato dalla National Geographic Society.
Maschi e femmine. «Coinvolgendo i centri di donazione Avis abbiamo raccolto 3 mila campioni di sangue di italiani provenienti da tutte le regioni» racconta Pettener. «Di questi ne abbiamo per ora utilizzati circa 900. Ogni persona coinvolta doveva avere i 4 nonni provenienti dalla stessa provincia. I primi dati, pubblicati sulla rivista PlosOne, hanno riguardato i cosiddetti marcatori uniparentali: il cromosoma Y, trasmesso per via paterna e il Dna mitocondriale, per via materna». Risultato? «Si pensa in genere che la variabilità genetica in Italia segua un cambiamento graduale secondo un asse Nord-Sud— spiega l’esperto— Invece, dal punto di vista del cromosoma Y (linea paterna), emerge, a parte la Sardegna, un’Italia divisa secondo una linea più longitudinale, che separa una zona nord-occidentale da una sud-orientale. Ciò non si osserva però con il Dna mitocondriale (linea materna), che ha una distribuzione più omogenea, spiegabile con la maggiore mobilità femminile legata a pratiche matrimoniali che prevedevano lo spostamento della donna. Il quadro complessivo è frutto di spostamenti lungo due traiettorie diverse iniziati nel neolitico, con l’avvento delle tecnologie agricole e dell’allevamento, Nei periodi successivi è successo di tutto: Germani, Greci, Longobardi, Normanni, Svevi, Arabi sono passati lasciando i loro geni».
Malattie. La storia genetica degli Italiani, però, non è stata influenzata solo dalle migrazioni. Anche l’adattamento alle diverse pressioni selettive è stato determinante, influenzato la suscettibilità a malattie diverse. A sancirlo è un altro studio, pubblicato su Scientific Reports, coordinato dal gruppo di Antropologia Molecolare e Adattamento Umano del Dipartimento di Scienze Biologiche Geologiche e Ambientali (BiGeA) dell’Università di Bologna. «L’evoluzione delle popolazioni dell’Italia settentrionale è stata condizionata da un clima freddo, che ha reso necessaria una dieta molto calorica e grassa» spiega Marco Sazzini, ricercatore del BiGeA. «La selezione naturale ha favorito in queste popolazioni la diffusione di varianti genetiche in grado di modulare il metabolismo di trigliceridi e colesterolo e la sensibilità all’insulina, riducendo il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari e diabete. Clima diverso e contributo genetico di altre popolazioni mediterranee hanno fatto sì che gli abitanti dell’Italia centro-meridionale mantenessero più diffusamente varianti genetiche responsabili di una maggiore vulnerabilità a tali malattie». Oltre al clima e alla dieta un altro fattore che ha indirizzato gli adattamenti genetici degli Italiani, soprattutto in Sardegna e nell’Italia centro-meridionale sono le malattie infettive. In Sardegna, ad esempio, la malaria ha rappresentato una delle principali pressioni ambientali, mentre nel Sud la selezione naturale ha potenziato le risposte infiammatorie contro i batteri di tubercolosi e lebbra, le quali potrebbero però essere una delle cause evolutive alla base di una maggiore suscettibilità a patologie infiammatorie dell’intestino, come per esempio il morbo di Crohn.
Il caso della Sardegna. A proposito di Sardegna, un aspetto interessante di questi studi è quello relativo all’analisi delle popolazioni isolate. «I Sardi» sottolinea Pettener, «si differenziano da tutte le popolazioni italiane ed europee. Mentre la Sicilia è stata un hub per tutte le popolazioni mediterranee, la Sardegna conserva le più antiche tracce non avendo subito invasioni e si è differenziata da tutte le popolazioni europee al pari di Baschi e Lapponi. «Lo studio delle popolazioni isolate, come e più della Sardegna, per esempio come quella Arbëreshë (le popolazioni di lingua albanese stanziate in alcune zone del Sud), i Ladini, sparsi nelle valli delle Dolomiti, i Cimbri dell’Altopiano di Asiago o i Grichi e i Grecanici del Salento e della Calabria è interessante perché ci permette di vedere come eravamo, presumendo che ci siano stati pochi innesti nel tempo di Dna differente. Una vera macchina del tempo».
I cittadini italiani non esistono. Altro che Unità... La verità nei geni, scrive Venerdì, 10 gennaio 2014 Affari Italiani. Altro che Unità d'Italia. A leggere il dna degli italiani, sembra quasi che il Risorgimento non ci sia mai stato e che Garibaldi e i suoi Mille, girando per le campagne abbiamo fatto più un passeggiata che una conquista. Per non parlare poi del fenomeno immigrazione dal sud al nord d'inizio Novecento: nelle patrimonio dei cittadini tricolore, la massa che dal Meridione si è spostata nell'operoso nord non ha lasciato tracce. L'effetto che si scopre analizzando il dna degli italiani e che la diversità che c'è tra i sardi e le popolazioni delle Alpi è maggiore di quella che c'è tra portoghesi e ungherese, praticamente ortogonali nella geografia europea. Infine, ed è la “mazzata finale” per i teorici delle razze: difficile sostenere che esista un ceppo italico: a leggere le caratteristiche della nostra evoluzione, sembriamo uno dei Paesi in cui l'effetto straniero abbia maggiormente inciso. Insomma, un porto di mare per genti di tutte le razze. A rivelare che duecento anni di unioni e figli e un governo unico del Paese non hanno modificato granché il patrimonio individuale è uno studio coordinato dall'Università di Roma La Sapienza. Un team di ricercatori della Sapienza, coordinato dall’antropologo Giovanni Destro Bisol, in collaborazione con gruppi di ricerca delle Università di Bologna, Cagliari e Pisa, ha messo in luce che le popolazioni italiane sono estremamente eterogenee da un punto di vista genetico, tanto da poter paragonare la loro diversità a quella che si osserva tra gruppi che vivono agli angoli opposti dell’Europa. L'altra faccia del rovescio della medaglia dello studio è che almeno per quanto riguarda il patrimonio genetico siamo uno dei Paesi più ricchi d'Europa. Non aiuterà lo spread, ma almeno è un record positivo. Alla base di questa diversità c’è un motivo comune e cioè l’estrema estensione latitudinale dell’Italia. La varietà degli habitat che si trovano lungo la dorsale della nostra penisola favorisce la varietà di piante e animali ospitati nel nostro territorio. D’altro canto per le sue caratteristiche geografiche l’Italia sin da tempi antichissimi ha rappresentato un corridoio naturale per i flussi migratori provenienti sia dall’Europa centrale sia dal Mediterraneo: nel caso dell’uomo hanno contribuito alle diversità tra popolazioni anche le differenze culturali (in primis linguistiche), creando un ulteriore fattore di isolamento rispetto a quello geografico. In entrambi i casi, il risultato finale è la creazione di un “pattern” davvero unico in Europa. L’accento sull’importanza degli aspetti culturali non è casuale, ma deriva da quello che i ricercatori considerano un aspetto particolarmente originale del loro studio: avere incluso nell’indagine, oltre a popolazioni ampie e rappresentative di città o di grandi aree (ad esempio L’Aquila oppure Lazio), anche gruppi di antico insediamento come le “minoranze linguistiche” (Ladini, Cimbri, e Grecanici), portatrici di aspetti culturali e sociali peculiari nel panorama italiano. Sono proprio alcuni di questi gruppi, come nel caso delle comunità “paleogermanofone” e ladine delle Alpi oltre a gruppi della Sardegna, che contribuiscono in maniera determinante alla notevole diversità osservata in Italia. Un dato tra tutti: se si considerano ad esempio i caratteri trasmessi dalla madre ai figli di entrambi i sessi (e cioè il DNA mitocondriale), comparando la comunità germanofona di Sappada, nel Veneto settentrionale, con il suo gruppo vicinale del Cadore, o quella di Benetutti in Sardegna con la Sardegna settentrionale, l’insieme delle differenze genetiche calcolate è di 7-30 volte maggiore di quanto si osserva perfino tra coppie di popolazioni europee geograficamente 20 volte più distanti (come Portoghesi e Ungheresi oppure Spagnoli e Romeni). “I nostri dati - spiega Giovanni Destro Bisol che ha curato la ricerca – testimoniamo come fenomeni migratori e processi di isolamento che hanno coinvolto le minoranze linguistiche, per la maggior parte insediatesi nel nostro territorio prevalentemente tra il medioevo e il diciannovesimo secolo, abbiano lasciato testimonianza non solamente nei loro aspetti culturali (alloglossia, aspetti della tradizioni e del folklore,) ma anche nella loro struttura genetica”. “Questo studio ci lascia anche una riflessione che va aldilà della dimensione strettamente scientifica e investe l’attualità” conclude Destro Bisol “…sapere che l’Italia, indipendentemente dai flussi migratori recenti, è stata ed è tuttora terra di notevole diversità sia culturale che genetica, può aiutarci ad affrontare in maniera più serena un futuro pieno di occasioni di incontro con i portatori di nuove e diverse identità”.
Gli italiani non esistono, scrive l'11 aprile 2010 Eva Danese. Ho deciso di rendere nota la mia traduzione di un articolo svedese riguardante l’Italia, pubblicato poco prima delle nostre elezioni regionali. Perché ho deciso di sottoporlo alla vostra attenzione? Prima di tutto, perché può essere sempre interessante conoscere punti di vista esterni o alternativi su qualsiasi situazione, compresa quella italiana. Secondo, per stimolare in voi una riflessione e magari, perché no, per conoscere le vostre sensazioni a riguardo. Che ve ne pare? Buona lettura!
“Gli italiani non esistono” di Kristina Kappelin, pubblicato il 27 marzo 2010 sul quotidiano svedese “Sydsvenskan”. Il treno da Salerno a Roma è ovviamente in ritardo. Quando finalmente entra in stazione è infinitamente lento. E’ partito da Palermo stamattina alle sette. Ora sono le quattro del pomeriggio. Praticamente è avanzato sui malridotti binari a una velocità media di 80 kilometri orari. Le cabine sono degradate e i sedili così sporchi che quasi si è restii sedersi. La situazione rispecchia il razzismo che ancora esiste in Italia. I ferrivecchi servono per i viaggi verso il sud, mentre i vagoni nuovi e belli si dirigono da Roma verso il nord. Ci sono voluti anni e anni per fare arrivare il treno rapido Eurostar a Napoli e a Bari. Eppure va ancora più lentamente nella tratta Milano-Torino. “L’Italia è fatta. Ora dobbiamo fare gli italiani”. Più o meno così scrisse il capo di stato Massimo d’Azeglio nel 1860. È ancora vero. Gli italiani si sentono patrioti solamente in occasione dei mondiali o delle olimpiadi. Altrimenti sono ancora prima di tutto siciliani, lombardi o veneziani. Si noti che gli sportivi italiani non gareggiano indossando i colori della bandiera italiana, ma l’azzurro, il “blu Savoia”, un tempo il colore della famiglia reale. Insomma, quanto sono uniti gli italiani? Il paese si prepara a celebrare i suoi primi 150 come nazione il prossimo anno. La dichiarazione di unità è datata 17 marzo 1861. Il conto alla rovescia è già cominciato. Uno dei siti prescelti per i festeggiamenti è Torino. La città fu la capitale durante i primi quattro anni. Divenne anche rapidamente il centro industriale del paese, più che altro grazie alla Fiat. Quando coloro che cercavano lavoro dal sud prendevano il treno verso il nord per trovarne impiego nelle fabbriche di automobili, si andavano a scontrare con il dramma degli italiani che non erano ancora “fatti”. Il lavoro lo ottenevano. La residenza andava male. “Stanze in affitto, ma non ai cani e ai meridionali” si vedeva scritto su molti cartelli. Torino è il capoluogo del Piemonte. Quando l’Italia nel fine settimana andrà al voto per le regionali, avrà fra i candidati Roberto Cota, del partito settentrionale “Lega Nord”. Il partito conduce una politica contro gli extracomunitari così come contro i meridionali e vuole fare dell’Italia uno stato federale. Il sogno è che il nord Italia diventi un piccolo regno a sé, con il fiume Po come confine meridionale. Cota ha buone probabilità di vincere. La Lega Nord potrebbe prendere il posto del partito di Berlusconi, il Popolo della Libertà, nelle regioni del nord. Gli italiani, fino ad oggi, non sono ancora stati “fatti”. Mentre il vecchio treno lentamente si avvicina a Roma, vedo il paesaggio campano, con le sue costruzioni abusive, e i mucchi di spazzatura fra i peschi in fiore. L’Italia del sud avrebbe avuto lo stesso problema di criminalità organizzata oggi se gli italiani fossero stati “fatti”, se tutto il paese si riconoscesse nella Costituzione, se la politica fosse considerata giusta e i politici onesti? La bandiera italiana sventola sulla stazione di Formia. È verde, bianca e rossa come il basilico, la mozzarella e il pomodoro. Una cosa sulla quale la maggior parte degli italiani vanno d’accordo.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
Dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Il Potere ti impone: subisci e taci…e noi, coglioni, subiamo la divisione per non poterci ribellare.
Il limite del tempo e dell'uomo, scrive Vittorio Sgarbi, Giovedì 28/12/2017, su "Il Giornale". «Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l'una di non saper nulla, l'altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte». Un pensiero di Leopardi dallo Zibaldone. Inadatto al clima natalizio, ma terribilmente vero. Forse la forza di un pensiero così chiaro dissolve le nostre illusioni, ma ci impegna a dimenticarlo, per fingere che la nostra vita abbia un senso. Perché vivere altrimenti? L'insensatezza della nostra azione si misura con la brevità del tempo. Da tale pensiero è sfiorato anche Dante, che non dubitava di Dio, ma misurava il nostro limite rispetto al tempo: «Se tu riguardi Luni e Urbisaglia/come sono ite e come se ne vanno/di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,/udir come le schiatte si disfanno/non ti parrà nuova cosa né forte,/poscia che le cittadi termine hanno./Le vostre cose tutte hanno lor morte,/sì come voi; ma celasi in alcuna/che dura molto, e le vite son corte». Se tutto finisce, perché noi dovremmo sopravviverci? E se ci fosse qualcosa dopo la morte, che limite dovremmo porvi? I nati e i morti, prima di Cristo, gli egizi e i greci, con le loro religioni, che spazio dovrebbero avere, nell'aldilà che non potevano presumere? La vita dopo la morte toccherebbe anche agli inconsapevoli? Con Dante e Leopardi, all'inferno incontreremo anche Marziale e Catullo? O la vita oltre la morte non sono già, come per Leopardi, i loro versi?
Una locuzione latina, un motto degli antichi romani, è: dividi et impera! Espediente fatto proprio dal Potere contemporaneo, dispotico e numericamente modesto, per controllare un popolo, provocando rivalità e fomentando discordie.
Comunisti, e media a loro asserviti, istigano le rivalità.
Dove loro vedono donne o uomini, io vedo persone con lo stesso problema.
Dove loro vedono lgbti o eterosessuali, io vedo amanti con lo stesso problema.
Dove loro vedono bellezza o bruttezza, io vedo qualcosa che invecchierà con lo stesso problema.
Dove loro vedono madri o padri, io vedo genitori con lo stesso problema.
Dove loro vedono comunisti o fascisti, io vedo elettori con lo stesso problema.
Dove loro vedono settentrionali o meridionali, io vedo cittadini italiani con lo stesso problema.
Dove loro vedono interisti o napoletani, io vedo tifosi con lo stesso problema.
Dove loro vedono ricchi o poveri, io vedo contribuenti con lo stesso problema.
Dove loro vedono immigrati o indigeni, io vedo residenti con lo stesso problema.
Dove loro vedono pelli bianche o nere, io vedo individui con lo stesso problema.
Dove loro vedono cristiani o mussulmani, io vedo gente che nasce senza volerlo, muore senza volerlo e vive una vita di prese per il culo.
Dove loro vedono colti od analfabeti, io vedo discultura ed oscurantismo, ossia ignoranti con lo stesso problema.
Dove loro vedono grandi menti o grandi cazzi, io vedo geni o cazzoni con lo stesso problema.
Gattopardismo. Vocabolario on line Treccani. Gattopardismo s. m. (anche, meno comunem., gattopardite s. f.). – Nel linguaggio letterario e giornalistico, l’atteggiamento (tradizionalmente definito come trasformismo) proprio di chi, avendo fatto parte del ceto dominante o agiato in un precedente regime, si adatta a un nuova situazione politica, sociale o economica, simulando d’esserne promotore o fautore, per poter conservare il proprio potere e i privilegi della propria classe. Il termine, così come la concezione e la prassi che con esso vengono espresse, è fondato sull’affermazione paradossale che «tutto deve cambiare perché tutto resti come prima», che è l’adattamento più diffuso con cui viene citato il passo che nel romanzo Il Gattopardo (v. la voce prec.) si legge testualmente in questa forma «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» (chi pronuncia la frase non è però il principe di Salina ma suo nipote Tancredi).
Se questa è democrazia…
I nostri politici sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti.
I liberali sono una parte politica atea e senza ideologia. Credono solo nella libertà, il loro principio fondante ed unico, che vieta il necessario e permette tutto a tutti, consentendo ai poveri, se capaci, di diventare ricchi. Io sono un liberale ed i liberali, sin dall’avvento del socialismo, sono mal tollerati perché contro lobbies e caste di incapaci. Con loro si avrebbe la meritocrazia, ma sono osteggiati dai giornalisti che ne inibiscono la visibilità.
I popolari (o populisti) sono la maggiore forza politica fondata sull’ipocrisia e sulle confessioni religiose. Vietano tutto, ma, allo stesso tempo, perdonano tutto, permettendo, di fatto, tutto a tutti. Sono l’emblema del gattopardismo. Con loro non cambia mai niente. Loro sono l’emblema del familismo, della raccomandazione e della corruzione, forte merce di scambio alle elezioni. Si infiltrano spesso in altre fazioni politiche impedendone le loro peculiari politiche ed agevolano il voltagabbanesimo.
I socialisti (fascisti e derivati; comunisti e derivati) sono una forza politica ideologica e confessionale di natura scissionista e frammentista e falsamente moralista, a carattere demagogico ed ipocrita. Cattivi, invidiosi e vendicativi. La loro confessione, più che ideologia, si fonda sul lavoro, sulle tasse e sul fisco. Rappresenterebbe la classe sociale meno abbiente. Illude i poveri di volerli aiutare, carpendone i voti fiduciari, ma, di fatto, impedisce loro la scalata sociale, livellando in basso la società civile, verso un progressivo decadimento, in quanto vieta tutto a tutti, condanna tutto e tutti, tranne a se stessi. Si caratterizzano dalla abnorme produzione normativa di divieti e sanzioni, allargando in modo spropositato il tema della legalità, e dal monopolio culturale. Con loro cambierebbe in peggio, in quanto inibiscono ogni iniziativa economica e culturale, perché, senza volerlo si vivrebbe nell’illegalità, ignorando, senza colpa, un loro dettato legislativo, incorrendo in inevitabili sanzioni, poste a sostentare il parassitismo statale con la prolificazione di enti e organi di controllo e con l’allargamento dell’apparato amministrativo pubblico. L’idea socialista ha infestato le politiche comunitarie europee.
Per il poltronificio l’ortodossia ideologica ha ceduto alla promiscuità ed ha partorito un sistema spurio e depravato, producendo immobilismo, oppressione fiscale, corruzione e raccomandazione, giustizialismo ed odio/razzismo territoriale.
La gente non va a votare perché il giornalismo prezzolato e raccomandato propaganda i vecchi tromboni e la vecchia politica, impedendo la visibilità alle nuove idee progressiste. La Stampa e la tv nasconde l’odio della gente verso questi politici. Propagandano come democratica l’elezione di un Parlamento votato dalla metà degli elettori Ed un terzo di questo Parlamento è formato da un movimento di protesta. Quindi avremo un Governo di amministratori (e non di governanti) che rappresenta solo la promiscuità, e la loro riconoscente parte amicale, ed estremamente minoritaria.
Se questa è democraziaQuesto non lo dico io…Giorgio Gaber: In un tempo senza ideali nè utopia, dove l'unica salvezza è un'onorevole follia...Testo Destra-Sinistra - 1995/1996
Le parole, definiscono il mondo, se non ci fossero le parole, non avemmo la possibilità di parlare, di niente. Ma il mondo gira, e le parole stanno ferme, le parole si logorano invecchiano, perdono di senso, e tutti noi continuiamo ad usarle, senza accorgerci di parlare, di niente.
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa è nostra
è evidente che la gente è poco seria
quando parla di sinistra o destra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Fare il bagno nella vasca è di destra
far la doccia invece è di sinistra
un pacchetto di Marlboro è di destra
di contrabbando è di sinistra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Una bella minestrina è di destra
il minestrone è sempre di sinistra
quasi tutte le canzoni son di destra
se annoiano son di sinistra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Le scarpette da ginnastica o da tennis
hanno ancora un gusto un po’ di destra
ma portarle tutte sporche e un po’ slacciate
è da scemi più che di sinistra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
I blue-jeans che sono un segno di sinistra
con la giacca vanno verso destra
il concerto nello stadio è di sinistra
i prezzi sono un po’ di destra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
La patata per natura è di sinistra
spappolata nel purè è di destra
la pisciata in compagnia é di sinistra
il cesso é sempre in fondo a destra.
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
La piscina bella azzurra e trasparente
è evidente che sia un po’ di destra
mentre i fiumi tutti i laghi e anche il mare
sono di merda più che sinistra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
L’ideologia, l’ideologia
malgrado tutto credo ancora che ci sia
è la passione l’ossessione della tua diversità
che al momento dove è andata non si sa
dove non si sa dove non si sa.
Io direi che il culatello è di destra
la mortadella è di sinistra
se la cioccolata svizzera é di destra
la nutella é ancora di sinistra.
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
La tangente per natura è di destra
col consenso di chi sta a sinistra
non si sa se la fortuna sia di destra
la sfiga è sempre di sinistra.
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Il saluto vigoroso a pugno chiuso
è un antico gesto di sinistra
quello un po’ degli anni '20 un po’ romano
è da stronzi oltre che di destra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
L’ideologia, l’ideologia
malgrado tutto credo ancora che ci sia
è il continuare ad affermare un pensiero e il suo perché
con la scusa di un contrasto che non c’è
se c'é chissà dov'è se c'é chissà dov'é.
Canticchiar con la chitarra è di sinistra
con il karaoke è di destra
I collant son quasi sempre di sinistra
il reggicalze é più che mai di destra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
La risposta delle masse è di sinistra
con un lieve cedimento a destra
Son sicuro che il bastardo è di sinistra
il figlio di puttana è a destra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Una donna emancipata è di sinistra
riservata è già un po’ più di destra
ma un figone resta sempre un’attrazione
che va bene per sinistra o destra.
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa é nostra
é evidente che la gente é poco seria
quando parla di sinistra o destra.
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Destra sinistra
Destra sinistra
Destra sinistra
Destra sinistra
Destra sinistra
Basta!
Dall'album E Pensare Che C'era Il Pensiero.
E comunque non siamo i soli a dirlo…Rino Gaetano Nuntereggae più, 1978.
Nuntereggae più
Abbasso e alè (NUNTEREGGAEPIU')
abbasso e alè (NUNTEREGGAEPIU')
abbasso e alè con le canzoni
senza fatti e soluzioni
la castità (NUNTEREGGAEPIU')
la verginità (NUNTEREGGAEPIU')
la sposa in bianco, il maschio forte
i ministri puliti, i buffoni di corte
ladri di polli
super pensioni (NUNTEREGGAEPIU')
ladri di stato e stupratori
il grasso ventre dei commendatori
diete politicizzate
evasori legalizzati (NUNTEREGGAEPIU')
auto blu
sangue blu
cieli blu
amore blu
rock and blues
NUNTEREGGAEPIU'
Eja alalà (NUNTEREGGAEPIU')
pci psi (NUNTEREGGAEPIU')
dc dc (NUNTEREGGAEPIU')
pci psi pli pri
dc dc dc dc
Cazzaniga (NUNTEREGGAEPIU')
Avvocato Agnelli, Umberto Agnelli
Susanna Agnelli, Monti, Pirelli
dribbla Causio che passa a Tardelli
Musiello, Antognoni, Zaccarelli (NUNTEREGGAEPIU')
Gianni Brera (NUNTEREGGAEPIU')
Bearzot (NUNTEREGGAEPIU')
Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio
Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno
Villaggio, Raffa, Guccini
onorevole eccellenza, cavaliere senatore
nobildonna, eminenza, monsignore
vossia, cherie, mon amour
NUNTEREGGAEPIU'
Immunità parlamentare (NUNTEREGGAEPIU')
abbasso e alè
il numero 5 sta in panchina
s'è alzato male stamattina
mi sia consentito dire (NUNTEREGGAEPIU')
il nostro è un partito serio
disponibile al confronto
nella misura in cui
alternativo
aliena ogni compromess
ahi lo stress
Freud e il sess
è tutto un cess
ci sarà la ress
se quest'estate andremo al mare
solo i soldi e tanto amore
e vivremo nel terrore che ci rubino l'argenteria
è più prosa che poesia
dove sei tu? non m'ami più?
dove sei tu? io voglio tu
soltanto tu dove sei tu?
NUNTEREGGAEPIU'
Uè paisà (NUNTEREGGAEPIU')
il bricolage (NUNTEREGGAEPIU')
il quindici-diciotto
il prosciutto cotto
il quarantotto
il sessantotto
le pitrentotto
sulla spiaggia di Capocotta
(Cartier Cardin Gucci)
Portobello e illusioni
lotteria trecento milioni
mentre il popolo si gratta
a dama c'è chi fa la patta
a settemezzo c'ho la matta
mentre vedo tanta gente
che non c'ha l'acqua corrente
non c'ha niente
ma chi me sente
ma chi me sente
e allora amore mio ti amo
che bella sei
vali per sei
ci giurerei
ma è meglio lei
che bella sei
che bella lei
ci giurerei
sei meglio tu
che bella sei
che bella sei
NUNTEREGGAEPIU'
L’astensione al voto non basta. Come la protesta non può essere delegata ad una accozzaglia improvvisata ed impreparata. Bisogna fare tabula rasa dei vecchi principi catto comunisti, filo massonici-mafiosi.
Noi siamo un unicum con i medesimi problemi, che noi stessi, conoscendoli, possiamo risolvere. In caso contrario un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.
Ed io non sarò tra quei coglioni che voteranno dei coglioni.
La legalità è un comportamento conforme alla legge. Legalità e legge sono facce della stessa medaglia.
Nei regimi liberali l’azione normativa per intervento statale, per regolare i rapporti tra Stato e cittadino ed i rapporti tra cittadini, è limitata. Si lascia spazio all’evolvere naturale delle cose. La devianza è un’eccezione, solo se dannosa per l'equilibrio sociale.
Nei regimi socialisti/comunisti/populisti l’intervento statale è inflazionato da miriadi di leggi, oscure e sconosciute, che regolano ogni minimo aspetto della vita dell’individuo, che non è più singolo, ma è massa. Il cittadino diventa numero di pratica amministrativa, di cartella medica, di fascicolo giudiziario. Laddove tutti si sentono onesti ed occupano i posti che stanno dalla parte della ragione, c’è sempre quello che si sente più onesto degli altri, e ne limita gli spazi. In nome di una presunta ragion di Stato si erogano miriadi di norme sanzionatrici limitatrici di libertà, spesso contrastati, tra loro e tra le loro interpretazioni giurisprudenziali. Nel coacervo marasma normativo è impossibile conformarsi, per ignoranza o per necessità. Ne è eccezione l'indole. Addirittura il legislatore è esso medesimo abusivo e dichiarato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale, ritenuto deviante dalla suprema Carta. Le leggi partorite da un Parlamento illegale, anch'esse illegali, producono legalità sanzionatoria. Gli operatori del diritto manifestano pillole di competenza e perizia pur essendo essi stessi cooptati con concorsi pubblici truccati. In questo modo aumentano i devianti e si è in pochi ad essere onesti, fino alla assoluta estinzione. In un mondo di totale illegalità, quindi, vi è assoluta impunità, salvo l'eccezione del capro espiatorio, che ne conferma la regola. Ergo: quando tutto è illegale, è come se tutto fosse legale.
L’eccesso di zelo e di criminalizzazione crea un’accozzaglia di organi di controllo, con abuso di burocrazia, il cui rimedio indotto per sveltirne l’iter è la corruzione.
Gli insani ruoli, politici e burocratici, per giustificare la loro esistenza, creano criminali dove non ne esistono, per legge e per induzione.
Ergo: criminalizzazione = burocratizzazione = tassazione-corruzione.
Allora, si può dire che è meglio il laissez-faire (il lasciare fare dalla natura delle cose e dell’animo umano) che essere presi per il culo e …ammanettati per i polsi ed espropriati dai propri beni da un manipolo di criminali demagoghi ed ignoranti con un’insana sete di potere.
Prendiamo per esempio il fenomeno cosiddetto dell'abusivismo edilizio, che è elemento prettamente di natura privata. I comunisti da sempre osteggiano la proprietà privata, ostentazione di ricchezza, e secondo loro, frutto di ladrocinio. Sì, perchè, per i sinistri, chi è ricco, lo è perchè ha rubato e non perchè se lo è guadagnato per merito e per lavoro.
Il perchè al sud Italia vi è più abusivismo edilizio (e per lo più tollerato)? E’ presto detto. Fino agli anni '50 l'Italia meridionale era fondata su piccoli borghi, con case di due stanze, di cui una adibita a stalla. Paesini da cui all’alba si partiva per lavorare nelle o presso le masserie dei padroni, per poi al tramonto farne ritorno. La masseria generalmente non era destinata ad alloggio per i braccianti.
Al nord Italia vi erano le Cascine a corte o Corti coloniche, che, a differenza delle Masserie, erano piccoli agglomerati che contenevano, oltre che gli edifici lavorativi e magazzini, anche le abitazioni dei contadini. Quei contadini del nord sono rimasti tali. Terroni erano e terroni son rimasti. Per questo al Nord non hanno avuto la necessità di evolversi urbanisticamente. Per quanto riguardava gli emigrati bastava dargli una tana puzzolente.
Al Sud, invece, quei braccianti sono emigrati per essere mai più terroni. Dopo l'ondata migratoria dal sud Italia, la nuova ricchezza prodotta dagli emigranti era destinata alla costruzione di una loro vera e bella casa in terra natia, così come l'avevano abitata in Francia, Germania, ecc.: non i vecchi tuguri dei borghi contadini, nè gli alveari delle case ringhiera o dei nuovi palazzoni del nord Italia. Inoltre quei braccianti avevano imparato un mestiere, che volevano svolgere nel loro paese di origine, quindi avevano bisogno di costruire un fabbricato per adibirlo a magazzino o ad officina. Ma la volontà di chi voleva un bel tetto sulla testa od un opificio, si scontrava e si scontra con la immensa burocrazia dei comunisti ed i loro vincoli annessi (urbanistici, storici, culturali, architettonici, archeologici, artistici, ambientali, idrogeologici, di rispetto, ecc.), che inibiscono ogni forma di soluzione privata. Ergo: per il diritto sacrosanto alla casa ed al lavoro si è costruito, secondo i canoni di sicurezza e di vincoli, ma al di fuori del piano regolatore generale (Piano Urbanistico) inesistente od antico, altrimenti non si potrebbe sanare con ulteriori costi sanzionatori che rende l’abuso antieconomico. Per questo motivo si pagano sì le tasse per una casa od un opificio, che la burocrazia intende abusivo, ma che la stessa burocrazia non sana, nè dota quelle costruzioni, in virtù delle tasse ricevute e a tal fine destinate, di infrastrutture primarie: luce, strade, acqua, gas, ecc.. Da qui, poi, nasce anche il problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Burocrazia su Burocrazia e gente indegna ed incapace ad amministrarla.
Per quanto riguarda, sempre al sud, l'abusivismo edilizio sulle coste, non è uno sfregio all'ambiente, perchè l'ambiente è una risorsa per l'economia, ma è un tentativo di valorizzare quell’ambiente per far sviluppare il turismo, come fonte di sviluppo sociale ed economico locale, così come in tutte le zone a vocazione turistica del mediterraneo, che, però, la sinistra fa fallire, perchè ci vuole tutti poveri e quindi, più servili e assoggettabili. L'ambientalismo è una scusa, altrimenti non si spiega come al nord Italia si possa permettere di costruire o tollerare costruzioni alle pendici dei monti, o nelle valli scoscese, con pericolo di frane ed alluvioni, ma per gli organi di informazione nazionale, prevalentemente nordisti e razzisti e prezzolati dalla sinistra, è un buon viatico, quello del tema dell'abusivismo e di conseguenza della criminalità che ne consegue, o di quella organizzata che la si vede anche se non c'è o che è sopravalutata, per buttare merda sulla reputazione dei meridionali.
Prima della rivoluzione francese “L’Ancien Régime” imponeva: ruba ai poveri per dare ai ricchi.
Erano dei Ladri!!!
Dopo, con l’avvento dei moti rivoluzionari del proletariato e la formazione ideologica/confessionale dei movimenti di sinistra e le formazioni settarie scissioniste del comunismo e del fascismo, si impose il regime contemporaneo dello stato sociale o anche detto stato assistenziale (dall'inglese welfare state). Lo stato sociale è una caratteristica dei moderni stati di diritto che si fondano sul presupposto e inesistente principio di uguaglianza, in quanto possiamo avere uguali diritti, ma non possiamo essere ritenuti tutti uguali: c’è il genio e l’incapace, c’è lo stakanovista e lo scansafatiche, l’onesto ed il deviante. Il capitale di per sé produce reddito, anche senza il fattore lavoro. Lavoro e capitale messi insieme, producono ricchezza per entrambi. Il lavoro senza capitale non produce ricchezza. Il ritenere tutti uguali è il fondamento di quasi tutte le Costituzioni figlie dell’influenza della rivoluzione francese: Libertà, Uguaglianza, Solidarietà. Senza questi principi ogni stato moderno non sarebbe possibile chiamarlo tale. Questi Stati non amano la meritocrazia, né meritevoli sono i loro organi istituzionali e burocratici. Il tutto si baratta con elezioni irregolari ed a larga astensione e con concorsi pubblici truccati di cooptazione. In questa specie di democrazia vige la tirannia delle minoranze. L’egualitarismo è una truffa. E’ un principio velleitario detto alla “Robin Hood”, ossia: ruba ai ricchi per dare ai poveri.
Sono dei ladri!!!
Tra l’antico regime e l’odierno sistema quale è la differenza?
Sempre di ladri si tratta. Anzi oggi è peggio. I criminali, oggi come allora, saranno coloro che sempre si arricchiranno sui beoti che li acclamano, ma oggi, per giunta, ti fanno intendere di fare gli interessi dei più deboli.
Non diritto al lavoro, che, come la manna, non cade dal cielo, ma diritto a creare lavoro. Diritto del subordinato a diventare titolare. Ma questo principio di libertà rende la gente libera nel produrre lavoro e ad accumulare capitale. La “Libertà” non è statuita nell’articolo 1 della nostra Costituzione catto comunista. Costituzioni che osannano il lavoro, senza crearne, ma foraggiano il capitale con i soldi dei lavoratori.
Le confessioni comuniste/fasciste e clericali ti insegnano: chiedi e ti sarà dato e comunque, subisci e taci!
Io non voglio chiedere niente a nessuno, specie ai ladri criminali e menzogneri, perché chi chiede si assoggetta e si schiavizza nella gratitudine e nella riconoscenza.
Una vita senza libertà è una vita di merda…
Cultura e cittadinanza attiva. Diamo voce alla piccola editoria indipendente.
Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Una lettura alternativa per l’estate, ma anche per tutto l’anno. L’autore Antonio Giangrande: “Conoscere per giudicare”.
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI.
La collana editoriale indipendente “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” racconta un’Italia inenarrabile ed inenarrata.
È così, piaccia o no ai maestrini, specie quelli di sinistra. Dio sa quanto gli fa torcere le budella all’approcciarsi del cittadino comune, ai cultori e praticanti dello snobismo politico, imprenditoriale ed intellettuale, all’élite che vivono giustificatamente separati e pensosi, perennemente con la puzza sotto il naso.
Il bello è che, i maestrini, se è contro i loro canoni, contestano anche l’ovvio.
Come si dice: chi sa, fa; chi non sa, insegna.
In Italia, purtroppo, vigono due leggi.
La prima è la «meritocrazia del contenuto». Secondo questa regola tutto quello che non è dichiaratamente impegnato politicamente è materia fecale. La conseguenza è che, per dimostrare «l'impegno», basta incentrare tutto su un contenuto e schierarsene ideologicamente a favore: mafia, migranti, omosessualità, ecc. Poi la forma non conta, tantomeno la realtà della vita quotidiana. Da ciò deriva che, se si scrive in modo neutro (e quindi senza farne una battaglia ideologica), si diventa non omologato, quindi osteggiato o emarginato o ignorato.
La seconda legge è collegata alla prima. La maggior parte degli scrittori nostrani si è fatta un nome in due modi. Primo: rompendo le balle fin dall'esordio con la superiorità intellettuale rispetto alle feci che sarebbero i «disimpegnati».
Secondo modo per farsi un nome: esordire nella medietà (cioè nel tanto odiato nazional-popolare), per poi tentare il salto verso la superiorità.
Il copione lo conosciamo: a ogni gaffe di cultura generale scatta la presa in giro. Il problema è che a perderci sono proprio loro, i maestrini col ditino alzato. Perché è meno grave essere vittime dello scadimento culturale del Paese che esserne responsabili. Perché, nonostante le gaffe conclamate e i vostri moti di sdegno e scherno col ditino alzato su congiuntivi, storia e geografia, gli errori confermano a pieno titolo come uomini di popolo, gente comune, siano vittime dello scadimento culturale del Paese e non siano responsabili di una sub cultura menzognera omologata e conforme. Forse alla gente comune rompe il cazzo il sentire le prediche e le ironie di chi - lungi dall’essere anche solo avvicinabile al concetto di élite - pensa di saperne un po’ di più. Forse perché ha avuto insegnanti migliori, o un contesto famigliare un po’ più acculturato, o il tempo di leggere qualche libro in più. O forse perchè ha maggior dose di presunzione ed arroganza, oppure occupa uno scranno immeritato, o gli si dà l’opportunità mediatica immeritata, che gli dà un posto in alto e l’opportunità di vaneggiare.
Non c'è nessun genio, nessun accademico tra i maestrini. Del resto, mai un vero intellettuale si permetterebbe di correggere una citazione errata, tantomeno di prenderne in giro l'autore. Solo gente normale con una cultura normale pure loro, con una alta dose di egocentrismo, cresciuti a pane, magari a videocassette dell’Unità di Veltroni e citazioni a sproposito di Pasolini. Maestrini che vedono la pagliuzza negli occhi altrui, pagliuzza che spesso non c'è neppure, e non hanno coscienza della trave nei loro occhi o su cui sono appoggiati.
Intervista all’autore, il dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
«Quando ero piccolo a scuola, come in famiglia, mi insegnavano ad adempiere ai miei doveri: studiare per me per sapere; lavorare per la famiglia; assolvere la leva militare per la difesa della patria; frequentare la chiesa ed assistere alla messa domenicale; ascoltare i saggi ed i sapienti per imparare, rispettare il prossimo in generale ed in particolare i più grandi, i piccoli e le donne, per essere rispettato. La visita giornaliera ai nonni ed agli zii era obbligatoria perché erano subgenitori. I cugini erano fratelli. Il saluto preventivo agli estranei era dovuto. Ero felice e considerato. L'elargizione dei diritti era un premio che puntuale arrivava. Contava molto di più essere onesti e solidali che non rivendicare o esigere qualcosa che per legge o per convenzione ti spettava. Oggi: si pretende (non si chiede) il rispetto del proprio (e non dell'altrui) diritto, anche se non dovuto; si parla sempre con imposizione della propria opinione; si fa a meno di studiare e lavorare o lo si impedisce di farlo, come se fosse un dovere, più che un diritto; la furbizia per fottere il prossimo è un dono, non un difetto. Non si ha rispetto per nessun'altro che non sia se stesso. Non esiste più alcun valore morale. Non c'è più Stato; nè Famiglia; nè religione; nè amicizia. Sui social network, il bar telematico, sguazzano orde di imbecilli. Quanto più amici asocial si hanno, più si è soli. Questa è l'involuzione della specie nella società moderna liberalcattocomunista».
Quindi, oggi, cosa bisogna sapere?
«Non bisogna sapere, ma è necessario saper sapere. Cosa voglio dire? Affermo che non basta studiare il sapere che gli altri od il Sistema ci propinano come verità e fermarci lì, perché in questo caso diveniamo quello che gli altri hanno voluto che diventassimo: delle marionette. E’ fondamentale cercare il retro della verità propinata, ossia saper sapere se quello che sistematicamente ci insegnano non sia una presa per il culo. Quindi se uno già non sa, non può effettuare la verifica con un ulteriore sapere di ricerca ed approfondimento. Un esempio per tutti. Quando si studia giurisprudenza non bisogna fermarsi alla conoscenza della norma ed eventualmente alla sua interpretazione. Bisogna sapere da chi e con quale maggioranza ideologica e perchè è stata promulgata o emanata e se, alla fine, sia realmente condivisa e rispettata. Bisogna conoscere il retro terra per capirne il significato: se è stata emessa contro qualcuno o a favore di qualcun'altro; se è pregna di ideologia o adottata per interesse di maggioranza di Governo; se è un'evoluzione storica distorsiva degli usi e dei costumi nazionali o influenzata da pregiudizi, o sia una conformità alla legislazione internazionale lontana dalla nostra cultura; se è stata emanata per odio...L’odio è un sentimento di rivalsa verso gli altri. Dove non si arriva a prendere qualcosa si dice che non vale. E come quel detto sulla volpe che non riuscendo a prendere l’uva disse che era acerba. Nel parlare di libertà la connessione va inevitabilmente ai liberali ed alla loro politica di deburocratizzazione e di delegificazione e di liberalizzazione nelle arti, professioni e nell’economia mirante all’apoteosi della meritocrazia e della responsabilità e non della inadeguatezza della classe dirigente. Lo statalismo è una stratificazione di leggi, sanzioni e relativi organi di controllo, non fini a se stessi, ma atti ad alimentare corruttela, ladrocinio, clientelismo e sopraffazione dei deboli e degli avversari politici. Per questo i liberali sono una razza in estinzione: non possono creare consenso in una massa abituata a pretendere diritti ed a non adempiere ai doveri. Fascisti, comunisti e clericali sono figli degeneri di una stessa madre: lo statalismo ed il centralismo. Si dicono diversi ma mirano tutti all’assistenzialismo ed alla corruzione culturale per influenzare le masse: Panem et circenses (letteralmente «pane e [giochi] circensi») è una locuzione latina piuttosto nota e spesso citata, usata nell'antica Roma e al giorno d'oggi per indicare in sintesi le aspirazioni della plebe (nella Roma di età imperiale) o della piccola borghesia, o d'altro canto in riferimento a metodi politici bassamente demagogici. Oggi la politica non ha più credibilità perchè non è scollegata dall’economia e dalle caste e dalle lobbies che occultamente la governano, così come non sono più credibili i loro portavoce, ossia i media di regime, che tanto odiano la "Rete". Internet, ormai, oggi, è l'unico strumento che permette di saper sapere, dando modo di scoprire cosa c'è dietro il fronte della medaglia, ossia cosa si nasconda dietro le fake news (bufale) di Stato o dietro la discultura e l'oscurantismo statalista».
Cosa racconta nei suoi libri?
«Sono un centinaio di saggi di inchiesta composti da centinaia di pagine, che raccontano di un popolo difettato che non sa imparare dagli errori commessi. Pronto a giudicare, ma non a giudicarsi. I miei libri raccontato l’indicibile. Scandali, inchieste censurate, storie di ordinaria ingiustizia, di regolari abusi e sopraffazioni e di consueta omertà. Raccontano, attraverso testimonianze e documenti, per argomento e per territorio, i tarli ed i nei di una società appiattita che aspetta il miracolo di un cambiamento che non verrà e che, paradosso, non verrà accettato. In più, come chicca editoriale, vi sono i saggi con aggiornamento temporale annuale, pluritematici e pluriterritoriali. Tipo “Selezione dal Reader’s Digest”, rivista mensile statunitense per famiglie, pubblicata in edizione italiana fino al 2007. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi nei saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali di distribuzione internazionale in forma Book o E-book. Canali di pubblicazione e di distribuzione come Amazon o Google libri. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche. I testi hanno una versione video sui miei canali youtube».
Qual è la reazione del pubblico?
«Migliaia sono gli accessi giornalieri alle letture gratuite di parti delle opere su Google libri e decine di migliaia sono le pagine lette ogni giorno. Accessi da tutto il mondo, nonostante il testo sia in lingua italiana e non sia un giornale quotidiano. Si troveranno, anche, delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato».
Perché è poco conosciuto al grande pubblico generalista?
«Perché sono diverso. Oggi le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili sono emarginati o ignorati. Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo. Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso. Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte. Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”».
Qual è la sua missione?
«“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente…Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili”. Citazioni di Bertolt Brecht. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Perché è orgoglioso di essere diverso?
«E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale».
Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso.
La massa ti considera solo se hai e ti votano solo se dai. Nulla vali se tu sai. Victor Hugo: "Gli uomini ti stimano in rapporto alla tua utilità, senza tener conto del tuo valore." Le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale, tangibile ed immediata, da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili da sempre, pur con altissimo valore, sono emarginati o ignorati, inibendone, ulteriormente, l’utilità.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
Fa quello che si sente di fare e crede in quello che si sente di credere.
La Democrazia non è la Libertà.
La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.
La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.
Cattolici e comunisti, le chiese imperanti, impongono la loro libertà, con la loro morale, il loro senso del pudore ed il loro politicamente corretto.
Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Facciamo sempre il solito errore: riponiamo grandi speranze ed enormi aspettative in piccoli uomini senza vergogna.
Un altro errore che commettiamo è dare molta importanza a chi non la merita.
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI
Le pecore hanno paura dei lupi, ma è il loro pastore che le porta al macello.
Da sociologo storico ho scritto dei saggi dedicati ad ogni partito o movimento politico italiano: sui comunisti e sui socialisti (Craxi), sui fascisti (Mussolini), sui cattolici (Moro) e sui moderati (Berlusconi), sui leghisti e sui pentastellati. Il sottotitolo è “Tutto quello che non si osa dire. Se li conosci li eviti.” Libri che un popolo di analfabeti mai leggerà.
Da queste opere si deduce che ogni partito o movimento politico ha un comico come leader di riferimento, perché si sa: agli italiani piace ridere ed essere presi per il culo. Pensate alle battute di Grillo, alle barzellette di Berlusconi, alle cazzate di Salvini, alle freddure della Meloni, alle storielle di Renzi, alle favole di D’Alema e Bersani, ecc. Partiti e movimenti aventi comici come leader e ladri come base.
Gli effetti di avere dei comici osannati dai media prezzolati nei tg o sui giornali, anziché vederli esibirsi negli spettacoli di cabaret, rincoglioniscono gli elettori. Da qui il detto: un popolo di coglioni sarà sempre amministrato o governato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Per questo non ci lamentiamo se in Italia mai nulla cambia. E se l’Italia ancora va, ringraziamo tutti coloro che anziché essere presi per il culo, i comici e la loro clack (claque) li mandano a fanculo.
Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.
Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.
Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?
"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)
«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.
Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!
Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.
Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.
Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...
Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa".
Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.
La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.
Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.
Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.
Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.
Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.
Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.
Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.
Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.
E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.
Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.
E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.
Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.
Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.
Ergo. Ai miei figli ho insegnato:
Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;
Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;
Le banche vi vogliono falliti;
La burocrazia vi vuole sottomessi;
La giustizia vi vuole prigionieri;
Siete nati originali…non morite fotocopia.
Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Lettera ad un amico che ha tentato la morte.
Le difficoltà rinforzano il carattere e certo quello che tu eri, oggi non lo sei.
Le difficoltà le affrontano tutti in modi diversi, come dire: in ogni casa c’è una croce. L’importante portarla con dignità. E la forza data per la soluzione è proporzionale all’intelligenza.
Per cui: x grado di difficoltà = x grado di intelligenza.
Pensa che io volevo studiare per emergere dalla mediocrità, ma la mia famiglia non poteva.
Per poter studiare dovevo lavorare. Ma lavoro sicuro non ne avevo.
Per avere un lavoro sicuro dovevo vincere un concorso pubblico, che lo vincono solo i raccomandati.
Ho partecipato a decine di concorsi pubblici: nulla di fatto.
Nel “mezzo del cammin della mia vita”, a trentadue anni, avevo una moglie e due figli ed una passione da soddisfare.
La mia vita era in declino e le sconfitte numerose: speranza per il futuro zero!
Ho pensato ai miei figli e si è acceso un fuoco. Non dovevano soffrire anche loro.
Le difficoltà si affrontano con intelligenza: se non ce l’hai, la sviluppi.
Mi diplomo in un anno presso la scuola pubblica da privatista: caso unico.
Mi laureo alla Statale di Milano in giurisprudenza in due anni: caso raro.
Sembrava fatta, invece 17 anni per abilitarmi all’avvocatura senza successo per ritorsione di chi non accetta i diversi. Condannato all’indigenza e al discredito, per ritorsione dei magistrati e dei media a causa del mio essere diverso.
Mio figlio ce l’ha fatta ad abilitarsi a 25 anni con due lauree, ma è impedito all’esercizio a causa del mio disonore.
Lui aiuta gli altri nello studio a superare le incapacità dei docenti ad insegnare.
Io aiuto gli altri, con i miei saggi, ad essere orgogliosi di essere diversi ed a capire la realtà che li circonda.
Dalla mia esperienza posso dire che Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi o valutazioni lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Quindi, caro amico, non guardare più indietro. Guarda avanti. Non pensare a quello che ti manca o alle difficoltà che incontri, ma concentrati su quello che vuoi ottenere. Se non lasci opere che restano, tutti di te si dimenticano, a prescindere da chi eri in vita.
Pensa che più difficoltà ci sono, più forte diventerai per superarle.
Volere è potere.
E sii orgoglioso di essere diverso, perché quello che tu hai fatto, tentare la morte, non è segno di debolezza. Ma di coraggio.
Le menti più eccelse hanno tentato o pensato alla morte. Quella è roba da diversi. Perché? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Per questo bisogna vivere, se lo hai capito: per ribellione e per rivalsa!
Non si deve riporre in me speranze mal riposte.
Io posso dare solidarietà o prestare i miei occhi per leggere o le mie orecchie per sentire, ma cosa posso fare per gli altri, che non son stato capace di fare per me stesso?
Nessuno ha il potere di cambiare il mondo, perché il mondo non vuol essere cambiato.
Ho solo il potere di scrivere, senza veli ideologici o religiosi, quel che vedo e sento intorno a me. E’ un esercizio assolutamente soggettivo, che, d’altronde, non mi basta nemmeno a darmi da vivere.
E’ un lavoro per i posteri, senza remunerazione immediata.
Essere diversi significa anche essere da soli: senza un gruppo di amici sinceri o una claque che ti sostenga.
Il fine dei diversi non combacia con la meta della massa. La storia dimostra che è tutto un déjà-vu.
Tante volte ho risposto no ai cercatori di biografie personali, o ai sostenitori di battaglie personali. Tante volte, portatori delle loro bandiere, volevano eserciti per lotte personali, elevandosi a grado di generali.
La mia missione non è dimostrare il mio talento o le mie virtù rispetto agli altri, ma documentare quanto questi altri siano niente in confronto a quello che loro considerano di se stessi.
Quindi ritienimi un amico che sa ascoltare e capire, ma che nulla può fare o dare ad altri, perché nulla può fare o dare per se stesso.
Sono solo un Uomo che scrive e viene letto, ma sono un uomo senza Potere.
Dell’uomo saggio e giusto si segue l’esempio, non i consigli.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo?
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.
Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.
Ho la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?
Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le magagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.
Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.
Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.
Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite.
Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....
All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.
Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.
E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.
Caso Bellomo, le forti parole di Filippo Facci dopo le testimonianze delle allieve, scrive robertogp il 28/12/2017 su "NewNotizie.it". Come redazione di ‘NewNotizie.it‘ abbiamo preferito non parlare della pietosa vicenda riguardante il consigliere di Stato Francesco Bellomo, il quale si trova adesso indagato dalla procura di Bari, Milano e Piacenza per estorsione, atti persecutori e lesioni gravi. In breve, Francesco Bellomo, consigliere di Stato nonché magistrato, conduceva dei corsi volti ad affrontare al meglio l’esame di accesso alla magistratura; l’accusa rivoltagli negli ultimi giorni si precisa in diverse testimonianze di allieve o ex allieve che accusano l’uomo di alcune clausole molto particolari presenti nel contratto d’iscrizione ai suoi corsi. Veniva ad esempio richiesto alle studentesse di recarsi al corso truccate, con tacchi alti, minigonna e altre peculiarità espresse nel dettaglio all’interno del contratto. Altre bizzarre clausole erano presenti nel foglio da firmare, quali ad esempio che il fidanzamento del o della borsista era consentito solo in seguito all’approvazione personale di Bellomo o addirittura la revoca della borsa di studio in caso di matrimonio. Filippo Facci, giornalista di ‘Libero Quotidiano‘ ha espresso il suo parere riguardo la vicenda sostenendo che le allieve che hanno sporto denuncia abbiano “una fisiologica propensione a essere zoccole (auguri per qualsiasi carriera) oppure siano troppo stordita per poter fare il mestiere del magistrato”. Seppur i toni siano decisamente sopra le righe, Facci spiega con tre motivazioni il perché di una frase così forte: “Il corso di Bellomo era un corso non obbligatorio per affrontare l’ esame per magistrato; i contratti di Bellomo erano palesemente nulli, perché nessun contratto può imporre pretese del genere, e per saperlo basta non essere scemi e infine, alcuni contratti venivano firmati da borsiste che avevano accettato una relazione sessuale con Bellomo, approccio che ci è difficile pensare spontaneo e slegato ai buoni esiti del corso”. Facci ricorda infine che “l’ingresso in magistratura non prevede esami psico-attitudinali”. Mario Barba
Filippo Facci per Libero Quotidiano il 28 dicembre 2017. I dettagli su quanto il consigliere Francesco Bellomo sia porco (copyright Enrico Mentana) li trovate in un altro articolo, e così pure gli aggiornamenti sui «contratti di schiavitù sessuale» (copyright Liana Milella, Repubblica) che imponeva a qualche allieva. Ciò posto, scusate: 1) il corso di Bellomo era un corso non obbligatorio per affrontare l'esame per magistrato; 2) i contratti di Bellomo erano palesemente nulli, perché nessun contratto può imporre pretese del genere, e per saperlo basta non essere scemi; 3) alcuni contratti venivano firmati da borsiste che avevano accettato una relazione sessuale con Bellomo, approccio che ci è difficile pensare spontaneo e slegato ai buoni esiti del corso. Detto questo, insomma: una che accetta di vestirsi in un certo modo, e così truccarsi, e i tacchi e le calze, una che accetta clausole che vietavano i matrimoni e condizionavano i fidanzamenti e autorizzavano a mettere in rete ogni dettaglio sessuale, una che crede che altrimenti avrebbe pagato 100mila euro di penale, beh, una così ha una fisiologica propensione a essere zoccola (auguri per qualsiasi carriera) oppure è troppo stordita per poter fare il mestiere del magistrato: troppo facile da circonvenire o corrompere, comunque sprovvista dell' equilibrio necessario a decidere della vita altrui. Lo diciamo non solo perché l'ingresso in magistratura non prevede esami psico-attitudinali, ma perché molte borsiste di Bellomo, magistrati, anzi magistrate, lo sono già diventate.
Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.
CUORI, TRUFFE E MAZZETTE: È LA FARSA “CONCORSONI”, scrive Virginia Della Sala su "Il Fatto Quotidiano" il 15 agosto 2016. Erano in 6mila per 340 posti. Luglio 2015, concorso in magistratura, prova scritta. Passano in 368. Come in tutti i concorsi, gli altri sono esclusi. Stavolta però qualcosa va diversamente. “Appena ci sono stati comunicati i risultati, a marzo di quest’anno, abbiamo deciso di fare la richiesta di accesso agli atti. Abbiamo preteso di poter visionare non solo i nostri compiti ma anche quelli di tutti i concorrenti risultati idonei allo scritto”, spiega uno dei concorrenti, Lugi R. Milleduecento elaborati, scansionati e inviati tramite mail in un mese. Per richiederli, i candidati hanno dovuto acquistare una marca da bollo da 600 euro. Hanno optato per la colletta: 230 persone hanno pagato circa 3 euro a testa per capire come mai non avessero passato quel concorso che credevano fosse andato bene. E, soprattutto, per verificare cosa avessero di diverso i loro compiti da quelli di chi il concorso lo aveva superato. “Ci siamo accorti che su diversi compiti compaiono segni di riconoscimento: sottolineature, cancellature, strani simboli, schemi”. Anche il Fatto ha potuto visionarli: asterischi, note a piè di pagina, cancellature, freccette. In uno si contano almeno due cuoricini. In un altro, il candidato ha disegnato una stellina. “Ora non c’è molto che possiamo fare per opporci a questi risultati – spiega Luigi – visto che sono scaduti i termini per ricorrere al Tar. Inoltre, molti di noi stanno tentando di nuovo il concorso quest’anno. Ecco perché preferiamo non esporci molto mediaticamente”.
IL RAPPORTO DI BANKITALIA. Eppure, decine di sentenze dimostrano come sia possibile richiedere l’annullamento anche per un solo puntino. “Cancellature, scarabocchi, codici alfanumerici. Decisamente un cuoricino è un segno distintivo per cui può essere sollecitata l’amministrazione – spiega l’avvocato Michele Bonetti –. Qui si parla di un concorso esteso. Ma mi è capitato di assistere persone che partecipavano a un concorso in cui, dei cinque candidati, c’era solo un uomo. Capirà che la grafia di un uomo è facilmente riconoscibile come tale”. Al di là delle scorrettezze, una ricerca della Banca d’Italia pubblicata qualche giorno fa ha dimostrato che in Italia, i concorsi pubblici non funzionano. O, per dirlo con le parole dei quattro economisti autori del dossier Incentivi e selezione nel pubblico impiego (Cristina Giorgiantonio, Tommaso Orlando, Giuliana Palumbo e Lucia Rizzica), “i concorsi non sembrano adeguatamente favorire l’ingresso dei candidati migliori e con il profilo più indicato”. Si parla di bandi frammentati a livello locale, di troppe differenze metodologiche tra le varie gare, di affanno nella gestione coordinata a livello nazionale. Tra il 2001 e il 2015, ad esempio, Regioni ed Enti locali hanno bandito quasi 19mila concorsi per assunzioni a tempo indeterminato, con una media di meno di due posizioni disponibili per concorso. Macchinoso anche il metodo: “Prove scritte e orali, prevalentemente volte a testare conoscenze teorico-nozionistiche” si legge nel paper. Ogni concorrente studia in media cinque mesi e oltre il 45 per cento dei partecipanti rinuncia a lavorare. Così, se si considera che solo nel 2014, 280mila individui hanno fatto domanda per partecipare a una selezione pubblica, si stima che il costo opportunità per il Paese è di circa 1,4 miliardi di euro l’anno. La conseguenza è che partecipa solo chi se lo può permettere e chi ha più tempo libero per studiare. Anche perché si preferisce la prevalenza di quesiti “nozionistici” che però rischiano di “inibire la capacità dei responsabili dell’organizzazione di valutare il possesso, da parte dei candidati, di caratteristiche pur rilevanti per le mansioni che saranno loro affidate, quali le ambizioni di carriera e la motivazione intrinseca”. A tutto questo si aggiungono l’eccesso delle liste degli idonei – il loro smaltimento determina “l’irregolarità della cadenza” dei concorsi e quindi l’incertezza e l’incostanza dell’uscita dei bandi, dice il dossier.
LA BEFFA SICILIANA. Palermo, concorsone scuola per la classe di sostegno nelle medie. Quest’anno, forse per garantire l’anonimato e l’efficienza, il concorso è stato computer based: domande e risposte al pc. Poi, tutto salvato su una penna usb con l’attribuzione di un codice a garanzia dell’anonimato. Eppure, la settimana scorsa i 32 candidati che hanno svolto la prova all’istituto Pio La Torre a fine maggio sono stati riconvocati nella sede. Dovevano indicare e ricordarsi dove fossero seduti il giorno dell’esame perché, a quanto pare, erano stati smarriti i documenti che avrebbero permesso di abbinare i loro compiti al loro nome. “È assurdo – commenta uno dei docenti – sembra una barzelletta: dovremmo fare ricorso tutti insieme, unirci e costringere una volta per tutte il Miur ad ammettere che forse non si era ancora pronti per questa svolta digitale”.
IL VOTO SUL COMPITO CHE NON È MAI STATO FATTO. Maria Teresa Muzzi è invece una docente che si era iscritta al concorso nel Lazio ma poi aveva deciso di non parteciparvi. Eppure, il 2 agosto, ha ricevuto la convocazione per la prova orale per la classe di concorso di lettere e, addirittura, un voto per uno scritto che però non ha mai fatto: 30,4. Avrebbe potuto andare a fare l’orale con la carta d’identità e ottenere una cattedra, mentre il legittimo concorrente avrebbe perso la sua chance di cambiare vita. Ha deciso di non farlo e ancora si attende la risposta dell’ufficio scolastico regionale che spieghi come sia stato possibile un errore del genere. In Liguria per la classe di concorso di sostegno nella scuola secondaria di I grado, l’ufficio scolastico regionale ha disposto la revoca della nomina della Commissione giudicatrice e l’annullamento di tutti i suoi atti perché sarebbero emersi “errori che possono influire sull’esito degli atti e delle operazioni concorsuali”. I candidati ancora attendono di avere nuovi esiti delle prove svolte. E, va ricordato, la correzione dei compiti a risposta aperta nei concorsi pubblici ha una forte componente discrezionale. “Ogni concorso pubblico ha margini di errore ed è perfettibile – spiega Bonetti –. In Italia, però, di lacune ce ne sono troppe e alcune sono strutturali al tipo di prova che si sceglie di far svolgere. L’irregolarità vera è propria, invece, riguarda le scelte politiche che, se arbitrarie e ingiuste, sono sindacabili”.
LE BUSTARELLE DI NAPOLI. Il problema è che si alza sempre più la soglia di accesso in nome della meritocrazia, ma si continuano a lasciare scoperti posti che invece servirebbe coprire. Favorendo così le chiamate dirette e i contratti precari. “Dalla scuola al ministero degli esteri all’autority delle telecomunicazioni – spiega Bonetti. La scelta politica è ancora più evidente nel settore della sanità: ci sono meccanismi di chiusura già nel mondo universitario. Oggi il corso di medicina è previsto per 10mila studenti in tutta Italia mentre le statistiche Crui dal 1990 hanno sempre registrato una media di 130mila immatricolati. Sono restrizioni con un’ideologia. Una volta entrati, ad esempio, c’è prima un altro concorso per la scuola di specializzazione e poi ancora un concorso pubblico che però è per 5mila persone. E gli altri? Attendono e alimentano il settore privato, che colma le lacune del sistema pubblico. O sono chiamati come collaboratori, con forme contrattuali che vanno dalla partita iva allo stage”. Nelle settimane scorse, il Fatto Quotidiano ha raccontato dell’algoritmo ritrovato dalla Guardia di Finanza di Napoli che avrebbe consentito ai partecipanti di rispondere in modo corretto ai quiz di accesso per un concorso. Ad averlo, uno degli indagati di un’inchiesta sui concorsi truccati per accedere all’Esercito. Nel corso delle perquisizioni la Finanza ha ritrovato 100mila euro in contanti, buste con elenchi di nomi (forse i clienti) e un tariffario: il prezzo per superare i concorsi diviso “a pacchetti”, a seconda dell’esame e del corpo al quale accedere (esercito, polizia, carabinieri). La tariffa di 50.000 euro sarebbe relativa al “pacchetto completo”: dai test fisici fino ai quiz e alle prove orali. Solo 20.000 euro, invece, per chi si affidava ai mediatori dopo aver superato le prove fisiche. Uno sconto consistente. Tutto è partito da una soffiata: un ragazzo al quale avevano fatto la proposta indecente, ha rifiutato e ha denunciato. Un altro pure ha detto no, ma senza denunciare. Virginia Della Sala, il Fatto Quotidiano 15/8/2016.
Concorsi truccati all’università, chi controlla il controllore? Scrive Alessio Liberati il 27 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Sta avendo una grande eco in questi giorni l’inchiesta sui concorsi truccati all’università, ove, come la scoperta dell’acqua calda verrebbe da dire, la procura di Firenze ha individuato una sorta di “cupola” che decideva carriere e futuro dei professori italiani. La cosiddetta “raccomandazione” o “spintarella” (una terminologia davvero impropria per un crimine tanto grave) è secondo me uno dei reati più gravi e meno puniti nel nostro ordinamento. Chi si fa raccomandare per vincere un concorso viene trattato meglio, nella considerazione sociale e giuridica (almeno di fatto) di chi ruba un portafogli. Ma chi ti soffia il posto di lavoro o una progressione in carriera è peggio di un ladro qualunque: è un ladro che il portafogli te lo ruba ogni mese, per sempre. Gli effetti di delitti come questo, in sostanza, sono permanenti.
Ma come si è arrivati a ciò? Va chiarito che il sistema giuridico italiano prevede due distinti piani su cui operare: quello amministrativo e quello penale. Di quest’ultimo ogni tanto si ha notizia, nei (rari) casi in cui si riesce a scoperchiare il marcio che si cela dietro ai concorsi pubblici italiani. Di quello relativo alla giustizia amministrativa si parla invece molto meno. Ma tale organo è davvero in grado di assicurare il rispetto delle regole quando si fa ricorso?
Personalmente, denuncio da anni le irregolarità che sono state commesse proprio nei concorsi per l’accesso al Consiglio di Stato, massimo organo di giustizia amministrativa, proprio quell’autorità, cioè, che ha l’ultima parola su tutti i ricorsi relativi ai concorsi pubblici truccati. Basti pensare che uno dei vincitori più giovani del concorso (e quindi automaticamente destinato a una carriera ai vertici) non aveva nemmeno i titoli per partecipare. E che dire dei tempi di correzione? A volte una media di tre pagine al minuto, per leggere, correggere e valutare. E la motivazione dei risultati attribuiti? Meramente numerica e impossibile da comprendere. Tutti comportamenti, si intende, che sono in linea con i principi giurisprudenziali sanciti proprio dalla giurisprudenza dei Tar e del Consiglio di Stato.
E allora il problema dei concorsi truccati in Italia non può che partire dall’alto: si prenda atto che la giustizia amministrativa non è in grado di assicurare nemmeno la regolarità dei concorsi al proprio interno e che, quindi, non può certo esserle affidato il compito istituzionale di decidere su altri concorsi: con un altro organo giurisdizionale che sia davvero efficace nel giudicare le irregolarità dei concorsi pubblici, al punto da costituire un effettivo deterrente, si avrebbe una riduzione della illegalità cui si assiste da troppo tempo nei concorsi pubblici italiani.
Se questa è antimafia…. In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale. Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.
Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposte a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate. L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.
A tal fine, per non aver adempito ai requisiti di delazione, calunnia e speculazione sociale, l’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, sodalizio nazionale di promozione sociale già iscritta al n. 3/2006 presso il registro prefettizio della Prefettura di Taranto Ufficio Territoriale del Governo, il 23 settembre 2017 è stata cancellata dal suddetto registro.
I magistrati favoriscono la mafia, scrive Barbara Di il 12 novembre 2017 su "Il Giornale".
(Quando diventano magistrati con un concorso truccato, spodestando i meritevoli, e per gli effetti sentendosi dio in terra, al di sopra della legge e della morale, ndr).
Quando lasciano indifesi i cittadini davanti ai soprusi.
Quando costringono un cittadino ad un processo eterno per vedersi dichiarare di aver ragione.
Quando non si studiano le carte di un processo e danno torto a chi ha ragione.
Quando per ignoranza applicano una legge nel modo sbagliato.
Quando ritardano anni una sentenza.
Quando un creditore con una sentenza esecutiva ci mette altri anni per avere una minima parte dei soldi spettanti.
Quando un creditore è costretto ad accettare pochi soldi, maledetti e subito per evitare un lungo e costoso processo.
Quando un proprietario di una casa occupata non riesce a riottenerla.
Quando non cacciano chi occupa abusivamente una casa popolare e chi ne avrebbe diritto dorme per strada.
Quando nei tribunali amministrativi devi attendere anni per vedere annullare provvedimenti assurdi della burocrazia o avere un’inutile autorizzazione ingiustamente negata.
Quando un cittadino è costretto a oliare la burocrazia con favori e bustarelle per non attendere anni quell’inutile autorizzazione o per non subire gli assurdi provvedimenti della burocrazia.
Quando un datore di lavoro si vede annullare il licenziamento di un ladro sindacalizzato.
Quando un lavoratore è costretto ad accettare una conciliazione e una buonuscita ridicola perché non ha soldi per un processo eterno.
Quando un cittadino vede impunito il ladro che lo ha derubato.
Quando lasciano impuniti i delinquenti perché non sono cittadini.
Quando incriminano i cittadini che tentano di difendersi da soli.
Quando danno pene ridicole e mai scontate a rapinatori e violentatori.
Quando danno pene esemplari solo ai violentatori che finiscono sui giornali.
Quando lasciano impuniti violenti devastatori che mettono a ferro e fuoco una città per ideologia.
Quando non indagano sui reati che non finiscono sui giornali.
Quando indagano sui reati solo per finire sui giornali.
Quando si inventano i reati per finire sui giornali.
Quando le assoluzioni per reati mediatici sono relegate in un trafiletto sui giornali.
Quando si inventano condanne assurde per reati mediatici che finiscono puntualmente riformate in appello.
Quando indagano sui politici per ideologia.
Quando arrestano i politici per ideologia e poi li assolvono a elezioni passate.
Quando fanno cadere i governi per impedire la riforma della giustizia.
Quando fanno carriera solo per ideologia o per i processi mediatici che si sono inventati.
Quando impediscono ai bravi magistrati di far carriera perché non appartengono alla corrente giusta o lavorano lontani dalle luci dei riflettori.
Quando non indagano sui colleghi che delinquono.
Quando non puniscono i colleghi per i loro clamorosi errori giudiziari.
Quando non applicano provvedimenti disciplinari ai colleghi che meriterebbero di essere cacciati.
Quando archiviano casi di scomparsa e li riaprono per trovare un cadavere in giardino solo dopo un servizio in televisione.
Quando invocano l’obbligatorietà dell’azione penale solo per i reati mediatici e politici anche se sono privi di riscontro.
Quando si dimenticano dell’obbligatorietà dell’azione penale quando i reati sono comuni e colpiscono i cittadini.
Quando si ricordano che un mafioso è mafioso solo quando dà una testata di stampo mafioso.
Quando un cittadino per avere ciò che gli spetta finisce per rivolgersi agli scagnozzi di un boss mafioso.
Quando gli unici territori dove i cittadini non subiscono furti, violenze e soprusi sono quelli controllati dalla mafia.
Quando i cittadini sono costretti a pagare il pizzo ai mafiosi per essere protetti.
Quando non fanno l’unica cosa che dovrebbero fare: dare giustizia per proteggere loro i cittadini.
Quando per colpa dei loro errori ed orrori in Italia ormai siamo tornati alla legge del più forte.
Quando i magistrati non fanno il loro mestiere, la mafia vince perché è il più forte.
A proposito di interdittive prefettizie.
Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. Inoltre l’antimafia preventiva diventata definitiva.
Infine, l’età adulta dell’informativa antimafia? Limiti e caratteri dell’istituto secondo una ricostruzione costituzionalmente orientata, scrive Fulvio Ingaglio La Vecchia. Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, sentenze 29 luglio 2016, n. 247 e 3 agosto 2016, n. 257.
Interdittive antimafia, una sentenza esemplare, scrive Maria Giovanna Cogliandro, Domenica 12/11/2017 su "La Riviera on line". Di recente il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana ha emesso una sentenza in cui vengono precisate le condizioni necessarie affinché l'interdittiva antimafia, figlia della cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore, non porti a un regime di polizia che metta a rischio diritti fondamentali. In questa continua corsa alla giustizia penale, figlia del populismo antimafia fatto di santoni e tromboni che, dai sottoscala di procure e prefetture, con le stimmate delle loro immacolate esistenze, sono sempre in cerca di un succoso cattivo da dare in pasto all’opinione pubblica, capita di imbattersi in una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, una sentenza di cui tutti dovrebbero avere una copia da conservare con cura nel proprio portafoglio, in mezzo ai santini e alla tessera sanitaria. La sentenza riguarda il ricorso presentato da un gruppo di imprese contro la Prefettura di Agrigento, l'Autorità nazionale Anticorruzione e il Comune di Agrigento. Le imprese in questione sono tutte state raggiunte da interdittiva antimafia. Ricordiamo che l’interdittiva antimafia permette all’amministrazione pubblica di interrompere qualsiasi rapporto contrattuale con imprese che presentano un pericolo di infiltrazione mafiosa, anche se non è stato commesso un illecito per cui titolari o dirigenti siano stati condannati. Per dichiarare l’inaffidabilità di un’impresa è sufficiente un’inchiesta in corso, una frequentazione sospetta, un socio “opaco”, una parentela pericolosa che potrebbe condizionarne le scelte, o anche solo la mera eventualità che l’impresa possa, per via indiretta, favorire la criminalità. La sentenza in questione rompe clamorosamente con questa cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore. "Benché un provvedimento interdittivo - argomentano i Giudici - possa basarsi anche su considerazioni induttive o deduttive diverse dagli “indici presuntivi”, è tuttavia necessario che le norme che conferiscono estesi poteri di accertamento ai Prefetti al fine di consentire loro di svolgere indagini efficaci e a vasto raggio, non vengano equiparate a un’autorizzazione a tralasciare di compiere indagini fondate su condotte o su elementi di fatto percepibili poiché, se con le norme in questione il Legislatore ha certamente esteso il potere prefettizio di accertamento della sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, non ha affatto conferito licenza di basare le comunicazioni interdittive su semplici sospetti, intuizioni o percezioni soggettive non assistite da alcuna evidenza indiziaria". Non è quindi permesso far patire all'azienda un danno di immagine, sulla base di un fumus che non trovi riscontro nei fatti. In mancanza di condotte che facciano presumere che il titolare o il dirigente di un'azienda sia in procinto di commettere un reato (o che stia determinando le condizioni favorevoli per delinquere o per “favoreggiare” chi lo compia), non è legittimo che questi sia considerato come "soggetto socialmente pericoloso" e che debba, pertanto, sottostare a "misure di prevenzione" che vanno a incidere su diritti fondamentali. Per giustificare l'invio di una interdittiva antimafia, "non è sufficiente - proseguono i Giudici - affermare che uno o più parenti o amici del soggetto richiedente la certificazione antimafia risultano mafiosi, o vicini a soggetti mafiosi; o vicini o affiliati a cosche mafiose e/o a famiglie mafiose". Occorrerà innanzitutto precisare la ragione per la quale un soggetto viene considerato mafioso. "La pericolosità sociale di un individuo - dichiarano i Giudici - non può essere ritenuta una sua inclinazione strutturale, congenita e genetico-costitutiva (alla stregua di una infermità o patologia che si presenti - sia consentita l’espressione - "lombrosanamente evidente" o comunque percepibile mediante indagini strumentali o analisi biologiche), né può essere presunta o desunta in via automatica ed esclusiva dalla sua posizione socio-ambientale e/o dal suo bagaglio culturale; né, dunque, dalla mera appartenenza a un determinato contesto sociale o a una determinata famiglia (semprecchè, beninteso, i soggetti che ne fanno parte non costituiscano un’associazione a delinquere)". Nel provvedimento interdittivo vanno, inoltre, specificate le circostanze di tempo e di luogo in cui imprenditore e soggetto "mafioso" sono stati notati insieme; le ragioni logico-giuridiche per le quali si ritiene che si tratti non di mero incontro occasionale (o di incontri sporadici), ma di “frequentazione effettivamente rilevante", ossia di relazione periodica, duratura e costante volta a incidere sulle decisioni imprenditoriali. In poche parole, prendere il caffè con un mafioso o presunto tale non è sufficiente. Inoltre, emerge dalla sentenza, qualificare un soggetto “mafioso” sulla scorta di meri sospetti e a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria comporterebbe un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità "simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole e imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni e infiltrazioni mafiose realmente inquinanti". L'interdittiva che inchioda per ipotesi non combatte la delinquenza e la criminalità ma diviene strumentale per sgomberare il campo da personaggi scomodi. "D’altro canto - concludono i giudici - se per attribuire a un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza a una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono". Amen. Ripeto: questa è una sentenza da conservare accanto ai santini. E plastificatela, per evitare che si sgualcisca col tempo.
La strada dell'inquisizione è lastricata dalla cattiva antimafia. Una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana mette in guardia dagli abissi in cui rischiamo di sprofondare perdendo di vista i capisaldi dello Stato di diritto, scrive Rocco Todero il 29 Settembre 2017 su "Il Foglio". Nell’Italia che si è presa il vizio di accusare a sproposito la giustizia amministrativa di essere la causa della propria arretratezza economica e sociale capita di leggere una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana (una sezione del Consiglio di Stato distaccata a Palermo) che dovrebbe essere mandata giù a memoria da quanti nel nostro Paese vivono facendo mostra di stellette meritocratiche (più o meno veritiere) negli uffici delle prefetture, nelle aule dei tribunali, nelle sedi delle università, nelle redazioni di molti giornali e, in ultimo, anche nelle aule del Parlamento. Da molti anni, oramai, si combatte in sede giudiziaria una battaglia sulle modalità di applicazione delle misure di prevenzione, le cosiddette informative antimafia, per mezzo delle quali l’eccessiva solerzia inquisitoria degli uffici periferici del Ministero dell’Interno cerca di realizzare quella che nel linguaggio giuridico si definisce una “tutela anticipata” del crimine, un’azione cioè volta a contrastare i tentativi di infiltrazione mafiosa nel tessuto economico - sociale senza che, tuttavia, si manifestino azioni delittuose vere e proprie da parte dei soggetti interdetti. Il risultato nel corso degli anni è stato abbastanza sconfortante, poiché decine di imprese individuali e società commerciali sono state colpite dall’informativa antimafia e poste, molto spesso, sotto amministrazione prefettizia sulla base di un semplice sospetto coltivato dalle forze dell’ordine. A molti, troppi, è capitato, così, di trovarsi sotto interdittiva antimafia (solo per fare alcuni esempi) a causa di un parente accusato di appartenere ad un’associazione mafiosa o per colpa di un’indagine penale per 416 bis poi sfociata nel proscioglimento o nell’assoluzione o perché una società con la quale s’intrattengono rapporti commerciali è stata a sua volta interdetta per avere stipulato contratti con altra impresa sospettata di subire infiltrazioni mafiose (si, è proprio cosi, si chiama informativa a cascata o di secondo o terzo grado: A viene interdetto perché intrattiene rapporti commerciali con B, il quale non è mafioso, ma coltiva contatti economici con C, il quale ultimo è sospettato di essere, forse, soggetto ad infiltrazioni mafiose. A pagarne le conseguenze è il soggetto A, perché l’infiltrazione mafiosa passerebbe per presunzione giudiziaria da C a B e da B ad A). Spesso i Tribunali amministrativi competenti a conoscere della legittimità delle informative antimafia emanate dalle Prefettura sono stati sin troppo indulgenti con l’Amministrazione pubblica, sacrificando l’effettività della tutela dei diritti fondamentali dei cittadini sull’altare di una lotta alle infiltrazioni mafiose che risente oramai troppo della pressione atmosferica di un clima allarmistico pompato ad arte per ben altri e meno nobili fini politici. Qualche settimana fa, invece, il Consiglio di Giustizia Amministrativa siciliano (composto dai magistrati Carlo Deodato, Carlo Modica de Mohac, Nicola Gaviano, Giuseppe Barone e Giuseppe Verde), dovendo decidere in sede d'appello dell’ennesima informativa antimafia emessa dalla Prefettura di Agrigento, ha sostanzialmente scritto un bellissimo e coraggioso saggio di cultura giuridica liberale, dimostrando che la lotta alla mafia si può ben coltivare salvaguardando i capisaldi di uno Stato di diritto liberal democratico moderno. Il Tribunale ha preso atto del fatto che per stroncare sul nascere la diffusione di alcune condotte criminose non si può fare altro che emettere “giudizi prognostici elaborati e fondati su valutazioni a contenuto probabilistico” che colpiscono soggetti in uno stadio “addirittura anteriore a quello del tentato delitto”. Ma alla pubblica amministrazione, argomentano i Giudici, non è permesso di scadere nell’arbitrio, cosicché non sarà mai sufficiente un mero “sospetto” per giustificare la limitazione delle libertà fondamentali dell’individuo. Si dovranno piuttosto documentare fatti concreti, condotte accertabili, indizi che dovranno essere allo stesso tempo gravi, precisi e concordanti. Non potranno mai essere sufficienti, continua il Tribunale, mere ipotesi e congetture e non potrà mai mancare un “fatto” concreto, materiale, da potere accertare nella sua esistenza, consistenza e rilevanza ai fini della verosimiglianza dell’infiltrazione mafiosa. Per potere affermare che l’impresa di Tizio è sospettata d'infiltrazioni mafiose, allora, non sarà sufficiente affermare che essa intrattiene rapporti con l’impresa di Caio (non mafiosa) che a sua volta, però, ha stipulato accordi con Mevio (lui si, sospettato di collusioni con la mafia), ma sarà necessario dimostrare che una qualche organizzazione mafiosa (ben individuata attraverso i soggetti che agiscono per essa, non la “mafia” genericamente intesa) stia tentando, in via diretta, d’infiltrarsi nell’azienda del primo soggetto. Il legame di parentela con un mafioso, chiariscono ancora i magistrati, non può avere alcuna rilevanza ai fini del giudizio sull’informativa antimafia se non si dimostrerà che chi è stato colpito dal provvedimento interdittivo, lui e non altri, abbia posto in essere comportamenti che possano destare allarme sociale per il loro potenziale offensivo dell’interesse pubblico, “non essendo giuridicamente e razionalmente sostenibile che il mero rapporto di parentela costituisca di per sé, indipendentemente dalla condotta, un indice sintomatico di pericolosità sociale ed un elemento prognosticamente rilevante”. La nostra non è l'epoca del medioevo, conclude il Consiglio di Giustizia Amministrativa, e l'ordinamento giuridico non può svestire i panni dello Stato di diritto: “Sicché, ove fosse possibile qualificare “mafioso” un soggetto sulla scorta di meri sospetti ed a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria si perverrebbe ad un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale (che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole ed imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni ed infiltrazioni mafiose realmente inquinanti). D’altro canto, se per attribuire ad un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza ad una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono.” Da mandare giù a memoria. Altro che il nuovo codice antimafia con il quale fare propaganda manettara a buon mercato.
A proposito di sequestri preventivi giudiziari.
Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.
"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.
Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi.
Interdittive: decine di aziende uccise dal reato di parentela mafiosa, scrive Simona Musco il 4 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Il fenomeno delle interdittive è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione del 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. Solo dalla Prefettura di Reggio Calabria, negli ultimi 14 mesi, sono partite 130 interdittive. Quasi dieci ogni 30 giorni, tutte frutto della gestione del Prefetto Michele Di Bari, approdato nella città dello Stretto ad agosto 2016. Un numero enorme che conferma una tendenza crescente, soprattutto in Calabria, dove in poco più di cinque anni le aziende hanno depositato quasi 500 ricorsi nelle cancellerie dei tribunali amministrativi di Catanzaro e Reggio Calabria. Ma il fenomeno – i cui dai sono ancora incerti – è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione della materia nel 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. I numeri non sono ancora chiari, dato che gli archivi informatici dello Stato non hanno tutti i dati. E così succede che mentre dai siti dei tribunali amministrativi risulta un numero enorme di ricorsi (circa 2000 in cinque anni) e annullamenti (tra i 40 e i 90 l’anno), le cifre fornite dalla Dia, la Direzione investigativa antimafia, parlano di 31 annullamenti dal 2011 fino a maggio 2015. Numeri snelliti dal vuoto di informazioni dalle Prefetture di Napoli, Reggio Calabria e Vibo Valentia. La parte più corposa, dunque. La ratio dello strumento è chiara: «contrastare le forme più subdole di aggressione all’ordine pubblico economico, alla libera concorrenza ed al buon andamento della pubblica amministrazione», sentenzia il Consiglio di Stato. Un provvedimento preventivo, che prescinde quindi dall’accertamento di singole responsabilità penali e anticipa la soglia di difesa. «Per questo – dice ancora il Consiglio di Stato – deve essere respinta l’idea che l’informativa debba avere un profilo probatorio di livello penalistico e debba essere agganciata a eventi concreti ed a responsabilità addebitabili». Se c’è un sospetto, dunque, la Prefettura ha il potere e il dovere di tranciare i rapporti tra aziende private e pubblica amministrazione, attraverso tutta una serie di accertamenti ai quali non si può replicare fino a quando non diventano di pubblico dominio. Ovvero quando l’azienda colpita viene esclusa dai bandi pubblici e marchiata come infetta. Un’etichetta che, a volte, è giustificata da elementi tangibili e concreti, consentendo quindi di sfilare dalle mani dei clan l’appalto, ma altre decisamente meno. Tant’è che sono centinaia i ricorsi vinti, di una vittoria che però è solo parziale: sempre più spesso, infatti, chi si è visto colpire da un’interdittiva, pur vincendo il proprio ricorso, non riesce più a reinserirsi nel mondo del lavoro. Partiamo dal modus operandi: la Prefettura punta gran parte della sua decisione sui legami di parentela e su frequentazioni poco raccomandabili. Nulla o quasi, invece, si dice su fatti concreti che possano far temere effettivamente un condizionamento mafioso. Ed è proprio questo che fa crollare i provvedimenti davanti ai giudici amministrativi, per i quali non basta basarsi su rapporti commerciali e di parentela, «da soli insufficienti», dice ancora il Consiglio di Stato. Occorrono perciò, aggiunge, «altri elementi indiziari a dimostrazione del “contagio”». E «non possono bastare i precedenti penali» riferiti «ad indagini in seguito archiviate e, in altra parte, a condanne molto risalenti nel tempo», in quanto servono elementi «concreti e riferiti all’attualità». Un’interpretazione confermata anche dalla Corte costituzionale, secondo cui è arbitrario «presumere che valutazioni comportamenti riferibili alla famiglia di appartenenza o a singoli membri della stessa diversi dall’interessato debbano essere automaticamente trasferiti all’interessato medesimo». Ma è proprio questo il meccanismo che genera un circolo vizioso capace di far risucchiare una parte rilevante dell’economia dal vortice del sospetto. E le conseguenze non sono solo per le ditte: le interdittive, infatti, colpiscono aziende impegnate in appalti pubblici che così rimangono bloccati, cantieri aperti che si richiuderanno magari dopo anni. Dell’ambiguità dello strumento, lo scorso anno, aveva parlato il senatore Pd e membro della Commissione parlamentare antimafia Stefano Esposito, che al convegno “Warning on crime” all’Università di Torino aveva dichiarato che «lo strumento non funziona e nel 60% dei casi le interdittive vengono respinte» dai giudici amministrativi. Chiedendo dunque una riforma, che anche Rosy Bindi, poco prima, aveva annunciato, nel 2015. «Le interdittive antimafia sono uno strumento statico, mentre la lotta alla mafia ha bisogno di film», ha spiegato. Un film che nel nuovo codice antimafia coincide col controllo giudiziario delle aziende sospette, i cui risultati sono ancora tutti da vedere.
Che affare certe volte l’antimafia! Scrive Piero Sansonetti il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio". I “paradossi” calabresi. Questa storia calabrese è molto istruttiva. La racconta nei dettagli, nell’articolo qui sopra, Simona Musco. La sintesi estrema è questa: un imprenditore incensurato, e senza neppure un grammo di carichi pendenti (che oltretutto è presidente di Confindustria), vince un appalto per costruire i parcheggi del palazzo di Giustizia a Reggio. Un lavoro grosso: più di 15 milioni. Al secondo posto, in graduatoria, una azienda amministrata da un deputato di Scelta Civica. L’azienda del deputato protesta per aver perso la gara e ricorre al Tar. Il Tar dà ragione all’imprenditore e torto all’azienda del deputato. Poi, all’improvviso, non si sa come, la Prefettura fa scattare l’interdittiva e cioè, per motivi cautelari, toglie l’appalto all’imprenditore e lo assegna all’azienda del deputato che aveva perso la gara. Come è possibile? Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. E allora io quell’appalto di 16 milioni di euro te lo levo e lo porgo all’azienda di un deputato. Il deputato in questione, peraltro, fa parte della commissione antimafia. E lo Stato di diritto? E la libera concorrenza? E l’articolo 3 del- la Costituzione? Beh, mettetevi il cuore in pace: esiste una parte del territorio nazionale, e in modo particolarissimo la Calabria, nel quale lo Stato di diritto non esiste, non esiste la libera concorrenza e l’Articolo 3 della Costituzione (quello che dice che tutti sono uguali davanti alla legge) non ha effetti. La ragione di questo Far West, in gran parte, è spiegabile con la presenza della mafia, che la fa da padrona, fuori da ogni regola. Ma anche lo Stato, che la fa da padrone, altrettanto al di fuori da ogni regola, e da ogni senso di giustizia, e mostrando sempre il suo volto prepotente, come questa storia racconta. Lo Stato, con la mafia, è responsabile del Far West. Allora il problema è molto semplice. È assolutamente impensabile che si possa condurre una battaglia seria contro la mafia e la sua grande estensione in alcune zone del Sud Italia, se non si ristabiliscono le regole e se non si riporta lo Stato alla sua funzione, che è quella di produrre equità e sicurezza sociale, e non di produrre prepotenza, incertezza e instabilità. La chiave di tutto è sempre la stessa: ristabilire lo Stato di diritto. E questo, naturalmente, vuol dire che bisogna impedire che i commercianti – ad esempio – siano taglieggiati dalla mafia, ma bisogna anche impedire che i diritti di tutti i cittadini – non solo quelli onesti – siano sistematicamente calpestati. La sospensione della legalità, gli strumenti dell’emergenza (come le interdittive, le commissioni d’accesso e simili) possono avere una loro utilità solo in casi rarissimi e in situazioni molto circoscritte. E solo se usati con rigore estremo e sempre con il terrore di commettere prevaricazioni e ingiustizie. Se invece diventano semplicemente – come succede molto spesso – strumenti di potere dell’autorità, magari frustrata dai suoi insuccessi nella battaglia contro la mafia, allora producono un effetto moltiplicatore, proprio loro, del potere mafioso. Perché la discrezionalità, l’arroganza, l’ingiustizia, creano una condizione sociale e psicologica di massa, nella quale la mafia sguazza. Naturalmente non ho proprio nessun elemento per immaginare che l’azienda che ha fatto le scarpe a quella dell’ex presidente di Confindustria (che si è dimesso dopo aver ricevuto questa interdittiva, che ha spezzato le gambe alla sua azienda e i nervi a lui), e cioè l’azienda del deputato dell’antimafia, abbia brigato per ottenere l’interdittiva contro il concorrente. Non ho mai sopportato la politica e il giornalismo che vivono di sospetti. Però il messaggio che è stato mandato alla popolazione di Reggio Calabria, oggettivamente, è questo: se non sei protetto dalla “compagnia dell’antimafia” qui non fai un passo. E se sei deputato, comunque, sei avvantaggiato. Capite che è un messaggio letale? P. S. Conosco molto bene l’imprenditore di cui sto parlando, e cioè Andrea Cuzzocrea, la cui azienda ora è al palo e rischia di fallire. Lo conosco perché insieme a un gruppo di giornalisti dei quali facevo parte, organizzò quattro anni fa la nascita di un giornale, che si chiamava “Il Garantista” e che durò poco perché dava fastidio a molti (personalmente, in quanto direttore di quel giornale, ho collezionato una trentina di querele) e non aveva una lira in cassa. “Il Garantista” era edito da una cooperativa, molto povera, della quale lui assunse per un periodo la presidenza. Non so quali telefonate ebbe con Teresa Munari. Però so per certo due cose. La prima è che Teresa Munari era una giornalista molto accreditata negli ambienti democratici di Reggio Calabria. L’ho conosciuta quattro o cinque anni fa, mi invitò a casa sua a una cena. C’erano anche il Procuratore generale di Reggio e una deputata molto famosa per il suo impegno “radicale” contro la mafia. La Munari collaborò a “Calabria Ora”, giornale regionale che al tempo dirigevo, e successivamente al “Garantista”. Non era raccomandata. E non fu mai, mai assunta. Non era in redazione, non partecipava alla vita del giornale, scriveva ogni tanto degli articoli, che siccome non avevamo il becco di un quattrino credo che non gli pagammo mai. Qualcuno è in grado di spiegarmi come si fa a dire che uno non può costruire un parcheggio perché una volta ha telefonato a Teresa Munari?
Levano l’appalto a un imprenditore incensurato e lo danno a un deputato dell’antimafia, scrive Simona Musco il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Reggio Calabria: un imprenditore incensurato si vede annullata l’assegnazione, e i lavori per 16 milioni sono affidati all’azienda di un deputato.
PARADOSSI CALABRESI. Una azienda di Reggio Calabria, guidata da imprenditori incensurati e senza carichi pendenti, vince un appalto molto ricco: la costruzione del parcheggio del palazzo di Giustizia. È un lavoro grosso, da 16 milioni. L’azienda che è arrivata seconda, nella gara d’appalto, fa ricorso. Il Tar gli dà torto. E conferma l’appalto all’azienda che si è classificata prima (su 19). Allora interviene il Prefetto e fa scattare l’interdittiva per l’azienda vincitrice. Che vuol dire? Che il prefetto ha questo potere discrezionale di interdire una azienda, temendo infiltrazioni mafiose, anche se questa azienda non è inquisita. E il prefetto di Reggio ha esercitato questo potere. E così il lavoro è passato al secondo classificato. Chi è? È un deputato. Un deputato della commissione antimafia.
Un appalto da 16 milioni di euro per la costruzione del parcheggio del nuovo Palazzo di Giustizia. Diciannove aziende che decidono di provarci e due che arrivano in cima alla graduatoria con pochissimi punti di distacco. E un’interdittiva antimafia che fa transitare l’appalto dalle mani della prima – la Aet srl – alla seconda, la Cosedil, fondata da un parlamentare della Commissione antimafia, Andrea Vecchio, e patrimonio della sua famiglia. È successo a Reggio Calabria, dove l’ex presidente di Confindustria Andrea Cuzzocrea ha visto sparire, in pochi mesi, un lavoro imponente, la poltrona di presidente degli industriali e la credibilità. Tutto a causa di uno strumento preventivo – l’interdittiva – che ora rischia di mandare a gambe all’aria l’azienda, da sempre attiva negli appalti pubblici, e i due imprenditori che la amministrano, Cuzzocrea e Antonino Martino, entrambi incensurati.
UN APPALTO DIFFICILE. Tutto comincia nel 2016, quando la Aet srl vince l’appalto per la costruzione dei parcheggi del tribunale di Reggio Calabria. Un lavoro che la città attendeva da tempo e che, finalmente, sembra potersi sbloccare. Ma i tempi per la firma del contratto vengono rallentati dai ricorsi. In prima fila c’è la Cosedil spa, azienda siciliana, che chiede al Tar la verifica dell’offerta presentata dalla Aet e dei requisiti dell’azienda e di conseguenza l’annullamento dei verbali di gara. I giudici amministrativi valutano il ricorso, bocciando tutte le obiezioni tranne una, quella relativa la giustificazione degli oneri aziendali della sicurezza, per i quali la Commissione giudicatrice dell’appalto avrebbe commesso «un macroscopico difetto d’istruttoria». Un errore, si legge nella sentenza, dal quale però non deriva «automaticamente l’obbligo di escludere la società prima classificata». Il Tar, a gennaio, interpella dunque la Stazione unica appaltante, alla quale chiede di effettuare una nuova verifica sull’offerta dell’Aet. Risultato: viene confermata «la regolarità e la correttezza» dell’aggiudicazione dell’appalto. La firma sul contratto per l’avvio dei lavori, dunque, sembrano avvicinarsi.
L’INTERDITTIVA. Ma l’iter per far partire i cantieri subisce un altro stop, quando ad aprile la Prefettura emette un’informativa interdittiva a carico dell’azienda, escludendola, di fatto, dai giochi. Cuzzocrea, che nel 2013 aveva chiesto alla Commissione parlamentare antimafia di «istituire le white list obbligatorie per gli appalti pubblici, rendendo così più trasparente un settore delicatissimo», si dimette da presidente di Confindustria. L’interdittiva riassume elementi già emersi in precedenza nella corposa relazione che ha portato allo scioglimento dell’amministrazione di Reggio Calabria, elementi già confutati, ai quali si aggiunge un nuovo dato, relativo alla parentesi da editore di Cuzzocrea. Ed è sulla base di quello che la Prefettura rivaluta tutto il passato, sebbene esente da risvolti giudiziari. Si tratta del contatto (finito nell’operazione “Reghion”) tra Cuzzocrea e l’ex deputato Paolo Romeo, già condannato definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa e ora in carcere in quanto considerato dalla Dda reggina a capo della cupola masso- mafiosa che governa Reggio Calabria. Nessun rapporto, almeno documentato, prima del 2014: i due si conoscono a gennaio di quell’anno, in Senato, dove sono stati entrambi invitati, in quanto rappresentanti delle associazioni, per discutere della costituenda città metropolitana. Dopo quella volta un unico contatto: Cuzzocrea, presidente della società editrice del quotidiano Cronache del Garantista, viene contattato da Romeo, che gli chiede di valutare l’assunzione di una giornalista, Teresa Munari, secondo la Dda strumento nelle mani di Romeo. Cuzzocrea propone la giornalista, nota in città e ormai in pensione, al direttore Sansonetti, che la inserisce tra i collaboratori, pur senza un contratto. Tra i pezzi scritti dalla Munari su quella testata ce n’è uno in particolare, considerato dalla Dda utile alla causa di Romeo. Che avrebbe perorato la causa dell’amica facendola passare come «un’opportunità per il giornale e non come un favore che richiedeva per sé stesso o per la giornalista», si legge nel ricorso presentato al Consiglio di Stato dalla Aet. La Prefettura non contesta nessun altro contatto tra Romeo e Cuzzocrea, che, scrivono i legali dell’azienda, «non poteva pensare, visto il modo in cui la cosa era stata richiesta, che vi fossero doppi fini nel suggerimento ricevuto. Romeo – si legge ancora – non ha mai avuto altri contatti con l’ingegnere Cuzzocrea ed è detenuto. Non si comprende, quindi, perché ci sarebbe il rischio che possa, iniziando oggi (perché in passato non è successo), condizionare l’attività della Aet». Gli elementi vecchi riguardano invece il socio Antonino Martino, socio al 50 per cento, e coinvolto, nel 2004, nell’operazione antimafia “Prius”, assieme ad alcuni suoi familiari. Un’indagine conclusa, per Martino, con l’archiviazione, chiesta dallo stesso pm, il 5 marzo 2009. Di lui un pentito aveva detto, per poi essere smentito, di essersi intestato, tra il 1992 e il 1993, un magazzino, in realtà riconducibile al temibile clan Condello di Reggio Calabria. Intestazione fittizia, dunque, ipotesi che si basava anche sulla convinzione – sbagliata – che il padre di Martino, Paolo, fosse parente di Domenico Condello. Tali elementi, nel 2013, non erano bastati alla Prefettura per interdire la Aet, tanto che l’azienda aveva ricevuto il nulla osta e l’inserimento nella “white list”, la lista di aziende pulite che possono lavorare con la pubblica amministrazione. E se anche fossero potenzialmente fonte di pericolo non sarebbero più attuali, considerato che, contestano i legali dell’azienda, Paolo Martino è morto e Condello si trova in carcere.
LA COSEDIL. La Aet, dopo la richiesta di sospensiva dell’interdittiva rigettata dal Tar, attende ora il giudizio del Consiglio di Stato. Nel frattempo, alle spalle dell’azienda reggina, rimane la Cosedil, fondata nel 1965 dal parlamentare del Gruppo Misto Andrea Vecchio. La Spa, secondo le visure camerali, è amministrata dai figli del parlamentare che rimane, come recita il suo profilo Linkedin, presidente onorario. Ma Vecchio, componente della Commissione antimafia, nelle dichiarazioni patrimoniali pubblicate sul sito della Camera si dichiara amministratore unico di una delle aziende che partecipano la Cosedil (la Andrea Vecchio partecipazioni) e consigliere della Cosedil stessa. Che rimane l’unica titolata a prendere, con un iter formalmente impeccabile, l’appalto.
Antimafia mafiosa. Come reagire, scrive il 27 settembre 2017 Telejato. C’È, È INUTILE RIPETERLO TROPPE VOLTE, UNA CERTA PRESA DI COSCIENZA DELLA TURPITUDINE DELLA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA, CHE MEGLIO SAREBBE DEFINIRE “LEGGE DEI SOSPETTI”. ANCHE I PIÙ COCCIUTI COMINCIANO AD AVVERTIRE CHE NON SI TRATTA DI “ABUSI”, DI DOTTORESSE SAGUTO, DI “CASI” COME QUELLO DEL “PALAZZO DELLA LEGALITÀ”, DI FRATELLANZE E CUGINANZE DI AMMINISTRATORI DEVASTANTI. È tutta l’Antimafia che è divenuta e si è rivelata mafiosa. Come si addice al fenomeno mafioso, questa presa di coscienza rimane soffocata dalla paura, dal timore reverenziale per le ritualità della dogmatica dell’antimafia devozionale, del komeinismo nostrano che se ne serve per “neutralizzare” la nostra libertà. Molti si chiedono e ci chiedono: che fare? È già qualcosa: se è vero, come diceva Manzoni, che il coraggio chi non c’è l’ha non se lo può dare, è vero pure che certi interrogativi sono un indizio di un coraggio che non manca o non manca del tutto. Non sono un profeta, né un “maestro” e nemmeno un “antimafiologo”, visto che tanti mafiologhi ci hanno deliziato e ci deliziano con le loro cavolate. Ma a queste cose ci penso da molto tempo, ci rifletto, colgo le riflessioni degli altri. E provo a dare un certo ordine, una certa sistemazione logica a constatazioni e valutazioni. E provo pure a dare a me stesso ed a quanti me ne chiedono, risposte a quell’interrogativo: che fare? Io credo che, in primo luogo, occorre riflettere e far riflettere sul fatto che il timore, la paura di “andare controcorrente” denunciando le sciagure dell’antimafia e la sua mafiosità, debbono essere messe da parte. Che se qualcuno non ha paura di parlar chiaro, tutti possono e debbono farlo. Secondo: occorre affermare alto e forte che il problema, i problemi non sono quelli dell’esistenza delle dott. Saguto. Che gli abusi, anche se sono tali sul metro stesso delle leggi sciagurate, sono la naturale conseguenza delle leggi stesse. Che si abusa di una legge che punisce i sospetti e permette di rovinare persone, patrimoni ed imprese per il sospetto che i titolari siano sospettati è cosa, in fondo, naturale. Sarebbe strano che, casi Saguto, scioglimenti di amministrazioni per pretesti scandalosi di mafiosità, provvedimenti prefettizi a favore di monopoli di certe imprese con “interdizione” di altre, non si verificassero. Terzo. Occorre che allo studio, alle analisi giuridiche e costituzionali delle leggi antimafia e delle loro assurdità, si aggiungano analisi, studi, divulgazioni degli uni e degli altri in relazione ai fenomeni economici disastrosi, alle ripercussioni sul credito, siano intrapresi, approfonditi e resi noti. Possibile che non vi siano economisti, commercialisti, capaci di farlo e di spendersi per affrontare seriamente questi aspetti fondamentali della questione? Cifre, statistiche, comparazioni tra le Regioni. Il quadro che ne deriverà è spaventoso. Quindi necessario. E’ questo l’aspetto della questione che più impressionerà l’opinione pubblica. E poi: non tenersi per sé notizie, idee, propositi al riguardo. Questo è il “movimento”. Il movimento di cui molti mi parlano. Articolo di Mauro Mellini. Avvocato e politico italiano. È stato parlamentare del Partito Radicale, di cui fu tra i fondatori.
Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione? E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile? E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?
Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.
Se la legalità è l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi? La legge va sempre rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali prettamente partigiani.
Va denunciato il fatto che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè: calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola sete di potere. La mafia esiste ed è solo quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…Allora niente è mafia. E se niente è mafia, alla fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.
Invece mafioso è ogni atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.
Non denunciare ciò rende complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se rimarranno da soli ed inascoltati.
Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.
"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.
La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la Saguto e per 15 suoi amici, scrive il 26 ottobre 2017 Telejato. DOPO MESI DI INDAGINI, INTERROGATORI, INTERCETTAZIONI, IL NODO È ARRIVATO AL PETTINE. La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la signora Silvana Saguto, già presidente dell’Ufficio Misure di prevenzione, accusata assieme ad altri 15 imputati, di corruzione, abuso d’ufficio, concussione, truffa aggravata, riciclaggio, dopo una requisitoria durata cinque ore. Saranno invece processati col rito abbreviato i magistrati Tommaso Virga, Fabio Licata e il cancelliere Elio Grimaldi. Tra coloro per cui è stato chiesto il rinvio figurano il padre, il figlio Emanuele e il marito della Saguto, il funzionario della DIA Rosolino Nasca, i docenti universitari Roberto Di Maria e Carmelo Provenzano, assieme ad altri suoi parenti, l’ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo. Posizione stralciata anche per l’altro ex giudice dell’ufficio misure di prevenzione Chiaramontee per il suo compagno Antonio Ticali, per il quale la procura ha chiesto l’archiviazione, e per l’altro professore universitario Luca Nivarra e rito abbreviato per Cappellano Seminara. Prossima udienza il 6 novembre, con la parola alle parti civili e al collegio di difesa. Inutile soffermarci ancora sull’allegro e criminoso modo, portato avanti dalla Saguto, di mettere sotto sequestro aziende alle quali, in qualche modo spesso solo indiziario, si attribuiva una patente di mafiosità per procedere alla loro requisizione e affidarne la gestione agli avvocati o economisti che facevano parte del cerchio magico. L’amministrazione giudiziaria di questi beni ha arrecato danni irreversibili all’economia siciliana, poiché le aziende sono state smantellate e non più restituite, anche quando i proprietari sono stati penalmente assolti da ogni imputazione. E proprio oggi arriva la notizia del dissequestro di due aziende finite nel mirino della Saguto, che nel febbraio 2014 ne aveva disposto il sequestro: si tratta della Fattoria Ferla e della Special Fruit, che hanno operato da anni all’interno del settore ortofrutticolo e che oggi, dopo la disamministrazione affidata a Nicola Santangelo, oggi anche lui sotto processo, sono finite in liquidazione, lasciando disoccupati una decina di lavoratori. Le due aziende erano state accusate di essere sotto la protezione del boss dell’Acquasanta Galatolo, nell’ambito di un sequestro di 250 milioni, ma dopo l’attenta valutazione condotta dai magistrati dell’ufficio misure di prevenzione, oggi affidato al nuovo presidente Malizia e ai giudici Luigi Petrucci e Giovanni Francolini, è stato disposto il dissequestro, in quanto non esiste “neanche il sospetto” di infiltrazioni mafiose. Restano ancora sotto sequestro altri beni ed è in corso il procedimento per il successivo dissequestro.
L’antimafia preventiva diventata definitiva, scrive il 13 ottobre 2017 Telejato.
LA PREVENZIONE. Il caso Saguto ha causato l’implosione di un sistema concepito in origine per aggredire i patrimoni mafiosi e colpire i mafiosi nelle loro ricchezze costruite con l’illegalità. Il sistema, giorno dopo giorno è diventato un metodo in virtù del grande potere attribuito ai giudici di poter sequestrare i beni, anche attraverso la semplice “legge del sospetto”, e di poterli tenere sotto sequestro anche quando i procedimenti penali hanno ufficialmente decretato l’infondatezza di questo sospetto e prosciolto i cosiddetti “preposti”, cioè soggetti a sequestro da ogni imputazione di associazione, contiguità, concorso con il malaffare mafioso. Ancora oggi restano sotto sequestro immensi patrimoni di soggetti che, in altri periodi si sono piegati alla legge del pizzo, in alcuni casi per continuare a lavorare, in altri casi, è giusto dirlo, anche per avere mano libera nel badare ai propri affari. Quello che per loro era un “piegarsi alla regola” della “messa a posto”, per sopravvivere, diventa accusa di collaborazione e concorso in associazione mafiosa, così che le vittime diventano complici. L’imprenditoria siciliana, soprattutto nei suoi risvolti commerciali e nell’edilizia, ha subito tremende battute d’arresto, poiché la mannaia della prevenzione si è abbattuta su aziende che davano lavoro a migliaia di siciliani oggi disoccupati, senza preoccuparsi di sorvegliare la gestione dei beni confiscati, affidati ad amministratori giudiziari, alcuni senza scrupoli, altri del tutto incapaci e incompetenti, che hanno prosciugato i beni dell’azienda loro affidata per foraggiare se stessi e i propri collaboratori. In tal modo quello che avrebbe dovuto essere un momento “preventivo”, al fine di evitare la reiterazione del reato, diventa un momento definitivo, dato il prolungamento all’infinito delle misure di prevenzione, anche ad assoluzione penale avvenuta.
LA NUOVA LEGGE ANTIMAFIA. Da parte di alcuni settori si è gridato alla vittoria e al passo in avanti dato dal nuovo codice antimafia, approvato nel settembre scorso, ma, come abbiamo più volte scritto, si tratta di una legge nata vecchia, con qualche ritocco alla vecchia legge del 2012, senza che siano indicate regole precise né sul periodo, cioè sulla durata in cui un bene deve essere tenuto sotto sequestro, né sulle prove e sulle condizioni che dovrebbero giustificare il sequestro, né sulle penalità da attribuire agli amministratori incompetenti o ai magistrati che hanno agito frettolosamente, senza che la loro azione sia stata giustificata da un minimo di sentenza. È rimasto il solco tra procedimento penale e procedimento di prevenzione, anzi il procedimento di prevenzione è stato esteso anche ai reati di corruzione, commessi in associazione, senza garanzie sulla possibile restituzione e sul risarcimento dei danni causati dalla disamministrazione. Insomma, come al solito non pagherà nessuno e i magistrati potranno continuare ad agire nel massimo della libertà che non è sempre garanzia di giustizia.
I RESPONSABILI. Dopo questa premessa citiamo, e ricordiamo i numerosi nomi di amministratori che, in un modo o in un altro hanno contribuito a creare sfiducia nella possibilità di potere portare avanti un’azione antimafia decisa e corretta, che avrebbe dovuto avere come finalità primaria la possibilità di non affossare l’economia siciliana, ma di salvaguardarla dalle infiltrazioni mafiose e di costruirla nel rispetto delle regole parallelamente alle condizioni di crisi, di cui ancora non si vede l’uscita, nonostante lo strombazzamento di miglioramenti dei quali in Sicilia non vediamo nemmeno l’ombra. La salvaguardia di quel poco esistente, spesso dovuto al coraggio di imprenditori che hanno rischiato tutto e si sono anche indebitati per costruire un’azienda, non è stata in alcun modo presa in considerazione, e ciò ha causato il crollo di strutture e aziende, come quelle dei Niceta, dei Cavallotti, di Calcedonio Di Giovanni, della catena di alberghi Ponte, della Motoroil, della Clinica Villa Teresa di Bagheria, (sia nel settore sanitario che in quello edilizio), della Meditour degli Impastato, dei supermercati Despar di Grigoli in provincia di Trapani e Agrigento, dell’impero televisivo e concessionario dei Rappa e così via. Responsabili i vari a Cappellano Seminara, Sanfilippo, Santangelo, Aulo Giganti, Ribolla, Scimeca, Benanti, Walter Virga, Rizzo, Modica de Moach e così via. Molti di questi sono ancora al loro posto, mentre altri sono stati sostituiti. Di questo lungo elenco faceva parte Luigi Miserendino che, ieri, si è dimesso da tutti gli incarichi, per avere lasciato al suo posto il re dei detersivi Ferdico, il quale è stato assolto da tutto, ma ricondotto in carcere, mentre il carcere è stato revocato a Miserendino, poiché, dimessosi, non potrà più reiterare il reato.
IL PROFESSORE. Oggi spunta la notizia, altrettanto grave dell’interrogatorio del prof. Carmelo Provenzano, il quale, dopo avere sistemato nelle varie amministrazioni moglie, fratello, cognata e altri amici, dopo avere rifornito di frutta fresca il frigorifero della Saguto e del prefetto di Palermo Cannizzo, dopo avere agevolato la laurea del figlio della Saguto, anche con l’aiuto del rettore dell’Università di Enna Di Maria, oggi dichiara candidamente al giudice Bonaccorso che lo sta interrogando, di avere fatto tutto questo perché rientrava nelle sue funzioni di docente aiutare gli alunni, tra i quali cita anche il figlio dell’ex procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari e si lamenta addirittura che le sue telefonate al figlio di Lari non sono agli atti del procedimento contro di lui. Va tenuto presente comunque che Lari è stato quello che ha dato il via all’inchiesta aperta dei giudici di Caltanissetta contro la Saguto e i suoi collaboratori, o, se vogliamo, complici. Secondo Provenzano tutto quello che è successo era “normale”, tutti facevano così, rientrava nel normale modo di gestire i beni sequestrati quello di aiutarsi e appoggiarsi reciprocamente tra i vari componenti del cerchio magico. Né più né meno come quando Craxi dichiarò in parlamento che il sistema delle tangenti ai partiti era normalità, che tutti facevano così, tutti mangiavano e non poteva essere lui solo a pagare per tutti. E se tutto è normale, non è successo niente, abbiamo scherzato, hanno scherzato i giudici di Caltanissetta ad aprire il procedimento, sono tutti innocenti e tutti dovrebbero essere assolti, Cappellano compreso, perché hanno fatto egregiamente il loro lavoro. Conclusione, ma non solo per Provenzano, è che tutto quello che dovrebbe essere anormale, anche il malaffare, è normale, mentre è anormale il corretto funzionamento della giustizia e l’applicazione di eventuali pene nei confronti di chi sbaglia. Ovvero fuori i mascalzoni e dentro chi si comporta onestamente o chi si permette di denunciare il disonesto modo di amministrare la cosa pubblica, i beni dello stato, il corretto funzionamento della giustizia. Come succede molto spesso in Italia, secondo un detto antichissimo cui ostinatamente non possiamo e non dobbiamo rassegnarci: “La furca è pi li poviri, la giustizia pi li fissa
L’Italia non è un paese per giovani (avvocati): elevare barriere castali e di censo non è una soluzione, scrive il 28 Aprile 2017 “L’Inkiesta”. Partiamo da due disfunzioni che affliggono il nostro Paese e che stanno facendo molto parlare di sé. Da una parte, la crisi delle libere professioni e, in generale, delle lauree, con importanti giornali nazionali che ci informano, per esempio, che i geometri guadagnano più degli architetti. Dall’altra, le inefficienze del sistema giudiziario. Queste, sono oggetto di dibattito da tempo immemorabile, ci rendono tra i Paesi peggiori dell’area OCSE e ci hanno fatti condannare da niente-popò-di-meno-che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Incrociate ora i due trend. Indovinate chi ci rimane incastrato in mezzo? Ovviamente i giovani laureati/laureandi in giurisprudenza, chiusi tra un percorso universitario sempre più debole e una politica incapace di portare a termine una riforma complessiva e decente dell’ordinamento forense. Come risolvere la questione? Con il numero chiuso a giurisprudenza? Liberalizzando la professione legale? Niente di tutto questo, ci mancherebbe. In un Paese dove gli avvocati rappresentano una fetta rilevante dei parlamentari, la risposta fornita dall’ennesima riforma è facile facile. Porre barriere di censo e di casta all’accesso alla professione. Da questa prospettiva tutte le recenti novità legislative acquistano un senso e rivelano una logica agghiacciante. I malcapitati che si laureeranno in Giurisprudenza a partire dall’anno 2016/2017 avranno una prima sorpresina: l’obbligo di frequentare una scuola di formazione per almeno 160 ore. Anche a pagamento se necessario, come da parere positivo del Consiglio Nazionale Forense.
La questione sarebbe da portare all’attenzione di un bravo psicanalista. Giusto qualche osservazione: (1) se la pratica deve insegnare il mestiere, perché aggiungere un’altra scuola obbligatoria?; (2) Se la Facoltà di Legge - che in Italia è lunghissima: 5 anni, contro i 3 di Stati Uniti e Regno Unito e i 4 della Francia, per esempio – serve a così poco, tanto da dover essere integrata anche dopo la laurea, perché non riformarla?; (3) perché fermare i ragazzi dopo la laurea, invece di farlo prima? Ci sarebbero anche altre questioni. Per esempio, 160 ore di formazione spalmate su 18 mesi, per i fortunati ammessi, non sono molte in teoria. Tuttavia, basta vedere le sempre maggiori proteste riportate dai giornali, e rigorosamente anonime, di praticanti-fotocopisti senza nome, sfruttati e non pagati, per accorgersi che la realtà è molto diversa dalla visione irenica (ipocrita è offensivo?) dei riformatori. E, in ogni caso, anche se il praticante fosse sufficientemente fortunato da avere qualche soldo in tasca, ciò non gli permetterebbe di godere del dono dell’ubiquità. Ma così si passerebbe dal settore della psicanalisi a quello della parapsicologia. Meglio evitare. Andiamo oltre.
Abbiamo superato la prima trincea. Coi soldi del nonno ci manteniamo nella nostra pratica non pagata o mal pagata. Magari siamo bravissimi ed accediamo ai corsi di formazione a gratis o con borsa. Arriva il momento dell’esame. Presto l’esame scritto sarà senza codice commentato. E fin qui, nessun problema. Meglio ragionare con la propria testa che affannarsi a cercare la “sentenza giusta”, magari senza capirla. Le prove verteranno sempre su diritto civile, diritto penale e un atto. Segue un esame orale con quattro materie obbligatorie: diritto civile, diritto penale, le due relative procedure, due materie a scelta e la deontologia forense. E qui il fine giurista si deve trasformare in una specie di Pico de La Mirandola, mandando a memoria tutto in poco tempo. Magari col capo che non ti concede più di un mese di assenza dalla tua scrivania. Ma il problema di questo esame è un altro. Poniamo che io sia un praticante in gamba e che abbia trovato lavoro in un grosso studio internazionale leader nel settore del diritto bancario. Plausibilmente, lavorerò con professionisti fantastici e avrò clienti prestigiosi. Serve a qualcosa per l’esame di stato? Risposta: no. Riformuliamo la questione. Se io mi occupo di diritto bancario o di diritto societario, cosa me ne frega di studiare diritto penale, materia che non mi interessa e che non praticherò mai? Mistero. L’esame di abilitazione fu regolato per la prima volta nel 1934 e la sua logica è rimasta ferma lì. Come se l’avvocato fosse ancora un piccolo professionista individuale che fa indifferentemente tutto. Pensateci la prossima volta che sentite qualcuno sciacquarsi la bocca con fregnacce sulla specializzazione degli avvocati e sulla dipartita dell’avvocato generico. Pensateci.
Passata anche la seconda trincea. Siete avvocati. Tutto bene? No. Tutto male. Finirete sotto il fuoco della Cassa Forense, obbligatoria, che vi mitraglierà. Non importa se siete potentissimi astri nascenti o piccoli professionisti. I risultati? Migliaia di giovani avvocati che si cancellano dall’albo ogni anno. Sgombriamo subito il campo da equivoci. Spesso quando si introduce questo tema ci si sente rispondere che in Italia ci sono troppi avvocati e se si sfoltiscono è meglio. Giusto. Ma ciò non può condurre ad affermare che dei giovani siano tagliati fuori da un sistema disfunzionale. La selezione dura va bene; il terno al lotto no. La competizione, anche spietata, va bene; le barriere all’accesso strutturate senza la minima logica no. Dietro le belle parole, si nasconde un sistema che, come avviene anche per altre professioni, cerca di tutelare se stesso sbattendo la porta in faccia ai giovani che vorrebbero entrare. Non tutti ovviamente. Senza troppa malizia vediamo che avrà meno crucci: (1) chi ha il padre, nonno, zio, fratello maggiore ecc… titolare di uno studio legale. Una mancetta arriverà sempre, con essa il tempo libero per frequentare la formazione obbligatoria e una study leave succulenta di un paio di mesi per preparare l’esame; (2) chi è ricco di famiglia e che, dunque, può godere dei vantaggi di cui sopra per vie traverse; (3) chi, date le condizioni di cui ai punti 1 e 2, può sostenere l’esame due, tre, quattro, cinque volte. E la meritocrazia? Naaaa, quello è uno slogan da sbandierare in campagna elettorale, cosa avete pensavate, sciocconi? In definitiva, il sistema come si sta concependo non fa altro che porre barriere all’ingresso che favoriscono il ceto e di casta. Una volta che si è entrati, invece, si fa in modo di cacciare fuori coloro che non arrivano a fine mese, tendenzialmente i più giovani o i più piccoli.
Ci sono alternative? Guardiamo un paese come la Francia. Lì, l’esame duro e temutissimo è quello per l’accesso all’école des Avocats, superato ogni anno da meno di un terzo dei candidati. Ma, (1) lo si sostiene appena terminata l’università, quando si è “freschi”; (2) è la precondizione per l’accesso al tirocinio, non un terno al lotto che viene al termine di 18/24 mesi di servaggio, spesso inutile ai fini del superamento dell’esame. Quindi, se si fallisce, al netto della delusione, si può subito andare a fare altro. Oppure si riprova (fino a tre volte). In ogni caso, però, non si buttano due anni di vita. La conclusione è sempre la stessa. L’Italia è un Paese che investe poco nei giovani. E che ci crede poco, a giudicare dalle frequenti sparate e rimbrotti di ministri vari. Sperando che non si cerchi, di fatto, di risolvere il problema con l’emigrazione, il messaggio deve essere chiaro. Non si faccia pagare ai giovani l’incapacità del sistema di riformarsi seriamente e organicamente. Le alternative ci sono.
Giornalisti? E’ meglio se andate a fare gli operai, scrive di Andrea Tortelli, Responsabile di "GiornalistiSocial.it". E’ meglio se andate a fare gli operai, credetemi. Lo dicono i numeri. Chiunque aspiri a fare il giornalista, in Italia, deve confrontarsi con un quadro di mercato ben più drammatico di quello di altri settori in crisi. Il giornalista rimane una professione molto (troppo) ambita, ma non conferisce più prestigio sociale a chi la pratica e soprattutto non è più remunerativa. Diverse classifiche, non solo italiche, inseriscono quello del reporter fra i lavori a maggiore rischio di indigenza. E chi pratica bazzica in questo mondo non può stupirsene.
Qualche numero sui media. Il mondo dei media è in crisi da tempo, ben prima che arrivassero i social a dare il colpo di grazia. In una provincia come Brescia, dove vivo, non c’è un solo giornale cartaceo o una televisione locale che nell’ultimo quinquennio non abbia ridotto il proprio organico e chiuso qualche bilancio in rosso. Tutto ciò mentre gli on line sopravvivono, ma non prosperano: generando numeri, ma recuperando ben poche delle risorse perse per strada dai media tradizionali. In Italia, va detto, i giornali non hanno mai goduto di troppa gloria. Da sempre siamo una delle popolazioni al mondo che legge meno. Meno di una persona su venti, oggi, compra un quotidiano in edicola e il calo è costante. Il Corriere della Sera, solo per fare un esempio, tra il 2004 e il 2014 ha dimezzato le proprie copie (l’on line, nello stesso periodo, è passato da 2 milioni di utenti al mese a 1,5 al giorno, Facebook da zero a 2 milioni di fan…). Nel 2016, ancora, i cinque giornali cartacei più venduti (Corsera, Repubblica, Sole 24 Ore, La Stampa e Gazzetta dello Sport) hanno perso un decimo esatto delle copie.
Non va meglio sul fronte dei fatturati. Dal 2004 al 2014 – permettetemi di riciclare un vecchio dato – il mercato pubblicitario italiano è passato da 8 miliardi 240milioni di euro a 5 miliardi e 739milioni (fonte DataMediaHub). La tv è scesa da 4 miliardi 451 milioni a 3.510 milioni, la stampa si è più che dimezzata da 2 miliardi 891 milioni a 1 miliardo 314 milioni, il web è cresciuto sì. Ma soltanto da 116 milioni a 474. Vuol dire che – dati alla mano – per ogni euro perso dalla carta stampata in questo decennio sono arrivati sul web soltanto 22 centesimi (del resto, agli attuali prezzi di mercato, mille clic vengono pagati oggi meno di due euro…). E gli altri 80 centesimi dove sono finiti? Un po’ si sono persi a causa della crisi. Ma una grossa fetta – non misurabile – è finita alle big del web, nel grande buco nero fiscale di Google e Facebook. Cioè è uscita dal circuito dell’informazione e dell’editoria.
I giornalisti che fanno? A una drastica riduzione delle copie e dei fatturati consegue ovviamente una drastica riduzione degli organici. Ma a questo dato si somma un aumento significativo dell’offerta (complici le scuole di giornalismo, ma non solo…) e un aumento esponenziale della concorrenza “impropria”, dovuta al fatto che Facebook è ormai la prima fonte di informazione degli italiani e sono molti a operare fuori dal circuito tradizionale (e spesso anche fuori dal circuito legale) dei media. In questo contesto, le possibilità di spuntare un contratto ex Articolo 1 (Cnlg) per un giovane sono praticamente nulle. Ma anche portare a casa almeno mille euro lordi al mese è un’impresa se ci sono quotidiani locali, anche di gruppi importanti, che pagano meno di 10 euro un articolo. E on line, a quotazioni di “mercato”, un pezzo viene pagato anche un euro. Lordo. Non è un caso che sempre più colleghi abbiano decisi di cambiare vita, e molto spesso sono i più validi. Ne conosco molti. C’è chi fa l’operaio part time a tempo indeterminato e arrotonda scrivendo (quasi per passione), chi ha mollato tutto per una cattedra da precario alle superiori, chi all’ennesima crisi aziendale ha deciso di andare a lavorare a tempo pieno in fabbrica per mantenere i figli e chi ancora era caporedattore di un noto giornale – oltre che penna di grandissimo talento – e ora si dedica alla botanica. Con risultati di eguale livello, pare. I dati dell’Osservatorio Job pricing, del resto, indicano che nel 2016 un operaio italiano guadagnava mediamente 1.349 euro. Il collaboratore di una televisione locale, a 25 euro lordi a servizio, dovrebbe fare più di 50 uscite (con montaggio annesso) per portare a casa la stessa cifra. Il collaboratore di un quotidiano locale dovrebbe firmare almeno 100 pezzi, tre al giorno. Senza ferie, tredicesima, malattia e possibilità di andare in banca a chiedere un mutuo se privo della firma di papi. Insomma: il vecchio adagio del “sempre meglio che lavorare” è ancora attuale, ma ha drammaticamente cambiato significato. Visto che il giornalismo è diventato per molti un hobby o una moderna forma di schiavitù, quasi al livello dei raccoglitori di pomodori pugliesi. Dunque?
La soluzione. Dunque… Quando qualcuno mi contatta per chiedermi come si fa a diventare giornalista (circostanza piuttosto frequente, visto che gestisco GiornalistiSocial.it) cerco sempre di fornirgli un quadro completo e oggettivo della situazione, per non illudere nessuno. Alcuni si incazzano e spariscono. Altri ringraziano delusi. I più ascoltano, ma non sentono. Una piccola parte comprende che il mestiere del giornalista, nel 2017, ha un senso solo se sussistono due elementi: una grande passione e la volontà di fare gli imprenditori di se stessi. Fare il giornalista, in Italia ma non solo, richiede oggi una grande capacità di adattamento al sistema della comunicazione e un sistema di competenze tecniche estese (fotografia, grafica, video, social, web, seo e anche marketing, parola che farebbe accapponare la pelle a quelli della vecchia scuola) per sopravvivere a un mercato sempre meno chiuso, in cui i concorrenti sono tanto i colleghi e gli aspiranti colleghi, quanto tutti i laureati privi di occupazione e i liberi professionisti dell’articolato mondo web. Ma questo è un altro capitolo. Nel frattempo, è meglio che andiate a fare gli operai. Oppure ribellatevi.
La precarietà dei giornalisti invisibili, scrive il 16 dicembre 2017 Valentina Tatti Tonni su "Articolo 21". Al pari degli altri danno senso alla verità, ma non sono retribuiti e il loro lavoro non è riconosciuto. In Italia c’è un sistema, perlopiù marcio che le cronache ben conoscono. In Italia per conoscere e volendo tutelare l’esercizio di una professione, c’è bisogno di un Ordine di categoria che come una grande impresa regoli gli iscritti con un badge (tessera di riconoscimento) e un’imposta annuale. Potranno lavorare in modo “regolare” solo i soci onorari dell’impresa. Tutti gli altri si sentiranno o saranno, poco labile la differenza, cittadini fuorilegge che svolgono una professione che non gli compete. C’è una diffusa credenza, falsa per il resto del mondo nel quale non esiste alcun Ordine perentorio e nel quale si è quello che si fa, che si diventi professionista solo entrando in possesso di questo magico libretto, lungi la riconoscenza che avrebbe potuto avere Joseph Pulitzer in assenza. Giornalista ed editore puro americano, di certo non si sarebbe sentito meno rispetto a un qualunque collega italiano. L’Italia dunque è una Repubblica fondata sul lavoro circoscritto a pochi eletti. I restanti fuori da questa ristretta cerchia, passano l’esistenza tra un contratto e un lavoro in nero. Nero come la borsa in tempo di guerra. Con un fazzoletto di volontà ben ripiegato nella tasca della giacca, nella loro mente sanno di essere buoni giornalisti ma si potrebbe affermare in loro l’idea di non essere considerati uguali dagli altri colleghi, non tanto per la giacca quanto per i diritti che si nascondono sotto. “Come hai fatto ad accettare un lavoro nero e sporcare così la professione?” si sentirà chiedere con astio, con tutte le colpe rovesciate in capo. E’ vero, avrebbe potuto non accettare e non avere alcuna visibilità, smettere di cercare l’opportunità giusta anche se spesso questo significherà ripiegare la passione e l’istinto. Avrebbe potuto vendere il suo ideale e il suo buon cuore al miglior offerente, barattare il pensiero prima che potesse giurare la sua lealtà alla Costituzione e alla deontologia. Avrebbe persino potuto evitare qualunque interferenza con la parola, sì, ma cosa sarebbe diventato senza la sua identità a contatto con la pelle? Non è giusto fare generalizzazioni. Esistono persone che sono riuscite nel loro intento, pur non avendo parenti o amici pronti a soccorrerli e indirizzarli. Sono riusciti a imboccare una strada e arrivare fino al traguardo senza scuole di giornalismo né aiuti di sorta. Tuttavia ogni persona ha una sua storia, ed è per questo presumo che il legislatore abbia voluto una legge costruita per assistere la professione, che prevedesse le sue problematiche e tentasse di risolverle. La precarietà in questo senso duplice è una di queste problematiche. E’ precario il lavoratore con un contratto provvisorio di cui si ci si attenda un cambiamento e dunque alla quotidianità vi si leghi un’aspettativa e un’ansia maggiore, ma è precario anche quel lavoratore d’altro canto minacciato per il suo operato o in alternativa imputato dinnanzi a una Corte composta di suoi pari che lo giudicheranno “colpevole di Giornalismo”. La condanna è la derisione ma non è possibile schierarsi per ricevere una miglior difesa, poiché da tale imputazione non ci si macchia per assenso generale ma per comportamento. Queste leggi approvate per rendere la precarietà meno illegale di fatto favoriscono l’incongruenza della disparità, non rendendo alcun merito a chi di questo lavoro ha fatto il suo mantra e la sua missione. Accedere a questo lavoro dovrebbe essere una possibilità, non un privilegio. E invece, le possibilità per accedervi sono ad oggi esclusive: frequentazione di una scuola biennale, il praticantato o la pubblicazione di un numero di articoli firmati e stipendiati in modo continuativo, queste le alternative per accedere alla professione. Il problema però è che a dispetto di dieci anni fa, la continuità è una chimera, così come il contratto, il pagamento, il praticantato, per una grande fetta di imprese editoriali presenti sul territorio non è neanche un’opzione. Va da sé che, esclusa la parentela e una dose di fortuna, il giornalismo resti un mondo a sé stante dove non tutti quelli che vogliono entrarvi a far parte ci riescono e, sia detto che, spesso, non è per mancanza di volontà ma a causa della privazione di tutta una serie di cose, come il fatto che sembra non esista più il mentore che ti dica: “Questo pezzo fa schifo, riscrivilo” e da queste sole piccole parole ti trasmetta il suo sapere e mantenga in te il coraggio di tentare. No, oggi il sapere è inserito dentro un cassetto elettronico, sterile e senza spessore umano. Così quella che si gioca è una corsa a ostacoli per vincere la penna d’oro, una corsa nella quale la competitività va a braccetto con la desolante paura di non essere abbastanza. Essendo l’Ordine un ente pubblico che gestisce l’albo associativo dei giornalisti italiani, dal 1963 anno della sua fondazione obbliga chiunque voglia intraprendere la professione a iscriversi e rispettare le sue leggi. Chiunque altro operi da freelance, non iscritto ad alcun registro, pur rispettando le leggi dell’albo cui vorrebbe appartenere per una forma di dipendenza, istiga tutti alla verità ma è un fuorilegge a tutti gli effetti. Se scrive o filma con cognizione lo può fare solo con le dovute precauzioni da cittadino, allargando così sotto di sé la piaga della casta. Può paragonarsi a un abile narratore, ma se vuole sfruttare la pazienza e l’insegnamento di un giornalista la cui realtà si misura con il badge di inserimento deve rischiare un ruolo che si sente addosso ma che non ha. Appartengono a questa fascia di professionisti, i giornalisti invisibili che vivono anni in un limbo fatto di sacrifici. Se lavorano in nero non è per compiacenza ma per necessità, e anzi, sapendo che prima o poi qualcuno potrebbe accorgersi del loro “stato temporaneo”, quasi in attesa trepidante di un visto speciale, sfoderano dalla penna o dalla telecamera un rigoroso senso morale e critico per ovviare al senso di manifesta inadeguatezza nella quale l’Ordine ci colloca. Se è lecito che non tutti si improvvisino del mestiere, che allo stesso modo verrebbe il dubbio del buon operato se un calzolaio si mettesse di punto in bianco a vendere viaggi, diverso sarebbe il caso di un calzolaio che in seguito a dovuti studi e approfondimenti abbia scoperto che è la pianificazione e la vendita del viaggio per conto terzi a rendere la sua vita migliore, sarebbe allora questo il modo per riconoscergli la possibilità di cambiare. Il giornalista invisibile, ugualmente, non può invece essere riconosciuto per l’inosservanza di un iter burocratico e la sua vita dovrà essere vincolata, senza per questo smettere di dare un senso alla verità rischiando tutto quello che gli basterebbe oltrepassare il confine per essere.
Mi sono laureata nonostante gli abusi dei professori. Mi chiamo Carolina, e sono una neolaureata all'Università Statale di Milano. Mi sono sentita moralmente obbligata a scrivere questa lettera, che spero potrà avere una sua risonanza. So che qualche anno fa i quotidiani si erano già occupati dell'incresciosa situazione logistica in alcune facoltà della Statale, una situazione che ha costretto me come centinaia di altri studenti a seguire per interi semestri le lezioni seduti sul pavimento, quando non addirittura in piedi fuori dalle porte e dalle finestre delle aule. Ma in questa sede vorrei invece parlare della condotta dei professori, della quale ingiustamente non si è mai fatto parola. Per natura tendo a non parlare mai di ciò che non conosco direttamente, quindi mi riferirò esclusivamente alle facoltà sotto la dicitura di Studi Umanistici della Statale. Volendo evitare di fare di tutta l'erba un fascio, ammetto volentieri il fatto di aver incontrato durante la mia carriera universitaria professori competenti e disponibili, e mi piacerebbe poter dire che sono la maggioranza. Ma ciò di cui non si parla mai sono gli altri, una vera e propria casta che segue solamente le proprie regole anche e spesso a dispetto degli studenti. Urge fare qualche esempio pratico. Ci sono professori che perdono esami di studenti e non solo non denunciano l'accaduto, ma bocciano gli studenti interessati sperando che loro non arrivino mai a scoprirlo, ma si limitino semplicemente a ripetere l'esame in questione. Ci sono professori che in una giornata di interrogazioni d'esame si prendono ben tre ore di pausa pranzo. Ce ne sono altri che con appelli programmati da mesi, fanno presentare tutti gli studenti iscritti e poi annunciano di dover partire per un viaggio, e che quelli non interrogati si devono ripresentare due settimane dopo. Alcuni si rifiutano, benché avvisati con anticipo, di interrogare gli studenti che hanno seguito il corso con un altro professore non disponibile per l'appello d'esame. E ultimi, ma certamente non per importanza, ci sono i professori che ogni anno mandano fuori corso decine di studenti che hanno finito per tempo gli esami, impedendogli di laurearsi nell'ultima sessione disponibile per loro e costringendoli a pagare un anno intero di retta universitaria perché "non hanno tempo di seguire questa tesi" oppure perché il candidato "è troppo indietro con la stesura, ci sarebbe troppo da fare". Tutti gli episodi sopra citati sono accaduti ad una sola persona, me. E per quanto io mi renda conto di essere stata particolarmente sfortunata, mi riesce difficile pensare di essere l'unica alla quale cose del genere sono successe. Questi veri e propri abusi di potere rendono quasi impossibile per gli studenti godere del generalmente buon livello di istruzione offerto dall'università. Mi includo nel gruppo quando mi chiedo come mai gli studenti non si siano mai fatti sentire, e mi vergogno quasi un po' a scrivere questa lettera con il mio bell'attestato di laurea appeso in stanza, ma la verità è che mi è costato fin troppa fatica, e non ero disposta a mettere a rischio la possibilità di ottenerlo, dal momento che non ero io ad avere il coltello dalla parte del manico. Ma non mi sembrava ad ogni modo corretto lasciare che tali comportamenti passassero sotto silenzio. L'istruzione pubblica dovrebbe essere un diritto, non un privilegio, ed insegnare dovrebbe essere una grande responsabilità, qualcosa di cui non abusare mai. Carolina Forin 14 ottobre 2017 “L’Espresso”
I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)
“L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.
La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).
"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)
Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.
Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito ed informato da coglioni.
È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt
Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.
"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta".
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?
Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.
Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."
Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.
Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.
I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.
Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontrate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.
L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.
Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.
La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati.
Cane non mangia cane. E questo a Taranto, come in tutta Italia, non si deve sapere.
Questo il commento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS che ha scritto un libro “Tutto su Taranto. Quello che non si osa dire”.
Un’inchiesta di cui nessuno quasi parla. Si scontrano due correnti di pensiero. Chi è amico dei magistrati, dai quali riceve la notizia segretata e la pubblica. Chi è amico degli avvocati che tace della notizia già pubblicata. "Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico", proverbio cinese. Qualcuno a me disse, avendo indagato sulle loro malefatte: “poi vediamo se diventi avvocato”...e così fu. Mai lo divenni e non per colpa mia.
Dei magistrati già sappiamo. C’è l’informazione, ma manca la sanzione. Non una condanna penale o civile. Questo è già chiedere troppo. Ma addirittura una sanzione disciplinare.
Canzio: caro Csm, quanto sei indulgente coi magistrati…, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 19 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Per il vertice della Suprema Corte questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona”. La dichiarazione che non ti aspetti. Soprattutto per il prestigio dell’autore e del luogo in cui è stata pronunciata. «Il 99% dei magistrati italiani ha una valutazione positiva. Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa». A dirlo è il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, intervenuto ieri mattina in Plenum a Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare questa “anomalia” che contraddistingue le toghe rispetto alle altre categorie professionali dello Stato. La valutazione di professionalità di un magistrato che era stato in precedenza oggetto di un procedimento disciplinare ha offerto lo spunto per approfondire il tema, particolarmente scottante, delle “note caratteristiche” delle toghe. «È un dato clamoroso – ha aggiunto il presidente Canzio che i magistrati abbiano tutti un giudizio positivo». Questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona” e che necessita di essere “rivisto” quanto prima. Anche perché fornisce l’immagine di una categoria particolarmente indulgente con se stessa. In effetti, leggendo i pareri delle toghe che pervengono al Consiglio superiore della magistratura, ad esempio nel momento dell’avanzamento di carriera o quando si tratta di dover scegliere un presidente di tribunale o un procuratore, si scopre che quasi tutti, il 99% appunto, sono caratterizzati da giudizi estremamente lusinghieri. Ciò stride con le cronache che quotidianamente, invece, descrivono episodi di mala giustizia. In un sistema “sulla carta” composto da personale estremamente qualificato, imparziale e scrupoloso non dovrebbero, di norma, verificarsi errori giudiziari se non in numeri fisiologici. La realtà, come è noto, è ben diversa. Qualche mese fa, parlando proprio delle vittime di errori giudiziari e degli indennizzi che ogni anno vengono liquidati, l’allora vice ministro della Giustizia Enrico Costa, parlò di «numeri che non possono essere considerati fisiologici ma patologici». Ma il problema è anche un altro. Nel caso, appunto, della scelta di un direttivo, è estremamente arduo effettuare una valutazione fra magistrati che presentato le medesime, ampiamente positive, valutazioni di professionalità. Si finisce per lasciare inevitabilmente spazio alla discrezionalità. Sul punto anche il vice presidente del Csm Giovanni Legnini è d’accordo, in particolar modo quando un magistrato è stato oggetto di una condanna disciplinare. «Propongo al Comitato di presidenza di aprire una pratica per approfondire i rapporti fra la sanzione disciplinare e il conferimento dell’incarico direttivo o la conferma dell’incarico». Alcuni consiglieri hanno, però, sottolineato che l’1% di giudizi negativi sono comunque tanti. Si tratta di 90 magistrati su 9000, tante sono le toghe, che annualmente incappano in disavventure disciplinari. Considerato, poi, che l’attuale sistema disciplinare è in vigore da dieci anni, teoricamente sarebbero 900 le toghe ad oggi finite dietro la lavagna. Un numero, in proporzione elevato, ma che merita una riflessione attenta. Il Csm è severo con i giudici che depositano in ritardo una sentenza ma è di “manica larga” con il pm si dimentica un fascicolo nell’armadio facendolo prescrivere.
Solo un rimbrotto per il pm che "scorda" l'imputato in galera, scrive Rocco Vazzana il 30 novembre 2016 su "Il Dubbio". Il Csm ha condannato 121 magistrati in due anni. Ma si tratta di sanzioni molto leggere. Centoventuno condanne in più di due anni. È il numero di sanzioni che la Sezione Disciplinare del Csm ha irrogato nei confronti di altrettanti magistrati. Il dato è contenuto in un file che in queste ore gira tra gli iscritti alla mailing list di Area, la corrente che racchiude Md e Movimenti. Su 346 procedimenti definiti - dal 25 settembre 2014 al 30 novembre 2016 - 121 si sono risolti con una condanna (quasi sempre di lieve entità), 113 sono le assoluzioni, 15 le «sentenze di non doversi procedere» e 124 le «ordinanze di non luogo a procedere». L'illecito disciplinare riguarda «il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga, in ufficio o fuori, una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario». Le eventuali condanne hanno una gradazione articolata in base alla gravità del fatto contestato. La più lieve è l'ammonimento, un semplice «richiamo all'osservanza dei doveri del magistrato», seguito dalla censura, una formale dichiarazione di biasimo. Poi le sanzioni si fanno più severe: «perdita dell'anzianità» professionale, che non può essere superiore ai due anni; «incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo»; «sospensione dalle funzioni», che consiste nell'allontanamento con congelamento dello stipendio e con il collocamento fuori organico; fino arrivare alla «rimozione» dal servizio. C'è poi una sanzione accessoria che riguarda il trasferimento d'ufficio. Per questo, la sezione Disciplinare può essere considerata il cuore dell'autogoverno. Perché se il Csm può promuovere può anche bloccare una carriera: ai fini interni non serve ricorrere alle pene estreme, basta decidere un trasferimento. E a scorrere il file con le statistiche sui procedimenti disciplinari salta immediatamente all'occhio un dato: su 121 condanne, la maggior parte (90) comminano una sanzione non grave (la censura) e 11 casi si tratta di semplice ammonimento. Le toghe non si accaniscono sulle toghe. La perdita d'anzianità, infatti, è stata inflitta solo a dieci magistrati (due sono stati anche trasferiti d'ufficio), mentre sette sono stati rimossi. Uno solo è stato trasferito d'ufficio senza ulteriori sanzioni, un altro è stato sospeso dalle funzioni con blocco dello stipendio, un altro ancora è stato sospeso dalle funzioni e messo fuori organico. Ma il dato più interessante riguarda le tipologie di illecito contestate. La maggior parte dei magistrati viene sanzionato per uno dei problemi tipici della macchina giudiziaria: il ritardo nel deposito delle sentenze, quasi il 40 per cento dei "condannati" è accusato di negligenze reiterate, gravi e ingiustificate. Alcuni, però, non si limitano al ritardo: il 4 per cento degli illeciti, infatti, riguarda «provvedimenti privi di motivazione», come se si trattasse di un disinteresse totale nei confronti degli attori interessati. Il 23 per cento delle condanne, invece, riguarda una questione che tocca direttamente la vita dei cittadini: la ritardata scarcerazione. E in un Paese in cui si ricorre facilmente allo strumento delle misure cautelari, questo tipo di comportamento determina spesso anche il peggioramento delle condizioni detentive. Quasi il 10 per cento dei giudici e dei pm è stato sanzionato poi per «illeciti conseguenti a reato». Solo il 6,6 per cento delle condanne, infine, è motivato da «comportamenti scorretti nei confronti delle parti, difensori, magistrati, ecc.. ».
Truccati anche i loro concorsi. I magistrati si autoriformino, scrive Sergio Luciano su “Italia Oggi”. Numero 196 pag. 2 del 19/08/2016. Il Fatto Quotidiano ha coraggiosamente documentato, in un'ampia inchiesta ferragostana, le gravissime anomalie di alcuni concorsi pubblici, tra cui quello in magistratura. Fogli segnati con simboli concordati per rendere identificabile il lavoro dai correttori compiacenti pronti a inquinare il verdetto per assecondare le raccomandazioni: ecco il (frequente) peccato mortale. Ma, più in generale, nell'impostazione delle prove risalta in molti casi – non solo agli occhi degli esperti – la lacunosità dell'impostazione qualitativa, meramente nozionistica, che soprattutto in alcune professioni socialmente delicatissime come quella giudiziaria, può al massimo – quando va bene – accertare la preparazione dottrinale dei candidati ma neanche si propone di misurarne l'attitudine e l'approccio mentale a un lavoro di tanta responsabilità. Questo genere di evidenze dovrebbe far riflettere. E dovrebbe essere incrociato con l'altra, e ancor più grave, evidenza della sostanziale impunità che la casta giudiziaria si attribuisce attraverso l'autogoverno benevolo e autoassolutorio che pratica (si legga, al riguardo, il definitivo I magistrati, l'ultracasta, di Stefano Livadiotti).
Ora parliamo degli avvocati. C’è il caso per il quale l’informazione abbonda, ma manca la sanzione.
Un "fiore" da 20mila euro al giudice e il processo si aggiusta. La proposta shock di un curatore fallimentare a un imprenditore. Che succede nei tribunali di Taranto e Potenza? Scrivono di Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24". L’audio che pubblichiamo, racconta in emblematica sintesi, le dinamiche, di quello che, da anni, sembrerebbe un “sistema” illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari. I fatti riguardano, in questo caso, il tribunale di Taranto. I protagonisti della conversazione nell’audio sono un imprenditore, Tonino Scarciglia, inciampato nei meccanismi del “sistema”, il suo avvocato e il curatore fallimentare nominato dal Giudice.
Aste e tangenti, studio legale De Laurentiis di Manduria nell’occhio del ciclone, scrive Nazareno Dinoi il 9 e 10 novembre 2016 su “La Voce di Manduria”. C’è il nome di un noto avvocato manduriano nell’inchiesta aperta dalla Procura della Repubblica di Taranto sulle aste giudiziarie truccate. Il professionista (che non risulta indagato), nominato dal tribunale come curatore fallimentare di un azienda in dissesto, avrebbe chiesto “un fiore” (una mazzetta) da ventimila euro ad un imprenditore di Oria interessato all’acquisto di un lotto che, secondo l’acquirente, sarebbero serviti al giudice titolare della pratica fallimentare. Questo imprenditore che è di Oria, rintracciato e intervistato ieri da Telenorba, ha registrato il dialogo avvenuto nello studio legale di Manduria in cui l’avvocato-curatore avrebbe avanzato la richiesta “del fiore” da 20mila euro. Tutto il materiale, compresi i servizi mandati in onda dal TgNorba, sono stati acquisiti ieri dalla Guardia di Finanza e dai carabinieri di Taranto.
I presunti brogli nella gestione dei fallimenti. «Infangata la giustizia per scopi elettorali». Il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Vincenzo Di Maggio, attacca il M5S: preferisce il sensazionalismo all’impegno per risolvere i problemi, scrive il 15 novembre 2016 Enzo Ferrari Direttore Responsabile di "Taranto Buona Sera". «Ma quale difesa di casta, noi come avvocati abbiamo soltanto voluto dire che il Tribunale non è un luogo dove si ammazza la Giustizia». Vincenzo Di Maggio, presidente dell’Ordine degli Avvocati, torna sulla polemica che ha infiammato gli operatori della giustizia negli ultimi giorni: l’interpellanza di un nutrito gruppo di senatori Cinquestelle su presunte nebulosità nella gestione delle procedure fallimentari ed esecutive al Tribunale di Taranto.
«Fallimenti ed esecuzioni, le procedure sono corrette». Documento delle Camere delle Procedure Esecutive e delle Procedure Concorsuali, scrive "Taranto Buona Sera” il 10 novembre 2016. Prima l’interrogazione parlamentare del M5S su presunte anomalie nella gestione delle procedure fallimentari, a scapito di chi è incappato nelle procedure come debitore; poi il video della registrazione di un incontro che sarebbe avvenuto tra un imprenditore, il suo avvocato e un curatore fallimentare. Un video dagli aspetti controversi e dai contenuti comunque tutti da verificare. Un’accoppiata di situazioni che ha destato clamore e che oggi fa registrare la netta presa di posizione della Camera delle Procedure Esecutive Immobiliari e della Camera delle Procedure Concorsuali. In un documento congiunto, i rispettivi presidenti, gli avvocati Fedele Moretti e Cosimo Buonfrate, fanno chiarezza a tutela della onorabilità dei professionisti impegnati come curatori e custodi giudiziari ed esprimendo piena fiducia nell’operato dei magistrati.
Taranto, rimborsi non dovuti. Procura indaga sugli avvocati. Riflettori accesi su 93mila euro spesi tra il 2014 e il 2015 dopo un esposto del Consiglio, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’11 aprile 2016. Finiscono all’attenzione della Procura della Repubblica i conti dell’Ordine degli avvocati di Taranto. A rivolgersi alla magistratura è stato lo stesso Consiglio, presieduto da Vincenzo Di Maggio, dopo che sarebbero emerse irregolarità contabili riguardanti le anticipazioni e i rimborsi alle cariche istituzionali nell’anno 2014, l’ultimo da presidente per Angelo Esposito, ora membro dal Consiglio nazionale forense. Il fascicolo è stato assegnato al sostituto procuratore Maurizio Carbone, l’ipotesi di reato è quella di peculato essendo l’Ordine degli avvocati ente di diritto pubblico (altrimenti si procederebbe per appropriazione indebita, ma il pm non sarebbe Carbone in quanto quest’ultimo fa parte del pool reati contro la pubblica amministrazione). Di questo se ne è parlato agli inizi, perché l’esposto era dello stesso Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, ma poi nulla si è più saputo: caduto nell’oblio. Il silenzio sarà rotto, forse, dalla inevitabile prescrizione, che rinverdirà l’illibatezza dei presunti responsabili.
E poi c’è il caso, segnalato da un mio lettore, di una eccezionale sanzione emessa dalla magistratura tarantina e taciuta inopinatamente da tutta la stampa.
La notizia ha tutti i crismi della verità, della continenza e dell’interesse pubblico e pure non è stata data alla pubblica opinione.
Il caso di cui trattasi si riferisce ad un esposto di un cittadino, presentato al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto contro un avvocato di quel foro per infedele patrocinio, di cui già pende giudizio civile.
Ma facciamo parlare gli atti pubblicabili.
L’11 maggio 2012 viene presentato l’esposto, il 3 aprile 2013 con provvedimento di archiviazione, pratica 2292, si emette un documento in cui si dichiara che il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto delibera la sua archiviazione in quanto “non risultano elementi a carico del professionista tali da configurare alcuna ipotesi di infrazione disciplinare”. L’atto è sottoscritto il 17 novembre 2014, nella sua copia conforme, dall’avv. Aldo Carlo Feola, Consigliere Segretario. Mansione che il Feola ricompre da decenni.
Fin qui ancora tutto legittimo e, forse, anche, opportuno.
E’ successo che, con procedimento penale 2154/2016 R.G.N.R. Mod. 21, il 3 ottobre 2016 (depositata il 6) il Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, dr Maurizio Carbone, chiede il Rinvio a Giudizio dell’avv. Aldo Carlo Feola, difeso d’ufficio, “imputato del delitto di cui all’art. 476 c.p. (falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici), perché, in qualità di Consigliere con funzione di Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, rilasciava copia conforme all’originale della delibera datata 3 aprile 2013 del Consiglio, con la quale si disponeva di non dare luogo ad apertura di procedimento disciplinare nei confronti dell’avv. Addolorata Renna, con conseguente archiviazione dell’esposto presentato nei suoi confronti da Blasi Giuseppe. Provvedimento di archiviazione risultato in realtà inesistente e mai sottoscritto dal Presidente del Consiglio dell’Ordine di Taranto. In Taranto il 17 novembre 2014.”
Il Giudice per le Indagini Preliminari, con proc. 6503/2016, il 21 novembre 2016 fissa l’Udienza Preliminare per il 12 dicembre 2016 e poi rinvia per il Rito Abbreviato per il 10 aprile 2017 con interrogatorio dell’imputato ed audizione del teste, con il seguito.
Il Giudice per l’Udienza Preliminare, dr. Pompeo Carriere, il 16 ottobre 2017 con sentenza n. 945/2017 “dichiara Feola Aldo Carlo colpevole del reato ascrittogli, e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, e applicata la diminuente per la scelta del rito abbreviato, lo condanna alla pena di cinque mesi e dieci giorni di reclusione, oltre al pagamento delle spese del procedimento. Pena sospesa per cinque anni, alle condizioni di legge, e non menzione. Visti gli artt. 538, 539, 541 c.p.p., condanna Feola Aldo Carlo al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separato giudizio, nonché alla rifusione delle spese processuali dalla medesima sostenute, che si liquidano in complessivi euro 3.115,00 (tremilacentoquindici) oltre iva e cap come per legge”.
Da quanto scritto è evidente che ci sia stata da parte della stampa una certa ritrosia dal dare la notizia. Gli stessi organi di informazione che sono molto solerti ad infangare la reputazione dei poveri cristi, sennonchè non ancora dichiarati colpevoli.
Travaglio: “I giornali a Taranto non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. “E’ vero, ma non per tutti…” Lettera aperta al direttore de IL FATTO QUOTIDIANO, dopo il suo intervento-show al Concerto del 1 maggio 2015 a Taranto, di Antonello de Gennaro del 2 maggio 2015 su "Il Corriere del Giorno". "Caro Travaglio, come non essere felice nel vedere Il Fatto Quotidiano, quotidiano libero ed indipendente da te diretto, occuparsi di Taranto? Lo sono anche io, ma nello stesso tempo, non sono molto soddisfatto della tua “performance” sul palco del Concerto del 1° maggio di Taranto. Capisco che non è facile leggere il solito “editoriale”, senza il solito libretto nero che usi in trasmissione da Michele Santoro, abitudine questa che deve averti indotto a dire delle inesattezze in mezzo alle tante cose giuste che hai detto e che condivido. Partiamo da quelle giuste. Hai centrato il problema dicendo: “A Taranto i giornali non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. E’ vero e lo provano le numerose intercettazioni telefoniche contenute all’interno degli atti del processo “Ambiente Svenduto” e per le quali il Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia tergiversa ancora oggi nel fare chiarezza sul comportamento dei giornalisti locali coinvolti, cercando evidentemente di avvicinarsi il più possibile alla prescrizione amministrativa dei procedimenti disciplinari e salvarli”.
Comunque, a parte i distinguo di rito dalla massa, di fatto, però, nessuno di questa sentenza ne ha parlato.
In conclusione, allora, va detto che si è fatto bene, allora, ad indicare la notizia della condanna del Consigliere Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, come un fatto tra quelli che a Taranto son si osa dire…
Chi dice Terrone è solo un coglione. La sperequazione inflazionata di un termine offensivo come nota caratteristica di un popolo fiero. L’approfondimento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che sul tema ha scritto “L’Italia Razzista” e “Legopoli”.
Sui media spopola il termine “Terrone”. Usato dai razzisti del centro Nord Italia in modo dispregiativo nei confronti degli italiani del Sud Italia ed usati dai deficienti meridionali come caratteristica di vanto.
«Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita»...., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016.
«Io litigioso? È vero, ma sono migliorato… Mi chiamavano terun, africa, baluba, altro che non incazzarsi…» Dice Teo Teocoli in un intervista a Gian Luigi Paracchini il 22 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera".
Gli opinionisti del centro Italia “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto, equivalente a “Terrone”, da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla terronialità. Cioè l’usare il termine “terrone” come una parola neutra. Come se fossero un po’ tutti leghisti.
Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania”, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.
Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque meridionale e non terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te.
Essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.
Ciononostante i nordisti, anziché essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.
Mutuiamo il titolo del libro di Lino Patruno “Alla riscossa Terroni” e “Terroni” di Pino Aprile per farne un motivo di orgoglio meridionale che deve portarci ad invertire una tendenza che data 150 anni. Non rivendichiamo un passato di benessere del Meridione, rivendichiamo un presente migliore per un Sud messo alle corde.
I terroni nascono anche a Gemonio e nelle valli bergamasche, scrive "L'Inkiesta" il 6 aprile 2012. Leggendo le cronache, ma, soprattutto, vedendo le immagini, relative al marciume che sta venendo a galla dai sottoscala leghisti, mi par che si possa dire una grande verità: l'aggettivo spregiativo "terrone" non si può appioppare solo ai meridionali, ma, con grande precisione, anche ai miei conterronei nordici. Devo dire la verità. Io - nordico e fieramente antileghista da molto tempo - che le storie di Roma ladrona, dell'uccello duro, del barbarossa, dell'ampolla sul diopò (che, a dire il vero, mi par più una saracca che un rito), di riti celtici, di fazzolettini verdi come il moccio, erano tutte una rozza e ignorante presa per il culo per ammansire i buoi e farsi in comodo i sollazzi propri, ne ero convinto da tempo. Da ben prima che si svegliassero i soliti magistrati (verrà il giorno, in questo paese dei matocchi, che qualche rivoluzione la farò il popolo?), bastava un po' di fiuto per capire che il sottobosco era questo. Ma le vedete le facce del cerchio magico? Ma avete presente la pacchianità della villa di Gemonio? E poi, la priorità alla "family", come la più bieca usanza del troppo noto familismo amorale, perchè parlare di "famigghia" era troppo terrone. Ma il dato è che questi sono - culturalmente, esteticamente e antropologicamente - terroni. Perchè terrone, per me, non è un epiteto riferibile a una provenienza geografica I.G.P.; è uno stile deteriore di rappresentarsi, chiuso, retrivo, in cui il dialetto non è cultura, ma rozzume esibito con orgoglio (e questo vale tanto per i napoletani, quanto per i veneti), in cui prevale la logica del clan su quella della civile società, in cui si deve fare sfoggio dell'ignoranza perchè questo è "popolare". Terrone è un ignorante retrogrado, cafone, ineducato. Con il risultato che il Bossi e la family sprofondano, il terronismo impera e un peloso, stantio e pietistico meridionalismo riprende fiato. Grazie Bossi, grazie leghisti: avete ucciso non solo la dignità del nord, ma anche la speranza vera che una riforma moderna di questo paese, tenuto insieme con una scatarrata, si potesse fare. Ah, dimenticavo. Se qualcuno mi dovesse dire "parla lui, di ignoranza presentata con orgoglio.
Da che pulpito vien il sermone!", dico: "Non perdete tempo in analisi: son diverso e me ne vanto. Si vuol che dica che sono ignorante e delinquente. Bene lo sono, in un mondo di saccenti ed onesti mafiosi, sono orgoglioso di esser diverso. Cosa concludere, di fronte a tali notizie di carattere storico? Questo: trovo triste che i nostri bravi leghisti rinneghino le proprie radici arabe, albanesi, meridionali, mediterranee. Da loro, così orgogliosi della Tradizione, non me lo aspettavo. Anzi dirò di più. Buon per loro avere origini meridionali, perchè ad essere POLENTONI si rischia di avere una considerazione minore che essere TERRONE.
Secondo Wikipedia Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale. Origine e significato. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo, e sta ad indicare una persona zotica un pò lenta di comprendonio (po' lentone). Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta e dai movimenti goffi e impacciati.
Analisi dei termini offensivi. Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato dagli abitanti dell'Italia meridionale per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale, scrive Wikipedia. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) purtroppo con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra, anche se li ha salvati da tante carestie alimentari. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo nell'Italia del Sud, e sta ad indicare una persona zotica. Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale, anche se spesso usate solo in modo bonario. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta di comprendonio (tonta) e dai movimenti goffi e impacciati.
La Padania o Patanìa (lett. Terra dei Patanari, coltivatori di patate) si estende in tutte le regioni del nord Italia: dalla Val d'Aosta alla Toscana fino al Friuli Venezia Giulia. È facile collocare geograficamente la Patanìa vera e pura: si traccia una retta che attraversa interamente il Po, passando rigorosamente al centro, perché solo la parte nord del Po è padana. La Padania si definisce anche Barbaria, cioè terra di barbari. Il mito di una terra popolata da eroi celtici, circondata da terribili barbari di matrice slava, è il concetto su cui si basa la Lega Nord. Trascurabile il dettaglio che un tempo la Padania fosse abitata da un'accozzaglia di popoli oltre ai Celti.
Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato dagli abitanti dell'Italia settentrionale e centrale come spregiativo per designare un abitante dell'Italia meridionale, talvolta anche in senso semplicemente scherzoso, scrive Wikipedia. In passato il termine era utilizzato con un altro significato e valenza; solo nel corso degli anni sessanta ha acquisito il senso attuale. Con il termine "terrone" (da teróne, derivazione di terra) si indicava nel XVII secolo un proprietario terriero, o meglio un latifondista. Già tra le Lettere al Magliabechi, l'erudito bibliotecario Antonio Magliabechi (1633-1714) il cui lascito, i cosiddetti Codici Magliabechiani costituiscono un prezioso fondo della Biblioteca Nazionale di Firenze, scriveva (CXXXIV -II - 1277): «Quattro settimane sono scrissi a Vostra Signoria illustrissima e l'informai del brutto tiro che ci fanno questi signori teroni di volerci scacciare dal partito delle galere, contro ogni equità e giustizia, già che ho lavorato tant'anni per terminarlo, e ora che vedano il negozio buono, lo vogliono per loro». Il termine in seguito fu utilizzato per denominare chi era originario dell'Italia meridionale e con particolare riferimento a chi emigrava dal Sud al Nord in cerca di lavoro, al pari dei nordici milanesi, etichettati come baggiani, che emigravano nelle valli del Bergamasco, come menzionato da Alessandro Manzoni. Il termine si diffuse dai grandi centri urbani dell'Italia settentrionale con connotazione spesso fortemente spregiativa e ingiuriosa e, come altri vocaboli della lingua italiana (quali villano, contadino, burino e cafone) stava per indicare "servo della gleba" e "bracciante agricolo" ed era riferita agli immigrati del meridione. Gli immigrati venivano quindi considerati, sia pure a livello di folklore, quasi dei contadini sottosviluppati. Il termine, che deriva evidentemente da "terra" con un suffisso con valore d'agente o di appartenenza (nel senso di persona appartenente strettamente alla terra) è stato variamente interpretato come frutto di incrocio fra terre (moto) e (meridi)one, come "mangiatore di terra" parallelamente a polentone, "mangiapolenta", cioè l'italiano del nord; come "persona dal colore scuro della pelle, simile alla terra" o anche come "originario di terre soggette a terremoti" ("terre matte", "terre ballerine"). Il suo maggiore utilizzo data comunque essenzialmente agli anni sessanta e settanta e limitatamente ad alcune zone del nord Italia, in seguito alla forte ondata di emigrazione di lavoratori e contadini del meridione d'Italia in cerca di lavoro verso le industrie del nord e in particolare del triangolo industriale (Genova – Milano – Torino). In tale ambito si spiega anche la diffusione del termine: storicamente, grossi movimenti di popolazioni hanno sempre portato con sé anche fenomeni di intolleranza o razzismo più o meno larvati. Successivamente, allo stesso modo è sorta la locuzione "terrone del nord", generalmente per indicare gli italiani del nord-est (principalmente i veneti, detti "boari"), che per ragioni simili cominciarono negli stessi anni ad emigrare verso il nord-ovest, venendo così accomunati agli emigranti meridionali. Il riconoscimento di terrone come insulto e non come termine folkloristico è un processo che storicamente ha subito molte battute d'arresto e incomprensioni, probabilmente dovute al fatto che solo una parte della popolazione italiana ne riconosceva pienamente la gravità e il suo carattere offensivo. La Corte di Cassazione ha ufficialmente riconosciuto che tale termine ha un'accezione offensiva, confermando una sentenza del Giudice di Pace di Savona e confermando che la persona che l'aveva pronunciata dovesse risarcire la persona offesa dei danni morali. Spesso vengono associati a questo epiteto caratteristiche personali negative, tra le quali ignoranza, scarsa voglia di lavorare, disprezzo di alcune norme igieniche e soprattutto civiche. Analogamente, soprattutto in alcune accezioni gergali, il termine ha sempre più assunto il significato di "persona rozza" ovvero priva di gusto nel vestire, inelegante e pacchiana, dai modi inurbani e maleducata, restando un insulto finalizzato a chiari intenti discriminatori. Inoltre vengono spesso associati al termine anche tratti somatici e fisici, come la carnagione scura, la bassa statura, le gote alte, caratteristiche fisiche storicamente preponderanti al Sud rispetto al Nord Italia.
In conclusione c’è da affermare che bisogna essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.
Chi proferisce ingiurie ad altri o a se stesso con il termine terrone non resta che rispondergli: SEI SOLO UN COGLIONE.
Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.
LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.
In Regione Lombardia non tornano 54 miliardi di tasse versate. (Lnews - Milano 06 settembre 2017). "La Lombardia è la regione che versa più tasse allo Stato ricevendo, in cambio, meno trasferimenti in termini di spesa pubblica. In questi anni, infatti, il residuo fiscale della Lombardia ha raggiunto la cifra record di 54 miliardi (fonte: Eupolis Lombardia). Si tratta del valore in assoluto più alto tra tutte le regioni italiane. Un'immensità anche a livello europeo se si pensa che due regioni tra le più industrializzate d'Europa come la Catalogna e la Baviera hanno rispettivamente un residuo fiscale di 8 miliardi e 1,5 miliardi". Lo scrive una Nota pubblicata oggi dal sito lombardiaspeciale.regione.lombardia.it.
RESIDUO FISCALE - "Con il termine residuo fiscale - spiega la Nota - s'intende la differenza tra quanto un territorio verso allo Stato sotto forma di imposte e quanto riceve sotto forma di spesa pubblica. Se il residuo fiscale abbia segno positivo, il territorio versa più di quanto riceve; se c'è un residuo negativo il territorio riceve più di quanto versa. Secondo James McGill Buchanan Jr, premio Nobel per l'Economia nel 1986, cui si attribuisce la paternità della definizione, il trattamento che lo Stato riserva ai cittadini può considerarsi equo se determina residui fiscali minimi in capo a individui, a prescindere dal territorio nel quale risiedono. Differenze marcate denotano una violazione dei principi di equità basilari".
I DATI PER REGIONE - "Dopo la Lombardia - appunta il teso - si colloca l'Emilia Romagna, con un residuo fiscale di 18.861 milioni di euro. Seguono Veneto (15.458 mln), Piemonte (8.606 mln), Toscana (5.422 mln), Lazio (3.775 mln), Marche (2.027 mln), Bolzano (1.100 mln), Liguria (610 mln), Friuli Venezia Giulia (526 mln), Valle d'Aosta (65 mln). In coda alla classifica: Umbria (-82 mln), Molise (-614 mln), Trento (-249 mln), Basilicata (-1.261 mln), Abruzzo (-1.301 mln), Sardegna (-5.262 mln), Campania (-5.705 mln), Calabria (-5.871 mln), Puglia (-6.419 mln) e Sicilia (-10.617 mln)".
IL DATO PRO CAPITE - Anche per quanto riguarda il residuo fiscale pro capite, la Lombardia presenta i valori più alti d'Italia, con 5.217 euro. Seguono Emilia Romagna (4.239), Veneto (3.141), Provincia Autonoma di Bolzano (2.117), Piemonte (1.950), Toscana (1.447), Marche (1.310), Lazio (641), Valle d'Aosta (508), Friuli Venezia Giulia (430), Liguria (386), Umbria (-92), Provincia Autonoma di Trento (-464), Campania (-974), Abruzzo (-979), Puglia (-1.572), Molise (-1.963), Sicilia (-2.089), Basilicata (-2.192), Calabria (-2.975) e Sardegna (-3.169)", spiega la Nota pubblicata.
Da sempre i giornali e le tv nordiste, spalleggiate dagli organi d’informazione stataliste, ce la menano sul fatto che ci sia un grande disavanzo finanziario tra le regioni del centro-nord ricco e le regioni povere del sud Italia. I conti, fatti in modo bizzarro, rilevano che il centro-nord paga molto di più di quanto riceva e che la differenza vada in solidarietà a quelle regioni che a loro volta sono votate allo spreco ed al ladrocinio. A fronte di ciò, i settentrionali, hanno deciso che è meglio tagliare quel cordone ombelicale e lasciar cadere quella zavorra che è il sud Italia. Ed il referendum secessionista è stato organizzato per questo, facendo leva sull’ignoranza della gente.
Ora facciamo degli esempi scolastici che si studiano negli istituti tecnici commerciali, per dimostrare di quanta malafede ed ignoranza sia propagandato questo referendum.
Una partita iva, persona o società, registra in contabilità la gestione e versa tasse, imposte e contributi nel luogo della sede legale presso cui redige i suoi bilanci semplici o consolidati (gruppi d’impreso con un capogruppo).
Il Centro-Nord Italia, con la Lombardia ed il Lazio in particolare, è territorio privilegiato per eleggere sede legale d’azienda, per la vicinanza con i mercati europei. Dove c’è sede legale vi è iscrizione al registro generale dell’imprese. Ergo: sede di versamento fiscale che alimenta quei numeri, oggetto di nota della Regione Lombardia. Quei dati, però, spesso, nascondono la ricchezza prodotta al sud (stabilimenti, appalti, manodopera, ecc.), ma contabilizzata al nord.
E’ risaputo che nel centro-nord Italia hanno stabilito le loro sedi legali le più grandi aziende economiche-finanziarie italiane e lì pagano le tasse. Il Sud Italia è di fatto una colonia di mercato. Di là si produce merce e lavoro (e disinformazione), di qua si consuma e si alimenta il mercato.
E’ risaputo che le aziende del centro nord appaltano i grandi lavori pubblici, specialmente se le aziende del sud Italia le fanno chiudere con accuse artefatte di mafiosità.
E’ risaputo che al nord il costo della vita è più caro e questo si trasforma proporzionalmente in reddito maggiorato rispetto ai cespiti collegati, come quelli immobiliari.
Il residuo fiscale era tollerato e l’assistenzialismo era alimentato, affinchè il mercato meridionale non cedesse e le aziende del nord potessero continuare a produrre beni e servizi e ad alimentare ricchezza nell’Italia settentrionale, condannando il sud ad un perenne sottosviluppo e terra di emigrazione.
Oggi lo Stato centralista assorbe tutta la ricchezza nazionale prodotta e l'assistenzialismo si è bloccato, ma il sud Italia continua ad essere un mercato da monopolizzare da parte delle aziende del Centro-Nord Italia. Una eventuale secessione a sfondo razzista-economica votata dai nordisti sarebbe un toccasana per i meridionali, che imporrebbero diversi rapporti commerciali, imponendo dei dazi od altre forme di limitazioni alle merci del nord. Il maggior costo di beni e servizi del nord Italia favorirebbe la nascita nel sud Italia di aziende, favorite economicamente dal minor costo della mano d’opera del posto e delle spese di trasporto e logistica locale. Inoltre quello che produce il centro nord è acquisibile su altri mercati. Quello che si produce al Sud Italia è peculiare e da quel mercato, per forza, bisogna attingere e comprare...
Quindi, viva il referendum…secessionista
A votare per questo referendum sono andati i mona. Questo l'ha detto lei, ma è vero". Risponde così il 24 ottobre 2017 all'intervistatore del programma Morning Showdi di Radio Padova il milanese Oliviero Toscani, il noto fotografo già protagonista, nel recente passato, di polemiche sui "veneti popolo di ubriaconi". "Sono andati a votare quattro contadini - rincara la dose - che non parlano neanche l'italiano". E ancora: "Nelle campagne la gente è isolata, incestuosa e vota queste cagate qua". Per lo stesso Toscani, invece, a non votare è stata "la minoranza intellettuale". Così il fotografo, maestro della provocazione, ritorna ad aprire una ferita solo apparentemente chiusa che aveva portato a querele all'epoca degli “imbriagoni”. Nell'intervista radiofonica sui referendum ha anche evidenziato un confronto con la Lombardia dove la percentuale di voto è stata minore. «Non a caso Milano - ha rilevato - è la prima città d'Italia per intellighenzia, e non a caso Milano è una città piena di immigrati. Milano è fatta così, è civile. Mentre i contadini là, che non parlano neanche italiano, cosa vuoi che votino?».
Paradosso sanità: il Sud paga più tasse perché i pazienti devono andare al Nord per curarsi. La mobilità sanitaria passiva ha un impatto enorme sui bilanci delle strutture meridionali. E le Regioni così devono aumentare le aliquote e chiudere strutture, scrive Gloria Riva il 18 gennaio 2018 su "L'Espresso". La distanza fra Catanzaro e Milano la si può calcolare in chilometri, sono 1.159, o in anni di vita in meno, che sono quattro. E in generale la prospettiva di vita in Calabria è molto più simile a quella di Romania o Bulgaria, mentre al Nord si sta come in Svezia. Tutto questo nonostante i cittadini del settentrione spendano in media 1.961 euro a testa per la sanità pubblica, quelli del Sud 1.799 e quelli del Centro 1.928 euro. Insomma, i quattrini da sborsare sono più o meno gli stessi, ma c'è un divario di assistenza sanitaria. Torniamo in Calabria: qui ogni cittadino sborsa 1.875 euro l'anno per la sanità pubblica, di cui 126 euro se ne vanno per pagare il conto presentato da altre Regioni, spesso del Nord, dove i compaesani calabresi sono andati a curarsi. Già, perché nel 2016 il 40,7 per cento dei malati di cancro della Calabria ha scelto l'ospedale di un'altra regione per curarsi. Dall'altro lato la Lombardia ha visto arrivare da fuori regione quasi 17 mila malati oncologici nei propri ospedali. Quell'immigrazione sanitaria consente ai lombardi di spendere “solo” 1.877 euro per una sanità d'eccellenza, risparmiandone 54, pagati appunti dai migranti in cerca di cure. Francesco Masotti è un dirigente sanitario dell'azienda sanitaria provinciale di Cosenza ed è anche segretario della Cgil Medici, a L'Espresso racconta la storia del commissariamento della sanità calabrese, iniziato nel 2010 e mai terminato: «Siamo al terzo piano di rientro e pare che i conti siano in peggioramento di oltre 30 milioni di euro», tutta colpa di inaspettate poste in bilancio che il commissario Massimo Scura si trova a dover contabilizzare per via di dimenticati debiti pregressi, contenziosi finanziari risalenti a 10 anni fa, recuperi di tariffe mai ritoccate ed esplose in questi ultimi anni, e poi saldi per la mobilità passiva. Rieccola, la mobilità passiva, il grande buco che attanaglia la sanità calabrese e non solo, che da sola si mangia il 65 per cento delle finanze locali. Secondo il rapporto Cergas Bocconi sullo stato di salute del Sistema Sanitario Nazionale, la Calabria da sola genera l'otto per cento dei viaggi sanitari verso altre regioni e un paziente su sei si ricovera fuori regione generando un debito per le tasche dei calabresi di 304 milioni. Una voragine. Succede perché il conto delle cure negli ospedali del Nord viene presentato alla regione Calabria. E visto che l'Italia da 17 anni si è dotata di un sistema federale per la sanità, ogni Regione, attraverso l'Irpef e l'Irap, cioè le tasse pagate dai lavoratori e dalle aziende, deve riuscire a coprire le spese per curare i propri cittadini. Ma non tutte ce la fanno. Va da sé che le Regioni con meno occupazione e povere di industria sono entrate subito in affanno e i sistemi sanitari locali sono stati ben presto commissariati. Per rimettersi in sesto, s'è provveduto a chiudere gli ospedali, ridurre i posti letto e bloccare l'assunzione di nuovi medici e infermieri, al punto che in queste regioni il personale è crollato del 15 per cento. Lo stesso è successo per i livelli essenziali di assistenza: «Il dato della Campania è davvero allarmante perché, rispetto al 2014 le performance si sono ridotte di oltre 30 punti. Ma ci sono peggioramenti anche in Puglia, Molise e Sicilia», si legge nell'indagine Cergas Bocconi, che continua spiegando come il piano di risanamento dei conti della sanità sia ancora in atto in cinque Regioni: Abruzzo, Molise, Campania, Calabria e il Lazio che dovrebbe presto uscirne dopo un decennio lacrime e sangue. Mentre la Calabria sembra lontanissima dal traguardo e «ci apprestiamo a entrare nel quarto programma di rientro. Il che significa altri tagli per il sistema sanitario calabrese, già ridotto all'osso. Ne usciremo mai?», si domanda Masotti, che spiega come il disavanzo venga pagato con un aumento delle tasse, dell'Irap e dell'Irpef. Arrivando a situazioni assurde, per cui un operaio di Varese versa l'1,58 di aliquota Irpef per la sanità, il suo collega di Gioia Tauro paga di più, l'1,73, ma poi «va in Lombardia a curarsi». Anche perché in Campania negli 10 anni sono andati in pensione 4.500 operatori - medici e infermieri - mai sostituiti. Ed è stata predisposta la chiusura di una miriade di piccoli ospedali, «a cui nessuno si è opposto, perché tutti ritenevamo fossero pericolosi per il cittadino e per gli operatori sanitari», dice il medico, che aggiunge: «Quei luoghi di cura non sono mai stati riconvertiti in presidi per il territorio». Insomma, la Calabria si trova nel limbo e secondo Masotti «poco o nulla è stato fatto, nonostante un progetto già finanziato dalla comunità e partito sei anni fa, per la costruzione di 20 Case della salute. Solo una è stata realizzata», afferma Masotti. Dunque, se prima del commissariamento la sanità calabrese era costosa perché vaporizzata in una miriade di piccoli ospedali poco efficienti, dopo la stretta economica è andata anche peggio, perché all'inefficienza si è aggiunta la penuria di strutture e di personale. Così i cittadini hanno perso qualsiasi fiducia nell'assistenza locale, hanno fatto le valigie e scelto di andarsi a curare altrove. Il paradosso è che tutto questo ha un costo altissimo per le aziende del territorio, «che per coprire i conti in rosso della sanità devono pagare più tasse che altrove». Infatti in Calabria, ma anche in altre Regioni come Marche, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia e Sicilia le aziende pagano più del 3,9 per cento di Irap. E anche il bollo auto, in molte di queste zone, costa più che al Nord. Insomma, più tasse e meno servizi. Il tipico cane che si morde la coda.
Un referendum da presa per il culo. Il 22 ottobre 2017 si chiede ai cittadini interessati. “Volete essere autonomi e tenere per voi tutto l’incasso?” E’ logico che tutti direbbero sì, senza distinzione di ideologia o natali. Ed i quorum raggiunti sono fallimentari tenuto conto dell’interesse intrinseco del quesito.
Specialmente, poi, se è stato enfatizzato tanto dai giornali e le tv del Nord, comprese quelle di Berlusconi.
“Al di là dell’enorme spreco di soldi pubblici per organizzare due referendum buoni solo a fare un po’ di propaganda elettorale a spese dei contribuenti, ha evidenziato il trionfo dell’egoismo di chi è più ricco e pensa di poter vivere meglio mantenendo sul territorio le risorse derivante dalle imposte dopo aver beneficiato per decenni di aiuti statali e del sostegno dello Stato”. Lo ha detto il consigliere regionale dei Verdi della Campania, Francesco Emilio Borrelli, per il quale “la Lega ha mostrato, ancora una volta, il suo vero volto che è fatto di odio verso il Sud e i meridionali”.
“Così come ha ricordato anche Prodi, chiedere ai cittadini se vogliono pagare meno tasse ancora una volta a danno dei meridionali è come un invito a nozze che non si può rifiutare, ma il problema è che, per chiederlo, in questo caso, Zaia e Maroni hanno speso milioni di euro di soldi pubblici per farlo” ha aggiunto Borrelli chiedendo ai cittadini lombardi e veneti: “Visto come sprecano i vostri soldi e come hanno speso, in passato, quelli, sempre pubblici, per il finanziamento ai partiti, siete proprio sicuri di volergliene affidare ancora di più?” “La Regione Campania viene privata ogni anno di 250 milioni di euro che vengono sottratti ai servizi sanitari e ai nostri concittadini perché considerata la regione più giovane d’Italia e grazie a una norma introdotta dai governatori leghisti e mai tolta” ha continuato Borrelli, sottolineando che “ogni anno la sola Campania viene depredata di centinaia di milioni di euro di fondi che invece vengono destinati al ricco Nord senza alcuna reale motivazione”. “La Rampa” 23 ottobre 2017.
In Italia conviene non fare nulla e non avere nulla, perché se hai o fai si fotte tutto lo Stato, per dare il tuo, non a chi è bisognoso, ma a chi non sa o non fa un cazzo. Cioè ai suoi amici o ai suoi scagnozzi professionisti corporativi.
L’Italia uccisa dai catto-comunisti, scrive Andrea Pasini il 30 ottobre 2017 su “Il Giornale”. Il comunismo ha ucciso l’Italia. “Max Horkheimer fornì d’altra parte, al termine della sua vita, con una sorprendete confessione, la spiegazione di questa incapacità di analisi da parte dei membri della scuola di Francoforte: riconobbe infatti con dolore che il marxismo aveva preparato il Sistema, che esso ne era responsabile allo stesso titolo dell’ideologia liberale borghese, in quanto la sua visione del mondo si fonda ugualmente su un progetto mondiale economicista e messianico”. Guillaume Faye, all’interno dello scritto "Il sistema per uccidere i popoli", recentemente ripubblicato dai tipi di Aga Editrice, ha fotografato l’evolversi delle idee forti provenienti dal diciannovesimo secolo. Loro ci odiano, odiano il nostro Paese, ma guardandosi allo specchio non possono fare a meno di odiarsi a loro volta. Una spirale senza fine, laddove astio, animosità ed acredini bruciano la base solida di questa nazione. Vittorio Feltri, in un animoso e vitale articolo apparso qualche anno fa sulle colonne di Libero, scrisse: “Gli stessi comunisti si vergognano di esserlo stati, ma la mentalità pauperistica è rimasta e non ha cessato di provocare danni. Risultato: in Italia è impossibile fare impresa o artigianato, aprire un’azienda, essere liberi professionisti senza essere considerati sfruttatori, evasori fiscali se non addirittura ladri”.
Proprio per questo motivo, ogni giorno, metto in campo tutte le mie energie al fine di stoppare, innanzitutto fisicamente, un oblio vertiginoso. Anche questo è il mio dovere in qualità di imprenditore. Lo Stato è in pericolo, la franata negli ultimi decenni è stata infausta. Ma davanti al fatalismo che attanaglia i popoli dobbiamo mettere in campo la nostra fede. Gli uomini di fede, uomini animati da un ardire che non conosce limiti, fanno paura ai catto-comunisti colpevoli di aver ridotto in cenere le speranze del domani. L’avvenire non sarà mai rosso di colore. Tornando ai piedi dello scrittore francese Faye leggiamo: “Gli intellettuali confessano, come Débray o Lévy, di fare oramai solamente della morale e non importa più che la loro verità si opponga alla realtà. La ragione ammette di non aver più ragione”. Il paradosso del marxismo 160 anni dopo. La ragione aveva torto scomodando, il sempre attuale, Massimo Fini. Ora conta credere, ciò che importa è come e quello che si fa per invertire la rotta, per non perdere il timone. Il Paese suona il corno e ci chiama a raccolta. Impossibile, a pochi giorni dal centenario di Caporetto, non rispondere, con tutto il proprio animo in tensione, presente.
In questo rimpallo, tra menti eccelse, contro il dominio sinistrato del presente e del futuro passiamo, nuovamente, la palla a Feltri: “E anche lo Stato, influenzato da alcuni partiti di ispirazione marxista, non aiuta con tutta una serie di vincoli burocratici, lacci e lacciuoli. E i sindacati hanno completato l’opera, contribuendo ad avvelenare i rapporti tra datore di lavoro e dipendenti, trasformando le fabbriche in luoghi d’odio e di lotta violenta, per umiliare i padroni e il personale non ideologizzato”. La storia non scorre più è tutto fermo nella mente dei retrogradi. Si avvinghiano alla legge Fiano i talebani di quest’epoca, per fare il verso a "Il Primato Nazionale", dimenticandosi dei problemi reali dell’Italia. Burocrati, sordidi e grigi, in doppio petto che accoltellano il ventre molle dello stivale, una carta bollata dopo l’altra. Alzare lo sguardo e tornare a cantare, davanti alle manette rosse della coscienza, non è facile, ma abbiamo il compito di tornare a farlo. Considerando il detto, “il lupo perde il pelo, ma non il vizio”, associandolo con le profetiche lezioni di Padre Tomas Tyn, scopriamo che il comunismo non è sparito, anzi si è rafforzato ed ha trovato gli alleati nei cattolici “non praticanti”. Potrà sembrare un’assurdità, invece è la mera realtà.
L’indiscutibile commistione di progressismo e comunismo, spesso umanitario ed accatto, ha creato con l’unione di un cattolicesimo snaturato una via collegata direttamente con i diritti civili, che non interseca, mai e poi mai, la sua strada con i diritti sociali. Aborto, divorzio, pacs, dico, unioni civili, matrimoni gay e chi più ne ha più ne metta. Fanno tutto ciò che non serve per gli italiani, fanno tutto ciò che non serve per difendere le fasce deboli della nazione. Tanti nostri connazionali hanno abbracciato il nemico, sono diventati uno di loro, per questo dobbiamo denunciare gli errori di chi sfida il tricolore e salvare la Patria. Il peccato, originale e capitale, è insito nell’ideologia marxista e rappresenta il male che sta distruggendo il nostro Paese, senza dimenticare il liberismo a tutti i costi della generazione Macron.
Milano, il paradosso: se la pena è la stessa per il giudice corrotto e per chi ha rubato una bottiglia di vino. Un noto avvocato, che ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro, grazie a vari sconti di pena ha concordato 4 anni in Appello. Quasi la stessa pena, 3 anni e 8 mesi, patteggiata in Tribunale per un reato da 8 euro, scrive Luigi Ferrarella il 30 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera”. Il problema è quando la combinazione dell’algebra giudiziaria, del tutto aderente alle regole, stride al momento di tirare la riga e, come risultato, fa patteggiare 3 anni e 8 mesi a chi ha rubato al supermercato una bottiglia di vino da 8 euro, mentre chi ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro esce dalla Corte d’Appello condannato a poco più: e cioè a pena concordata di 4 anni, ridotta rispetto ai 6 anni e 10 mesi del primo grado, che grazie allo sconto del rito abbreviato aveva già ridimensionato i teorici 10 anni iniziali. Luigi Vassallo è l’avvocato cassazionista che, nelle vesti di giudice tributario di secondo grado, alla vigilia di Natale 2015 fu fermato in flagranza di reato a Milano mentre intascava i primi 5.000 dei 30.000 euro chiesti ai legali di una multinazionale per intervenire su una collega di primo grado e «aggiustare» un contenzioso da milioni di euro. Due «corruzioni in atti giudiziari» nel giudizio immediato, e una «corruzione» e una «induzione indebita» nel successivo giudizio ordinario, lo avevano indotto ad accordarsi con il Fisco per 140.00 euro e a scegliere il rito abbreviato, il cui automatico sconto di un terzo gli aveva abbassato la prima sentenza a 4 anni e 8 mesi, e la seconda a 2 anni e 2 mesi. Per un totale, cioè un cumulo materiale, di 6 anni e 10 mesi. Ora in Appello arriva - come contemplato dalla recente legge in cambio del risparmio di tempo e risorse in teoria legato alla rinuncia difensiva a far celebrare il dibattimento di secondo grado - un altro sconto di un terzo, e si aggiunge già alla limatura di pena dovuta alla «continuazione» tra le 4 imputazioni delle due sentenze di primo grado riunite in secondo grado. Alla vigilia dell’udienza, dunque, l’avvocato Fabio Giarda rinuncia ai motivi d’appello diversi dal trattamento sanzionatorio, a fronte del sì del pg Massimo Gaballo all’accordo su una pena di 4 anni, ratificato dalla II Corte d’Appello presieduta da Giuseppe Ondei. Undici mesi Vassallo li fece in custodia cautelare (fra carcere e domiciliari), sicché non appare irrealistico l’agognato tetto dei 3 anni di pena da eseguire, sotto i quali potrà chiedere di scontarla in affidamento ai servizi sociali senza ripassare dal carcere. In Tribunale, invece, da detenuto arriva e da detenuto va via (senza sospensione condizionale della pena e senza attenuanti generiche) un altro imputato che nello stesso momento patteggia 3 anni e 8 mesi – quasi la stessa pena del giudice tributario – per aver rubato da un supermercato una bottiglia di vino da 8 euro e mezzo: il fatto però che avesse dato una spinta al vigilantes privato che all’uscita gli si era parato davanti, minacciandolo confusamente («non vedi i tuoi figli stasera») e agitando un taglierino, ha determinato il passaggio dell’accusa da «furto» a «rapina impropria», la cui pena-base è stata inasprita dai vari decreti-sicurezza, tanto più per chi come lui risulta «recidivo» a causa di due vecchi furti. Per ridurre i danni, il patteggiamento non scende a meno di 3 anni e 8 mesi. Quasi un anno di carcere per ogni 2 euro di vino.
“La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla”.
Intervista al sociologo storico Antonio Giangrande, autore di un centinaio di saggi che parlano di questa Italia contemporanea, analizzandone tutte le tematiche, divise per argomenti e per territorio.
Dr Antonio Giangrande di cosa si occupa con i suoi saggi e con la sua web tv?
«Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Perché dice che “La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla”.
«Libri, 6 italiani su dieci non leggono. In Italia poi si legge sempre meno. Siamo tornati ai livelli del 2001. Un dato resta costante da decenni: una famiglia su 10 non ha neppure un libro in casa. I dati pubblicati dall’Istat fotografano l’inesorabile diminuzione dei lettori, con punte drammatiche al Sud. Impietoso il confronto con l’estero, scrive il 27 dicembre 2017 Cristina Taglietti su "Il Corriere della Sera". La gente usa esclusivamente i social network per informarsi tramite lo smartphone od il cellulare. Non usa il personal computer perchè non ha la fibra in casa che ti permette di ampliare più comodamente e velocemente la ricerca e l'informazione. La gente, comunque, non va oltre alla lettura di un tweet o di un breve post, molto spesso un fake nato dall'odio o dall'invidia, e lo condivide con i suoi amici. Non verifica o approfondisce la notizia. Non siamo nell'era dell'informazione globale, ma del "passa parola" totale. Di maggiore impatto numerico, invece, è la ricerca sui motori di ricerca, non di un tema o di un argomento di cultura o di interesse generale, ma del proprio nome. Si digita il proprio nome e cognome, racchiuso tra virgolette, per protagonismo e voglia di notorietà e dalla ricerca risulta quanti siti web lo citano. Non si aprono quei siti web per verificare il contenuto. Si fermano sulla prima frase che appare sulla home page di Google o altri motori similari, estrapolata da un contesto complesso ed articolato. Senza sapere se la citazione è diffamatoria o meritoria o riconducibile all'autore da lì partono querele, richieste di rimozione per diritto all’oblio o addirittura indifferenza».
Ha un esempio da fare sull’impedimento ad informare?
«Esemplari sono le querele e le richieste di rimozione. Libertà di informazione, nel 2017 minacciati 423 giornalisti. I dati dell'osservatorio promosso da Fnsi e Ordine. La tipologia di attacco prevalente è l'avvertimento (37 per cento), scrive il 31 dicembre 2017 "La Repubblica". Ognuno di questi operatori dell'informazione è stato preso di mira per impedirgli di raccogliere e diffondere liberamente notizie di interesse pubblico. La tipologia di attacco prevalente è stata l'avvertimento (37 per cento) seguita dalle querele infondate e altre azioni legali pretestuose (32 per cento)».
E sull’indifferenza…
«Le faccio leggere un dialogo tra me e un tizio che mi ha contattato. Uno dei tanti italiani che non si informa, ma usa internet in modo distorto. Uno di quel popolo di cercatori del proprio nome sui motori di ricerca e che vive di tweet e post. Un giorno questo tizio mi chiede “Lei ha scritto quel libro?”
E' un saggio - rispondo io. - L'ho scritto e pubblicato io e lo aggiorno periodicamente. A tal proposito mi sono occupato di lei e di quello che ingiustamente le è capitato, parlandone pubblicamente, come ristoro delle sofferenze subite, pubblicando l'articolo del giornale in cui è stato pubblicato il pezzo. Inserendolo tra le altre testimonianze. Comunque ho scritto anche un libro sul territorio di riferimento. Come posso esserle utile?
“Volevo giusto capire, io mi sono imbattuto per caso nell'articolo, cercando il mio nome... E sotto l'articolo ho visto un link che mi collegava al suo saggio...Capire più che altro perché prendere articoli di giornale su altra gente e farne un saggio... Sono solo curiosità”.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte - spiego io. - I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale. In generale. Dico, in generale: io non esprimo mie opinioni. Prendo gli articoli dei giornali, citando doverosamente la fonte, affinchè non vi sia contestazione da parte dei coglioni citati, che siano essi vittime, o che siano essi carnefici. Perchè deve sapere che i primi a lamentarsi sono proprio le vittime che io difendo attraverso i miei saggi, raccontando tutto quello che si tace.
"Siccome io le ho detto mi sono solo imbattuto per "caso"... Io ho visto questa cosa e sinceramente l'ho letta perché ho visto il mio nome, ma se dovessi prendere il suo saggio e leggerlo non lo farei mai. Perché: Cerco di lavorare ogni giorno con le mie forze. I miei aggiornamenti sono tutt'altro. Faccio tutto il possibile per offrirmi un futuro migliore. Sono sempre impegnato e non riuscirei a fermarmi due minuti per leggere".
Rispetto la sua opinione - rispondo. - Era la mia fino ai trent'anni. Dopo ho deciso che è meglio sapere ed essere che avere. Quando sai, nessuno ti prende per il culo...
"Ma per le cose che mi possono interessare per il mio lavoro e il mio futuro nessuno mi può prendere per il culo ... Poi è normale che in ogni campo ci sia l'esperto…"»
Come commenta...
«Confermo che quando sai, nessuno ti prende per il culo. Quando sai, riconosci chi ti prende per il culo, compreso l’esperto che non sa che a sua volta è stato preso per il culo nella sua preparazione e, di conseguenza sai che l’esperto, consapevole o meno, ti potrà prendere per il culo».
Comunque rimane la soddisfazione di quei quattro italiani su dieci che leggono.
«Sì, ma leggono cosa? I più grandi gruppi editoriali generalisti, sovvenzionati da politica ed economia, non sono credibili, dato la loro partigianeria e faziosità. Basta confrontare i loro articoli antitetici su uno stesso fatto accaduto. Addirittura, spesso si assiste, sulle loro pagine, alla scomparsa dei fatti. Di contro troviamo le piccole testate nel mare del web, con giornalisti coraggiosi, ma che hanno una flebile voce, che nessuno può ascoltare. Ed allora, in queste condizioni, è come se non si avesse letto nulla».
Concludendo?
«La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla...e vota. Nel paese degli Acchiappacitrulli, più che chiedere voti in cambio di progetti, i nostri politici sono generatori automatici di promesse (non mantenute), osannati da giornalisti partigiani. Questa gente che non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla, voterà senza sapere che è stata presa per il culo, affidandosi ai cosiddetti esperti. I nostri politici gattopardi sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti».
L'informazione sulla politica? In Italia è troppo di parte (per 6 lettori su 10). I risultati di una ricerca del Pew Research Center di Washington in 38 Paesi: l'Italia è tra gli Stati dove la fiducia nell'imparzialità dell'informazione politica è più bassa. Per sette giovani su 10 è la Rete il luogo principale dove trovare notizie, scrive Giuseppe Sarcina, corrispondente da Washington, il 11 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Solo il 36% degli italiani pensa che giornali, televisioni e siti web riportino in modo accurato le diverse posizioni politiche. Tra i Paesi occidentali solo gli spagnoli, con il 33%, e i greci, con il 18%, sono più critici. (In fondo all'articolo, la classifica completa). È uno dei risultati emersi dallo studio del Pew Research Center di Washington, appena pubblicato. Una ricerca di grande impegno, condotta dal 16 febbraio al 8 maggio 2017, raccogliendo 41.953 risposte in 38 Paesi.
Precisione e attendibilità. In tempi di «fake news» (qui la guida di Milena Gabanelli e Martina Pennisi), gli analisti del Pew Center hanno chiesto quanto siano considerati precisi, attendibili i media sui temi della politica. Tra gli Stati occidentali spiccano le percentuali di chi approva il lavoro di stampa e tv nei Paesi Bassi (74%), in Canada (73%) e in Germania (72%). Segue il gruppo intermedio con Svezia (66%) Regno Unito (52%), Francia (47%). Italia, Spagna e Grecia sono in coda. Negli Stati Uniti, già provati da un anno di presidenza di Donald Trump, il 47% degli interpellati apprezza il modo in cui vengono trattate le notizie politiche.
Meglio sugli Esteri. I numeri cambiano, anche sensibilmente, su altri quesiti. In Italia, per esempio, il 46% considera accurata l’informazione che riguarda l’azione di governo; il 60% quella sui principali eventi mondiali. In generale, considerando tutti i Paesi, il 75% del campione non considera accettabile un’informazione apertamente schierata su una posizione politica e il 52% promuove i media.
Per 7 giovani su 10 l'informazione è in Rete. Interessante anche il capitolo sulle news online. Si parte da un esito scontato, (i giovani si informano su Internet), per arrivare a compilare una classifica sul gap tra le diverse fasce di età tra gli utenti del web. Al primo posto il Vietnam, dove l’84% dei giovani tra i 18 e i 29 anni consulta la rete almeno una volta al giorno, contro solo il 10% degli ultra cinquantenni (gap pari al 74%). L’Italia è al terzo posto: 70% di giovani e 25% di navigatori oltre i cinquant’anni (gap del 45%). Gli Stati Uniti sono il Paese dove le distanze generazionali sono più ridotte: il 48% del pubblico più anziano consulta Internet, contro il 69% dei più giovani.
DUE PESI E DUE MISURE. Nicola Porro: "Fake news? No: se le scrive Repubblica, il giornale progressista", scrive il 28 Novembre 2017 "Libero Quotidiano". "Le fake news sono tali solo se non riguardano un tema politicamente corretto e non sono scritte a titoli cubitali...", scrive Nicola Porro sul suo profilo Twitter. Repubblica, sottolinea il vicedirettore de Il Giornale, "a pagina 4 sparava con grande evidenza un numero impressionante: 6.788.000. E la didascalia recitava: Italiane tra i 16 e i 70 anni che hanno subito qualche forma di violenza pari al 31,6%". Peccato che questa notizia sia assolutamente "falsa, doppia come un gettone. Il tutto a corredo di un pezzo che chiede maggiori risorse contro il femminicidio: cioè maggiori tasse per far sì che una donna su tre (così spiega la didascalia) non debba più subire ignobili violenze". Quel numero, continua Porro, "è un macigno" e "il giornale antibufale per eccellenza, e cioè Repubblica", non ci dice "da dove esce". Bene, continua Porro, "nasce da un rapporto Istat del 2015 su dati del 2014", e "non si tratta di un dato puntuale, ma di un sondaggio. Cioè non ci sono 6,7 milioni di donne che hanno denunciato o lamentato o raccontato una violenza. C’è un sondaggio su un campione di 24.761 donne". Proprio così. Non solo, "si dice che il 31,6% delle donne italiane subisce violenza". Ma la maggior parte di loro subisce quella psicologica: il 22% della popolazione nazionale secondo l'Istat, e cioè 4,4 milioni su 6,7 milioni delle loro stime, si lamenta solo della violenza psicologica e non già di quella fisica. Grave comunque, ma ci sarà una differenza tra l’una e l’altra".
Firenze, le fake news dei giornali sugli stupri inventati. Diversi quotidiani nazionali hanno pubblicato la notizia: A Firenze nel 2016 false 90% delle denunce per violenza sessuale. Il questore smentisce, scrive Domenico Camodeca, Esperto di Cronaca l'11 settembre su "it.blastingnews.com". “Tutte le studentesse americane in Italia sono assicurate per lo stupro e a #Firenze su 150-200 denunce all’anno, il 90% risulta falso”. È questo il passaggio incriminato, privo di virgolette nella versione originale, di un articolo apparso il 9 settembre scorso sui quotidiani La Stampa e Il Secolo XIX, a margine di una intervista al ministro della Difesa, Roberta Pinotti, sui fatti legati all’ancora presunto stupro di Firenze. Anche altre testate, tra cui Il Messaggero, Il Gazzettino e Il Mattino (o, almeno, questa la ricostruzione fatta dalla giornalista del Fatto Quotidiano Luisiana Gaita) hanno poi rilanciato la notizia che, però, si è rivelata essere una #Fake News, una bufala insomma. A smentire i Media ci ha pensato il questore di Firenze Alberto Intini: “Secondo la banca dati della polizia solo 51 denunce per#violenza sessuale nel 2016 e, nei primi 9 mesi del 2017, solo 3 da parte di ragazze americane”. Di fronte alla presunta fake news smascherata, Stampa e Secolo decidono di non mollare, virgolettano la frase da loro pubblicata e la attribuiscono a una non meglio precisata “fonte istituzionale attendibile”, anche se coperta dal segreto professionale. Dunque, a Firenze, nel 2016, ci sono state tra le 150 e le 200 denunce per violenza sessuale (reato che va dal palpeggiamento al vero e proprio stupro), oppure solo 51?. E poi, è vero che le denunce presentate dalle donne americane sarebbero false per il 90%? Sostenitori della prima tesi sono, come detto, le redazioni di Stampa e Secolo le quali, nella nota apparsa successivamente in calce al pezzo contestato, spiegano che “i dati cui fa riferimento la fonte non sono nelle statistiche ufficiali perché non sono ancora confluiti nei database Istat”. Una pezza di appoggio abbastanza fumosa che, infatti, il procuratore di Firenze Intini contraddice fornendo i numeri provenienti dalla banca dati della polizia. Per non parlare dell’altra fake news che tutte le studentesse Usa in Italia sarebbero assicurate contro lo stupro Infatti, come ha spiegato anche Gabriele Zanobini, avvocato delle due ragazze protagoniste della vicenda, l’assicurazione stipulata dalle donne americane che si recano in Italia è generica e comprende ogni tipo di incidente o aggressione in cui si può incorrere.
«Denzel Washington sostiene Trump», la bufala su Facebook. Ennesimo caso di propaganda veicolata da American News, sito che posta contenuti falsi per orientare il dibattito. L’attore trasformato in un supporter del presidente eletto, scrive Marta Serafini su “Il Corriere della Sera” il 16 dicembre 2016. Tanto Denzel Washington risponde ad un giornalista che gli chiedeva un’opinione sulle fake news e sul ruolo dell’informazione moderna. Se non leggi i giornali sei disinformato, se invece li leggi sei informato male. Quindi cosa dovremo fare? chiede il giornalista, Washington replica: “Bella domanda. Quali sono gli effetti a lungo termine di troppa informazione? Una delle conseguenze è il bisogno di arrivare per primi, non importa più dire la verità. Quindi qual è la vostra responsabilità? Dire la verità, non solo arrivare per primi, ma dire la verità. Adesso viviamo in una società dove l’importante è arrivare primi. “Chi se ne frega? Pubblica subito” Non ci interessa a chi fa male, non ci interessa chi distrugge, non ci interessa che sia vero. Dillo e basta, vendi! Se ti alleni puoi diventare bravo a fare qualsiasi cosa. Anche a dire stronzate” tuona il celebre attore e regista.
I giornalisti professionisti si chiedono perché è in crisi la stampa. Le loro ovvie risposte sono:
Troppi giornalisti (litania pressa pari pari dalle lamentele degli avvocati a difesa dello status quo contro le nuove leve);
Troppi pubblicisti;
Troppa informazione web;
Troppi italiani non leggono.
La risposta invece è: troppo degrado intellettuale degli scribacchini e troppi “mondi di informazione”. Quando si parla di informazione contemporanea non si deve intendere in toto “Il Mondo dell’Informazione”, quindi informazione secondo verità, continenza-pertinenza ed interesse pubblico, ma “I Mondi delle Informazioni”, ossia notizie partigiane date secondo interessi ideologici (spesso di sinistra sindacalizzata) od economici. Insomma: quanto si scrive non sono notizie, ma opinioni! I lettori non hanno più l’anello al naso e quindi, diplomati e laureati, sanno percepire la disinformazione, la censura e l’omertà. In questo modo si rivolgono altrove per dissetare la curiosità e l’interesse di sapere. I pochi giornalisti degni di questo titolo sono perseguitati, perchè, pur abilitati (conformati), non sono omologati.
FAKE NEWS, GIORNALI E MORALISMI SENZA PIÙ NOTIZIE, scrive Alessandro Calvi il 22 dicembre 2017 su "Stati Generali". Certo, il problema sono le fake news; eppure, si dovrebbe dire anche dell’informazione di carta, di certe sue degenerazioni; o forse oramai è tardi, forse l’informazione è già morta e quello pubblicato dalla Stampa mercoledì 22 novembre – «La notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive» – ne è il perfetto necrologio. Quella frase l’ha scritta Mattia Feltri dopo aver chiesto scusa ai lettori per aver costruito un pezzo su una notizia poi rivelatasi falsa; e però quella chiusa – «La notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive» – sembra dirci che i giornali oramai ritengono di poter fare a meno di fatti e notizie, accontentandosi delle opinioni, anche di quelle costruite su notizie false; il necrologio del giornalismo, appunto. La storia è piuttosto semplice. Feltri aveva dedicato una puntata della sua rubrica «Buongiorno» alla notizia secondo cui una bimba di 9 anni sarebbe andata in sposa a un uomo di 45 anni e poi da questo sarebbe stata violentata; tutto si sarebbe svolto nella comunità musulmana di Padova. Ebbene, dopo aver spiegato che di questo genere di storie si conosce poco o nulla poiché «avvengono dentro comunità chiuse, regolate dalla connivenza, persuase di essere nel giusto per volere divino», Feltri ricordava la «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta, un po’ genericamente recriminatoria» contro «i Weinstein e i Brizzi di tutto il mondo» e concludeva: «Tanta agitazione per ragazze indotte o costrette a concedersi in cambio di una carriera nel cinema è comprensibile e condivisibile, ma tanto silenzio per donne e bambine sequestrate a vita, in cambio di niente, è spaventoso». Ecco: peccato che alla fine sia uscito fuori che la storia della sposa bambina era falsa. A Feltri non è restato che ammettere l’errore e chiedere scusa, non rinunciando però ad affermare che, sebbene la notizia fosse falsa, «la riflessione sopravvive». E invece no: ché, anzi, a sopravvivere è semmai tutto quell’apparato fatto di notazioni e coloriture – «tanta agitazione» o «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta» – il quale, al venir meno dei fatti, si rivela per quello che è: una semplice impalcatura ideologica, forse persino un po’ infastidita da quella «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta». Tuttavia, il problema non è certo Feltri al quale piuttosto si dovrebbe riconoscere d’essere un gran signore avendo fatto ciò che pochi fanno: ammettere l’errore e chiedere scusa. D’altra parte, capita a tutti di sbagliare, soprattutto se ogni giorno – ogni giorno! – si è costretti a trarre una morale dalle notizie, con metodo oramai quasi industriale; è capitato anche al più inossidabile, al più inarrestabile, tra i dispensatori di morali e opinioni, Massimo Gramellini; la ricostruzione che fornì Alessandro Gilioli sull’Espresso di uno di questi errori – e di mezzo c’è sempre una fake news presa per buona – vale la lettura. Ma, appunto, il problema non è l’errore in sé, poiché l’errore può capitare. Il problema, sta invece nell’essere oramai diventata accettabile – tanto che non s’è visto alzarsi neppure un sopracciglio – un’affermazione come quella secondo cui «la notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive». Il problema riguarda una idea di giornalismo che sembra prescindere dai fatti, per cui le opinioni oramai precedono la cronaca la quale spesso trova spazio soltanto se è in grado di confermare le opinioni, altrimenti se ne fa a meno, poiché comunque «la riflessione sopravvive». Il problema sta insomma nel fatto che l’informazione è stata da tempo ridotta a mero dispensario di opinioni, anche senza più fatti a sostegno. Di recente, sugli Stati Generali, è stato pubblicato un intervento – «Se noi giornalisti siamo sempre meno credibili, ci sarà un perché» – di Fabio Martini, anch’egli giornalista del quotidiano La Stampa, col quale non si può che concordare. E, peraltro, da queste parti si è ragionato spesso sulla crisi del giornalismo, e in particolare sulle conseguenze della marginalizzazione della cronaca. Lo si era fatto ad esempio prendendo spunto da fatti drammatici, come le stragi delle quali i quotidiani quasi non danno più notizia, e si era fatto lo stesso anche a partire da vicende più vicine, come il mancato racconto dell’agonia del lago di Bracciano. Di recente lo si è fatto a proposito di come l’informazione ha trattato le vicende di Ostia e del Virgilio. Comunque sia, il tema è sempre lo stesso: dai primi anni Novanta la cronaca inizia a essere massicciamente sostituita da altro, in particolare dai retroscena; e questo cambia tutto: cambia l’informazione e cambia anche il rapporto tra giornali e potere. «Sulle pagine dei giornali – si perdonerà l’autocitazione da quell’articolo che prendeva a pretesto la vicenda di Ostia per parlare di giornalismo – si affacciano sempre più massicciamente spifferi di Palazzo, brogliacci, verbali. Sembra che il lettore, attraverso la lettura di un verbale riportato pedissequamente dai giornali, possa essere immerso dentro la notizia senza più filtri né mediazioni. Sembra una rivoluzione. È invece l’esatto opposto. Per farsene una idea, basterebbe chiedersi chi dirige il traffico, chi sceglie quali verbali far uscire e quali spifferi lasciar trapelare. Ecco: per lo più, sono le fonti a stabilirlo, se non altro perché sono le fonti che conoscono a fondo il contesto. Insomma, sostituendo lo spazio della cronaca con il retroscena e rarefacendo sempre più il tradizionale lavoro di inchiesta giornalistica, i giornali si sono disarmati e consegnati alle fonti, quindi al potere». Il passaggio dalla cronaca al retroscena, e l’affermarsi progressivo delle opinioni sui fatti, finisce per trasformare anche la scrittura dei giornali. Il linguaggio della cronaca diventa sempre più simile a quello degli editoriali, intessuto di pedagogismi e di toni moralisticheggianti che non dovrebbero trovare spazio nel resoconto di un fatto. Anche questo contribuisce ad allentare il rapporto con la realtà, finendo per trasformare la cronaca – quando ancora trova spazio in pagina – in un racconto di maniera che non dice più molto del mondo. E non è ancora tutto. In questi giorni sono usciti in libreria due libri – non uno, due! – che Michele Serra ha dedicato alla rubrica che da anni cura per Repubblica, «L’amaca». In quello dei due che costituisce l’esegesi dell’altro, Serra scrive che gli anni nei quali iniziò a scrivere corsivi – «gli anni della post-ideologia», afferma – non erano più quelli di Fortebraccio e della sua ferrea faziosità. In realtà, rispetto all’epoca di Fortebraccio stava cambiando soprattutto il contenitore nel quale il corsivo veniva collocato: stavano cambiando i giornali e stava cambiando persino il giornalismo. Prima, informazione era per lo più il resoconto di un fatto e quindi aveva un senso l’esistenza di editoriali e corsivi; poi, con la marginalizzazione della cronaca e l’editorializzazione dell’intero giornale, i corsivi finiscono annegati in un mare di opinioni senza più cronaca, poiché, come s’è appena visto, la cronaca ha lasciato il posto al retroscena il quale ha a sua volta contribuito all’avvicinamento della informazione al potere attraverso il disarmo nei confronti delle fonti. In questo contesto, anche la funzione dei corsivi finisce per essere stravolta rispetto all’epoca di Fortebraccio: e il rischio permanente è che si passi dal graffio contro il potere al moralismo che accarezza lo stato delle cose e che massaggia il potere o la pancia dei lettori. Imboccata questa strada – sostituita la cronaca con il retroscena, scollegata l’informazione dai fatti, ridottala a ragionamento che può essere persino basato su una notizia falsa, stravolta infine la funzione dei corsivi – i giornali si sono ridotti a raccontare sempre meno le cose del mondo e per questo hanno sempre meno lettori e sono sempre più in crisi. A sentire chi i giornali li fa, però, il problema sarebbe soprattutto quello delle fake news o della rete che ruba lettori. E quindi si finisce per ritenere che la soluzione per recuperare lettori e credibilità sia quella di differenziarsi dalla rete, lasciando alla stessa rete il notiziario e concentrandosi ancor di più sulle opinioni. Lo ha spiegato piuttosto chiaramente il direttore di Repubblica Mario Calabresi presentando la nuova veste del giornale, scrivendo di aver addirittura «raddoppiato lo spazio per le analisi e i commenti». Bene. Ma davvero abbiamo bisogno di tutte queste opinioni? Possibile che si abbia tutta questa sfiducia nella capacità dei lettori – sempre che ai lettori si raccontino anche i fatti – di formarsi da sé una opinione? Non sarà, infine, che a forza d’andar dietro alle opinioni si stia rischiando di rendere ancor più flebile il rapporto tra giornali e fatti, oltre a quello oramai quasi evanescente tra giornali e lettori? Lo dirà il tempo. Tuttavia, proprio nel giorno in cui Calabresi annunciava il raddoppio delle analisi e dei commenti, la nuova Repubblica esordiva in edicola con una grande intervista al premier spagnolo Rajoy firmata dallo stesso Calabresi e posta in apertura di edizione. Quello stesso giorno, gli altri giornali raccontavano come Amsterdam avesse sfilato a Milano l’Agenzia europea del farmaco anche per il mancato accordo tra governo italiano e governo spagnolo. Ebbene, nella intervista uscita su Repubblica al capo di quel governo non c’era neppure una domanda su quel fatto. Sarà stata un scelta di opportunità, sarà stato perché l’intervista era stata chiusa prima, comunque si è rimasti con la sensazione che mancasse qualcosa. Quella scelta è stata legittima, certo; difficile però poi lamentarsi se i lettori quel qualcosa non lo cerchino più nei giornali.
Una Costituzione troppo elogiata. Commenti positivi si arrestano sistematicamente alla prima parte del testo, mentre la seconda è ampiamente discutibile e discussa, scrive Ernesto Galli della Loggia il 12 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Non si può proprio dire che abbia destato un grande interesse il settantesimo anniversario appena trascorso dell’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica. Alla fine dell’anno passato, l’evento è stato naturalmente e doverosamente commemorato da tutte le autorità del caso ma nella più completa distrazione della gente immersa nelle festività natalizie. E altrettanto doverosamente esso ha innescato l’ormai consueto ciclo di celebrazioni ufficiali. Che stavolta ha preso la forma di un «viaggio della Costituzione» – organizzato dalla Presidenza del Consiglio - attraverso dodici città italiane ognuna destinata a essere sede di una lezione su un tema centrale della Carta (tra i quali temi fanno bella mostra di sé Democrazia e Decentramento, Stato e Chiesa e Diritto d’asilo, Solidarietà e Lavoro, mentre manca, assai significativamente, il tema della Libertà). Come di prammatica è stata organizzata anche una mostra itinerante, ovviamente multimediale, nella quale ciascuno dei dodici articoli principali è commentato dalla voce di Roberto Benigni, confermato anche in questa occasione nel suo ruolo ormai ufficiale di aedo della Repubblica. Paradossalmente, tuttavia, proprio l’assenza d’interesse da parte del pubblico unita alla piattezza celebrativa condita dei soliti discorsi esaltanti il «testo vivo» della Carta, la sua «sintesi mirabile» e così via magnificando, sono serviti a sottolineare per contrasto qualcosa che è assolutamente peculiare della nostra scena pubblica. Vale a dire la centralità che in essa ha la Costituzione. Una centralità beninteso tutta verbale, fatta per l’appunto di un continuo discorrere sulla Costituzione in ogni circostanza plausibile e implausibile, di una sua incessante evocazione ed esaltazione, di una profusione di elogi per ogni suo aspetto: per la sua saggezza, per la sua lungimiranza, completezza, incisività, bellezza stilistica, e chi più ne ha più ne metta. Credo che in tutta Europa non esista una Carta costituzionale fatta oggetto di un altrettanto inarrestabile fiume di parole laudative, così come credo che non esista un’altra classe politica (ma ci si aggiungono volentieri anche preti e vescovi) che se ne riempia tanto la bocca come quella italiana. A cominciare da coloro che rappresentano le istituzioni, il cui discorso, appunto, è, per la massima parte e in qualsivoglia circostanza più o meno «nobile», una trama di richiami di volta in volta ammonitori o storico-encomiastici alla Costituzione. È una caratteristica così tipicamente italiana da richiedere una spiegazione. La quale credo stia nel fatto che l’ufficialità italiana, non riuscendo a immaginarsi depositaria di un qualunque destino collettivo né investita di una qualunque prospettiva nazionale, non considerandosi attrice credibile e tanto meno portavoce di un qualunque futuro significativo del Paese, sa di non poter fare altro che richiamarsi al passato. Quando in una qualunque circostanza celebrativa la suddetta ufficialità è chiamata a dire di sé e di ciò che rappresenta in modo «alto», essa sa di non essere in grado di spingere lo sguardo avanti, di non avere la statura per dar voce a un progetto o a un destino, e quindi è costretta inevitabilmente a volgere lo sguardo all’indietro, solo all’indietro: cioè per l’appunto alla Costituzione. Naturalmente uno sguardo essenzialmente contemplativo: infatti, lungi dall’essere una retorica in vista dell’azione, la retorica ufficiale della Repubblica è vocazionalmente una retorica della memoria. La dimensione dei foscoliani «Sepolcri», insomma, è ancora e sempre la nostra: anche se oggi priva degli «auspici» che a suo tempo secondo il poeta da essi avremmo dovuto trarre. C’è ancora una considerazione da fare circa il discorso sulla Costituzione tipico della ufficialità italiana. Ed è che esso, nella sua abituale, pomposa, glorificazione del testo, tende sistematicamente a nascondere due verità. La prima è che forse quel testo medesimo così compiuto e perfetto non è, visto che fino a oggi sono almeno 16 (per un totale di oltre venti articoli) le modificazioni che è stato ritenuto utile o necessario apportarvi: e quasi sempre su aspetti per nulla secondari. La seconda verità nascosta dalla magniloquenza celebrativa quando nei suoi elogi si arresta, come fa sistematicamente, alla prima parte della Carta, riguarda la natura viceversa ampiamente discutibile e discussa della seconda parte, quella che tratta dei modi in cui il Paese è quotidianamente e concretamente governato e amministrato. Non a caso il modo come in Italia funzionano l’esecutivo, la giustizia, le Regioni o la burocrazia, non è mai fatto oggetto di attenzione e tanto meno di elogi dal discorso sulla Costituzione. Accortamente i ditirambi sono riservati solo ai massimi principi: alla solidarietà, al ripudio della guerra o al diritto allo studio e via dicendo. Sul resto, silenzio. Con il risultato che modificare ciò che pure a giudizio di moltissimi andrebbe modificato di questa seconda parte si rivela da sempre di una difficoltà titanica, dal momento che la cosa può facilmente essere fatta passare per un subdolo attacco ai principi suddetti. Ma se la Costituzione è così massicciamente presente nel discorso pubblico italiano questo avviene per un’ultima ragione, pure questa patologica. E cioè perché essa viene continuamente adoperata come arma contundente nella lotta politica quotidiana, piegata a suo uso e consumo. In realtà è la Costituzione stessa che si presta a esser adoperata in tal modo. Infatti, il lungo elenco di articoli dal 29 al 47 — articoli astrattamente prescrittivi riguardanti i rapporti «etico sociali» ed economici (l’astrattezza sta nello stabilire come obbligatori per la Repubblica, nella forma perlopiù di altrettanti «diritti» dei cittadini, una lunga serie di costosissimi obiettivi di una vasta quanto assoluta genericità) — tali articoli, dicevo, si prestano molto bene a essere fatti valere a difesa polemica di qualsiasi esigenza contro qualsiasi politica di qualsiasi governo. Non a caso, un tale uso strumentalmente politico della Costituzione cominciò fin dalla sua entrata in vigore, e si può dire che da allora non ci sia stato esecutivo italiano di destra o di sinistra che nelle più svariate occasioni non sia stato accusato in un modo o nell’altro di violare la Costituzione. Inutile dire quanto anche una simile pratica abbia contribuito e contribuisca a impedire che intorno alla Costituzione stessa si formi quell’aura di «sacralità» che invano i suoi celebratori vorrebbero.
Attilio Fontana, chi è il candidato del centrodestra alle regionali lombarde. Avvocato, ex sindaco di Varese, leghista amico di Maroni, è rimasto anche lui sorpreso della sua candidatura, scrive il 16 gennaio 2018 Panorama. Il leghista Attilio Fontana è il nome sotto cui si compatta il centrodestra in Lombardia per le elezioni regionali del 4 marzo 2018, che si svolgono in contemporanea con le elezioni politiche. È lui che mira a ricoprire la poltrona occupata al Pirellone da Roberto Maroni, che ha deciso di non ricandidarsi come governatore. Avvocato, ex sindaco di Varese, 65 anni, candidato poco noto oltre i confini varesini, è finito però al centro della polemica il 15 gennaio per aver parlato di "razza bianca" a rischio. Lo stesso Fontana è rimasto inizialmente sorpreso per la candidatura: "A Varese sono contenti ma stupiti, anche io sono rimasto stupito". Ecco il ritratto professionale e politico di Attilio Fontana.
La carriera legale. Classe 1952, laureato in Giurisprudenza, amico del governatore Roberto Maroni che lo stima, Attilio Fontana è come lui di Varese - dove ha uno studio professionale dal 1980 - e come lui avvocato. Come difensore per anni ha seguito le vicende giudiziarie delle Camicie verdi, i 34 militanti leghisti accusati di costituzione di banda armata. Il processo è durato un ventennio, fino all'assoluzione definitiva e al risarcimento.
Il triplo mandato da sindaco. Attilio Fontana ha ricoperto per tre volte il ruolo di sindaco per la Lega Nord. Dal 1995 al 1999 è stato sindaco del comune di diecimila anime di Induno Olona, della provincia di Varese. Poi il passaggio alla città, a Varese, anche in quel caso per certi versi come sostituto di Maroni. Nel 2006, dopo lo scandalo giudiziario che costrinse il primo cittadina leghista Aldo Fumagalli alle dimissioni, si parlava della possibile candidatura dell'ex ministro; poi fu invece Attilio Fontana a prendere il suo posto nella corsa. Venne eletto sindaco al primo turno nel 2006 (con il 57,8 % dei voti). Allora dovette lasciare, con un certo dispiacere, l'incarico di presidente del Consiglio regionale, ruolo che ricopriva dal 2000 e per cui era stato rieletto nel 2005. Fontana è stato riconfermato sindaco di Varese al ballottaggio nel 2011 (con il 53,89% delle preferenze) fino al 2016. Eletto all'Anci Lombardia (e nel direttivo dell'Anci nazionale), nel suo incarico bipartisan ha fatto battaglie al fianco del ministro Graziano Delrio, allora sindaco di Reggio Emilia e presidente dell'Anci nazionale: si ricordi, ad esempio, la marcia dei sindaci organizzata a Milano nel 2012 contro i tagli al bilancio.
Il suo ritratto più intimo. Attilio Fontana viene descritto come un uomo puntuale che odia arrivare in ritardo facendo aspettare la gente. Sposato, padre di tre figli, è amante del golf e dei viaggi. Sul fatto di essere un volto poco noto della politica, lui ha ironizzato così: "In politica quando mai non si litiga. L'unico che non litiga sono io e infatti non mi conosce nessuno". Dopo un'uscita infelice è però diventato di certo più noto. Sul tema immigrazione a Radio Padania ha parlato di "razza bianca" a rischio, scatenando la polemica. Si è quindi corretto parlando di "lapsus" e quindi si è giustificando dicendo che "anche la Costituzione parla di razze".
Il Sud visto dal Nord dal 1860 ai primi del 900: I meridionali? Cafoni e razza inferiore, scrive Ignazio Coppola il 5 luglio 2012 su "Meridionews". La questione dei meridionali come razza inferiore e la questione meridionale come questione economica. Terminologie, sinonimi e similitudini che attengono e sono alla base, ancora oggi, di una mai realizzata e metabolizzata unità d'Italia e che, significativamente ed opportunamente, avrebbe dovuto essere al centro del dibattito delle celebrazioni del 150° anniversario dell’unità d’Italia: ma così purtroppo non è stato. La questione dei meridionali come razza inferiore e la questione meridionale come questione economica. Terminologie, sinonimi e similitudini che attengono e sono alla base, ancora oggi, di una mai realizzata e metabolizzata Unità d’Italia e che, significativamente ed opportunamente, avrebbe dovuto essere al centro del dibattito delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia: ma così purtroppo non è stato. Hanno vinto ancora una volta l’ipocrisia e le verità nascoste di un risorgimento edulcorato da bugie e falsità che si continuano a propinare, senza soluzione di continuità dalle storiografie ufficiali e scolastiche. Si continua ad ignorare che alla base di una mala unità d’Italia vi fu, come del resto continua ad esserci, retaggio di quel passato, una ignobile componente razzistica antimeridionale conclamata e documentata da quei politici e da quei militari che erano venuti a liberare e civilizzare" il Sud e la Sicilia.
Massimo D'Azeglio: "Napoli come i vaiolo". Infatti che non grande considerazione dei meridionali avevano, all’alba dell’Unità d’Italia, alcuni politici e militari del Nord che tale Unità con arroganza rivendicavano di avere contribuito a compiere, ne esistono incontrovertibili testimonianze. In una lettera inviata il 17 ottobre del 1860 a Diomede Pantaloni e contenuta in un carteggio inedito del 1888, il piemontese marchese Massimo D’Azeglio, che fu presidente del consiglio del Regno di Sardegna ed esponente della corrente liberal-moderata tra l’altro così scriveva: In tutti i modi la fusione con i napoletani mi fa paura e come mettersi a letto con un vaioloso. Più o meno quello che, esattamente 150 dopo, canterà in coro con altri leghisti ad una festa del suo partito l’eurodeputato e capogruppo al Comune di Milano, Matteo Salvini: Senti che puzza scappano anche i cani, sono tornati i napoletani, sono colerosi e terremotati, con il sapone non si sono mai lavati. Sembra di risentire il D’Azeglio di 150 anni prima. Da allora niente è cambiato se non in peggio. Nino Bixio, il paranoico massacratore di Bronte, in una lettera inviata alla moglie tra l’altro così scriveva: Un paese che bisognerebbe distruggere e gli abitanti mandarli in Africa a farsi civili. Ma ancora, sulla stessa lunghezza d’onda del colonnello garibaldino, il generale Enrico Cialdini, luogotenente del re Vittorio Emanuele II inviato a Napoli nell’agosto del 1861 con poteri eccezionali per combattere il brigantaggio a proposito dei territori in cui si trovò a operare, in una lettera inviata a Cavour, così si esprimeva: Questa è Africa! Altro che Italia. I beduini a confronto di questi cafoni sono latte e miele.
Enrico Cialdini era lo stesso che alcuni mesi prima, nel febbraio del 1861, durante l’assedio di Gaeta, bombardando l’eroica città, non si fece scrupolo di indirizzare il tiro dei suoi cannoni rigati a lunga gittata e di grande precisione deliberatamente sugli ospedali per terrorizzare gli occupanti e fiaccarne la resistenza. E, a chi gli faceva osservare il suo inumano comportamento non rispettoso dei codici d’onore e militari, rispondeva sprezzatamene: Le palle dei miei cannoni non hanno occhi. Cialdini si rese poi protagonista degli eccidi e della distruzione, in provincia di Benevento, dei paesi di Pontelandolfo e Casalduni, esecrabili e orrendi al pari di quelli compiuti dai nazisti molti anni dopo - e con minor numero di vittime - a Marzabotto e a Sant’Angelo di Stazzema, in cui furono massacrati senza pietà uomini, donne e bambini. Negli ordini scritti ai suoi sottoposti, era solito raccomandare di non usare misericordia ad alcuno, uccidere, senza fare prigionieri, tutti quanti se ne avessero tra le mani. E dire che del nome di questo criminale, spacciato per eroe, la toponomastica delle nostre città ne ha fatto incetta. E che dire poi del generale Giuseppe Covone mandato anch’esso a reprimere il brigantaggio in Sicilia che, per snidare i renitenti di leva, non si fece scrupolo, avendone piena facoltà che gli derivava dalle leggi speciali, di porre in stato d’assedio intere città, di fucilare sul posto, di torturare, arrestare e deportare intere famiglie e compiere abusi e crimini inenarrabili? Ebbene, anche il Covone, per non essere da meno dei suoi conterranei predecessori e per difendere e giustificare il suo criminale operato dell’uso di metodi di costrizione di stampo medievale nei confronti dei siciliani, non trovò di meglio, in un rigurgito razzista, di affermare in pieno parlamento che: Nessun metodo poteva aver successo in un paese come la Sicilia che non è sortita dal ciclo che percorrono tutte le nazioni per passare dalla barbarie alla civiltà. Ed infine per completare questo bestiario di aberrante avversione razziale nei confronti dei meridionali val bene ricordare le parole tratte dal diario dell’aiutante in campo di Vittorio Emanuele II, il generale Paolo Solaroli: La popolazione meridionale è la più brutta e selvaggia che io abbia potuto vedere in Europa.
Carlo Nievo: "Abbruciare vivi tutti gli abitanti del Sud". E poi quanto scrisse Carlo Nievo, ufficiale dell’armata piemontese in Campania al più celebre fratello Ippolito, ufficiale e amministratore della spedizione garibaldina in Sicilia: Ho bisogno di fermarmi in una città che ne meriti un poco il nome, poiché sinora nel Napoletano non vidi che paesi da far vomitare al solo entrarvi, altro che annessioni e voti popolari dal Tronto a qui ove sono, io farei abbruciare vivi tutti gli abitanti, che razza di briganti, passando i nostri generali ed anche il re ne fecero fucilare qualcheduno, ma ci vuole ben altro. Questi i documentati pregiudizi razziali di quei liberatori che fecero a spese del Sud depredandolo, saccheggiandolo uccidendo e massacrando i suoi abitanti, l’Unità d’Italia. E su questi pregiudizi nati per giustificare la politica coloniale e civilizzatrice piemontese che poi furono elaborate le teorie razziali dell’inferiorità della razza meridionale propugnate da Cesare Lombroso, Alfredo Niceforo, Enrico Ferri, Giuseppe Sergi, Paolo Orano e Raffaele Garofalo. Studiosi che si affrettarono a dare un’impostazione scientifica ai pregiudizi diffusi ad arte dagli invasori per giustificare politiche di rapine, di spoliazioni e di saccheggi a danno del Meridione.
Sui fondamenti antropologici e storici della crisi dell’identità italiana e sulla mancanza di comunicazione interculturale tra Nord e Sud ne fa una lucida analisi Antonio Gramsci nei Quaderni, quando sostiene: La miseria del Mezzogiorno era storicamente inspiegabile per le masse popolari del Nord. Queste non capivano- afferma Gramsci- che l’unità non era stata creata su una base di eguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Sud nel rapporto territoriale città-campagna, cioè che il Nord era una piovra che si arricchiva a spese del Sud e che l’incremento industriale era dipendente dall’impoverimento dell’agricoltura meridionale. Parole sante. L’impoverimento del Meridione per arricchire il Nord non fu la conseguenza ma la ragione stessa dell’Unità d’Italia. In buona sostanza, con l’Unità d’Italia ebbe il sopravvento il disegno e la strategia egemonica dell’imprenditoria e della finanza settentrionale che, conquistando e colonizzando il Sud, ostacolandone in ogni modo la crescita, prevaricò ogni ipotesi di sviluppo della nascente economia meridionale. Significativo in questo senso fu quanto ebbe a dire il genovese Carlo Bombrini prima dell’Unità d’Italia direttore della Banca nazionale degli Stati Sardi e amico personale di Cavour e, successivamente, Governatore della Banca Nazionale del Regno d’Italia dal 1861 al 1882: Il Mezzogiorno non deve essere messo più in condizione di intraprendere e produrre. E negli anni in cui fu a capo della Banca Nazionale tenendo fede a questa sua spiccata vocazione antimeridionalista fu artefice di numerose operazioni finanziarie finalizzate allo sviluppo dell’economia del Nord, soprattutto nella costruzione delle reti ferroviarie settentrionali per le quali ottenne numerose concessioni a detrimento di quelle meridionali. Riprendendo l’analisi di Gramsci, si può in buona sostanza affermare che l’origine della questione dei meridionali bollati come razza inferiore nasce dal fatto, a detta dall’illustre intellettuale sardo, che il rapporto Nord-Sud dopo l’Unità d’Italia fu un tipico rapporto di tipo coloniale che vide le popolazioni del Sud defraudate della loro storia, della loro identità culturale e occupate militarmente. Scriveva il filosofo e romanziere ceco Milan Kundera protagonista della primavera di Praga nel suo Il libro del riso e dell’oblio, un pensiero che è assolutamente calzante con quanto avvenne alle popolazioni meridionali e ai siciliani subito dopo l’Unità d’Italia: Per liquidare i popoli si comincia con il privarli della memoria, si distruggono i loro libri, le loro culture e la loro storia. E qualcun altro scrive loro altri libri, li fornisce di altre culture e inventa per loro un'altra storia. Dopo di che il popolo incomincia a dimenticare quello che è stato. Ed è proprio quello che è capitato alle popolazioni del Mezzogiorno d’Italia nel corso di 150 anni di un forzato e mal digerito processo unitario che ha alle sue origini, come abbiamo visto, aberranti radici antropologiche, xenofobe, razziste e coloniali. Una colonizzazione ed una occupazione militare del Mezzogiorno che, al di là delle frasi di aberrante e vomitevole razzismo nei confronti dei meridionali che abbiamo abbondantemente e documentalmente riportato da parte di liberatori quali Bixio, Cialdini, Covone, D’Azeglio, Nievo, Bombrini e tanti altri, doveva trovare per questo una giustificazione ed una sua legittimazione ideologica, culturale ed anche scientifica tendente a dimostrare l’inferiorità della razza meridionale ed alla gratitudine che si doveva ai settentrionali di esserci venuti a liberare, ma soprattutto a civilizzare. E questo fu lo sporco compito assolto con lodevole perizia, in questa direzione, dalla scuola positivista del socialista Cesare Lombroso che, assieme ad altri antropologi e criminologi quali Alfredo Neciforo, Ferri, Sergi, Orano e Garofalo propugnatori del razzismo scientifico e dell’eugenetica, misero a frutto i diffusi pregiudizi antimeridionali teorizzando l’inferiorità della razza meridionale. Cesare Lombroso antropologo e criminologo, fu nel periodo immediatamente successivo all’Unità d’Italia che elaborò le sue teorie sulla inferiorità etnica dei meridionali, effettuando misurazioni sui crani dei briganti uccisi allo scopo di dimostrare e di ottenere la prova scientifica sulla inferiorità genetica dei meridionali. Lombroso, sfatando il mito di una omogenea razza italica, teorizzò l’esistenza di due tipi di italiani: i settentrionali come razza superiore e i meridionali di stirpe negroide africana razza inferiore. Più avanti, un altro antropologo di scuola lombrosiana, Alfredo Niceforo, propugnatore del razzismo scientifico, come il suo maestro, teorizzò l’esistenza in Italia di almeno due razze. Quella eurasiatica (ariana) al Nord e quella euroafricana (negroide) al Sud e di conseguenza la superiorità razziale degli italiani del Nord su quelli del Sud. Con un particolare, di non poco conto, che l’illustre antropologo, tutto preso dalla elaborazione delle sue folli teorie, vittima della sindrome di Stoccolma, si era dimenticato di essere nato nel gennaio del 1876 a Castiglione di Sicilia e quindi di appartenere ad una razza inferiore!
Niceforo in un suo libro del 1898 L’Italia barbara contemporanea, descriveva il Sud come una grande colonia, una volta conquistata e sottomessa, da civilizzare. Questa ideologia della superiorità della razza nordica, al fine di giustificare le rapine e le spoliazioni nei confronti del Sud, fu diffusa - sostiene ancora Gramsci - in forma capillare dai propagandisti della borghesia nella masse del Settentrione. Il Mezzogiorno è la palla al piede - si disse allora come si ripete pedissequamente oggi - che impedisce lo sviluppo dell’Italia. I meridionali sono - secondo la teoria del Lombroso e dei suoi seguaci - biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi per destino naturale e se il Mezzogiorno è arretrato la colpa non è del sistema capitalistico o di altra causa storica, ma del fatto che i meridionali sono di per sé incapaci, poltroni, criminali e barbari. Queste teorie portarono poi nel corso degli anni alla discriminazione razziale nei confronti dei meridionali, come quando nelle città del Nord si era soliti leggere cartelli come questi: Vietato l’ingresso ai cani e ai meridionali. E ancora: Non si affittano case ai meridionali. Era questa la conseguenza della campagna xenofoba e razzista avviata con l’unità d’Italia e che dura ancora ai nostri giorni. Come si può alla luce di tutto questo parlare a tutt’oggi di Unità d’Italia o di memoria condivisa tra Nord e Sud quando dalla storiografia ufficiale ai meridionali è stata sempre negata una verità storica che li relega nel ghetto dell’essere cittadini residuali di questo Paese?
E certamente ancor più non ci si può indignare da parte di insigni rappresentanti delle istituzioni se oggi i meridionali, in occasioni di recenti manifestazioni sportive, si ritrovano a fischiare l’inno di Mameli. Questi insigni rappresentanti delle istituzioni - e sopratutto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in testa - da buon meridionale, anziché compiacersi di inaugurare a Caprera, come ha fatto in questi giorni, con la solita usata ed abusata retorica, il museo dedicato alle memorie garibaldine, da buon napoletano, avrebbe fatto bene ad indignarsi per il fatto che a Torino il 26 novembre 2009 è stato inaugurato e riaperto al pubblico il nuovo museo Lombroso ricco di reperti, di fotografie di pezzi anatomici, di crani, di teste mozzate, di documenti e di reperti utilizzati dal criminologo ed antropologo veronese e dai suoi seguaci tendenti a teorizzare la inferiorità della razza meridionale ed a sancire che ancora, ai nostri giorni, esistono due Italie: una di serie A ed una di serie B:quella del Nord civile e progredita, quella del Sud barbara e arretrata. Questo in un Paese civile sarebbe il minimo per indignarsi e far chiudere da parte di istituzioni responsabili, anziché inaugurarne altri, questo deprecabile museo delle menzogne e degli orrori. In Italia purtroppo basta perdere quattro a zero con la Spagna per essere, come sostengono Napolitano e Monti, orgogliosi di una nazionale che unisce gli italiani. Contenti loro...
Leggi razziali, 80 anni fa la nascita del razzismo di Stato in Italia. Cos'erano e perché è importante ricordare i provvedimenti contro gli ebrei che portarono il nostro paese a condividere le responsabilità della Shoah, scrive il 23 gennaio 2018 Eleonora Lorusso su Panorama. Era il 1938 quando l'Italia fascista varò le leggi razziali, firmate dall'allora re Vittorio Emanuele III: l'80esimo anniversario rappresenta una ferita ancora aperta, come dimostrato dalle recenti polemiche in occasione del rimpatrio della salma dell'ex sovrano di casa Savoia, contro cui ha protestato la Comunità ebraica italiana. A sollevare nuovo polverone sono anche stati recenti riferimenti alla "razza bianca" nelle parole di un politico lombardo.
Le leggi razziali in Italia. Il Regime di Benito Mussolini, con il Regio Decreto del 5 settembre del '38, si adeguò di fatto alla legislazione antisemita della Germania nazista, che fin dal 1933, anno dell'ascesa al potere del Führer, varò una serie di provvedimenti contro gli ebrei, che portarono all'Olocausto, ovvero il genocidio di 6 milioni di persone, compresi donne e bambini, ricordati con la Giornata della Memoria, il 27 gennaio. Nel 1933 si stima che ci fossero 13 milioni di ebrei in Europa, dei quali circa 40.000 in Italia. Anche questi diventarono progressivamente vittime di un "razzismo di Stato", prima tramite leggi discriminatorie a livello sociale ed economico, poi con la violenza vera e propria.
I primi provvedimenti. Anche dopo l'introduzione delle prime norme anti-semite in Germania, in Italia non si assisteva ancora a forme di discriminazione. Dopo che i Patti Lateranensi avevano definito l'ebraismo come culto ammesso, il governo fascista nel 1930 emanò la Legge Falco, che istituiva e rendeva obbligatoria l'iscrizione all'Unione delle comunità ebraitiche italiane, vista con favore però degli ebrei come forma di semplificazione burocratica. Fu, invece, nel 1938 che la situazione cambiò profondamente. Il 14 luglio viene redatto il primo il primo documento che parlava ufficialmente di "razza ariana italiana". Era redatto da 10 docenti universitari di Neuropsichiatria, Pediatria, Antropologia, Demografia e Zoologia, e tra i firmatari figuravano anche Giorgio Almirante, Giorgio Bocca, Giuseppe Bottai, Giovanni Gentile, Giovanni Papini, Amintore Fanfani, accanto a Pietro Badoglio, Emilio Balbo e Galeazzo Ciano.
La nascita della "razza ariana italiana". Il testo era diviso in punti e sanciva alcuni concetti ritenuti fondamentali:
1) Le razze umane esistono;
2) Esistono grandi razze e piccole razze;
3) Il concetto di razza è un concetto puramente biologico. Esso quindi è basato su altre considerazioni che non i concetti di popolo e di nazione, fondati essenzialmente su considerazioni storiche, linguistiche, religiose;
4) La popolazione dell'Italia attuale è nella maggioranza di origine ariana e la sua civiltà è ariana.
Al punto 5 si definiva "leggenda l'apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici", affermando che "dopo l'invasione dei Longobardi non ci sono stati in Italia altri notevoli movimenti di popoli capaci di influenzare la fisionomia razziale della nazione;
6) Esiste ormai una pura "razza italiana";
7) E' tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti;
8) È necessario fare una netta distinzione fra i Mediterranei d'Europa (Occidentali) da una parte, e gli Orientali e gli Africani dall'altra;
9) Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l'occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all'infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l'unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani.
10) I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli Italiani non devono essere alterati in nessun modo.
La discriminazione a scuola, nel lavoro e nella società. Dalla definizione di razze alla discriminazione ed espulsione di cittadini (e bambini) ebrei dalla vita sociale e dal mondo lavorativo e scolastico il passo fu breve. Con la Disciplina dell'esercizio delle professioni da parte di cittadini di razza ebraica, del 29 giugno del 1939, venivano imposte limitazioni e divieti, in particolare per chi era "giornalista, medico-chirurgo, farmacista, veterinario, ostetrica, avvocato, procuratore, patrocinatore legale, esercente in economia e commercio, ragioniere, ingegnere, architetto, chimico, agronomo, geometra, perito agrario, perito industriale". Con il Regio decreto legge N.1728 nel novembre 1938 (Provvedimenti per la Difesa della Razza Italiana) si stabilì poi il divieto di matrimoni misti tra ebrei e "cittadini italiani di razza ariana". Proibito anche prestare servizio militare o come domestici presso famiglie non ebree; possedere aziende con più di 100 dipendenti, essere proprietari di terreni o immobili oltre un certo valore; essere dipendenti di amministrazioni, enti o istituti pubblici (quindi anche scuole di ogni grado), banche di interesse nazionale o imprese private di assicurazione. Venivano fatte eccezioni per i familiari di caduti nelle "guerre libica, mondiale, etiopica e spagnola, e caduti per la causa fascista"; mutilati, invalidi, volontari di guerra o decorati, iscritti al Partito Fascista della prima ora, legionari di Fiume o per coloro che avevano ottenuto benemerenze eccezionali. Dopo l’armistizio dell’8 settembre, esattamente il 13 dicembre 1943, iniziò anche per gli ebrei italiani il periodo di deportazione e sterminio.
L'esempio della Germania. Le leggi razziali italiane seguirono l'esempio di quelle tedesche, emanate a partire dal 1933 e proseguite tra il '35 e il '38. Si iniziò con la Legge per il rinnovo dell'Amministrazione Pubblica, che pensionava gli impiegati pubblici non di discendenza ariana. Seguirono le leggi per la protezione dei caratteri ereditari, del sangue e dell'onore tedesco, oltre a quelle sulla cittadinanza, sui nomi, sul passaporto degli Ebrei, fino all'Ordinanza per l'esclusione dall'economia tedesca per questi ultimi.
Cibo razionato per i bambini. A gennaio del 1942, la Conferenza di Wannsee discusse invece della "Soluzione Finale" della questione ebraica, mentre il 18 settembre del 1942 venne emanato un Decreto per il razionamento alimentare per gli Ebrei, che vietava loro di ricevere carne e prodotti derivati, uova, farinacei (dolci, pane bianco, panini, fecola di grano, ecc) e latte fresco. Le uniche eccezioni erano ammesse per bambini e ragazzi ebrei fino ai 10 anni, che potevano ricevere la razione di pane uguale a quella dei "normali consumatori" e per i bambini ebrei fino ai 6 anni d'età, che potevano contare sulla razione di grassi assegnata ai coetanei tedeschi, ma senza sostituti del miele e senza cacao in polvere. I ragazzi di età compresa dai 6 ai 14 anni non ricevettero invece più il supplemento di marmellata, mentre i bambini ebrei sino ai 6 anni continuarono a poter avere mezzo litro di latte fresco scremato al giorno.
Le recenti polemiche: da Vittorio Emanuele III ad Attilio Fontana. Il 17 dicembre scorso è rientrata in Italia la salma dell'ex re Vittorio Emanuele III, non senza polemiche: la Comunità ebraica italiana ha espresso "profonda indignazione", ricordando l'ex re come "complice di quel regime fascista di cui non ostacolò l'ascesa", colui che "avallò le leggi razziali" e che con quell'atto ha "gettato discredito e vergogna su tutto il paese", come spiegato da Noemi Di Segni. E' di pochi giorni fa, invece, la bufera scatenata dalle parole del candidato di centrodestra alla Presidenza della Regione Lombardia. Attilio Fontana, parlando di immigrazione, ha sostenuto la necessità di difendere la "razza bianca" dall'invasione di migranti. Dopo essersi scusato per "l'espressione sbagliata" ha anche ricordato la Costituzione ("È la prima a parlarne"). Il riferimento è all'articolo 3, che però recita: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
L’odio è odio anche quello per la Petacci, scrive Piero Sansonetti il 18 gennaio 2018 su "Il Dubbio". L’uscita di Gene Gnocchi, in tv, contro Claretta Petacci, ha poco di comico. Se dici maiala a una signora che è stata fucilata 72 anni, sei molto spiritoso? Io non credo. Sto parlando del comico Gene Gnocchi, che l’altra sera, in Tv, ha usato questo termine, scherzosamente, per definire Claretta Petacci, l’amante di Benito Mussolini. Dico subito che considero l’antifascismo un valore, nella cultura politica italiana. Ho sempre pensato che l’antifascismo sia fondato su alcuni principi essenziali: la tolleranza, l’amore per la libertà, il rispetto degli altri soprattutto delle minoranze e degli sconfitti – il diritto. Si chiama antifascismo proprio per questo: perché la tragedia del fascismo fu esattamente quella di avere negato quei grandi principi della civiltà che sono la tolleranza e la libertà. Che c’è da ridere se ti dico: «Maiala»? Al di fuori della tolleranza non esiste l’antifascismo, ma invece esiste qualcosa che assomiglia molto a quello che è stato il fascismo. Svolgo questo ragionamento sperando di non offendere nessuno. E perché credo che sia un ragionamento attuale. Molto attuale. Da un po’ di tempo siamo costretti a misurarci di nuovo con il tema della tolleranza, che è stata travolta dal linguaggio dell’odio, dal trionfo delle appartenenze, dal giustizialismo. Si è invertito, di fronte all’opinione pubblica, lo stesso valore delle parole e delle espressioni. La parola tolleranza, come idea positiva, è stata sostituita da suo contrario: tolleranza zero. E la stessa parola “bontà”, che un tempo aveva un valore edificante, è stata rovesciata in “buonismo”, sostantivo che indica cedimento, debolezza, forse persino tradimento. Su questo giornale ci siamo occupati molto, nei mesi scorsi, del linguaggio dell’odio e della cultura dell’odio. In particolare nei giorni nei quali su questo tema – a Roma, alla fine dell’estate – si è svolto un convegno internazionale organizzato dalle avvocature dei paesi del G7. A me preme dire che il linguaggio dell’odio è il linguaggio dell’odio. Punto. Non ha colore politico. Ed è lo strumento con il quale tutti i populisti cercano di resistere all’avanzata della civiltà, della modernità, del diritto. Le parole usate da Gene Gnocchi rientrano pienamente nel linguaggio dell’odio. Non vale niente l’osservazione che Gnocchi è un comico, e quindi fa satira, e la satira è satira e non ha limiti e non ha correttezza. La satira ha un formidabile valore e una grandissima potenza nella battaglia culturale. E può spingere la cultura e il senso comune in una direzione o nella direzione opposta. Proibirla è una follia, criticarla (e qualche volta anche indignarsi per la sua volgarità) è legittimissimo. Gene Gnocchi si è presentato l’altro ieri sera alla trasmissione “Di Martedì”, sulla Sette (quella condotta da Marco Travaglio e che ha ospite quasi fisso Giovanni Floris), ha mostrato la foto di un maiale che cerca cibo tra i cassonetti dei rifiuti a Roma (è una foto più volte usata da Giorgia Meloni per polemizzare contro la sindaca Raggi) e ha detto che quel maiale è una maiala e ha un nome e un cognome: Claretta Petacci. Penso che tutti sappiate chi è la Petacci. È la figlia di una famiglia piuttosto potente della borghesia romana, che da giovanissima, e cioè quando aveva 20 anni, si innamorò di Benito Mussolini e intrecciò con lui una storia d’amore che durò 13 anni. Cioè durò fino a quel fatale 28 aprile del 1945 nel quale Mussolini, che era stato catturato il giorno prima a Dongo mascherato da soldato tedesco, mentre cercava di espatriare in Svizzera, fu fucilato. L’esecuzione avvenne in una località di campagna, Giulino di Mezzegra, in Lombardia. Insieme all’ex duce fu arrestata anche Claretta, che gli era restata al fianco, mentre i Petacci si erano messi al sicuro in Spagna, ma lei si era rifiutata di seguirli. Sul capo di Mussolini pendeva la condanna a morte pronunciata dal Clnai, l’organismo di governo della Resistenza. La sentenza fu eseguita da tre partigiani del Pci, Walter Audisio, Aldo Lampredi e Michele Moretti. Fucilarono Mussolini e fucilarono anche Claretta. Il giorno dopo, i cadaveri di Mussolini e della Petacci furono portati a Milano, in piazzale Loreto, insieme ai cadaveri di altri gerarchi (tra i quali quello di Alessandro Mussolini, segretario del partito fascista) che erano stati catturati insieme a Mussolini e poi fucilati a Dongo. A piazzale Loreto, qualche mese prima (in agosto) i fascisti avevano fucilato 15 partigiani e poi li avevano appesi ai lampioni. Quel giorno, il 29 aprile, ci fu il contrappasso: i corpi dell’ex duce, dei gerarchi, e anche quello di Claretta, furono appesi per i piedi alla pensilina del distributore della Esso. Certamente fu una delle pagine meno solari della Resistenza. Contro Claretta Petacci non c’era nessuna sentenza. Né del Clnai e tantomeno di un regolare tribunale. Fu fucilata lo stesso. Forse per eccesso di zelo, forse perché fu lei che si gettò sul corpo dell’uomo che amava, per proteggerlo. Claretta Petacci non fu mai una donna di potere, non fu una gerarca, non ebbe incarichi politici, non è responsabile in nulla e per nulla degli errori e dei delitti del fascismo. Leggendo le sue carte si possono anche trovare frasi che testimoniano un fanatismo che oggi fa paura. Così come fa paura il fanatismo di chi decise di impiccarla per i piedi, e il fanatismo della folla che urlava e sputava sui cadaveri. Ma io non credo che in nessun modo questa circostanza giustifichi, 72 anni dopo, l’oltraggio gratuito contro la sua memoria, peraltro del tutto immotivato. Non credo che la battuta di Gene Gnocchi abbia niente a che fare con la comicità. Se ti dico che sei un porco, ti sto insultando, non ti sto prendendo in giro. È preoccupante, secondo me, proprio questa situazione: l’ingiuria, l’odio, la rabbia, il disprezzo che diventano strumento di satira, e cioè sono proposti al pubblico della televisione con naturalezza come pacifico elemento di divertimento. L’incattivimento dell’opinione pubblica, il trionfo dell’odio come sentimento popolare – o addirittura come giusto sentimento di rivolta o di riscatto – nascono e si rafforzano proprio qui: nella loro normalizzazione. Gene Gnocchi alla volte è molto spiritoso. A volte meno. La sua abitudine a dissacrare è apprezzabile. Quella dell’altra sera, francamente, è stata una pessima performance.
Quando l'uguaglianza discrimina. Nonostante il "politicamente corretto" non esistono le donne quale realtà unica e compatta, scrive Carlo Lottieri, Martedì 23/01/2018, su "Il Giornale". Hanno suscitato molte polemiche le parole di Catherine Deneuve contro il nuovo moralismo in tema di molestie. Il documento pubblicato da Le Monde interpreta però un diffuso rigetto del puritanesimo sollevato dal «caso Weinstein». E così oltre Oceano la scrittrice Margaret Atwood, da anni paladina delle battaglie femministe, ha deciso di prendere le distanze dal movimento #MeToo e ha detto di considerare pericoloso l'attuale clima da caccia alle streghe. Tutto ciò ci dice che nonostante il «politicamente corretto» non esistono le donne quale realtà unica e compatta, esattamente come non esistono i neri, gli ebrei, i giovani e via dicendo. In fondo, queste voci fuori dal coro chiedono che si abbia nei riguardi dei maschi lo stesso rispetto che si deve alle donne. Per questo una cosa è rilevare che in taluni contesti, ad esempio, c'è un più alto rischio di omicidio di donne e altra cosa, invece, è immaginare che vi sia un assassinio di tipo particolare (e più grave) da ricondurre alla categoria del «femminicidio». Uomini e donne sono diversi, ma è importante preservare rispetto nei riguardi dei diritti e delle idee di tutti. Per questo è comprensibile che una parte di chi in passato si è impegnato contro le discriminazioni ora sia in difficoltà dinanzi alla richiesta di privilegi compensatori. Il dibattito prese avvio, in America, quando s'iniziò a penalizzare i gruppi ritenuti più forti per favorire quelli più deboli. Fu allora che taluni intellettuali neri trovarono assurdo che s'introducessero, per legge, posizioni di favore a vantaggio di un gruppo etnico e, di conseguenza, a danno degli altri. Secondo economisti come Thomas Sowell e Walter Williams (ma anche per il giurista Clarence Thomas), è ingiusto che in un concorso di ammissione a un'università si riservino posti ai candidati neri: passando dalle ingiustizie subite da Rosa Parks a discriminazioni di segno opposto a scapito dei bianchi. Per giunta, questo induce a pensare che un laureato afroamericano uscito dai migliori campus abbia ottenuto tale risultato non grazie alle proprie qualità, ma in ragione di un «imbroglio legale». Lo stesso Thomas, che fu ammesso alla prestigiosa Yale Law School, è stato spesso attaccato dai progressisti americani proprio a partire da ciò. Simili meccanismi volti a favorire taluni gruppi sociali creano poi una serie di paradossi e cortocircuiti, su cui aveva richiamato l'attenzione Kenneth Minogue nel suo volume del 2010, intitolato La mente servile. In quel testo il filosofo conservatore aveva rilevato come quando si abbandona il criterio dell'eguaglianza dinanzi alla legge si finisce per approdare in un quadro del tutto arbitrario, nel quale non è mai chiaro se si debba premiare il maschio islamico o la donna europea, l'omosessuale o l'immigrato, il giovane o l'anziano, e via dicendo. Se «uguali nella libertà» si converte in «diversi nelle discriminazioni», c'è davvero da chiedersi che fine faccia quel poco che ancora rimane della nostra civiltà giuridica.
I DATI DELLE FORZE DELL'ORDINE. Immigrazione, gli stranieri più pericolosi vengono dall'Africa, scrive il 22 Gennaio 2018 Fausto Carioti su "Libero Quotidiano". Gli immigrati non sono tutti uguali. Lo dicono i numeri, con la loro particolare capacità di essere politicamente scorretti: tra gli stranieri presenti nel nostro Paese l'attitudine al crimine varia moltissimo a seconda della nazionalità, ma non nel modo in cui di solito si crede. È noto che sulla maggior parte dei reati compiuti dai non italiani ci sono le impronte digitali di cittadini romeni. Nell' ultimo anno per il quale sono disponibili dati definitivi, il 2015, si sono contati 270.216 reati ad opera di immigrati e nel 22% dei casi (58.555), secondo le nostre forze di polizia, gli autori hanno il passaporto emesso dal governo di Bucarest. Accanto, sul discutibile podio, figurano i marocchini (15% dei reati) e gli albanesi (10%). Le stesse tre nazionalità, a posti scambiati (nell' ordine marocchini, albanesi e romeni), guidano la classifica degli stranieri "ospiti" dei nostri penitenziari. Ma questi numeri dicono poco, perché, dopo quella italiana, le cittadinanze romena, albanese e marocchina sono anche le più rappresentate nella nostra penisola. "Pesato" così, il dato che riguarda i romeni, ad esempio, assume tutt' altro valore: costoro sono il 23% degli immigrati e sono ritenuti responsabili del 22% delle illegalità compiute da stranieri. Delinquono nella media, pur avendo un'incidenza molto alta nello sfruttamento della prostituzione e nelle rapine, come dimostrano le tabelle in questa pagina.
Le sorprese - Per capire qual è la propensione alla delinquenza delle diverse comunità occorre rapportare il numero delle violazioni del codice penale a quello degli individui. Lo ha fatto Libero, elaborando dati Istat di pubblico dominio. I reati, divisi per Paese di provenienza degli autori, si riferiscono all' intero 2015, mentre le cittadinanze degli immigrati presenti in Italia sono quelle fotografate dall' istituto di statistica il primo gennaio dello stesso anno: incrociandoli, è possibile calcolare il numero di illegalità ogni mille individui (per ovvie ragioni, sono stati presi in considerazione solo le nazionalità di una certa rilevanza). Anche se questo conteggio non comprende i clandestini e non tiene conto delle variazioni nella presenza degli stranieri durante l'anno, fornisce una classifica attendibile, in cui non mancano le sorprese.
Prima notizia: scordiamoci romeni, albanesi e marocchini. I peggiori immigrati vengono dal piccolo Gambia, che è esteso poco più dell'Abruzzo e conta appena 1,7 milioni di abitanti. All' inizio del 2015 risultavano presenti sul suolo italiano 3.306 gambiani, che i nostri uomini in divisa hanno ritenuto responsabili di 2.455 reati, 831 dei quali legati al traffico di droga. Numeri che assegnano a costoro un tasso di criminalità elevatissimo, pari a 743 reati ogni mille individui. Il rapporto scende a 306 se si considerano i cittadini del Gambia presenti il primo gennaio del 2016 (il loro numero è cresciuto molto durante il 2015), ma non cambia l'assegnazione del primo posto. Seguono i maliani: 6.245 censiti, per un totale di 1.332 reati, anch' essi legati soprattutto allo spaccio, col risultato di 213 delitti ogni mille persone.
Medaglia di bronzo (chiamiamola così) ai tunisini: 187 delitti ogni mille di loro, con "specializzazioni" in droga e furti. Seguono somali, algerini e - primi europei - gli immigrati dalla Bosnia-Erzegovina. Quindi nigeriani, afghani, serbo-montenegrini (che le tabelle Istat ancora non dividono tra loro) e senegalesi. Secondo dato degno d' interesse: le nazionalità con il più alto tasso di criminalità coincidono in gran parte con quelle i cui cittadini presentano regolarmente richiesta agli uffici italiani per ottenere il diritto d' asilo o altro tipo di protezione. È il caso di chi proviene da Gambia, Mali, Somalia, Nigeria, Afghanistan e Senegal. Terzo dato, forse il più interessante: la propensione a delinquere delle varie nazionalità è diversissima. I filippini, che per consistenza sono la sesta comunità straniera, hanno un tasso di delitti davvero basso, pari a 5 ogni mille individui, incomparabilmente inferiore a quello di chi proviene dai Paesi africani che abbiamo visto. Un governo e un parlamento non ideologizzati userebbero questi indicatori per selezionare gli immigrati da accogliere, anziché predicare una politica delle porte aperte indiscriminata.
IL TERRONE RAZZISTA.
Tornano gli annunci razzisti: "Non si fitta ai meridionali, specialmente napoletani e siciliani", scrive l'8 ottobre 2017 Leggo. Sembra una storia degli anni Settanta, quando i meridionali che emigravano al nord in cerca di lavoro avevano difficoltà a trovare un alloggio. Soprattutto a Torino, dove gli italiani del sud si spostavano in massa per entrare in Fiat, spesso trovavano affissi sui portoni d’ingresso degli edifici dei cartelli che avvisavano: “Non si affitta ai meridionali”. I settentrionali non li volevano come inquilini perché c’era il pregiudizio che creassero problemi: ladri, chiassosi e poco inclini all’igiene. A distanza di quarant’anni quei pregiudizi sembrano tutt’altro che archiviati, anche se i terroni in cerca di una casa nel profondo nord non vengono più accolti da quei fatidici cartelli, ma ai tempi di internet l’antipatica avvertenza è contenuta in qualche annuncio pubblicato sui social network. È quello che racconta Vittorio Savino, medico residente ad Aversa e dirigente presso l’Asl di Caserta, che nei giorni scorsi ha accompagnato la figlia a Padova per cercarle una sistemazione nella città veneta, dove la ragazza nei prossimi mesi dovrà seguire un corso di formazione. «Si naviga su internet e si gira per la città per trovare una soluzione – scrive l’uomo sulla sua bacheca di Facebook –. Prezzi tutto sommato non male, anzi in qualche caso buoni, ma c'è il trucco». E il trucco di cui parla Savino consiste nelle particolari limitazioni poste dai proprietari che offrono le abitazioni in affitto. Lui stesso ne cita qualche esempio: «Via Porcellini (Forcellini – ndr): non si fitta a studenti, meridionali, gay friendly, animali perché si vive in condominio». E poi: «Via Facciolati: no a gay friendly, no pet friendly, no coppie con figli, trans, meridionali, specialmente napoletani e siciliani. Valutabili altre zone del centro sud». E ancora: «Zona Guidda Bassonello: solo a ragazze bella presenza del nord, no meridionali». E infine: «Corso del popolo: no a gay, no a persone del sud, no sardi». Ma Savino elenca pure altre proibizioni alquanto bizzarre: «Ci sono divieti anche per lavoratori (??), ciccioni (???), neri, marocchini, persone in cattive condizioni di salute». Il post ha fatto molto scalpore su Facebook, ricevendo centinaia di reazioni, condivisioni e commenti e innescando un’accesa discussione su come vengono effettivamente accolti i meridionali al nord. Patrizia racconta la sua personale esperienza: «Questo succedeva nel 1971, quando a causa del lavoro siamo stati costretti a salire su a Torino, e sino a quando papà non ha trovato lavoro stabile, prima in fonderia e poi in Fiat, non ci fittavano un appartamento. Poi ci studiavano e quando poco dopo hanno capito che eravamo persone tranquille e oneste, volevano aprirsi. Al che mia madre disse: “No grazie ci bastiamo anche da soli”. L'ignoranza, l'intolleranza, i pregiudizi a prescindere sono brutte bestie. Credono di avere il pedigree, ma in tutte le grandi o piccole città ormai c'è degrado e loro non ne sono esenti». Invece, Cinzia suggerisce una soluzione non proprio lecita: «Benvenuti in Veneto. Se proponi di voler pagare un 50 per cento in più o in nero, magicamente si aprono le porte». Ma c’è anche qualcuno che, come Domenico, difende la città dove si è trasferito tempo fa: «Abito a Padova da 17 anni e non ho trovato problemi a trovare casa allora ed in seguito. Consiglio di trovare forme di condivisione di appartamenti poiché le abitazioni affittabili sono quasi tutte ad appannaggio di universitari. Un giro presso le facoltà potrebbe favorire la ricerca. Auguri!».
"Vicino a una negra non ci sto", donna abbandona il posto in treno. È accaduto a bordo di un treno Frecciarossa da Milano a Trieste. La denuncia della madre della ragazza su Facebook: "Razzisti andatevene", scrive Giorgia Baroncini, Lunedì 22/10/2018, su "Il Giornale". "Io accanto a una negra non ci sto". È quanto esclamato da una passeggera del Frecciarossa Milano-Trieste quando nel posto accanto al suo si è seduta una giovane ragazza di colore. "Hai il biglietto?", le ha chiesto la donna."Sì", ha risposto la giovane mostrandolo. "Se è così, io accanto a una negra non ci sto", ha poi tuonato la signora alzandosi per cambiare posto. La ragazza ha subito inviato un messaggio alla madre per raccontarle il fatto e la donna ha deciso di denunciare quanto accaduto. Così, poco dopo, su Facebook è comparso il postdella di madre della ragazzina, Paola Crestani, presidente del Centro Italiano Aiuti all'Infanzia, ente del terzo Settore autorizzato per le adozioni internazionali.
La denuncia. "La dolcissima ragazza nella foto è mia figlia - ha scritto Crestani sulla sua pagina social -. Ieri l'ho accompagnata in stazione centrale a Milano e ha preso il Frecciarossa in direzione Trieste. Poco dopo mi manda un messaggio per raccontarmi quanto accaduto. L'ho subito chiamata e mi ha detto che un ragazzo che aveva assistito alla scena ha preso le sue difese dicendo alla signora di vergognarsi. Dubito che lei lo abbia fatto ma se ne è andata, come dovrebbero fare tutti i razzisti: Andarsene!". "Ne siano consapevoli o no - si legge nel post -, il mondo di oggi e del futuro è questo: un insieme di persone di tutti i colori, di diverse lingue, di culture differenti. Non solo nelle strade, negli autobus, nei treni o negli aerei ma anche nel business, nella finanza, nella moda, nelle università, nello sport. Quindi, razzisti, che vi piaccia o no, avete già perso!". Pochi giorni un altro caso di razzismo da parte di una signora italiana di circa 40 anni che, a bordo di un Flixbus, ha proferito frasi ingiuriose nei confronti di un 25enne senegales.
Quando i neri erano i meridionali: ovvero, l'ultimo è "il più terrone" di tutti. Video pubblicato su This is Racism Con: ANDREA PENNACCHI. Da un testo di MARCO GIACOSA. Adattamento e regia: FRANCESCO IMPERATO. Operatore: CLAUDIO PASTAFIGLIA. Una produzione: GOLEMHUB.COM
Andrea Pennacchi: quando i neri erano i meridionali. Il monologo sui «terroni» da un milione di clic, scrive E.B. /CorriereTv il 22 ottobre 2018. Il monologo interpretato dall’attore Andrea Pennacchi inizia con «Ciao terroni, come va, mi ricordo di voi…». «Ciao Terroni! Come va? Mi ricordo di voi, arrivavate col treno, con la macchina piena di valigie di cartone…». Inizia così il monologo (in veneto) in cui l’attore Andrea Pennacchi si rivolge ai “terroni”. Il video sul tema del razzismo (pubblicato venerdì dalla pagina Facebook “This is Racism”) ha superato nel frattempo un milione di visualizzazioni. Pennacchi interpreta “un veneto deluso” dal razzismo; il testo è una rielaborazione di quanto scritto qualche tempo fa su Facebook dallo scrittore torinese Marco Giacosa. «I negri sono riusciti a fare quello che Cavour non è riuscito a fare», dice Pennacchi in uno dei passaggi.
Quando i neri erano i meridionali, il monologo sui «terroni» di Pennacchi, scrive il 22 Ottobre 2018 La gazzetta di Parma. Un video, social e sociale che sta spopolando sul web. E' un monologo dell’attore Andrea Pennacchi che inizia con “Ciao Terroni, come va, mi ricordo di voi…“. Pennacchi è un veneto deluso dal razzismo serpeggiante tra le popolazioni italiane recentemente immigrate al nord. Un video pubblicato sulla pagina Facebook “This is Racism”. «I negri sono riusciti a fare quello che Cavour non è riuscito a fare», dice Pennacchi in uno dei passaggi. Il testo, invece, è una rielaborazione di quanto scritto mesi fa sul web da uno scrittore torinese, Marco Giacosa, 44 anni. Pennacchi richiama più volte la figura di Salvini e della Lega che un tempo sputava sui terroni ed ora invece fa il pieno di voti anche al sud.
Quando i neri erano i meridionali: ovvero, l'ultimo è "il più terrone" di tutti. L'ipocrisia dei "razzisti terroni" raccontata con ironia in un video: il monologo di Andrea Pennacchi conquista il web. "This is racism" è diventato virale in poco tempo, condiviso anche da influencer come Selvaggia Lucarelli. L'attore si è calato nei panni di un leghista, scrive Baritoday il 22 ottobre 2018. L'ipocrisia dei "razzisti terroni" raccontata con ironia in un video: il monologo di Andrea Pennacchi conquista il web. „Il suo monologo ha fatto il giro del web, spinto anche dalle condivisioni di importanti influencer come Selvaggia Lucarelli. Al centro del video "This is racism", c'è un argomento che continua a smuovere l'opinione pubblica: il razzismo dilagante in tutta Italia, che è riuscito a unire Nord e Sud del Belpaese, come ricorda il protagonista della clip, l'attore Andrea Pennacchi, che si cala nei panni di un te. Una doccia fredda che dura quattro minuti e mezzo, in cui si mostrano tutte le ipocrisie dell'attuale dibattito sull'immigrazione, destinato proprio a chi Pennacchi saluta all'inizio del video: i terroni che ora hanno trovato un nemico comune nei migranti. "I negri sono riusciti a fare quello che Cavour non è riuscito a fare: unire gli italiani": basta una frase del video pubblicato su Youtube per far comprendere la pungente ironia del video.
Andrea Pennacchi: "I meridionali che votano Lega dovrebbero vergognarsi", scrive il 23/10/2018 su Blasting News Alisea Verdi, Esperto di Politica, Autore della news (Curata da Sergio Manzo). L'attore, partendo da un testo di Marco Giacosa, illustra il vecchio razzismo verso i meridionali e lo paragona a quello verso gli immigrati. <<Ciao terroni, come va? Mi ricordo di voi, arrivavate con il treno, con la macchina piena di valigie di cartone>>. Inizia con queste parole il monologo dell'attore Andrea Pennacchi, che ha girato un video diventato virale sul web. Il testo è stato scritto da Marco Giacosa, il filmato diretto da Francesco Imperato e poi postato sulla pagina facebbok This is racism. Il contenuto tratta del parallelismo di discriminazione tra meridionali e immigrati, sconfinando nella critica nei confronti della Lega.
"Eravate la minoranza". Andrea Pennacchi impersona probabilmente un leghista veneto. Nel monologo, ripercorre l'emigrazione di tutti quei cittadini del Sud che si sono diretti nelle regioni settentrionali in cerca di lavoro e opportunità. Uno spostamento di massa che non era stato gradito dagli abitanti del settentrione, i quali accusavano i 'terroni' di avere troppe pretese o di essere dei perditempo. <<Vi piazzavate davanti al municipio a urlare ''Vogliamo una casa'', altro che 35 euro>>, racconta il personaggio interpretato da Pennacchi. <<Parlavate sempre di diritti, ma mai di doveri. ''Ma noi venivamo a lavorare'' dicevate. Invece non era vero, venivate a non fare un cazzo. Perchè il terrone non vuole fare niente. Le rare volte che finivate in fabbrica, finito il lavoro andavate a giocare a carte. Il veneto, quando finiva la fabbrica, andava ad arare i campi. Venivate a vivere nelle case popolari e ci rompevate i coglioni. Ci menavate nei bagni delle scuole e alle sagre. Eravate la minoranza>>. Già in queste prime battute, si inizia ad intuire l'analogia con i migranti. I famosi 35 euro dell'accoglienza, il fatto di essere una categoria minoritaria, il pregiudizio che i richiedenti asilo non abbiano voglia di impegnarsi in un'occupazione o che siano violenti. In seguito, il paragone si fa sempre più forte. <<Noi eravamo a casa nostra, vi chiamavamo 'terroni' e pregavamo che il Vesuvio esplodesse. Anche al primo convegno della Lega, nel 1979, dicevano ''Viva il leone che mangia il terrone''. Ci facevate proprio schifo. Ma anche voi vi facevate schifo, altrimenti non si spiega perché provavate a parlare in dialetto, storpiandolo. E quanto c'era un reato, guardavi sul giornale ed era sempre stato un meridionale. Qui venivano solo i delinquenti, i criminali. La gente perbene non ci veniva. Il nobile palermitano e il giurista di Napoli stavano a casa loro. Qui veniva solo la feccia. E quando qualcuno provava a dire ''Eh, ma la c'è la mafia'', appunto, delinquente e codardo. Nemmeno stai a casa tua a combattere la mafia. Certo, è vero, ogni tanto ce n'era uno buono. Mia nonna diceva ''Quello là, anche se è di Napoli, è una brava persona. Uno o due potevano andare bene, come il nero che è stato eletto al Senato con la Lega, però ci facevate tanto schifo>>. A questo punto, quindi, si passa dal tema antropologico-sociale a quello politico, che segnerà anche la conclusione di tutto il video.
"Finchè non è successo il miracolo". <<Poi è successo il miracolo: quando abbiamo fatto il referendum per l'indipendenza della Padania, ancora si discuteva chi fosse terrone e chi no. E invece, sono arrivati i ne*ri. Loro sono riusciti a fare quello che Cavour non è riuscito a fare: hanno fatto gli italiani. Dopo 300 anni ci siamo scoperti tutti fratelli, per dar addosso ai neri. Ma io me lo ricordo, quanto schifo ci facevate. Si vede che non ve lo abbiamo detto bene, non siamo statti efficaci. Perché se l'aveste capito, quanto vi disprezzavamo, adesso non avreste votato Salvini. Non avreste nemmeno il coraggio di chiamarlo ministro dell'Interno. Dovreste vergognarvi. E anche noi, anche noi dovremmo farlo, per aver pensato delle cose così sporche. Contenti voi... Era solo un pensiero. Ho sentito due anziani di giù dire che i neri sono tutti spacciatori e che bisogna ammazzarli tutti. Che delusione''.
Quando i neri erano i meridionali. Il video cult supera il milione di visualizzazioni, scrive il 22/10/2018 Metronews. Il video sta volando di bacheca in bacheca, mentre scriviamo 26.744 volte, e il giudizio è unanime: capolavoro. L’idea, partita dalla pagina Facebook This is Racism è molto semplice, un’inquadratura larga su una villetta davanti alla quale c’è un uomo in piedi che parla. L’accento è marcatamente veneto, il messaggio è dichiaratamente rivolto agli abitanti del Sud dell’Italia, attacca infatti con un inequivocabile “Ciao Terroni”. Il testo altro non è che un ragionamento piuttosto elementare basato su due concetti semplici. Il primo è la memoria, “mi ricordo di voi” dice l’uomo davanti alla sua villetta, illuminato dalla luce grigia tipica della Padania, “quando venivate con le valigie di cartone, dicevate di voler lavorare ma non era vero” o di quando i professori nelle scuole insegnavano che “il leone mangia il terrone. E noi tutti ridevamo”; di quando anche ai giornali piaceva evidenziare tutti i reati commessi dai famigerati terroni, infatti l’uomo ricorda che “…era sempre stato un Di Giangi, un Russo, un Esposito. E mia nonna che leggeva il giornale diceva sempre “Vedi? È gente meridionale!”. “Ci facevate tanto schifo” continua il protagonista del video, “finché non è successo il miracolo”, e qui si apre il discorso sul secondo semplice concetto che il video vuole comunicare: quanto impara la società dalla propria storia? Si perché il miracolo di cui sopra altro non è che l’arrivo “dei negri”. “I negri sono riusciti a fare quello che Cavour non è riuscito a fare: han fatto gli italiani”. Un ragionamento, semplice, ripetiamo, elementare, ma che porta, forse anche tramite la suggestione creata dal bravissimo attore Andrea Pennacchi, diretto magistralmente da Francesco Imperato su un testo di Marco Giacosa, a chiederci se è davvero questo quello che siamo diventati, se davvero è stato l’odio a metterci tutti sotto lo stesso tetto. “Dopo 300 anni ci siamo scoperti tutti fratelli dandogliele al negro” continua l’uomo, “ma io mi ricordo quanto schifo ci facevate e si vede che non ve l’abbiamo detto bene, perché se aveste capito quanto vi disprezzavamo adesso non avreste votato Salvini. Terroni, ma che cazzo di problemi avete? Dovreste vergognarvi”. Un monito politico, un messaggio non originalissimo, già espresso più e più volte, ma mai in maniera così efficace e diretta. Il video, per chi desiderasse trovarlo, si intitola “Quando i neri erano i meridionali: ovvero, l'ultimo è "il più terrone" di tutti”, è stato postato venerdì e al momento supera il milione di visualizzazioni.
Andrea Pennacchi fa il boom di click col corto su «quando i neri erano i meridionali». E' il personaggio del momento, Andrea Pennacchi. Forse suo malgrado, ma è su tutti i media nazionali. Il tema è il razzismo, argomento al quale l'attore è molto sensibile, scrive Ivan Grozny Compasso il 22 ottobre 2018 su Padova oggi. E' il personaggio del momento, Andrea Pennacchi. Forse suo malgrado, ma è su tutti i media nazionali. Il tema è il razzismo, argomento al quale l'attore è molto sensibile. Un monologo di pochi minuti è diventato virale in poche ore: «I negri sono riusciti a fare quello che Cavour non è riuscito a fare: unire gli italiani». E' sicuramente il pezzo più forte dell'intero video, che prende in giro i meridionali che votano Lega. Ma si fa prima a guardarlo che a raccontarlo. Così lo contattiamo, per sapere l'effetto che fa essere al centro di tanta attenzione.
Pennacchi. Sii sincero, davvero non pensavi che sarebbe successo tutto questo casino?
«Ho pensato che avrebbe generato qualche dibattito, era ora di parlare di certe cose. Non pensavo certo che avrebbe scatenato uno tsunami».
Di chi è stata l'idea?
“Francesco Imperato è un regista che è nato in provincia di Padova, lui è di Piove di Sacco, ma lavora a Milano. Ha aperto questa pagina su Fb che si chiama “This is racism” e mi hanno proposto il testo. Il monologo è una prova d’attore, ci tengo che sia chiaro. Il testo infatti lo ha scritto Marco Giacosa. Girato settimana scorsa, in poco tempo. Un piano sequenza, senza interruzione tra un pezzo e l’altro».
A sud. Sei su tutti i media nazionali.
«Sai, mi ha colpito essere condiviso da figure come Selvaggia Lucarelli, che consapevolmente oppure no è quella che ha dato la vera spinta iniziale a far sì che questa cosa diventasse virale. Mai avrei pensato che sarebbe successo questo e che sarei finito sulle grandi testate».
E quali sono state le reazioni? Avrai sbirciato i commenti, sui social sta girando alla grande il video.
«I leghisti a dire il vero non lo so come l’hanno presa. Ovvio che è tutto esagerato e grottesco, ma non dice cose false, intendiamoci».
E a sud? Quali sono i commenti più comuni?
«Moltissimi meridionali si sono offesi da quello che viene detto dal video e offendono il personaggio come fosse vero, questo rimane sempre un aspetto molto divertente. Invece alcuni ragazzi pugliesi che fanno gli attori hanno postato il video rivendicandone i contenuti».
Serio ma anche no. Comunque non è mica facile distinguere quando sei serio e quando no, Pennacchi. Forse anche qualche lettore di Padova Oggi avrà pensato fosse davvero di fronte a un esperto di eliminazione di cimici che stanno invadendo il Veneto, quando ti abbiamo interrogato sul tema.
«Lo so che mi stai prendendo in giro, cosa credi?».
E’ sempre divertente parlare con Pennacchi, fondamentale distinguere quando gioca e quando no.
«Momenti rari - ride l’attore - certo anche l’invasione delle cimici è un argomento da non prendere sottogamba».
Razzismo. Ricerchiamo quindi di portarlo all’ordine, impresa non facilissima ma che riesce.
«E’ logico che sono preoccupato quando si parla di razzismo, essendo figlio di un sopravvissuto da un campo di lavoro e di sterminio. Mio padre, che infatti mi ha avuto tardi, è stato detenuto in Austria a Ebensee, che era un distaccamento di Buchenwald. In quanto partigiano gli era toccata quella sorte. E lui è stato pure fortunato che ne è uscito vivo».
Tirarsela. Non è che adesso te la tiri e poi snobbi Padova Oggi, vero?
«Attenti eh, mi sono preparato sulle cimici, mi posso preparare su tutto!».
Finisce così, la chiacchierata, con una risata. In fondo è solo un attore che racconta il suo tempo. Solo che gli viene da ridere.
Chi c'è dietro il video virale dei "terroni" che votano Salvini. Francesco Imperato di This is Racism ci ha spiegato come è nato il video "Quando i neri erano i meridionali" e cosa pensa di chi non l'ha capito, scrive Leonardo Bianchi il 22 ottobre 2018 su Vice. In vaste sacche del Nord Italia l’odio contro il “terrone” è stata una norma sociale accettata a lungo, e che sopravvive ancora adesso in varie forme. Si va dalle più gravi, tipo gli annunci “non si affitta a meridionali,” fino a quelle apparentemente più innocue—come l’uso spensierato dell’epiteto che ne fanno persone tendenzialmente non razziste. Per decenni, si sa, il partito che più ha cavalcato e aizzato questo sentimento è la Lega Nord. Le dichiarazioni dei suoi esponenti maggiori sono talmente tante che non si riescono nemmeno a contare, così come i manifesti sul “complotto terrone” o quelli che invitavano i meridionali a tornarsene “a casa loro.” Tuttavia, negli ultimi anni, è successo l’incredibile: al Sud un numero non irrilevante di persone sembra essere diventato leghista. La Lega di Matteo Salvini, infatti, si sta radicando sempre di più sia in termini elettorali che operativi. Sia chiaro, non è più lo stesso partito di Bossi: siamo di fronte a una forza politica pienamente nazionalista, che ha trasferito lo stigma dell’esclusione su altri gruppi sociali. Ma se non si ignora completamente la storia recente, non si può fare a meno di rimanere di sasso di fronte a questo capovolgimento storico. Ed è proprio su questo cortocircuito che si basa un video che sta girando moltissimo su Facebook in questi giorni, arrivando al milione di visualizzazioni e oltre 20mila condivisioni. La clip consiste in un monologo di quattro minuti recitato dall’attore Andrea Pennacchi, che per l’occasione interpreta l’idealtipo del leghista di provincia—un padroncino gretto dotato di accento insopportabile, villetta in campagna, trattorino e razzismo viscerale. Il bersaglio principale sono appunto i “terroni,” descritti come delinquenti, nullafacenti e tutto il resto del campionario che conosciamo fin troppo bene. “Ci facevate tanto schifo,” dice Pennacchi, “finché non è successo il miracolo: sono arrivati i negri. […] E dopo 300 anni ci siamo scoperti tutti fratelli dando addosso al negro.” Verso la fine il protagonista ricorda ancora una volta “quanto schifo ci facevate” e si rammarica del fatto che forse “non ve l’abbiamo detto bene.” Perché, e qui si entra nel vivo dell’attualità politica, “se l’aveste capito quanto vi disprezzavamo adesso non avreste votato Salvini. Terroni, ma che cazzo di problemi avete? Dovreste vergognarvi.” Il video è stato pubblicato sulla pagina “This is racism,” aperta la settimana scorsa, e fa parte di un progetto più ampio di fiction sul razzismo “dal basso” — cioè delle persone comuni. Il regista è il 35enne Francesco Imperato, nato e cresciuto in Veneto da genitori di origini meridionali, con cui ho scambiato qualche parola al telefono. L’idea — mi spiega — è venuta quando ad agosto si è imbattuto in un testo dello scrittore e giornalista torinese Marco Giacosa, e ha subito pensato di adattarlo. I riferimenti territoriali dello scritto originario erano sul Piemonte, mentre Imperato ha deciso di spostarlo in provincia di Padova. Lo scopo principale era quello di “fare un lavoro molto personale, che in qualche modo rispecchiasse la mia storia. Essendo cresciuto in quelle campagne, a pochi chilometri dalla villetta che si vede del video, mi sembra che la figura del leghista veneto fosse molto forte e non banale. Nel senso che è una figura molto contrastante, che solitamente si è sporcata le mani per arrivare dov’è.” Pur non aspettandosi minimamente un simile riscontro, secondo Imperato una delle chiavi della viralità del video sta proprio nella costruzione del testo di Giacosa, che mette di fronte a un protagonista negativo “che ascolti perché ti dà fastidio—il modo in cui parla, e quello che dice—e però alla fine esprime un concetto su cui sei d’accordo. E questa cosa ti fa girare ancora di più le balle.” A livello più generale, poi, il tema è indubbiamente caldo e “chiunque si sente coinvolto in un discorso del genere.” Basta vedere la mole di commenti sotto al video, tra cui diversi che prendono sul serio il monologo. Credono, cioè, che sia vero. Quando gli chiedo il suo pensiero in merito, il regista mi risponde che gli fa “molto piacere, perché volevo che in qualche modo succedesse questa cosa” per stimolare ulteriormente il dibattito. Tornando a uno degli argomenti centrale del video—cioè la trasformazione leghista di una parte insospettabile dell’elettorato—Imperato si dice personalmente “scioccato, ma non tanto da quelli che stanno al Nord; soprattutto da quelli che stanno al Sud.” Questo choc, continua, risale alla sua adolescenza. “D’estate andavo sempre in un paese in Puglia, e ricordo che a un’elezione il tre percento della popolazione aveva votato Lega,” racconta. “Per me non era concepibile. L’unica spiegazione che sono riuscito a darmi ha a che fare con una forma ‘ciclica’ di razzismo.” Il protagonista della clip incarna infatti uno stereotipo del passato, perché la questione è effettivamente cambiata. “In Veneto, e non solo, finché c’erano solo i meridionali il problema erano loro; poi sono arrivati gli albanesi negli anni Novanta, e infine i migranti africani,” afferma Imperato. L’odio, insomma, si è sistematicamente concentrato sull’ultimo arrivato. Tutto ciò, conclude il regista, non riguarda più solo il leghista tipo, che sotto sotto disprezza ancora i “terroni,” ma ormai ha “qualcosa di più importante da combattere”; riguarda ormai molte altre persone in tutta Italia. Tra cui, evidentemente, i vecchi nemici di un tempo.
CIAO TERRONI, VI RICORDATE QUANDO AL NORD NON SI AFFITTAVA AI MERIDIONALI? Pubblicato il 02/08/2018 da Marco Giacosa su Alga News.
Ciao terroni, come va? Mi ricordo di voi, eravate quelli che arrivavano con il treno e la valigia di cartone, scendevate a Torino o a Asti e vi piazzavate davanti al municipio: «Vogliamo una casa». Eh, bravi. La fate facile. Altro che 35 euro al giorno. Parlavate di «diritti», ma i doveri? «Ma noi venivamo a lavorare». Cazzate.
Non avevate voglia di far niente. Il terrone, piccolo, scuro e con i baffetti, non aveva voglia di fare un cazzo. Se proprio entrava in fabbrica, nel tempo libero andava al bar a giocare a carte. Il piemontese, nel tempo libero dalla fabbrica, andava nei campi, nelle vigne: il terrone niente.
D’altronde, si sa, ad Alba, negli anni in cui ero ragazzino, i primi ’80, si sapeva che Ferrero e Miroglio, le due aziende più grandi, erano state costrette ad assumere meridionali, controvoglia, perché i piemontesi erano finiti.
Stavate in via Maestra, a gruppetti, a fare non si sa cosa, noi dovevamo abbassare lo sguardo perché altrimenti arrivava il «Che cazzo hai da guardare?» ed erano botte. Vi chiamavate Di Gangi, Cotilli, Esposito, Caruso, Rizzo, Di Gianbartolomei, Romeo. Venivate dalle popolari, picchiavate, sia nei cessi delle medie che alle feste di paese.
Noi, se dovevamo insultare qualcuno, lo chiamavamo «tarrone». Nemmeno terrone, ma con la a, perché in piemontese si dice «tarùn». Gazzetta d’Alba nel 1963 titolava «Voteranno anche 200 meridionali», alle politiche imminenti, questi oggetti sconosciuti, questi esseri che chi lo sa cosa vogliono, e chissà che cosa votano.
In ogni compagnia c’era il terrone buono, ognuno di noi aveva uno zio acquisito (si specificava: «Acquisito, eh!»), venuto su perché militare, o una zia acquisita perché lo zio di sangue era avanti con gli anni e prendeva moglie giù, per non rimanere zitello. Quelle volte era un disastro.
«Ma chiel lì a l’è ‘n napuli», quello lì è meridionale, si specificava con stupore, quando si aveva notizia di qualcuno che s’era innamorato e sposava un terrone.
«Ma noi vogliamo bene a tutti», se proprio si voleva giustificare il nipote, o il figlio, se proprio si era di buon cuore, si diceva, senza rendersi conto di quanto in realtà vi disprezzavamo: perché, di grazia, si deve puntualizzare di «voler bene a tutti», che cos’hanno di male quelli nati a Trani o a Potenza, per il solo fatto di essere nati a Trani o a Potenza?
Spacciavate. Sì, terroni, spacciavate. Si leggeva la cronaca e se c’era un reato era sicuro che il colpevole si chiamava Di Gangi, Caruso, Rizzo, Di Gianbartolomei, Pasquale o Rocco o Salvatore di nome.
«Eh, son tutti di loro», commentavamo.
Perché quelli buoni, dicevamo, non venivano su. Su, al nord, veniva la feccia. Il palermitano gran nobile, o il napoletano gran giurista, quelli mica venivano, quelli rimanevano giù. Mica scemi. Qui venivano i delinquenti.
Qualcuno, timido, provava a dire: «Eh, ma laggiù c’è la mafia», e tutti gli altri ribattevano: «Appunto. Invece di stare laggiù a combattere la mafia, preferiscono venire qui a non fare un cazzo».
Oppure a fare quei lavori che noi schifavamo: i secondini, i carabinieri, l’impiegato pubblico, il bibliotecario, quelli non sono lavori, sono remunerazioni in cambio di qualche ora passata in qualche posto. Lavorare è un’altra cosa: è nel privato che si lavora, nel pubblico non si fa un cazzo, e noi del nord andavamo nel privato, mica nel pubblico.
«Non si affitta a meridionali» perché voi terroni dicevate di essere in due e poi eravate in sette, c’erano Ciro, Salvatore, Cosimo, Calogero, Mimì, Totò e insomma affittavi a uno e ne trovavi dieci.
Ognuno di noi aveva il terrone buono, dicevo, l’amico – proprio come il ne*ro eletto in Senato per la Lega, o l’altro buono che la comunità del mantovano ha deciso di adottare: quello è terrone ma è mio amico. Le nostre nonne dicevano: «È della Bassa, MA è una brava persona».
Insomma ci facevate schifo, come gruppo, di tanto in tanto qualcuno di voi, come quando addomestichi un animale, ci era magari simpatico. Oh, mica è passato troppo tempo. Vent’anni fa ci furono i gazebo per l’indipendenza della macro-regione del Nord, si dibatteva se un marchigiano era un terrone e andava fatto affondare nei debiti della sanità, o salvato nella gloriosa Padania. Un laziale, mi dispiace amici laziali che ce l’avete con i napoletani e li chiamate terroni, era un terrone.
Vi schifavamo. Poi è cambiato qualcosa: sono arrivati i negri, e allora abbiamo trovato qualcosa da schifare ancora di più. Ci pensavo stasera, terroni: i negri sono riusciti là dove non è riuscito Cavour: a fare gli italiani. Insomma, fatta l’Italia – diceva Massimo d’Azeglio – rimaneva da fare gli italiani. Eccoli, eccoci: ci siamo scoperti fratelli così, dandogli al negro. Però io sono del nord, e mi ricordo, terroni, che ci facevate proprio schifo. Forse non ve l’abbiamo detto abbastanza, non siamo stati efficaci, perché aveste saputo con quanto disprezzo siete stati nostro malgrado accolti, forse oggi non votereste Salvini, avreste timore soltanto a nominarlo, il ministro dell’Interno. Invece mi pare che lo votiate senza problemi.
Secondo me, terroni, dovreste vergognarvi a votare Salvini. Almeno quanto noi del nord, certo, dovremmo vergognarci anche soltanto per averle pensate, certe cose. Quelli sono conti nostri che continuiamo a fare, o almeno: che qualcuno nel privato fa. Ma voi, terroni, Salvini proprio no. Comunque, contenti voi. È un pensiero così, ascoltando in metro un uomo dal forte accento del Sud dire che tutti i negri spacciano, che dovrebbero essere ammazzati. Buona serata, napuli.
RAZZISTA (D)A CHI?
«Italia razzista con i migranti», e l’Onu manda gli “ispettori”. L’annuncio da Ginevra dell’Alto Commissario per i diritti umani Michelle Bachelet, scrive Alessandro Fioroni il 10 Settembre 2018 su "Il Dubbio". «Abbiamo intenzione di inviare personale in Italia per valutare il riferito forte incremento di atti di violenza e di razzismo contro migranti, persone di discendenza africana e Rom». Anche l’Onu interviene sulla situazione italiana e lo fa con i massimi vertici, da Ginevra Michelle Bachelet, neo Alto commissario Onu per i diritti umani, aprendo i lavori del Consiglio Onu per i diritti umani ha annunciato che una squadra sarà inviata, per motivi analoghi, anche in Austria. «Il Governo italiano – ha continuato Bachelet – ha negato l’ingresso di navi di soccorso delle Ong. Questo tipo di atteggiamento politico e di altri sviluppi recenti hanno conseguenze devastanti per molte persone già vulnerabili. Anche se il numero dei migranti che attraversano il Mediterraneo è diminuito, il tasso di mortalità per coloro che compiono la traversata è risultato nei primi sei mesi dell’anno ancora più elevato rispetto al passato». Un’ affermazione che contrasta con le politiche del ministro dell’Interno Matteo Salvini il quale continua ad agitare lo spettro dell’invasione ma che pare costretto a fare marcia indietro sulle espulsioni di massa. «Per ora l’unico accordo che funziona è quello con la Tunisia. Ne rimpatriamo 80 a settimana ma anche se ne espelliamo 100 ci metteremo 80 anni». Il ministro scopre così quello che era noto a tutti, i rimpatri così come concepiti non sono assolutamente fattibili, almeno nei termini annunciati in campagna elettorale. «Andrò in Tunisia entro settembre –ha continuato Salvini - da lì ne sono arrivati più di 4mila e non c’è guerra, carestia, peste e non si capisce perchè». L’ammissione esplicita, quasi una confessione, è andata in onda durante un’intervista ieri a Radio Rtl 102.5. Il ministro continua a chiedersi retoricamente perché continuino ad arrivare persone, una costatazione che fa a pugni con il fatto che dopo quattro mesi di governo il Viminale non è riuscito ancora a stabilire accordi nuovi con i paesi di provenienza degli immigrati. Rimangono in piedi i quattro con Tunisia, Nigeria, Egitto e Marocco, lascito del precedente governo che certo non potranno mai far raggiungere la cifra dei 500mila rimpatri sbandierati a più riprese. Manca poi qualsiasi intesa con paesi come Senegal, Gambia e Costa d’Avorio che, nel periodo più intenso della crisi migratoria nel 2016, hanno costituito il 20% degli arrivi secondo i dati Onu. Intanto la situazione è cambiata, le politiche anti immigrazione sia del predecessore di Salvini, Marco Minniti, e la chiusura alle ong hanno drasticamente ridotto gli sbarchi dell’80%, spostando le rotte migratorie nel mediterraneo verso la Spagna. Ma il contesto potrebbe nuovamente capovolgersi a causa della crisi libica dove è deflagrata completamente la guerra civile. Mostrano la corda gli annunci di questa estate riguardo i rinnovati impegni con il governo libico di Serraji, il regalo delle 12 motovedette e l’addestramento della Guardia costiera libica. Anche perché, come già si sapeva, quest’ultima è divisa nella sua appartenenza proprio alle milizie che ora si combattono. E’ di queste ore la denuncia dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) sulla gravissima condizione che vivono i migranti intrappolati in Libia in mezzo ai combattimenti che stanno sconvolgendo Tripoli nonostante la tregua raggiunta la scorsa settimana. L’Unhcr parla di «atrocità indicibili commesse contro i rifugiati e i richiedenti asilo nelle strade di Tripoli, tra cui stupri, rapimenti e torture». Molte persone detenute nei centri per migranti di Tripoli sono fuggiti per paura di essere colpiti dalle pioggie di razzi sparati da un fronte all’altro, in questa maniera però cadono spesso in mano alle bande incontrollate (milizie o gruppi di criminali fuggiti dalle prigioni) che li catturano per poi estorcere ancora denaro. Per questo l’Onu chiede che sia messa a regime la struttura di raccolta e partenza a Tripoli, che fungerà da piattaforma per raggiungere la sicurezza in paesi terzi e che sarà gestita dal Ministero degli interni libico e dall’Agenzia Onu. La struttura ha la capacità di ospitare 1.000 rifugiati vulnerabili e richiedenti asilo ed è pronta per l’uso.
L'Onu ci manda gli ispettori per difendere migranti e rom. L'Alto commissario per i diritti umani annuncia: "In Italia razzismo e violenza, invieremo personale". E poi critica la chiusura dei porti alle Ong, scrive Nico Di Giuseppe, Lunedì 10/09/2018, su "Il Giornale". Ci mancava la reprimenda dell'Onu. Sul tema delle politiche migratorie che ogni stato mette in pratica, adesso scende in campo anche il nuovo Alto commissario Onu per i diritti umani Michelle Bachelet. Ma non solo su quello. Perché l'annuncio fatto oggi dall'ex presidente cileno nel suo primo discorso al Consiglio di Ginevra ha il sapore di un'azione moralizzatrice, se non di una vera e propria "invasione". "Abbiamo intenzione di inviare personale in Italia per valutare il riferito forte incremento di atti di violenza e di razzismo contro migranti, persone di discendenza africana e rom", ha dichiarato Bachelet. Stesso discorso varrà anche per l'Austria. "Il governo italiano ha negato l'ingresso di navi di soccorso delle Ong. Questo tipo di atteggiamento politico e di altri sviluppi recenti hanno conseguenze devastanti per molte persone già vulnerabili. Anche se il numero dei migranti che attraversano il Mediterraneo è diminuito, il tasso di mortalità per coloro che compiono la traversata è risultato nei primi sei mesi dell'anno ancora più elevato rispetto al passato", ha precisato l'Alto commissario. E ancora, secondo Bachelet, gli sforzi dei governi per respingere gli stranieri non risolvono la crisi migratoria e causano solo nuove ostilità. "È nell'interesse di ogni stato adottare politiche migratorie radicate nella realtà, non in preda al panico", ha detto l'ex presidente cileno criticando l'erezione dei muri di confine, la separazione delle famiglie di immigrati e l'incitamento dell'odio contro i migranti. "Queste politiche non offrono soluzioni a lungo termine a nessuno, solo più ostilità, miseria, sofferenza e caos", ha affermato. Nelle osservazioni di oggi, l'Alto commissario non ha citato esempi concreti, ma una versione più lunga del suo discorso presentata al Consiglio ha fatto riferimento a paesi tra cui Stati Uniti, Ungheria e Italia. All'inizio di settembre, Bachelet ha ottenuto la carica succedendo al diplomatico giordano delle Nazioni Unite Zeid Ràad Al Hussein, noto per il suo approccio altamente conflittuale nei confronti di alcuni di questi paesi. Oggi Bachelet ha invece optato per un tono meno combattivo, sottolineando al Consiglio per i diritti umani che avrebbe combattuto per i diritti umani mantenendo però la disponibilità ad ascoltare i governi. "I paesi dovrebbero vedere i diritti umani come uno strumento per lo sviluppo economico e contro l'estremismo violento. È costruendo l'accesso a tutti i diritti umani che la società diventa più forte e più capace di resistere a choc imprevedibili". Intanto il ministro dell'Interno italiano, Matteo Salvini, respinge le accuse dell'Alto commissario al mittente: "L’Italia negli ultimi anni ha accolto 700mila immigrati, molti dei quali clandestini, e non ha mai ricevuto collaborazione dagli altri paesi europei. Quindi non accettiamo lezioni da nessuno, tantomeno dall’Onu che si conferma prevenuta, inutilmente costosa e disinformata: le forze dell’ordine smentiscono ci sia un allarme razzismo. Prima di fare verifiche sull’Italia, l’Onu indaghi sui propri stati membri che ignorano diritti elementari come la libertà e la parità tra uomo e donna".
Migranti, Salvini sfida l'Onu: "Taglieremo i finanziamenti". Onu vuole inviare ispettori per valutare gli "episodi di razzismo" in Italia. Il ministro: "No lezioni da organismo con sprechi, mangerie e ruberie", scrive Claudio Cartaldo, Lunedì 10/09/2018, su "Il Giornale". Lo scontro tra l’Onu e Matteo Salvini potrebbe essere solo all’inizio. E così il leader della Lega potrebbe seguire Trump sulla strada dei tagli ai contributi alle Nazioni Unite, organismo che per il ministro non ha diritto di “venire a dare lezioni agli italiani”. Oggi nell’eterna bagarre sui migranti è scesa in campo l’Alto commissario Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet. E lo ha fatto con decisione per quella che il governo italiano già considera una invasione di campo. “Abbiamo intenzione di inviare personale in Italia per valutare il riferito forte incremento di atti di violenza e di razzismo contro migranti, persone di discendenza africana e rom", ha detto l’ex presidente cileno nel suo primo discorso al Consiglio di Ginevra. Ed immediata è scattata la reazione del ministro dell’Interno. "Se uno ignora, fa migliore figura a stare zitto – ha detto Salvini ai cronisti - Non c'è nessun allarme razzismo o persecuzione in Italia". A dirlo non è solo l’inquilino del Viminale, ma i freddi dati: "I numeri - ha spiegato il ministro - smentiscono tutto questo, per fortuna”. Già, perché i reati in Italia sono in riduzione, sia quelli contro gli italiani che quelli contro i migranti. E quando alcuni mesi fa tutti parlarono di allarme razzismo o fascismo poi le indagini delle autorità smentirono buona parte degli allarmismi. A partire dal lancio delle uova contro l’atleta di colore. Salvini dunque non intende accettare “lezioni” da nessuno perché l’Italia “ha accolto 700mila immigrati, molti dei quali clandestini, e non ha mai ricevuto collaborazione dagli altri paesi europei”. E reprimende non ne accetta neppure dall’Onu, una "organizzazione che costa miliardi di euro, a cui l'Italia dà più di 100 milioni all'anno di contributi”. Lo scontro, per ora solo verbale, potrebbe evolvere in qualcos’altro. E così come dopo il caso Diciotti il governo si disse pronto a tagliare i contributi all’Ue o a non approvare il bilancio comunitario, così ora Salvini propone di riconsiderare i versamenti al conto delle Nazioni Unite. “Ragioneremo con gli alleati sull'utilità di continuare a dare questi 100 milioni per finanziare sprechi, mangerie, ruberie per un organismo che vorrebbe venire a dare lezioni agli italiani – ha detto il ministro - Poi ha Paesi che praticano torture e pena di morte. Invece di mandare gli ispettori dell'Onu in Italia, avrei mezzo mondo in cui mandarli. L'emergenza razzismo vadano a cercarla altrove e non in Italia". L’idea peraltro arriva da lontano. Nel 2015, in una intervista contenuta nel libro Il Metodo Salvini, a Domenico Ferrara e Francesco Maria Del Vigo il leghista disse: "Invece di spenderli qua, i soldi, li spendi là, mettendo alle spalle questi organismi inutili come l’Onu, che non capisco a cosa serva; io toglierei anche la sottoscrizione dell’Italia a questi organismi internazionali, l’Onu è l’ente inutile per eccellenza, costa 16 miliardi, non so quale sia la quota dell’Italia, ma io inizierei a smettere di pagarla".
Tutte le ombre sulla Bachelet. Paladina Onu dei diritti umani. Tutte le ombre sulla Bachelet, la paladina Onu dei diritti umani che vuole mandare gli ispettori in Italia a controllare, scrive Domenico Ferrara, Martedì 11/09/2018, su "Il Giornale". Fa un po' storcere il naso che a lanciare l'«invasione moralizzatrice» in Italia a difesa di migranti e rom sia una che è stata più volte criticata proprio sul campo del rispetto dei diritti umani e delle minoranze. Sul curriculum dell'Alto commissario Onu Michelle Bachelet pesa, infatti, un comportamento molto ambiguo, soprattutto se si guarda al rapporto con Cuba, Nicaragua e Venezuela. A mettere in fila le anomalie, chiamiamole così, dell'ex presidente del Cile ci ha pensato l'Ong Un Watch, che ha il compito di monitorare quello che accade all'interno del Palazzo di Vetro e che ha espresso numerosi dubbi sulla poca trasparenza e sulla velocità che hanno accompagnato l'elezione della Bachelet. Qualche esempio? Durante la visita a Cuba, all'inizio del 2018, la Bachelet è stata fortemente criticata dai membri del suo stesso partito e dagli attivisti per i diritti umani per aver incontrato il generale Raúl Castro snobbando i membri dell'opposizione pacifica di Cuba. Non solo. Alla richiesta della leader dell'opposizione, Rosa María Payá, di incontrare i dissidenti per i diritti umani la Bachelet ha risposto picche, anzi, non ha proprio risposto. Anche la blogger cubana Yoani Sanchez ha puntato il dito contro di lei imputandole una «vicinanza all'Avana segnata da una nostalgia ideologica che offusca la sua visione e la sua capacità di riconoscere la mancanza di diritti che segnano la vita dei cubani» e aggiungendo che «dalla sua bocca non c'è mai stata alcuna condanna della repressione politica condotta sistematicamente da Raúl Castro, anche quando le vittime sono donne». Accuse durissime per una che adesso ha assunto il pesante ruolo di difensore dei deboli. Quando morì Fidel Castro ricorda ancora Un Watch - la Bachelet lo definì «un leader per la dignità e la giustizia sociale a Cuba e in America Latina». Lodi espresse anche per Chavez per «il suo più profondo amore per il suo popolo e le sfide della nostra regione per sradicare la povertà e generare una vita migliore per tutti». E ancora, nel rapporto dell'Ong, viene citato poi il rifiuto di condannare il regime di Maduro insistendo invece «sul fatto che il problema del Venezuela sia la mancanza di dialogo, suggerendo che esiste una sorta di responsabilità condivisa». C'è infine il silenzio assordante sulle uccisioni di centinaia di manifestanti da parte del regime di Ortega in Nicaragua. Su come l'Italia invece tratterebbe migranti e rom, la «nuova Boldrini» invece forse straparla.
I comunisti, la morale e la prostituzione minorile, scrive Guido Prussia il 19 luglio 2014 su Il Giornale. I comunisti, la morale e la prostituzione minorile. Tutto si può riassumere in un episodio della mia vita. Aereo che va verso Cuba, all’interno una massa di sinistroidi arrapati per l’avvicinarsi dell’arrivo nell’isola dove il sogno comunista si è fatto realtà. Mi domando: Ma come sarà’ questo sogno comunista che si è fatto reale? La risposta arriva il giorno dopo sulla spiaggia. Gli stessi sinistroidi arrapati che erano con me sull’aereo avevano finalmente una faccia meno arrapata e più soddisfatta. Ed era vero, il sogno comunista diventato realtà aveva permesso a questi militanti di poter finalmente scopare delle meravigliose ragazzine cubane in cambio di pochi dollari. Fu una rivelazione. Non è vero che il comunismo non è servito a nulla. Milioni di uomini vivono ancora oggi, non nella nostalgia dei discorsi di Berlinguer, ma nella nostalgia dell’impero Comunista che anziché moltiplicare pane e pesci (miracolo troppo populista) ha trasformato milioni di calze di nylon in milioni di trombate.
"Fieri di essere radical chic": contro il razzismo, un italiano inventa le magliette per "buonisti". C'è quella con falce e martello o quella con scritto "zekka comunista". L'ideatore: "Mi hanno anche minacciato. Ma c'è bisogno di un simbolo per identificarci, per capire che non siamo soli a contrastare l'odio". In meno di un mese boom di richieste, scrive Valentina Ruggiu il 3 agosto 2018 su "La Repubblica". È l'insulto del momento. Basta una parola buona sui migranti o contro gli 'anti-casta' e te lo trovi affibbiato: radical chic. Ora per chi è 'buonista' e ne va fiero, c'è una linea di magliette dedicata creata da un italiano emigrato in Germania. Il nome, nemmeno a dirlo, è Radical Chic e l'obiettivo dichiarato è riunire tutti "comunisti con il rolex" d'Italia per aiutarli a contrastare odio, razzismo e intolleranza. Per chi pensasse che non è altro che una scusa per guadagnarci sopra: la risposta è no. Tutti gli introiti vanno in beneficenza.
L'ORIGINE DELL'IDEA. L'idea, provocatoria e geniale allo stesso tempo, è di Umberto Mastropietro: un abruzzese di Civitella Roveto arrivato nel 1990 a Potsdam, dove da 20 anni lavora come amministratore delegato per una società di software. Lo spunto è partito dai social network. "Anche se vivo fuori da anni - spiega Mastropietro a Repubblica - mi tengo aggiornato sulla politica e le vicende del mio paese. In pochi mesi ho visto la bacheca Facebook riempirsi di commenti razzisti, intolleranti, e la cosa mi ha disgustato". "Ciò che mi ha sconvolto di più è stata l'incomunicabilità: quando vedevo un post intollerante e cercavo di spiegare che gli italiani per primi sono stati un popolo di migranti, vittime di razzismo e xenofobia, ho sempre ricevuto risposte sconnesse, senza contenuto. Il dialogo è impossibile perché ti liquidano con un insulto". "Ti chiamano radical chic, buonista, zecca comunista - continua l'ideatore -. Una volta mi hanno detto: vivi in Germania, guadagni un sacco di soldi, ti piace fare il radical chic mentre noi siamo costretti a stare in Italia con i negri. Non sanno che ho iniziato come operaio e ho imparato a programmare dalla sera, da solo".
DAL GIOCO AL BOOM. Dopo questi episodi, il giovane Ad e un suo amico decidono di stamparsi - per gioco - una maglia con scritto "radical chic". Da quel momento inizia l'ascesa: i loro amici le vedono e le vogliono, in poco tempo il giro delle richieste si allarga e il 14 luglio Mastropietro decide di fondare il marchio. In meno di un mese le magliette vendute raggiungono quota 600. È boom di richieste, con centinaia di migliaia di visualizzazione sul sito internet. A lavorarci sono 20 volontari, ognuno dei quali mette al servizio della causa la propria professionalità.
NESSUN RICAVO. Da veri buonisti dietro la vendita però non c'è alcun guadagno. "Su ogni articolo venduto la ditta che le stampa si tiene l'80% del ricavato (per le spese di intermediazione, produzione e distribuzione della maglia ndr), e cede all’ideatore il restante 20 - spiega Mastropietro -. Quei soldi io li dono direttamente a Emergency, perché il mio obiettivo è far indossare le maglie, non fare profitto". Non a caso ogni attività del marchio è rendicontata e messa a disposizione di tutti sulla pagina Facebook. Su 12mila euro di articoli venduti, 3mila sono quelli che Umberto ha già destinato all'associazione.
IL VERO OBIETTIVO. Lo scopo rincorso con Radical chic è quello di creare un marchio identitario. "Provo a mettermi contro la violenza verbale, stampando delle magliette. Credo che la demagogia, il populismo, questa forma di comunicazione aggressiva che oggi vediamo sui social e nella politica non sia utile a nessuno. Voglio dar coraggio a quei pochi che ancora difendono i valori su cui è stata fondata la Repubblica, perché ora quasi ci si vergogna a dichiararsi antifascisti". "Secondo me, invece, gli italiani che non vogliono avere nulla a che fare con il fascismo, con il razzismo, sono la maggioranza. Se indossiamo una maglietta ci riconosciamo. Uniti ci sentiamo più forti". Per la sua idea Umberto è stato anche minacciato e insultato. "Mi hanno detto che merito che i rom mi rubino in casa o violentino mia moglie, che se mi incontrano per strada mi ammazzano di botte". Ma lui legge e va avanti per la sua strada.
Facebook e la lezione di Umberto Eco sui quattro imbecilli, scrive ticinonotizie.it il 26 agosto 2018. “I social media? danno diritto di parola a legioni di imbecilli”, parola di Umberto Eco. Era questa l’opinione del noto studioso mancato agli inizi del 2016. Partiamo da qui per tornare, ancora purtroppo, sulla vicenda di cronaca del povero Souleman mancato l’altro giorno nella sua stanza, presso l’ex Casa Vincenziana di via Casati a Magenta. Per noi e in primis per il nostro capocronista Graziano Masperi, era una ‘semplice’ ancorché tragica, notizia di cronaca da dare. Per due ordini di motivi. Il primo: la giovane età del ragazzo, vent’enne morto improvvisamente nella sua camera. La seconda: il fatto che questi fosse un richiedente asilo ospite da poco più di un anno del Centro di Accoglienza Straordinaria di Magenta, un luogo sensibile, di cui in ossequio alla trasparenza, cerchiamo di raccontare tutto ciò che avviene da quattro anni a questa parte. Espulsioni, disordini, così come le iniziative d’integrazione, quando queste vengono messe in atto. Insomma, una notizia e basta. Poi è arrivato l’odio, la bile. Ma forse, molto più semplicemente, gli imbecilli di Umberto Eco. Benché dubbiosi davanti alla chiusura tranchant dell’illustre professore, gli abbiamo dovuto dar ragione dinanzi ad alcuni sproloqui. Che cosa brutta, molto brutta, sono andati avanti per giorni. Come abbiamo scritto già in un altro pezzo, la pagina facebook del nostro quotidiano on line si è trasformata in una sorta di arena. Una pattumiera a cielo aperto. Abbiamo deciso di lasciare lì tutto, per qualche giorno, così che ognuno, l’opinione pubblica in primis, potesse farsi un’idea della fauna (per fortuna una minima parte) che popola i social network. Nostro malgrado, la notizia dei quattro imbecilli di Eco è diventata un affare di cronaca nazionale. Milano Today, La Repubblica e poche ore fa anche La 7 si è interessata alla vicenda che ci vede, seppur di riflesso, protagonisti involontari. Non cancelleremo nulla ancora per un po’. Perché abbiamo deciso di dare massima disponibilità ai colleghi che si stanno occupando della questione. Dopodiché abbiamo convenuto di eliminare da facebook questa monnezza. Non prima però, di aver salvato accuratamente queste “perle” che valuteremo successivamente in quali sedi utilizzare. I primi a saperlo siete voi cari lettori. Ve lo diciamo in segno di massima trasparenza ma più ancora perché siete il nostro patrimonio più importante. Per fortuna, vi conosciamo da tempo, abbiamo imparato ad apprezzarvi come voi (speriamo) continuate ad apprezzare il nostro lavoro quotidiano. Della monnezza poco c’importa. E’ un po’ come quando si schiaccia una m… per strada. Ogni tanto capita. Si dice che porti fortuna e si tira avanti”.
Il populismo di oggi? L’aveva spiegato Umberto Eco, parlando del “fascismo eterno”. La rinuncia al confronto coi problemi reali, il richiamo all’identità, l’apparato ideologico approssimativo. Già Eco, nel suo famoso saggio sul “fascismo eterno” aveva delineato le caratteristiche dei populismi di oggi, scrive Matteo Bianchi il 3 Settembre 2018 su "L'Inkiesta". Sarà stata la noia estiva, oppure il crescendo endemico delle Destre europee a far aumentare le vendite in una città di provincia come Ferrara de Il fascismo eterno (La nave di Teseo)? Con lo sguardo di chi sa accettare il suo tempo senza perdersi e senza vergogna, Umberto Eco apre il pamphlet ricordando la sua infanzia fascista, quando ascoltava con ammirazione i discorsi di Mussolini e in classe doveva impararne a memoria i passi più significativi, magari al posto di una poesia di Leopardi. Un’esperienza di sicuro radicale, ma tutt’altro che inutile, poiché gli ha insegnato a liberarsi dalla retorica. Alternare durante un’orazione i desiderata che fanno gola al vulgus ai risultati ottenuti concretamente sul campo è un passaggio consueto anche nella demagogia spiccia alla quale si assiste in tv; il duce, però, era solito calcare la mano su questioni marginali che proprio nell’immaginario instaurato avevano un peso sostanziale. Se gli italiani degli anni Trenta volevano conquistare a tutti i costi per far grande la nazione nel mondo, sperperando risorse alla faccia della povertà montante, gli italiani di oggi non vogliono essere conquistati da chi fugge dalla povertà, dalla siccità, dalla disperazione di un’Africa allo stremo. Il ministro Salvini spesso fa il verso ai protagonisti di un passato drammatico, non ancora remoto, consapevole tanto della distanza che divide un regime da una democrazia parlamentare, quanto dei parallelismi che permette la fruizione costante del web. Alzare la voce, spararle sempre più grosse e usare l’ironia per dissacrare, come la t-shirt che sbeffeggiava la sconfitta del Pd a Pisa, Siena e Massa con la Bella ciao della Resistenza, o l’aver querelato Saviano in qualità di ministro della Repubblica e non in quanto rappresentante di una minoranza politica che ha “vinto” le elezioni con il 18%, distoglie l’attenzione dall’uso effettivo che fa del potere; senza fermarsi a contare i continui attacchi ai barconi, gli specchietti per le allodole. D’altro canto, uno degli errori comunicativi del Pd di emanazione renziana è stato proprio dare per scontato che le migliorie difficilmente realizzabili non fossero da sbandierare come imminenti; o peggio, che siano state taciute completamente, ha fatto sentire gli italiani in difficoltà in uno stato di abbandono e in balia della crisi. Il ventennio berlusconiano e la to do list del Movimento 5Stelle, al contrario, si somigliano per questo, perché mettono il focus su riforme che il paese nel prossimo biennio non potrebbe sostenere economicamente, così la flat tax o il reddito di cittadinanza. A preoccupare uno degli intellettuali più lucidi e lungimiranti del secondo Novecento sono state le abitudini culturali, unite agli istinti oscuri e alle pulsioni insondabili che hanno permesso al regime fascista e alla sua ideologia di arrivare in vetta. A preoccupare uno degli intellettuali più lucidi e lungimiranti del secondo Novecento sono state le abitudini culturali, unite agli istinti oscuri e alle pulsioni insondabili che hanno permesso al regime fascista e alla sua ideologia di arrivare in vetta. Orientare il protagonista di “Per chi suona la campana” (1940) contro i falangisti di Franco, chiamandoli fascisti, per Hemingway significava reagire a un determinato dispotismo. Eco definisce il Fascismo nostrano un totalitarismo “fuzzy”, ossia confuso e impreciso: a differenza del Nazismo e dello Stalinismo, che avevano un manifesto politico e dei precisi riferimenti filosofici e artistici per dare solidità ai loro fondamenti ideologici, il Fascismo si basava soprattutto sulla capacità retorica del duce e nel corso della sua storia si è più volte contraddetto. Da ateo coerente e militante, Mussolini finì per firmare il concordato con la Chiesa porgendo ai vescovi i gagliardetti fascisti da benedire. Finito il suo leader, come Hitler aveva intuito sin da subito, il partito non avrebbe avuto la possibilità di rigenerarsi. Era folkloristico, era sorto proclamando un nuovo ordine rivoluzionario, pur essendo finanziato dai proprietari terrieri più conservatori. In sostanza, non capitava di rado che Mussolini proclamasse a gran voce una scelta e facesse l’opposto, o meglio, quello che conveniva al mantenimento della sua leadership. Tuttavia, per quanto ideologicamente sgangherato, il Fascismo era emotivamente legato ad alcuni archetipi: il culto della tradizione, ad esempio, che ha motivato persino gli esordi della Lega inneggiando ai Celti che si erano stanziati nella valle del Po prima dei Romani. E qualsiasi esito di tradizionalismo che si rispetti prende comunque il largo dall’attaccamento al “sangue” e alla “terra”, da un senso primordiale di radicamento al territorio. L’humus che ha ingrossato le fila dei fascisti è stata la frustrazione delle classi medie, tanto da far predire a Eco che i vecchi “proletari” diventati piccola borghesia sarebbero stati un uditorio ideale. Ci pensa poi il nazionalismo a fare da collante: l’appartenenza allo stesso paese è l’unico privilegio che accomuni tutti coloro che sono privi di una qualunque identità sociale. Per sentirsi tali, però, bisogna avere dei nemici e fare appello alla xenofobia diventa comodo, instaurando la cosiddetta “ossessione del complotto” rispetto a chi potrebbe sottrarre risorse e lavoro ai cittadini italiani, come i rom e gli immigrati odierni ad esempio, che al contempo minerebbero pure la nostra serenità quotidiana. La vigilia di Ferragosto il ministro Salvini twittava: «Il sindaco di Napoli vuole ospitare (e mantenere) altri immigrati in città. Paga lui? A Napoli non ci sono cittadini in difficoltà, senza casa e senza lavoro? Ah, già, per certa sinistra è più importante pensare agli immigrati che agli italiani…» Al nemico dentro i confini nazionali ne deve corrispondere uno all’esterno, come lo spettro dell’Europa o degli stati che vorrebbero una zona euro più compatta economicamente, come Germania e Francia, della quali va necessariamente disprezzata l’erba troppo verde. Lo scorso 12 agosto sempre Salvini twittava: «Con questo calduccio, uno spuntino a base di spettacolare mozzarella di bufala campana ci sta. Alla faccia dell’Europa che vuole portarci in tavola ogni tipo di schifezza, io magio (e bevo) italiano!» L’humus che ha ingrossato le fila dei fascisti è stata la frustrazione delle classi medie, tanto da far predire a Eco che i vecchi “proletari” diventati piccola borghesia sarebbero stati un uditorio ideale. Dietro gli schermi dei nostri televisori o dei nostri pc, Eco intravedeva già il rafforzamento di un possibile “populismo qualitativo”, per cui «la risposta emotiva di un gruppo selezionato di cittadini può venire presentata e accettata come la voce del popolo». Quando lo ha argomentato correva il 1997 e Grillo non aveva ancora poggiato il primo pixel del Movimento 5stelle, né Di Maio era stato candidato premier dopo 490preferenze su un sito. Infine Eco sottolinea la questione linguistica, l’esigenza da parte del potere di semplificare la comunicazione, di renderla immediata, essenziale, lapidaria per essere comprensibili a chiunque, ma soprattutto degni di memoria. E gli slogan sono difficili da dimenticare: «Voglio un Paese che va avanti, non che torna indietro», usa Salvini per chiudere più di un post, ma ancora: «Lo Stato deve tornare a fare lo Stato» e il continuo «dalle parole ai fatti». La debolezza culturale del Fascismo prelude a un’altra considerazione, alla mancanza di spirito critico da parte di chi ne ha permesso l’instaurazione, quasi che gli italiani di allora si fossero accontentati di risposte che miravano alle loro pance, per essere saziati lì per lì, senza una reale lungimiranza, senza un leader che pensasse al loro bene futuro. Non solo, che in mezzo alla confusione ideologica si perda di vista una verità condivisibile, una base comune, cosicché ogni pretesto sia buono per giustificare pochi, identificabili con una lobby mafiosa, o addirittura un individuo soltanto e il suo entourage mediatico. Libertà, secondo Italo Calvino, sta nel rispettare le regole all’infuori di noi per non rischiare di nuocere al prossimo. Libertà, secondo Umberto Eco, sta nella pluralità di pensiero, nell’accettare la diversità e nel non imporre la propria visone di realtà sulle altre per paura o poiché la si ritiene via più breve. Il timore con cui ci ha lasciato è che il fascismo possa tornare sotto abiti civili, mascherato sotto da spoglie più innocenti.
Aveva ragione Umberto Eco: i politici in tv sono come Mike Bongiorno. Gioco dell'estate: rileggere la celebre Fenomenologia pensando agli ospiti dei talk show: "Ignoranti, non usano i congiuntivi e rappresentano l’uomo assolutamente medio. Per questo il pubblico li ama", scrive Beatrice Dondi il 30 luglio 2018 su "L'Espresso". Spuntano come i cucù dalle casette di legno, senza preavviso. Dicono, parlano, esternano continuamente, anche in questa coda di stagione che, da tradizione, dovrebbe lasciare a riposo lo spettatore stremato. Invece loro no, i politici in televisione non mollano e tra una reazione a catena e una canzone per l’estate presenziano senza sosta raccontando le loro visioni spicciole, le realtà tagliate con l’accetta e le opinioni di bassa lega (con la minuscola per carità). E il pubblico, a sorpresa, continua a guardarli. Torna utile dunque, vieppiù di questi tempi bigi, rispolverare quel capolavoro tratto dal “Diario Minimo” di Umberto Eco dal titolo “Fenomenologia di Mike Bongiorno”. Uscito nel lontano 1961, il saggio prendeva a sonori schiaffoni gli spettatori dell’Italietta che fu e che torna sempre uguale a se stessa, oggi come ieri. Quello specchio televisivo che affastella crisi e Isole, Uomini e Donne, false verità e comici senza storia, capaci nonostante tutto di attrarre grazie a un’implacabile normale ordinarietà: «La tv offre, come ideale in cui immedesimarsi, l’uomo assolutamente medio», scriveva Eco. Una lettura illuminante, che rende trasparente come una vetrina specchiata per i saldi, quel consenso formato talk altrimenti incomprensibile. Si provi dunque un giochino facile facile ma di sicuro effetto: sostituendo il nome di Mike Bongiorno con un qualsivoglia onorevole o senatore, portavoce, ministro, premier o vicepremier a piacere, seduto in studio, l’effetto fa effetto. «Mike Bongiorno non si vergogna di essere ignorante e non prova il bisogno di istruirsi». E ancora: «Mike Bongiorno parla un basic italian. Il suo discorso realizza il massimo di semplicità. Abolisce i congiuntivi, le proposizioni subordinate, riesce quasi a rendere invisibile la dimensione sintassi. Non è necessario fare alcuno sforzo per capirlo». «Mike Bongiorno porta i clichés alle estreme conseguenze». E infine: «Mike Bongiorno non provoca complessi di inferiorità pur offrendosi come idolo, e il pubblico lo ripaga, grato, amandolo». Ogni riferimento a persone o cose è del tutto voluto. E ancora una volta, grazie professor Eco.
Bacheca Cgil in frantumi. La sinistra: Raid fascista. Ma era solo una pallonata. Dure polemiche a Chiaravalle (Ancona) per una bacheca della Cgil trovata in frantumi. Si urla al "fascismo", ma era colpa di una semplice pallonata, scrive Claudio Cartaldo, Mercoledì 05/09/2018, su "Il Giornale". Allarme è tornato il fascismo. A forma di pallone. Son tempi difficili questi per chi vede il ritorno del Ventennio ovunque. Pure in un vetro in frantumi. Chiaravalle, piccolo centro in provincia di Ancona. La bacheca della Cgil con dentro il manifesto della campagna “Mai più fascismi” viene ritrovata in frantumi e subito scatta l’indignazione della sinistra con la conseguente bagarre politica. Prese di posizioni e comunicati, scrive Ancona Today, sul “gesto sicuramente voluto – ha detto Rifondazione Comunista - visto che nessun’altra delle bacheche vicine ha subito alcun danno". Per il Circolo del PRC di Chiaravalle non si tratta di "ragazzate, ma covano invece il germe dell’intolleranza madre di ogni fascismo. Essi sono infatti alimentati dalla propaganda razzista sui social, sostenuti da goliardie sportive, fomentati da distorte narrazioni sulla Resistenza". Peccato che a quanto pare a rompere quella bacheca non siano state le squadracce nere né una banda di fascisti dediti a raid notturni. Ma solo un tiro maldestro di un bimbo che invece di insaccare in rete il suo pallone ha colpito altro. Un tempo qualcuno avrebbe detto “mo’ vo buco sto pallone”, ricordando la nota pubblicità, e invece si è preferito urlare all’incursione fascista. Alla fine però è stata la stessa Cgil a frenare le polemiche e il sindaco Damiano Costantini ha smentito le “futili polemiche” sollevate da dall'ex vicesindaco Antonio Moscatelli, dall'Anpi e da Rifondazione Comunista. “La fretta, soprattutto nel giudizio (oltre che nel calciare palloni) - ha detto il primo cittadino, come riporta Ancona Today - è cattiva consigliera. L’urgenza di denunciare serpeggianti e violenti fascismi ha fatto dimenticare agli autori che i fatti vanno prima verificati e poi commentati”. Alla fine il papà del bimbo pagherà la riparazione del danno causato dalla pallonata “fascista”.
Repubblica non sa più come indignarsi: ecco il “cane razzista”, scrive il 7 luglio 2018 Chiara Soldani su "Ilprimatonazionale.it. “Il cane è il miglior amico dell’uomo”, recita un detto popolare. Miglior amico, sì: ma non di tutti. È il caso di Speed, Jack Russell diventato un fenomeno a-social (perché socievolissimo non sempre lo è) proprio nelle ultime ore. Certo è scabroso parlare di un “cane razzista” nei tempi iper maturi del politicamente corretto. Ma questo, il nostro Speed non può saperlo: sulla spiaggia di Alassio, ringhia deciso contro neri ed extracomunitari. No: non è il cane di Salvini (come insinuerebbero i buonisti malpensanti) ma l’amico a quattro zampe di uno dei gestori dell’Hotel Milano. “Un cagnolino che abbaiava contro un ragazzo di colore sulla spiaggia di Alassio, alcuni bagnanti che ridono e applaudono e lo incitano, io che non credo ai miei occhi e li invito a fermarsi. Loro sghignazzano e una signora mi offende pesantemente con i soliti riferimenti sessuali a me e ai migranti”: così racconta, in un post su Facebook, una testimone delle “razziste, canine illazioni”. Sta di fatto che il “terribile Speed” ha raccolto il plauso di moltissimi turisti e bagnanti: cave canem! “Si, è vero che lui riconosce i negri dall’odore e gli ringhia, ma non ha mai azzannato nessuno. Ovviamente l’hotel accoglie anche clienti di colore. Razzista? Ma come fa un cane a essere razzista? Io? Macchè, è solo che quando vengono i marocchini a vendere Speed li riconosce subito e li manda va”, afferma la proprietaria. Comprensibile indignazione e moral denuncia de “La Repubblica” e affini. In tempi di razzismo più presunto che effettivo, la vicenda del cane di Alassio restituisce il fedele ritratto dello status quo. Parafrasando Pasolini “c’è razzismo in assenza di razzismo”, di quel “nemico immaginario”, chiamato Russell. Il solito, aulico “giornalismo (canino) d’inchiesta”.
Vittorio Feltri a L'aria che tira, lezione a Massimo Giannini che straparla di razzismo: "I nullafacenti...", scrive il 10 Settembre 2018 su "Libero Quotidiano". Tra gli ospiti della prima puntata della nuova stagione de L'aria che tira di Myrta Merlino su La7 c'era Vittorio Feltri, il direttore di Libero. In diretta, è piovuta la notizia: l'Onu invia degli ispettori in Italia per fronteggiare l'inesistente emergenza-razzismo. Dunque viene chiesto un parere al direttore, che risponde in modo tranchant: "L'Onu è un ente inutile, ciò che dice dunque è pure inutile". Dunque, in studio si parlava dell'aumento delle copie vendute di Libero (+10% a giugno, +6% a luglio). Tra gli ospiti anche Massimo Giannini di Repubblica, il quale non ha trovato nulla di meglio da dire che attribuire la crescita delle copie "alla narrazione xenofoba e per certi versi razzista" che dominerebbe in questi giorni l'Italia. Discreta faccia tosta, quella di Giannini, che scrive per quella Repubblica che in quanto a "narrazione", descrivendo un'Italia razzista e fascistoide, sta sfornando il peggio di sé. E in un successivo intervento, Feltri risponde a Giannini, tra le righe ma in modo molto netto: "Vorrei far notare che in Italia c'è una massiccia comunità di cinesi, non è mai stato registrato un episodio di razzismo o di intolleranza. Ci sarà un motivo - ha sottolineato il direttore -: vengono qua, lavorano come matti, non si fanno mantenere". Al contrario, prosegue Feltri, "quando l'Italia si riempie di nullafacenti che gironzolano senza far nulla si creano tensioni e si spaccia per razzismo quella che è una semplice ma evidente rottura di scatole".
Il discorso dell'immigrato che zittisce i buonisti: "Salvini ha ragione". Un video rilanciato da Matteo Salvini: "Parla più di mille articoli di giornale". L'uomo: "Io qui da 15 anni, ho sempre lavorato. Chi non lavora torni da dove è venuto", scrive Claudio Cartaldo, Lunedì 10/09/2018, su "Il Giornale". Il video sta letteralmente facendo il giro dei social network. E Matteo Salvini già lo considera un “editoriale” che “vale più di mille articoli di giornale alla faccia di Onu e buonisti”. Nelle immagini si vede un uomo di colore chiacchierare con delle persone mentre le aiuta a caricare la spesa sull’auto. E nel farlo parla dell’Italia, dell’accoglienza, dei troppi migranti arrivati sulle coste del Belpaese e dei suoi conterranei che “non fanno nulla” per meritarsi l’ospitalità dell’Italia. “Da quindici anni sono qui e ho sempre lavorato – si sente dire l’uomo vestito con una polo - Lavoro di notte e vengo anche a dare una mano ai clienti volentieri. Però quando vedo gli altri non fare niente...c’hanno ragione. E quando sento dire che gli italiani sono razzisti...non è vero che lo sono. Sono stufo. A parte gli italiani, in qualunque paese farebbero così. Bisogna lavorare, altrimenti non c’è niente da fare: torni a casa da dove sei venuto”. Il discorso è chiaro, netto. Parlando dei tanti immigrati che non fanno nulla nelle piazze italiane, l’uomo afferma: “Io mi vergogno vederli così che sono africani. Non è giusto. Non è assolutamente giusto. Bisogna lavorare e fare come gli altri, rispettare le regole del Paese. Io perché sono qui e la gente mi ama? Perché ho sempre lavorato da 15 anni, ho dato la mia disponibilità a tutti: i dirigenti mi conoscono, chi arriva sa chi sono. Perché il mio lavoro l’ho sempre peso sul serio”. Non è ancora chiaro ove sia stato registrato il video. Ma il suo messaggio è limpido: “Alla sacra famiglia è pieno di ladri nigeriani con telefono di lusso e tutti belli vestiti – dice - e poi a fine mese vanno a chiedere i soldi al comune. Ma io quando vedo le tasse sulla mia busta paga mi girano i coglioni: vai a lavorare e paga pure le tasse”.
Una delle donne che è con lui, forse la stessa che ha ripreso la scena con il cellulare, gli chiede se è vero che gli italiani sono razzisti. In fondo l’Onu oggi ha detto di voler mandare gli ispettori contro una presunta ondata xenofoba. Ma è lo stesso immigrato del video che “zittisce” indirettamente le Nazioni Unite e i buonisti in genere: “Gli italiani non sono razzisti, sono molto accoglienti. Hanno fatto anche di più. Gli immigrati arrivati in Italia negli ultimi anni sono tantissimi. Mi hanno ospitato bene, io mi trovo bene, lavoro in regola, ho una famiglia, ho una casa perché ho sempre lavorato”. E Salvini? La domanda ha una risposta che forse non ci si attenderebbe: “Salvini ha ragione – conclude l’uomo - Non ha tutti i torti e speriamo che vada fine in fondo e nessuno interrompa il bel lavoro che sta facendo. Perché non ho possibilità di incontrarlo, altrimenti lo avrei incontrato. Fai bene il tuo lavoro, che nessuno ti rompe. Vai avanti Salvini”.
Immigrati, quelli della Diciotti a Messina. Il sindaco Cateno De Luca: "Metto a disposizione le baracche", scrive il 27 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". "Mandiamo i baraccati negli alberghi e i migranti nelle baracche. Non sarebbe giusto dopo 110 anni dare un tetto dignitoso ai messinesi?". Lo dice provocatoriamente il sindaco di Messina Cateno De Luca riferendosi ai migranti scesi dalla Diciotti e portati in città. "Nessuno mi ha avvertito dell'arrivo dei migranti all'hotspot di Messina", ha aggiunto, "sindaci sono buoni solo per prendersi denunce ma muti su politiche migratorie".
De Luca come Salvini: basta coi nigeriani. E i compagni saltano sulle sedie, scrive martedì 11 settembre 2018 "Il Secolo D’Italia". Il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, nel suo intervento alla Festa dell’Unità, a Ravenna, critica il Pd perché non si rende conto dei problemi di sicurezza creati dai migranti. Concetti che in genere provengono dalla Lega e dal suo leader Matteo Salvini mentre in questo caso è un esponente del Pd a farli propri. De Luca ha così stupito tutti affermando: “Ci sono zone del Paese dove abbiamo bande di nigeriani che hanno occupato militarmente i territori, sul Litorale Domizio abbiamo nigeriani che si danno allo spaccio di droga e prostituzione. Ci sono padri che aspettano le loro figlie in balcone. Questa realtà il Pd la conosce o no?”. E ancora: “Se devo decidere tra la serenità di vita della mia famiglia e dei miei figli e una bandiera di partito, io scelgo la mia famiglia, è chiaro?”.
Anche il “comunista” Fassina diventa sovranista. E fonda un nuovo partito, scrive Vittoria Belmonte domenica 9 settembre "Secolo D'Italia". Che il destino di Liberi e Uguali sia quello della lenta estinzione è fuor di dubbio. Non solo il leader Pietro Grasso è scomparso, non solo Laura Boldrini auspica un nuovo soggetto unitario della sinistra ma ora c’è anche una miniscissione. Stefano Fassina, deputato di Leu, ha infatti annunciato sui social la fondazione di una nuova creatura politica, “Patria e Costituzione”, la cui assemblea fondativa si è tenuta a Roma l’8 settembre. “Un’associazione – dice Fassina – di cultura e iniziativa politica, dalla parte del lavoro, per affrontare la domanda di comunità, di protezione sociale e culturale, per rideclinare il nesso tra sovranità, democratica nazionale e Ue, per definire strumenti adeguati per lo Stato per intervenire nell’economia”. Da sempre critico verso la globalizzazione e il mercatismo che rappresentano gli idoli dell’Unione europea, Fassina – da sinistra – riscopre la patria e i diritti del popolo sovrano. Un’imitazione del percorso seguito dalla destra di Salvini nel rifondare la Lega e nel dare nuovo slancio al centrodestra. Fassina ha anche ammesso, nel suo discorso dedicato alla nuova associazione politica, che solo la destra ha capito il bisogno di protezione, comunità, identità che si genera attraverso l’evocazione di un nuovo «patriottismo costituzionale».
RAZZISTA (D)A CHI? La guerra del linguaggio rovesciato di chi ha perso potere, ragione e analisi. Cosa c’è dietro la mitopoiesi dei migranti, scrive Fulvio Grimaldi su Antidiplomatico del 03/08/2018. L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Scusate la citazione d’esordio, bassamente sovranista, al limite del nazionalismo, certamente populista, con impliciti accenti di razzismo.
Parola d’ordine: daje al razzista! Va bene, mettiamo le mani avanti, prima che mi si rovesci addosso una parte dello tsunami di livore-rancore-odio-fake news con cui la componente criminale dell’attuale classe dirigente occidentale e il mercenariato dei suoi portantini politici e mediatici cretinopportunisti (in Italia tutta e tutti, escluso qualcuno che oggi sta al governo e chi l’ha votato) sta cercando di esorcizzare quanto capitatogli il 4 marzo e quanto di pur modesto (ma per loro funesto) glie ne è derivato. Per la prima volta, dalla guerra, il popolo ha populisticamente e sovranamente mandato a casa, al diavolo, la dinastia dei regnanti ladri e mafiosi. E questi hanno sbroccato e urlano. Le mani avanti sono tre: primo, questo non è il mio governo, preferisco quelli di Robespierre e della Comune di Parigi, al limite quello di Fidel prima che se ne andasse il Che; secondo, ritengo i condizionamenti della Lega sul piano economico, ambientale, delle Grandi Opere, dell’amministrazione locale in perfetta continuità con i devastatori neoliberisti destrosinistri e la cultura linguistica del suo leader una sciagura; terzo, è dal 1966 che mi occupo senza soluzione di continuità di coloro dei quali viene ululato che sono vittime del razzismo di questo governo e, alla fin fine, degli italiani che questo governo hanno votato e, toh!, continuano a sostenere in numeri crescenti. Un mio caro amico e grandissimo vignettista ha disegnato l’idea dell’Italia come viene rappresentata da quelli del “daje al razzista”. Cercherò di spiegare perché è un’idea strumentale.
Con la razza sì, quella degli oppressi. Se avere combattuto direttamente e denunciato, in mezzo mondo e più, il colonialismo e l’imperialismo, ontologicamente espressioni di razzismo, di superiorità del dominante dotato di diritto e valori sul dominato e dominando, per definizione privi di tali diritti e valori (islamico, nero, ignorante, nazionalista, zotico, retrogrado, privo di democrazia); se essere corso in guerra contro chi le guerre le faceva, armate o economiche, per spedirne immagini e storie di dolore, distruzione, infami soprusi, eroismi inenarrabili, che, nel mio piccolissimo, gettassero granelli di sabbia negli ingranaggi del bulldozer della menzogna; se stare con i palestinesi, irlandesi, cubani, venezuelani e latinoamericani tutti, arabi tutti, iracheni, libici, siriani, algerini nello specifico, e poi vietnamiti, iraniani, africani, somali, eritrei, etiopi in particolare, quelli che allora come oggi costringono a migrare; se aver mandato al diavolo i grandi amplificatori dell’informazione, o esserne stato bandito per incompatibilità di schieramento; se avere riempito di tutto questo migliaia tra articoli, libri documentari filmati, conferenze, se avere fatto dell’amore per tutti costoro e, più ancora, della passione per la verità dell’oppresso, l’unica che debba avere corso legale, morale, deontologico, e dell’odio per i necrofagi che pasteggiano con le loro vite e degli sguatteri che gli apparecchiano la tavola; se questo mi merita l’ingiuria di razzista, che sia! E se, davanti alla miserabile mitopoiesi che gli eredi Ong della Compagnia delle Indie, del “fardello dell’uomo bianco”, civilizzatore di selvaggi a forza di genocidi, oggi tramutato in “valori europei” della solidarietà e dell’accoglienza, fanno del migrante in quanto tale, sempre e comunque “profugo” o “rifugiato”, sempre vittima, sempre buono e giusto e meritevole, esternando riserve e distinguo, si è razzisti, che sia! Per non essere razzisti, ai tempi di epifanie dell’élite morale, intellettuale, umana tout court, modernamente e metticciamente mondialista, come Laura – ghigliottina - Boldrini (mi riferisco al suo modo imparziale di presiedere la Camera, ricordate?), paginone profumato alla violetta sul “manifesto”, o Nicola Fratoianni, ora sinistro mozzo sull’ammiraglia del filantropo terminator George Soros, Open Arms, paginone salivato sul “manifesto”, o Emma Bonino, facilitatrice di tutte le guerre Usa e Nato e nella foto avvinghiata al premio Nobel del crimine finanz-razzista, onde per cui finanziatore di tutti i complotti Ong e di regime change (paginone all’incenso sul “manifesto”, o le edicole e gli schermi unificati che latrano “razzisti”, bisogna fare poche cose. Dire quel che serve e tacere quel che non serve.
L’informazione è miliardaria, ma anti-razzista. E’ la regola del buon giornalismo all’epoca dei suoi standard aurei. Quelli in mano a Jeff Bezos (Amazon: Washington Post), Comunità ebraica e Carlos Slim, uomo più ricco del mondo (Petrolio e telecomunicazioni: New York Times), Comunità Ebraica e De Benedetti (CIR, Sanità, Energia, Compagnie financière Edmond de Rothschild banque: Stampa, Repubblica, L’Espresso, ecc.). Un’equazione potere-politica-media che vale per gran parte di quella che viene definita “comunità internazionale” (coincide più o meno con l’estensione NATO, circa il 17% dell’umanità). Un’equazione i cui termini numerici sono quelle 8 entità che posseggono quanto 3,5 miliardi di esseri umani, quei 16,5 milioni di milionari che dispongono di 63,5 trilioni di dollari, quei ricchi che nel 2017 si sono arricchiti di 1 trilione, un incremento del 23%, quattro volte quello dell’anno precedente. Più o meno, nel piccolo mondo italico, la sorte del nostro 1% che possiede il 45% della ricchezza nazionale e del nostro 10% che ne possiede l’80%. Tra costoro anche il testè inserito tra le glorie marmoree sul Pincio Marchionne, davanti al quale l’operaio si cava il cappello ringraziandolo per avergli portato via quasi tutto per sistemarlo al sicuro in Svizzera, Olanda, Regno Unito e Stati Uniti. Questa sì, che è visione globale, scalzacani di Pomigliano! Chi oserebbe mettere in dubbio la rappresentazione del mondo che emana dai media residenti in tali campi elisi? Un’equazione dalla quale riceviamo la nostra conoscenza di quanto accade intorno a noi: l’Italia è un paese in mano a un regime cripto-fascista, razzista, xenofobo e – non me lo dire! - sovranista fino al midollo, che è riuscito, a forza di seminare paura dell’estraneo o diverso (migrante, donna, rom, LGBTQI e chi ne fa più ne metta) a pervertire quello che fino a ieri era il sano, saggio e lavoratore popolo che votava DC, PCI, Ulivo, DS, PD, LeU, FI, senza mai esprimere hate speech, discorsi dell’odio, rancore, invidia per Marchionne, Renzi e Orfini, senza mai insultare in rete, senza mai dare retta alle fake news.
Josepha dagli occhi sbarrati. E Josepha dagli occhi sbarrati, secondo i sorosiani di Open Arms rubata alle onde tra le quali l’avrebbero lasciati i libici (che non si vede perché debbano essere meno credibili di gente che si fa pagare da Soros e campa di Josephe, tanto più se accreditati da una giornalista tedesca); e il bambino curdo sulla spiaggia del Bosforo che scatenò la rotta balcanica e poi i 6 miliardi di euro a Erdogan per interromperla e che venne scoperto giustapposto sul bagnasciuga da chi lavorava a quegli esiti; e quell’altro ragazzino di Aleppo (foto), tirato fuori dai calcinacci e messo in ambulanza con la faccia imbrattata di polvere e sangue e che video non ortodossi scoprirono sceneggiata dei famosi elmetti bianchi (ora messi al sicuro dai padrini Nato che li pagavano per lavorare fianco a fianco con i terroristi Isis e ricoverati in Israele, nientemeno, e in Germania); e quello speronamento di salvanaufraghi tedesca Seawatch, che altro video non ortodosso rivelò essere stato manovra intimidatoria Ong nei confronti di motovedetta libica; e quella ripresa in campo stretto di Jugend Rettet (ora sequestrata e sotto processo) che vede salvatori raccogliere gente da un gommone, seguita da ripresa in campo largo di infiltrato sulla nave, che mostra il coordinamento tra scafisti e Ong, la restituzione di gommone e motore, i saluti cordiali… Di tutto questo e similaria avete saputo la seconda parte, la smentita del trucco, solo dai famigerati social delle fake news. Quelle contro cui la Boldrini, “manifesto” e “repubblica” in borsa, è andata ad ammonire i ragazzi dei licei. Equazione, dunque, dalla quale riceviamo la sconoscenza di particolari secondari, effettucci collaterali trascurabili. La pesista nera di Torino, “vittima di razzismo”, era solo uno dei 6 bersagli dei dementi lanciatori di uova e tutti gli altri erano bianchi. Il migrante morto (di auto o di pugno, non è chiaro) ad Aprilia aveva una cassetta piena di attrezzi per furti con scasso; nel periodo degli otto scellerati episodi di aggressione razzista (uova, pallini, “sporco negro”, eccetera), settimana di fuoco contro i migranti, le questure ci informano che sono state arrestate per reati vari 100 migranti e 400 ne sono stati denunciati. Informazione indubbiamente intrisa di razzismo. Da cestinare. Come lo sono i dati del Viminale pre-Salvini per i reati di violenza e contro la proprietà commessi dall’8,3% di popolazione straniera. A questa spetta il 55% dei furti con destrezza, il 51,7% dello sfruttamento della prostituzione (mafia nigeriana, ormai classificata la quarta mafia in Italia), il 45,7% delle estorsioni, il 45% dei furti in abitazione, il 41, 3% di ricettazioni, il 20,3% degli omicidi volontari, il 37,5% delle violenze sessuali. Sto criminalizzando i rifugiati, direbbero gli anti-razzisti. No elenco dati compilati dal governo degli anti-razzisti e aggiungo che un tasso così elevato di comportamenti devianti è la naturale conseguenza di chi pesta nel mortaio pietas e accoglienza universale e non fa altro, a forza di migranti schiavi o mendicanti, che allestire l’irrinunciabile, per il capitalismo, esercito industriale di riserva. Questi che da noi, gettati a morire nei campi o da Amazon o agli angoli col cappello in mano, a casa erano contadini, pescatori, artigiani, maestri, infermieri, impiegati, disoccupati. Gli avevano prospettato l’Arcadia, si sono imbattuti nel bulldozer dello sfruttamento più spietato. A delinquere qui li hanno costretti loro, gli accoglitori. Lasciate che il fiore bocconiano Tito Boeri farnetichi di migranti che pagheranno le nostre pensioni. Prima dovrebbero poter guadagnare e non in nero, poi dovrebbero esserci anche coloro che gliele pagheranno a loro, le pensioni. Con l’Italia che perde (caccia) quasi 300mila giovani (20% laureati) all’anno, con il Sud umanamente ancora la parte più salda di noi, da cui in 16 anni sono emigrati (cacciati) due milioni, la vedo dura. Questo del dico e non dico è dunque il giornalismo di un establishment potere-politica-media che per il momento si è privato del termine intermedio, la politica, e ne ha sostituito i contenuti - fatti, ragionamento, confronto, analisi - con le parole. Parole d’assalto lanciate con perfetti – e sospetti - sincronismo e sintonia da tutti gli sconfitti, dall’estrema e finta sinistra all’estrema e vera destra: dal “manifesto” a tutti gli altri. Persa la partita della politica e finiti nel buco nero della ripulsa popolare per la situazione sociale e culturale catastrofica, questa sì fonte di paura e insicurezza, in cui hanno precipitato la nazione, cercano, come dice bene Carlo Galli, della Sapienza di Roma, di imporre un terreno di gioco nel quale l’aggressività lessicale dovrebbe sostituire analisi e confronti e porre l’avversario vincente dalla parte del torto a forza di una superiorità morale fondata sui valori di bontà, accoglienza, tolleranza. Detti “valori europei” o, addirittura “occidentali” (con rumorosa esclusione di ogni Sud ed Est, in particolare di quel Putin che voleva imporre alla Rai il suo burattino Foa. Ma di questo la prossima volta.
“Il manifesto” agonizza, e neanche gli altri stanno tanto bene: colpa dei razzisti. Se dunque “il manifesto” agonizza alla mercè degli inserzionisti e grazie al milione e mezzo di generosità pubblica, non è mica perché al lettore che si ritiene altro rispetto a neoliberismo e imperialismo rifila un Marco Revelli, prestigioso corsivista, ultimo giapponese della grottesca Lista per un’altra Europa con Tsipras, che esalta la “resistenza vincente di Tsipras” all’indomani dell’ennesimo taglio delle pensioni, dell’ennesima svendita delle infrastrutture e, per fare felice la Nato, della cacciata di diplomatici russi e della prostituzione della Grecia a Netaniahu. Non è mica perché dal Nicaragua a Libia, Pakistan, Siria, Zimbabwe, Messico, Russia, Sahel ripropone, verniciate di rosso, le nefandezze false, bugiardi e necrofaghe della vulgata imperiale. Macchè, è perché quella comunità di “deplorables” (copyright di Hillary per gli elettori di Trump), quella società da rieducare, è stata fuorviata, pervertita, corrotta, da populisti, nazionalisti, sovranisti, razzisti e xenofobi. Il campo da gioco non è quello di chi utilizza al meglio il rettangolo e chi ci si muove sopra, ma quello che spara più populisti, razzisti, sovranisti. Ed è chiaro che a tirare in porta parole, specie se vuote di significato ma appesantite da odio, rancore, invidia, non si fa goal neanche in cent’anni. La tecnica del rovesciamento del linguaggio, di attribuire il cancro all’altro, non ferma la tua metastasi. Tutta questa gente si divincola nel risentimento, nell’odio, nel rancore, nell’invidia e, freudianamente, ne fa portatori gli altri, riuscendo solo ad evidenziare l’assenza di argomenti e il ridicolo tra coloro che, col voto, con una vera e propria sollevazione come non se n’erano più viste dagli anni ’70, ne hanno decretato la fine. Il povero Marco Revelli si abbarbica al detrito galleggiante di un fedifrago come Tsipras, quinta colonna del nemico quanto il giornale su cui imbarca naufraghi da accogliere senza se e senza ma e senza mai andare a vedere cosa c’era prima del gommone.
Colonialismo = razzismo, quello di ieri, quello di oggi. Perché qui casca l’asino. I valori europei di cui costoro cianciano stanno nella ripetizione di una storia colonialista di cui l’Europa e poi l’emisfero nord-occidentale si sono responsabili nel corso di mezzo migliaio di anni. Un valore essenziale per l’accumulazione primitiva è stata la tratta degli schiavi. Lo è tornato ad essere per l’accumulazione post-crisi e la riorganizzazione demografica ai fini globalistici. Se ne rivedono i missionari, apripista, oggi come allora innescatori di turbamenti e alienazioni scaturiti da una supponenza religioso-elitaria di dimensioni cosmiche, se ne vedono i benefattori e samaritani che portano istruzione e sanità di diretta derivazione cattocapitalista e di cospicua ricaduta per gli operatori. Ieri si andava, si occupava, si prelevava, per le Americhe anche vite umane. Oggi si mettono in piedi, militarmente o a forza di benefits, clan dirigenti i cui paesi non vedranno più coloni, ma ospiteranno manager. Rimane e viene potenziata, grazie a un apparato articolato in filiera organizzatissima, l’estrazione di merce umana. Spostamenti di popolazioni con la promessa, regolarmente delusa, di una vita migliore al Nord di quella, malridotta dai predatori e desertificatori transnazionali, al Sud. E la “via della seta” della mondializzazione. Il mezzo è sempre più lampante: sradicamento, trasferimento, impoverimento di chi arriva e chi accoglie, distruzione di identità, sovranità, popolo. Il daje al razzista serve a questo. Essendo il colonialismo per sua natura, premesse e fini necessariamente razzista. Ecco che un minimo di ermeneutica ci consente di riconoscere negli accoglitori pietosi il ceppo centrale della xenofobia e del razzismo postmoderno. Mi sentite Boldrini, Zoro, Revelli, il Blob degenerato in sciropposo buonismo del TG3, Beppe Giulietti, Camusso, Erri De Luca, Bergoglio e Parolin (suo segretario di Stato ospite acclamato al Bilderberg 2018), ossa di seppia piaggiate del PD e via sinistrando? E tutta gente da maglietta rossa. Li avete visti tutti, in massa, magliette rosse e petto in fuori a manifestare e a gridare contro il razzismo delle guerre imperialiste, con concorso italiano, ai 3 milioni di iracheni massacrati nelle guerre di Bush, Clinton, Bush; alla Libia felice e prospera frantumata e consegnata al caos, ai 300mila siriani uccisi e ai 6 milioni sradicati dalla guerra nostra e dei nostri terroristi jihadisti; allo Yemen, non solo raso al suolo dalle bombe, ma destinato al genocidio dal blocco totale dei rifornimenti; all’Afghanistan, nel quale collaboriamo a una guerra coloniale con sterminio di civili che dura da 17 anni ed è fondata sulla balla che Osama bin Laden ha buttato giù le Torri; all’orrore delle devastazioni in Africa, dove briganti inventati dai colonialisti e loro truppe di occupazione assistono le multinazionali nelle rapine delle risorse e nella distruzione degli habitati di tutti i viventi. E certamente avete visto queste benemerite magliette impegnate in altre cause, anche domestiche, come la lotta alla falcidie dei diritti dei lavoratori da Job Act, la difesa dell’ambiente e dei diritti delle comunità con lo Sblocca Italia, la rivolta contro la privatizzazione della scuola, fatta azienda monocratica al servizio degli sfruttatori, contro l’avvelenamento e depauperamento dei nostri mari e terre con piattaforme e trivelle dell’idrocarburo ammazza-pianeta, la vaiolizzazione del nostro territorio con ben 90 basi di guerra e di morte Usa e Nato…..Come non li avete visti? Eravate distratti….
FELTRI CONTRO TUTTI.
Più che razzista è un…
Si dice che quando tocchi un maiale, i suoi simili si mettono tutti a grugnire. «I magistrati sono come i maiali. Se ne tocchi uno gridano tutti (tutti si ribellano)». L’aforisma più twittato degli ultimi giorni non è dell’orango tango per eccellenza leghista Calderoli o di Ferrara, ma del grande giurista Piero Calamandrei, tra i padri della nostra Costituzione, profondo conoscitore della SuperCasta e della corruttibilità dell’animo umano. Quindi i meridionali, toccati nell’orgoglio, non siano come i maiali, ma trattare il soggetto per quello che è.
Contro i suoi discendenti, quindi contro se stesso. Vittorio Feltri il 21 Luglio 2018 su "Libero Quotidiano": legge liberticida, non voglio lasciare ai miei figli l'eredità sudata. Peggio dei figli ci sono soltanto gli eredi, alcuni dei quali aggrediscono (non fisicamente) la madre per sottrarle il patrimonio. Ieri il Corriere della Sera ha pubblicato la storia incredibile di una signora cui si attribuisce una ricchezza di circa cento milioni di euro, frutto della vendita dell'azienda del defunto marito. Pare che la vecchietta non fosse in regola col fisco, ma il punto non è questo. Se la donna deve pagare le tasse si affretti a farlo. Però il fatto che sia stato il figlio a denunciarla, dicendo che mamma non risiede a Londra, bensì a Milano, ci ha non poco stupito. Un gesto di giustizia è sempre apprezzabile, le parentele non c'entrano. Se tuttavia nasce il sospetto che lo scopo di incastrare la madre è quello di impossessarsi del suo bottino residuale, be' la cosa non è edificante. Le liti in famiglia si accendono spesso per motivi di interesse ed è questo che ci disgusta. E su cui vogliamo ragionare con pacatezza. Perché i genitori sono obbligati per legge a consegnare ai discendenti i propri beni sui quali per altro, per riceverli, è necessario pagare la tassa di successione? È una norma insensata. Io ho lavorato tutta la vita, ho accumulato un certo numero di milioni o di immobili, usando quattrini tassati alla fonte, e sono costretto, se crepo, a lasciare il bottino a coloro che ho generato, che saranno chiamati a versare un tributo cospicuo allo Stato. Ma quante volte sulle stesse somme l'Agenzia delle entrate mi può prelevate un tot? Dove è l'equità fiscale? Non solo. Spiegatemi quale sia la logica che mi impone di consegnare quanto ho guadagnato con le mie forze, in una intera esistenza, ai figli in base a percentuali stabilite dal codice. È un obbrobrio. Sarò padrone di donare ciò che ho risparmiato a chi cacchio desidero e non a quelli che ho messo al mondo, li ho mantenuti fino alla maggiore età, fatti studiare e attrezzati ad arrangiarsi per campare decentemente? No, le regole me lo impediscono. È assurdo e non c'è anima in Parlamento che si decida a riformare disposizioni tanto grottesche. Praticamente se metti al mondo un marmocchio non basta che tu non gli faccia mancare niente per anni e anni, spendendo cifre mostruose, sei altresì tenuto a garantirgli un lascito. E, se non ti garba, questi fa un esposto e ti saccheggia perfino quando sei nella tomba. Il motto è: rispetta anche le leggi idiote. Nessuno osa cambiarle. Vittorio Feltri
Contro i pugliesi. “Andate a raccogliere le olive invece di grattarvi”: un fake? E' apparso su Facebook un post del direttore di Libero che attacca duramente e volgarmente i pugliesi, accusati di essere scansafatiche: dubbi sull'originalità, scrive il 28 luglio 2018 Paolo Vites su "Il Sussidiario". Vittorio Feltri lo ha fatto ancora. Qualcuno dice che è colpa dell'età, ma altri sostengono che il direttore di Libero più o meno sia sempre stato così, pronto a insultare come un bambino tutto e tutti. Ogni volta che va in televisione finisce in rissa con qualcuno in raffiche di insulti verso qualcun altro, come abbiamo visto recentemente. Va detto che il post che è stato pubblicato ieri sera su Facebook non è apparso sul profilo ufficiale del giornalista, ma su una pagina semplicemente intitolata "Vittorio feltri" che potrebbe essere un fake. Il tono delle parole però è quello tipico di Feltri, magari si tratta di uno scherzo stile Crozza ma il messaggio è inequivocabile: «La Puglia è una regione con un alto tasso di disoccupazione. Mi rivolgo quindi ai pugliesi: invece di stare a casa a grattarvi le palle andate a raccogliere le olive, a lavorare la terra, senza aver bisogno che arrivino dei negri a lavorare per conto vostro». C'è comunque chi ha preso il post sul serio, come l'assessore regionale pugliese Alfonso Pisicchio che ha risposto anche lui via Facebook: «Tipico esempio di qualunquista intellettualoide e avvezzo ai luoghi comuni, triste emblema di questo tempo. Questo post è di una stupidità sconcertante. Feltri si vergogni e porti rispetto alla Puglia e a tutte le persone offese dalla sua ignoranza». Nessun commento dal direttore di Libero: fake o post originale?
Feltri contro i pugliesi: «Andate a raccogliere le olive invece di grattarvi». Le affermazioni shockanti del direttore di Libero ospite su Rete 4 in diretta con il governatore della Puglia Michele Emiliano, hanno acceso la miccia sui social, scrive Graziana Capurso il 28 Luglio 2018 su "La Gazzetta del Mezzogiorno". «La Puglia ha un alto tasso di disoccupazione. Allora dico ai disoccupati pugliesi: invece di stare a casa a grattarsi le palle vadano a raccogliere le olive, vadano a lavorare la terra, senza aver bisogno che arrivino dei negri a lavorare per conto loro». Con queste durissime parole Vittorio Feltri in diretta ieri sera a 'Stasera Italia' su Rete 4 ha attaccato i pugliesi. Il direttore di Libero, ospite in diretta con il governatore della Puglia Michele Emiliano, ha letteralmente insultato gli abitanti della nostra regione in attesa di un'occupazione. «E' una cosa indecente! Non abbiamo lavoro? Lavoriamo la terra. Ma che male c'è - ha continuato - mica è una vergogna lavorare. Fate lavorare i pugliesi, i campani...lavorino tutti invece di chiamare i poveracci che arrivano dall'Africa!». Affermazioni che fanno male e che sono state ribadite da Feltri anche su Facebook con un post sulla sua pagina ufficiale. Un post che ha creato tanta indignazione, scatenando una vera e propria pioggia di insulti sui social. Tra un «Vai a schiacciare i ricci col c...» e un «Sei un trim...» c'è anche chi esige delle scuse: «Lei non si deve permettere - scrivono - chieda scusa a chi ha lavorato anche nei campi, sottopagato e sfruttato e si è stancato di esserlo». «Se ci riesce per una volta, si vergogni - commentano - perché lei, dall'alto della sua poltrona da direttore non ha nemmeno idea di cosa voglia dire lavorare dieci ore sotto al sole cocente per 20 euro al giorno».
Feltri accusa i pugliesi: “Si grattano le palle, vadano a raccogliere olive”. Ed è valanga di insulti social. Post choc del direttore di Libero e su Facebook gliene scrivono di tutti i colori, scrive il 29 luglio 2018 L’Immediato. “La Puglia ha un alto tasso di disoccupazione. Allora dico ai disoccupati pugliesi: invece di stare a casa a grattarsi le palle vadano a raccogliere le olive, vadano a lavorare la terra, senza aver bisogno che arrivino dei negri a lavorare per conto loro”. Vittorio Feltri choc durante la trasmissione di Rete 4 “Stasera Italia” – in cui era ospite insieme al governatore pugliese, Michele Emiliano – e poi anche attraverso Facebook. Il post del direttore di Libero ha scatenato una serie di reazioni da parte dei pugliesi che hanno invaso la sua pagina. Oltre 4.100 reazioni (2.600 like anche da foggiani), oltre 2.000 condivisioni e 5.600 commenti. Tanti gli insulti, tantissime le richieste di scuse e anche qualche sostenitore. “Invito a tutti i ragazzi pugliesi: mettete un like a sto vecchio trombone così aumentate il numero di ricci maschi che dovrà schiacciare col culo”, scrive Titti. “Vieni a zappare in Puglia”, aggiunge un altro. C’è chi è più morbido: “Non ha tutti i torti, troppi fancazzisti nei bar”.
Feltri insulta i pugliesi in diretta e parte boicottaggio edicole: non vendiamo più “Libero”, scrive il 29 luglio 2018 Trnews. Feltri offende i pugliesi e parte il boicottaggio da parte di alcune edicole che, per protesta, non venderanno il quotidiano “Libero”. “La Puglia ha un alto tasso di disoccupazione. Allora dico ai disoccupati pugliesi: invece di stare a casa a grattarsi le p…. vadano a raccogliere le olive, vadano a lavorare la terra, senza aver bisogno che arrivino dei negri a lavorare per conto loro”. Così il direttore del quotidiano “Libero” Vittorio Feltri ha sbottato durante la trasmissione ‘Stasera Italia’ su Rete, ospite in diretta con il governatore della Puglia Michele Emiliano, ha infatti picchiato duro contro i pugliesi in attesa di un’occupazione. Fate lavorare i pugliesi, i campani…lavorino tutti invece di chiamare i poveracci che arrivano dall’Africa!”. E così, come si legge in questo post su FaceBook, da Casamassella si annuncia che in un’edicola, “causa problemi tecnici (ci stiamo grattando…) non sarà più in vendita “Libero”.
Feltri contro i napoletani: Libero, attacco razzista ai napoletani: “Sono assenteisti, frignano. Non se ne può più”, scrive il 2 marzo 2017 Luca Tesone su "Vesuvio Live". La prima pagina del quotidiano Libero apre con un attacco contro i napoletani. Il giornale diretto da Vittorio Feltri titola così: “Il solito vecchio vizio. Piagnisteo napoletano”. L’attacco del giornale è un pastiche che mette insieme cronaca, politica, sport e soliti luoghi comuni. Si inizia facendo riferimento al presunto assenteismo dei napoletani, ricordando il recente caso del Loreto Mare. Poi si passa al calcio: “Se perdono, attaccano l’arbitro pure quando hanno torto – dice Libero – hanno venduto Higuain e frignano dimenticando di aver comprato Maradona”. Non usa mezzi termini, insomma, il giornale. I napoletani sono tutti assenteisti, piagnoni e sfaticati. È la sagra del luogo comune, in cui si fa confusione tra calcio, cronaca e politica. Tutto fa brodo, insomma, per denigrare i napoletani. Feltri dimentica che i “furbetti del cartellino” non esistono solo al Sud – come si è voluto far credere anche durante la trasmissione di Quinta Colonna – ma in tutta Italia. Come non ricordare il dipendente del Comune di Sanremo che andava a timbrare i cartellini in mutande? Non è la prima volta che Libero mostra in prima pagina titoli a dir poco discutibili. Non solo razzisti, come quest’ultimo, ma anche sessisti. Ricorderete, infatti, il vergognoso titolo dedicato alla sindaca di Roma Virginia Raggi, definita una “Patata bollente”. Insomma, il quotidiano di Vittorio Feltri si diverte con i titoli dallo sberleffo facile, ignorante, razzista e volgare. Ancora più grave è però il titolo di stamattina. Quel “il solito vecchio vizio” fa capire che, secondo Libero, le presunte colpe dei napoletani sono “storia vecchia”, insite fin dal principio della storia partenopea. Va da sé che il quotidiano dimostra non solo di avere scarsa memoria storica, ma di giocare ancora una volta per luoghi comuni privi di verità. E, per quello che si professa (o almeno dovrebbe) come un quotidiano che fa informazione, non c’è cosa peggiore di “informare” i propri lettori se non attraverso i soliti pregiudizi senza fondamento, se non quello razzista.
Della serie: come godono i barbari padani delle disgrazie del sud Italia.
Libero, il titolo della vergogna: “A Napoli si bruciano da soli, non è colpa dello Stato”, scrive il 13 luglio 2017 Federica Barbi su "Vesuvio live". Non è una novità, ormai, penseranno in tanti. Ma ogni volta la sensazione è la stessa: vergogna. La vergogna che proviamo è quella di trovarci in un Paese in cui ci si accorge che metà Sud sta bruciando solo dopo giorni in cui il fuoco ha distrutto chilometri e chilometri di macchia mediterranea. La vergogna è constatare che quelli che dovrebbero essere strumenti mediatici in grado di informare e anche di avvicinare le persone, non fanno altro che fomentare attriti e odio, gettando altra benzina su fiamme già incontrollabili. Oggi il quotidiano Libero ha titolato così in prima pagina: “A Napoli si bruciano da soli”. Nel catenaccio del pezzo si legge: “Piromani inceneriscono 100 ettari di bosco per boicottare il nuovo Parco Nazionale del Vesuvio e salvare migliaia di case abusive da abbattere. Il sindaco si straccia le vesti ma non fa nulla per i criminali. Intanto i turisti fuggono”. Ciliegina sulla torta, l’occhiello: “Altro che incolpare lo Stato assente”. Che dietro tutta questa drammatica vicenda ci sia la criminalità organizzata, è chiaro e palese. Che servano maggiori controlli, maggiori pene, maggiore attenzione su tutto ciò che può diventare lucro per la camorra, non lo scopre certamente Libero. Non ci sembra giusto, però, speculare in copertina su una vera e propria tragedia naturale, che ha colpito flora, fauna e anche la quotidianità di chi vive in prossimità del vulcano, avvolto da un fumo nero che ha raggiunto praticamente tutte le città del vesuviano (e di certo non solo le case abusive citate nell’articolo). Ancora una volta tanti cittadini onesti scontano pene altrui, ma questo poco importa a chi deve, sempre, incessantemente, fare politica con le disgrazie e accentuare le crepe che almeno nella solidarietà potrebbero trovare un equilibrio. Siamo i primi ad esigere la verità, i primi a provare rabbia e impotenza di fronte a un cancro che mangia la nostra terra, ma questo titolo, caro Libero, ci fa sentire ancora più soli. Terribilmente soli.
Il Vesuvio e la scarsa stima di Vittorio Feltri per i (pochi) lettori di Libero, scrive il 13 luglio 2017 "Il Napolista". Perdonateci, non riusciamo a prendere sul serio questa prima pagina che ci intristisce soltanto. La pernacchia eduardiana sarebbe troppo onore. Quando la redazione è a corto di idee. A Libero, quando sono a corto di notizie e di idee, inseriscono il pilota automatico che può scegliere due strade: un titolo con riferimenti sessuali, preferibilmente discriminatorio nei confronti delle donne oppure omofobo, oppure un’intemerata contro Napoli. Vai così che non ti sbagli mai. Certo anche Vittorio Feltri deve fare i conti con l’emorragia di copie. Il suo Libero ormai ne venderà qualcuna nei famosi Territori, sempre poca roba. Ieri, evidentemente, è stata una giornata fiacca per i cronisti di Libero. E allora cosa c’è di meglio per un titolo e un paio di articoli insultanti nei confronti dei napoletani per il Vesuvio che brucia? Feltri ha scritto un articolo tra l’imbarazzante e il ridicolo. Il titolo è tutto un programma: “Si bruciano da soli” e poi c’è un lungo passaggio che francamente non immaginavano potesse avere più cittadinanza su un quotidiano italiano, sia pure Libero. Ecco cosa scrive Feltri in un ampio passaggio che Lombroso avrebbe giudicato eccessivo: Non c’entra l’antropologia, bensì la sociologia. La gente del Mezzogiorno è più portata a collaborare con i delinquenti, temuti e venerati, che non con le Forze dell’ordine, poco rispettate. Infatti i meridionali che vivono a Milano sono diventati più milanesi dei milanesi, si sono perfetta- mente inseriti e sono i primi a comportarsi osservando le regole. Parecchi di quelli rimasti in Terronia, invece, influenzati dalla comunità storta in cui campano, ne adottano le cattive abitudini e sono guai. I peggiori di essi sono addirittura piromani e danneggiano i compaesani. Avranno la loro bella convenienza. E allora è inutile e ridicolo che il sindaco di Napoli quereli Libero perchè analizza i costumi partenopei senza ipocrisia, focalizzandone i difetti maggiori. Qui non c’entra il razzismo e altre simili stupidaggini. Si tratta soltanto di prendere atto di ciò che è sotto gli occhi di chiunque ne abbia due aperti. Il disastro del Vesuvio, dove non è sorto un edificio che non sia abusivo (complimenti alle amministrazioni cieche), non è stato provocato da calamità naturali: i napoletani – non tutti per carità – si sono bruciati da sé. Si guardi- no allo specchio e sputino. Non sbagliano bersaglio. Non riusciamo nemmeno a indignarci. Ci si può indignare, si può chiedere all’Ordine dei giornalisti della Campania di far sentire la propria voce. Ma ci si può anche imbarazzare per Feltri e soprattutto per l’idea che ha dei propri lettori. Dev’essere triste dirigere un giornale pensando di dover abbeverare persone che condividono questi pensieri. Non riusciamo a prendere sul serio Libero, non è possibile nemmeno indignarsi. Con queste poche righe abbiamo versato il nostro obolo alla celebrità quotidiana di Vittorio Feltri. Di più non siamo riusciti a fare. L’eduardiana pernacchia sarebbe francamente troppo onore.
COLPA DELLO STATO? A Napoli si bruciano da soli. Vesuvio, spuntano le foto: la prova definitiva. Vesuvio in fiamme, le foto dall'altro che dimostrano come i roghi siano studiati scientificamente, scrive il 13 Luglio 2017 "Libero Quotidiano". Da tre giorni ormai il Vesuvio è in fiamme, e ora al Parco nazionale sono al lavoro anche gli uomini dell'esercito che hanno già individuato un nuovo focolaio in una zona boschiva a ridosso di San Sebastiano. Sul posto sono impegnati al momento tre canadair e diversi elicotteri per provare tutti gli incendi ancora attivi. Una situazione gravissima ma non casuale. "Ci troviamo di fronte a una organizzazione criminale complessa e ben organizzata, queste due foto fatte dall'alto dai corpi speciali dimostrano come nel caso degli incendi del Parco del Vesuvio sia stato fatto un lavoro scientifico che richiede impegno e coordinamento di non poche persone", denuncia sul suo profilo Facebook Massimiliano Manfredi del Pd. Gli inneschi, spiega, "vengono messi agli estremi e nel mezzo di questo arco virtuale al centro di cui c'è il Parco del Vesuvio. Questo vuol dire che per spegnere il fuoco bisogna raggiungere i due estremi dall'esterno che stanno agli antipodi, il centro impedisce il collegamento e a sua volta deve essere aggredito da destra e sinistra. Che vuol dire? Che servono almeno il doppio, se non il triplo, di mezzi e uomini e il doppio del tempo, dando la possibilità a chi si trova dal lato opposto di continuare ad appiccare fuoco perché nel frattempo brucia la Campania e mezzo Paese e non solo il Parco. Più tempo passa e poi si può alzare vento. Qualcuno crede ancora all'autocombustione dopo queste foto?".
Può ritenersi attendibile ed intelligente un tal commentatore barbaro padano, (anche televisivo su tv nazionali ed elevato, addirittura, al rango di direttore di quotidiano) che spara certe idiozie, tutta farina del suo sacco fondata su pregiudizi e luoghi comuni razzisti?
"Guardatevi allo specchio e poi sputatevi": Vittorio Feltri il 13 Luglio 2017 su "Libero Quotidiano", lo schiaffo a (certi) napoletani. Il Vesuvio è in fiamme. Chi ha appiccato il fuoco? Persone del posto, ovviamente, criminali che nessuno ha ostacolato e dei quali non si scoprirà mai l'identità per un motivo banale: essi agiscono grazie a una rete di complici che pascolano nella malavita locale, attiva più che mai, e sono al servizio di boss potenti. Lo stesso fenomeno si registra in Sicilia dove non c' è verso di scoprire né gli autori materiali degli incendi né i loro mandanti, i quali non agiscono a capocchia, ma sono mossi da loschi interessi. Di fronte al fuoco che si propaga a grande velocità e su vasti territori, la maggior parte dei cittadini punta il dito accusatore sullo Stato, dice che l'autorità è inesistente, assente. Non c' è anima che si chieda cosa facciano le migliaia di guardie forestali, pagate dalla pubblica amministrazione, per sorvegliare le zone loro affidate ed evitare che siano incenerite. Il sospetto, anzi la certezza, è che si grattino il ventre e non svolgano neanche distrattamente i compiti loro assegnati in cambio di una buona retribuzione. Secondo la vulgata meridionale la colpa di ogni sfacelo è sempre del mitico Stato, quasi che questo fosse una divinità demiurgica. In realtà lo Stato che manifesta le proprie forze, o debolezze, a Napoli o a Palermo, è lo stesso presente a Pordenone e a Conegliano Veneto, per altro incarnato prevalentemente da funzionari del Mezzogiorno emigrati per questioni alimentari, i quali se al Nord sono efficienti significa che non sono stupidi e indolenti. Se sono bravi quassù perché laggiù sono asini? Evidentemente il problema nasce dal condizionamento ambientale. Non c' entra l'antropologia, bensì la sociologia. La gente del Mezzogiorno è più portata a collaborare con i delinquenti, temuti e venerati, che non con le Forze dell'ordine, poco rispettate. Infatti i meridionali che vivono a Milano sono diventati più milanesi dei milanesi, si sono perfettamente inseriti e sono i primi a comportarsi osservando le regole. Parecchi di quelli rimasti in Terronia, invece, influenzati dalla comunità storta in cui campano, ne adottano le cattive abitudini e sono guai. I peggiori di essi sono addirittura piromani e danneggiano i compaesani. Avranno la loro bella convenienza. E allora è inutile e ridicolo che il sindaco di Napoli quereli Libero perché analizza i costumi partenopei senza ipocrisia, focalizzandone i difetti maggiori. Qui non c' entra il razzismo e altre simili stupidaggini. Si tratta soltanto di prendere atto di ciò che è sotto gli occhi di chiunque ne abbia due aperti. Il disastro del Vesuvio, dove non è sorto un edificio che non sia abusivo (complimenti alle amministrazioni cieche), non é stato provocato da calamità naturali: i napoletani - non tutti per carità - si sono bruciati da sé. Si guardino allo specchio e sputino. Non sbagliano bersaglio. Vittorio Feltri.
Feltri contro i meridionali: Vittorio Feltri 12 Novembre 2017 su "Libero Quotidiano": "Calabria e Meridione, il problema non è l'indole dei terroni. Ma..." I dati sono dati e non si discutono. A Bergamo, Brescia e Verona la disoccupazione non c’è, come ha scritto Paola Tommasi ieri su Libero. Queste città e queste province sono sgobbone e non lo scopriamo oggi, è un fatto straordinario che ha ragioni storiche. Parlo di Bergamo dove sono nato. Conosco la mia gente scorbutica e infaticabile. La quale è diventata così sotto la Serenissima. I carpentieri che hanno rifinito Venezia erano miei conterranei. Lavoravano per il Doge e vivevano a Padova (dove la vita costava meno), patria della commedia dell’arte. Arlecchino è nativo della Valbrembana, e Brighella era un suo conterraneo. Da quel tempo a oggi è passata molta acqua sotto i ponti del Serio e del Brembo, due fiumi che hanno propiziato le fortune orobiche. Dove c’è acqua corrente c’è energia, dove c’è energia si è sviluppata l’industria. A Bergamo il maggior contributo alla produttività fu portato dagli svizzeri dai quali imparammo il tessile. Due nomi per tutti: Legler e Honegger. Famiglie che oltre all’operosità ci hanno insegnato a stare al mondo. I bergamaschi hanno assimilato così la cultura del lavoro i cui frutti sono stati e sono copiosi. Costoro hanno grandi meriti e non li posso negare. Ma aggiungo che sono stati fortunati ad avere certi maestri. Oggi la mia città e la mia provincia sono fiori, borghi lindi e servizi eccellenti, montagne e colline ospitali e opulente. Non si diventa ricchi per caso. Mai conosciuto un ricco cretino o lazzarone. Ma attenzione. È l’ambiente che fa gli uomini e non viceversa. Sono le infrastrutture il propellente dell’economia. Esemplifico. La prima autostrada italiana è stata la Torino-Milano-Bergamo-Brescia che non fu realizzata per consentire alle auto di correre, bensì per far decollare gli affari. Gli orobici hanno sconfitto la miseria perché sono tignosi e duri quali rocce, ma non solo per questo: la sorte li ha aiutati. Sono diventati ciò che sono in quanto agevolati da varie circostanze favorevoli, non ultima la vicinanza a Milano, fucina inesauribile di iniziative imprenditoriali. Non la tiro per le lunghe. Paragonare le Orobie all’Aspromonte è un servizio stupido. La Calabria somiglia al Medioriente, meglio, alla Grecia. L’unità d’Italia le ha regalato il brigantaggio cui si sono dedicati poveracci piegati alla leva obbligatoria che ha ammaccato l’agricoltura locale. Lo Stato unitario non ha spinto lo sviluppo della regione, non ha dato strade e ferrovie, nessuna infrastruttura indispensabile per lo sviluppo. A Reggio sono arrivati soldi a pioggia, finiti nelle tasche dei boss, ma neanche un progetto. Il popolo o campa di espedienti o non campa. Chi ignora questa realtà non può capire il disagio ionico, lo giudica superficialmente e lo attribuisce a questioni antropologiche mentre, ripeto, è il tessuto sociale che influisce sui caratteri individuali. Insomma il problema non è l’indole dei terroni, bensì la condizione a cui essi sono stati condannati da una politica affidata a personaggi acefali, incapaci di gestire il presente e di immaginare il futuro. Segnalo che a Milano e dintorni risiedono 300 mila calabresi perfettamente integrati e indistinguibili dagli indigeni. Perché? L’ambiente li ha raddrizzati e resi idonei ai costumi nostrani. Il resto è chiacchiera che alimenta soltanto stupidi pregiudizi. Vittorio Feltri
Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 16 marzo 2017: Da oltre mezzo secolo ascolto discorsi e leggo articoli che auspicano la crescita del Mezzogiorno. I politici meridionali in particolare predicano in continuazione che è necessario investire al Sud per migliorare le condizioni generali del Paese. Belle parole, ma soltanto parole. Fatti concreti se ne sono visti pochi, se si escludono vari foraggiamenti a pioggia distribuiti nelle regioni più disastrate dello Stivale, denaro non utilizzato poi per creare infrastrutture, bensì per arricchire mafie e oligarchie. Cosicché il divario tra il ricco Nord e il resto della penisola non è mai stato colmato. E oggi siamo ancora qui a blaterare sul modo per aiutare i terroni (senza offesa) a essere un po' meno terroni. I soliti pistolotti vacui, la solita retorica inconcludente. Risultato, la spaccatura tra le due Italie è sempre più profonda. Quando si dice che la politica è incapace di fare progetti e di realizzarli ci si attiene al realismo più crudo. Oltretutto, le cose non migliorano neanche per forza di inerzia, ma peggiorano. Per risollevare la Calabria e la Sicilia, prima Berlusconi e dopo Renzi si erano messi in testa di costruire il ponte sullo stretto di Messina. Una idea del cavolo ma comunque un'idea. Ovviamente abortita per motivi che è inutile elencare tutti, basta citarne uno: mancavano i soldi. Ci domandiamo come immaginassero, sia Silvio sia Matteo, di trovare il grano necessario per legare col cemento l'isola alla penisola. Mistero. Sorvoliamo sulle velleità infantili dei due ex premier e veniamo alla più stringente attualità. I deficienti che amministrano la nostra vituperata nazione, per dare una mano ai fratelli calabresi hanno deciso di chiudere l'Aeroporto di Reggio. Perché non rende alle compagnie che gestiscono i voli, che pertanto si rifiutano di seguitare a decollare e ad atterrare nel suddetto scalo. Da giugno in poi i reggini che desidereranno venire a Milano e poi tornare nella loro città saranno costretti a usare mezzi diversi dal jet: il treno (non quello ad alta velocità che laggiù non c'è), l'automobile o la carrozza di San Francesco, cioè i sandali. Vi rendete conto, cari lettori, che avanti di questo passo il Mezzogiorno precipiterà a livelli africani? Vi pare una mossa intelligente sopprimere l'aeroporto nel capoluogo di una regione che non dispone di altre infrastrutture, visto che l'autostrada è un sentiero accidentato e la ferrovia è ottocentesca? Dato che il ponte tra Scilla e Cariddi non si può erigere, per compensare il buco togliamo anche l'aerostazione e che i reggini vadano a fare in culo, loro, la 'Ndrangheta e la 'nduja. Il ragionamento cretino prosegue. La Calabria ha una sola risorsa importante, il turismo, e noi ci attrezziamo per ucciderlo abbattendo gli aerei perché costano di più di quanto ricavano. Ecco come i nostri meridionalisti del piffero intendono incrementare l'economia del Sud. Non sanno poveri idioti che i trasporti sono un servizio oneroso, questo è pacifico, ma indispensabile per creare giri di affari e quindi ricchezza. Hanno condannato a morte la regione e ne piangono la salma. Sono scemi o delinquenti? Entrambe le cose. Ai calabresi tocca soltanto l'incombenza di ospitare e assistere profughi portatori di miseria, malattie e problemi sociali. E ci stupiamo che essi preferiscano la mafia allo Stato.
Vittorio Feltri 3 Febbraio 2018 su "Libero Quotidiano": "Luigi Di Maio vincerà al sud. Vi spiego perchè". La politica si è intorcinata. Destra, sinistra e grillini si sono già spartiti il territorio elettorale e nessuno dei tre gruppi avrà la maggioranza, cosicché difficilmente avremo un governo che non sia frutto di alleanze improbabili. Ma non è questo il punto. Tutti sappiamo che nel nostro futuro si profila una cronica instabilità, come del resto accade in vari Paesi europei dove mancano partiti egemonici. Il Nord e il Centro voteranno secondo tradizione. Il primo sarà orientato a dare la preferenza alla Lega e in parte cospicua a Berlusconi, il secondo penderà a sinistra nelle sue varie declinazioni. Mentre il Sud, cronicamente in bolletta, affiderà le proprie speranze al Movimento 5 Stelle, per un motivo banale: il reddito di cittadinanza che i grillini si sono inventati, a prescindere dalle risorse per garantirlo (i soldi pubblici non ci sono). La promessa di Di Maio e dei suoi scherani di stipendiare mensilmente gli sfigati privi di una occupazione ha sedotto i meridionali. I quali, dal loro punto di vista, giustamente sono contenti di poter ricevere del denaro senza lavorare. Sarebbero cretini a non esserlo. Non sono sicuri che i pentastellati saranno di parola e riusciranno a retribuire i nullafacenti, però essi si illudono lo stesso di intascare in massa l'obolo. Pertanto è naturale che preferiscano dare il loro suffragio a chi dice loro: tranquilli, ragazzi, se comanderemo noi vi riempiremo di bigliettoni, piuttosto che ad altre forze politiche abituate ad aumentare le tasse a tutti senza preoccuparsi di mantenere i terroni esclusi dalla paga. Ecco perché il Movimento fondato, e abbandonato, dal comico genovese non faticherà ad avvicinarsi o addirittura a superare il 30 per cento delle schede contenute nelle urne. Il Mezzogiorno è costituito da regioni perennemente povere nelle quali, all' infuori dell'impiego statale, non esistono molte opportunità di lavoro. Le industrie sono poche né hanno lo spazio per moltiplicarsi a causa della mancanza di infrastrutture. La depressione è endemica. Quindi partenopei, pugliesi, calabresi eccetera hanno bisogno di essere soccorsi dallo Stato per campare. Se arriva un Di Maio da Napoli, affamato pure lui, e giura di elargire, una volta al potere, quattrini a poveracci e lazzaroni di ogni specie da qui all' eternità, è fatale sia accolto quale salvatore della Patria e della pancia, e portato in trionfo. Il Movimento 5 Stelle ha fallito ovunque abbia comandato, ma questo non incide nel giudizio popolare del Sud, che aspetta soltanto di essere finanziato e se ne fotte della buona amministrazione. Ai tempi di Lauro, sotto il Vesuvio accaddero cose turche: l'armatore dava una scarpa a ciascun elettore, al quale consegnava la seconda a spoglio delle schede avvenuto, se i conti quadravano. Non è cambiato molto da Roma in giù. Sono però cresciute le aspettative: non bastano più le calzature, si pretende il reddito di cittadinanza, cioè una sorta di pensione a vita per chiunque si gratti il ventre, come tutti i grillini finiti già in Parlamento. In effetti, lavorare stanca e rompe i coglioni. Vittorio Feltri
AL SUD VOGLIONO IL REDDITO DI CITTADINANZA PERCHÉ SONO SFIGATI POVERACCI NULLAFACENTI CHE SI GRATTANO IL VENTRE. QUESTO QUELLO PENSA, E LO SCRIVE SU LIBERO, VITTORIO FELTRI, scrive il 6 febbraio 2018 su Unionemediterranea.info Massimo Mastruzzo, Portavoce Nazionale di MO Unione Mediterranea. Una delle poche note positive dell’età che avanza è la contemporanea saggezza che con lo scorrere degli anni si acquisisce o meglio si dovrebbe acquisire. Ci sono delle eccezioni dove la saggezza appare inversamente proporzionale al numero degli anni, decrescendo mano a mano che questi aumentano, un esempio eclatante è quello di un anziano signore di Bergamo, tal Vittorio Feltri, che probabilmente ignaro di questa sua simil-demenza senile si sente “Libero” di scrivere su un “Quotidiano” di dubbia qualità che nel sud Italia chi non trova lavoro non è un comune disoccupato ma uno sfigato, poveraccio e lazzarone. Secondo costui i corregionali del governatore De Luca, del governatore Pittella, del governatore Emiliano, del governatore Olivierio e del Presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella alle prossime elezioni politiche del 4 marzo saranno orientati a votare il Movimento 5 stelle perché sedotti dalla possibilità di ricevere, grazie alla loro proposta elettorale del reddito di cittadinanza, denaro senza lavorare, e che per la loro naturale indole di nullafacenti accoglieranno, Di Maio, Napoletano e affamato pure lui, quale Salvatore della Patria e della pancia, preferendo un illusorio intascamento in massa dell’obolo, al rischio che le altre forze politiche alzino le tasse per mantenerli. Questi Terroni, sempre secondo il parere dell’anziano bergamasco, dopotutto sono stati abituati dal “laurismo” a grattarsi il ventre piuttosto che a rompersi i coglioni lavorando. A questo punto noi non sappiamo se il più asservito dei pennivendoli italiani, vero e proprio insulto vivente al concetto di Giornalismo, che scrive nelle pause fra una salamelecco ed un inchino ai propri padroni, sia realmente intaccato da qualche sintomo di demenza senile e questo si traduca spesso in isteriche arringhe destituite di ogni fondamento razionale o documentale, ma se esiste una pena per diffamazione della dignità del popolo meridionale, mi aspetto che i governatori delle Regioni del sud reagiscano a questo insulto dei loro cittadini e che Sergio Mattarella, se pensa di essere Presidente anche del popolo meridionale, ponga un freno a questo continuo insulto perpetrato ai danni dei meridionali, definiti ancora oggi con estrema leggerezza “Terroni”. Noi di MO Unione Mediterranea non accetteremo più nessun insulto razzista di marca Feltriana.
FELTRI: ANCHE GLI “DEI” PRENDONO CANTONATE, scrive Cristofaro Sola il l'8 febbraio 2018 su "L'Opinione". Lo scorso 3 febbraio il quotidiano “Libero” ha pubblicato on-line un editoriale di Vittorio Feltri dal titolo: “Soldi che non ci sono a tutti i lazzaroni: M5S al Sud vincerà”. A proposito del voto del 4 marzo, il “Maestro” lancia un pronostico alquanto bizzarro: la vittoria dei Cinque Stelle nelle regioni del Sud grazie al voto a valanga degli sfigati che popolano le remote lande del Mezzogiorno d’Italia. La ricetta magica che spingerebbe alle urne masse di nullafacenti sarebbe: reddito di cittadinanza. Per dei perdigiorno intenti a grattarsi il ventre come unico sforzo quotidiano, cosa desiderare di meglio che sostenere un politico, Luigi Di Maio, fatto della loro medesima pasta? “...partenopei, pugliesi, calabresi eccetera hanno bisogno di essere soccorsi dallo Stato per campare. Se arriva un Di Maio da Napoli, affamato pure lui, e giura di elargire, una volta al potere, quattrini a poveracci e lazzaroni di ogni specie da qui all’eternità, è fatale sia accolto quale salvatore della Patria e della pancia, e portato in trionfo”. Vittorio Feltri, indiscusso pilastro del giornalismo, ha preso una colossale svista imboccando, nel suo argomentare, la strada scivolosa del più frusto “luogocomunismo” su ipotetiche, ancestrali idiosincrasie dei meridionali per il lavoro. Il ritratto del Sud che viene fuori dal pennello di Feltri non esiste, è solo una caricatura di moda tra la gente di spettacolo. Non c’è un popolo di “fancazzisti” dedito all’ozio. I tempi di lavoro al Sud, nella media, sono come quelli del Nord. Il guaio è che una parte significativa della massa occupata è costituita da invisibili. Cioè da lavoratori irregolari che alimentano una coriacea economia del sommerso. Non è questa la sede per indagare le ragioni del fenomeno che interroga molteplici aspetti: economico, sociale, storico. Finanche filosofico. Resta il fatto che i numeri del lavoro “nero” sono da brividi. L’Istat ritiene che il “sommerso” rappresenti un asset strategico dell’economia nazionale. Sul dato del 2015 l’Istituto di statistica ha stimato un valore del sommerso pari al 12,6 per cento del Pil, la maggior parte del quale si produce nelle regioni meridionali. Un recentissimo focus del Censis, redatto in collaborazione con Confcooperative, dal titolo: “Negato, Irregolare, Sommerso: il lato oscuro del lavoro”, rileva che il fenomeno del “sommerso”, articolato nelle due principali componenti della sotto-dichiarazione del valore aggiunto e dell’impiego di lavoro irregolare, assuma nelle regioni meridionali un carattere strutturale andando a incidere sul valore aggiunto territoriale con percentuali molto significative. Sempre in riferimento al 2015, Calabria, Campania, Puglia, Molise, Sicilia hanno superato la soglia d’allarme del 15 per cento. Per chiarire la comparazione: la più alta in graduatoria è la Calabria al 17,5 per cento; la più bassa la provincia autonoma di Bolzano all’8,3 per cento. È del tutto evidente che questi dati spieghino del perché i numeri sul tasso effettivo di disoccupazione in Italia siano inattendibili. Il livello massimo di disoccupazione registrato nel Mezzogiorno (54,1%), nel 2015, si rapporta al solo lavoro regolare. D’altro canto, sarebbe mai immaginabile una tenuta della coesione sociale in un territorio nel quale metà dei potenziali attivi censiti stiano a bighellonare tutto il giorno senza produrre reddito di qualsiasi natura? Se non per il nobile ideale dell’emancipazione dalla miseria le ribellioni sarebbero scoppiate da un pezzo anche soltanto per tedio. La verità è che esiste un esercito d’invisibili, sfruttati ogni oltre decenza. Gente che lavora per 10/12 ore al giorno nelle “fabbrichette”, occultate nei sottoscala dei palazzi, per una paga da fame. Senza diritti e senza protezioni. I nuovi schiavi fanno di tutto e lo sanno fare molto bene. Dall’abbigliamento, all’agroalimentare, alle manifatture artigianali, non ci sono soltanto africani e cinesi, ma anche meridionali trattati da africani e cinesi. E poi c’è la piaga della criminalità organizzata, l’antistato che dà lavoro e protezione. Ciò non vuol dire che tutti i reclutati finiscano nei circuiti della droga e del racket. Nel Meridione le organizzazioni malavitose assicurano anche l’ingresso nel mercato dei lavori legali, dal momento che esse, da tempo, hanno esteso la sfera d’influenza sulla cosiddetta economia regolare. E se qualcuno pensa che un povero cristo possa avere la forza di fare valere i propri diritti in imprese inserite in quel circuito s’illude. Su di una cosa però il Maestro ha ragione: nel Sud non si è persa la vocazione al posto fisso nel “pubblico”. Tuttavia, non si tratta, come sospetta Feltri, di velleitaria aspirazione al dolce-far-niente, ma della naturale ambizione a percepire retribuzioni dignitose e regolarmente pagate, a godere di diritti previdenziali e ad avere un futuro assicurato. Il Maestro, a questo riguardo, resterà sorpreso dagli esiti elettorali. I campioni che promettono assistenzialismo à gogo più dei Cinque Stelle sono i vertici locali del Partito Democratico. E quelli non scherzano. Il 12 novembre 2016, all’Assemblea nazionale del Pd sul Mezzogiorno, il governatore campano Vincenzo De Luca ha annunciato un piano straordinario di assunzioni nella Pubblica amministrazione per 200mila giovani, caratterizzato da un meccanismo scalare delle retribuzioni per i nuovi assunti nell’arco di un triennio. Perciò, nelle regioni meridionali più disastrate non saranno i grillini a fare il pieno di scanni parlamentari ma i sodali di Matteo Renzi. E anche quel centrodestra del Sud che non sempre ha avuto idee chiarissime sulla lotta al clientelismo.
Feltri contro gli islamici: Libero e Bastardi islamici, ecco cosa pensa Vittorio Feltri, scrive “Libero Quotidiano” il 19 novembre 2015. Nel lungo elenco di persone dotate di razionalità e onestà intellettuale che hanno difeso la scelta di Libero del titolo "Bastardi islamici" va doverosamente aggiunto il fondatore di questo quotidiano, Vittorio Feltri, che a Un giorno da pecora su Raidue ha prima ironizzato: "E come vogliamo chiamarli, discoli o birichini? Non credo sia esagerato definire bastardi i terroristi che hanno compiuto una strage come quella di Parigi". Poi Feltri ha spiegato: "Bisogna leggere oltre il significato delle parole: bastardi è un termine che si riferiva a tutti i terroristi, non a tutti gli islamici. Il titolo - ha aggiunto - si riferiva al fatto che i terroristi che hanno colpito in Francia non sono dei frati trappisti o degli scout, ma degli islamici". Feltri risponde anche alla provocazione della conduttrice Geppi Cucciari, quando chiede se in caso di attentati terroristi compiuti da italiani bisognerebbe fare un titolo "Bastardi cristiani". Feltri dice: "Se ci fossero dei terroristi cristiani che vanno in un Paese a compiere degli attentati, perché non definirli cristiani? Se lo facessero si potrebbe fare, ma non lo fanno, quindi non possiamo definire i cristiani terroristi. Mentre quelli a Parigi, guarda caso, sono islamici o islamisti".
Islam, culo e bavaglio, Feltri difende Facci: perché ha il diritto di critica, scrive il 17 Giugno 2017 "Libero Quotidiano". Il nostro eccellente Filippo Facci, editorialista di vaglia, è stato «condannato» a due mesi di disoccupazione per aver pubblicato un articolo nel quale egli manifestava odio e disprezzo nei confronti dell'islam in genere. La dura sentenza non è stata emessa da un tribunale della Repubblica bensì dall' Ordine lombardo dei giornalisti, ente legittimato a punire gli iscritti anche se si limitano a usare un linguaggio considerato dai giudici (improvvisati) volgare e offensivo. Il che è arbitrario. Secondo i colleghi al vertice dell'Albo, Facci merita di essere sospeso dalla professione (chiamiamolo correttamente lavoro) non solo perché detesta i precetti del Corano, ma pure perché la sua prosa cruda non è gradita alla categoria, la quale si ispira al più vieto conformismo e, pertanto, respinge il lessico che contrasti col cosiddetto politicamente corretto. Ormai l'Ordine, pur di adeguarsi alla moda progressista, invece di badare alla correttezza dell'informazione, si preoccupa di imporre agli scribi i propri canoni estetici, per altro discutibili. In sostanza fa la guerra alle parole e ne trascura il significato. Inoltre entra nel merito delle opinioni e se non condivide quelle di un collega le boccia e le sanziona in barba alla Costituzione che, in teoria, le ammette tutte, salvo quelle del fascismo, la cui apologia è proibita. Filippo nel suo pezzo critica ferocemente la religione musulmana (e non solo questa) e coloro che la praticano. Ha ragione o torto? Non importa. Bisogna riconoscere che è un suo diritto non essere d'accordo con gli adoratori di Allah. D' altronde nessuno ha mai impedito agli anticlericali occidentali, italiani in particolare, di essere ostili al cattolicesimo, al cristianesimo. Si è mai visto un cronista perseguito dall' ordine in quanto auspica la sparizione dei preti? Non c' è quindi ragione di prendersela con Facci perché non tollera gli islamici, i cui costumi sono antitetici rispetto ai nostri. Gli si rimprovera di aver fatto ricorso a termini quali «culo» e «merda». Ma ciascuno ha il proprio vocabolario, bello o brutto che sia. Non c' è motivo di censurarlo. Il culo è una realtà che accomuna l'intero mondo animale, quindi anche umano. È il terminale dell'intestino. È obbligatorio ignorarlo? Quanto alla merda, sfido la corporazione a dimostrare con argomenti scientifici che è una invenzione di Filippo tesa a diffamare chi non sopporta la parità tra maschi e femmine e combatte la democrazia in favore dello Stato etico, da noi superato da secoli. Se la merda c' è, e le cloache ne sono piene, non si comprende per quale motivo sia innominabile. Non si cambia la società, amici redattori, ignorando la semantica e confinando all' indice certi sostantivi e certi aggettivi. Tra l'altro non è compito dei giornalisti migliorare ciò che avviene sulla terra; al massimo siamo attrezzati per descriverlo. Cosa che Facci fa egregiamente, e forse per questo gli tappano la bocca senza neppure provare imbarazzo. La libertà è un bene prezioso per tutti tranne che per i soloni dell'Albo, i quali, non riuscendo a beneficiarne (per convenienza?), pretendono di negarla a noi, sono persuasi sia un lusso inaccessibile per gente disinibita come Filippo. Vittorio Feltri
Feltri contro gli immigrati: Migranti, Vittorio Feltri: “Africani? Non li considero inferiori, ma non hanno cultura del lavoro e vivono nella merda”, scrive Gisella Ruccia l'8 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Bagarre a La Zanzara (Radio24) tra il direttore editoriale di Libero, Vittorio Feltri, e uno dei conduttori, David Parenzo, sulla vicenda della bimba morta per malaria. Feltri difende strenuamente il discusso titolo pubblicato sul quotidiano (“Dopo la miseria, portano le malattie”): “E’ un titolo fattuale, riflette la realtà. Lo condivido ovviamente, anche se il direttore responsabile è Pietro Senaldi. Parenzo dice che non c’è connessione tra la morte della bimba e le due bambine del Burkina Faso? Non so chi lo autorizzi a dare questa interpretazione, perché tutto concorre invece ad affermare che quello che noi abbiamo scritto è esattamente la realtà”. Poi protesta per le interruzioni del conduttore: “Io vorrei parlare, non ho tutta questa foga di sinistra di Parenzo. Semplicemente racconto i fatti. Mica siamo impazziti noi di Libero e facciamo dei titoli inventati e campati per aria. Il problema non è solo la malaria: è un dato di fatto che gli immigrati portino qui la miseria e anche la tubercolosi. Quindi, con questa immigrazione incontrollata c’è l’importazione di malattie che erano state sconfitte definitivamente. Pertanto, sostenere che gli immigrati portano le malattie significa dire la verità. Quella verità che l’ipocrisia di sinistra e non solo della sinistra cerca di coprire. Chi critica il nostro titolo o è in malafede o è un cretino”. Il direttore di Libero perde le staffe con Parenzo: “Se un insetto punge me che sono malato di malaria e poi punge mio cugino, è chiaro che non sono stato io a trasmettere la malaria, ma la zanzara. Però sono stato io il portatore del virus. Ma lo vuoi capire o no, ometto dell’ostia che non sei altro? Questo parla di immigrati senza averli mai visti, se non in fotografia. Tu non li hai mai visti, come non li ho mai visti io se non qualche volta per stradamentre ero nella mia bella berlina. Quindi, a me degli immigrati non me ne fotte un cazzo”. E aggiunge: “Non ce l’ho con gli immigrati, ma se raddoppia la TBC non posso dare colpa agli svizzeri o agli austriaci o ai tirolesi. Noi di Libero non insultiamo nessuno, ma registriamo la realtà e la raccontiamo per quella che è. Punto e basta. E Parenzo la smetta di insultare. Il vero razzista è lui. C’è qualcosa che non funziona nella sua testa”. Parenzo azzarda un’ipotesi: “Poniamo il caso che Senaldi faccia un viaggio in Africa e nella sua valigia finisca una zanzara. E quando torna, non possiamo mica dire che Senaldi ha portato la malaria in Italia”. “Se Senaldi si porta dietro le zanzare è un gran coglione” – ribatte Feltri – “E’ meglio che vada in Paesi più civili. Chi è quel coglione che va nel Burkina Faso? Io mi guardo bene dall’andare in Burkina Faso. Non vado neanche in Sicilia, figuratevi se vado in Burkina Faso. La verità è che qui arrivano 3mila africani al giorno e portano di tutto, anche le piattole. La scabbia, per caso, la portano gli svizzeri?”. A Cruciani che gli chiede se considera inferiori gli africani, Feltri risponde: “Ma che domanda è? Inferiori a che cosa? Gli africani sono africani, cioè persone che purtroppo hanno dimostrato di non avere una grande cultura del lavoro, tant’è che vivono nella merda”.
Elogio di Vittorio Feltri, il più grande uomo di spettacolo dell’Italia di oggi. Crozza faceva le imitazioni di Feltri? Sbagliato. È il direttore di Libero a imitare il comico che lo imita. Dalle battute scorrette ad Asia Argento fino ad arrivare ai migranti: Feltri è sincero, agnostico, unico, scrive Lady V il 13 Giugno 2018 su "L'Inkiesta". Peccato che Maurizio Crozza non sia più in onda. Perché oltre che sul neonato governo avrebbe molto materiale fresco su uno dei personaggi meglio riusciti nelle ultime stagioni: Vittorio Feltri. Anche se uno sguardo più attento constata che ormai è vero il contrario: la verità ha superato la fantasia, il vero Feltri è più Crozza di Crozza, perché in pratica è un Feltri che imita Crozza che imita Feltri. E ci gioca non poco. Chi lo conosce bene, nota infatti che dopo ogni pittoresca uscita – su donne, gay, immigrati, Boschi, sui nipoti fessi che fanno scienze della comunicazione – al direttore di Libero scappa un sorrisetto che fa tanto: “L’ho detta grossa pure ‘sta volta, bene bene”. “Ma a me cosa me ne frega degli immigrati? Ho 74 anni, abito nella villetta a Bergamo, a Milano sto in via Quadronno”, è la frase con cui Crozza inquadra sempre il suo bersaglio, ed è la summa del personaggio. Forse non a tutti arriva, ma Feltri (lui lui) è auto-ironico. Spiega che non sempre si identifica con le parodie del comico genovese, “ma questo mi diverte ancora di più”. “A un certo punto”, spiega, “ho capito che sono io a imitare Crozza. E non lui a imitare me”. “Anzi, a volte mi arrabbio perché certe battute avrei voluto farle io”. Appunto. L’ultima “feltrata” è un capolavoro. Alcuni giorni fa, con l’intento di difendere i gay dalle parole del ministro Fontana (“Le famiglie arcobaleno non esistono”), li ha chiamati “fr..i”. Con estrema nonchalance. “Penso che il Ministro Fontana sbagli, perché quella dei fro*i è una realtà e bisogna prenderne atto”, ha esordito in collegamento con Stasera Italia, la nuova trasmissione d’attualità di Rete4 condotta da Marcello Vinonuovo. Stefano Zecchi, che è suo amico, ha faticato non poco nel trattenere una risata (affettuosa). Chiara Geloni, in studio, voleva parlare ma Feltri con un “stai zitta” l’ha silenziata. “Ma sì, io li chiamo fr..i”, ha proseguito il direttore bergamasco, furibondo, “Posso chiamarli ricchi..i, posso chiamarli bus..i. Io non li chiamo gay perché io parlo in italiano e non in inglese!”. Cosa ne dice del termine “omosessuali”? “Omosessuali è un termine medico che io evito. Parlo il linguaggio della gente, quindi non rompetemi le palle anche sul linguaggio. Parlo come voglio! Io voglio che i fr..i facciano quello che vogliono, basta che non mi rompano i cogl..ni”. Un momento indimenticabile. È sincero: dai migranti ad Asia Argento, a lui non interessa mai veramente quello di cui parla. Feltri è un agnostico, non crede in Dio e non crede in nulla, le sue non sono battaglie, non fa crociate, non sposa nessuna tesi: “Ma facciano quello che vogliono: a me non me ne frega un ca..o dei fr..i”. Amen. I feticisti del “Feltri-pensiero” non perdono una puntata della trasmissione – facilmente recuperabile su YouTube – in cui Roberto Poletti lo interroga sui principali fatti della settimana. È qui che Crozza è andato ad attingere gli spunti della sua parodia, da “la Boschi mi fa sangue” a “per me la f..a è il vero patrimonio dell’umanità”. Qui parla di calcio, politica, anche di frivolezze. “Le Olgettine? Io penso che le sc…e di Berlusconi ci hanno anche rotto l’anima, anche se non sono in molti a disporre di un condominio pieno di mignotte, ho avuto anche dell’invidia”. “Il Royal Wedding? Queste cose caramellose mi infastidiscono, a me non frega proprio un bel niente. Una gran puttanata noiosissima”. Sui suoi giornalisti: “Io ne vorrei licenziare sette o otto qui a Libero ma non so come fare? Dovrei molestarli?”. Nella lunga notte elettorale, quando il direttore di Libero è apparso a Porta Porta, Twitter si è scatenato: “Ma cos’ha?”. “Ha bevuto?”. Uno schiaffo all’ipocrisia e al bon ton. Non stupisce, dunque, che Vittorio Feltri sia spesso interpellato da quel “garbato” programma dai toni pacati che è la Zanzara, condotto da Giuseppe Cruciani e David Parenzo su Radio 24. Tatticamente, gli telefonano all’ora dell’aperitivo. Non passò inosservata la sua frase sul raccapricciante stupro, da parte di un cittadino senegalese, di una clochard di 75 anni. “Ma come si fa? E’ un atto eroico”, disse. Che Feltri sia un uomo di spettacolo lo sappiamo da anni. Con lui ospite, lo show è assicurato, sempre che non si alzi prima perché qualcuno lo interrompe, cosa che gli sta più sulle scatole di Luigino Di Maio e del Gay Pride messi insieme. Un paio di anni fa, durante un collegamento con In Onda su La7, sbroccò: “Mi fate venire qui, in periferia, e non mi fate parlare. Cafoni”. E se ne andò. Indimenticabile la burla che gli fece Scherzi a parte nel 2003: fecero credere al direttore di Libero che nel numero in edicola quel giorno era uscito un suo editoriale in cui faceva una clamorosa retromarcia e si dichiarava comunista (il finto articolo – esilarante - era stato scritto da un complice Renato Farina, allora suo vicedirettore), inneggiando a Che Guevara e Asor Rosa. Apriti cielo. Nella vecchia redazione del giornale, nato da soli tre anni, telefonò un finto Nanni Moretti per invitarlo entusiasta a un girotondo; Mario Giordano, suo amico, lo chiamò basito per annunciare l’invio di una troupe di Studio Aperto; i suoi giornalisti lo impallinarono per l’improvviso cambio di linea editoriale; un attore – finto lettore arrabbiato – arrivò sotto la sede del giornale e lo minacciò. E lui? Ha mandato tutti a quel paese. Come sempre.
LEGGE MANCINO: ARMA IDEOLOGICA.
Fontana: "Via legge Mancino Razzismo è arma ideologica". Il ministro vuole abrogare la legge contro il fascismo: "Usata dai globalisti per accusare gli italiani di nefandezze", scrive Chiara Sarra, Venerdì 03/08/2018, su "Il Giornale". "Abroghiamo la legge Mancino". Dopo mesi di polemiche sul presunto "allarme razzismo" dovuto - secondo la sinistra - dalla politica anti migrazione del nuovo governo e in particolare di Matteo Salvini, il ministro Lorenzo Fontana punta il dito contro "globalisti e suoi schiavi" che usano la xenofobia come "arma ideologica" per accusare gli italiani. "I fatti degli ultimi giorni rendono sempre più chiaro come il razzismo sia diventato l’arma ideologica dei globalisti e dei suoi schiavi (alcuni giornalisti e commentatori mainstream, certi partiti) per puntare il dito contro il popolo italiano, accusarlo falsamente di ogni nefandezza, far sentire la maggioranza dei cittadini in colpa per il voto espresso e per l'intollerabile lontananza dalla retorica del pensiero unico", scrive il ministro della Famiglia e della Disabilità, "Una sottile e pericolosa arma ideologica studiata per orientare le opinioni". Fontana prende ad esempio il caso di Daisy Osakue, la discobola azzurra finita bersaglio di una "banda" di ragazzini che lanciavano uova e diventata per giorni simbolo della lotta al razzismo. "Tutte le prime pagine dei giornali, montando il caso ad arte, hanno puntato il dito contro la preoccupante ondata di razzismo, per scoprire, in una tragica parodia, che non ce n'era neanche l'ombra", dice Fontana, "Se c’è quindi un razzismo, oggi, è in primis quello utilizzato dal circuito mainstream contro gli italiani". Per il ministro l'obiettivo dei globalisti è quello di imporre il pensiero unico perché "un popolo che non la pensa tutto alla stessa maniera e che è consapevole e cosciente della propria identità e della propria storia fa paura, perché non è strumentalizzabile". La soluzione? abrogare la legge Mancino del 1993 che sanziona e condanna tutto ciò che è legato all'ideologia nazifascista. Ma, continua Fontana, "in questi anni strani si è trasformata in una sponda normativa usata dai globalisti per ammantare di antifascismo il loro razzismo anti-italiano. I burattinai della retorica del pensiero unico se ne facciano una ragione: il loro grande inganno è stato svelato". Parole che trovano il consenso di Matteo Salvini: "Alle idee, anche le più strane, si risponde con le idee, non con le manette", ha detto il ministro dell'Interno, che da tempo si batte per l'abrogazione della legge. Ma - come immaginabile - il post di Fontana ha scatenato la bufera. Insorge soprattutto la sinistra che parla di "complotto". Pd e Leu chiedono a Salvini di riferire subito in Parlamento per dire se è un'iniziativa personale o del governo.
La sinistra antifà contro Fontana: «È un governo sempre più nero», scrive Eugenio Battisti, venerdì 3 agosto 2018, su "Secolo d'Italia". Puntuale e scontato è partito il contrattacco della sgangherata macchina da guerra anti-fascista, “sinceramente democratica” e “pluralista”, (dem, Leu e grillini in prima fila), al ministro Lorenzo Fontana, colpevole di aver proposto la cancellazione della legge Mancino, un’arma ideologica, ha spiegato il titolare del ministero della Famiglia e delle disabilità, per demonizzare inesistenti pericoli fascisti e razzisti che finisce per punire la libertà di opinione degli italiani. Nell’orgia di scandalizzate denunce e di allarmi per la tenuta della democrazia spicca il commento elegante del senatore grillino Matteo Mantero che invita Fontana a «occuparsi dei disabili invece di sparare cazzate in giro».
La sinistra antifascista all’attacco di Fontana. Tra le prime repliche quella del senatore democratico Andrea Marcucci: «È un governo sempre più nero. Il ministro della famiglia (sic) Fontana ora propone di abolire la legge Mancino che vieta l’apologia di fascismo. La cosa grave è che non si tratta di un colpo di sole di un ministro un po’ strambo», scrive su Twitter. Ma la più facinorosa è la pattuglia di Liberi e Uguali pronta. Roberto Speranza arriva a chiedere la testa del ministro lanciando l’hastag #Fontanadimettiti: «L’Italia è una repubblica democratica antifascista e antirazzista. Chi non lo ricorda non è degno di fare il ministro», dice. «Il ministro Fontana con la proposta di abolire la legge Mancino ha svelato il progetto politico salviniano: sdoganare il neofascismo e saldare definitivamente la Lega con i movimenti e la cultura dell’estrema destra. Se questa proposta diventerà un atto del governo, sappiano M5S e Lega, che per impedire questo oltraggio alla nostra democrazia repubblicana e antifascista, questa volta sul tetto di Montecitorio ci andremo noi, le deputate e i deputati di Liberi e Uguali», avvertono minacciosi Federico Fornaro e Rossella Muroni, capogruppo e vicecapogruppo di Liberi e Uguali a Montecitorio. Una vera e propria caccia all’uomo “nero”. In un crescendo di preoccupati allarmi per le parole del “pericoloso” ministro la sinistra nostalgica dell’antifascismo arriva a chiedere l’intervento di Matteo Salvini. I gruppi del Pd e di Leu alla Camera hanno chiesto la convocazione urgente del ministro dell’Interno «affinché spieghi in Parlamento se dichiarazione del ministro della Famiglia Lorenzo Fontana di abrogare la legge Mancino sia frutto di un’opinione personale o se è un’intenzione, che prelude a conseguenti azioni politiche, condivisa dal governo».
SCHEDA. LEGGE MANCINO, NORME CONTRO RAZZISMO E INTOLLERANZA, scrive venerdì, 3 agosto 2018 online-news.it. La legge Mancino, che oggi il ministro Fontana, ha ipotizzato di voler abrogare, è nata nel giugno del 1993 e condanna gesti, azioni e slogan legati all’ideologia nazifascista, aventi per scopo l’incitazione alla violenza e alla discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali. La legge punisce anche l’utilizzo di simbologie legate a suddetti movimenti politici. È nota come legge Mancino, dal nome dell’allora Ministro dell’Interno che ne fu proponente, il democristiano Nicola Mancino. Uno dei primi effetti della legge fu lo scioglimento, proprio nel ’93, del Movimento Politico Occidentale, un’organizzazione di estrema destra fondata nel 1984 dal quello che ne fu per anni il leader, Maurizio Boccacci. Ad oggi è il principale strumento legislativo che l’ordinamento italiano offre per la repressione dei crimini d’odio. La Lega Nord ha proposto nel 2014 un referendum per abrogarla sostenendo che si tratta di una legge «liberticida». E i critici della legge Mancino sostengono fra l’altro che essa sarebbe incostituzionale, in quanto in contrasto con l’art. 21 della Costituzione, che garantisce la libertà di manifestazione del pensiero. La legge prevede la reclusione fino a un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro di chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi; e la reclusione da sei mesi a quattro anni di chi, in qualsiasi modo, incita a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. In virtù della legge è vietata, inoltre, la formazione di ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo che abbia come scopo l’incitamento alla violenza sempre per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. La legge Mancino, che modifica una norma del ’75, vieta l’accesso ai luoghi dove si svolgono competizioni agonistiche a tutte quelle persone «che vi si recano con questi emblemi o simboli. I trasgressori saranno puniti con la reclusione fino a un anno». Da tempo si discute in merito ad una possibile estensione della Legge Mancino ai reati basati sulla discriminazione in base all’orientamento sessuale e all’identità di genere.
Repubblica, il professore spiega: la matematica ci dice come diventiamo razzisti, scrive l'1 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". Ci mancava il professore. A dirci che la matematica spiega come si diventa razzisti. Ma insomma, l'allarme-razzismo è il trend del momento (come l'allarme-fascismo lo era stato all'inizio del 2018, prima delle elezioni). E quindi il gioco val bene una lunga intervista al prof. La fa Repubblica, che chiede a Lucio Biggiero, docente di organizzazione aziendale (?) all'università de L'Aquila ed esperto di modelli computazionali, come una società diventa razzista. "Esistono solidi studi matematici di simulazione sociale che dimostrano come una società anche appena intollerante corre un alto rischio di diventare fortemente razzista. Con i modelli sulla segregazione razziale si può dimostrare che per generare una società segregazionista non è necessario essere né intenzionalmente né totalmente razzisti, e neanche esserlo al 50 per cento. Thomas Schelling, un economista americano Premio Nobel nel 2005, dimostrò che è sufficiente un dosaggio di razzismo (inteso come intolleranza a vicini di casa diversi dal proprio tipo) superiore al 33 per cento. I suoi risultati furono sorprendenti". E ancora: "La possibilità di generare una società totalmente razzista a partire da comportamenti individuali debolmente razzisti ricorda molto i meccanismi che hanno portato all’organizzazione dello sterminio di massa degli ebrei e degli altri gruppi sociali ad essi equiparati. Tanta letteratura scientifica li ha analizzati in profondità ed è sempre emerso che, in fondo, i fanatici, i razzisti al cento per cento, erano relativamente pochi. La stragrande maggioranza assentiva e si assoggettava alle regole".
Lo sfogo segreto della verità. Il presidente della Repubblica, nel discorso che ha tenuto ai giornalisti parlamentari, ha citato un passo del capitolo trentaduesimo dei Promessi Sposi, scrive Piero Sansonetti il 27 luglio 2018 su "Il Dubbio". Il presidente della Repubblica, nel discorso che ha tenuto ieri ai giornalisti parlamentari, durante la cerimonia del “ventaglio”, ha citato un passo del capitolo trentaduesimo dei Promessi Sposi. Manzoni, occupandosi della peste a Milano (secolo diciassettesimo) e della caccia agli untori (uno dei più terribili fenomeni di tumulto sociale originato da fake news, da distanza tra realtà e percezione, e da esplosione forcaiola nel popolo), racconta di come anche tra gli intellettuali e i grandi sacerdoti (persino monsignor Federigo Borromeo) avesse finito con il prevalere l’idea che gli untori esistessero davvero, e racconta poi di come restassero, nascoste e intimorite, solo piccolissime minoranze ben convinte che fosse tutta una montatura. Ma queste minoranze non avevano il coraggio di esporsi, di parlare. Scrive Manzoni: «C’era gente che non era molto persuasa che fosse vero il fatto di quegli unti velenosi. Si vede ch’era uno sfogo segreto della verità, una confidenza domestica: il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune…» Il presidente della Repubblica ha citato Manzoni riferendosi ai tempi nostri. L’immagine è netta e a me sembra molto attuale: il buonsenso che si nasconde impaurito dal senso comune. Mattarella ha preso spunto da un episodio che abbiamo raccontato nei giorni scorsi: la revolverata contro una ragazzina, rom, alla periferia di Roma. Quello che ci aveva colpito – e ha colpito anche il Presidente – non è stata solo la follia del gesto di un cittadino italiano che si è affacciato al balcone per sparare e ha provocato un danno gravissimo a una bambina di un anno. Ci ha colpito la reazione raccolta, nel quartiere, dei giornalisti della terza rete Rai. Uno degli intervistati, addirittura, con grande calma, si è lamentato del fatto che il colpo fosse stato sparato con un’arma a piombini, mentre lui avrebbe preferito un proiettile vero. Mattarella ha parlato di Far West e di barbarie. Naturalmente si può passare sopra al suo discorso, considerandolo solo lo sfogo di un anziano signore d’altri tempi. Oppure lo si può prendere sul serio. Ma se lo si prende sul serio bisogna tener conto del fatto che il suo è stato un atto di accusa fortissimo contro la politica. Non è una presa di posizione a favore di un partito o di un altro. Ma il richiamo a riportare la realtà e il buonsenso, e una qualche forma di etica pubblica, al centro della battaglia politica. Poi ciascuno può sostenere, su qualunque tema, le posizioni che gli paiono più ragionevoli e più utili. Però partendo dal riconoscimento dei diritti di tutti, del rispetto delle istituzioni, e dall’ancoraggio alla realtà delle cose, senza far leva su paure, ossessioni, ricerca dell’aggressività ad ogni costo. Il governo e l’opposizione possono ignorare questo appello? Temo che lo faranno. E lo faranno per una ragione molto semplice: sono impauriti perché non vedono soluzioni ai problemi che hanno davanti. I partiti di governo si trovano nella necessità di far marciare un programma politico, che hanno illustrato in campagna elettorale, e che ora appare del tutto utopistico. I partiti dell’opposizione vivono drammaticamente la sconfitta di febbraio, e non trovano più la propria identità, il senso di comunità, una leadership. E così gli uni e gli altri si rifugiano in una battaglia che si fonda solo sulla demonizzazione e sulla demagogia pura.
Si chiama linciaggio, scrive Piero Sansonetti il 31 luglio 2018 su "Il Dubbio". Linciaggio. Voi conoscete il significato di questa parola? Probabilmente sì. E dunque siete in linea di massima più colti, o comunque migliori conoscitori del linguaggio, della quasi totalità dei giornalisti italiani, compresi i direttori. Linciaggio (legge di Lynch: sono incerte le generalità esatte di questo signor Lynch, pare fosse un giurista della Virginia, fine 700) è il processo popolare, o anche il non processo, seguito dall’esecuzione della pena capitale nei confronti di una persona sospettata di avere commesso un delitto piccolo o grande. Di solito, negli Stati del Sud degli Usa (dove il linciaggio imperversò per un paio di secoli e proseguì ancora fino a oltre la metà del novecento), veniva adoperato il linciaggio solo per gli autori di reati gravissimi. La violenza sessuale (ma solo se era di un nero contro una bianca) e l’omicidio (idem). L’altra notte ad Aprilia, a due passi da Roma, vicino ad Anzio, in una località dove in questo periodo passa le vacanze un pezzetto della media e piccola borghesia romana, è stato compiuto un linciaggio. Alcuni cittadini, sospettando che un signore di origine marocchina fosse un ladro, lo hanno inseguito e ucciso. In questo caso senza processo. E’ stato sufficiente scorgere uno zainetto nel quale, forse, erano nascosti degli strumenti adatti allo scasso (credo di automobili). Diciamo meglio: senza processo e senza reato, visto che questo signore del Marocco non aveva rubato niente, era disarmato, non era violento, non aveva minacciato nessuno, era in fuga, ma non in fuga dalla legge, in fuga dalla furia degli inseguitori. E’ un reato gravissimo quello commesso, sembra, da due cittadini di Aprilia. Per questo reato saranno processati e la magistratura deciderà se sono colpevoli o innocenti e quale pena meritano. Noi – come per tutti – speriamo che la pena non sia eccessiva e speriamo che – se sono colpevoli – gli sia data la possibilità di riabilitarsi e di capire cosa sia la giustizia vera e cosa, invece, la furia e il delitto. Però restiamo sgomenti di fronte all’atteggiamento della stampa. Tutta. La grande maggioranza dei giornali italiani ieri non aveva questa notizia in prima pagina. L’hanno messa in prima solo le grandi testate (ma non tutte) come il Corriere, la Repubblica, il Messaggero e il Fatto, però nessuna di loro gli ha dedicato il titolo più importante della prima pagina (quella che noi giornalisti, in gergo, chiamiamo “l‘apertura”). Eppure non c’è dubbio che il linciaggio ieri era la notizia nuova più importante del giorno. Il Corriere e la Repubblica hanno preferito parlare dei dissidi nel governo e tra governo e opposizione, sulla Rai e sull’Ilva (temi sicuramente importantissimi, per carità, ma che campeggiavano da diversi giorni, senza rilevanti novità), Il Fatto gli ha preferito anche altre notizie come una inchiesta nella quale ha accertato che il Pd è in crisi. In nessuno dei titoli dedicati al linciaggio – nessuno – si parla di linciaggio. (A occhio neppure in nessuno degli articoli). In molti titoli la parola “ucciso” è sostituita dalla parola “muore”. Bene. Io non credo, francamente, che la totalità dei giornalisti italiani che si sono occupati dell’omicidio di Aprilia – e dei direttori che hanno deciso se e come collocarlo in prima pagina, e usando quali parole – non conoscano il termine linciaggio e la differenza tra la forma verbale – attiva – “morire” e la forma – passiva – “essere ucciso”. E allora, perché questa prudenza? C’è una sola risposta: è la nuova political correctness. La correttezza politica, il galateo, vogliono che di fronte a un vicepremier che sostiene che il problema non sono questi delitti ma i piccoli furti commessi dagli immigrati, e che esclude che in italia ci sia il razzismo – e un altro vicepremier che difende il suo collega sostenendo che se il suo amico vicepremier dice così, evidentemente è così… – vadano attenuati i toni delle polemiche e anche dell’informazione. Si sta ai fatti e basta. Quali sono i fatti? Che quel ragazzo del Marocco è morto e che probabilmente aveva in auto un piede di porco. Bene: questo si riferisce. Punto. E’ morto un ragazzo del Marocco che aveva in macchina un piede di porco. Razzismo? Linciaggio? Clima d’odio? Caccia all’immigrato (anzi, al negro)? La risposta è secca: andiamoci piano con le ideologie…E così, mentre è del tutto chiaro, a chiunque voglia vedere, che in Italia sta montando una ondata razzista, non solo xenofoba (e il nuovo episodio di ieri contro la nostra campionessa di atletica lo conferma) le voci che restano a gridare l’allarme sono sempre di meno e sempre più flebili e isolate. Quella del Papa, quella del Presidente Mattarella, qualche rivista cattolica sbeffeggiata dall’intero schieramento di quelli che Travaglio (che ne fa parte) chiama “i giornaloni”. Questo che vuol dire? Che Salvini è un razzista e che è stato lui, spalleggiato dai 5 Stelle a creare questo clima? No, anche questa è una scemenza. Non so se Salvini sia un razzista (anche se sin qui ha fatto molto poco per smentirlo, e certo non lo aiutano a questo scopo le citazioni, consapevoli o no, di Mussolini…), so che il razzismo in Italia e in molti paesi d’Europa sta montando e si sta radicando in una parte molto grande dell’opinione pubblica. E non è certo una manovra politica di Salvini né di Grillo. Il problema è che i partiti politici a questo dovrebbero servire: ad affermare principi di buon senso. A dialogare con il popolo e ad influenzare il popolo. Se non muovono un dito per affermare questi principi, e se anzi immaginano di poter trarre vantaggi elettorali dalla crescita di un senso comune razzista, fanno un pessimo servizio al nostro paese. La citazione di Manzoni usata qualche giorno fa dal presidente della Repubblica è assolutamente calzante: «Il buonsenso c’era ma se ne stava nascosto per paura del senso comune…». Per quanto tempo ancora deve restare nascosto, clandestino?
“I radical chic odiano l’Italia”: il Primato Nazionale dal 4 luglio in edicola. Scrive il Primato Nazionale il 2 agosto 2018. Il nuovo numero del mensile del Primato Nazionale giungerà mercoledì 4 luglio nelle edicole di tutta Italia. Il «faccione» del mese, questa volta, è quello smunto e allucinato di Gino Strada, emblema del perfetto radical chic di sinistra. Così il direttore Adriano Scianca descrive nell’editoriale l’identità di questa particolare casta politica e intellettuale: «La crescente intolleranza verso il proprio simile, verso il prossimo, il vicino, il compatriota, unita all’esaltazione acritica del diverso, di chi è più lontano, dello straniero, è una caratteristica del radical chic in servizio permanente effettivo: Strada, Saviano, Boldrini e tutti gli altri. Quelli per cui ogni scusa per attaccare gli italiani è buona, mentre gli immigrati sono sempre degli Übermensch morali: più belli, più bravi, più capaci, più onesti, più lavoratori, più intelligenti. Delirio dell’autorazzismo, ninnolo ideologico della classe agiata». E il focus, infatti, è composto da ben tre articoli di approfondimento: oltre a un contributo sempre di Scianca, figurano anche un articolo a firma di Alessandro Catto (estratto dal suo libro che si intitola proprio Radical chic), il quale parla di un vero e proprio «odio di classe» di una borghesia ricca e arrogante contro i poveri e i lavoratori autoctoni, e un contributo di Paolo Borgognone, che si concentra invece sulla cosiddetta «Generazione Erasmus» (anche questo titolo di una sua opera), ultima evoluzione della genia dei radical chic. Prima del focus, tuttavia, il nuovo numero del Primato Nazionale si apre con la consueta inchiesta di Francesca Totolo, stavolta dedicata al ruolo dell’Onu nel sostegno all’immigrazione illegale e alla sostituzione di popolo. Segue un contributo del prof. Vivaldi-Forti, che propone un aggiornamento sostanziale della Costituzione italiana. Sfogliando le pagine del mensile, si arriva poi allo speciale sull’Unione europea: se Carlo Larenzi ci spiega perché sono proprio i cosiddetti «europeisti» a essere i veri nemici di un’Europa delle nazioni, Valerio Benedetti analizza invece il discusso ruolo della Germania, esaltata dai neoliberisti come la «locomotiva d’Europa», ma in realtà maggiore responsabile della crisi dell’eurozona e della disaffezione dei cittadini europei nei confronti dell’Unione. Dopo lo speciale fanno capolino i due approfondimenti di economia, con Filippo Burla che smonta pezzo per pezzo – e numeri alla mano – la bufala degli «immigrati che ci pagheranno le pensioni» e Walter Parisi che pone l’attenzione sulla necessità dell’Italia di dotarsi di un sistema efficace di intelligence economica. Non può mancare, ovviamente, la nutrita galleria di rubriche del Primato Nazionale con nomi importanti del giornalismo italiano, come quelli di Francesco Borgonovo, Paolo Bargiggia, Alessandro Meluzzi, Mario Vattani e Diego Fusaro. Molto interessante è il confronto tra Borgonovo e Vattani: se il primo mette in guardia dal ruolo di alcune nuove tecnologie, che finiscono per impigrire e isolare chi ne fa uso, il secondo ci porta invece in Giappone, dove lo sviluppo della robotica sta facendo veri e propri miracoli. Inoltre, se Meluzzi si profonde in un accorato elogio dell’Italia, avversata da intellettuali ed eurocrati insensibili a supponenti, Fusaro rimette invece in discussione la dicotomia tradizione/emancipazione: per il giovane filosofo, infatti, è proprio il radicamento in una tradizione viva e nei suoi simboli a rappresentare un’emancipazione dal pensiero unico globalista e turbocapitalista. Tra i numerosi approfondimenti – che hanno da sempre caratterizzato il Primato Nazionale – sono da segnalare il contributo di Guido Taietti, che ci parla dell’errore geopolitico, prima ancora che culturale, del cosiddetto «scontro di civiltà», quello di Maurizio Murelli sul populismo che «ha riaperto la storia», quello di Tommaso Indelli sulla caduta di Roma antica e sulla sua strumentalizzazione da parte di storici ideologizzati e, infine, quello di Tommaso Lunardi sugli sportivi italiani caduti nelle due guerre mondiali.
Diego Fusaro (filosofo comunista) asfalta la sinistra pro-invasione: "In piazza contro il razzismo immaginario", scrive il 5 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". Una lezione alla sinistra, firmata Diego Fusaro. Il filosofo si scatena su Twitter, dove scrive: "Sinistra in piazza contro un razzismo immaginario: se le inventano tutte per non difendere i lavoratori. E per nascondere la loro natura metamorfica di vili servi della classe dominante turbocapitalistica". Dito puntato contro il "razzismo immaginario", insomma.
Di seguito, il tweet di Diego Fusaro: Sinistra in piazza contro un razzismo immaginario: se le inventano tutte per non difendere i lavoratori. E per nascondere la loro natura metamorfica di vili servi della classe dominante turbocapitalistica. 01:19 - 4 ago 2018
Razzismo, flop manifestazione Pd a Roma: in piazza non c'è nessuno. Fiasco dell'iniziativa del partito democratico contro il razzismo, pochissimi partecipanti in una Piazza San Silvestro deserta, scrive Mercoledì, 1 agosto 2018, Affari Italiani. Emergenza razzismo: il Pd organizza un presidio a Roma, nella centralissima Piazza San Silvestro, ma la partecipazione è un flop. Il solerte segretario Maurizio Martina ci prova, s'impegna, si arrabatta, ma è il 31 luglio, la Capitale è riscaldata dal solleone e da temperature proibitive anche alle 18,00, e quindi in piazza si ritrovano solo i big del Pd, da Marcucci alla Madia, da Delrio alla Morani e così via, ma a parte fotografi, cameramen e qualche dirigente romano dem, non c'è praticamente nessuno. Martina aveva indetto una manifestazione nazionale per settembre, al fine di protestare contro quella che il Pd ritiene la "deriva xenofoba" di questo Paese complici le "scellerate" politiche del Ministro dell'Interno Matteo Salvini, ma era stato subissato da critiche e improperi poiché "se c'è un'emergenza, non si può attendere il ritorno delle vacanze". Il segretario quindi, in fretta e furia, accusato da più parti (perfino da elettori piddini) di essere un radical chic che alla protesta contro il razzismo preferisce Capalbio, ha dunque organizzato il presidio, ma neanche in questo caso il suo sforzo è stato premiato. Peggio, è stato disertato anche dagli stessi simpatizzanti dem, in villeggiatura, al mare, o in città stremati dal caldo e semplicemente disinteressati all'iniziativa. Certo, non è mai un bello spettacolo vedere dei leader di partito e figure istituzionali - fino a qualche mese fa ministri della Repubblica - rivolgersi a una piazza deserta e a una platea inesistente. Un altro, l'ennesimo, esempio di come il Partito Democratico stenti ormai a intercettare il suo stesso elettorato e il suo stesso eventuale bacino di consensi, figuriamoci coinvolgere la società civile non necessariamente sua elettrice. Dimostrando così - come se ce ne fosse bisogno - la crisi nera che attraversa l'ex forza politica di governo, e l'opposizione in generale, crisi dalla quale sembra sempre più difficile risollevarsi.
Ecco il flop antirazzista del Pd. Al corteo sono in quattro gatti. La manifestazione contro il razzismo del Pd di Viterbo. Sono in 13, la piazza è vuota. L'ironia di Salvini sui social network, scrive Claudio Cartaldo, Mercoledì 01/08/2018, su "Il Giornale". A volte è l'inquadratura a fare la differenza. Anzi: quando si tratta di manifestazioni, sit-in della politica e comizi improvvisati (o meno) del leader dei partiti spesso osservare la situazione da diverse angolature trasforma, e non poco, la realtà. Lo sanno, o lo hanno scoperto, i militanti del Pd di Viterbo. I "dem" locali si erano dati appuntamento nella piazza del Comune per protestare contro la presunta onda che razzista che, secondo i vertici del loro partito (leggi Renzi e Martina), starebbe travolgendo l'Italia. Ebbene, una fotografia li mostra tutti sorridenti e allineati dietro ad uno striscione con scritto "Basta razzismo" con l'immancabile hashtag. Il fotografo per l'occasione ha scelto un campo stretto e lo scatto si è limitato a ritrarre i (pochi) manifestanti presenti. Tutto sommato, poteva sembrare anche un sit-in riuscito. Peccato che Matteo Salvini abbia pubblicato sulla propria pagina Facebook anche l'altro punto di vista della manifestazione. Qualcuno, infatti, ha immortalato il momento dall'alto. E lo scatto mostra una pazza completamente vuota, arredata solo con 13 manifestanti. "Manifestazione del Pd a Viterbo – scrive il ministro dell'Interno su Facebook - Quando un’immagine vale più di mille parole (Emergenza “razzismo”, dove???)".
Salvini: "Ma quale allarme razzismo, è un'invenzione della sinistra". La sinistra usa i casi di violenze contro gli immigrati per attaccare Salvini. Ma il ministro: "Riporterò la sicurezza e la serenità nelle nostre città", scrive Andrea Indini, Sabato 28/07/2018, su "Il Giornale". Si tratta di casi isolati, eppure sono stati già strumentalizzati contro Matteo Salvini. La bimba rom e l'operaio di Capo Verde feriti con due colpi esplosi dalla finestra sono diventati l'occasione per attaccare il leader leghista e lanciare l'allarme razzismo. Non importa se i due episodi (di per sé comunque gravissimi) sono successi uno a Roma e uno a Vicenza. Per il Pd è colpa del "clima di odio" generato dal governo. Salvini, però, sembra determinato ad andare avanti per la propria strada e continuare il lavoro intrapreso 58 giorni fa, quando ha giurato da ministro: "L'allarme razzismo è una invenzione della sinistra, gli italiani sono persone perbene ma la loro pazienza è quasi finita". Da quando Salvini siede sullo scranno più alto del Viminale la parola che riecheggia maggiormente sulla bocca della sinistra è "razzismo". In campagna elettorale era stata l'emergenza fascismo a unire il variegato popolo rosso. Ora che l'uomo nero è arrivato al governo, ecco che è partita una nuova crociata per screditare l'operato al ministero dell'Interno. L'appello di Sergio Mattarella affinché "l'Italia non diventi un Far West" è di fatto diventato il manifesto delle falangi anti leghiste e ha di fatto armato i politici di sinistra che usano qualsiasi fatto di cronaca nera in cui la vittima è uno straniero per scatenarsi contro Salvini e accusarlo di fomentare il clima d'odio che porta a episodi di razzismo. "I giornali italiani hanno dovuto inaugurare la rubrica fissa del tiro a segno contro i migranti - tuonano i parlamentari di Liberi e Uguali - Salvini continua ad alimentare il clima di intolleranza xenofoba, anziché schierarsi dalla parte delle vittime". Non da meno si sono dimostrati i dem che hanno subito gridato all'emergenza nazionale: "(Salvini, ndr) intende fare il suo lavoro e occuparsene? O dà la colpa anche in questo caso agli immigrati?". Al Viminale, in realtà, Salvini non nasconde di essere "preoccupato da ogni episodio di violenza, chiunque colpisca", anche quelli ai danni delle forze dell'ordine. Persa la battaglia dell'accoglienza a oltranza per chiunque sbarchi sulle nostre coste, il piano del Pd e più in generale della sinistra è legare questi fatti di cronaca al dibattito sulla riforma della legittima difesa. Salvo poi essere i primi a coccolare i violenti dei centri sociali quando attaccano (impunemente) le forze dell'ordine durante le manifestazioni. "Sto già lavorando per restituire dignità protezione e sicurezza a chi indossa una divisa", ribatte Salvini che non intende far passi indietro sulle misure promesse in campagna elettorale. "Se uno entra in casa mia mentre sono con i miei figli - continua - lo metto in condizioni di non nuocere e poi ne parliamo". Per quanto riguarda gli episodi di violenza, non da ultimo quello di Partinico, dove i clienti di un ristorante hanno pestato un cameriere senegalese dopo avergli urlato contro "sporco negro", Salvini ha assicurato che, da quando è diventato ministro dell'Interno, si è messo a lavorare per "riportare sicurezza e serenità nelle nostre città". Per il resto, l'allarme "razzismo" altro non è che "un'invenzione della sinistra". "Gli italiani - assicura - sono persone perbene ma la loro pazienza è quasi finita".
"Anche io colpita dalle uova". Ma nessuno protesta per Brunella. Parla una delle tre donne bianche aggredite dalla "banda dell'uovo". Smontata così la tesi sulla presunta "onda" razzista, scrive Giovanna Stella, Martedì 31/07/2018, su "Il Giornale". Non solo Daisy Osakue è stata presa di mira da quella che ormai viene definita la "banda dell'uovo": anche altre donne (bianche) hanno ricevuto il suo stesso trattamento, ma nessuno è sceso in campo per loro. Non solo Daisy: la "banda dell'uovo" ha colpito altre persone. Per la discobola è stato sollevato un vero e proprio polverone che dal piano della mera cronaca è arrivato a quello della politica. La sinistra, infatti, non ci ha messo tanto ad accusare Matteo Salvini di essere il fautore "di una propaganda di stampo razzistico" oppure di nutrire "ogni giorno il razzismo con il tuo linguaggio di odio". Insomma (ancora una volta) per la sinistra la colpa di tutta questa violenza ingiustificata è da rintracciare nel ministro dell'Interno e nella sua politica. Dal canto suo, dopo il fatto di Daisy, Matteo Salvini ha prima condannato "ogni aggressione, sono e sarò sempre a fianco di chi subisce violenza", poi si è difeso dagli attacchi - campati per aria - con un tweet di poche ma chiarissime parole: "La sinistra, sconfitta dagli italiani, usa ogni mezzo pur di attaccarmi e non mollare il potere". Ma lasciate da parte le polemiche di circostanza, a dare un quadro ancora più chiaro di quello che è successo a Daisy nella notte fra domenica 29 e lunedì 30 luglio a Moncalieri (Torino) è una delle tre donne che, in passato, è stata aggredita dalla "banda dell'uovo". La vittima si chiama Brunella Gambino, ha 48 anni e abita nella stessa via della discobola italiana. Intervistata dal Corriere della Sera, la donna ha raccontato la sua disavventura e quella delle sue amiche che sono state prese di mira dalla maledetta banda il 25 luglio scorso. Tre donne, tutte bianche. Che con un semplice racconto fanno cadere tutte le polemiche della sinistra legate al "razzismo salviniano". La sera quando è stata aggredita, Brunella era andata a mangiare una pizza con due ex compagne di scuola al Nom Nom di strada Genova. "Una serata normalissima - dice al Corsera - e dopo cena ci siamo fermate a chiacchierare di fronte all'uscita". Erano le 23.30, quando improvvisamente hanno visto e sentito un'auto coi fari spenti che ha accelerato violentemente nella loro direzione. "Abbiamo sentito il rombo del motore e poi abbiamo visto questa macchina scura che si dirigeva a forte velocità verso il centro di Moncalieri. Una delle mie amiche è stata colpita al braccio e si lamentava per il dolore", ricorda la 48enne. Ma il ricordo della donna si fa confuso perché quei minuti sono stati piuttosto concitati. "Ovviamente ci siamo spaventate, non capivamo quello che fosse successo - cotinua al Corriere della Sera -. Da subito abbiamo pensato che ci avessero lanciato contro una bottiglia di vetro. Poi abbiamo capito che si trattava di un uovo, ma era stato tirato con una violenza inaudita. Il braccio della mia amica era completamente rosso e stavamo cercando di aiutarla, quando c'è stato il secondo episodio". Brunella, quindi, racconta che sempre quella sera la misteriosa auto, riconosciuta come un Fiat Doblò, è riuscita a fare il giro dell'isolato ed è ritornata al punto di partenza e ha sferrato un "attacco" come quello precedente. "Questa volta - aggiunge - ci siamo accorte dell'arrivo e abbiamo visto una persona che sporgeva il braccio fuori dal finestrino e lanciava un altro uovo contro il marciapiede. Indossava un cappellino ma era troppo buio per riconoscerlo. Queste persone devono essere fermate". Stessa scena, stesse dinamiche. Ma per Brunella e le sue amiche nessuno è mai sceso in campo. Nessuno si è mai scomposto. Perché?
L'Italia è diventato un Paese di razzisti? Le opinioni dei quotidiani italiani, scrive il 31/07/2018 Metro. Una volta ci ritenevamo un popolo di bonaccioni. Magari furbetti, ma in fondo dal cuore d’oro. Ora iniziamo a sospettare di non esserlo per niente. I giornali di oggi, dopo il caso di Daisy e gli 11 episodi di violenza a sfondo razziale registrati negli ultimi due mesi, si interrogano. Alcuni rispondono che in realtà sta venendo fuori la vera natura di un Paese spaventato e sempre più chiuso, altri insistono con l’idea che in fondo di razzismo in giro non ve ne sia molto, o comunque non più del solito. Ma al di là delle conclusioni, resta il fatto che la certezza che gli italiani siano “brava gente” oggi sia un po’ meno salda. "Salvini rinunci alle pagliacciate" “Crescono episodi di violenza a sfondo razzista, che incontrano terreno fertile in un clima di predicazione di odio”, denuncia Mario Calabresi su “La Repubblica”, “finalmente ieri si sono sentite le voci di condanna del premier e del ministro della Giustizia. Ma è chi siede al Viminale che ha il dovere di garantire la sicurezza dei cittadini, di tutti i cittadini, di lavorare perché il Paese funzioni e la violenza non sia tollerata”. Matteo Salvini, aggiunge, “se le regole sono rispettate ha il diritto di attuare il suo programma. Non ha il diritto invece di dividere il Paese, di flirtare con i violenti, di irridere i deboli, di stuzzicare e avallare razzisti, neofascisti e naziskin scandendo i loro slogan, indossando le loro magliette”. Insomma, “La campagna elettorale è finita da un pezzo, sarebbe ora di cambiare passo. Abbiamo bisogno di un ministro dell’Interno non di provocazioni e pagliacciate. Di un ministro che aspiri a essere autorevole, non autoritario”. "Vergogniamoci, e reagiamo con civiltà" Ma la denuncia più forte è quella di Marco Tarquinio, direttore di “Avvenire”. “Anni di pensieri cattivi e di parole e propagande dure, di crescenti povertà materiali e morali eccitate contro altre povertà stanno producendo bullismi assurdi, atti violenti, assalti folli”, attacca, “Dicono che non c’è razzismo in ciò che è accaduto e per di più il ministro dell’Interno Salvini ha ritenuto di liquidare come ‘sciocchezze’ gli allarmi di quanti denunciano il clima xenofobo e i rischi di escalation razzista”. Il ministro "pesi bene le parole. Guardi la realtà e ascolti anche altre voci della destra italiana. Negare l’evidenza di diversi episodi non fa altro che assolvere e ingigantire il mostro. Vergogniamoci, e reagiamo di civiltà”. "Il Truce che non sa distinguere la sua funzione da un linguaggio ribaldo" Anche per Il Foglio “il problema è Salvini al Quirinale”. Ma Giuliano Ferrara non è d’accordo con chi dice che il problema sia di tutta la società civile. “Usare un linguaggio razzista per diffondere poveri e indecenti concetti allo scopo di fomentare e usare le paure fa di Salvini un ministro pericoloso ma non fa dell’Italia un paese razzista”, è l’opinione di un commento dedicato a “Il Truce e le nuove parole del consenso”. Anche Ferrara dimostra scarsa comprensione verso il ministro degli interni: “Un furbo fesso. Il demagogo giovane, inesperto, e questo entro certi termini vale anche per il suo vice socio, non sa distinguere tra la funzione pubblica in materia di sicurezza e di governo e il putridume del linguaggio privato, occasionale, mefitico e ribaldo”. "Nessuna emergenza, i numeri sono sempre quelli" Per “Il Giornale”, invece, “non c'è emergenza xenofobia” quanto piuttosto “una costante senza impennate recenti”. I numeri, sostiene il quotidiano, “rivelano un'Italia dove il trend di aggressioni e di atti discriminatori nei confronti di extracomunitari si mantiene costante di anno in anno”. “I dieci episodi che si sono susseguiti in pochi giorni hanno sollevato il timore di un razzismo dilagante oltre che un'ondata di accuse al titolare del Viminale, ritenuto il responsabile morale di quel ‘linguaggio dell'odio’ che soffierebbe sul fuoco delle intolleranze”, aggiunge. Però “le indagini dovranno accertare se dietro a tutti gli episodi che si sono verificati ci sia lo stesso denominatore razziale”. "Tutta colpa del Pd" Ancora più tranciante “La Verità”. “Usa i neri per fare propaganda”, titola senza mezze misure, “è il Pd che istiga all’odio razziale”. Insomma, il problema è che nessuno è più “brava gente”. AGI
Abolire la legge Mancino? Idea giusta e molto sbagliata, scrive Piero Sansonetti il 4 Agosto 2018 su "Il Dubbio". I reati di opinione non dovrebbero esistere ma proporre disco verde mentre un’ondata razzista attraversa l’Italia è una provocazione che non si addice a un ministro. Non datemi, se potete, dello schizofrenico, ma io penso che sia sommamente giusta e sommamente sbagliata la richiesta del ministro Fontana di abolire la legge- Mancino. Giusta, perchè trovo giusta ogni proposta di abolire i reati di opinione, e la legge Mancino punisce i reati di opinione. Sbagliata per la sua strumentalità: proporre l’abolizione di una legge che persegue il razzismo, in un momento nel quale il paese vive un’ondata evidente di razzismo, è qualcosa che facilmente potrebbe essere letta come una promessa di protezione per i razzisti. E questo, specialmente se l’iniziativa viene da un ministro della Repubblica, è una cosa sbagliata, pericolosa e abbastanza grave. Che oltretutto non aiuta certo quelli che si adoperano per sostenere la tesi che la Lega non sia un partito razzista o xenofobo.
Non sto distinguendo tra principi e opportunità. Più precisamente distinguo tra diritto e politica. Sul piano del diritto non me la sento di indignarmi per la proposta di Fontana. Sul piano politico, un pochino, sì. Che un ministro, proprio nel giorno nel quale in Campania un razzista spara a un nero e lo ferisce, senta l’urgenza di prendere qualche iniziativa per contrastare “l’ipocrisia antirazzista”, beh, a me pare una provocazione, una pura provocazione, e non di quelle che aiutano il paese a crescere. Abbiamo bisogno di ministri che invece di occuparsi di come governare pensano a quale provocazione gettare sul tavolo? Può darsi, ma ne dubito. Mi pare di aver capito che anche Salvini abbia preso le distanze dalla dichiarazione di Fontana, proprio per un motivo di contingenza politica. La Lega su questo terreno deve uscire da ogni ambiguità. Non può protestare, offesa, ogni volta che la si accusa di razzismo – probabilmente esagerando – se poi i suoi esponenti si espongono volontariamente con le loro dichiarazioni a queste accuse. Quanto invece alla questione specifica, sollevata da Fontana, da molti anni penso che la Legge- Mancino non sia una legge liberale. Così come non era liberale la legge originaria (quella modificata e allargata, nel 1993, dalla legge Mancino) e cioè la legge Scelba. Voi sapete che il ministro Scelba è considerato dagli storici uno degli esponenti più autoritari, e anche reazionari, della Democrazia Cristiana degasperiana e post- degasperiana. Fu proprio lui, nel 1952, a scrivere la legge che puniva l’apologia di fascismo. Erano anni di grandi tensioni politiche e sociali. Fortissime manifestazioni di piazza, dei sindacati e delle sinistre, scontri con la polizia, feriti, anche diversi morti. Scelba era noto soprattutto per il suo anticomunismo, e per la mano forte con la quale guidava la polizia. La Legge sull’apologia di fascismo – che andava in controtendenza – fu una specie di legge- pilota, o legge- esca. Era una specie di progetto per mettere fuorilegge il Msi, e cioè il partito neofascista, in gran parte composto da ex gerarchi, che era nato cinque anni prima. Ma mettere fuorilegge il Msi (che ha sempre oscillato attorno al cinque-sei per cento dei voti), sarebbe stato, a sua volta, un’altra iniziativa pilota. Scelba, in verità, non aveva mai osato prender di petto la questione, ma non escludeva, nel caso di un precipitare delle tensioni politiche, l’opzione della messa fuorilegge del Pci, che invece rappresentava addirittura un quarto dell’elettorato. L’idea di tagliare le ali, destra e sinistra, anche sul piano della legalità, probabilmente, Scelba non l’ha mai abbandonata. E la legge sull’apologia di fascismo, nasce da questa idea, o – se vogliamo sfumare – da questo retropensiero. L’argomento ideale che sosteneva la legge Scelba, e successivamente la legge Mancino (che ha esteso il reato di apologia di fascismo all’apologia di razzismo), è semplice: la tolleranza ha un limite, e questo limite è l’intolleranza degli altri. E cioè, in soldoni: le ideologie intolleranti non possono essere tollerate. A me è sempre sembrato, questo principio, una gran contraddizione. La tolleranza a sovranità limitata, a mio parere, non è tolleranza. La tolleranza vive davvero quando garantisce i diritti dei nemici più feroci, non quando protegge, agevolmente, gli amici. Naturalmente l’eventuale abolizione della legge- Mancino comporta un notevole inconveniente. L’impossibilità di punire quelli che gli americani chiamano i reati d’odio, cioè i delitti razzisti. Ma gli americani considerano l’odio una aggravante del reato, che però esiste solo quando esiste il reato specifico: omicidio, lesioni, violenza. Mentre la legge Mancino immagina l’odio come reato a sé stante. Capite che la differenza è enorme. Una cosa è se io dichiaro il mio razzismo, senza danneggiare nessuno. Una cosa diversa è se commetto un reato e lo commento con una motivazione razzista. Che la motivazione sia un’aggravante non mette in discussione la tolleranza, e non configura un reato di opinione. Certo, se ci avviamo in questa discussione, dovremmo affrontare poi altre questioni molto complesse. Come i reati associativi, che puniscono la partecipazione (spesso molto difficile da provare) ad una associazione anche se non si è commesso nessun reato specifico (omicidio, violenza furto, ricatto, truffa…). Discussione legittimissima, ma che temo non c’entri molto con la dichiarazione del ministro Fontana. Il quale, forse, dovrebbe convincersi che se lo hanno chiamato a far parte di un governo, ora deve fare il mestiere di ministro, e non di capomanipolo dell’ala più estrema e radicale della Lega.
La legge Mancino nasconde trappole illiberali. La legge Mancino più che inutile è dannosa. Ce lo spiega bene Robert Spencer e il suo libro Free Speech, temiamo ancora non tradotto da queste parti, scrive Nicola Porro, Domenica 05/08/2018, su "Il Giornale". La legge Mancino, di cui si è parlato nelle ultime ore, è una legge allucinante. Si confonde troppo spesso, non solo in Italia, il titolo di una norma con il suo contenuto. Un decreto si chiama dignità, e si pensa che solo per questo motivo restituirà dignità al lavoro per tutti. Come ben sappiamo quel decreto, al contrario, presto ridurrà le occasioni del lavoro. Stesso ragionamento per la legge Mancino, che, come si usava un tempo, ha in ditta il nome del suo proponente e non già il suo obiettivo. Che è: combattere forme di odio razziale, xenofobia e robetta del genere. Più che inutile è una legge dannosa. Ce lo spiega bene Robert Spencer, di cui già parlammo in questa biblioteca, e il suo libro Free Speech, temiamo ancora non tradotto da queste parti. Scrive il Nostro: «La libertà di parola contiene esattamente la libertà di disturbare, di ridicolizzare e di offendere. Se così non fosse, la dottrina del free speech sarebbe lettera morta. Dopo tutto, le parole, i discorsi inoffensivi non hanno alcun bisogno di protezione per di più con un emendamento costituzionale». La cosa sembra banale, ma non lo è. E Spencer ricorda centinaia di casi, dalle vignette danesi alle denunce dei vicini di casa, in cui per il solo fatto che ad essere toccato fosse un nervo islamico, l'Occidente, l'America, e le Nazioni Unite, si sono fermate. D'altronde, come scrive l'Oic (la rispettata Organizzazione per la cooperazione islamica che riunisce 56 nazioni) «il mondo islamico considera le vignette satiriche come una versione differente dell'attacco del 11 settembre». Come dire: insultare il profeta è per la nostra cultura un delitto simile a quello che voi occidentali attribuite al perpetrare una strage. Spencer scrive poi come «la sinistra internazionale» ha le sue buone ragioni per condividere queste posizioni: non ha mai amato e tollerato il dissenso. O almeno dopo gli anni '60, la sua involuzione è stata autoritaria, è diventata allergica al dissenso. Fu grazie alla legge Mancino che Oriana Fallaci subì attacchi giudiziari per i suoi libri e per le sue posizioni sull'Islam. Insomma per un liberale il primo emendamento americano e, se volete, il nostro articolo 21 della Costituzione sono beni delicati, da temere in considerazione. E da tutelare. Utilizzare la legge Mancino per arrestare chi non la pensa come te, chi ha posizioni politicamente idiote e odiose, nel breve periodo può sembrare una risposta ragionevole all'irragionevolezza degli odiatori, o degli haters in rete, me alla lunga è il primo gradino verso l'inferno del pensiero unico e corretto.
Daisy Oskue, parla il figlio del consigliere Pd: "Il razzismo non c'entra. Non sapevamo che fare". Dopo l'aggressione alla discobola, a parlare è Federico, il ragazzo che quella sera era alla guida dell'auto: "Siamo stati dei cretini", scrive Giovanna Stella, Venerdì 03/08/2018, su "Il Giornale". Quella che è stata soprannominata la "banda dell'uovo" ha colpito Daisy Osakue domenica 29 agosto a Moncalieri, Torino. I tre ragazzi italiani sono stati individuati e uno di questi è pure il figlio di un consigliere del Partito democratico, Roberto De Pascali. E proprio su di lui è ricaduta una parte dell'attenzione pubblica. Il motivo? I giorni immediatamente successivi all'aggressione a Daisy, la Sinistra - come da copione - ha iniziato a parlare di "attacco razzista". E per questo motivo, se l'era presa con il ministro dell'Interno e con le sue politiche che - a loro dire - "incitano all'odio razziale". Ora, l'attenzione è ricaduta sul figlio del consigliere del Pd. Il giovane si chiama Federico De Pascali ed è stato intervistato da La Stampa. In quattro battute ha voluto esprimere tutto il suo dispiacere e ha ribadito che il movente "razzismo" non sussiste. "Perché abbiamo lanciato le uova? Perché non sapevamo cosa fare. L'abbiamo sentito dire in giro e l'abbiamo fatto anche noi. Comunque lo giuro, il razzismo non c'entra nulla. Adesso vorrei solo chiedere scusa a Daisy", dice il ragazzo. Scuse e giustificazioni non troppo forti. Eppure sono quelle che lui ha utilizzato con la stampa. Il ragazzo, poi, racconta che quella sera era a bordo dell'auto: era lui a guidare, "non ho visto chi ha tirato le uova tra i miei due amici". Federico - dice - che la "banda dell'uovo" ha capito la gravità del loro terribile gesto quando hanno iniziato a parlarne tutti. Stampa, Facebook, Twitter, televisione... "Abbiamo subito pensato di costituirci (cosa che non hanno fatto, ndr) - spiega -. Uno di noi è stato male e siamo tornati a Torino". Poi il resto lo hanno fatto i carabinieri, ovviamente, perché loro se ne sono andati al mare. L'adolescente, quindi, confessa che lui e i suoi amici avevano lanciato le uova già altre volte, "solo per divertirci, per sporcare i vestiti". Nell'intervista Federico si pente (a modo suo), dice di non aver parlato con suo padre "perché non ho avuto tempo, sono tornato dal mare mercoledì sera e quando mi sono svegliato c'erano i carabinieri in casa" (giustificazione piuttosto debole visto il putiferio che hanno scatenato e visto il forte desiderio di costituirsi. Ricordiamo che loro hanno agito domenica, ndr) e confessa che dopo aver lanciato il primo uovo sono passati al secondo. "Siamo stati dei cretini - conclude -. Non sono un razzista. L'abbiamo scelta a caso. In quella zona abita un mio amico, il razzismo non c'entra".
Daisy Osakue, Pietro Senaldi 4 Agosto 2018 su "Libero Quotidiano": "Perché sapevo che il lanciatore di uova era figlio del piddino". Il senatore di Forza Italia Francesco Giro mi propone per il premio Pulitzer perché su Libero del 31 luglio ho scritto che l'uovo tirato in faccia a Daisy Osakue non era un episodio di razzismo. «Anziché barbari fan di Salvini i colpevoli potrebbero essere degli annoiati figli in cerca di emozioni della borghesia piddina che da sempre governa quelle zone» avevo azzardato. Ringrazio Giro ma non merito tanto; e poi avrei avuto qualche possibilità se avessi detto che i teppisti erano tifosi di Trump o della Lega. A dire che sono dem rischio un deferimento da parte dell'ordine, non un riconoscimento giornalistico. Vi rivelo però come ho fatto ad azzeccarla. Giro sostiene che i giornalisti conoscono il Paese meglio dei politici. Questo è poco ma sicuro però non basta a spiegare tutto. Bisogna risalire molto in là nel tempo e aver osservato a lungo l'Italia. A rovinare la sinistra per le future generazioni fu Enrico Berlinguer, quasi quarant' anni fa. I compagni avevano ancora le mani e la testa sporche di sangue, i più vecchi per la guerra civile e i più giovani per il terrorismo rosso, e il segretario del Pci lanciò la questione della superiorità morale. Il dogma in base al quale a sinistra sono più buoni, onesti e puri geneticamente, per diritto di nascita, a prescindere dalle loro azioni, elevati dal solo fatto di dichiarare la giustizia sociale come loro ideale. Anziché farsi una risata, l'Italia gli credette. A sinistra diventarono tronfi e spocchiosi fino al razzismo e a destra nacque il complesso d' inferiorità verso i compagni che fino all' avvento di Salvini ha contraddistinto chiunque non appartenesse all' élite culturale sinistrorsa.
BUONI E CATTIVI - Da allora lo scontro politico per i progressisti si è ridotto alla lotta tra i buoni e i cattivi, tralasciando ogni reale confronto sui contenuti. Di ciò la sinistra è morta, la sua politica si è autoconfinata alla demonizzazione dell'avversario, tralasciando qualsiasi tentativo di adeguarsi ai tempi e dare risposte pratiche alle esigenze degli elettori e perdendo il contatto con il Paese reale. La sinistra non si è più preoccupata dei problemi né tantomeno delle soluzioni, diventando squisitamente ideologica e limitandosi a bastare a se stessa. Ma se passi la vita a guardarti l'ombelico, sbatti contro il muro e gli altri ti mollano. L' autogol del Pd su Daisy nasce da questa tara che affligge tutto il mondo progressista e che da plus si è trasformato in maledizione, talvolta tragica, spesso comica. La sinistra è talmente compresa nel ruolo salvifico dell'umanità che si è assegnata da sola da essere diventata intimamente razzista. Non per necessità o disperazione, come gli abitanti delle periferie che vivono nel disagio, provando sulla propria pelle le sofferenze di una complicatissima integrazione con gli immigrati, ma intellettualmente e orgogliosamente, per senso di diversità dalla plebe e dalle sue basse tribolazioni.
MELASSA INDISTINTA - Sugli aggressori di Daisy ci ho azzeccato perché ho il privilegio di osservare i sedicenti democratici da fuori. Li vedo, i poveretti. Vanno dietro a Saviano e accusano Salvini di essere stato votato dalla 'ndrangheta perché tecnicamente eletto nel collegio di Rosarno ma sorvolano sul fatto che è il collegio dove ha preso meno voti dei cinque in cui si è presentato e di governare la Calabria dal crollo della prima repubblica. La sinistra ormai è razzista, per come approccia l'avversario, ieri Berlusconi oggi la Lega e Grillo, e per come alleva i suoi figli, nel privilegio e nella convinzione di essere a prescindere migliori e nel giusto anche se non fanno nulla per dimostrarlo. Anzi. Io non entro nel dibattito fazioso se qualcuno stia predicando odio in Italia. Se la Lega o Famiglia cristiana o i notap-notav e tutta la melassa ormai indistinta che sta da quella parte. So però che i più pronti a raccogliere eventuali messaggi sono i buonisti e la loro stirpe. Moncalieri-Italia. Pietro Senaldi
Daisy Osakue: quando l'Avvenire titolava "Vergogniamoci", scrive il 2 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". "Vergogniamoci" titolava martedì scorso il quotidiano dei vescovi l'Avvenire, accogliendo in pieno la tesi del razzismo sull'aggressione alla discobola Daisy Okasue, e implicitamente dando dei razzisti a tutti gli italiani, che dovevano vergognarsi. Nell'occhiello, poi, scriveva che "per Salvini il razzismo non c'è". E infatti razzismo non c'è stato, almeno nei casi delle aggressioni a colpi di uova nel torinese. I responsabili sono tre deficienti di 19 anni, uno addirittura figlio di un esponente del Pd. Chissà che domani l'Avvenire non titoli la sua prima pagina. "Ci vergogniamo". O almeno "Scusate".
Salvini: "Chi lancia uova è un cretino". Ma nel '99 fu condannato per averle tirate contro D'Alema che ora dice: "Non mi colpì. Dopo aver ironizzato sulla vicenda di Daisy Osakue, il ministro dell'Interno è bersaglio sui social. Tra chi lo attacca, Matteo Renzi: "E allora lui come si autodefinisce?" Scrive Alberto Custodero il 3 agosto 2018 su "La Repubblica". "Ma non mi ha colpito, diciamo". Così Massimo D'Alema a proposito dell'episodio che costò a Matteo Salvini 19 anni fa una condanna a 30 giorni per avergli tirato contro le uova durante un comizio a Milano. Ma non vuole commentarlo oltre. "Mi occupo di politica estera, questi episodi li lascio ai commentatori professionali, ce ne sono tanti", dice D'Alema, che aggiunge: "Mi occupo quasi soltanto di questioni estere". Dei rapporti tra Salvini e la Russia? "No - risponde l'esponente di Leu - non mi occupo di Salvini. Ma della Russia, tema più rilevante". Dopo aver ironizzato sulla vicenda di Daisy Osakue dicendo che chi lancia uova è un cretino (sottolineando che tra i tre giovani denunciati c'è anche il figlio di un consigliere comunale Pd), le uova sono un vero tormentone per Matteo Salvini. È Matteo Renzi a ricordargli per primo di quando il lanciatore di uova era lui. Lui che addirittura è stato condannato per averlo fatto, chiede Renzi su Twitter, "Come si autodefinisce?". Nel 1999 - si legge sui siti dei giovani padani - è stato denunciato e condannato a 30 giorni per oltraggio a pubblico ufficiale (lancio di uova a D'Alema e qualche divisa sporcata): politicamente scorretto ma ne valeva la pena". Dopo Renzi, sui social in molti lo attaccano ricordandogli il passato e sulla vicenda si solleva un "polverone", come lo definisce la stessa Daisy alla festa Fidal che anticipa la spedizione azzurra agli Europei di atletica. "Sono felice sia uscito un problema che molte volte non viene considerato - dice -. Sono stati presi gli aggressori, la legge farà il suo corso e pagheranno per quanto fatto. Ora voglio tornare alla mia vita normale". Che sono, appunto, le gare, con addosso la maglia azzurra dell'Italia. Ma il vicepremier leghista tira dritto. "Meglio il figlio di Foa che un figlio che tira le uova", continua a ironizzare il segretario leghista. Dimenticandosi (o fingendo di farlo), però, di quando a tirare le uova (allora contro D'Alema e le forze dell'ordine) era lui in persona.
Renzi, le uova di Salvini, e una Waterloo culturale. L'ex leader Pd deride il ministro dell'Interno dandogli, indirettamente, del cretino. La battuta è efficace sui social, ma rivela una deriva dalla quale il Pd dovrebbe fuggire, piuttosto che alimentarla, scrive Luca Bottura il 3 agosto 2018 su "La Repubblica". Utilizzando con una certa contezza il sillogismo aristotelico, Matteo Renzi ha dato del cretino a Matteo Salvini. In particolare, con un tweet, ne ha ricordato dapprima un'affermazione apodittica ("Chi lancia uova è un cretino") collegandola poi a un atto salviniano del passato: il Capitano fu condannato per lancio del noto alimento contundente. In sé la battuta funziona, e molto. Gliela invidio. Ma incarna un problema. Anzi, più di uno: autore, linguaggio, mezzo. Che realizzano un combinato disposto dal quale emerge una Waterloo culturale. Spiego: affidare la propria comunicazione alle slide, ai tweet, alle boutade, alla denigrazione o messa in burletta dell'avversario, ha azzerato il divario espresso tra il partito democratico e i populisti. Il linguaggio pedestre, lungi dall'entusiasmare il proprio popolo in rotta, ormai disorientato e ridotto al lumicino, non raccoglie nemmeno un nuovo adepto sul fronte avversario. Infine: il segretario di un partito, o presunto senatore semplice, dovrebbe lasciare certo armamentario espressivo a noi guitti che della parola, più o meno brillante, facciamo professione. Altrimenti annulla il distacco tra satira, o presunta tale, e politica. Esattamente come ha fatto Grillo. E come continuano a fare i suoi adepti, utilizzando anche al governo la zappa lessicale con cui vergavano il proprio arsenale di aggressioni virtuali. Anticipo la controdeduzione: ma perché i guitti di cui sopra possono cianciare sui doveri dei politici e non viceversa? Per una questione di ruoli. Perché da una parte siamo nel campo del diritto/dovere di critica, dall'altro in quello delle responsabilità di governo. Vere, o inseguite. Se è concesso l'uso di un aggettivo desueto, tutto ciò è diseducativo. E per dedurlo basta dare un'occhiata ai troll del Pd che viaggiano in rete, si spera spontanei, spesso aggregati e ritwittati da dirigenti di prima e seconda fila: nomi d'arte, bastonatura degli avversari o presunti tali, meccaniche espressive identiche a quelle dei Cinque Stelle, solo con bersagli (non sempre) diversi. Dal "Sì ma il Pd" dei pentastellati siamo già al "Sì ma Leu" dei Nazareno Boys. Se gli altri scrivono "E allora tenetevi i pidioti", i cavalieri del #bastaunsì rispondono con "E allora tenetevi Salvini". Per tacere delle varie pagine Facebook piene di meme che non sfigurerebbero sul blog di Peppe. Succubi degli stilemi di chi dicono di voler combattere. Quando il Pd si renderà conto del principio di distruzione identitaria nella quale è pervicacemente impegnato, a mezzo social, e di quanto tutto ciò stia spargendo calce viva sulle macerie attuali, sarà sempre troppo tardi.
Daisy Osakue, giornalista de il Giornale minacciata di morte, scrive il 4 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". "Devi sparire", "essere spregevole", "che post miserabile: Vi meritate fucilate in bocca. Nient'altro". Sono le minacce che la giornalista de Il Giornale Laura Tecceha ricevuto su Facebook per aver svolto il suo lavoro e dare per prima la notizia sui trascorsi del padre di Daisy Osakue. "Ops! Guardate un po' che ho scoperto - aveva scritto la cronista - in un articolo di Repubblica datato 2002 si parla di una retata dei carabinieri di Moncalieri in cui furono arrestati per sfruttamento della prostituzione di connazionali nigeriane Odion Obadeyi, 28, Lovely Albert, 30 anni, il convivente di quest' ultima, Iredia Osakue, 29 anni, tutti e tre clandestini e Silvano Gallo, 50 anni, di Nichelino che aveva formato una gang specializzata nello sfruttamento di decine di prostitute di colore il cui ingresso clandestino in Italia era favorito da un "phone center" di San Salvario". E con la collaborazione del Comando dei carabinieri di Moncalieri ha poi ottenuto una copia del verbale della condanna che ha pubblicato. Ma l'evidenza dei fatti non ha fermato il popolo "anti-razzista" e in poco tempo sono arrivati alla Tecce insulti e minacce do morto.
Il papà di Daisy minaccia: "Noi via dall'Italia". Ma ora spuntano due arresti e una condanna. Sentenza in primo grado di 5 anni e 4 mesi per appartenenza a un clan nigeriano, scrive Laura Tecce, venerdì 3/08/2018, su "Il Giornale". «Daisy è nata in Italia, come i suoi fratelli di 14 e 8 anni. Da adesso in poi farò attenzione che non tornino a casa dopo le 20. Siamo arrivati dalla Nigeria 24 anni fa, è capitato di essere vittime di episodi razzisti verbali, ma non ci faccio caso. Le persone parlano, non bisogna darci troppo peso». Così Iredia Osakue, il papà di Daisy, la giovane atleta della Nazionale italiana di atletica leggera colpita dal lancio di uova a Moncalieri. Addirittura ha dichiarato che vorrebbe «andarsene dall'Italia», nonostante le indagini che hanno portato all'identificazione degli aggressori, come è stato più volte sottolineato dagli inquirenti, hanno del tutto escluso l'aggravante razzista invocata dalla stessa ragazza e dal padre nelle interviste a stampa e tv in quanto dello stesso tipo di violenza sono state vittime anche tre signore non di colore all'uscita del ristorante e un pensionato che ha visto imbrattato il muro esterno della propria abitazione. Ciò che invece emerge da una sentenza di primo grado del 9 ottobre 2007, emessa dal gup Cristina Palmesino al termine di un processo con il rito abbreviato, è che Iredia Osakue è stato condannato a 5 anni e 4 mesi per associazione a delinquere di stampo mafioso, tentata rapina e spaccio di droga. L'uomo sarebbe stato a capo di un'organizzazione, chiamata «Eiye», che ha base in Nigeria ma molte ramificazioni in Europa. Al centro del processo la lotta con l'organizzazione rivale «Black Axe» con cui si contendeva il controllo del Torinese. Al gruppo venivano attribuiti diversi reati: truffa, intimidazioni, tentati omicidi, lesioni, estorsioni ed esercitava la violenza fisica «con armi bianche e da sparo», con «frustate attraverso lo strumento africano detto kobu-kobu al fine di costringere connazionali ad affiliarsi o di punire chi sgarrava». In un articolo di Repubblica datato 2002 si parla di una retata dei carabinieri di Moncalieri in cui furono arrestati per «sfruttamento della prostituzione Odion Obadeyi, 28, Lovely Albert, 30 anni, il convivente di quest'ultima, Iredia Osakue, 29 anni, tutti e tre clandestini, e Silvano Gallo, 50 anni, di Nichelino, che aveva formato una gang specializzata nello sfruttamento di decine di prostitute di colore il cui ingresso clandestino in Italia era favorito da un phone center di San Salvario». I carabinieri di Moncalieri confermano che l'uomo arrestato per sfruttamento della prostituzione nel 2002 è lo stesso Iredia Osakue, padre della discobola azzurra Daisy, e Lovely Albert, altro non sarebbe che la madre della giovane, che oggi avrebbe cambiato nome in Magdeline. Oggi l'uomo è il titolare di un centro pratiche per immigrati, la Daad Agency di Moncalieri, che gestisce dai permessi di soggiorno ai ricongiungimenti familiari, nonché mediatore culturale in una cooperativa che gestisce l'accoglienza, la cooperativa sociale Sanitalia service che gestisce 15 strutture in Piemonte. E i vigili urbani di Torino avrebbero riarrestato, nel 2006, un Iredia Osakue per una vicenda legata alla tratta delle ragazze nigeriane.
Violenza contro i migranti, non è solo razzismo: «Il vero problema è l'emulazione». Negli ultimi sei anni i crimini d’odio sono aumentati esponenzialmente. Trentatré solo negli ultimi due mesi. Insulti, botte e spari contro immigrati e italiani di origini straniere sono all’ordine del giorno. Luigi Manconi: «Non è una cospirazione bianca, né raptus. Ma l’intimidazione contro l’altro è ormai un’attività domestica», scrive Federico Marconi l'1 agosto 2018 su "L'Espresso". Trentatré aggressioni a sfondo razziale, più di una ogni due giorni. Dal 2 giugno, data di insediamento del governo Lega-5 Stelle, è stato un continuo succedersi di violenze e intimidazioni contro migranti e italiani di origine straniera. Un dato significativo nonostante le rassicurazioni dei due vicepresidenti del Consiglio: «Non c’è nessun allarme razzismo» hanno affermato, quasi in coro, Matteo Salvini e Luigi Di Maio commentando due drammatici casi di cronaca recente, molto diversi tra loro ma che hanno scosso l'opinione pubblica. Come quello di Aprilia, dove un migrante marocchino ha perso la vita dopo essere stato scambiato per un ladro. O di Moncalieri dove un uovo tirato da un auto in corsa ha ferito all’occhio la campionessa di atletica Daisy Osakue, mentre la Procura sta cercando i responsabili e ha aperto un fascicolo per lesioni senza aggravanti. Eppure le parole della giovane sportiva sono chiare: «Non voglio usare la carta del razzismo né del sessismo però a mio avviso stavano cercando una persona di colore». «In Italia il razzismo è un fenomeno minoritario, di una minoranza che negli ultimi tempi è purtroppo cresciuta costantemente» afferma Luigi Manconi, coordinatore dell’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (UNAR). «E voglio aggiungere che parlare di Italia come di un Paese razzista è sbagliato: così si applica il meccanismo essenziale del razzismo, cioé omologare e attribuire a un tutto le caratteristiche di una parte». Manconi però punta il dito contro la xenofobia, «che è qualcosa di ben diverso», sempre più forte e diffusa. Una mentalità che sempre più spesso sfocia nella violenza: «Abbiamo calcolato che da gennaio 2018 a luglio 2018 ci sono state undici persone colpite da proiettili di fucile o pistola, ad aria compressa o meno. Non credo sia un’operazione clandestina, una macchinazione inquietante strisciante nel Paese». Ma la situazione è comunque grave: «Non è una cospirazione bianca, ma nemmeno l’effetto di un raptus. In tutti questi crimini è centrale l’effetto emulazione: questi “cecchini” sono comuni cittadini, la violenza e l’intimidazione diventano attività domestica». I protagonisti delle aggressioni degli ultimi mesi sono infatti padri di famiglia, pensionati, studenti. Uomini comuni che aggrediscono altri uomini comuni solo perché diversi da loro. Insulti, sputi, botte aumentano di giorno in giorno, così come gli spari: i primi sono stati quelli che nella notte tra il 2 e 3 giugno hanno ferito a morte Soumalia Sacko nella piana di San Ferdinando. Dalle lupare si passa alle mazze da baseball, come quella con cui cinque giorni dopo, l’8 giugno, un 27enne è stato aggredito a Sarno, in Campania. Il 12 giungo, a Napoli, un algerino protesta contro un auto che non si ferma sulle strisce pedonali e viene accoltellato da tre giovani. A metà giugno aggressioni contro cittadini indiani, dominicani e maliani hanno luogo a Palermo, Roma, Cagliari e Caserta. Nella cittadina campana, il 19 giugno, due ragazzi vengono aggrediti da un gruppo di giovani che gridava «Salvini, Salvini». Due giorni dopo, sempre nella città della reggia, un giovane chef migrante viene ferito dai colpi di un fucile a pallini. Violenze e aggressioni non mancano nemmeno al Nord. Il 30 giugno a Trento un ragazzo viene aggredito dal datore di lavoro dopo la richiesta di ferie: «Ti brucio vivo brutto islamico». Il giorno dopo a Torino un ragazzo del Gabon si vede aizzare contro un pitbull al grido di «negro di merda». Il 2 luglio invece, sulla costa ligure, un venditore ambulante è vittima della stessa sorte davanti a una folla plaudente, mentre chi provava a difenderlo veniva aggredito a sua volta. Poi tornano i fucili, ad aria compressa, come quelli che feriscono una ragazza nigeriana l’8 luglio a Forlì, due ragazzi, nigeriani anche loro, il 12 luglio a Latina, la bimba rom il 19 luglio a Roma, e ancora un migrante il 27 luglio sempre a Caserta. Le trentatré aggressioni degli ultimi due mesi gettano luce sulla crescita costante dei crimini di matrice discriminatoria. Stando ai dati dell’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (OSCAD) dal 2012 al 2016 questo tipo di violenze sono aumentati di undici volte: erano 73 sei anni fa, 803 nel 2016, anno dell’ultima rilevazione. Di questi 803 crimini, più di un terzo (338) sono dovuti a razzismo e xenofobia. Secondo Cronache di ordinario razzismo, lavoro prodotto con le segnalazioni raccolte dai volontari di Lunaria, sono state 557 le violenze razziste e gli atti discriminatori tra gennaio e dicembre 2017. Tra gennaio e marzo 2018, mesi della campagna elettorale, Lunaria ne ha ricevute 169. Numeri preoccupanti in un Paese dove costantemente si alimenta la paura e l’odio contro il diverso.
IDEOLOGIE. L'immigrato è sacro: come ti invento il razzismo, scrive Rino Cammilleri l'1-08-2018 su "La Nuova Bussola Quotidiana”. La sinistra culturale italiana sta inventando da decenni una narrazione sul razzismo italiano. L'immigrato è il nuovo proletario sfruttato, per questo è diventato sacro e intoccabile. Ogni fatto di cronaca è un pretesto buono per alimentare questa versione dei fatti. L’emigrato è sacro e guai a chi lo tocca. Sei poi è africano, è ancora più sacro. Il presidente Mattarella, per esempio, in visita di stato in Armenia, al deporre una corona di fiori sul sacrario del genocidio insieme al presidente armeno, non imita quest’ultimo, che si fa il segno della croce, dunque nemmeno il memoriale del genocidio è per lui sacro. Però alza la voce contro l’Italia-farwest se un cretino spara ad aria compressa su una bambina nomade. Una ragazza di origine nigeriana si becca un uovo in un occhio ed ecco tutti i giornali e i tiggì fare la conta, tutte le volte che danno la notizia, di quanti neri nell’ultimo mese si sono fatti la bua per colpa dei bianchi. Sicuramente il Tg2 metterà, se continua così, il numeretto in alto a destra dello schermo, così come per i «femminicidi». Cioè, ogni volta che ci sarà un caso, ci ricorderà tutti i precedenti, in modo che gli italiani non si scordino il sacro dovere di santificare il migrante. L’americanata del «razzismo» ha prodotto negli Usa discriminazioni al contrario, alle quali l’odiato (non a caso) Trump sta cercando di porre rimedio. Ora, la sinistra nostrana cerca di americanizzarci anche in questo, noi che non abbiamo avuto né capanne dello zio tom né guerre di secessione. Le sinistre, eredi del giacobinismo, sono maestre nella guerra degli slogan: i loro avi l’hanno inventata ed è il motivo per cui cercano indefesse di introdurre i loro temi ideologici nelle scuole. Le quali, dal Sessantotto in poi, sono diventate il luogo privilegiato del conformismo politicamente corretto, complice lo scarso livello critico della classe insegnante. Berlusconi, dal canto suo, fin dal 1994 commise lo stesso errore della Dc, trascurando la cultura, le arti e la scuola in un gramscismo al contrario. Perì di propaganda e demonizzazione, malgrado i voti che aveva. Due-tre anni fa, d’estate, ero a cena in un ristorante all’aperto, a Pisa, con una coppia di amici e il loro figlio di dieci anni. La città era da sempre un feudo rosso, perciò gli ambulanti africani erano intoccabili. Cenare fuori era un tormento, ti si avventavano addosso come le cavallette, uno dietro l’altro, senza fine. Ero impegnato in una animata discussione quando arrivò il primo, insistente nel voler vendermi le sue cianfrusaglie. Gli dissi che non mi interessava, dovetti ripeterlo cinque volte, alzando vieppiù la voce. Alla fine, spazientito, mi levai in piedi e lo mandai a quel paese a male parole. Ebbene, il bambino mi diede del «razzista», e a nulla servì spiegargli che avrei agito così anche con un ambulante italiano se fastidioso e importuno. Eh, i corsi di antirazzismo glieli avevano fatti a scuola, perciò il decenne si comportava come i cani di Pavlov. Così, la sinistra e i suoi utili idioti non devono fare altro che ribattere i loro slogan fino allo sfinimento, ansiosi come sono che un movimento razzista, dai e dai, prima o poi nasca davvero. Né si tratta di un fenomeno solo italiano: sui giornali esteri la Lega è qualificata di «partito xenofobo», e lo stesso fanno i giornalisti italiani con tutte le destre europee; basta solo che chiedano una qualche disciplina dell’«accoglienza» e l’etichetta è già pronta. Naturalmente, come tutti sanno, per far nascere un fenomeno basta evocarlo con sufficiente reiterazione. L’iperprotezione dell’immigrato creerà fatalmente un movimento di rigetto, e allora, se prenderà i voti delle maggioranze esasperate, gli si darà del «populista» (da qual pulpito viene poi, la predica: se c’era un partito populista in Italia era il loro papà, il Pci) e lo si demonizzerà in tutti i modi. Se prenderà altre vie, meglio: la sinistra ha un bisogno disperato di un «proletariato» da cavalcare, e se non c’è lo crea. Come da copione, quando la sinistra perde alle urne fa ricorso alla piazza: il segretario del Pd, Martina, ha appena annunciato una grande «mobilitazione» antirazzista per settembre. Pensate che dopo le ultime elezioni, le sinistre si stiano estinguendo? Errore: come si fa a comandare pur essendo una risicata minoranza glielo ha insegnato Marx, ed è una lezione che non hanno mai dimenticato. Anche perché non sanno fare altro.
Otto Bitjoka, un grande africano: "La sinistra usa i neri come carta igienica, ora basta". Intervista di Sergio Luciano dell'1 Agosto 2018 su "Libero Quotidiano". «Attenzione cari fratelli e figli miei, siete usati e sarete sistematicamente buttati via come la carta igienica, mi permetto di consigliarvi da vecchio leone disincantato. Non è più accettabile essere strumento di lotta politica nelle mani di una sinistra contro i sovranisti populisti». Otto Bitjoka ama sorprendere, e non le manda mai a dire. E interviene a modo suo - dall’alto della sua stazza di camerunense bantu con laurea alla Cattolica di Milano, imprenditore e banchiere naturalizzato italiano (ha fondato Extrabanca) - sulla diatriba in atto tra buonisti e cattivisti, sospinta dall’opposizione piddina e Leu contro la Lega di Salvini. Lo fa con un incandescente post su Facebook, che poi commenta e dettaglia con Libero: «Il nostro problema - scrive sul social network - si affronta con un approccio post-ideologico. Ai giovani leaderini sindacalisti dei braccianti (ogni allusione all’italo-ivoriano Aboubakar Soumahoro è molto probabilmente voluta, ndr) consiglio di guardare verso le nostre parti, l’Africa ha il 68% delle terre incolte del pianeta, il 65% della forza lavoro trova occupazione nell’agricoltura. Impegniamoci tutti per fare diventare il nostro amato Continente, il granaio del mondo. Il nostro sguardo deve andare oltre, la nostra capacità d’auto strutturarsi è messa alla prova in questo particolare momento storico in Italia. Questa è la nostra vera sfida!»
Scusi, Bitjoka, ma lei - con l’esperienza e la credibilità che ha - non si rende conto che denunciando le strumentalizzazioni che la sinistra farebbe del problema migratorio sta facendo un gran regalo a Salvini?
«La sinistra ha sempre considerato l’immigrazione come una questione di accoglienza dove manifestare la sua magnanimità. Lo sa anche lei, che dico il vero: la sinistra ha sempre strumentalizzato».
Lo vede che è di destra?
«Macché: anche la destra ci ha sempre criminalizzato, l’obiettivo è stato uguale, mettere nel tritacarne gli immigrati».
Allora questo o quello per lei pari sono!
«Sì, ma gli immigrati, negli anni, si sono fidati di più della sinistra che della destra, salvo poi renderci conto che ci usano sempre e ci gettano. Io non voglio dare l’idea di essere diventato di destra: non è così. Sono un non-allineato. Affermo però che la sinistra ha tradito e adesso gli immigrati sono un po’ come orfani. Mentre io personalmente sono sicuro che si può - e oggi si deve, visto che è al potere - negoziare con l’istituzione gestita dalla destra. Se vogliamo disintermediare il nostro destino dobbiamo imparare a parlare con tutti. Con Salvini sarà difficile ma si può parlare. Leggo che la sinistra preannuncia per settembre una grande manifestazione antirazzista: benissimo, facciano ciò che vogliono, ma non si arroghino l’esclusiva della rappresentanza degli immigrati».
Ma cosa dovrebbe fare la sinistra, secondo lei?
«Se fosse appena appena intelligente potrebbe mettersi accanto all’Unione delle comunità africane in Italia per sostenerla, ma perderebbe protagonismo e invece vuole essere al centro dell’attenzione. Siamo noi però a voler essere e poter essere protagonisti e non vogliamo essere a rimorchio delle agende altrui…»
Scusi, ci faccia capire: lei si era candidato col Pd…
«L’ultima volta, sì, alla Regione Lombardia, con la lista di Ambrosoli. In precedenza due volte con i verdi del Sole che ride. Oggi ho preso atto che sono un indipendente e quindi nessuno mi vuole perché non mi metto in riga».
Cos’è per lei l’integrazione?
«È il successo attraverso la meritocrazia. Io non penso che gli africani in Italia debbano portare un pezzo d’Africa qua, dico che sono italiani, ma devono vivere guardando l’Africa. La sinistra ha avuto spesso la tendenza di cooptare i mediocri, in cambio della sudditanza. Perché tutti vogliono parlare di integrazione, ma nessuno la vuole sul serio, nessuno vuole che in nome dell’integrazione un immigrato diventi dirigente, o docente…»
Ancora una cosa: lei ama definirsi provocatoriamente "negro", non dice mai "nero". Perché?
«Perché sono titolato a dirlo, so di cosa parlo, ho studiato per sette anni di letteratura africana. È una scelta che risale alla corrente letteraria della negritudine nata negli anni Cinquanta che aveva visto giusto. Oggi del resto si parla di afrocentrismo, di afrocrazia… c’è una semantica nuova, serve una nuova grammatica che richiede anche una nuova ortografia».
Ok, ma per dire cosa, al di là delle parole?
«Per dire che tra 15 anni sarà l’Africa a dare le carte dello sviluppo. Per gli africani emigrati, per quelli che saranno rimasti e per il mondo».
VADE RETRO, SALVINI.
Vade retro, Salvini. La rassegna della stampa internazionale sui principali fatti che riguardano da vicino il nostro paese. Oggi articoli di Frankfurter Allgemeine Zeitung, Guardian, Mundo, Bloomberg Business Week, Figaro, scrive il 27 Luglio 2018 "Il Foglio". L'Italia vista dagli altri
“Famiglia Cristiana” attacca Salvini: “Vade retro, Satana”. Berlino, 27 lug 08:28 - (Agenzia Nova) - Il settimanale cattolico italiano “Famiglia Cristiana” ha attaccato il ministro dell’Interno italiano Matteo Salvini, con un titolo che lo paragona addirittura a Satana: “Vate retro, Salvini”, con riferimento alle parole pronunciate da Gesù nella Bibbia (Marco 8:33). La citazione è spiegata come una risposta della Conferenza Episcopale Italiana e singoli vescovi e le iniziative religiose contro il “tono aggressivo” del ministro dell'Interno in materia di immigrazione. Salvini ha definito il confronto con Satana come “estremamente inappropriato”, e affermato che sperimenta quotidianamente il sostegno di donne e uomini religiosi. “In Italia la misura è colma”, ha detto Salvini. L’ex Primo ministro Matteo Renzi (Partito Democratico) ha difeso l’attacco giornalistico contro Salvini. Visto che Salvini giura sul Vangelo, non dovrebbe essere arrabbiato per la copertina di “Famiglia Cristiana”, ha detto Renzi, al quotidiano “Corriere della Sera” giovedì. Secondo la parlamentare Barbara Saltamartini, della Lega, “Famiglia Cristiana” è diventata “un organo della stampa politicizzata”. Paragonare Salvini con Satana significa “essere a favore dei contrabbandieri e dei trafficanti”. Saltamartini aveva stilato un disegno di legge con altri parlamentari per rendere obbligatoria l’affissione delle croci in tutti gli spazi pubblici. Frankfurter Allgemeine Zeitung
Spagna-Italia: Mallorca dichiara Matteo Salvini “persona non gradita”. Madrid, 27 lug 08:28 - (Agenzia Nova) - Il governo regionale di Mallorca ha approvato una mozione che dichiara il ministro dell’Interno italiano, Matteo Salvini, “persona non gradita” sull’isola. Il testo, presentato da Podemos, Mes e Psib, ha ottenuto il via libera all’unanimità dopo aver accolto un emendamento del Partito popolare (Pp). La proposta di modifica dei popolari, spiega “El Mundo”, ha permesso l’inclusione di una nota che esprime forti critiche contro la proposta di Salvini di eseguire un censimento dei rom. Podemos ha ringraziato per l’appoggio ricevuto dalla mozione che, tra le altre cose, “riconosce l’immenso lavoro umanitario delle ong Proactiva Open Arms, Lifeline, Proemaid e Smh che salvano migliaia di migranti da morte certa, nelle acque del Mediterraneo”. La formazione ha poi criticato le “terribili e scandalose dichiarazioni politiche” di Salvini che lasciano trasparire “una preoccupante xenofobia e un disprezzo palese per la vita e la dignità umane”. El Mundo
Collaboratore di Papa Francesco denuncia la "appropriazione" del crocifisso da parte di Matteo Salvini. Londra, 27 lug 08:28 - (Agenzia Nova) - Uno stretto consigliere di Papa Francesco ha duramente condannato in Italia la proposta del partito di estrema destra della Lega di rendere obbligatoria l'ostensione del crocifisso in tutti gli spazi pubblici, dalle scuole alle prigioni e fino alle ambasciate ed ai porti: lo scrive il quotidiano progressista britannico "The Guardian", riferendo delle polemiche suscitate dalla proposta di legge depositata nei giorni scorsi in Parlamento dalla Lega che tra l'altro prevede multe fino a mille euro per chi non esponesse il crocifisso. In un tweet diventato rapidamente virale l'altro ieri, mercoledì 25 luglio, il reverendo Antonio Spadaro, il direttore della rivista dei gesuiti "La Civiltà Cattolica", ha scritto che il crocifisso non dovrebbe mai essere utilizzato come un simbolo politico ed ha detto ai politici di togliere le loro mani da esso.
Matteo Salvini, Feltri sulla schifezza spagnola: "Canaglie, prendetevi i neri e lasciate stare il leghista", scrive Vittorio Feltri il 29 Luglio 2018 su "Libero Quotidiano". Matteo Salvini, attaccato da tutti per le sue polemiche tese a frenare l'immigrazione nel nostro Paese, è stato dichiarato personaggio sgradito dalle autorità di Maiorca, ed egli giustamente ha risposto così: non me ne frega nulla. In effetti è una fortuna essere invisi agli spagnoli che per anni hanno evitato con cura di soccorrere in mare i profughi, e qualche volta li hanno respinti a muso duro. Ora viceversa se la tirano da buonisti e fingono di avere il cuore in mano, dopo aver tenuto una condotta da canaglie per anni. Cambiare opinione è legittimo, non lo è criticare chi oggi si comporta come tu ti sei comportato fino a ieri. Tutti i disperati che abbandonano l'Africa per venire in Europa, se invece di approdare in Italia, ripiegano sulle isole iberiche a noi fa piacere. E ha ragione Salvini nell' aggiungere che farà le vacanze dalle nostre parti, evitando di mettere piede in Spagna. Il ministro dell'Interno ha tutto il nostro appoggio quando si oppone fattivamente all' invasione degli stranieri. Salvare i quali dall' annegamento nel Mediterraneo è opera meritoria, se però, una volta sottratti alle onde, vengono buttati nelle città come rifiuti, senza ricoverarli e assisterli, si commette una crudeltà atroce. Il vicepremier va sostenuto nel suo tentativo di rimettere ordine in patria, altro che insultarlo e dargli del razzista, va applaudito a titolo di incoraggiamento. Beato lui che è odiato dai bischeri di Maiorca. Con questo articolo speriamo anche noi di essere colpiti dalla loro stupidità. Si prendano pure i neri che si avventurano incoscientemente in mare, e se li tengano stretti. Presto si accorgeranno che stavano meglio quando erano cattivi e sparavano su quelli che pretendevano di entrare nel loro territorio. Ciascuno rimanga a casa propria e si impegni a renderla più ospitale. Maiorca per me è una schifezza. Vittorio Feltri
Lo inseguono pensando sia ladro. Muore un immigrato ad Aprilia. Aveva borsa con arnesi da scasso. Due denunciati, scrive Luca Romano, Domenica 29/07/2018, su "Il Giornale". Inseguito in auto, perché ritenuto un ladro, muore dopo aver subito delle botte. Un 43enne marocchino è deceduto nella notte tra sabato e domenica ad Aprilia (Latina). Una macchina dietro l'altra di corsa e quella con a bordo la vittima andata a sbattere contro un muretto. Poi un faccia a faccia, l'aggressione e il decesso. Due uomini, italiani e incensurati, di 46 e 43 anni sono stati denunciati a piede libero per omicidio preterintenzionale dai carabinieri della cittadina laziale. I fatti. All'1.40 della notte scorsa, in una stradina chiusa che si immette su via Guardapasso, c'è un gruppo di abitanti, fermo sotto i palazzi, che si insospettisce all'arrivo di una Renault Megane con targa straniera con due persone a bordo. I residenti della zona pensano si tratti di ladri. Sta di fatto che alcuni si accorgono dell'ingresso dell'auto e lo stesso succede a bordo della vettura appena arrivata, che fa dietrofront, sgomma e scappa. Tre dei residenti salgono su un'altra macchina e danno il la a un inseguimento della durata di circa 5-6 minuti. Ecco che le due auto si portano su un'altra strada che porta verso il mare, la Nettunese. L'auto inseguita, stando alla prima ricostruzione, va a tutta velocità, perde il controllo e finisce contro un muretto a lato della carreggiata. L'uomo alla guida scappa mentre il passeggero, il 43enne marocchino, fa in tempo a scendere, ma poi viene affrontato da due dei tre occupanti dell'altro veicolo. Secondo i primi rilievi dei carabinieri, ha subito qualche colpo ma non sembra, dopo le prime analisi, il corpo di una persona massacrata di botte. Sta di fatto che il migrante resta sull'asfalto: inutili i soccorsi, poco dopo muore. Di certo, l'autopsia in programma lunedì chiarirà meglio la dinamica dei fatti e, in particolare, se il 43enne ha perso la vita per le ferite provocate dall'incidente o per le botte o per entrambi i motivi. Sulla Megane sono stati scoperti degli attrezzi da scasso. I carabinieri hanno trovato una delle due persone denunciate sul luogo del fattaccio, mentre l'altra si era inizialmente allontanata. Le indagini dei militari dell'Arma si affidano anche alle immagini delle telecamere di videosorveglianza installate nella zona.
Salvini: "Ma quale allarme razzismo, è un'invenzione della sinistra". La sinistra usa i casi di violenze contro gli immigrati per attaccare Salvini. Ma il ministro: "Riporterò la sicurezza e la serenità nelle nostre città", scrive Andrea Indini, Sabato 28/07/2018, su "Il Giornale". Si tratta di casi isolati, eppure sono stati già strumentalizzati contro Matteo Salvini. La bimba rom e l'operaio di Capo Verde feriti con due colpi esplosi dalla finestra sono diventati l'occasione per attaccare il leader leghista e lanciare l'allarme razzismo. Non importa se i due episodi (di per sé comunque gravissimi) sono successi uno a Roma e uno a Vicenza. Per il Pd è colpa del "clima di odio" generato dal governo. Salvini, però, sembra determinato ad andare avanti per la propria strada e continuare il lavoro intrapreso 58 giorni fa, quando ha giurato da ministro: "L'allarme razzismo è una invenzione della sinistra, gli italiani sono persone perbene ma la loro pazienza è quasi finita". Da quando Salvini siede sullo scranno più alto del Viminale la parola che riecheggia maggiormente sulla bocca della sinistra è "razzismo". In campagna elettorale era stata l'emergenza fascismo a unire il variegato popolo rosso. Ora che l'uomo nero è arrivato al governo, ecco che è partita una nuova crociata per screditare l'operato al ministero dell'Interno. L'appello di Sergio Mattarella affinché "l'Italia non diventi un Far West" è di fatto diventato il manifesto delle falangi anti leghiste e ha di fatto armato i politici di sinistra che usano qualsiasi fatto di cronaca nera in cui la vittima è uno straniero per scatenarsi contro Salvini e accusarlo di fomentare il clima d'odio che porta a episodi di razzismo. "I giornali italiani hanno dovuto inaugurare la rubrica fissa del tiro a segno contro i migranti - tuonano i parlamentari di Liberi e Uguali - Salvini continua ad alimentare il clima di intolleranza xenofoba, anziché schierarsi dalla parte delle vittime". Non da meno si sono dimostrati i dem che hanno subito gridato all'emergenza nazionale: "(Salvini, ndr) intende fare il suo lavoro e occuparsene? O dà la colpa anche in questo caso agli immigrati?". Al Viminale, in realtà, Salvini non nasconde di essere "preoccupato da ogni episodio di violenza, chiunque colpisca", anche quelli ai danni delle forze dell'ordine. Persa la battaglia dell'accoglienza a oltranza per chiunque sbarchi sulle nostre coste, il piano del Pd e più in generale della sinistra è legare questi fatti di cronaca al dibattito sulla riforma della legittima difesa. Salvo poi essere i primi a coccolare i violenti dei centri sociali quando attaccano (impunemente) le forze dell'ordine durante le manifestazioni. "Sto già lavorando per restituire dignità protezione e sicurezza a chi indossa una divisa", ribatte Salvini che non intende far passi indietro sulle misure promesse in campagna elettorale. "Se uno entra in casa mia mentre sono con i miei figli - continua - lo metto in condizioni di non nuocere e poi ne parliamo". Per quanto riguarda gli episodi di violenza, non da ultimo quello di Partinico, dove i clienti di un ristorante hanno pestato un cameriere senegalese dopo avergli urlato contro "sporco negro", Salvini ha assicurato che, da quando è diventato ministro dell'Interno, si è messo a lavorare per "riportare sicurezza e serenità nelle nostre città". Per il resto, l'allarme "razzismo" altro non è che "un'invenzione della sinistra". "Gli italiani - assicura - sono persone perbene ma la loro pazienza è quasi finita".
Il prete contro Salvini: "Fascista e razzista, deve scomparire". Un parroco abruzzese spara a zero sul vice premier: "Dice più o meno le stesse cose di Hitler", scrive Franco Grilli, mercoledì 27/06/2018, su "Il Giornale". Quello che forse è il più duro attacco a Matteo Salvini di questi mesi è arrivato da un uomo di chiesa. Don Aldo Antonelli, prete abruzzese e penna freelance dell’Huffington Post, è stato intervistata dal programma di Radio 24, La Zanzara, dove si è prodigato in una spassionata invettiva contro il leader della Lega. Per esempio:"Salvini è un fascista e un razzista, non ci piove. Dice più o meno le stesse cose di Hitler. Che fino a quando era vivo riempiva le piazze ed è diventato un mostro, e spero lo diventi anche lui. Non gli batto le mani". E aggiunge: "Hitler metteva la gente nei vagoni piombati e ha soppresso la democrazia. Lui era la forma hard, Salvini quella light: chiude i porti". Insomma, "Salvini è squadrista, razzista, ignorante, volgare, cinico e baro, sbrodolatore di volgarità, fomentatore di odio, prevaricatore, lupo travestito da agnello, cristiano camuffato". E dopo il paragone con il führer, ecco quello con il duce: "Anche Mussolini è andato al potere con la democrazia". Padre Antonelli invoca, dunque, la rivolta popolare, lasciandosi andare infine a un’uscita abbastanza infelice soprattutto per un uomo di chiesa: "Bisogna ribellarsi perché Salvini camuffa il suo razzismo con il rosario, col populismo, ma ha un odio di rapina, è un mostro. Non auguro la morte a nessuno, ma deve scomparire dalla vita pubblica e politica".
Matteo Salvini, su Repubblica il delirio fascistissimo: "Omaggia Benito Mussolini. E tra pochi giorni...", scrive il 30 Luglio 2018 "Libero Quotidiano". "Tanti nemici, molto onore" ha scritto domenica su Facebook Matteo Salvini. Una citazione mussoliniana, o quasi: al posto di "molti", quel "tanti". Questione di lana caprina. Una provocazione, quella del leghista, che ovviamente scatena Repubblica. Allarme razzismo, allarme fascismo. Allarme tutto quanto. E così, ecco comparire un commento dal titolo: "Il ministro, la frase e la scelta del giorno". Già, perché Salvini ha postato la frase incriminata proprio il 29 luglio, giorno della nascita del Duce a Predappio. E dunque ecco che per Repubblica è "un omaggio al dittatore. Direttamente dal Viminale, eia eia alalà. Ecco il nuovo che avanza". Dunque, nel commento suggeriscono a Salvini di sfogliare la sua agenda "con nascite, morti ed eventi salienti, troverà un'altra data mussoliniana in arrivo: il discorso del Duce a Verona del 1938. Noi del Littorio siamo per questa nuova Europa!, disse Benito alle camicie nere", conclude il commento di Repubblica, in un crescendo delirante in cui il tentativo di accostare Salvini a Benito Mussolini non viene neppure nascosto.
Salvini cita frase del Ventennio. La sinistra sbraita: "Nostalgico". La sinistra all'attacco di Salvini per un post su Facebook: "Leggerla nel giorno del compleanno di Mussolini testimonia la volontà di Salvini di sdoganare uno degli slogan principe del Fascismo", scrive Claudio Cartaldo, Domenica 29/07/2018, su "Il Giornale". È bastato un tweet per scatenare l'attacco della sinistra. Oggi Matteo Salvini, pubblicando una notizia sugli attacchi che gli sono arrivati negli ultimi giorni, ha commentato con un laconico: "Tanti nemici, tanto onore". A pochi è sfuggita l'assonanza con le frasi tipiche del Ventennio. E visto che oggi si celebra l'anniversario della nascita del Duce, da sinistra sono subito partiti gli attacchi contro il ministro dell'Interno. "Che il ministro dell'Interno citi una frase di Benito Mussolini, proprio il giorno della nascita del dittatore che portò l'Italia alla rovina, la dice lunga sulla sua cultura politica, sul suo rispetto della Costituzione e della Repubblica italiana nata dalla Resistenza antifascista. Da oggi lo potremo definire non solo razzista ma anche un nostalgico del fascismo", scrive in una nota il segretario nazionale di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni, di Liberi e Uguali. "Può stare certo - prosegue l'esponente di Leu - che continueremo con ancora più determinazione a combattere le sue idee e le sue scelte pericolose per l'Italia". Poi un attacco ai grillini: "I suoi alleati di governo del M5S assistono silenti o compiacenti - conclude Fratoianni - a questo cupio dissolvi della democrazia italiana. Ma forse da chi pensa che democrazia e Parlamento vadano superati non c'è da stupirsene". E sempre da Leu arrivano anche le polemiche di Federico Fornaro, capogruppo alla Camera. "L'espressione 'tanti nemici tanto onore' appartiene storicamente alla retorica propagandistica di Benito Mussolini", dice. "Leggerla oggi sul profilo Twitter del ministro dell'Interno testimonia la volontà di Salvini di sdoganare non soltanto uno degli slogan principe di Mussolini, ma al tempo stesso di lanciare un messaggio chiaro alla destra estrema a riconoscersi nel nuovo Duce, il condottiero impegnato nella battaglia contro i migranti". E poi un appello a Conte: "Cosa attende ancora per richiamare pubblicamente Salvini al suo ruolo istituzionale di ministro dell'Interno, totalmente incompatibile con slogan di questo genere?".
Rachele Mussolini accusa: "Facebook ha censurato gli auguri a mio nonno". Facebook ha censurato il post in cui Rachele Mussolini faceva gli auguri a suo nonno Benito, di cui oggi ricorre l'anniversario della nascita, scrive Franco Grande, Domenica 29/07/2018, su "Il Giornale". Facebook censura Rachele Mussolini."Con mio grande dispiacere hanno CENSURATO il post dove da nipote facevo gli auguri a mio nonno Benito.......Allora eliminate e censurate pure la sottoscritta!!!!!! Che vergogna......", ha denunciato la consigliera comunale di Roma eletta con la lista "Giorgia Meloni sindaco". Rachele è figlia del jazzista Romano Mussolini e, di conseguenza, è nipote del Duce, di cui oggi ricorre l'anniversario della nascita. Una data che è stata ricordata anche dall'HuffPostper criticare Matteo Salvini. Il ministro dell'Interno, infatti, su Facebook, ha risposto alle critiche che gli sono state rivolte ultimamente con lo slogan mussoliniano "Tanti nemici, tanto onore". Una citazione che ha mandato su tutte le furie la sinistra nostrana tanto che il presidente del Lazio Nicola Zingaretti, candidato in pectore alla segreteria del Pd, ha attaccato: "Mussolini ha distrutto e umiliato l'Italia con un drammatico prezzo di sangue. Se questo è l'obiettivo di Salvini, i suoi nemici sono gli Italiani. Ma forse fa queste boutade per nascondere la verità: il governo, a parte le chiacchiere, è un fallimento".
Salvini nel mirino della sinistra, scrive Michel Dessi il 29 luglio 2018 su "Il Giornale". È colpa di Salvini. Si, è sempre colpa sua. A prescindere. Qualsiasi cosa accada nel nostro Paese (di brutto, si intende) è da attribuire al ministro dell’Interno. Basta poco per far partire la macchina del fango. Delle accuse, le peggiori. A lui, e al suo elettorato, tacciato di “razzismo”. Perché, se un operaio di colore, che vive in Italia da venti, dico VENTIanni, viene colpito alle spalle da un “proiettile” di gomma mentre è al lavoro, la colpa è di Salvini! “È lui che lo ha armato. Sono state le sue parole, le parole del ministro. Si, proprio le sue.” Ripetono come un mantra gli “umani” dalle magliette rosse. Loro, che parlano tanto di umanità e rispetto, i “Peace & Love”, che non fanno altro che alimentare odio. Con parole cariche di bile e livore. Non c’è niente da fare, per gli intellettuali di sinistra la colpa è sempre di Salvini. L’uomo più cattivo d’Italia, d’Europa, del Mondo. Il male dei mali: il “demonio”. Così ha avuto il coraggio di apostrofarlo un “noto” giornale “cattolico”, Famiglia Cristiana. Diretto da chi? Da Luciano Regolo. Voi direte, un sacerdote? Un teologo? Un uomo di chiesa? No, niente di tutto ciò. È un ex giornalista di Repubblica, Oggi, A, Chi. Ex direttore di Novella 2000, Eva 3000 e Vip. Si, avete capito bene. Dalle tette rifatte di chissà quale attrice, ai miracolati di Lourdes; dalle calde e peccaminose lenzuola dei vip, alle luccicanti casule dei prelati. Dalla trasgressione, alla croce. Dalla lussuria, alla castità. Dal peccato, alla santità. Sono tutti contro di lui, tranne il 60% degli Italiani. Che lo sostiene. Giorno per giorno. Gli stessi che continuano a chiedere più sicurezza e meno immigrati. Ma, nonostante ciò, il ministro resta sotto attacco. Nel mirino pericoloso della sinistra sinistra.
Il partito “rolexista” è il migliore alleato del Governo, scrive il 27 luglio 2018 Cristiano Puglisi su “Il Giornale”. Nonostante le poche cose oggettivamente realizzate fino ad oggi, lotta all’immigrazione a parte, il Governo Conte veleggia in acque serene. Serenissime, a giudicare dai sondaggi. Merito di quella che ormai va considerata la “terza gamba” della maggioranza: il fresco indagato (e querelato) Roberto Saviano e soci. Insomma, il “partito rolexista”. Tra orologi pregiati, magliettine rosse, immancabili appelli sui social, copertine di riviste patinate, la sinistra radical chic in soli due mesi è diventata il migliore alleato dell’esecutivo, pronta a sostenerne il consenso alla bisogna. Una sorta di inconsapevole soccorso rosso al contrario. Nei confronti del nemico. Due sere or sono, il povero Carlo Calenda, ospite della trasmissione “In Onda” condotta da Luca Telese e David Parenzo, provava (inutilmente) a spiegare ai due conduttori e agli altri ospiti (tutti ovviamente ed evidentemente simpatizzanti per le teorie savianiste) come l’opposizione al Governo fatta in questo modo, ossia additando come “razzisti tutti coloro che sono preoccupati per l’immigrazione”, sia pericolosamente controproducente. Ma l’ex Ministro dello Sviluppo Economico, per il solo fatto di aver espresso questa opinione, si è invece trovato incalzato da domande speciose che addirittura sembravano voler adombrare la (davvero improbabile e improponibile) accondiscendenza sua e del suo partito, il PD, nei confronti della maggioranza. Ennesima dimostrazione che quanto affermato da Calenda è drammaticamente vero. E che, per certa sinistra (ed evidentemente anche per buona parte della sinistra pseudo-cattolica o “cattolica adulta” che dir si voglia, dopo la copertina di Famiglia Cristiana), mettere in discussione il fatto che chi teme l’immigrazione sia inevitabilmente razzista, nazista, fascista, esponente della Hitler-Jugend se giovane e della Ahnenerbe se adulto, significa essere uno sporco collaborazionista. E così, finchè il dibattito continuerà a vertere sugli smalti per le unghie, i barconi affondati, il “restare umani”, il nazifascismo, i campi rom, i crocifissi nelle scuole e le adozioni gay la maggioranza giallo-verde potrà stare tranquilla. E tergiversare praticamente su tutto: dal lavoro, alle opere pubbliche, alla flat tax, al welfare. Tanto chi se ne potrebbe mai accorgere, se i titoli sui giornali saranno sempre occupati da altro? Saviano, Lerner, Asia Argento e tutto il carrozzone della sinistra “old fashion“, che nella breve era renziana era rimasta quantomeno, politicamente parlando, nelle retrovie, hanno infatti da sempre la capacità di indicare all’elettorato da quale parte stare. Quella opposta alla loro. Di tutto questo il Governo Conte chiaramente (e sentitamente) ringrazia.
MARCELLO FOA E LE FACCE TOSTE.
Marcello Foa in Rai, Pietro Senaldi 30 Luglio 2018 su "Libero Quotidiano": la vergogna del Pd e il sospetto su Forza Italia. L’indicazione di Marcello Foa a presidente della Rai ha mandato fuori di testa la sinistra, che gli sta scaricando contro ogni tipo di accusa. Perfino un refuso nel suo messaggio di ringraziamento su Facebook, rimasto in rete dieci secondi e prontamente corretto, è un pretesto per attaccarlo. Franco Bechis, qui sopra, si incarica di fare il ritratto del professionista e di smontare le corbellerie che la macchina del fango democratica gli sta vomitando addosso in queste ore. Io qui mi limito a un ricordo personale e a una considerazione generale. La sola colpa che Foa deve espiare è quella di avermi instradato nella professione. Era lui il capo degli Esteri al Giornale di Feltri, la prima redazione in cui misi piede, da stagista della scuola di giornalismo. Fu accogliente, mi insegnò qualche rudimento, e provò pure a farmi avere un contratto a tempo, dietro l’insistenza di Nicola Crocetti, fondatore di Poesia, l’unica pubblicazione italiana del settore, mio grande padrino. La cosa poi non si concretizzò, ma negli anni non ci siamo mai persi di vista, rivedendoci sempre con piacere quando capitava. Gli rimasi affezionato, pensavo che avesse naso, visto che voleva darmi una possibilità. Non ho mai avuto la sensazione che fosse un complottista, un amico dei russi, un doppiogiochista, un collega poco rispettoso delle istituzioni. Chi da sinistra lo attacca oggi, probabilmente non l’ha mai neppure visto di persona. Foa ha opinioni chiare e suffragate da esperienza e ragionamenti. Cercano di farlo passare per un esagitato quando è l’uomo più serafico del mondo. È capace di sostenere dibattiti accesi nei contenuti senza scomporsi né alzare la voce di un decibel, con un’eleganza rara. Conosce il sistema dell’informazione e i suoi inganni, che ha mirabilmente svelato nel suo libro «Gli stregoni della notizia», dove spiega come i guru dei politici riescano a manipolare l’opinione pubblica facendo passare il bianco per nero e viceversa. Dicono sia sovranista. Per me è semplicemente un analista equilibrato e che non segue il coro, estremamente aperto anche nella sua esperienza di editore, nel Canton Ticino. Quanto alla considerazione generale, la levata di scudi alla quale stiamo assistendo da parte democratica è sconvolgente, se solo ci si ferma ad analizzarla. La riforma della Rai l’ha fatta il Pd, di recente, mettendo la tv pubblica sotto il Tesoro, quindi sotto il governo. I dem la fecero quando si illudevano che avrebbero governato per anni, perché attraverso essa volevano garantirsi il controllo totale dell’informazione. Ora che qualcuno applica la loro norma, per quale ragione si lamentano? Dovrebbero rallegrarsene. E poi, anche prima della legge del Pd, chiunque andasse al potere ha sempre messo le mani sulla tv pubblica. La sinistra ci ha imposto come presidenti Zaccaria, Petruccioli, la Annunziata, Siciliano, persone sulle quali non ho nulla da dire ma che certo avevano la Falce e il Martello tatuati nel dna. A loro, nessuno si è mai permesso di fare l’esame del sangue. Quando invece tocca agli altri scegliere, la sinistra sale immancabilmente sulle barricate, chiunque sia il predestinato, non va mai bene. Forse perché da quelle parti sono convinti che la tv di Stato sia cosa loro. Siccome per entrare ufficialmente in carica come presidente, la settimana prossima Foa avrà bisogno di una maggioranza qualificata in Parlamento, in queste ore stiamo assistendo a un grottesco tentativo da parte del Pd di convincere Forza Italia a non votarlo. Avendo Marcello lavorato per 25 anni nel giornale di famiglia del leader azzurro, riterrei curioso che onorevoli e senatori berlusconiani non dessero la fiducia a un uomo che il loro capo ha stipendiato per un quarto di secolo. Sarebbe uno di quei tipici e incomprensibili cortocircuiti della politica che hanno contribuito ad allontanare i cittadini dal Palazzo. E legittimerebbe l’elettore di centrodestra a chiedersi da che parte sta Forza Italia: con Renzi o con Salvini? Pietro Senaldi
Marcello Foa, la rivelazione sul quasi presidente della Rai: "Quello che ancora non sapete su di lui", scrive Franco Bechis il 29 Luglio 2018 su "Libero Quotidiano". C' è un diavolo che non avevamo mai scoperto, e che all' improvviso è spuntato dagli inferi dove non si notava in mezzo agli altri. Ma ora è lì, tremendo con le sue corna, la coda a sputare fuoco e fiamme. Si chiama Marcello Foa e non appena Matteo Salvini & c hanno pensato a lui come possibile presidente della Rai il suo aspetto bestiale è stato sbattuto in faccia a tutti dagli unici che lo hanno intuito al volo: i vertici e i parlamentari del Pd. Da un 36 ore circa twittano ogni malefatta che avrebbe commesso quel diavolo del Foa: giornalista (quindi un po' iena dattilografa per la sensibilità della sinistra), sovranista (che è dire mezzo fascista), spia di Vladimir Putin perché di tanto in tanto veniva intervistato dalla tv russa Russia Today (RT), mezzo grillino, no euro, no vax, insultatore di Sergio Mattarella, stupratore della lingua italiana per avere usato un'«h» a sproposito, sia pure per un paio di minuti (poi si è corretto da solo) e mille altre nefandezze. Posso confessare a Matteo Orfini, Matteo Renzi e alla schiera di manganellatori virtuali partita a un solo grido a dare giù botte al candidato presidente della Rai (capitanati dal nuovo Farinacci, Andrea Romano) di avere conosciuto e visto in faccia il diavolo. Leggevo Foa sul blog «Il cuore del mondo» che aveva e che tuttora ha su il Giornale, e mi è capitato di incontrarlo due estati fa a Polignano a mare dove entrambi eravamo stati chiamati a dibattere a una fiera culturale locale. Abbiamo passato qualche ora insieme a fare i turisti con mogli e i suoi figli cresciuti alla scuola francese: tutti deliziosi, curiosi di quel che andavamo a vedere, capaci di stare con gente conosciuta in quella mattinata, di ridere, di scherzare, di discutere anche di cose importanti del mondo con garbo e ascoltando tesi e persone diverse. Quella mattina sulla barca che faceva il giro turistico intorno alla costa salì anche Alessandro Di Battista, che aveva fatto una intervista in pubblico con me. I due si conobbero in quella occasione, e il diavolo naturalmente fece buona impressione sul leader grillino (fra vice Luciferi ci si intende al volo). Piccolo frammento di una lunga storia, perché se nessuno fin qui aveva notato corna e coda di Foa è perché in decenni si era mimetizzato benissimo. Primi passi in Svizzera, dove è cresciuto, alla Gazzetta Ticinese e al Giornale del Popolo. Poi nel 1989 per mimetizzarsi meglio si era fatto assumere dal Giornale di Indro Montanelli: lo aveva raccomandato un editorialista mezzo giornalista mezzo diplomatico israeliano, Vittorio Dan Segre, cofondatore di quel quotidiano scomparso qualche anno fa. Montanelli gli diede la qualifica di caposervizio e lo mandò a fare il vice agli Esteri. Quattro anni dopo lo avrebbe promosso caporedattore, lasciandolo agli Esteri. Ogni tanto Montanelli lo faceva scrivere di altro sulla prima pagina. Quando nel dicembre 1992 Foa mandò al suo direttore una lettera aperta sulla deriva del dipietrismo, il fondatore e direttore del Giornale la pubblicò in prima come editoriale e aggiunse in calce di suo pugno: «Questa lettera, caro Foa, potrei averla scritta io», che suonò come un rarissimo pubblico encomio di Montanelli. Al Giornale di proprietà di Silvio Berlusconi Foa restò fino al 2011, apprezzato da Vittorio Feltri come dai direttori che via via ne presero le redini: fu fatto perfino direttore del sito Internet. E anche quando quell' anno tornò nella sua Svizzera italiana per assumere il comando editoriale e manageriale del gruppo che pubblica il Corriere del Ticino e controlla altri media fra cui una tv (TeleTicino) e una radio (Radio 3i), non riuscì a tagliare il cordone ombelicale con il Giornale, restando sempre a bordo con il suo apprezzato blog. Poi certo negli ultimi anni ha partecipato a convegni e tavole rotonde trovandosi spesso in sintonia con altri diavolacci come Paolo Savona, il suo allievo Antonio Rinaldi, l'imprenditore Arturo Artom, economisti come Claudio Borghi e Alberto Bagnai. Lì era chiaro che stava bazzicando l'inferno ed è pure vera l' accusa che gli fa indignato tutto il Pd: non ha mai condiviso l' attuale architettura europea, né ha mai visto i grandi benefici arrivati all' Italia con l' adozione dell' euro. Magari ha criticato Angela Merkel, in qualche occasione perfino il capo dello Stato, Sergio Mattarella, cosa che dovrebbe essere normale in un Paese libero, e non tabù come sostiene il Pd. E una decina di volte è stato intervistato come opinionista indipendente su questioni italiane ed internazionali da Russia Today, tv con cui si collegava ma da cui mai è contrattualmente dipeso. Mentre confondeva le acque a tutti ricevendo lo stipendio da Berlusconi, lodando sempre il suo mentore Montanelli, collaborando con la Bbc è riuscito pure a scrivere qualche saggio e romanzo assai apprezzato come Il ragazzo del Lago e Gli stregoni della notizia. Ma era solo un travestimento, ora finalmente smascherato dal Pd, che chiede a gran voce a Berlusconi di aprire gli occhi su quel Foa che è stato nella sua scuderia giornalistica per un ventennio... Franco Bechis
CHE FACCE TOSTE. Il Pd s'è preso l'Italia. E ora strepita per due nomine in Rai. I governi Letta, Renzi e Gentiloni hanno messo manager d'area ovunque. Ora che non comandano più, all'improvviso il metodo smette di andar bene, scrive Pietro De Leo su Il Tempo il 29 Luglio 2018. Il Pd s' è preso l'Italia. E ora strepita per due nomine in Rai Pietro De Leo Manager d' area I governi Letta, Renzi e Gentiloni li hanno messi ovunque Ora che non comandano più, all'improvviso il metodo smette di andar bene E' rumorosa la canea che, da sinistra, ha accompagnato l'indicazione da parte del governo di Marcello Foa e Fabrizio Salini come presidente e direttore generale della Rai. Il Pd punta il ditino, pur essendo reduce da cinque anni di governo e nomine annesse. Quella che segue è una galleria di volti, storie, poltrone, che hanno segnato la fase conclusa il 4 marzo. Il lettore potrà tratteggiare dinamiche ed eventuali anelli di congiunzione. Partiamo dalla Rai. La Presidente uscita dall' epoca renziana è Monica Maggioni, nome di garanzia, si disse al momento dell'investitura, e di compromesso con l'allora influente opposizione di Forza Italia. Attenzione ai Dg. L' epoca Renzi ne ha «regalati» due Riproduzione autorizzata Licenza Promopress ad uso esclusivo del destinatario Vietato qualsiasi altro uso Leopolda, o collaborarono con Renzi al Comune o fecero parte del suo universo politico poi divennero classe dirigente. A partire dall' attuale direttore dell'Agenzia delle Entrate, Ernesto Maria Ruffini, che alla Leopolda andò nella primissima edizione 2010 (quando Renzi la coordinò con Beppe Civati). Ruffini è subentrato a Rossella Orlandi, che invece sul palco della kermesse renziana salì nel 2014 quando era già alla guida dell'ente di riscossione. La sua presenza non passò inosservata, tanto meno la familiarità con cui, nel suo intervento, si rivolgeva a «Matteo» e teorizzava di «cambiare verso all' amministrazione fiscale», ricalcando uno dei ritornelli dell'età dell'oro renziana. In quella stessa edizione parlò anche un «certo» Raffaele Cantone, che Renzi individuò come figura più adatta alla guida dell'Anac. E poi c' è la pattuglia dei toscani duri e puri. Partendo da Lapo Pistelli, mentore politico di Renzi, con annesso epilogo edipico: l'allievo che batte il maestro nelle primarie del 2009. Tuttavia, nel 2015 fece molto scalpore il passaggio diretto da Parlamento e governo (era viceministro agli Esteri) all' Eni, nella carica di Senior Vice President. Fiorenti na è poi Elisabetta Fabri, che ha fatto parte del Cda di Poste Italiane, manager del settore alberghiero il cui papà ha fondato la rinomata catena Starhotels. Sempre da Firenze arriva Matteo Del Fante, attuale ad delle poste (incarico del 2017, governo Gentiloni), che prima sotto Renzi era stato nominato ad di Terna. Vive a Roma, ma nel capoluogo toscano presiede la Fondazione Palazzo Strozzi. Nel Cda ha trovato Roberto Rao, già portavoce di Pierferdinando Casini e deputato Udc. Alla città di Dante si lega poi il nome di Alberto Bianchi, quotatissimo avvocato, indicato come pilastro irrinunciabile dell'inner circle renziano. Da come risulta sul sito web della Fondazione Open, realtà nata per gestire l'organizzazione degli eventi dell'ex premier, ne è ancora il presidente. Lui siede nel cda dell'Enel. Il fratello Francesco, invece, nel 2014 fu nominato dall' allora ministro della cultura Franceschini come Sovrintendente della Fondazione Maggio musicale fiorentino. Nel Cda di Leonardo siede an che Fabrizio Landi, senese, estimatore di Renzi a tal punto che ne finanziò l'avventura politica nella prima fase. Da ricordare anche il caso delle Ferrovie dello Stato Italiane. Ad dal 2015 è Renato Mazzoncini, manager che nel 2012 rese possibile, quando Renzi era sindaco, la privatizzazione dell'Ataf, municipalizzata locale del trasporto pubblico. La presidente è Gioia Ghezzi, anche lei legata all' epoca di Renzi a Palazzo Vecchio: redasse un piano perla scurezza stradale cittadina che le fece conquistare stima e simpatia dell'allora sindaco. Sempre nel cda delle Ferrovie siede Federico Lovadina. A vvocato, è partner di studio di Francesco Bonifazi (tesoriere Pd e amico di Renzi). Lovadina, inoltre, è presidente di Toscana Energia, di cui sono soci 91 comuni del territorio che si occupa della distribuzione del gas. Ancora a Ferrovie c' è Simonetta Giordani, già sottosegretario di Stato ai beni culturali, prima ancora responsabile delle relazioni istituzionali per Wind e Autostrade. E relatrice in un'edizione della Leopolda. Da Arezzo invece arriva Diva Moriani, cda Eni, una manager proveniente dal mondo dell'imprenditore filantropo Vincenzo Manes, anche lui finanziatore della Fondazione Open. Nel collegio sindacale di Eni compare invece Marco Seracini, commercialista e promotore dell'associazione Noi Link, che accompagnò la campagna delle primarie di Renzi per il Comune di Firenze nel 2009. Ancora nel capoluogo toscano, sedeva nel consiglio d' amministrazione di Publiacqua Roberta Neri, dal 2017 Riproduzione autorizzata Licenza Promopress ad uso esclusivo del destinatario Vietato qualsiasi altro uso amministratore delegato di Enav. E sempre da Firenze, in particolare dalla società Firenze Mobilità, passò Anna Genovese, nominata dal governo Renzi nel 2014 alla Consob. Dicente di diritto commerciale, il suo maestro è stato l'avvocato e giurista Umberto Tombari, nel cui studio lavorò Maria Elena Boschi dopo la laurea. Quella tornata di nomine fu molto discussa anche per un altro motivo, la consacrazione di Giorgio Alleva come Presidente di Istat. Una decisione che provocò un documento firma to da oltre 40 docenti universitari, dubbiosi sul fatto che il curriculum di Alleva fosse all' altezza di un compito così importante, e anzi si chiedevano quale fosse il criterio -guida della scelta. Tra quei docenti, c'era anche Luigi Zingales. Anche lui relatore di una Leopolda. E stato consigliere Eni per un anno, dal 2014 al 2015, eletto nella lista presentata dal Ministero del Tesoro. E ancora Roberto Reggi, coordinatore della Campagna per le primarie del 2012, prima sottosegretario all' Istruzione poi messo a guida del Demanio. L' ultima fase di centrosinistra, con Gentiloni premier, è stata foriera di nomine notevoli oltre a quelle già citate. Alla guida di Terna la spuntò il ministro Padoan con Luigi Ferraris. E poi si rileva una serie di spostamenti eccellenti. Carla Ciuffoletti, capo dipartimento delle Riforme Istituzionali quando Maria Elena Boschi era ministro (all' epoca del famoso Dl di riforma) è arrivata al Consiglio di Stato. Dove, poco prima del rovinoso referendum costituzionale, era stato nominato con decreto del Presidente della Repubblica Paolo Aquilanti. Segretario Generale di Palazzo Chigi fino a poche settimane fa, anche lui molto vicino a Maria Elena Boschi che, dicono i rumors, nella propria attività di governo avrebbe spesso fatto ricorso ai suoi consigli e alla sua esperienza. Ottengono un buon piazzamento, poi, due figure che hanno lavorato gomito a gomito con Graziano Del rio. Mauro Bonaretti, suo capo di gabinetto al ministero, è stato nominato consigliere della Corte dei Conti. Maurizio Batti ni, che fu capo di gabinetto quando era sindaco di Reggio Emilia, invece è passato al Comitato di Gestione dell'Agenzia del Demanio. Paradossalmente, il governo Gentiloni ha varato anche 48 nomine al Cnel (che Renzi voleva cancellare con il Dl Boschi), assegnandola Presidenza all' ex ministro del centrosinistra Tiziano Treu. E il governo di Enrico Letta? Anche lì, a nomine, non è andata male. Ben 558 poltrone distribuite in 10 mesi. Tra queste, un altro nome che richiama agli anni gloriosi del centrosinistra: Edo Ronchi subcommissario all' Ilva di Taranto.
Foa, il mostro della settimana, scrive Marcello Veneziani su Il Tempo il 29 luglio 2018. Ma non vi vergognate di accusare il governo in carica e Salvini in particolare, di spartirsi le nomine come voi praticate da una vita? Non vi vergognate – voi sinistra, voi clero intellettuale di sinistra, voi giornali e tg di sinistra, voi navigati sindacalisti Rai e voi più ipocriti e paludati benpensanti di cripto-sinistra – di gridare allo scandalo e di indignarvi solo perché i grillini e i leghisti, in modo naive, ricalcano le vie della lottizzazione che voi praticate con professionismo servile da decenni? Anzi, al tempo di Renzi toccò perfino rimpiangere la spartizione di sempre, perché prese tutto lui, in Rai e non solo. Stavolta la pietra dello scandalo è stato Marcello Foa, venuto dal Giornale di Montanelli e poi rimasto nel Giornale di Feltri fino a quando si è trasferito nel Canton Ticino a insegnare scienza della comunicazione e a amministrare un gruppo editoriale ticinese. Mai fatto politica, nessuna macchia nella fedina penale e nella reputazione, nessun legame sospetto. Nulla di scandaloso. Ma per il valoroso Collettivo dell’Informazione italiana più Pd, a cominciare dalla Corazzata Repubblika, Foa dice di essere allievo di Montanelli (un millantatore, dunque), insegna manipolazione delle notizie cioè fake news e non scienza della comunicazione, è addirittura ospite di Russia Today e dunque è un prezzolato al servizio di Putin, ha persino ritwittato qualcosa di tale Francesca Totolo, “patriota finanziata da Casa Pound” (che notoriamente dispone di miliardi, altro che il povero Renzi col suo piccolo aereo di carta, a spese nostre, che costava qualche centinaio di milioni). E poi, è un depravato: pedofilo? Serial killer? Terrorista? Magari, peggio: “sovranista”. No, questo non si può sentire, condivide il turpe vizio del 60% degli italiani, secondo gli ultimi sondaggi. Volete la controprova? Ha scritto un tweet contro Mattarella. Il crimine, anzi il regicidio, che suscita l’orrore anche del mite Corriere della sera, è il seguente e lo ha tirato fuori il cane poliziotto sanbernardo Emanuele Fiano, della squadra omicidi del Pd. Ecco il testo: “il senso del discorso di Mattarella: io rispondo agli operatori economici e all’Unione europea, non ai cittadini. Disgusto”. Se non lo avesse firmato anche col suo cognome avrei potuto riconoscerlo come mio. Lo condivido, e non per questione di marcelleria, nel disgusto; non verso il Capo dello Stato ma verso questa sua posizione che offende la democrazia, la costituzione e il popolo sovrano. Se fossi Foa lo metterei nel curriculum…Non lo hanno ancora accusato di razzismo e antisemitismo per via del cognome, ma presto dimostreranno che Foa nel suo caso è l’acronimo di Fascisti Organizzati Antieuropei e si fa chiamare così per confondersi con gli ebrei vittime del fascismo. Gentiloni almeno è stato spiritoso, dicendo che un sovranista come Foa ci farà uscire dall’Eurovisione. Ma gli altri… ho provato imbarazzo per loro, per la loro faccia reversibile col retro, per la loro verità e dignità ridotte – come dicono a Napoli – a mappine e’ ciess. Non so se Foa otterrà il via libera dalla commissione vigilanza e che ordini darà il Faraone Berluscone, ma Foa è semplicemente uno che non la pensa come l’Establishment ma come gran parte degli italiani. Non so se ci andrà in Rai e cosa farà, ma a me sembra un bel segnale di rottura. Non sul piano del metodo di nomina (decide la politica, come sempre) ma sul piano della discontinuità con le precedenti ondate di servizievoli ripetitori dell’Unica Opinione Autorizzata. Sarà dura per lui scendere dalla felpata Svizzera al Piano di Sotto, il Canton Tapino. Addio Lugano bella, bentornato nell’Inferno italo-italiano.
CHI DICE TERRONE E’ SOLO UN COGLIONE.
Chi dice Terrone è solo un coglione.
La sperequazione inflazionata di un termine offensivo come nota caratteristica di un popolo fiero.
L’approfondimento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che sul tema ha scritto “L’Italia Razzista” e “Legopoli”.
Sui media spopola il termine “Terrone”. Usato dai razzisti del centro Nord Italia in modo dispregiativo nei confronti degli italiani del Sud Italia ed usati dai deficienti meridionali come caratteristica di vanto.
Così è sempre, così è stato a Pontida il 22 aprile 2017. Sono più di 1500 e molti di loro vestono la t-shirt “terroni a Pontida” o anche “terroni del Nord”. Sono accorsi a Pontida, in provincia di Bergamo, da tutta Italia, ma soprattutto da quella Napoli che l’11 marzo 2017 aveva ospitato Matteo Salvini, leader della Lega Nord che proprio qui a Pontida ha la sua roccaforte. «Abbiamo espugnato Pontida, questa terra considerata della Lega Nord. Siamo qui per raccontare che per noi non esistono i feudi della Lega Nord e del razzismo, vogliamo costruire ponti e lo facciamo con questa festa, che richiama l’orgoglio antirazzista e terrone», ha spiegato Raniero Madonna di Insurgencia a “La Stampa”. E mentre il sindaco di Napoli Luigi De Magistris invita sui social i "terroni" a unirsi da Lampedusa a Pontida si pensa al bis. Il clou del concertone è la canzone "Gente d'ò Nord", brano che i 99 Posse hanno firmato con una serie di altri artisti che insieme hanno inciso un doppio cd con il nome di "Terroni uniti". "C'è tantissima gente. E' un bel posto - ha concluso Luca O'Zulú dei 99 Posse - perché non farlo diventare da simbolo della Lega a sede del Concerto Nazionale Antirazzista Migrante e Terrone?".
Un contro-concertone del Primo Maggio gratuito e dal sapore terrone con 10 ore di musica, interventi e colori degli artisti del Sud, scrive “La Repubblica” il 26 aprile 2017. In scena in piazza Dante, dalle 14 a mezzanotte, il festival dell'orgoglio antirazzista e meridionale che ha iniziato il suo tour a Pontida lo scorso 22 aprile. E in programma c'è una già terza tappa: Lampedusa. L'annuncio è arrivato dalla voce del sindaco de Magistris, durante una conferenza stampa che dal Comune si è spostata in piazza Municipio. "E' un progetto talmente bello - ha detto il sindaco - che lo riteniamo un progetto della città: ogni primo maggio si dovrà tenere nella capitale del Mezzogiorno un concerto che abbia come obiettivo i sud del mondo, i diritti, la solidarietà, l'antirazzismo, il lavoro e la lotta per la liberazione dei nostri popoli". Un Primo Maggio "terrone" perché "i terroni difendono il proprio territorio dai rifiuti, dalla malavita, dallo sfruttamento, dalla finanza predatoria". Ed è proprio sul palco del Primo Maggio che i Terroni Uniti continueranno il loro tour dopo Pontida, perché "a Napoli la festa dei lavoratori diventa la festa ribelle dei lavoratori a nero, dei lavoratori sfruttati, della manodopera dell'informale, delle vittime clandestine del caporalato".
Interverranno anche gli scrittori “Terroni uniti” come Maurizio de Giovanni e Antonello Cilento. Una maratona di musica e impegno sociale che avrà come tema il lavoro, la difesa dei diritti dei lavoratori, dei disoccupati e delle vittime del caporalato, e l'orgoglio meridionale.
Che figure di merda…più che terroni si è coglioni. Se già da sé ci si chiama terroni, cosa faranno chi li vuol denigrare?
«Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita»...., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016.
«Io litigioso? È vero, ma sono migliorato… Mi chiamavano terun, africa, baluba, altro che non incazzarsi…» Dice Teo Teocoli in un intervista a Gian Luigi Paracchini il 22 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera".
Gli opinionisti del centro Italia “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto, equivalente a “Terrone”, da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla terronialità. Cioè l’usare il termine “terrone” come una parola neutra. Come se fossero un po’ tutti leghisti.
Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania”, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.
Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque meridionale e non terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te.
Essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.
Ciononostante i nordisti, anziché essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.
Il Terrone visto dai Polentoni, scrive Gianluca Veneziani. Dopo Vieni via con me è la volta di Sciamanninn, la versione terrona del programma di successo condotto da Fazio e Saviano. Anche in questo programma ci saranno degli elenchi. Ma non riguarderanno né i valori di destra, né quelli di sinistra, e tantomeno i 27 modi di essere gay. Avranno a che fare, piuttosto, con le caratteristiche tipiche di un meridionale. A stilare la tassonomia ci penserà un padano. Ecco allora il dodecalogo del terrone visto da un uomo del Nord. Terrone è:
Barbuto. Pregiudizio in voga soprattutto nei confronti delle donne. Si perpetua l’idea che le donne meridionali abbiano i baffi. Il pelo nell’ovulo riecheggia lo stato selvaggio e ferino del nostro Meridione.
Barbaro. Il terrone è considerato un ostrogoto. Per due ragioni: è rozzo, incurante di ciò che tocca e vede. E, quando apre bocca, non lo capisce nessuno. Credono che parli ostrogoto.
Barbone. Il meridionale è pensato come un mendicante, uno che questua soldi e vive a scrocco altrui. Magari un finto invalido che si mette agli angoli delle strade durante il giorno e la sera va a ballare con i soldi ricavati dall’elemosina.
Borbone. Pregiudizio storico. Il sudista è ancora assimilato alla vecchia dinastia pre-unitaria. Contribuiscono al cliché i cosiddetti neo-borbonici che, con grande tempismo, si fanno sentire adesso che l’Italia deve spegnere 150 candeline.
Lo sfaticato, che non vuole lavorare. Terrone non indica più la provenienza geografica, ma un’attitudine lavorativa. È terrone non chi viene dal Sud, ma chi sgobba poco. Il fannullone, il perdigiorno, chi lavora con lentezza. Fatto curioso, se si pensa che i terroni vanno al Nord, appunto, per lavorare. Ma il pregiudizio resta. Terùn, va a lavurà!
Il cafone, il tamarro, il che cozzalone. Fare una “terronata” significa fare una pacchianata, qualcosa di kitsch e di trash. Anche se chi la fa è un brianzolo, il nome “terrone” gli si appicca addosso.
Chi a colazione chiede cornetto ed espressino. Il barista lo guarda perplesso, senza capirlo. In Padania si dice brioche e marocchino. Occorre adeguarsi. Altrimenti vieni scambiato per un terrone o, peggio, per un marocchino.
Chi, il venerdì sera, fa il pendolare Nord-Sud e torna a casa in cuccetta, mentre i lumbard escono per fare l’happy hour Il terrone fugge dal Nord nel fine settimana: il sabato e la domenica va a consacrare le feste altrove.
Chi il lunedì mattina torna con lo stesso treno a Nord. Con un bagaglio però, pesante il doppio, perché la mamma lo ha caricato di tutte le sue delizie fatte in casa. Quella che si chiama “roba genuina”.
Chi al rientro in ufficio, offe ai colleghi specialità tipiche del suo Paese (magari le stesse che la mamma gli ha sbattuto in valigia). Una mia collega di Cava de’ Tirreni ci ha offerto mozzarelle di bufala campane. È stata festa grande, quel giorno.
Chi è legato alla terra, come dice il nome. Ama la terra, nel senso dei campi da coltivare: ama la terra, nel senso della propria terra; e ama la Terra, con la t maiuscola, perché il terrone è soprattutto un terrestre. Anche se qualcuno lo considera un extraterrestre.
Chi è legato al cielo. Il terrone è umile, cioè vicino all’humus, alla terra. Ma degli umili è il regno dei cieli.
Da “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 19 novembre 2010.
C’è sempre, però, chi è più terrone di un altro.
L’infelice battuta di Mandorlini. Il suo Verona giocò e vinse quella finale playoff contro la Salernitana, conquistando la serie B. Nel dopo partita si lasciò andare a frasi poco carine (Ti amo terrone…), che scatenarono una disgustosa rissa in sala stampa. E quando Agroppi, opinionista Rai, lo bacchettò in televisione invitandolo a chiedere scusa per aver offeso il Sud, replicò in modo beffardo: «Tu sei fuori dal mondo». Mandorlini, ravennate di nascita, ha giocato in sei squadre, Ascoli quella più a Sud. E allenato dodici club, più giù di Bologna non è mai sceso. Spesso comportamenti e dichiarazioni sono state tipiche del leghista, il suo capolavoro resta la festa promozione in B, ottenuta contro la Salernitana. Saltellava e ballava con i tifosi gialloblù cantando «Ti amo terrone»: festival del razzismo puro. Travolto da critiche e polemiche, fece spallucce. Qualche mese più tardi ci pensò un napoletano, Aniello Cutolo, a rispondergli per le rime a nome di tutti i terroni: giocava con il Padova, derby veneto a Verona, gol pazzesco del partenopeo da venticinque metri e di corsa ad esultare in faccia a Mandorlini: «Ti amo coglione».
“Ti amo terrone, ti amo terrone, ti amo”. Ve lo ricordate quel coro di Mandorlini? Beh di certo in pochi lo avranno dimenticato. Per questo ieri ne abbiamo scritto. E’ il simbolo di questo Paese dove in uno stadio si canta la Marsigliese per ricordare le vittime degli attentati di Parigi, poi un minuto dopo in quello stesso stadio si consente a quegli stessi tifosi di inneggiare il solito coretto “Vesuvio lavali col fuoco”. Certo, se poi un allenatore del Verona, che lavora in una città ad alto tasso di razzismo, soffia sul fuoco anziché cercare di educare la propria tifoseria, allora la battaglia è proprio persa. “Ti amo terrone”, “Lavali col fuoco”, “Napoli colera”. Per quanto tempo ancora vogliamo andare avanti in questo modo? Fatecelo sapere. Lo capiremo quando anche stavolta, l’ennesima, non arriverà nessuna sanzione realmente incisiva verso chi canta queste schifezze insopportabili.
Giovani padani: "Siamo invasi dai terroni", scrive Daniele Sensi su “L’Unità”. «Non è giusto, siamo invasi! Ovunque ti giri sei sommerso da ‘sti qui che vogliono comandare loro, mi fanno venire la nausea», sbotta una novarese. «Troppi, ce ne sono troppi, meglio con contarli», ribatte un utente di Mondovì. «Ce ne sono tanti, ma molti dei loro figli crescono innamorati del territorio in cui sono nati e cresciuti», replica un magnanimo iscritto ligure. Ennesimo dibattito su immigrazione e presunte invasioni islamiche? No. Il sito è quello dei Giovani Padani, e l'oggetto della discussione è quanti siano i meridionali residenti nel nord Italia. Non si tratta solo di un divertito passatempo: lamentando la mancanza di dati ufficiali («Purtroppo nessuno ha mai pensato di fare un censimento etnico in Padania, poiché siamo tutti "fratelli italiani"»), sul forum del movimento giovanile leghista con cura e dovizia vengono incrociate fonti diverse per tentare di fornire una risposta all'inquietudine che pare togliere il sonno ad alcuni simpatizzanti. Così, ricorrendo ad una terminologia allarmante e servendosi del censimento del 2001, delle analisi di alcuni studiosi dialettali e di quelle relative alle migrazioni interne del dopoguerra (con una certa approssimazione dovuta all'impossibilità di conteggiare con precisione i «meridionali nati al nord da genitori immigrati o da matrimoni misti padano-meridionali») alla fine, tenendo comunque conto «del tasso di fecondità dei centro-meridionali in base al quale è possibile stimare 3 milioni di discendenti meridionali nati in Padania, compresi i bambini nati da coppie miste», il verdetto è di «9 milioni di individui, tra centro-meridionali etnici e loro discendenti puri o misti». Una stima al ribasso secondo un utente milanese che arriva a denunciare, nelle statistiche, «la mancanza dei clandestini, cioè di quelli che sono qui di fatto ma non hanno domicilio o residenza padane». Dati eccessivamente gonfiati, al contrario, per un altro giovane lombardo, perché «credo proprio che il meridionale al nord, specie se sposato con una padana, figli meno rispetto al meridionale che sta al sud». Una ragazza di Reggio Emilia, invece, pare poco interessata a parametri e variabili: «Non so quanti siano, non mi interessa il numero, so solo che sono troppi e che stanno rovinando una zona che era un'isola felice. Girando per strada difficilmente si incontra un reggiano! Purtroppo stiamo diventando una minoranza e i meridionali la fanno da padrone».
La Lega, si sa, ha oramai ampliato il proprio bacino elettorale, pertanto pure un simpatizzante salernitano si inserisce nella conversazione, e, quasi invocando clemenza («Io sono meridionale ma amo la Lega e odio i terroni che vengono qui al nord per spadroneggiare e per rompere i coglioni»), finisce col cedere allo stesso meccanismo di autodifesa visto attivarsi durante la recente campagna mediatica e politica anti-rom, quando, per riflesso, non pochi cittadini rumeni quasi si sono messi rivendicare distinzioni etniche dai loro connazionali residenti nei campi nomadi, poiché nel gioco all'esclusione c'è sempre chi sta un po' peggio: «Certi meridionali non possono essere espulsi perché italiani, ma, se si potesse fare una bella barca, sopra ci metterei i meridionali che non lavorano e gli extracomunitari, che sono più bastardi dei meridionali». Qualche nordico animatore del forum non indugia nel mostrare comprensione e solidarietà al fratello salernitano, e si affretta a precisare come sia possibile ravvisare differenza tra "meridionali" e "terroni", spiegando che «terrone è colui che arriva e pensa di essere nel suo luogo di origine, e si comporta di conseguenza, tanto che nemmeno si offende se lo chiami terrone». Per taluni, addirittura, il luogo di origine non c'entra proprio nulla, perché «non è la provenienza che fa l'individuo, e nemmeno il sangue o il colore della pelle, ma unicamente l'atteggiamento». L'insistenza dei più ostinati («Se ne dicono tante sui cinesi ma sicuramente li rispetto più di certi meridionali o marocchini o slavi perché almeno lavorano e si fanno i fatti loro») incontra obiezioni dalle quali emergono ulteriori sfumature d'opinione tra i giovani padani, quelli più "cosmopoliti", coinvolti nella surreale disamina, tanto che tra essi diviene possibile distinguere tra filantropi («Di meridionali ne conosco tanti e tanti miei amici sono meridionali, per me un meridionale è colui che è venuto e lavora onestamente»), progressisti («Esempi di integrazione con il passare degli anni si fanno più frequenti, sono esempi da non snobbare ma anzi da far diventare casi di scuola: piano piano li integreremo»), e possibilisti («Un meridionale che lavora e interagisce con gli altri vale quanto un settentrionale»). Su tutti, però, inesorabile cade il richiamo ad un maggior pragmatismo da parte dei realisti: «Siete in ritardo di 40 anni, c'è bel altra gente che invade le nostre città, purtroppo!». Trascorso qualche giorno, sul forum viene avviata una nuova discussione: «Un test per capire a quale sottogruppo della razza caucasica apparteniamo». Un test scientifico, affidabile, perché «per una volta non ci si basa sul colore della pelle, dei capelli e degli occhi, ma sulla forma del cranio».
Non siamo noi razzisti, sono loro che sono napoletani, scrive Francesco Romano su “Onda del Sud”. Trento: “Terrone di merda”. Operaio reagisce all’insulto con un pugno: licenziato. Al centro della discussione fra l’uomo e il caporeparto un ritardo dopo una pausa. Il giudice ha dato ragione all’azienda. “Il Gazzettino.it” di Trento ha riportato la seguente notizia: - Il caporeparto dell’azienda trentina per la quale lavorava lo ha appellato “terrone di merda” e lui, un operaio di origini meridionali, ha reagito all’insulto con un pugno. Per questo è stato licenziato. Al centro della discussione c’era il presunto ritardo dell’operaio dopo una pausa. Al termine dell’accesa discussione, il caporeparto avrebbe mandato via l’operaio dicendo “terrone di merda”. L’operaio avrebbe così reagito sferrando un cazzotto contro il collega, raggiungendolo di striscio. Dopo dieci giorni è arrivato il licenziamento in tronco. Da qui la causa intentata dall’operaio. La sentenza di primo grado del giudice del lavoro di Trento ha dato ragione al caporeparto in quanto «non è possibile affermare anche nei rapporti di lavoro la violenza fisica come strumento di affermazione di sé, anche quando si tratti della mal compresa affermazione del proprio onore». Un concetto ribadito dalla sentenza d’appello che ribadisce come «la violenza fisica non può mai essere giustificata da una provocazione rimasta sul piano verbale». Questo è quello che accade nel profondo Nord. Se non è mobbing questo, che cos’è. “Non siamo noi razzisti, sono loro che sono napoletani” era una vecchissima battuta comica di Francesco Paolantoni. La violenza certamente non ci appartiene ma forse è arrivato il momento di rivoluzionare il significato delle parole. Passare da negativo ad uno positivo. Questa è la cultura leghista che si è affermata al Nord. Dobbiamo subire la discriminazione dell’emigrazione e ci è impedita l’integrazione in questa nazione proprio quando ci apprestiamo a festeggiare i 150 anni dell’unità d’Italia.
Mutuiamo il titolo del libro di Lino Patruno “Alla riscossa Terroni” e “Terroni” di Pino Aprile per farne un motivo di orgoglio meridionale che deve portarci ad invertire una tendenza che data 150 anni. Non rivendichiamo un passato di benessere del Meridione, rivendichiamo un presente migliore per un Sud messo alle corde.
I terroni nascono anche a Gemonio e nelle valli bergamasche, scrive "L'Inkiesta" il 6 aprile 2012. Leggendo le cronache, ma, soprattutto, vedendo le immagini, relative al marciume che sta venendo a galla dai sottoscala leghisti, mi par che si possa dire una grande verità: l'aggettivo spregiativo "terrone" non si può appioppare solo ai meridionali, ma, con grande precisione, anche ai miei conterronei nordici. Devo dire la verità. Io - nordico e fieramente antileghista da molto tempo - che le storie di Roma ladrona, dell'uccello duro, del barbarossa, dell'ampolla sul diopò (che, a dire il vero, mi par più una saracca che un rito), di riti celtici, di fazzolettini verdi come il moccio, erano tutte una rozza e ignorante presa per il culo per ammansire i buoi e farsi in comodo i sollazzi propri, ne ero convinto da tempo. Da ben prima che si svegliassero i soliti magistrati (verrà il giorno, in questo paese dei matocchi, che qualche rivoluzione la farò il popolo?), bastava un po' di fiuto per capire che il sottobosco era questo. Ma le vedete le facce del cerchio magico? Ma avete presente la pacchianità della villa di Gemonio? E poi, la priorità alla "family", come la più bieca usanza del troppo noto familismo amorale, perchè parlare di "famigghia" era troppo terrone. Ma il dato è che questi sono - culturalmente, esteticamente e antropologicamente - terroni. Perchè terrone, per me, non è un epiteto riferibile a una provenienza geografica I.G.P.; è uno stile deteriore di rappresentarsi, chiuso, retrivo, in cui il dialetto non è cultura, ma rozzume esibito con orgoglio (e questo vale tanto per i napoletani, quanto per i veneti), in cui prevale la logica del clan su quella della civile società, in cui si deve fare sfoggio dell'ignoranza perchè questo è "popolare". Terrone è un ignorante retrogrado, cafone, ineducato. Con il risultato che il Bossi e la family sprofondano, il terronismo impera e un peloso, stantio e pietistico meridionalismo riprende fiato. Grazie Bossi, grazie leghisti: avete ucciso non solo la dignità del nord, ma anche la speranza vera che una riforma moderna di questo paese, tenuto insieme con una scatarrata, si potesse fare. Ah, dimenticavo. Se qualcuno mi dovesse dire "parla lui, di ignoranza presentata con orgoglio.
Da che pulpito vien il sermone!", dico: "Non perdete tempo in analisi: son diverso e me ne vanto. Si vuol che dica che sono ignorante e delinquente. Bene lo sono, in un mondo di saccenti ed onesti mafiosi, sono orgoglioso di esser diverso. Cosa concludere, di fronte a tali notizie di carattere storico? Questo: trovo triste che i nostri bravi leghisti rinneghino le proprie radici arabe, albanesi, meridionali, mediterranee. Da loro, così orgogliosi della Tradizione, non me lo aspettavo. Anzi dirò di più. Buon per loro avere origini meridionali, perchè ad essere POLENTONI si rischia di avere una considerazione minore che essere TERRONE.
Secondo Wikipedia Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale. Origine e significato. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo, e sta ad indicare una persona zotica un pò lenta di comprendonio (po' lentone). Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta e dai movimenti goffi e impacciati.
Analisi dei termini offensivi. Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato dagli abitanti dell'Italia meridionale per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale, scrive Wikipedia. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) purtroppo con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra, anche se li ha salvati da tante carestie alimentari. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo nell'Italia del Sud, e sta ad indicare una persona zotica. Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale, anche se spesso usate solo in modo bonario. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta di comprendonio (tonta) e dai movimenti goffi e impacciati.
La Padania o Patanìa (lett. Terra dei Patanari, coltivatori di patate) si estende in tutte le regioni del nord Italia: dalla Val d'Aosta alla Toscana fino al Friuli Venezia Giulia. È facile collocare geograficamente la Patanìa vera e pura: si traccia una retta che attraversa interamente il Po, passando rigorosamente al centro, perché solo la parte nord del Po è padana. La Padania si definisce anche Barbaria, cioè terra di barbari. Il mito di una terra popolata da eroi celtici, circondata da terribili barbari di matrice slava, è il concetto su cui si basa la Lega Nord. Trascurabile il dettaglio che un tempo la Padania fosse abitata da un'accozzaglia di popoli oltre ai Celti.
Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato dagli abitanti dell'Italia settentrionale e centrale come spregiativo per designare un abitante dell'Italia meridionale, talvolta anche in senso semplicemente scherzoso, scrive Wikipedia. In passato il termine era utilizzato con un altro significato e valenza; solo nel corso degli anni sessanta ha acquisito il senso attuale. Con il termine "terrone" (da teróne, derivazione di terra) si indicava nel XVII secolo un proprietario terriero, o meglio un latifondista. Già tra le Lettere al Magliabechi, l'erudito bibliotecario Antonio Magliabechi (1633-1714) il cui lascito, i cosiddetti Codici Magliabechiani costituiscono un prezioso fondo della Biblioteca Nazionale di Firenze, scriveva (CXXXIV -II - 1277): «Quattro settimane sono scrissi a Vostra Signoria illustrissima e l'informai del brutto tiro che ci fanno questi signori teroni di volerci scacciare dal partito delle galere, contro ogni equità e giustizia, già che ho lavorato tant'anni per terminarlo, e ora che vedano il negozio buono, lo vogliono per loro». Il termine in seguito fu utilizzato per denominare chi era originario dell'Italia meridionale e con particolare riferimento a chi emigrava dal Sud al Nord in cerca di lavoro, al pari dei nordici milanesi, etichettati come baggiani, che emigravano nelle valli del Bergamasco, come menzionato da Alessandro Manzoni. Il termine si diffuse dai grandi centri urbani dell'Italia settentrionale con connotazione spesso fortemente spregiativa e ingiuriosa e, come altri vocaboli della lingua italiana (quali villano, contadino, burino e cafone) stava per indicare "servo della gleba" e "bracciante agricolo" ed era riferita agli immigrati del meridione. Gli immigrati venivano quindi considerati, sia pure a livello di folklore, quasi dei contadini sottosviluppati. Il termine, che deriva evidentemente da "terra" con un suffisso con valore d'agente o di appartenenza (nel senso di persona appartenente strettamente alla terra) è stato variamente interpretato come frutto di incrocio fra terre (moto) e (meridi)one, come "mangiatore di terra" parallelamente a polentone, "mangiapolenta", cioè l'italiano del nord; come "persona dal colore scuro della pelle, simile alla terra" o anche come "originario di terre soggette a terremoti" ("terre matte", "terre ballerine"). Il suo maggiore utilizzo data comunque essenzialmente agli anni sessanta e settanta e limitatamente ad alcune zone del nord Italia, in seguito alla forte ondata di emigrazione di lavoratori e contadini del meridione d'Italia in cerca di lavoro verso le industrie del nord e in particolare del triangolo industriale (Genova – Milano – Torino). In tale ambito si spiega anche la diffusione del termine: storicamente, grossi movimenti di popolazioni hanno sempre portato con sé anche fenomeni di intolleranza o razzismo più o meno larvati. Successivamente, allo stesso modo è sorta la locuzione "terrone del nord", generalmente per indicare gli italiani del nord-est (principalmente i veneti, detti "boari"), che per ragioni simili cominciarono negli stessi anni ad emigrare verso il nord-ovest, venendo così accomunati agli emigranti meridionali. Il riconoscimento di terrone come insulto e non come termine folkloristico è un processo che storicamente ha subito molte battute d'arresto e incomprensioni, probabilmente dovute al fatto che solo una parte della popolazione italiana ne riconosceva pienamente la gravità e il suo carattere offensivo. La Corte di Cassazione ha ufficialmente riconosciuto che tale termine ha un'accezione offensiva, confermando una sentenza del Giudice di Pace di Savona e confermando che la persona che l'aveva pronunciata dovesse risarcire la persona offesa dei danni morali. Spesso vengono associati a questo epiteto caratteristiche personali negative, tra le quali ignoranza, scarsa voglia di lavorare, disprezzo di alcune norme igieniche e soprattutto civiche. Analogamente, soprattutto in alcune accezioni gergali, il termine ha sempre più assunto il significato di "persona rozza" ovvero priva di gusto nel vestire, inelegante e pacchiana, dai modi inurbani e maleducata, restando un insulto finalizzato a chiari intenti discriminatori. Inoltre vengono spesso associati al termine anche tratti somatici e fisici, come la carnagione scura, la bassa statura, le gote alte, caratteristiche fisiche storicamente preponderanti al Sud rispetto al Nord Italia.
In conclusione c’è da affermare che bisogna essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.
Chi proferisce ingiurie ad altri o a se stesso con il termine terrone non resta che rispondergli: SEI SOLO UN COGLIONE.
Libero, attacco razzista ai napoletani: “Sono assenteisti, frignano. Non se ne può più”, scrive il 2 marzo 2017 Luca Tesone su "Vesuvio Live". La prima pagina del quotidiano Libero apre con un attacco contro i napoletani. Il giornale diretto da Vittorio Feltri titola così: “Il solito vecchio vizio. Piagnisteo napoletano”. L’attacco del giornale è un pastiche che mette insieme cronaca, politica, sport e soliti luoghi comuni. Si inizia facendo riferimento al presunto assenteismo dei napoletani, ricordando il recente caso del Loreto Mare. Poi si passa al calcio: “Se perdono, attaccano l’arbitro pure quando hanno torto – dice Libero – hanno venduto Higuain e frignano dimenticando di aver comprato Maradona”. Non usa mezzi termini, insomma, il giornale. I napoletani sono tutti assenteisti, piagnoni e sfaticati. È la sagra del luogo comune, in cui si fa confusione tra calcio, cronaca e politica. Tutto fa brodo, insomma, per denigrare i napoletani. Feltri dimentica che i “furbetti del cartellino” non esistono solo al Sud – come si è voluto far credere anche durante la trasmissione di Quinta Colonna – ma in tutta Italia. Come non ricordare il dipendente del Comune di Sanremo che andava a timbrare i cartellini in mutande? Non è la prima volta che Libero mostra in prima pagina titoli a dir poco discutibili. Non solo razzisti, come quest’ultimo, ma anche sessisti. Ricorderete, infatti, il vergognoso titolo dedicato alla sindaca di Roma Virginia Raggi, definita una “Patata bollente”. Insomma, il quotidiano di Vittorio Feltri si diverte con i titoli dallo sberleffo facile, ignorante, razzista e volgare. Ancora più grave è però il titolo di stamattina. Quel “il solito vecchio vizio” fa capire che, secondo Libero, le presunte colpe dei napoletani sono “storia vecchia”, insite fin dal principio della storia partenopea. Va da sé che il quotidiano dimostra non solo di avere scarsa memoria storica, ma di giocare ancora una volta per luoghi comuni privi di verità. E, per quello che si professa (o almeno dovrebbe) come un quotidiano che fa informazione, non c’è cosa peggiore di “informare” i propri lettori se non attraverso i soliti pregiudizi senza fondamento, se non quello razzista.
Della serie: come godono i barbari padani delle disgrazie del sud Italia.
Libero, il titolo della vergogna: “A Napoli si bruciano da soli, non è colpa dello Stato”, scrive il 13 luglio 2017 Federica Barbi su "Vesuvio live". Non è una novità, ormai, penseranno in tanti. Ma ogni volta la sensazione è la stessa: vergogna. La vergogna che proviamo è quella di trovarci in un Paese in cui ci si accorge che metà Sud sta bruciando solo dopo giorni in cui il fuoco ha distrutto chilometri e chilometri di macchia mediterranea. La vergogna è constatare che quelli che dovrebbero essere strumenti mediatici in grado di informare e anche di avvicinare le persone, non fanno altro che fomentare attriti e odio, gettando altra benzina su fiamme già incontrollabili. Oggi il quotidiano Libero ha titolato così in prima pagina: “A Napoli si bruciano da soli”. Nel catenaccio del pezzo si legge: “Piromani inceneriscono 100 ettari di bosco per boicottare il nuovo Parco Nazionale del Vesuvio e salvare migliaia di case abusive da abbattere. Il sindaco si straccia le vesti ma non fa nulla per i criminali. Intanto i turisti fuggono”. Ciliegina sulla torta, l’occhiello: “Altro che incolpare lo Stato assente”. Che dietro tutta questa drammatica vicenda ci sia la criminalità organizzata, è chiaro e palese. Che servano maggiori controlli, maggiori pene, maggiore attenzione su tutto ciò che può diventare lucro per la camorra, non lo scopre certamente Libero. Non ci sembra giusto, però, speculare in copertina su una vera e propria tragedia naturale, che ha colpito flora, fauna e anche la quotidianità di chi vive in prossimità del vulcano, avvolto da un fumo nero che ha raggiunto praticamente tutte le città del vesuviano (e di certo non solo le case abusive citate nell’articolo). Ancora una volta tanti cittadini onesti scontano pene altrui, ma questo poco importa a chi deve, sempre, incessantemente, fare politica con le disgrazie e accentuare le crepe che almeno nella solidarietà potrebbero trovare un equilibrio. Siamo i primi ad esigere la verità, i primi a provare rabbia e impotenza di fronte a un cancro che mangia la nostra terra, ma questo titolo, caro Libero, ci fa sentire ancora più soli. Terribilmente soli.
Il Vesuvio e la scarsa stima di Vittorio Feltri per i (pochi) lettori di Libero, scrive il 13 luglio 2017 "Il Napolista". Perdonateci, non riusciamo a prendere sul serio questa prima pagina che ci intristisce soltanto. La pernacchia eduardiana sarebbe troppo onore. Quando la redazione è a corto di idee. A Libero, quando sono a corto di notizie e di idee, inseriscono il pilota automatico che può scegliere due strade: un titolo con riferimenti sessuali, preferibilmente discriminatorio nei confronti delle donne oppure omofobo, oppure un’intemerata contro Napoli. Vai così che non ti sbagli mai. Certo anche Vittorio Feltri deve fare i conti con l’emorragia di copie. Il suo Libero ormai ne venderà qualcuna nei famosi Territori, sempre poca roba. Ieri, evidentemente, è stata una giornata fiacca per i cronisti di Libero. E allora cosa c’è di meglio per un titolo e un paio di articoli insultanti nei confronti dei napoletani per il Vesuvio che brucia? Feltri ha scritto un articolo tra l’imbarazzante e il ridicolo. Il titolo è tutto un programma: “Si bruciano da soli” e poi c’è un lungo passaggio che francamente non immaginavano potesse avere più cittadinanza su un quotidiano italiano, sia pure Libero. Ecco cosa scrive Feltri in un ampio passaggio che Lombroso avrebbe giudicato eccessivo: Non c’entra l’antropologia, bensì la sociologia. La gente del Mezzogiorno è più portata a collaborare con i delinquenti, temuti e venerati, che non con le Forze dell’ordine, poco rispettate. Infatti i meridionali che vivono a Milano sono diventati più milanesi dei milanesi, si sono perfetta- mente inseriti e sono i primi a comportarsi osservando le regole. Parecchi di quelli rimasti in Terronia, invece, influenzati dalla comunità storta in cui campano, ne adottano le cattive abitudini e sono guai. I peggiori di essi sono addirittura piromani e danneggiano i compaesani. Avranno la loro bella convenienza. E allora è inutile e ridicolo che il sindaco di Napoli quereli Libero perchè analizza i costumi partenopei senza ipocrisia, focalizzandone i difetti maggiori. Qui non c’entra il razzismo e altre simili stupidaggini. Si tratta soltanto di prendere atto di ciò che è sotto gli occhi di chiunque ne abbia due aperti. Il disastro del Vesuvio, dove non è sorto un edificio che non sia abusivo (complimenti alle amministrazioni cieche), non è stato provocato da calamità naturali: i napoletani – non tutti per carità – si sono bruciati da sé. Si guardi- no allo specchio e sputino. Non sbagliano bersaglio. Non riusciamo nemmeno a indignarci. Ci si può indignare, si può chiedere all’Ordine dei giornalisti della Campania di far sentire la propria voce. Ma ci si può anche imbarazzare per Feltri e soprattutto per l’idea che ha dei propri lettori. Dev’essere triste dirigere un giornale pensando di dover abbeverare persone che condividono questi pensieri. Non riusciamo a prendere sul serio Libero, non è possibile nemmeno indignarsi. Con queste poche righe abbiamo versato il nostro obolo alla celebrità quotidiana di Vittorio Feltri. Di più non siamo riusciti a fare. L’eduardiana pernacchia sarebbe francamente troppo onore.
COLPA DELLO STATO? A Napoli si bruciano da soli. Vesuvio, spuntano le foto: la prova definitiva. Vesuvio in fiamme, le foto dall'altro che dimostrano come i roghi siano studiati scientificamente, scrive il 13 Luglio 2017 "Libero Quotidiano". Da tre giorni ormai il Vesuvio è in fiamme, e ora al Parco nazionale sono al lavoro anche gli uomini dell'esercito che hanno già individuato un nuovo focolaio in una zona boschiva a ridosso di San Sebastiano. Sul posto sono impegnati al momento tre canadair e diversi elicotteri per provare tutti gli incendi ancora attivi. Una situazione gravissima ma non casuale. "Ci troviamo di fronte a una organizzazione criminale complessa e ben organizzata, queste due foto fatte dall'alto dai corpi speciali dimostrano come nel caso degli incendi del Parco del Vesuvio sia stato fatto un lavoro scientifico che richiede impegno e coordinamento di non poche persone", denuncia sul suo profilo Facebook Massimiliano Manfredi del Pd. Gli inneschi, spiega, "vengono messi agli estremi e nel mezzo di questo arco virtuale al centro di cui c'è il Parco del Vesuvio. Questo vuol dire che per spegnere il fuoco bisogna raggiungere i due estremi dall'esterno che stanno agli antipodi, il centro impedisce il collegamento e a sua volta deve essere aggredito da destra e sinistra. Che vuol dire? Che servono almeno il doppio, se non il triplo, di mezzi e uomini e il doppio del tempo, dando la possibilità a chi si trova dal lato opposto di continuare ad appiccare fuoco perché nel frattempo brucia la Campania e mezzo Paese e non solo il Parco. Più tempo passa e poi si può alzare vento. Qualcuno crede ancora all'autocombustione dopo queste foto?".
Può ritenersi attendibile ed intelligente un tal commentatore barbaro padano, (anche televisivo su tv nazionali ed elevato, addirittura, al rango di direttore di quotidiano) che spara certe idiozie, tutta farina del suo sacco fondata su pregiudizi e luoghi comuni razzisti?
"Guardatevi allo specchio e poi sputatevi": Vittorio Feltri il 13 Luglio 2017 su "Libero Quotidiano", lo schiaffo a (certi) napoletani. Il Vesuvio è in fiamme. Chi ha appiccato il fuoco? Persone del posto, ovviamente, criminali che nessuno ha ostacolato e dei quali non si scoprirà mai l'identità per un motivo banale: essi agiscono grazie a una rete di complici che pascolano nella malavita locale, attiva più che mai, e sono al servizio di boss potenti. Lo stesso fenomeno si registra in Sicilia dove non c' è verso di scoprire né gli autori materiali degli incendi né i loro mandanti, i quali non agiscono a capocchia, ma sono mossi da loschi interessi. Di fronte al fuoco che si propaga a grande velocità e su vasti territori, la maggior parte dei cittadini punta il dito accusatore sullo Stato, dice che l'autorità è inesistente, assente. Non c' è anima che si chieda cosa facciano le migliaia di guardie forestali, pagate dalla pubblica amministrazione, per sorvegliare le zone loro affidate ed evitare che siano incenerite. Il sospetto, anzi la certezza, è che si grattino il ventre e non svolgano neanche distrattamente i compiti loro assegnati in cambio di una buona retribuzione. Secondo la vulgata meridionale la colpa di ogni sfacelo è sempre del mitico Stato, quasi che questo fosse una divinità demiurgica. In realtà lo Stato che manifesta le proprie forze, o debolezze, a Napoli o a Palermo, è lo stesso presente a Pordenone e a Conegliano Veneto, per altro incarnato prevalentemente da funzionari del Mezzogiorno emigrati per questioni alimentari, i quali se al Nord sono efficienti significa che non sono stupidi e indolenti. Se sono bravi quassù perché laggiù sono asini? Evidentemente il problema nasce dal condizionamento ambientale. Non c' entra l'antropologia, bensì la sociologia. La gente del Mezzogiorno è più portata a collaborare con i delinquenti, temuti e venerati, che non con le Forze dell'ordine, poco rispettate. Infatti i meridionali che vivono a Milano sono diventati più milanesi dei milanesi, si sono perfettamente inseriti e sono i primi a comportarsi osservando le regole. Parecchi di quelli rimasti in Terronia, invece, influenzati dalla comunità storta in cui campano, ne adottano le cattive abitudini e sono guai. I peggiori di essi sono addirittura piromani e danneggiano i compaesani. Avranno la loro bella convenienza. E allora è inutile e ridicolo che il sindaco di Napoli quereli Libero perché analizza i costumi partenopei senza ipocrisia, focalizzandone i difetti maggiori. Qui non c' entra il razzismo e altre simili stupidaggini. Si tratta soltanto di prendere atto di ciò che è sotto gli occhi di chiunque ne abbia due aperti. Il disastro del Vesuvio, dove non è sorto un edificio che non sia abusivo (complimenti alle amministrazioni cieche), non é stato provocato da calamità naturali: i napoletani - non tutti per carità - si sono bruciati da sé. Si guardino allo specchio e sputino. Non sbagliano bersaglio. Vittorio Feltri.
Non di solo caldo e fuoco si riempiono la bocca i barbari padani.
Gaffe e bufera in rete sul Tg5. Il telegiornale Mediaset è finito nell'occhio del ciclone perché la giornalista Elena Guarnieri ha pronunciato queste parole durante la diretta del 12 novembre 2014 parlando del maltempo: «Il peggio sembra essere passato, la perturbazione adesso si è spostata al Sud». È doveroso ricordare che la perturbazione che era in "movimento" verso il Sud aveva causato enormi danni ad alcune regioni del Nord Italia. Sui siti e sui social si possono leggere numerosi commenti dei lettori. C'è chi attacca e chi difende la giornalista: «Non ho parole, umanità zero. Siamo tutti uguali nord e sud» scrive Martina. Dello stesso parere Francesca: «Se fossi in lei mi scuserei perchè siamo tutti sulla stessa barca». La pensa diversamente un altro utente: «Si ha sbagliato... si è' espressa male... di certo non mi sembra che sia un caso nazionale». Altri scrivono: “Pericolo scampato per chi? Per voi?”, o ancora “Questo è il livello delle reti Mediaset”. Molti, sul web e non solo, si domandano perché trovare confortante il fatto che sia il Sud ad essere colpito dalle prossime perturbazioni. Noi speriamo credere che la frase incriminata sia stata pronunciata inconsciamente, ma lo sdegno dei telespettatori è così forte che non riescono proprio a perdonare la terribile gaffe.
Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa). Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?
Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.
Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.
Vittorio Sgarbi sulle scritte di Locri: “lo Stato prende per il culo i calabresi, la mafia si combatte col lavoro non con inutili prediche”. Sgarbi sulle scritte di Locri: “fatte da disperati, non mafiosi. Vogliono lavoro e lo Stato li prende per il culo”, scrive il 23 marzo 2017 Danilo Loria su "Stretto web". Dopo il lungo intervento su Rai 3 su Locri e le scritte “ingiuriose” contro Libera e Don Ciotti, Vittorio Sgarbi ha pubblicato un nuovo video sulla sua pagina facebook, in cui, come al solito ha usato parole sprezzanti e schiette: “la mafia va combattuto assolutamente ma non con prediche ed invettive. Non si può immaginare una manifestazione che piange i morti in un luogo Locri dove ci sono più morti che vivi”. Il critico d’arte prosegue scagliandosi contro Don Ciotti: “il presidente di Libera ha tanti soldi grazie alla confisca ai mafiosi. Lo stato, a mio avviso, prende per il culo la Calabria: risolvano la questione disoccupazione. A mio avviso- è sicuro Sgarbi-sarà stato un disperato e non la ‘ndrangheta a scrivere “Don Ciotti sbirro”: è un grido per chiedere occupazione in un luogo dove non c’è. Don Ciotti invece di fare prediche vada a Norcia a dare le case ai terremotati”, conclude.
Sgarbi: “Ecco perché non c’è uguaglianza tra Nord e Sud. Napoli è sporca, ma… “, scrive il 23 aprile 2017 "Vesuvio live". Sgarbi spiega a modo suo le disuguaglianze tra Nord e Sud dell’Italia, un attacco in piena regola allo Stato e alle istituzioni. “Ecco cos’è la mafia: è lo Stato che non garantisce l’uguaglianza tra una città e l’altra nei servizi che dà soprattutto in materie essenziali come Sanità, scuola e Università”, ha dichiarato in un video sulla sua pagina Facebook. “Lo Stato non garantisce tutto questo, – ha continuato il critico d’arte – mi inquieta perché riflettendo su quello che dovremmo fare per l’Italia, nel Meridione che ha un patrimonio artistico più esteso di quello del Nord dovremmo avere la massima ricchezza e invece abbiamo Bagnoli, l’Ilva, abbiamo la distruzione delle coste, inquinamento dei paesaggi, ovunque sentiamo che il sud è punito, è dominato da una potenza negativa che lo sceglie come luogo dove si manifestano le forze oscure che non è la mafia ma lo Stato. Se uno nasce a Reggio Emilia ha più diritti di chi nasce a Reggio Calabria”. “Tutto ciò che tocca il meridione è decadenza, miseria, paura, insufficienza che è assenza dello Stato dove si intromette la mafia”, ha continuato Sgarbi. Poi si è espresso sulla polemica Napoli e sindaco di Cantù che la definì “Fogna”: “Napoli è vero che è sporca ma è perché è governata male. La regione non mette un po’ di ordine in un luogo dove è stato tra i più grandi della storia. Lo Stato deve essere presente, attraverso i servizi che deve garantire per le tasse che paghiamo, attraverso una vera uguaglianza tra nord e sud”.
Quand'è che lo Stato Italiano ha iniziato a trasformarsi in un mostro divoratore? Scrive Stato Minimo l'8 luglio 2017. La progressione delle tasse in Italia comincia verso il 1975, quando il sistema tributario italiano viene completamente riformato con l’introduzione dell’IVA del 1973 e con l’adozione di un modello di imposizione fondato sull’imposta personale progressiva nel 1974. Nel periodo successivo all’introduzione della riforma tributaria, l’Italia registra l’aumento più elevato della pressione tributaria globale in controtendenza rispetto agli altri paesi industrializzati. La pressione fiscale passa dal 25% del 1974 al 30% del1980, per salire al 35 a metà decennio, in parallelo all’esplosione del debito pubblico. Nel ’92, sull’orlo della bancarotta, sfonda la soglia del 40% per non tornare più indietro e per arrivare nel 2016 ad un insostenibile 44,1% nominale, che depurato dall’evasione schizza al 50,2% per chi le imposte è costretto a pagarle. La mitica «flat tax» annunciata dal Berlusconi del 1994, scritta a chiare lettere nel programma economico firmato Antonio Martino rimane un sogno infranto. Che cosa è accaduto? La politica italiana di fronte alle crisi di di competitività, ha scelto di non fare le riforme ma di aumentare la spesa corrente, e di fronte alle crisi del debito pubblico, ha scelto, invece della disciplina fiscale, di aumentare le tasse. Fino alla fine degli anni 80 il nostro paese è cresciuto più degli altri paesi sviluppati poi c’è stata l’inversione di tendenza fino all’arresto della crescita. Questo indipendentemente dalla congiuntura internazionale, quindi la crisi è nostra. Rispetto agli anni Settanta lo Stato oggi preleva dalle tasche dei cittadini italiani 200 miliardi di euro in più: questi dati dimostrano che un’elevata pressione fiscale soffoca la crescita. La spiegazione alla crisi italiana è qui: da quando a partire dagli anni Novanta abbiamo iniziato a caricare l’imposizione sulle imprese, si è frenato il motore dello sviluppo. Le imprese italiane, inoltre, devono sostenere costi di produzione superiori ai principali competitor europei (Francia, Germania, Spagna e Uk). Fatto 100 lo “standard europeo”, le imprese italiane pagano 115 i carburanti, 227 l’energia elettrica, 297 i tempi della giustizia civile, 316 i tempi della pubblica amministrazione. Quindi non solo la tassazione frena la crescita sottraendo risorse ai privati, ma quelle stesse tasse servono, non per infrastrutture, investimenti, ricerca, ma, attraverso la spesa corrente, per costruire una macchina infernale di freno, l’apparato burocratico, che, per affermare la sua (falsa) utilità, è esso stesso ostacolo allo sviluppo: insomma un doppio fardello. E’ per questo che l’Italia ha disperatamente bisogno della ricetta della destra liberale: meno spesa pubblica, meno tasse, più libertà economica.
La vera mafia è lo Stato che ci vessa. È arrivato il momento di guardare in faccia la realtà e di avere il coraggio di dire la verità: la mafia è questo Stato, scrive Magdi Cristiano Allam, Lunedì 23/06/2014, su "Il Giornale". Per la prima volta un Papa ha scomunicato la mafia. Benissimo! È arrivato il momento di far luce su chi sia la mafia. Chi potrebbe non essere d'accordo con la condanna assoluta di chi usa la violenza nelle sue varie forme, psicologica, economica e fisica, per sottomettere le persone al proprio arbitrio, al punto da violare i diritti inalienabili alla vita, alla dignità e alla libertà? Ma chi è veramente il Male che sta devastando la nostra esistenza? È la criminalità organizzata che impone il pizzo ai commercianti e fa affari con il traffico di droga e dei clandestini? È la massoneria che gestisce in modo più o meno occulto il potere ovunque nel mondo? È il Gruppo Bilderberg che associa chi più conta nella finanza e nell'economia sulla Terra? Certamente queste realtà interferiscono con la nostra vita con conseguenze tutt'altro che trascurabili. Ma si tratta di realtà che o non riguardano tutti noi o non ne conosciamo bene i contenuti e i risvolti. Viceversa siamo tutti, ma proprio tutti, più che consapevoli delle vessazioni che tutti i giorni lo Stato ci impone attraverso leggi inique e pratiche del tutto arbitrarie. Chi è che ci ha imposto una nuova schiavitù sotto forma del più alto livello di tassazione al mondo, fino all'80% di tasse dirette e indirette? Chi è talmente spregiudicato da speculare sulla nostra pelle legittimando e tassando il gioco d'azzardo, gli alcolici e le sigarette? Chi è a tal punto disumano da tassare la casa, il bene rifugio dell'80% delle famiglie italiane? Chi è che condanna a morte le imprese applicando un centinaio di tasse e balzelli in aggiunta a un centinaio di controlli amministrativi? Chi è che sta accrescendo la disoccupazione e la precarietà in tutte le fasce d'età e lavorative? Chi ha permesso che 4 milioni e 100mila italiani non abbiano i soldi per comperare il pane? Chi protegge le grandi banche e le grandi imprese che continuano a privatizzare gli utili e a socializzare le perdite? Chi ha finora istigato al suicidio circa 4.500 italiani attraverso le cartelle esattoriali di Equitalia o coprendo le vessazioni delle banche quando non erogano credito o ingiungono di rientrare negli affidamenti entro 24 ore? Chi ha svenduto la nostra sovranità monetaria, legislativa e giudiziaria all'Europa dei banchieri e dei burocrati? Chi è responsabile della crescita inarrestabile del debito pubblico e privato dal momento che siamo costretti a indebitarci per ripianare il debito acquistando con gli interessi una moneta straniera? Chi sta devastando le famiglie obbligando entrambi i genitori a lavorare sodo per riuscire a sopravvivere? Chi ci ha portato all'ultimo posto di natalità in Europa e ci sta condannando al suicidio demografico? Chi sta incentivando l'emigrazione dei nostri giovani più qualificati perché in Italia non hanno prospettive? Chi sta danneggiando gli italiani promuovendo l'invasione di clandestini e umiliando i più poveri tra noi favorendo gli immigrati nell'assegnazione di case popolari, posti all'asilo nido e assegni sociali? Chi sta consentendo l'islamizzazione del nostro Paese riconoscendo il diritto a moschee, scuole coraniche, enti assistenziali e finanziari islamici a prescindere dal fatto che confliggono con i valori fondanti della nostra civiltà, indifferenti al fatto che sull'altra sponda del Mediterraneo i terroristi islamici stanno massacrando i cristiani e riesumando dei califfati in cui il diritto alla vita è garantito solo a chi si sottomette ad Allah e a Maometto? Ebbene è questo Stato che si è reso responsabile dell'insieme di questi comportamenti che ci stanno impoverendo e snaturando, trasformandoci da persone con un'anima in semplici strumenti di produzione e di consumo della materialità, assoggettati al dio euro e alla dittatura del relativismo. Ecco perché è arrivato il momento di guardare in faccia la realtà e di avere il coraggio di dire la verità: la mafia è questo Stato. Di ciò sono certi tutti gli italiani perché è una realtà che pagano sulla loro pelle giorno dopo giorno. Quindi caro Papa Francesco lei ha scomunicato le alte personalità che ha ricevuto in Vaticano, a cui ha stretto la mano e ha augurato successo. Per noi sono loro i veri mafiosi che stanno negando agli italiani il diritto a vivere con dignità e libertà.
LE “CAZZATE” DI BOSSI.
Qualcuno ha una ricetta per Bossi? La domanda è posta da Alessandro Capriccioli su “L’Espresso”.
Ormai alle sue sparate (tipo quella su Monti) non ci si fa più caso. Eppure basta leggere questa piccola antologia dei suoi deliri per chiedersi come sia possibile che uno così in Italia sia divenuto ministro, anziché essere curato. Umberto Bossi. Pallottole, fucili, secessione dura, attacchi del popolo, armi, revolver, ira dei popoli, mitragliatori, legnate, facce da spaccare: le dichiarazioni di Umberto Bossi su Monti sono solo l'ultimo capitolo di una lunga saga fatta di continui riferimenti alla violenza. Eccovi un campionario sintetico degli ultimi vent'anni:
«Quando avremo perso tutto, quando ci avranno messo con le spalle al muro, resta il fatto che le pallottole costano 300 lire». (23 settembre 1993);
«[Silvio Berlusconi] Dovrai scappare dal Nord di notte con tua moglie e i tuoi figli e le valigie. Hanno capito che tu sei mafioso». (15 settembre 1995);
«I ripetitori sono i nuovi carri armati del colonialismo romano, per quelli veri basterebbero le armi anticarro e con 100 mila lire gliene buchi uno, ma contro quelli non basta non pagare il canone, vanno buttati giù, perché non devono più trasmettere a spese nostre». (9 agosto 1996);
«Amici magistrati, il rischio è che ci sia una Pasquetta, ma più che una Pasquetta come quella del 1916 in Irlanda: non verrebbero 1.500 uomini a imbracciare il fucile; saranno 150.000 e il giorno dopo un milione». (18 aprile 1998);
«Se non passa il federalismo il nord torna alla secessione ma quella dura, senza mezze misure, senza alcuna mediazione con lo Stato italiano». (4 dicembre 2003);
«Finora gli è andata bene. Noi padani pagavamo e non abbiamo mai tirato fuori il fucile, ma c'è sempre una prima volta». (26 agosto 2007);
«Abbiamo il dovere morale di liberare il nostro popolo da questa Italia schiavista. Il potere colonialista imbecille non capisce che il popolo aspetta solo il momento per attaccare, e quel momento verrà». (8 dicembre 2007);
«Si va al voto, oppure facciamo la rivoluzione. Facciamo la lotta di liberazione. Ci mancano un po' di armi ma le troviamo». (23 gennaio 2008);
«Se necessario, per fermare i romani che hanno stampato queste schede elettorali che sono una vera porcata, e non permettono di votare in semplicità e chiarezza, potremmo anche imbracciare i fucili». (6 aprile 2008);
«Ho fermato trecentomila bergamaschi pronti a imbracciare il fucile». (8 aprile 2008);
«Se Berlusconi mi telefona gli faccio sentire il rumore del mio revolver». (8 aprile 2008);
«Avremo tutti il mitragliatore in mano e sarà un piacere portarmene un po' all'altro mondo». (8 aprile 2008);
«Se la sinistra vuole scendere in piazza abbiamo trecentomila martiri pronti a battersi. E non scherziamo, mica siam quattro gatti, verrebbero giù anche dalle montagne con i fucili, che son sempre caldi». (29 aprile 2008);
«Non sarà bocciato [il lodo Alfano], speriamo bene. Non si può sfidare l'ira dei popoli». (7 ottobre 2009);
«Noi siamo destinati a veder nascere la Padania, non c'è santo che tenga. La Padania sta a noi se farla in maniera pacifica o violenta: io preferisco la via pacifica, perché per l'altra via c'è sempre tempo a utilizzarla». (28 giugno 2010);
«Berlusconi porta in piazza la gente e sono tanti, di più. La Lega si unisce a quell'operazione con il Veneto, il Piemonte e la Lombardia. Sono un sacco di milioni persone e sono incazzate». (14 agosto 2010);
«Ai giornalisti bisognerebbe dare quattro legnate». (20 agosto 2011);
Perché questi [i giornalisti] scrivono sulla mia famiglia e prima o poi vi spacchiamo la faccia o vi denunciamo». (31 ottobre 2011);
«Fate bene i conti. In Padania ci sono milioni di persone pronte a combattere». (18 settembre 2011);
«Monti rischia la vita, il nord lo farà fuori». (5 marzo 2012).
IL BOSSI PENSIERO E L’EMULO DEI LEGHISTI.
Raccolta di pensieri del leader leghista: SUD E MERIDIONALI
1996 (21 febbraio) -:"C'è un Nord che non ne può più di magistrati, insegnanti e carabinieri che si comportano come truppe coloniali e terrone".
1996 (29 febbraio - 5 agosto) -:"Il Cip deciderà probabilmente di far sgomberare gli italioti dalla Padania. Per esempio, il Nord è pieno di magistrati terroni".
1996 (20 agosto) -:"Dopo la nostra dichiarazione di indipendenza del 15 settembre, nascerà il Nuovo Stato Padano: le tasse pagate dalla gente del Nord rimarranno al Nord, e in Padania finalmente non avremo più giudici e insegnanti meridionali, ma solo gente del Nord".
1996 (21 agosto) -:"Questo Stato dei terroni getta la maschera e si svela razzista".
1996 (23 agosto) -:"I fischi contro di me all'Arena di Verona? Mi han fischiato i fascisti e i terroni, i fascisti meridionali organizzati dalla Cisnal".
1996 (12 ottobre) -:"Quì c'è un terrone che si vuole far passare per un grande magistrato, una sorta di uomo forte della politica... E c'è uno Stato che continua con il dilagante assistenzialismo, come dimostrano le quote latte per gli allevatori del Sud".
1997 (15 febbraio) -:"La Padania è stata invasa dai meridionali. I congolesi de Roma ci schiavizzano. Vogliono mandare al Nord migliaia di immigrati per reprimere la libertà individuale dei padani".
1997 (27 aprile) -:"La Lega ha in mano il Nord, meno Milano e Torino che sono piene di immigrati meridionali, che preferivano votare un pezzo di merda piuttosto che aiutare il Nord. Adesso sappiamo che la Lega non potrà mai vincere dopo ci sono immigrati meridionali. Adesso il movimento sa che questi signori andranno avanti fino alla colonializzazione del Nord. Il Nord non deve illudersi: se vuole la libertà se la deve conquistare, perchè gli altri non sono persone perbene, sono razzisti e colonialisti... Ora al Nord è tutto più chiaro: il Nord ha fatto venire delle persone e gli ha dato da lavorare e da mangiare, e questi farebbero qualsiasi cosa contro il Nord".
1997 (28 aprile) -:"Il Nord deve guardarsi dagli immigrati meridionali, che pensano che qualcuno gli debba qualcosa: almeno il 50 per cento di loro sono razzisti, danno un voto etnico. Formentini è stato buono e generoso con loro, e guarda come l'hanno ripagato:nemmeno 10 voti, dai meridionali. Quattro anni fa non c'era Berlusconi, ma appena è arrivato il loro padrino l'hanno seguito subito. Io avrei messo delle regole precise e chiare contro questi mafiosi, a cui dobbiamo pure mantenere i parenti".
1998 (17 Febbraio) -:"Il Nord non può stare con una banda di mafiosi... Mentre si danno 800 mila lire ai giovani meridionali per trovargli un posto di lavoro lontano da casa, invece di tenerli lì a creare posti di lavoro per combattere la mafia, nello stesso momento ecco che ci perseguitano. E' un fatto razziale, il sistema di potere deve colpire tutto quel che può colpire il padano".
1998 (7 Settembre) -:"L'unica vera battaglia che deve impegnarci d'ora in poi è quella per battere il meridionalismo e creare un blocco padano. Il meridionalismo è una filosofia che ha imperato a lungo e può essere battuta solo da un Nord coeso. Chi non vota a favore della Padania? I meridionali, quelli che non sono bene inseriti nel Nord. Perchè tra loro sono uniti, vengono da una lunga tradizione partita con il Regno delle Due Sicilie. E se il Nord è disunito, il Sud unito fa la sua partita".
1998 (25 Ottobre) -:"L'ideologia meridionalista è un dramma sia per il Nord che per il Sud".
DAL QUOTIDIANO LEGHISTA "LA PADANIA".
------------------------------------------------------------------------------Meridionali somari…
La Padania - 24 Luglio 98 - "Lo Stato discrimina i laureati Padani - Il valori legale del titolo di studio favorisce i meridionali nei concorsi", di Gianluca Savoini. "I laureati Padani sono forse meno bravi di quelli sfornati a raffica dalle università meridionali?... Le votazioni di laurea presso gli atenei del Sud sono assai più elevate (di manica larga) di quelle ottenute dai giovani studenti padani. La qualità della preparazione, il rigore degli studi, la serietà degli esami in Padania si avvicinano agli standard europei, eppure una laurea ottenuta a Milano è del tutto equivalente ad una ottenuta a Messina. E nei concorsi, dove il valore legale del titolo di studio permette il conseguimento di un punteggio finale migliore, i meridionali risultano avvantaggiati rispetto ai più "selezionati" colleghi del Nord.
----------------------------------------------------------------------------- Meridionali delinquenti…
La Padania - 24 Agosto 98 - Umberto Bossi. "C'è la Padania che è stata avviata e dopo 1200 anni il Nord si riunisce politicamente. Se non riuscirà a farlo con concretezza allora è morto, perché la mafia , la camorra e la classe politica del sud potrà entrare come un coltello nel burro. E quelli non hanno bisogno di cambiare, restano i delinquenti che sono sempre stati".
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Napoletani, calabresi, siciliani…
La Padania - 31 Agosto 98 - "Basta con l'Università coloniale", di Luca Riboni. " L'unica soluzione per riempire l'università è stata quella di aprire in modo indiscriminato agli studenti provenienti dal Meridione. I risultati non si sono fatti attendere: in pochi anni la Bocconi si è trasformata, al punto che chi oggi vi entra per fare un giro, sente parlare solo calabrese, siciliano e napoletano."
------------------------------------------------------------------------------disprezzano l'onestà"…
La Padania - 31 Agosto 98 - "Basta con l'Università coloniale", di Luca Riboni. Non dimentichiamo poi che gli studenti meridionali che vengono a studiare a casa nostra togliendo il posto ai nostri ragazzi non dimostrano alcun genere di rispetto e di considerazione verso la città che li ospita, disprezzando l'onestà, il senso civico e la laboriosità dei suoi abitanti.
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"…ci fregano il lavoro…"
La Padania - 31 Agosto 98 - "Basta con l'Università coloniale", di Luca Riboni. Il meridionale che viene a studiare a Milano ha una sola cosa in testa: fregare ad un padano un buon posto di lavoro.
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"…sono leccapiedi italioti."
La Padania - 31 Agosto 98 - "Basta con l'Università coloniale", di Luca Riboni. Il settore università della Lega ha elaborato una proposta chiara: almeno l'85% dei posti nelle nostre università deve essere assegnato con priorità ai residenti in regione da un minimo di 5 anni. Padani devono essere anche i docenti: i leccapiedi italioti dell'Ulivo vanno dunque cacciati senza dubbi e ripensamenti. Solo così finalmente potremo dire, entrando nei nostri Atenei: qui si respira aria di casa nostra."
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Battaglia tra Nord e Sud
La Padania - 15 Settembre 98 - " Il sonnifero romano e il non mutare delle cose " di Elettra (pseudonimo): Roma ha sempre avuto due colonie: il Nord enorme potenza economica, il Sud serbatoio di voti. E' chiaro che finché il giochetto tiene non sarà possibile rinnovare nulla. La battaglia questo punto è tra Nord e Sud. Eppure c'è chi non l'ha ancora capito.
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…stufi di mantenere i meridionali…
La Padania - 1 Febbraio 99 - "Assistenzialismo o invasione, il risultato è lo stesso. Si tratti di mantenere le sovrastrutture politiche meridionaliste o di accogliere i clandestini, il tutto continua ad essere fatto a spese del Nord", di Carlo Stagnato: Noi padani, non vogliamo pagare la bella vita a tutti i diseredati di questa terra, ma siamo pure stufi di mantenere l'intero Mezzogiorno d'Italia.
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I padani, gli italioti e gli extracomunitari
La Padania - 22 Novembre 98 - "Una società a tre caste", di Gilberto Oneto: La società italiana è oggi organizzata su tre caste: ci sono i padani, gli italioti e gli extracomunitari. I padani (con tirolesi, toscani e sardi) hanno tanti doveri e pochi diritti; gli italioti tanti diritti e pochi doveri e gli extracomunitari solo diritti.
---------------------------------------------------------------------------- Discriminare è giusto…
La Padania - 21 Luglio 99 - "Se discriminare significa essere liberi di scegliere", di Carlo Stagnaro: Da oggi è vietato introdurre nei concorsi pubblici vincoli relativi all'altezza, all'età e alla residenza dei candidati. Questo si aggiunge alla già vigente e tristemente nota Legge Mancino. "Donne, drogati e musulmani e handicappati hanno più diritti di noi Padani…" Noi oggi siamo costretti a discriminare alcuni nostri simili a favore delle donne, dei musulmani, dei meridionali, degli handicappati, dei drogati e così via. Nei fatti quest'ultimi hanno più diritti di noi, godono di una reale, sebbene parziale, impunità legislativa e hanno maggiori possibilità di far valere i propri diritti, veri o falsi che siano. …ed è un nostro diritto. E' un sacrosanto diritto di ogni individuo, insomma, quello di " discriminare " (cioè preferire) qualcuno a qualcun altro in base a criteri personali. Una società in cui non è possibile discriminare non è una società libera.
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E vai col Cantanapoli…
La Padania - 11 Ottobre 99 - "La TV italiana: Nord off-limits". Non di rado vengono mandate in onda trasmissioni del tipo "Cantanapoli" o cose del genere. Senza contare i concerti di grandi personaggi della musica leggera nazionale quando si esibiscono guarda caso da Roma in giù: due nomi su tutti, Baglioni e Renato Zero". Uniche variazioni al tema sono il festival di Sanremo (nel quale comunque è sempre garantito uno spazio alla musica partenopea). Basta con la bellezza mediterranea… Nemmeno in un concorso stupido come Miss Italia le settentrionali riescono ad emergere in qualche modo. Anche quest'anno ha vinto una tipica bellezza mediterranea (per la cronaca Pugliese).
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Senza parole
La Padania - 29 Novembre 99 - "Scuola, al Sud piace la Lombardia. Più della metà dei candidati siciliani, in caso di assunzione, ha chiesto di andare ad insegnare in una regione del Nord". · ….le domande arrivano soprattutto - c'erano dubbi, essendo un concorso pubblico - dal Mezzogiorno, con Campania e Sicilia in testa, e 15 candidati su 100 sono disposti a trasferirsi in un'altra regione pur di ottenere il posto di lavoro".
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Contro l'agricoltura del sud
La Padania - 2 Dicembre 99 - "Le proposte del Governo della Padania". Il Governo della Padania in occasione dell'apertura dei lavori del Millennium Round a Seattle, condanna la posizione del governo italiano che ha dichiarato di difendere, all'interno della conferenza, l'agricoltura mediterranea, con l'esclusivo interesse delle regioni meridionali.
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Senza parole 2
La Padania - 25 Febbraio 2000 - " Concorsi regionali all'Inps ". …Tutte le volte che l'istituto deve assumere, fa un concorso che normalmente si tiene a Roma. La maggior parte dei partecipanti proviene per varie ragioni (cattiva informazione o scarso interesse per un posto nella pubblica amministrazione al Nord, mentre al Sud c'è più attenzione per questi concorsi) dalle regioni meridionali. E quindi la maggior parte degli assunti, anche in Padania, viene dal Sud.
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Su Berlusconi
La Padania - 8 luglio 1998 - Pag. 1. "Berlusconi mafioso? 11 domande al Cavaliere per negarlo. Dai miliardi per comprare il terreno su cui costruì Milano 2 alle società con parenti di Buscetta". "Signor Berlusconi, chi le diede nel 1968 l’equivalente di 32 miliardi d’oggi per acquistare i terreni?". "Per quale motivo, Cavaliere, fece amministrare importanti quote della Fininvest alla società Par.Ma.Fid. di Milano? Sapeva che gestiva anche i patrimoni di boss mafiosi?". Pag. 2. Il catenaccio che sovrasta anche la pagina successiva recita: "Berlusconi mafioso? Al signore di Arcore la parola: convochi una conferenza stampa per rispondere a queste domande". Poi i titoli di questa seconda pagina. "Tra il 1968 e il 1979 Berlusconi eseguì aumenti di capitale per centinaia di miliardi. Soldi di chi?". "Perché, signor Berlusconi, lei si ostina a tacere? Dica l’identità dei suoi finanziatori". "Le 22 holding misteriose su cui indagano a Palermo". Pag. 3. Titolone centrale: "Un impero di prestanome. Berlusconi ci dica perché li ha usati dal 1968 al 1984". Occhiello di questo titolo: "Oltre gli ‘anonimi’ flussi finanziari, c’è un altro mistero da spiegare". Pag. 4. "Casalinghe e praticanti notai, queste furono le prime coperture di Berlusconi. Perché?". Il testo, lunghissimo, minuzioso, pieno di cifre e di dettagli, che stava sotto questi titoli era preceduto da una presentazione molto veemente. Qui, dopo aver ricordato "i fortissimi capitali" che avrebbero consentito a Berlusconi di mettere in moto una potente macchina edilizia, e la sospetta mafiosità di questi aiuti, si concludeva così: il Cavaliere "sveli questo mistero. E prosegua facendo cadere gli altri schermi che impediscono di capire le fonti di così tanto denaro e le successive, strabilianti, scelte gestionali. Parli, Cavaliere. Parli o taccia per sempre".
PREGHIERA PER LA PADANIA LIBERA
O Gesù dagli occhi buoni
fai morire tutti i terroni.
O Gesù dagli occhi belli
Fa Morire solo quelli.
Oh mio caro e buon Gesù
Fa che non ne nascan più
Fa sparire quella razza
che da noi quassù si piazza.
Nella tua grande gloria
Falli fuori dalla storia
Non si senta più parlare
neppur quelli d'oltremare.
Poni fine per favore
A quell'unico tuo errore
Per la tua onnipotenza
ti chiediam l'indipendenza
O Signore te lo giuro
noi qui al Nord vogliamo il muro
che sorretto da due pali
porti via i meridionali
Dillo pure a giove pluvio
fa venir n'altro diluvio
che sommerga con ragione
tutto quanto il meridione.
Fa in modo che mia figlia
Non sia "Ciccio" che la piglia
CHE SIAN BRUTTI, CHE SIAN MOSTRI
MA CHE SIAN SEMPRE DEI NOSTRI
Così Sia
INNO DELLA LEGA LOMBARDA
O Gesù d'amore acceso
Quanti soldi abbiamo speso
Per sfamare quei coglioni
che si chiamano terroni
sono giunti qui a Milano
dopo la rivoluzione
per riempire la Padania
con la disoccupazione.
Quando arriva il bel Natale
chi sta bene e chi sta male
se ne tornan giù in Sicilia
a trovare la famiglia
fino a Pasqua stanno giù
quei fetenti de terù
e tra feste e malattia
da laurà sen parla mia
Oh Signore te lo giuro
noi qui al Nord vogliamo il muro
che sorretto da due pali
porti via i meridionali
Alle sette di mattina
noi andiamo a lavorare
loro sono in una zona
a pregare Maradona
Se parliamo di lavoro
quelli esclusi sono loro
tutti fermi dietro ai muri
pronti a fare gli scongiuri....
per tirar la conclusione
sulla razza del terrone
che comprende quella sarda
voterem lega lombarda
IL RAZZISTA CHE NON TI ASPETTI, CON I NATALI INDEGNI.
Vittorio Feltri scatenato alla presentazione del libro di Marco Reguzzoni, ex capogruppo della Lega Nord alla Camera. “Gente del Nord”, questo il titolo della pubblicazione. Ed è proprio alla domanda sul grado di “leghismo” dell’ex presidente Silvio Berlusconi che il direttore bergamasco de Il Giornale sfodera tutta la sua verve. “Berlusconi non può essere definito un padano, perché è sempre lì a circondarsi di terroni. Fa persino scrivere gli inni ad Apicella, poi per quello nuovo ha scelto Maria Rossa Rossi, detta anche Apicella regina. Basta guardare le frequentazioni dell’ex presidente Berlusconi per capire quanto sia “terrone”. “È andato persino a una festa a Casoria. Che io non ci andrei manco a prendere un caffè a Casoria.....Anzi è proprio da lì che sono iniziati i suoi problemi, mi pare”. Poi una battuta sul federalismo. “Non passerà mai! Fatevene una ragione voi leghisti. Anche se facessimo un referendum a sud voterebbero tutti contro, perché vogliono sempre abbeverarsi alla tetta del nord, mentre a nord, i parenti del sud darebbero il colpo finale”. Reguzzoni sorride: “Lo dici perché sei un secessionista convinto”.
Aljarida (in arabo “il giornale”) è un interessante periodico mensile free press, realizzato a Milano. Interessante per varie ragioni: ricco di notizie sul territorio e le dinamiche dell’immigrazione (ma sempre senza retoriche ideologiche), informato sul dialogo culturale che intercorre fra le due sponde del Mediterraneo, e opportunamente scritto in due lingue: italiano e arabo. Ma la ragione per cui vi parlo di Al Jarida è anche un’altra: un articolo intitolato “Tutto il mondo è Paese”. Nell’articolo – che si può leggere sul numero di giugno 2010 della rivista, oppure sul suo sito – si spiega l’origine – araba in certi casi , “meridionale” in altri – dei cognomi di alcuni deputati leghisti. In sostanza, spiega l’articolo, quando nel 1492 i Mori vennero cacciati dalla Spagna (Al Andalus, l’Andalusia) alcuni fuggirono nella Repubblica di Venezia e in particolare in una città che faceva parte del suo territorio, Brescia. Così, i cognomi di molti bresciani hanno origini arabe. Per esempio quello dell’on. Gibelli, deputato della Lega Nord e Vice Governatore della Regione Lombardia non ha origini celtiche bensì arabe: molti Mori fuggiti dalla Spagna si rifugiarono infatti sulle montagne del bresciano e Gibelli deriva dalla parola araba giabali che significa appunto “montanaro”. L’articolo su Aljarida contiene anche altre stimolanti informazioni, fra cui una riguardante il nuovo Presidente della Regione Piemonte, il leghista Roberto Cota: il suo cognome sembra derivare dall’arcaico albanese kota, termine diventato un cognome molto diffuso nel meridione d’Italia e sopratutto in Puglia e che – particolare curioso – in albanese significava “inutile, cosa da poco”.
Cosa concludere, di fronte a tali notizie di carattere storico? Questo: trovo triste che i nostri bravi leghisti rinneghino le proprie radici arabe, albanesi, meridionali, mediterranee. Da loro, così orgogliosi della Tradizione, non me lo aspettavo.
Anzi dirò di più. Buon per loro avere origini meridionali, perchè ad essere POLENTONI si rischia di avere una considerazione minore che essere TERRONE.
Secondo Wikipedia Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale.
Origine e significato. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo, e sta ad indicare una persona zotica un pò lenta di comprendonio (po' lentone). Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta e dai movimenti goffi e impacciati.
Secondo Carlo Crispo su “Il Denaro” la Lega ha deliberato la riapertura del Parlamento della Padania e di lottare per la secessione. La Lega però si è guardata bene dal chiudere la Giunta Regionale di Formigoni. Gli Onorevoli “Leghisti”, del Parlamento “Italiano” non hanno rassegnato le dimissioni, continuano a percepire i lauti stipendi “Italiani” riservati ai parlamentari “Italiani”. In una recente apparizione televisiva l’ex ministro leghista Maroni, ha tenuto a precisare che i politici della Lega sono persone serie , e neanche avesse la coda di paglia, si è affrettato ad aggiungere che, in buona sostanza, non bisognava essere tratti in inganno dalle apparizioni teatrali di “Pontida”. Infatti, in un bel palco, durante il corso di dette manifestazioni, compaiono personaggi, con elmo, corna, spade e scudi, tutti mascherati con abiti variopinti, che intonano brani musicali, che, a ben vedere, però, rievocano l’unità nazionale. In dette pittoresche manifestazioni, (in cui traspare qualche gene meridionale, se non altro per la decisa “Teatralità”, riconducibile al bisnonno di “Scarpetta”), si inneggia alla secessione. I Leghisti, per buona parte discendenti da meridionali emigrati, patiscono la cosiddetta “sindrome di Santa Chiara” nel senso che se Napoli và male si dispiacciono, se Napoli va bene, si dispiacciono due volte. E’ comprensibile, ove si consideri che i loro ascendenti hanno dovuto, per necessità, lasciare la loro bella terra d’origine, per recarsi in luoghi sicuramente meno ameni, nei quali hanno sofferto e si sono distinti ed affermati per le loro capacità lavorative. Quello che non è comprensibile è che dai veri settentrionali avrebbero dovuto recepire oltre la dedizione al lavoro anche la generosità ed il cuore. I leghisti vivono male in quanto depressi per aver “perso l’ideale capitale: Milano”, ma, sopra tutto perché perennemente adombrati dai loro sentimenti di aspro e sordo rancore nei confronti dei meridionali. Non vogliono rendersi conto che l’Italia non è una azienda, l’Italia è una famiglia. In una famiglia, ove mai vi fossero fratelli in difficoltà, questi vanno soccorsi spontaneamente e con solidarietà. I problemi, in seno ad una famiglia, sono i problemi di tutti e vanno risolti insieme. Se la pianura Padana fosse invasa dalle acque, evento non improbabile in virtù dei rilevanti cambiamenti climatici, noi meridionali, “poveri” ma aperti e propensi all’amore, accoglieremmo con gioia i figli dei leghisti nelle nostre case piene di sole. Di converso, se eruttasse il Vesuvio, va temuto, in virtù di comportamenti oggettivi, il compiacimento dei leghisti, tanto attaccati ai conti; compiacimento, in parte, sicuramente dovuto al fatto che risparmierebbero anche le spese per seppellirci, avendo la cenere provveduto a tanto. Tornando al livore ed all’unica deprecabile attività politica dei leghisti, quella di fomentare l’odio tra i “fratelli” di Italia, particolare significato assumono le singolari dichiarazioni dell’onorevole Bossi, (del resto, noto per l’immenso spessore culturale), raccolte nelle registrazioni televisive, tra queste, di particolare rilievo è stata quella in cui si minacciava di imbracciare i fucili. Qualche personaggio di Casal di Principe, avrebbe mostrato deciso interesse all’argomento, sicuramente si sarebbe informato di quando i Leghisti sarebbero transitati con i “ventilati” fucili, se non altro, per “scipparglieli dalle mani”. Ricordiamo ai pittoreschi secessionisti che durante l’occupazione Americana, nel dopo guerra, a Napoli, nei quartieri Spagnoli, si “vendevano” i soldati americani e che gli stessi, nella migliore delle ipotesi, ritornavano, in caserma o sulle navi, in mutande. Va ribadito che la Lega è un partito che fonda le sue radici nei principi dell’egoismo e dell’ingiustificato rancore, per tanto, destinato a dissolversi, come tutte le forze del male, al cospetto del nostro amore incondizionato e della nostra solidarietà verso tutti i settentrionali; da Noi , ahimé, in buona parte discendenti. Certo la Lega si dissolverà per sua sponte, non prima però di aver tentato di ferirci, ingiustamente, a morte.
L'ITALIA DEL PREGIUDIZIO E DEL PRECONCETTO.
Un Popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato da coglioni. Per essere omologati nell'esercitare una professione bisogna essere abilitati. Gli abilitati conformati disconosceranno sempre la loro abilitazione truccata mirata alla coglionaggine certificata. Chi non è come il coglione comune è additato come un anormale, senza che di questi si conoscano pregi e virtù. Su di esso la scure del preconcetto e del pregiudizio.
Il pregiudizio è un giudizio anticipato basato su supposizioni o su informazioni incomplete.
Il preconcetto, invece, è un giudizio che non deriva da un esperienza diretta ma solo a detta di altri.
Da Treccani:
pregiudìzio, (ant. pregiudìcio) s. m. [dal lat. praeiudicium, comp. di prae- «pre-» e iudicium «giudizio»].
1. Nel diritto romano, azione giuridica precedente al giudizio, e tale da influire talvolta sulle decisioni del giudice competente.
2. a. Idea, opinione concepita sulla base di convinzioni personali e prevenzioni generali, senza una conoscenza diretta dei fatti, delle persone, delle cose, tale da condizionare fortemente la valutazione, e da indurre quindi in errore (è sinon., in questo sign., di preconcetto): avere pregiudizî nei riguardi di qualcuno, su qualcosa; essere pieno di pregiudizî; giudicare senza (o con l’animo sgombro da) pregiudizî; molti continuano ad avere dei p. sulle capacità professionali delle donne; i suoi p. erano il risultato di un’educazione all’antica; pregiudizî di casta; p. morali, razziali, religiosi, sociali, politici; uno di quei settentrionali con la testa piena di pregiudizi, che appena scendono dalla nave-traghetto cominciano a veder mafia ovunque (Sciascia).
2. b. Convinzione, credenza superstiziosa o comunque errata, senza fondamento: combattere contro vecchi p. popolari; è un vecchio p. che rompere uno specchio porti sfortuna.
3. a. Il danno che può derivare agli interessi di una persona da un atto che pregiudichi, cioè comprometta l’esecuzione di una eventuale decisione favorevole del giudice competente; spec. in frasi del tipo: senza p. dei miei diritti; senza p. di terzi; in p. di, con riferimento ad azione giudiziaria, civile o penale, proposta a carico di qualcuno. b. Per estens., fuori del linguaggio giuridico, danno in genere: essere di p. (o di grave p.) per la salute, per la reputazione; recare p., danneggiare; bel modo quell’onesto curato ha saputo trovare per buttar via danari, con non mediocre pregiudizio d’un suo chierichetto, che deve essere un dì suo erede perché gli è nipote (Baretti).
preconcètto, agg. e s. m. [comp. di pre- e del lat. conceptus (part. pass. di concipĕre «concepire»), per traduz. del fr. préconçu].
1. agg. Propriam., concepito prima; si dice soprattutto di idee o giudizî formulati in modo irrazionale, sulla base di prevenzioni, di convinzioni ideologiche, di sentimenti istintivi, spesso per partito preso e senza una esperienza personale: opinioni p.; antipatia, avversione, ostilità p.; una presa di posizione preconcetta.
2. s. m. Convincimento, idea, opinione privi di giustificazioni razionali o non suffragati da conoscenze ed esperienze dirette: il tuo ragionamento parte da un p. erroneo; bisogna giudicare senza preconcetti; talvolta usato in luogo di pregiudizio, che con questo sign. è termine più com.: essere pieno di preconcetti; avere p. borghesi; una persona che non sa liberarsi dei suoi p.; la moderatezza delle mie parole mandava all’aria tutti i suoi p., le sue misure abituali (C. Levi).
Valeria e i pregiudizi su Napoli: «Mi sentivo come Bisio in Benvenuti al Sud». Valeria Genova, 31 anni, da Treviso in Campania per seguire il marito. «Mia nonna mi ha salutata dicendo: stai attenta ai proiettili volanti. Pensavo che fosse il Far West, ora piango a lasciarla», scrivono Michela Nicolussi Moro ed Elena Tebano l'8 agosto 2017 su "Il Corriere della Sera". «Vedi Napoli e poi muori» scriveva Goethe nelle lettere del suo Viaggio in Italia, 1787, citando il detto locale: è così bella che se l’hai vista non hai bisogno di vedere altro. Valeria Genova, trentaduenne di Treviso, l’aveva preso un po’ troppo alla lettera: «Quando nel 2015 ho saputo che avrei dovuto seguire mio marito a Napoli mi sono messa a piangere — racconta —. Avevo paura. Dico solo che mia nonna mi ha salutata con queste parole: “Stai attenta ai proiettili volanti”». Adesso per lei è venuto il momento di lasciare il capoluogo campano e ha scritto un addio su Facebook così pieno d’amore per la città da essere diventato virale, con oltre 34 mila like e più di 14 mila condivisioni in meno di una settimana. Tanto che i tifosi del Napoli l’hanno invitata in curva a vedere l’amichevole di oggi allo stadio San Paolo. Ha promesso che ci andrà, se possibile anche con la figlia di due anni, sicuramente con il marito. Lui è pilota dell’aereonautica e, dopo un periodo in Inghilterra e un altro in Veneto, era stato trasferito a Pozzuoli.
I preconcetti (sbagliati). Valeria però di Napoli conosceva solo il sentito dire. «Benvenuti al Sud non è un’esagerazione, è proprio realtà; io mi sentivo come Bisio, sfigata nel dover andare a vivere in una città piena di problemi, come se fossi in mezzo al Far West», ha scritto nel post. Preconcetti, ammette a ragion veduta: «Sono passati due anni in cui ho vissuto Napoli in tutte le sue sfaccettature e non posso sentirmi più scema per tutti i pregiudizi che avevo su di lei — confessa —. Posso affermare con assoluta certezza e convinzione che Napoli è casa mia». E ancora: «In Napoli mi sono tuffata e adesso non vorrei più uscirne, vorrei stare per sempre tra le sue braccia, cullata dalle tante cose che la rendono speciale. Sì il clima, sì il mare, sì il cibo... ma è molto di più! Napoli è cultura, è ricchezza e povertà, è un groviglio di storie e racconti, è poesia e musica, è allegria e caparbietà, è capacità di vivere appieno la vita, è amore e consapevolezza».
L’accoglienza meridionale. A cambiare le cose è stata l’accoglienza del quartiere di Posillipo prima, poi della città intera: «Non conoscevo nessuno, non avevo né amici né parenti. Ma dopo tre giorni — racconta — la mamma di un bambino che era al nido con mia figlia mi ha iscritta in un gruppo WhatsApp con altre mamme e ha organizzato una piccola festicciola. Sono diventate le mie grandi amiche. La gente del Sud ha una propensione verso l’altro, un affetto, un comportamento accogliente e accudente che al Nord ci scordiamo». Infine è arrivata la scoperta della cultura che affonda le radici nella storia partenopea: «L’anima di Napoli è il teatro —spiega —. Per me, abituata a vedere quelli al Nord che faticano a riempire la sala, assistere al San Carlo sempre pieno è stata una grande emozione». Questa settimana Valeria traslocherà a Roma, la nuova destinazione del marito. «Farò l’ambasciatrice di Napoli» ha promesso. Porterà con se orizzonti un po’ più ampi e le parole di Alessandro Siani in Benvenuti al Sud: «Quando un forestiero viene al Sud piange due volte, quando arriva e quando parte».
"La città di Napoli è l'inferno". E il Sun la paragona a Raqqa. Omicidi, spaccio di droga e bande di malavitose. E il Sun inserisce Napoli tra i dieci posti più pericolosi al mondo, scrive Enrica Iacono, Martedì 18/07/2017, su "Il Giornale". "Vedi Napoli e poi muori", dice un detto popolare per indicare la bellezza del capoluogo campano. Oppure "Vai a Napoli e vai all'inferno", come dice un articolo pubblicato oggi dal tabloid inglese The Sun. Il capoluogo campano, governato ormai da sei anni dal sindaco arancione Luigi De Magistris, è stato infatti inserita tra i posti più pericolosi del pianeta, "most dangerous corners of Earth". Omicidi, spaccio di droga e bande di malavitose. Per gli inglesi Napoli è molto simile a una città in guerra. E, così nell'infografica inserita dal Sun, sul capoluogo campano è stato "appiccicato" il bollino rosso. A farglielo "guadagnare" sarebbero stati i continui omicidi e lo spaccio della droga. Le altre città incluse nella classifica sono Raqqa, Caracas, Groszny, Mogadiscio, Saint Louis, Kiev, Perth, Karachi e San Pedro Sula. Napoli è quindi la città più pericolosa d'Europa. "A Napoli è di casa la camorra", scrivono nell'articolo. Mentre fino a pochi anni fa veniva chiamata "neapolitan mafia", con il fenomeno di Gomorra adesso viene chiamata con il proprio nome. Nell'approfondimento del Sun si parla, poi, dei clan partenopei che si distinguono da altri consessi mafiosi italiani per l’assenza di gerarchie nell’organizzazione. Le gang, invece, spesso composte da dodicenni, compiono ogni giorno atti di microcriminalità. "Napoli è la città italiana famosa per i suoi legami con la criminalità organizzata", si legge nell'articolo. Per questo motivo Napoli è definita come sistema in cui gruppi rivali si scontrano soprattutto per il predominio del traffico di stupefacenti. Fino alla frase conclusiva: "La città gode di una reputazione talmente brutta in Italia che la frase "go to Naples" si accosta a “go to the hell", andare all’inferno’".
Napoli come Raqqa? Croce direbbe: fate finta di sì, la migliorerete. «The Sun» l’ha inserita nella lista delle più pericolose: involontaria citazione da «Benvenuti al Sud» dove Claudio Bisio indossava il giubbotto antiproiettile, scrive Marco Demarco il 18 luglio 2017 su “Il Corriere della Sera”. Napoli come Raqqa, Caracas e Karachi? Napoli tra le prime undici città più pericolose del mondo insieme con Grozny, Mogadiscio, Manila, St. Louis, Kiev, San Pedro Sula e Perth in Australia? Di fronte a certe notizie come questa appena sparata dall’inglese Sun bisognerebbe reagire come un secolo fa, in situazioni analoghe, consigliava di fare don Benedetto. Allora si parlava della diversità in senso antropologico dei napoletani, e anche della loro predisposizione alla vita criminale, e Croce suggeriva di non inalberarsi più di tanto, ma, per quanto possibile, di stare al gioco. Meglio: di far buon viso, e cioè, sapendo che la cosa non era vera, di comportarsi come se lo fosse, così da approfittarne per migliorare sempre di più le condizioni generali della città e del Mezzogiorno. Di fatto, però, poi è quasi sempre successo il contrario: c’è stato molto fumo vittimistico e identitario nel rispondere alle provocazioni, ed è mancata, invece, la sostanza necessaria per rimuovere le troppe condizioni di svantaggio. Anche questa volta è probabile che il primo a mettersi in moto sarà l’ufficio comunale che il sindaco de Magistris ha di recente istituito per difendere in sede legale la buona immagine della città, mentre gli ultimi saranno quelli che dovrebbero occuparsi, in senso generale, della sicurezza urbana. Che pur non essendo ai livelli indicati dal Sun, non è neanche, bisogna dirlo, al pari degli standard europei. Quelli del servizio giornalistico ricordano, semmai, per un verso, gli scenari di «Gomorra» e per l’altro quelli ipotizzati in «Benvenuti al Sud», quando il povero Claudio Bisio è costretto a lasciare la sua Brianza per il Cilento e lo fa solo dopo aver indossato il giubbotto antiproiettile. E infatti il Sun è lì pronto a ricordare che Napoli è la città della camorra, pardon, de «’O sistema», come scrive a conferma di un certo aggiornamento professionale, e delle «baby gangs», quelle delle sparatorie tra la folla, le cosiddette «stese», delle piazze di spaccio da difendere con i Kalashnikov. L’unica concessione che nella sua infografica il tabloid fa a Napoli è di evitarle le icone peggiori, quelle relative al terrorismo, il simbolino della bomba a mano, e alla violazione dei diritti umani, il martelletto giudiziario. Ci sono invece le icone relative agli omicidi, alla droga e alla criminalità comune. Il finale, poi, è tutto un programma: «La città gode di una reputazione talmente brutta in Italia che la frase “go to Naples” si accosta a “go to the hell”, “andare all’inferno’». Proprio come pensava Angela Finocchiaro, la moglie di Bisio, nel film di Luca Miniero.
De Magistris: “Chi diffamerà Napoli sarà querelato”. Allo sportello online del Comune si potranno segnalare le offese, gli eventuali risarcimenti saranno usati per «migliorare l’arredo, il decoro e la qualità dei servizi». Ma c’è già chi parla di «caccia alle streghe» e di «metodi da Gestapo», scrive "la Stampa" il 18/04/2017. C’è chi ha definito Napoli «fogna d’Italia» e chi ha auspicato l’intervento del Vesuvio per «lavare con il fuoco» i napoletani. C’è chi ha chiamato in causa la camorra, chi i rifiuti, chi perfino il colera. In tanti, negli anni, a Napoli e ai napoletani hanno rivolto un bel po’ di offese. Ora il Comune, sindaco in testa, dice basta. E chi diffamerà la città sarà querelato, promette, senza se e senza ma. Benvenuti nello sportello online “Difendi la città”, dove si potranno segnalare offese, allegare screenshot dei profili social, foto. «Una novità assai interessante, una comunità che difende la propria comunità», la definisce il sindaco Luigi de Magistris. Ma sui social non tutti ne sono convinti e in barba a minaccia di querela, c’è chi parla di «caccia alle streghe» e di «metodi da Gestapo». La presentazione dello “sportello” che si legge online è più che chiara: «Da tempo ma sempre più spesso si assiste ad una narrazione distorta e a volte diffamatoria della città di Napoli rendendola oggetto di pregiudizi, stereotipi e dannose generalizzazioni. In riferimento alle attività promosse nell’ambito della delega Napoli Città Autonoma, il Comune istituisce lo sportello online “Difendi la Città” per raccogliere le segnalazioni dei cittadini napoletani relative alle offese contro Napoli, chiedendo attraverso gli uffici comunali interessati precisazioni ed apposita rettifica ma eventualmente avviando, previa attenta valutazione dell’Avvocatura comunale, iniziative legali per tutelare la dignità del territorio, l’immagine e la reputazione della città di Napoli e del popolo partenopeo». Il sindaco, tutto questo, lo spiega così: «Non si tratta di essere insofferenti alle critiche delle quali abbiamo bisogno». Il discorso è un altro e lo sintetizza in una frase che, in conferenza stampa, pronuncia in dialetto: «Hanno fatto di tutto per “schiattarci”». A chi gli chiede se così i napoletani non rischiano di passare per permalosi e vittimisti, il sindaco risponde: «No, il vittimismo, il piagnisteo, le manie di persecuzione non c’entrano proprio nulla. Non è una santificazione della città o una insurrezione razziale». É, piuttosto, una «contro narrazione»: «Non intendiamo fare una propaganda o fare un mezzo di comunicazione alternativo ma vogliamo difendere la città quando chiunque, chiunque esso sia, fa una ricostruzione contraria al vero della città che frena le potenzialità». E così se un sindaco al pari di un cittadino, se un italiano al pari di uno straniero offenderà Napoli sarà querelato. Anche i cori da stadio rientreranno nella valutazione dell’Avvocatura. E se poi qualcuno sarà condannato a pagare i danni, i soldi ricavati dal risarcimento saranno destinato a questo: «Faremo soprattutto azioni civili, piccoli azioni per migliorare l’arredo, il decoro e la qualità dei servizi».
Lo sportello rientra nel progetto Napoli città autonoma. «Napoli sarà la prima città ad avere uno statuto autonomo nell’Italia del terzo millennio - conclude de Magistris - Il nostro è un progetto vero che non è contro nessuno ma è per la città».
Pronta la reazione dei nordisti. Vedi Napoli e poi ti querela, scrive Mercoledì 19 aprile 2017 Massimo Gramellini su "Il Corriere della Sera". La stima incommensurabile che il genere umano nutre per il sindaco De Magistris rischia di essere messa a dura prova dalla sua ultima iniziativa. Uno sportello giudiziario a cui potranno rivolgersi vittime e testimoni di diffamazione ai danni di Napoli e dei napoletani. La nobiltà dell’intento è inconfutabile. Napoli è città fuori dal comune bersagliata dai luoghi comuni. Ma non è un luogo comune il vittimismo alimentato dalla sua classe dirigente, che da secoli, per non procurarsi il fastidio di affrontare i problemi, trova decisamente più comodo attribuire la loro mancata soluzione a un complotto esterno. I razzisti da operetta - come quel sindaco lombardo che nei giorni scorsi l’ha definita “una fogna” - offrono un alibi di ferro a questa ricostruzione fasulla della realtà, che ha consentito a pochi privilegiati di tenere nell’indigenza tutti gli altri, ergendosi pure a difensori della napoletanità offesa. La trovata di De Magistris offre nuovi strumenti, compresa la delazione, a una battaglia retorica e consolatoria che presterà il fianco al sorgere di altri luoghi comuni. “Napule è ’na carta sporca e nisciuno se ne importa”, cantava Pino Daniele, con l’amore e il dolore di un innamorato vero. Chissà se anche lui sarebbe passibile di denuncia presso lo sportello del Comune. O se lo sarebbe quel tassista che così mi riassunse i lavori infiniti per la metropolitana: “Non la stanno scavando. La stanno cercando.” Ma a Napoli si perdona tutto. Persino di avere eletto sindaco un incrocio tra Mao e il fratello narciso di Masaniello.
Napoli, Luigi De Magistris apre lo sportello Difendi la tua città: "Quereleremo tutti quelli che parlano male di noi", scrive il 19 Aprile 2017 “Libero Quotidiano". Napoli spesso è invasa dai rifiuti, i cittadini si lamentano dei disservizi, alcuni territori sono zona franca per la camorra, i black bloc devastano tutto quando arriva Matteo Salvini ed eccetera eccetera. Ma guai a dirlo. E non solo per il rischio di diventare bersagli del "piagnisteo napoletano", ma anche perché ora, il sindaco-Masaniello Luigi De Magistris, ha deciso di querelare tutti coloro che criticheranno il gioiellino partenopeo. Già, il sindaco ex magistrato, piuttosto che occuparsi degli evidenti, cronici e macroscopici problemi della città, ha pensato bene di inaugurare lo sportello online "Difendi la città". A che serve? Presto detto: a segnalare "offese" a Napoli, a raccogliere i profili di tutti quelli che si "permettono" di dire che a Napoli ci sono cose che non funzionano. Dunque, scatteranno le querele. "Una novità assai interessante, una comunità che difende la propria comunità", ha affermato De Magistris commentando l'iniziativa. La presentazione dello “sportello” di cui si può fruire online è più che chiara: "Da tempo ma sempre più spesso si assiste ad una narrazione distorta e a volte diffamatoria della città di Napoli rendendola oggetto di pregiudizi, stereotipi e dannose generalizzazioni. In riferimento alle attività promosse nell'ambito della delega Napoli Città Autonoma, il Comune istituisce lo sportello online Difendi la Città per raccogliere le segnalazioni dei cittadini napoletani relative alle offese contro Napoli, chiedendo attraverso gli uffici comunali interessati precisazioni ed apposita rettifica ma eventualmente avviando, previa attenta valutazione dell’Avvocatura comunale, iniziative legali per tutelare la dignità del territorio, l’immagine e la reputazione della città di Napoli e del popolo partenopeo". Eccola, dunque, l'ultima "mirabolante" iniziativa del sindaco. Tempo, soldi e forze dedicati a questo fantomatico sportello, perfetta espressione del "piagnisteo napoletano". Dito puntato contro gli altri, autocritica zero. E soprattutto querele per tutti: italiani, stranieri, napoletani, nordici. E anche i cori da stadio rientreranno nella "valutazione dell'Avvocatura". Già, perché da che mondo è mondo, per quanto sbagliati e orribili siano, i cori da stadio sfottono, deridono e insultano le altre città. Tutte. Ma soltanto Napoli ritiene di dover querelare i tifosi per una canzoncina allo stadio...
Il Nord vota per il lavoro e il sud per l'assistenzialismo...
Vittorio Feltri il 3 Febbraio 2018 su "Libero Quotidiano": "Luigi Di Maio vincerà al sud. Vi spiego perchè". La politica si è intorcinata. Destra, sinistra e grillini si sono già spartiti il territorio elettorale e nessuno dei tre gruppi avrà la maggioranza, cosicché difficilmente avremo un governo che non sia frutto di alleanze improbabili. Ma non è questo il punto. Tutti sappiamo che nel nostro futuro si profila una cronica instabilità, come del resto accade in vari Paesi europei dove mancano partiti egemonici. Il Nord e il Centro voteranno secondo tradizione. Il primo sarà orientato a dare la preferenza alla Lega e in parte cospicua a Berlusconi, il secondo penderà a sinistra nelle sue varie declinazioni. Mentre il Sud, cronicamente in bolletta, affiderà le proprie speranze al Movimento 5 Stelle, per un motivo banale: il reddito di cittadinanza che i grillini si sono inventati, a prescindere dalle risorse per garantirlo (i soldi pubblici non ci sono). La promessa di Di Maio e dei suoi scherani di stipendiare mensilmente gli sfigati privi di una occupazione ha sedotto i meridionali. I quali, dal loro punto di vista, giustamente sono contenti di poter ricevere del denaro senza lavorare. Sarebbero cretini a non esserlo. Non sono sicuri che i pentastellati saranno di parola e riusciranno a retribuire i nullafacenti, però essi si illudono lo stesso di intascare in massa l'obolo. Pertanto è naturale che preferiscano dare il loro suffragio a chi dice loro: tranquilli, ragazzi, se comanderemo noi vi riempiremo di bigliettoni, piuttosto che ad altre forze politiche abituate ad aumentare le tasse a tutti senza preoccuparsi di mantenere i terroni esclusi dalla paga. Ecco perché il Movimento fondato, e abbandonato, dal comico genovese non faticherà ad avvicinarsi o addirittura a superare il 30 per cento delle schede contenute nelle urne. Il Mezzogiorno è costituito da regioni perennemente povere nelle quali, all' infuori dell'impiego statale, non esistono molte opportunità di lavoro. Le industrie sono poche né hanno lo spazio per moltiplicarsi a causa della mancanza di infrastrutture. La depressione è endemica. Quindi partenopei, pugliesi, calabresi eccetera hanno bisogno di essere soccorsi dallo Stato per campare. Se arriva un Di Maio da Napoli, affamato pure lui, e giura di elargire, una volta al potere, quattrini a poveracci e lazzaroni di ogni specie da qui all' eternità, è fatale sia accolto quale salvatore della Patria e della pancia, e portato in trionfo. Il Movimento 5 Stelle ha fallito ovunque abbia comandato, ma questo non incide nel giudizio popolare del Sud, che aspetta soltanto di essere finanziato e se ne fotte della buona amministrazione. Ai tempi di Lauro, sotto il Vesuvio accaddero cose turche: l'armatore dava una scarpa a ciascun elettore, al quale consegnava la seconda a spoglio delle schede avvenuto, se i conti quadravano. Non è cambiato molto da Roma in giù. Sono però cresciute le aspettative: non bastano più le calzature, si pretende il reddito di cittadinanza, cioè una sorta di pensione a vita per chiunque si gratti il ventre, come tutti i grillini finiti già in Parlamento. In effetti, lavorare stanca e rompe i coglioni.
Feltri: anche gli “dei” prendono cantonate, scrive giovedì 8 febbraio 2018 Cristofaro Sola su "L’Opinione". Lo scorso 3 febbraio il quotidiano “Libero” ha pubblicato on-line un editoriale di Vittorio Feltri dal titolo: “Soldi che non ci sono a tutti i lazzaroni: M5S al Sud vincerà”. A proposito del voto del 4 marzo, il “Maestro” lancia un pronostico alquanto bizzarro: la vittoria dei Cinque Stelle nelle regioni del Sud grazie al voto a valanga degli sfigati che popolano le remote lande del Mezzogiorno d’Italia. La ricetta magica che spingerebbe alle urne masse di nullafacenti sarebbe: reddito di cittadinanza. Per dei perdigiorno intenti a grattarsi il ventre come unico sforzo quotidiano, cosa desiderare di meglio che sostenere un politico, Luigi Di Maio, fatto della loro medesima pasta? “...partenopei, pugliesi, calabresi eccetera hanno bisogno di essere soccorsi dallo Stato per campare. Se arriva un Di Maio da Napoli, affamato pure lui, e giura di elargire, una volta al potere, quattrini a poveracci e lazzaroni di ogni specie da qui all’eternità, è fatale sia accolto quale salvatore della Patria e della pancia, e portato in trionfo”. Vittorio Feltri, indiscusso pilastro del giornalismo, ha preso una colossale svista imboccando, nel suo argomentare, la strada scivolosa del più frusto “luogocomunismo” su ipotetiche, ancestrali idiosincrasie dei meridionali per il lavoro. Il ritratto del Sud che viene fuori dal pennello di Feltri non esiste, è solo una caricatura di moda tra la gente di spettacolo. Non c’è un popolo di “fancazzisti” dedito all’ozio. I tempi di lavoro al Sud, nella media, sono come quelli del Nord. Il guaio è che una parte significativa della massa occupata è costituita da invisibili. Cioè da lavoratori irregolari che alimentano una coriacea economia del sommerso. Non è questa la sede per indagare le ragioni del fenomeno che interroga molteplici aspetti: economico, sociale, storico. Finanche filosofico. Resta il fatto che i numeri del lavoro “nero” sono da brividi. L’Istat ritiene che il “sommerso” rappresenti un asset strategico dell’economia nazionale. Sul dato del 2015 l’Istituto di statistica ha stimato un valore del sommerso pari al 12,6 per cento del Pil, la maggior parte del quale si produce nelle regioni meridionali. Un recentissimo focus del Censis, redatto in collaborazione con Confcooperative, dal titolo: “Negato, Irregolare, Sommerso: il lato oscuro del lavoro”, rileva che il fenomeno del “sommerso”, articolato nelle due principali componenti della sotto-dichiarazione del valore aggiunto e dell’impiego di lavoro irregolare, assuma nelle regioni meridionali un carattere strutturale andando a incidere sul valore aggiunto territoriale con percentuali molto significative. Sempre in riferimento al 2015, Calabria, Campania, Puglia, Molise, Sicilia hanno superato la soglia d’allarme del 15 per cento. Per chiarire la comparazione: la più alta in graduatoria è la Calabria al 17,5 per cento; la più bassa la provincia autonoma di Bolzano all’8,3 per cento. È del tutto evidente che questi dati spieghino del perché i numeri sul tasso effettivo di disoccupazione in Italia siano inattendibili. Il livello massimo di disoccupazione registrato nel Mezzogiorno (54,1%), nel 2015, si rapporta al solo lavoro regolare. D’altro canto, sarebbe mai immaginabile una tenuta della coesione sociale in un territorio nel quale metà dei potenziali attivi censiti stiano a bighellonare tutto il giorno senza produrre reddito di qualsiasi natura? Se non per il nobile ideale dell’emancipazione dalla miseria le ribellioni sarebbero scoppiate da un pezzo anche soltanto per tedio. La verità è che esiste un esercito d’invisibili, sfruttati ogni oltre decenza. Gente che lavora per 10/12 ore al giorno nelle “fabbrichette”, occultate nei sottoscala dei palazzi, per una paga da fame. Senza diritti e senza protezioni. I nuovi schiavi fanno di tutto e lo sanno fare molto bene. Dall’abbigliamento, all’agroalimentare, alle manifatture artigianali, non ci sono soltanto africani e cinesi, ma anche meridionali trattati da africani e cinesi. E poi c’è la piaga della criminalità organizzata, l’antistato che dà lavoro e protezione. Ciò non vuol dire che tutti i reclutati finiscano nei circuiti della droga e del racket. Nel Meridione le organizzazioni malavitose assicurano anche l’ingresso nel mercato dei lavori legali, dal momento che esse, da tempo, hanno esteso la sfera d’influenza sulla cosiddetta economia regolare. E se qualcuno pensa che un povero cristo possa avere la forza di fare valere i propri diritti in imprese inserite in quel circuito s’illude. Su di una cosa però il Maestro ha ragione: nel Sud non si è persa la vocazione al posto fisso nel “pubblico”. Tuttavia, non si tratta, come sospetta Feltri, di velleitaria aspirazione al dolce-far-niente, ma della naturale ambizione a percepire retribuzioni dignitose e regolarmente pagate, a godere di diritti previdenziali e ad avere un futuro assicurato. Il Maestro, a questo riguardo, resterà sorpreso dagli esiti elettorali. I campioni che promettono assistenzialismo à gogo più dei Cinque Stelle sono i vertici locali del Partito Democratico. E quelli non scherzano. Il 12 novembre 2016, all’Assemblea nazionale del Pd sul Mezzogiorno, il governatore campano Vincenzo De Luca ha annunciato un piano straordinario di assunzioni nella Pubblica amministrazione per 200mila giovani, caratterizzato da un meccanismo scalare delle retribuzioni per i nuovi assunti nell’arco di un triennio. Perciò, nelle regioni meridionali più disastrate non saranno i grillini a fare il pieno di scanni parlamentari ma i sodali di Matteo Renzi. E anche quel centrodestra del Sud che non sempre ha avuto idee chiarissime sulla lotta al clientelismo.
I giornalisti in ogni dove, ormai, esprimono opinioni partigiane del cazzo. In relazione alle elezioni politiche del 4 marzo 2018 alcuni di loro dicono che il movimento 5 stelle ha sfondato al sud con i voti dei nullafacenti per il reddito di cittadinanza: ossia la perpetuazione dell’assistenzialismo. Allora dovrebbe essere vero, anche, che al nord ha stravinto il razzismo della Lega di Salvini, il cui motto era: "Neghèr föra da i ball", ossia immigrati (che hanno preso il posto dei meridionali) tornino a casa loro. La verità è che l’opinione dei giornalisti vale quella degli avventori al bar; con la differenza che i primi sono pagati per dire stronzate, i secondi pagano loro la consumazione durante le loro discussioni ignoranti.
Elezioni, al Sud il reddito di cittadinanza ha battuto la «flat tax». Nei due modi diversi di concepire politica economica e welfare, nel Mezzogiorno prevale l’idea dei Cinquestelle dove povertà e disoccupazione sono più alte, scrive Paolo Grassi il 6 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera". Il risultato delle urne fotografa un’Italia praticamente divisa in due. Con un centrodestra, a trazione leghista, predominante al Nord e i pentastellati guidati da Luigi Di Maio padroni (quasi) assoluti nel Mezzogiorno e nelle Isole. Una spaccatura che, peraltro, a ben vedere, significa anche due modi diversi di concepire la politica economica e il welfare. Da una parte, infatti, c’è la coalizione ora condotta da Matteo Salvini che ha puntato tutto, facendone il vero cavallo di battaglia della campagna elettorale, sull’introduzione della flat tax, strumento in grado «rimettere in moto il Paese, perché più denaro in tasca a famiglie e imprese genera più consumi»; dall’altra c’è M5S, che ha promesso un reddito di cittadinanza per oltre 9 milioni di connazionali. In buona parte, stando agli indicatori sulla povertà e sulla disoccupazione (soprattutto giovanile), residenti proprio nelle regioni meridionali.
Il calo della pressione fiscale. Ma cosa prevedono, nello specifico, le proposte in questione? Partiamo da quella del centrodestra, che è peraltro diversificata all’interno della medesima coalizione. Se Forza Italia ha lanciato l’idea di una sola aliquota del 23%, «compatibile con la tenuta dei conti pubblici», la Lega vorrebbe scendere addirittura al 15. In linea generale, comunque, il calo della pressione fiscale sarebbe introdotto «man mano che le condizioni dell’economia lo consentiranno». L’iniziativa, su cui si è speso a più riprese personalmente Silvio Berlusconi, non prevede, passando ai meno abbienti, «il pagamento di tasse sui primi 12.000 euro di reddito: chi guadagna poco, in pratica, non verserebbe nulla, mentre i redditi medi pagherebbero solo su una quota limitata dei loro introiti». Inoltre la flat tax, sempre secondo i suoi estimatori, «semplificherebbe il sistema, tagliando la selva di detrazioni, deduzioni e adempimenti». Come dire: un’idea programmatica che inciderebbe su diverse fasce sociali, dalle più basse alla media borghesia, per finire ai più ricchi e alle aziende. Con la possibilità dichiarata che «maggiori disponibilità economiche per le famiglie, ossia consumi in crescita, potranno generare la necessità di più produzione e nuove assunzioni. Insomma, (anche) più entrate nelle casse dello Stato».
Famiglie in condizioni disagiate. Di contro la proposta di Di Maio & Co. andrebbe a intervenire principalmente su chi un reddito non ce l’ha per niente. L’obiettivo è allineare tutti (quantomeno) sopra la soglia di povertà. Come? «Una famiglia di quattro persone, per esempio, in particolari condizioni disagiate, può arrivare a percepire anche 1950 euro al mese. Naturalmente esenti da tasse e da pignoramenti». Un nucleo di tre, con genitori disoccupati e figlio maggiorenne a carico potrà invece contare su 1.560 euro. Nel caso di «due pensionati con assegno minimo da 400 euro ciascuno», ancora, l’aiuto «sarà pari ad altri 370 euro per la coppia, come integrazione». Se invece siamo di fronte a un lavoratore part-time, «il salario sarà adeguato fino ad arrivare a 780 euro». Che equivale, appunto, alla fatidica soglia di povertà. «Se potrai percepire il reddito — annunciano i pentastellati — per conservarlo ti verrà richiesto di adempiere ad alcune regole: dall’iscrizione ai centri per l’impiego (e bisognerà accettare una delle prime tre occupazioni che saranno eventualmente offerte) alla disponibilità per progetti comunali utili alla collettività (8 ore settimanali)».
Sgravi alle imprese. Posto che sarebbero previsti sgravi pure per le imprese disposte ad assumere chi percepisce l’indennità, dove si trovano le coperture? I 16 miliardi annui necessari «non verrebbero da sanità, scuola o nuove tasse: abbiamo — spiega M5S — preferito cercare risorse da gioco d’azzardo, banche, compagnie petrolifere, etc.». Flat tax o reddito di cittadinanza? Il voto ci dice che al Sud ha vinto la proposta grillina. Ora, però, tutto dipende da chi andrà al governo.
Il Sud più povero ha votato per il reddito garantito. La promessa dell’assegno di cittadinanza ha favorito la vittoria pentastellata nel Meridione. Minore è il benessere economico, maggiore il consenso per il movimento, che segna il minimo in Trentino, scrive Roberto Petrini su La Repubblica il 6 marzo 2018. L'Italia "gialla" della politica si sovrappone esattamente a quella "nera" dell'economia. Lo sfondamento grillino nel Meridione è evidente, ma la corrispondenza dei dati elettorali a quelli del basso reddito pro capite e dell'alta disoccupazione aggiunge una chiave di lettura inequivocabile: M5S vince dove il disagio e la rabbia sono più forti. Presumibilmente perché lo Stato lì non risponde su temi come occupazione e criminalità...
La vittoria dei grillini nel Sud: non solo reddito di cittadinanza, ma tante battaglie sociali, a cominciare dal grano duro, scrive "I Nuovi Vespri" il 6 marzo 2018. Come può un quotidiano come il Corriere della Sera semplificare la straordinaria vittoria alle elezioni politiche del Movimento 5 Stelle nel Sud, etichettandola come una sorta di attesa generalizzata per il reddito di cittadinanza (che peraltro è una cosa importante)? E il civismo? E la grande battaglia per la difesa del grano duro del Mezzogiorno e per la pasta priva di contaminanti? Perché il Movimento 5 Stelle ha stravinto le elezioni politiche nel Sud? Il Corriere della Sera ha già trovato la risposta: il reddito di cittadinanza. Lo ha affermato lunedì sera, durante la trasmissione di RAI 1 di Bruno Vespa, Porta a Porta, il vice direttore di questa testata, Antonio Polito. E lo ribadisce in un editoriale il direttore di questo giornale, Luciano Fontana: “I Cinque Stelle sfondano nel Mezzogiorno cavalcando la rivolta contro le vecchie classi dirigenti e offrendo il reddito di cittadinanza come soluzione alla disoccupazione di massa, soprattutto giovanile”. Certo che il Corriere della Sera ne ha fatto di passi in avanti: passi da gigante! Altro che il Corriere di Piero Ottone che, per capire le trasformazioni dell’Italia degli anni ’70 del secolo passato, apriva le pagine a firme che, con dal giornale della borghesia milanese, sembrano lontani anni luce: per esempio, Pier Paolo Pasolini. Oggi il Corriere, per capire che cosa succede al Sud, non ha bisogno di aprire ad alcunché: basta il grande acume del direttore e del vice direttore! Insomma, qui nel Mezzogiorno la maggioranza, a tratti quasi assoluta, di elettori che si è recata a votare, secondo direttore e vice direttore del Corriere della Sera, avrebbe tributato il successo al Movimento 5 Stelle per avere, in cambio, il reddito di cittadinanza! Ora, a parte il fatto che il reddito di cittadinanza è uno strumento importante che non va certo etichettato – peraltro con atteggiamento snobistico – come assistenzialismo, va detto che non può certo essere questa la sola unità di misura per spiegare una vittoria elettorale di ampia portata. A meno che nella Lombardia un po’ leghista, un po’ berlusconiana, quasi sempre snob non abbiano deciso che qui al Sud siamo tutti degli accattoni! Ma è proprio così? E il civismo portato avanti da migliaia di cittadini in tanti piccoli e grandi centri del Sud grazie al Movimento 5 Stelle? L’amore per i luoghi in cui si vive? Le mille battaglie di questi anni contro l’abbandono del mare, delle spiagge, delle periferie? E ancora: le battaglie per la valorizzazione delle energie alternative? Le battaglie contro le discariche e gli inceneritori, in favore della raccolta differenziata dei rifiuti? Le battaglie per la tutela del verde pubblico? Queste cose non contano, vero? E che dire dell’inquinamento provocato dalle industrie che lavorano gli idrocarburi presenti nel Sud, dalla Basilicata alla Sicilia? Ne vogliamo parlare? E che dire delle trivelle che ‘infestano’ il Canale di Sicilia? Siccome non ne parla spesso la RAI – che al massimo va a fare le ‘bucce’ alla sindaca di Roma, Virginia Raggi, per scovare le pecche, comprese quelle che poi svaniscono nel nulla – e siccome non ne scrive il Corriere, questi fatti non esistono? Non ci sembra. Insomma, secondo questi signori, qui al Sud, dopo la vittoria di Di Maio e del Movimento 5 Stelle, siamo tutti in fila ad aspettare il reddito di cittadinanza? Poi magari scopriamo che il Movimento 5 Stelle, o meglio, che i parlamentari nazionali del Movimento 5 Stelle sono stati gli unici a seguire e ad appoggiare la battaglia portata avanti, nelle Regioni del Sud, da GranoSalus: battaglia sposata da questo blog per la difesa del grano duro, eccellenza dell’agricoltura del Mezzogiorno d’Italia. Battaglia durissima, contro le navi che continuano a scaricare in tanti porti italiani grano estero che arriva da chissà dove, anche dal Canada: e, in questo caso, grano duro maturato, magari, a colpi di glifosato, magari impreziosito dalla presenza di Micotossine DON. Sapete, direttore e vice direttore del Corriere della Sera? I parlamentari nazionali grillini si sono anche impegnati a far approvare dal Parlamento la legge sulla CUN, la Commissione Unica Nazionale che dovrebbe porre fine alla vergognosa speculazione al ribasso che danneggia il grano duro del Sud Italia. Certo, poi il Governo nazionale del PD – quello di Renzi, di Gentiloni e del Ministro delle Risorse agricole, Maurizio Martina – si è guardato bene dall’applicare questa legge: e infatti il Partito Democratico, nelle Regioni del Mezzogiorno dove si produce il grano duro, dalla Puglia alla Basilicata alla Sicilia – ha preso tanti voti… Questi signori che da Milano pontificano sul voto nel Sud hanno mai sentito parlare della Capitanata, del pane di Matera, della Valle del Dittaino in Sicilia? Lo sanno che i protagonisti di GranoSalus – con in testa Saverio De Bonis, ma non solo lui – e l’editore di questo blog, Franco Busalacchi, sono stati citati in Tribunale, a Roma, dalle grandi multinazionali che producono pasta in Italia? Cioè da quelle multinazionali che non riescono proprio a ‘digerire’ – è il caso di dirlo – la battaglia in favore del grano duro del Sud, per una pasta senza contaminanti? Lo sanno che, per ben due volta, il Tribunale ha dato ragione a GranoSalus e a I Nuovi Vespri? E’ un caso che Saverio De Bonis sia stato candidato nel collegio del Senato della Basilicata, nel Movimento 5 Stelle, e sia stato eletto? Dietro la vittoria dei grillini al Sud – in tutto il Sud Italia – c’è solo il reddito di cittadinanza o ci sono tante altre cose che, magari, stando seduti dietro una scrivania a Milano, o dagli studi della RAI, non si vedono?
Basta sminuire il voto del Sud. Il successo 5stelle non c’entra col reddito di cittadinanza, scrive il 7 marzo 2018 Alessandro Cannavale, Ingegnere e blogger, su "Il Fatto Quotidiano". Per l’ennesima volta, il voto dei cittadini italiani del Sud viene marchiato da certi analisti che puntano a sminuire la gravità del senso politico che esso sottende. Si tende a delegittimarlo, privandolo di senso, con una spiegazione artefatta e semplicistica e, contemporaneamente, offensiva e razzista. Vado al sodo: alcuni commentatori hanno sostenuto, ancora in piena maratona elettorale, che il successo abnorme del Movimento 5 Stelle al Sud si spieghi, prioritariamente, con il sostegno belluino e incondizionato di milioni di nullafacenti, disoccupati, sottoccupati ed evasori incalliti, che avrebbero così votato soltanto per garantirsi il lauto bonifico del reddito di cittadinanza. Consentitemelo: è la solita narrazione becera e distorta del Sud, costruita in fretta e furia per nascondere tonnellate di polvere (anni di errori e fallimenti) sotto il tappeto dell’ipocrisia. Che offende, senza neanche cogliere l’enormità di certe affermazioni. Non intendo sostenere il Movimento Cinque Stelle, al quale neanche appartengo, ma solo manifestare la personale insofferenza verso questo modo stereotipato di rapportarsi al Sud del paese. Una lettura banalizzante, dal fondamento tanto discriminatorio quanto banale. Che dimostra, ancora una volta, quanto gli “esperti della politica” siano tronfi e lontani anni luce dal paese che vive e lavora nell’Italia del 2018, ridotti a illustrare una miope percezione dalla comoda poltrona di un salotto televisivo. Simili considerazioni potrebbero forse trovare spazio in una conversazione da bar, o tra amici, in una stanza. Ma sarebbero assolutamente indegne di trovare albergo sulle reti televisive generaliste. Davanti a milioni di spettatori. Senza un bel bollino rosso. Per la vergogna. Analoghi tentativi di mistificazione, se ricordate, furono fatti dopo il tracollo della riforma costituzionale, che ebbe al Sud lo stesso indiscutibile responso dalle urne. Eppure, in quel caso, il colpo alla nuca della riforma fu dato senza neanche un ritorno economico. Come mai? Cosa spinse questi loschi meridionali a difendere la Costituzione senza neanche un bonifico, che so, o almeno 80 euro in busta paga? E allora, perché sottrarre a un voto liberamente espresso la dignità di una piena espressione della volontà degli elettori? Peraltro, val la pena di ricordarlo, i Cinquestelle parlano da anni di reddito di cittadinanza, ma solo quest’anno il risultato politico è così eclatante. In verità, gli analisti, i commentatori e tutti coloro che col proprio mandato politico hanno tradito la rappresentanza di istanze sociali di milioni di persone, oggi cercano un’impudica foglia di fico per giustificare una debacle che ha ben altre spiegazioni: i meridionali si devono quotidianamente confrontare con i disagi di servizi sanitari sempre più scadenti, servizi ferroviari in dismissione, università sempre più sottofinanziate, reddito pro capite da post-conflitto mondiale (in termini di rapporto col centro nord). Chi si parla addosso nei salotti dimentica colpevolmente che la metà dei poveri (in crescita anche nell’ultimo biennio) si trova al Sud. Se a questi signori si avvicinasse un povero vero, forse reagirebbero vaporizzando una nuvoletta di profumo francese. L’elettorato, tutto questo, lo vive e lo sente sulla propria pelle, con buona pace di certi personaggi. Torno a ribadirlo, anche stavolta: il Sud ha un ruolo importante nel futuro di questo paese. E i propugnatori del ritardo antropologico studino bene i dati del paese reale prima di propalare idiozie d’ispirazione tardo-lombrosiana.
Elezioni e reddito di cittadinanza, Prestigiacomo: “I siciliani etichettati come un popolo di un fannulloni”. Elezioni, Prestigiacomo: “Sbagliato a dire che al nord ha vinto il centrodestra per la flat tax e al sud i grillini per il reddito di cittadinanza”, scrive il 6 marzo 2018 Serena Guzzone su "Stretto Web". “Sta passando su molti media e nelle analisi di alcuni politici una lettura “sociologica” del voto di domenica che trovo sbagliata nella sostanza, ingiusta e anti meridionalista nei toni. Mi riferisco a chi dice che al nord ha vinto il centrodestra per la flat tax e al sud i grillini per il reddito di cittadinanza. Chi racconta così l’esito delle elezioni di fatto omologa tutto il sud in un popolo di fannulloni che vogliono essere pagati per non lavorare. Se si vive nell’Italia meridionale, se si è fatta, come me, la campagna elettorale nei collegi della Sicilia si è consapevoli invece di una realtà molto diversa. I cinque-stelle hanno vinto, con le percentuali bulgare che conosciamo, non per una adesione diffusa al loro programma, non per la chimera del reddito di cittadinanza. Il voto grillino al sud, massacrato dagli ultimi cinque anni di governi nazionali e regionali di sinistra, è stato un voto di protesta secco, senza se e senza ma. E senza nemmeno conoscere candidati e contenuti della politica dei pentastellati. E’ stato il voto di chi ha messo nello stesso calderone tutta la politica e tutti i politici ed ha espresso il “vaffa” generico nel suo contenitore naturale: il movimento di Grillo. Ignorare questo dato di fatto, questa condizione di disperazione e di rigetto della politica, che chi vive al sud conosce perfettamente, significa non capire cosa è successo da Roma in giù. Significa cercare attenuanti, scuse, motivazioni di comodo e sbrigative per un risultato elettorale che invece deve spingerci tutti ad una riflessione profonda- è quanto dichiara in una nota la neo eletta con Forza Italia, Stefania Prestigiacomo.
Pino Aprile: «Il Sud ha votato in blocco i Cinque Stelle perché si è rotto i coglioni». «Il confine geografico del successo Cinque Stelle è esattamente lo stesso dell’ex Regno delle due Sicilie». Lo scrittore Pino Aprile, esperto della questione meridionale, non pare stupito dal voto. «È il risultato di 150 anni di saccheggi. Voteremmo anche belzebù pur di mandare via questi politici», scrive Marco Sarti su "L’Inkiesta" il 6 Marzo 2018. «Credo che il Sud non poteva mandare un messaggio più chiaro di così. Che dice, stavolta l’avranno capito?». Giornalista e scrittore, Pino Aprile commenta il risultato elettorale senza stupirsi troppo. L’ondata grillina che ha travolto il Mezzogiorno se l’aspettava. E dire che l’argomento lo conosce bene: sul Meridione ha pubblicato una lunga serie di successi editoriali. Da Terroni a Il Sud puzza. Storia di vergogna e di orgoglio. Fino agli ultimi Terroni ’ndernescional e Carnefici.
Stavolta il Sud ha votato in blocco per i Cinque Stelle. Un risultato incredibile: in alcune regioni si sfiora il 50 per cento, in qualche città si va persino oltre. In Puglia, Sicilia e Sardegna i grillini fanno cappotto, conquistando tutti i collegi disponibili. Davvero si aspettava un’affermazione simile?
«Sì, me l’aspettavo. È la stessa risposta che il Sud ha dato al referendum costituzionale, già allora invitai ad analizzare quel dato. C’è un Mezzogiorno all’opposizione. E questo perché negli ultimi anni ha subito un saccheggio sfrenato. Alcuni numeri fanno spavento. In dieci anni, solo sulla spesa ordinaria, lo Stato italiano ha sottratto al Meridione 850 miliardi di euro. Sono circa 130-140 ponti sullo Stretto. Ogni anno i governi centrali assegnano al Sud, rispetto al Nord, 6 miliardi e mezzo in meno per gli investimenti. È in corso un saccheggio epocale, anche di risorse umane. Ogni anno vanno via almeno 50mila giovani meridionali che qui sono nati, cresciuti, hanno studiato e si sono formati: un impoverimento di uomini e valori. E queste sono le risposte».
In queste ore c’è un’immagine che colpisce. La rappresentazione cromatica dei risultati elettorali, regione per regione, dipinge un’Italia spaccata in due. A Nord il blu del centrodestra, da Roma in giù il giallo dei Cinque Stelle. Il nostro è davvero un Paese diviso?
«Ma l’Italia non è mai stata unita, oggi è solo più chiaro. Questa è la rappresentazione del Paese fin dal giorno successivo alla dichiarazione dell’unità. Basta vedere quello che scriveva Francesco Saverio Nitti, grandissimo economista, docente universitario e presidente del Consiglio: il saccheggio delle risorse meridionali è avvenuto dal 17 marzo 1861. Da allora non è cambiato nulla. Sono cambiati solo i trucchi con cui i governi ci nascondono questi furti. Sapete come vengono calcolati i finanziamenti per la manutenzione stradale nelle città? Non in base ai chilometri o al numero delle auto che le percorrono. Ma in base al numero dei dipendenti di aziende private sul territorio. E così Napoli, che ha il doppio delle strade rispetto a Milano, riceve la metà dei fondi. E i finanziamenti per gli asili nido? Vengono garantiti in base al numero degli asili già presenti. Così si aiuta chi ha già le strutture, ma non chi ha più bambini».
Si parla di elezioni ed ecco riemergere la vecchia questione meridionale.
«Il confine geografico del successo Cinque Stelle è esattamente quello dell’ex regno delle Due Sicilie. Non è mica un caso. Quando nel 1720 il Piemonte acquisì la Sardegna grazie ad alcuni trattati internazionali, venne stilato un piano per la colonizzazione dell’isola. La Sardegna è stata spogliata di tutto. I sardi non avevano neppure il diritto di occupare posti nella pubblica amministrazione. Quando nel 1860 i piemontesi sono arrivati al Sud, hanno applicato lo stesso piano. Da quel momento le nostre terre sono state private di porti, strade, infrastrutture. È un disegno politico che ha un secolo e mezzo di storia, il voto di domenica lo rende solo più visibile. Ma noi nel Mezzogiorno lo conosciamo da tempo. E adesso ci siamo rotti i coglioni. E adesso lei si stupisce perché il Mezzogiorno vota Cinque Stelle? Voterebbe anche belzebù pur di non votare quelli che già ci sono. E si dovrebbe ringraziare che questo è un Paese civile, altrove sarebbero già andati prenderli con i forconi».
Ma perché avete votato proprio i Cinque Stelle, cosa lega i grillini al Meridione? O si tratta solo di un voto antisistema?
«Tutte le persone a cui lo chiedo mi dicono: “Peggio di quelli che ci sono adesso, non possono essere”. In questi anni abbiamo visto fondi europei rastrellati dai governi di centrodestra e portati al Nord. Un miliardo destinato alla ricerca finito a finanziare le compagnie di navigazione del lago di Garda, l’illuminazione del Veneto e le industrie d’armi del bresciano. Le multe per i truffatori delle quote latte, nel Nord, sono state pagate con i soldi destinati al Sud. Si parla di almeno 4 miliardi. Poi è arrivato il centrosinistra e sono riusciti a fare anche peggio. I famosi ottanta euro di Matteo Renzi sono una follia. Li hanno stanziati per aiutare le famiglie in difficoltà, ma li prende solo chi ha già uno stipendio medio basso. Chi non ce l’ha muore di fame. Così i sottopagati e i disoccupati del Meridione sono stati esclusi e gli ottanta euro sono finiti tutti al Nord. Adesso lei si stupisce perché nel Mezzogiorno si vota Cinque Stelle? Voterebbero anche belzebù pur di non votare quelli che già ci sono. E si dovrebbe ringraziare che questo è un Paese civile, altrove sarebbero già andati prenderli con i forconi».
Non si arrabbi. Però qualcuno dice che al Sud la gente ha votato M5S perché invogliata dal reddito di cittadinanza.
«Ma questa è solo una carognata da disonesti. Fino ad oggi il reddito di cittadinanza lo hanno preso solo le ricche industrie del Nord, che sono assistite da sempre con i soldi pubblici. Le faccio un esempio: nel 2015 solo l’Expo di Milano è stato finanziato con una quindicina di miliardi, ed è stato uno dei più grandi flop di sempre. Ci sono voluti nove anni per la realizzazione, e quando è stato inaugurato non erano ancora ultimati il 40 per cento dei padiglioni. Bene, esattamente un secolo prima veniva progettato dall’ingegner Camillo Rosalba l’acquedotto pugliese, il più lungo del mondo. Anche allora ci vollero nove anni per la costruzione. Ma nel 1915 l’acqua del fiume Sele già zampillava nella fontana di piazza Umberto a Bari. Ecco, queste sono le differenze. E non parliamo del Mose di Venezia, uno dei principali scandali italiani. Oppure del Tav in Piemonte: nella tratta italiana la realizzazione di ogni chilometro ci costa 10-13 volte in più di quanto avviene in Francia. Chi sa il perché? Un governo tra Cinque Stelle e Lega non sarebbe un tradimento delle istanze meridionaliste. Sarebbe semplicemente un suicidio. Conosco bene qualche bravo psichiatra: se i grillini vogliono stringere un’intesa con Salvini posso aiutarli».
Torniamo al reddito di cittadinanza dei grillini…
«Il reddito di cittadinanza proposto dai Cinque stelle non significa regalare soldi. Il denaro è vincolato alla formazione professionale, l’assegno viene sospeso se si rifiutano tre offerte di impiego. E non prevede aiuti specifici al Sud, ma ovunque ci sia una persona senza lavoro. È un modo per rimettere l’economia in moto. In Francia è stata introdotta una misura simile per sostenere le famiglie numerose, e in pochi anni l’investimento è tornato con gli interessi. Se tantissimi usufruiranno di questa misura al Sud, non è certo per scelta loro. Ma perché, per tutto quello che abbiamo già detto, dopo anni di saccheggio oggi si trovano in quella condizione. Forse con il reddito di cittadinanza i giovani potranno rimanere qui, senza essere costretti a trasferirsi al Nord».
Nel Mezzogiorno non ci sono solo i Cinque Stelle, però. Stavolta è arrivata anche la Lega di Matteo Salvini. Le percentuali sono interessanti: in alcune regioni del Meridione il Carroccio arriva al sette per cento. Che ne pensa?
«È un dato normalissimo. Intorno al progetto politico di Salvini ci sono biechi opportunisti, che cercano solo un partito per ricandidarsi. E poi ci sono gli elettori affascinati dal messaggio di destra della Lega, considerata il partito lepenista d’Italia. Ma c’è anche un altro gruppo di persone. La dinamica è stata bene analizzata dallo psicanalista Luigi Zoja, che ha studiato le società latinoamericane dopo la colonizzazione. Bene, si è scoperto che le popolazioni sottomesse maturano uno stato di dipendenza dal proprio carnefice quasi istantaneo. Quando si è investiti da una violenza troppo grande, la mente umana si difende negando se stessa. Si diventa oggetto nelle mani dell’oppressore. Vede, nella specie umana c’è una pulsione, tra le più forti, definita “ipotesi del mondo giusto”. Ognuno si convince di avere quello che merita: il povero, la povertà. La donna maltrattata, le botte del marito. Nel Mezzogiorno la nostra condizione è stata indotta da un’aggressione e un genocidio di un secolo e mezzo fa. E non uso parole a caso. Il genocidio consiste proprio nella cancellazione dell’identità di un popolo».
Adesso però c’è il rischio di un governo tra Cinque Stelle e Lega. Sarebbe l’unico ad avere una maggioranza in Parlamento. Quello dei grillini sarebbe un tradimento delle istanze meridionali?
«No, sarebbe semplicemente un suicidio. Conosco bene qualche bravo psichiatra. Se i Cinque Stelle hanno in mente di dare vita a un governo con la Lega posso metterli in contatto con questi medici».
PRECONCETTI E DISCRIMINAZIONE. Scrive Roberto Quaglia: "Caro Maurizio Costanzo Show, si ha un bel dire che avere dei preconcetti è male, ma, appunto, si ha un bel dire e basta e anzi, in tal dire - se vogliamo andare in fondo alla questione - v'è anche assai poco di bello. L'essere umano vive infatti grazie ad una visione del mondo costituita per lo più da preconcetti. La nozione stessa che avere dei preconcetti sia un fatto negativo, è essa stessa un preconcetto. Ma cos'è un preconcetto?
Dal dizionario Gabrielli: "PRECONCETTO: Che è concepito nell'animo prima di essere stato conosciuto, considerato, sperimentato, in modo da creare pregiudizio, da vietare un giudizio sereno della realtà." Come si vede, il preconcetto non è il pregiudizio, ma è di esso invece eventualmente la causa. Si noti come anche nel dizionario Gabrielli si accenni al significato negativo del termine (...vietare un giudizio sereno...). Il dizionario Gabrielli, definendo il preconcetto, è vittima esso stesso di un preconcetto, dal che consegue, in virtù della definizione che esso stesso attribuisce alla parola "preconcetto", che il redattore del dizionario ha definito tale concetto senza averlo prima conosciuto, considerato, sperimentato, in altre parole compreso, riportandone invece il significato popolarmente più diffuso, in altre parole il preconcetto. Pensare che in Australia vivano i canguri è un preconcetto, per ogni persona che non sia mai stata in Australia. Anche l'idea che l'Australia esista è un preconcetto, per chi non ci sia mai stato. Chi ci garantisce che l'esistenza dell'Australia non sia soltanto una leggenda infondata? E' opinione diffusa che l'Australia esista, ma finché uno non ci va, quella sua opinione è un preconcetto. Non c'è nulla di male in questi preconcetti. In realtà non c'è nulla di male nei preconcetti in generale. Il 99% delle nostre cognizioni sono in realtà preconcetti. Anche il concetto che Marilyn Monroe sia sessualmente appetibile è un preconcetto. In realtà è morta, sepolta e decomposta e quindi tutt'altro che sessualmente riutilizzabile. Anche il concetto che fosse sessualmente appetibile quando era viva è un preconcetto. Abbiamo giusto visto qualche sua truccatissima immagine bidimensionale in movimento, senza neanche udirne la voce (doppiata). Per quello che ne sappiamo noi puzzava, ed il suo alito poteva evocare l'impressione di un distillato di calzini marci. Per quello che ne sappiamo tutte le sue foto e tutti i fotogrammi di tutti i suoi film sono abilmente ritoccati per farcela sembrare arrapante. Non l'abbiamo conosciuta e sperimentata, questa è la verità, ogni opinione che abbiamo di ciò che lei fosse è un preconcetto. Se uno proprio non sa cosa fare, può sedersi ad una scrivania o altrove ed elencare su un foglio di carta tutti i propri preconcetti che gli vengono in mente, cioè tutte le cose che ritiene di sapere pur non avendo mai avuto occasione di verificarle, sperimentarle, farne esperienza in prima persona. Non ho idea a che cosa possa servire fare ciò, ma se a qualcuno viene davvero voglia di farlo, lui/lei saprà cosa gli/le servirà. Se allora i preconcetti non sono niente di male, cosa serve sapere cosa sono? E perché ne stiamo parlando? Be', tanto per iniziare per restituire la dignità perduta al concetto di preconcetto, incolpevole vittima di se stesso, cioè di un preconcetto. E tiriamo adesso in ballo un altro vocabolo vittima di un atroce preconcetto: "Discriminazione"! Ci hanno insegnato che discriminare è male. Ci si dice solidali con le cosiddette "vittime della discriminazione". Si parla nei telegiornali di "gravi fatti di discriminazione". La parola "discriminazione" è spesso associata a "intolleranza", come se significassero qualcosa di simile.
Il dizionario Gabrielli dice: "DISCRIMINAZIONE: L'atto e l'effetto del discriminare, distinzione, differenza." E ancora: "DISCRIMINARE: Far differenza o distinguere tra persone e cose; differenziare, distinguere." Nulla di negativo è contenuto in tal vocabolo. Che la discriminazione sia qualcosa di negativo in sé, è un preconcetto. Chiunque ritenga che "discriminare" sia male, ha adottato tale preconcetto, dal che consegue, in virtù della definizione del Gabrielli di "preconcetto", che tal persona non ha mai conosciuto, considerato, sperimentato, il reale significato della parola "discriminare". E discriminare, cioè distinguere, riconoscere differenze, è invece essenziale nella vita di chiunque. Ed è importante imparare a discriminare coscientemente, lucidamente, soprattutto riguardo ai preconcetti, cioè quella gran massa di convinzioni che non sono frutto dell'esperienza, della propria sperimentazione, di una conoscenza approfondita, delle necessarie verifiche. Bisogna prendere coscienza dei propri preconcetti e tra essi discriminare, separando i preconcetti utili da quelli dannosi, quelli sensati da quelli dissennati. E' utile e sensato avere il preconcetto che l'Australia esista, anche se non ci si è mai stati, perché a questo modo si può eventualmente prendere in considerazione l'opportunità di andarci in vacanza. E' dannoso e dissennato avere il preconcetto che i negri sono una razza inferiore, perché ci si crea dei nemici che nemici altrimenti non sarebbero, e si incentiva e legittima nel contempo altri individui a sviluppare lo stesso preconcetto nei nostri confronti. In sintesi, la via della saggezza e quella di imparare a discriminare tra i propri preconcetti, e non in base ai propri preconcetti. Tutto questo polpettone intendeva introdurre qualche divagazione circa il diffuso preconcetto della morte. Ne parleremo, caro Maurizio Costanzo Show, nella prossima lettera. Roberto Quaglia".
Stereotipi e pregiudizi. Alla base di atteggiamenti non basati sull'esperienza diretta vi sono spesso stereotipi e pregiudizi, scrive “Sapere.it”.
Per la psicologia sociale uno stereotipo corrisponde a una credenza o a un insieme di credenze in base a cui un gruppo di individui attribuisce determinate caratteristiche a un altro gruppo di persone.
Gli stereotipi. Gli stereotipi assomigliano molto dunque a degli schemi mentali e quando per valutare o prevedere il comportamento di una persona ricorriamo a degli stereotipi, questo tipo di ragionamento ricorda molto quanto detto a proposito delle euristiche: utilizzando uno stereotipo per valutare una persona noi non facciamo altro che utilizzare come scorciatoia mentale l'ipotesi che chi rientra in una determinata categoria avrà probabilmente le caratteristiche proprie di quella categoria. D'altra parte uno stereotipo non si basa su una conoscenza di tipo scientifico, ma piuttosto rispecchia una valutazione che spesso si rivela rigida e non corretta dell'altro, in quanto attraverso gli stereotipi si tende in genere ad attribuire in maniera indistinta determinate caratteristiche a un'intera categoria di persone, trascurando cioè tutte le possibili differenze che potrebbero invece essere rilevate tra i diversi componenti di tale categoria. Occorre tuttavia ricordare, sulla base di quanto detto poco sopra sulla somiglianza tra stereotipi e modelli mentali, che non necessariamente tutti gli stereotipi sono negativi: ad esempio, lo stereotipo che gli anziani hanno i capelli bianchi non ha una connotazione negativa, e se utilizzato tenendo conto che possono anche esistere eccezioni (vivendolo dunque non come “tutti gli anziani hanno i capelli bianchi” ma “molti anziani hanno i capelli bianchi”), può anche rivelarsi un'utile strategia cognitiva. In effetti se considerati come delle generalizzazioni che possono rivelarsi approssimative, gli stereotipi dimostrano di potersi rivelare, così come gli schemi mentali, delle valide strategie mentali. Può essere utile riflettere sul come e sul perché tendiamo a creare degli stereotipi, anche se spesso essi si rivelano nient'altro che concezioni errate. In parte molti dei nostri stereotipi sono mutuati culturalmente (come quelli legati alla differenza uomini/donne, oppure relativamente al carattere o ai difetti di certe popolazioni), e ci spingeranno ad etichettare certi atteggiamenti in maniera diversa a seconda dell'attore coinvolto per rimanere coerenti con lo stereotipo di base. Ad esempio, se condividiamo lo stereotipo che le donne siano meno brave degli uomini nell'impiegare il computer, interpreteremo come mancanza di competenza un errore che causa l'arresto del sistema operativo da parte di un'amica o di una collega, mentre vedremo come una distrazione lo stesso errore commesso da un amico o un collega. Al contrario vedremo come eccezioni che confermano la regola, una donna particolarmente a suo agio con questioni informatiche o un uomo che non è in grado di utilizzare un computer, senza rischiare così di dover mettere in forse lo stereotipo di riferimento. Gli studi sulla memoria hanno anche dimostrato come tendiamo a ricordare meglio e con più precisione episodi che confermano le nostre credenze e a dimenticare o sfumare quelli che le contraddicono; inoltre, dal punto di vista cognitivo, le persone tendono a dare un peso maggiore alle prove che confermano le proprie ipotesi piuttosto che a quelle che le contraddicono.
I pregiudizi. Similare alla connotazione più negativa di uno stereotipo, in psicologia un pregiudizio è un'opinione preconcetta concepita non per conoscenza precisa e diretta del fatto o della persona, ma sulla base di voci e opinioni comuni. Il significato di pregiudizio è cambiato nel tempo: si è passati dal significato di giudizio precedente a quello di giudizio prematuro e infine di giudizio immotivato, di idea positiva o negativa degli altri senza una ragione sufficiente (il pregiudizio è in tal senso generalmente negativo). Bisogna anche distinguere il concetto errato dal pregiudizio: un pensiero infatti diventa pregiudizio solo quando resta irreversibile anche alla luce di nuove conoscenze. Un pregiudizio può essere considerato un atteggiamento e come tale può essere trasmesso socialmente, e ogni società avrà dei pregiudizi più o meno condivisi da tutti i suoi componenti. Inoltre – riflessione valida anche nel caso degli stereotipi – tendiamo a formare i nostri pregiudizi soprattutto relativamente a persone appartenenti a un gruppo diverso dal nostro, di cui necessariamente avremo una conoscenza meno approfondita, e di cui saremo quindi meno in grado di vedere differenziazioni interne. Le ricerche sociologiche hanno anche posto in evidenza come le persone inserite, anche arbitrariamente, in un gruppo tendono ad accentuare le differenze che portano ad una distinzione del gruppo di appartenenza rispetto agli altri, e a cercare quindi di favorire il proprio gruppo. Spesso il nutrire pregiudizi relativamente a determinate categorie di persone porta, come evidenziato parlando degli atteggiamenti, a modificare il nostro comportamento sulla base delle nostre credenze, con la conseguenza di creare condizioni tali per cui ipotesi formulate sulla base di pregiudizi si verificano (profezie che si autoavverano). Naturalmente questi comportamenti porteranno poi al rafforzamento degli stereotipi stessi. Ad esempio, se per un qualche motivo Amilcare si è convinto che i toscani sono persone estremamente litigiose, incontrando il cugino livornese di Matilde assumerà probabilmente un atteggiamento più provocatorio, intendendo difendersi dagli “inevitabili” attacchi che si aspetta. Ma questo suo atteggiamento sarà visto come ostile e ingiustificato dal cugino toscano che a sua volta si metterà sulla difensiva nei confronti di Amilcare, che lo percepirà come litigioso, rafforzando di conseguenza il suo pregiudizio. È possibile eliminare i pregiudizi? Non si tratta di un'impresa facile, in quanto i pregiudizi, come abbiamo visto, sono determinati da una serie di concause che hanno le loro radici nel sociale e possono quindi vantare una forte influenza sugli individui. Favorire contatti tra gruppi diversi, migliorare la conoscenza delle persone che per qualche motivo vengono percepite come “diverse” può servire a ridurre i pregiudizi, ma naturalmente occorre che le persone siano effettivamente disposte a rivedere le proprie convinzioni.
Lombroso e quella paura dell’individuo anormale. Dalle sentenze al senso comune il senso della pericolosità è rimasto come incistato nei cervelli di ciascuno di noi. Situato all’incrocio tra il sapere medico e il sapere giudiziario, scrive Pier Aldo Rovatti il 16 dicembre 2016 su "L'Espresso". L'idea di pericolosità che una cultura neoilluminista avrebbe dovuto disinnescare e lasciarsi alle spalle, continua invece a tenere il campo e a produrre effetti inquietanti. La nozione di individuo pericoloso, quell’individuo che potremmo incontrare giù all’angolo della strada, sembra profondamente radicata nelle nostre menti, quasi non avessimo a disposizione alcuno strumento per contrastarla davvero o solo per snidarla: è molto difficile trovare qualcuno completamente immune, anche se molti pretendono di esserlo. È un pregiudizio? Non saprei battezzarlo: di sicuro agisce prima di ogni valutazione e contro ogni buon proposito. Michel Foucault ci ha raccontato, in alcuni suoi scritti degli anni Settanta, come nasce nella modernità questa nozione che in definitiva coincide con l’idea di anormale. L’individuo pericoloso viene descritto dalla psichiatria di allora come un tipo di folle capace di esplosioni imprevedibili e incontrollate, una follia monomaniaca, come la si chiamava, tanto più sorprendente quanto meno incanalabile in un profilo individuale di vita. Famosa è rimasta, grazie allo stesso Foucault, la vicenda del giovane contadino francese Pierre Rivière che d’improvviso stermina buona parte della propria famiglia e poi scappa nei boschi. Non aveva dato fin lì particolari segni di squilibrio (sarà lui stesso a fornirne qualche traccia in una “memoria” di sorprendente lucidità scritta in prigione dopo la cattura), il che metterà a lungo in scacco la giustizia del tempo e gli stessi psichiatri, tra cui il notissimo Esquirol. Infatti, ci si comincia allora a chiedere come trattare una pericolosità che si situa all’incrocio tra il sapere medico e il sapere giudiziario. Ancora oggi, quando sono passati quasi due secoli e la questione è stata studiata in lungo e in largo, restano parecchie ombre. Da noi, nonostante la chiusura dei manicomi (la “rivoluzione” condotta da Franco Basaglia prima a Gorizia e poi a Trieste, con il suo esito in una legge nazionale, la “180”, decisamente pionieristica), la soppressione dei cosiddetti Ospedali psichiatrici giudiziari è cronaca recentissima, ma le ombre potranno comunque essere completamente diradate solo nel momento in cui dal Codice penale scomparirà ogni riferimento all’individuo pericoloso (“pericoloso a sé e agli altri”), un individuo come tale criminogeno. Per ora simile norma, nonostante tutto, sussiste nella sua evidente vaghezza e nella sua impressionante lontananza dal mondo reale e dagli sviluppi effettivi della nozione stessa di individuo pericoloso. Dopo le teorie della “degenerazione” e dopo gli studi di Cesare Lombroso, per fare solo due esempi, la pericolosità individuale appare adesso inscindibilmente collegata al calcolo dei rischi che una società deve prevedere e prevenire. Le teorie della “degenerazione” hanno cercato di rispondere allo scacco di una pericolosità immotivata con l’ipotesi di tare ereditarie (oggi diremmo, leggibili nel Dna di una persona), e non c’è bisogno di ricordare le nefandezze di massa perpetrate dai regimi autoritari del secolo scorso (ma non solo lì) per liberarsi dai soggetti “deboli”, con pratiche che vanno dalla sterilizzazione alla soppressione fisica dei malati mentali. Roba vecchia? Ma quanto di tale ipotesi degenerativa è rimasto vivo nell’opinione comune (e anche nelle perizie psichiatriche)? Quanto a Lombroso e alla sua geniale fisiognomica dell’individuo anormale, con annesse immagini dei tratti della mostruosità umana e delinquenziale, è arduo convincersi che questa “cultura” sia ormai scomparsa dalla scena. Al contrario, si ha l’impressione che essa sia rimasta come incistata nei cervelli di ciascuno di noi. Per negarlo, dovremmo riuscire a dire a noi stessi che il nostro giudizio è totalmente immune dalla immediata valutazione delle fattezze di chi ci capita di incontrare e dunque dalla pretesa di capire al volo se si tratta di qualcuno di cui fidarsi o da evitare. Non c’è neppure bisogno di sottolineare che questo istantaneo identikit di pericolosità può portarci in fretta ad atteggiamenti di tipo razzistico che mai accetteremmo consapevolmente di attribuire a noi stessi. Insomma, la cartina di tornasole della pericolosità non è certo caduta in disuso e, siccome continuiamo tranquillamente e acriticamente ad adoperarla, dovremmo fermarci un momento a pensare se l’attuale cultura possa effettivamente chiamarsi neoilluministica, a partire proprio da un’analisi autocritica dei modi con cui esprimiamo nel concreto le nostre inclinazioni soggettive. Riusciamo a dribblare il problema spostando lo sguardo sui rischi sociali? Mi spiego. Esiste da alcuni decenni una pratica culturale che ci invita a distogliere l’attenzione dai singoli individui ritenuti pericolosi per concentrarci piuttosto sui cosiddetti studi attuariali, cioè sul calcolo dei probabili rischi cui sarebbe esposto un contesto sociale, per esempio quelli connessi al terrorismo. Si tratta di un duplice spostamento, dal singolo individuo pericoloso a un collettivo di individui o a una “popolazione” di soggetti produttori di rischio sociale, e, secondariamente, da un’indagine sulla storia pregressa degli individui a una prospezione rivolta al futuro e alla probabilità del danno sociale. In questo modo non sarebbe solo in gioco la psichiatria con i suoi folli muti e impenetrabili, e neppure avrebbero voce autorevole gli psicoanalisti, i quali hanno sempre tentato con i loro strumenti di penetrare dentro l’enigma della soggettività per dare parole a quanto dell’individuo si oppone con il suo silenzio a fornire una rappresentazione di se stesso. Quella che, invece, viene costruita è l’idea di una società pericolosa di per sé e quindi produttrice di rischi anonimi e diffusi da tradursi in probabilità. Arrivo così alla domanda decisiva: che ne è attualmente della pericolosità? A me pare che la partita, così impostata, risulti in buona parte truccata. Si vorrebbe cancellare l’idea dell’individuo pericoloso e con essa l’idea stessa di pericolosità, ma si ottiene il risultato opposto di diffondere ovunque il timore del pericolo e al tempo stesso di astenersi da un’indagine critica che scoperchi quanto di ideologico viene conservato nello stigma dell’“individuo pericoloso”. L’altra faccia della ponderazione dei rischi sociali potrebbe rivelarsi quella di un vero e proprio terrorismo psicologico. Il soggetto pericoloso può annidarsi dovunque e in chiunque: può essere chi vive dietro la porta accanto, ma anche chi vive assieme a te, potresti perfino essere tu stesso. La sentenza “pericoloso a sé e agli altri” non solo non viene ancora cancellata da codici ormai antiquati e retrogradi, al contrario sembra potersi applicare in un modo generalizzato e generico, ben al di là dei casi attribuibili a follia individuale. Pericolosi possiamo diventare tutti, basta rientrare per qualche aspetto nel dispositivo della paura sociale. Cosa significa, infine, pericolosità? Tutto, ma anche niente, poiché l’idea stessa di pericolosità ci sta sfuggendo di mano e sono diventati pressoché inservibili quegli strumenti, che pure avevamo, utili per criticare e smontare il pregiudizio della pericolosità.
L'ITALIA DEL PREGIUDIZIO E DEL PRECONCETTO.
Esempi di pregiudizi e malafede, intriso di razzismo è quanto scrive il pochissimo letto Libero Quotidiano, che però fa il paio con quanto pubblicano le redazioni di giornalisti ignoranti e o politicizzati di stampa e tv, specialmente di Mediaset, intenti a denigrare territori e popolazioni che neanche conoscono. Fake news di organi di stampa ufficiali e riconosciuti come attendibili (sic), che influenzano milioni di coglioni.
Sono come gli Unni ed il loro re Attila, dopo di loro non cresce più l'erba (ossia la reputazione).
Soldi al Sud, rapinato il Nord. Da gennaio saranno ricalibrati gli stanziamenti regionali: il governo toglierà 40 euro a ogni settentrionale e a ogni abitante del Centro per dare 74 euro in più a ogni meridionale. Alla faccia di chi ha votato il referendum per l’autonomia, scrive Fausto Carioti il 24 novembre 2017 Libero. Più soldi pubblici agli abitanti delle regioni meridionali: 74 euro per ognuno di loro. Quota annuale, s’intende. E, per converso, 40 euro in meno per ogni residente al Nord e al Centro. È la ricetta del governo Gentiloni per il Mezzogiorno, destinata ad allargare l’ampio “residuo fiscale”, cioè la differenza tra quanto ogni italiano riceve dallo Stato e quanto versa ad esso. Un saldo già oggi negativo per gran parte dei settentrionali e decisamente positivo, invece, per i contribuenti del Sud. Non è un semplice progetto, i provvedimenti necessari sono stati tutti approvati: si parte il primo gennaio 2018. (...)(...) Anche se nessun membro del governo e della maggioranza ha pubblicizzato la cosa a nord della Campania, il criterio con cui Roma spalma sul territorio nazionale gli “stanziamenti ordinari in conto capitale” - in parole povere gli investimenti pubblici - sta infatti per mutare. Lo prevede il decreto legge 243 dello scorso anno, intitolato “Interventi urgenti per la coesione sociale e territoriale con particolare riferimento al Mezzogiorno”. Molto particolare. All’articolo “7 bis”, esso stabilisce che il volume annuale degli investimenti “nel territorio composto dalle regioni Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Calabria, Puglia, Sicilia e Sardegna” debba essere “proporzionale alla popolazione di riferimento”. Un diverso modo di calcolo che avrà conseguenze importanti. Le motivazioni della politica, come sempre in questi casi, sono nobili e si chiamano “maggiore equità”, “esigenza di colmare il divario” e così via. Ideali che però, alla fine, si traducono in moneta sonante. Fino ad adesso non si sapeva quanto sarebbe stato tolto agli uni e dato in più agli altri. È stato Giuseppe Pisauro, presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio, a svelarlo in un’audizione tenuta due giorni fa in Commissione, a Montecitorio. L’economista (Pisauro è ordinario di Scienza delle finanze alla Sapienza) si è presentato ai deputati con una lunga relazione, all’interno della quale è contenuto un calcolo particolare fatto dai suoi uffici. «Un esercizio ipotetico», l’ha chiamato, una simulazione: cosa sarebbe successo nel periodo 2000-2016 se fosse già stato in vigore il nuovo sistema? «L’incremento complessivo di risorse di cui avrebbe beneficiato il Mezzogiorno», ha detto il presidente dell’Upb, «e il corrispondente decremento che avrebbe subito il Centro-Nord, mantenendo lo stesso livello complessivo della spesa ordinaria e la stessa distribuzione delle risorse aggiuntive, ammonterebbe in media a circa 1,5 miliardi annui». In termini pro capite, ha proseguito, «il Mezzogiorno avrebbe percepito maggiori risorse ordinarie pari, in media annua, a 74 euro, a fronte di minori risorse ordinarie per il Centro-Nord pari a 40 euro pro capite». Questa, dunque, è la novità - brutta per alcuni, bella per altri - che attende gli abitanti delle regioni italiane a partire dal prossimo anno. Un intervento che cambierà i diversi residui fiscali. Nel triennio 2013-2015, secondo i conteggi fatti dalla Banca d’Italia, gli abitanti del CentroNord hanno subìto un saldo negativo pari a 2.589 euro. Con grandi scarti tra quelle stesse regioni: è andata peggio ai lombardi, ognuno dei quali ci ha rimesso 5.422 euro, quindi agli abitanti dell’Emilia Romagna (-3.412), ai laziali (-3.359 euro) e ai veneti (-2.036). Ma ci sono state pure eccezioni vistose, riguardanti le solite regioni a statuto speciale, abituate a ricevere più di quanto versino. Gli abitanti del Mezzogiorno e delle Isole, invece, hanno tutti tratto guadagno dal rapporto fiscale con lo Stato centrale, in media per 3.152 euro. Più degli altri i calabresi, il cui risultato pro-capite è stato positivo per 5.519 euro. Seguono i sardi, con un attivo pari a 4.549 euro, i lucani (+4.412 euro), i molisani (+3.774) e quindi i residenti nelle altre regioni. La regola di distribuzione che entrerà in vigore tra poche settimane ridurrà ulteriormente quello che lo Stato restituisce al Nord e al Centro, a beneficio dei meridionali. È il motivo per cui l’esecutivo, già da tempo, ha iniziato a farsi bello dinanzi a costoro. Ad aprile il pd Claudio De Vincenti, ministro per la Coesione territoriale e il Mezzogiorno, annunciava al Mattino, il quotidiano di Napoli, che la nuova normativa è una vera svolta, «una misura assolutamente coerente con la scelta del governo di mettere il Sud in cima alla sua agenda». Due mesi fa, all’Economia del Mezzogiorno, lo stesso De Vincenti ha detto che quella operata da Gentiloni è «un’inversione di tendenza» dopo «gli anni di governi di destra con la presenza della Lega, nei quali la spesa in conto capitale complessiva è risultata paradossalmente più alta in termine pro capite al Centro-Nord rispetto al Sud». Né lui né nessun altro ministro si è sognato però di menzionare la stessa riforma agli elettori settentrionali.
Già Gilberto Oneto scriveva sullo stesso Libero il 29 dicembre 2010 "LA RAPINA AL SUD STRAPAGATA DAL NORD". Il Regno delle Due Sicilie è stato aggredito prima da una banda di irregolari organizzati e protetti da due Stati stranieri (il Regno di Sardegna e la Gran Bretagna) e poi dall’esercito sardo senza una regolare e motivata dichiarazione di guerra, e senza alcuna delle procedure che distinguono il comportamento delle comunità civili da consorzi di predoni e tagliagole. Si sono in seguito addotte le scuse più improbabili: che l’unificazione fosse volontà della stragrande maggioranza della popolazione e che il regime borbonico fosse «la negazione di Dio in Terra» che martoriava i propri disgraziati sudditi. Come è stato dimostrato dagli avvenimenti successivi al 1860, nessuna di tali condizioni era vera. L’unità era negli auspici solo di una minuscola conventicola di intellettuali e di cospiratori, e i Borbone non erano quella iattura che era stata dipinta. Ma, se anche Francesco II fosse stato un tiranno sanguinario, anche se i suoi sudditi fossero stati sottoposti alle più feroci vessazioni, non sarebbero state buone ragioni per aggredire e annientare uno Stato sovrano, riconosciuto e antico. Il comportamento sardo (e inglese) non può essere giustificato: non occorre neppure inventare o esagerare pregi del governo borbonico per condannare una aggressione che è riprovevole in sé e che lo sarebbe anche se avesse portato alle popolazioni meridionali ricchezze e felicità.
Forza di occupazione. Che il Meridione non abbia invece ricevuto dall’unità tutti quei vantaggi che in molti si aspettavano e che lo Stato italiano vi abbia per molto tempo esercitato la parte del vessatore più che del liberatore è cosa nota. È sicuramente vero che il nuovo regime si è comportato nel Sud come una forza di occupazione più che di unificazione, ma è altrettanto vero che non è stato molto più tenero in tutte le altre regioni “liberate”. Qui se ne sono percepiti gli effetti con più dolore perché si partiva da condizioni iniziali molto diverse: la tassazione borbonica era mitissima, la leva assai più breve (addirittura sconosciuta in Sicilia), le riserve auree più cospicue che altrove, il percorso industriale appena iniziato e la struttura produttiva assai fragile. Ciò nonostante, presi dalla foga e da un insopprimibile vittimismo, taluni meridionalisti sulla scia delle esagerazioni di Francesco Saverio Nitti si spingono a sostenere che il Regno delle Due Sicilie fosse addirittura una delle prime potenze industriali d’Europa (c’è chi lo colloca senza esitazione addirittura al terzo posto dopo Francia e Gran Bretagna!), che i suoi opifici fossero in procinto di inondare i mercati internazionali e le sue navi di intasare tutti i porti. Si confondono auspici fantasiosi con una realtà che era assai meno rosea. A fronte di alcuni punti di eccellenza, il Regno era arretrato, senza vie di comunicazione, senza istituti di credito, senza un tessuto sociale attrezzato, senza un ceto imprenditoriale attivo, con livelli di istruzione assai bassi e una classe dirigente poco propensa al rischio e vocata alla rendita parassitaria. È vero anche che i primi decenni di unità hanno visto lo Stato italiano fare investimenti soprattutto al Nord, ma questo è spiegabile e ragionevole:
1) si trattava in larga parte di progetti infrastrutturali già progettati o addirittura incominciati dai più attivi governi settentrionali;
2) occorreva aiutare l’industria settentrionale che si trovava in situazione più competitiva rispetto al resto d’Europa sia per condizioni proprie che per facilità di collegamenti;
3) gran parte delle spese erano militari (fino al 40% degli investimenti pubblici) e per ovvie ragioni concentrate al Nord. In ogni caso era in Padania che lo Stato riscuoteva larga parte delle tasse. Quindi, dopo la rapina iniziale perpetrata dal governo provvisorio garibaldino e dai primi anni di quello sabaudo si è trattato della scelta di investire dove era più conveniente, di spendere i soldi dove erano raccolti.
Giochi con le cifre. Certo meridionalismo “militante” contemporaneo gioca con le cifre confrontando quanto sarebbe stato sottratto con quello che è stato investito. Qualcuno si è spinto a quantificare in moneta attuale la rapina subita dal Mezzogiorno all’atto dell’unità, quasi sempre omettendo di considerare che una buona parte è stata dissipata al Sud dal governo garibaldino, che parte è andata ai nuovi potentati locali e che anche il Meridione ha dovuto contribuire per quanto di sua competenza (la popolazione meridionale era più della metà di quella totale) alla spesa complessiva del nuovo Stato. Naturalmente si evita di raffrontare quelle cifre con quelle tolte alle comunità padane allora e soprattutto oggi.
A rimettere un po’ di ordine sui balletti dei numeri e sulle descrizioni un po’ troppo rosee dell’economia e della società meridionale pre-unitaria arriva adesso un bel libro di Romano Bracalini (Brandelli d’Italia) pubblicato da Rubbettino, uno straordinario editore calabrese. Vi si chiarisce come l’unità sia stata un affare per certi ceti economici e per la classe politica, ma una catastrofe per le prospettive settentrionali, trascinate sempre più lontano dall’Europa, e per quelle del Meridione, drogato da un flusso di denaro male utilizzato e in larga parte finito ad alimentare parassitismo e malavita. L’unità insomma ha fatto del bene solo alla conventicola di furbacchioni che l’ha inventata. Il libro riconduce alla verità storica e riporta alle sue giuste dimensioni un fenomeno che viene capziosamente gonfiato da certa pubblicistica meridionalista basata sul “risarcimentismo”, costruito sul principio del «ci hanno voluto e adesso ci mantengano». Si perde l’occasione di effettuare un esame sereno degli avvenimenti, mettendo così in difficoltà sia i meridionalisti veri sia ogni seria prospettiva di riscatto del Sud. In ogni caso come si è visto la manipolazione dei numeri risulta ininfluente sui giudizi di merito sulla vicenda risorgimentale e sulla “liberazione” del Meridione. Vale per chi sostiene che il Sud sia stato occupato per succhiarne le ricchezze e anche per chi al contrario giustifica l’annessione con lo stato di miseria e di arretratezza cui porre rimedio.
Il “risarcimentismo”. Niente giustifica l’aggressione. Nessun popolo può essere annesso senza il suo consenso, né per essere rapinato né per essere redento. Questo basta per esprimere giudizi senza il bisogno di sciorinare cifre vere o inventate, che umiliano le aspirazioni autonomiste meridionali sotto un “risarcimentismo” di comodo finalizzato a perpetrare il trasferimento di risorse dalla Padania. Soprattutto non ha senso come fa qualche meridionalista dell’ultima ora colpevolizzare i popoli padani che di “quel” Risorgimento sono stati vittime come tutti gli altri, ma che, a differenza degli altri, continuano a pagarne il conto anche 150 anni dopo.
Vittorio Feltri: "Calabria e Meridione, il problema non è l'indole dei terroni. Ma..." Scrive il 12 Novembre 2017 Vittorio Feltri su "Libero Quotidiano". I dati sono dati e non si discutono. A Bergamo, Brescia e Verona la disoccupazione non c’è, come ha scritto Paola Tommasi ieri su Libero. Queste città e queste province sono sgobbone e non lo scopriamo oggi, è un fatto straordinario che ha ragioni storiche. Parlo di Bergamo dove sono nato. Conosco la mia gente scorbutica e infaticabile. La quale è diventata così sotto la Serenissima. I carpentieri che hanno rifinito Venezia erano miei conterranei. Lavoravano per il Doge e vivevano a Padova (dove la vita costava meno), patria della commedia dell’arte. Arlecchino è nativo della Valbrembana, e Brighella era un suo conterraneo. Da quel tempo a oggi è passata molta acqua sotto i ponti del Serio e del Brembo, due fiumi che hanno propiziato le fortune orobiche. Dove c’è acqua corrente c’è energia, dove c’è energia si è sviluppata l’industria. A Bergamo il maggior contributo alla produttività fu portato dagli svizzeri dai quali imparammo il tessile. Due nomi per tutti: Legler e Honegger. Famiglie che oltre all’opero-sità ci hanno insegnato a stare al mondo. I bergamaschi hanno assimilato così la cultura del lavoro i cui frutti sono stati e sono copiosi. Costoro hanno grandi meriti e non li posso negare. Ma aggiungo che sono stati fortunati ad avere certi maestri. Oggi la mia città e la mia provincia sono fiori, borghi lindi e servizi eccellenti, montagne e colline ospitali e opulente. Non si diventa ricchi per caso. Mai conosciuto un ricco cretino o lazzarone. Ma attenzione. È l’ambiente che fa gli uomini e non viceversa. Sono le infrastrutture il propellente dell’economia. Esemplifico. La prima autostrada italiana è stata la Torino-Milano-Bergamo-Brescia che non fu realizzata per consentire alle auto di correre, bensì per far decollare gli affari. Gli orobici hanno sconfitto la miseria perché sono tignosi e duri quali rocce, ma non solo per questo: la sorte li ha aiutati. Sono diventati ciò che sono in quanto agevolati da varie circostanze favorevoli, non ultima la vicinanza a Milano, fucina inesauribile di iniziative imprenditoriali. Non la tiro per le lunghe. Paragonare le Orobie all’Aspromonte è un servizio stupido. La Calabria somiglia al Medioriente, meglio, alla Grecia. L’unità d’Italia le ha regalato il brigantaggio cui si sono dedicati poveracci piegati alla leva obbligatoria che ha ammaccato l’agricoltura locale. Lo Stato unitario non ha spinto lo sviluppo della regione, non ha dato strade e ferrovie, nessuna infrastruttura indispensabile per lo sviluppo. A Reggio sono arrivati soldi a pioggia, finiti nelle tasche dei boss, ma neanche un progetto. Il popolo o campa di espedienti o non campa. Chi ignora questa realtà non può capire il disagio ionico, lo giudica superficialmente e lo attribuisce a questioni antropologiche mentre, ripeto, è il tessuto sociale che influisce sui caratteri individuali. Insomma il problema non è l’indole dei terroni, bensì la condizione a cui essi sono stati condannati da una politica affidata a personaggi acefali, incapaci di gestire il presente e di immaginare il futuro. Segnalo che a Milano e dintorni risiedono 300 mila calabresi perfettamente integrati e indistinguibili dagli indigeni. Perché? L’ambiente li ha raddrizzati e resi idonei ai costumi nostrani. Il resto è chiacchiera che alimenta soltanto stupidi pregiudizi. Vittorio Feltri
Non si può discutere con certa gente. Sono convinti delle loro opinioni e non le cambieranno mai, giusto per dare ragione a quel detto: solo gli stupidi non cambiano opinione.
Il Sole 24 Ore: votate pure, intanto lo Stato non esiste più. (Antonio Socci, “In Italia non governano più gli italiani ma l’Europa, e non fa il nostro interesse”, dal quotidiano “Libero” del 21 novembre 2017). In un paese come l’Italia, anestetizzato e abbindolato dalla propaganda e dalla disinformazione, non si è ancora capito in quale baratro ci hanno portato. E – per quanto possa sembrare incredibile – non lo hanno capito nemmeno quelli che ci hanno trascinato quaggiù. Intendo la classe politica. Infatti, alla vigilia della corsa elettorale, sui giornali si leggono annunci di programmi mirabolanti che stanno per essere sfornati dai diversi schieramenti: dal taglio delle tasse alle pensioni, dal reddito di cittadinanza ai finanziamenti allo stato sociale, dai fondi per la scuola a quelli per lottare contro la disoccupazione fino al ritorno del famoso articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Bene. C’è solo un problema: le chiavi e il portafoglio di casa nostra sono ormai in mano ad altri. In Italia non governano più gli italiani. In maniera molto chiara – quasi brutale – lo ha fatto presente Sergio Fabbrini in un inciso del suo editoriale pubblicato dal “Sole 24 Ore”, dove si legge: «I politici italiani continuano a pensare come se fossero all’interno di uno Stato sovrano indipendente». Attenzione, non sono parole pronunciate da un “pericoloso” sovranista, ma da un commentatore che – come il suo giornale – aderisce all’ideologia dell’Unione Europea. Rileggete quelle parole perché sono vere e drammatiche, sebbene quel commentatore – come la gran parte degli editorialisti dei giornali – ritenga tutto questo un gran progresso. Bisognerebbe domandare agli italiani: a voi è mai stato detto che non siamo più «uno Stato sovrano indipendente»? Vi è mai stata chiesta una chiara autorizzazione a disfarsi della nostra sovranità? Vi sono mai state spiegate le conseguenze? Ci rendiamo conto che siamo praticamente sudditi della “Grande Germania” chiamata Unione Europea? Per la verità alcune voci inascoltate lo hanno gridato ai quattro venti, ma sono state fulminate sui giornali con continue accuse di sovranismo, di populismo e di nazionalismo. Oggi, in questa Italia, un Enrico Mattei verrebbe considerato un pericolo sovranista e nazionalista. Perché costruì l’Eni avendo come bussola il nostro interesse nazionale. Nel 2017 gli sarebbe impossibile. Il giornale della Confindustria ieri c’informava del «radicale cambiamento» che si è verificato ovvero che «lo Stato nazionale non esiste più in Europa» (sic!). Ripeto: non sono parole di Salvini o della Meloni, ma degli stessi europeisti. È la realtà dei fatti. Certo, in teoria è ancora in vigore l’articolo 1 della Costituzione secondo cui “la sovranità appartiene al popolo” italiano. Ma nella realtà non è più così. Lo abbiamo visto nel 2011 quando è stato rovesciato l’ultimo governo scelto dagli italiani e lo vediamo continuamente con la sottomissione alla Ue. Quelli del centrosinistra sono stati così zelanti da andare perfino oltre ciò che l’Europa (o meglio: la Germania) chiedeva, attribuendo alle norme europee valore costituzionale. Giulio Tremonti in una intervista a “Libero” ha spiegato che «la sinistra italiana, tra il 2000 e il 2001» ha introdotto «non richiesta, nell’articolo 117 della Costituzione la formula della nostra sottomissione quando si afferma che il potere legislativo dello Stato è subordinato “ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”, intendendo per ordinamento comunitario non solo i trattati, ma anche i regolamenti e le direttive europee». È un’idea così geniale che ovviamente gli altri Stati d’Europa si sono ben guardati dal farsela venire. I volenterosi governanti italiani sono i soli ad averla escogitata. Così siamo obbligati a recepire tutto, bail-in compreso e non importa se contraddice l’articolo 47 della nostra Costituzione sulla tutela del risparmio. Ovviamente la decisiva perdita di sovranità c’ è stata anzitutto quando abbiamo rinunciato alla nostra moneta, errore che paghiamo salatamente. Eppure eravamo stati avvertiti anche da premi Nobel per l’economia, come Paul Krugman, che nel 1999, sul “New York Times”, scriveva: «Adottando l’euro, l’Italia si è ridotta allo stato di una nazione del Terzo Mondo che deve prendere in prestito una moneta straniera con tutti i danni che ciò implica». Ecco la vera questione: non siamo più uno Stato sovrano e indipendente, non abbiamo più una moneta e ci vengono imposte delle politiche e delle norme che fanno l’interesse nazionale altrui, non il nostro. Ci hanno ridotto a un “fake Stato”. Una colonia. La classe politica che ci ha portato a questo punto, e che adesso fischietta distrattamente facendo finta che esista ancora uno Stato italiano sovrano e indipendente, deve rendere ragione di questa follia, alla luce dei risultati devastanti di questi anni. Se le elezioni non affrontano questo problema saranno soltanto un altro modo per prendere in giro un popolo che è stato impoverito, ingannato, tradito ed espropriato perfino della sua sovranità.
(Antonio Socci, “In Italia non governano più gli italiani ma l’Europa, e non fa il nostro interesse”, dal quotidiano “Libero” del 21 novembre 2017).
Il Sole24ore smentisce ItaliaOggi: Trieste nella top10 per qualità della vita. Dal 70esimo al sesto posto: una differenza enorme tra le due classifiche. Per Il Sole24ore il capoluogo giuliano è tra le migliori città d'Italia: anche qui però male in termini di sicurezza e criminalità, scrive Emanuele Esposito il 27 novembre 2017 su "Trieste Prima". Una differenza enorme, una classifica la pone al 70esimo posto, l'altra in sesta posizione. Questo il divario tra le classifiche della qualità della vita relative alle 110 province italiane pubblicate da ItaliaOggi e Il Sole 24 ore. Se ieri avevamo dato la notizia infausta della settantesima piazza, oggi il bicchiere è decisamente mezzo pieno. Infatti il quotidiano economico vede anche un miglioramento, dal 10° al 6° posto in classifica del capoluogo giuliano, prima provincia dell'ottimo Friuli Venezia Giulia (Gorizia 9, Udine 10 e Pordenone 13).
Le classifiche delle università? Sono “fake news”, scrive la Redazione ROARS il 10 giugno 2017. Le classifiche delle università? «Dal punto di vista delle scienze sociali sono spazzatura». A dichiararlo nel 2013 era stata Simon Marginson, intervistata da The Australian a proposito della classifica QS. La stessa classifica che il Corriere non esita a indicare come “la più importante a livello internazionale”, forse per compiacere il Rettore del Politecnico di Milano che primeggia tra gli atenei italiani. Un primato che non deriva da particolari meriti ma da un cambio delle regole, favorevole agli atenei tecnici, operato da QS nel 2015. Risultato? La Nanyang Technological University di Singapore, da 39-esima nel 2014 era salita fino al 13-esimo posto, sorpassando Yale, John Hopkins and Cornell. Su quell’onda, il Politecnico di Milano, 229-esimo nella classifica 2014, risalì magicamente al 189-esimo posto, mentre perdevano oltre 100 posizioni Pisa, Tor Vergata, Federico II di Napoli, Cattolica di Milano, Genova, Perugia e Bicocca. Clamoroso il caso di Siena che dal 2014 al 2015 si trovò ad arretrare di ben 220 (duecentoventi) posizioni in un anno. Il suo rettore Angelo Riccaboni, giusto un anno prima, aveva assicurato che «il ranking QS, redatto da Quacquarelli Symonds, è tra i più autorevoli al mondo». Più saggio il Rettore di Roma Tor Vergata: «È impossibile in ogni classifica anche sportive perdere centinaia di posizioni in pochi mesi se non cambiano gli indicatori». Una grande verità che viene troppo spesso rimossa quando si guadagna qualche manciata di posizioni e fa più comodo attribuirsene il merito. Oltre che per la volatilità dei criteri, la classifica QS è stata messa in discussione per il peso sproporzionato (50% del punteggio totale) che assegna a sondaggi reputazionali la cui aleatorietà e manipolabilità sono da sempre oggetto di discussione. Basta consultare Wikipedia per scoprire che furono proprio queste debolezze metodologiche ad indurre Times Higher Education a divorziare da QS (fino al 2009 esisteva un ranking THE-QS): The rankings of the world’s top universities that my magazine has been publishing for the past six years, and which have attracted enormous global attention, are not good enough. In fact, the surveys of reputation, which made up 40 percent of scores and which Times Higher Education until recently defended, had serious weaknesses. And it’s clear that our research measures favored the sciences over the humanities. Phil Baty (THE World University Rankings Editor): Ranking confession, Inside Higher Ed.
A titolo di cronaca, va detto che, nonostante i buoni propositi, nemmeno la classifica di THE ha mai brillato per scientificità. Basti pensare all’exploit di Alessandria di Egitto, collocata da THE davanti a Stanford e Harvard nella classifica 2010 dell’impatto citazionale. QS è anche nota per le spregiudicate pratiche commerciali: la vendita di consulenze alle università valutate e il suo “infamous star system“, che permette di pagare per veder comparire “stelle di qualità” accanto al nome dell’ateneo. “Valutazioni a pagamento per le università più piccole” (Ratings at a Price for Smaller Universities) aveva intitolato il New York Times. Inutile dire che non pochi atenei italiani pagano i servizi di QS. Se speravano che questo li aiutasse a salire nelle classifiche, il tonfo del 2015 dimostra che hanno fatto male i loro conti. Insomma, in termini di scientificità e imparzialità, le classifiche degli atenei godono di una reputazione immeritata. Poco male, penserà qualcuno: tra le tante “fake news” in circolazione le classifiche degli atenei non sono probabilmente tra le più dannose. In realtà, grazie alla loro pervasività mediatica contribuiscono a plasmare le agende dei governi perché ricacciano sullo sfondo tutti quegli obiettivi che non vengono contabilizzati nei ranking. Sono queste le considerazioni che Stephen Curry, Professore di Structural Biology all’Imperial College, London, ha riportato nell’articolo “University rankings are fake news. How do we fix them?” che ripubblichiamo di seguito per i nostri lettori.
Cari amici di Belluno, complimenti. Ma avete mai visto il cielo di Reggio? Scrive Mimmo Gangemi il 29 Novembre 2017 su "Il Dubbio". La classifica de Il Sole 24 Ore fa emergere un quadro incompleto e non si accorge che la vita è anche altro. Brava, Belluno, prima nella classifica di qualità della vita redatta da Il sole 24 ore. Ma in quale angolo del Nord si trova Belluno? No, non è snobismo né sarcasmo. È semplice ignoranza mia, compatite. La cerco su Google. È nell’alto Veneto. Sul Piave, che certo oggi mormora compiaciuto. Un colpo d’occhio notevole, il panorama, con le Dolomiti innevate a ridosso. Però mi porta brividi di freddo, da invogliarmi al cappotto in questa bella giornata con un rigurgito di tarda estate. E noi di Reggio? Scorro, scorro, scorro. E dov’è finita Reggio? Eccola, finalmente. Terzultima, modestia a parte. Volete mettere? Terzultima non è lo stesso che ultima o penultima. Gli facciamo un mazzo tanto a Caserta e a Taranto, mi dico mentre chiudo a cerchio pollici e indici e li allargo in fuori. Beh, noi meridionali usiamo così, le parole e i pensieri ci vengono meglio se li soccorriamo con i gesti. Da Reggio risalgo in su. Mi si smuove dolorosa la cervicale nello scorrere la classifica fino a Belluno. Alle alte quote, tutte città del Nord. Milano ottava, dopo essere stata seconda nella precedente competizione. Qui, torco il muso. Ottava, Milano? Dove l’umidità infracidisce le ossa, dove si respira nebbia, e monossido di carbonio e particelle microscopiche che s’infilano nei polmoni provocando tumori e malattie respiratorie, dove sono più i giorni che sembra di camminare per le vie di Pechino, la Pechino del carnevale della morte, tutti in giro con le mascherine per spuntare giorni in più al loro Dio? Guardo fuori. Al solito, giornata chiara e luminosa, con l’occhio che riesce a spaziare lontano. C’è il sole. E il cielo azzurro, il mare che ne assume le tinte. All’ultimo orizzonte acquoso, Stromboli tira una boccata di fumo, più a Sud le sue sorelle intralciano di terra le acque, l’imboccatura dello Stretto confonde il continente con la Sicilia che s’allarga scodinzolando in due direzioni, più a Sud ancora l’Etna tradisce, perché in cima è imbiancato come la foto di Belluno che oggi ci porgono i quotidiani. Meglio restare in maglione, la temperatura è gradevole. Sì, manco la giacca. Il cappotto, no di sicuro. Al più, l’impermeabile, ma per fare scena e presenza. Bastano però il clima e la natura benevola per compensare classifiche di civiltà che ci vedono buon ultime? No. Decisamente no. Poi, non ne abbiamo merito. Ce li ha regalati il Padreterno. E noi ci abbiamo messo tanto di nostro per guastarli. Sì, però… Però mi spunta l’idea che ci sia una stretta correlazione tra la latitudine e un’efficienza in grado di determinare migliori qualità della vita, che il clima sia inversamente proporzionale agli indici che spingono in alto il Nord e giù giù il Sud, quasi una questione di fisica. Magari la mia è solo una forzatura per assolvere, con nulla di attendibile. Poi mi sovviene L’Aquila. Per la durezza del clima è seconda in Italia solo a Belluno, si sverna come dentro una ghiacciaia. E, benché città del Sud, è piazzata abbastanza su nella graduatoria, al 63° posto, precede parecchie città del Nord e moltissime del Centro. Sembrerebbe avallare la mia ipotesi, che, peraltro, è in armonia con tutti i Sud del mondo, sempre ad arrancare i passi, non si trova un Sud dove gli indici del buon vivere esaminati siano migliori che al Nord, tranne nelle due Coree, ma lì è colpa della testa malata dei dittatori che si sono succeduti in quella del Nord. Insomma, il Padreterno avrebbe inteso pareggiare i conti, ha dato e ha tolto. Loro li ha voluti perfettini, efficienti, frettolosi, composti, ossequiosi delle regole, e freddi da frigorifero, carattere compreso. Noi invece allegri e chiassosi, esuberanti ed esagerati, goderecci, chiacchieroni, disordinati, lagnosi, vantalori dei fasti di un passato che non c’è più, e che, comunque, non può soccorrere il presente, e marchiati da tanti difetti che abbattono gli standard di civiltà. Che possiamo farci? Siamo più in basso, meno civili? Se sì, pazienza. Intanto, quaggiù ci rimaniamo, senza nessuna intenzione di un inverno là, ma proprio nessuna nessuna. Viva l’inciviltà, se la si misura con i canoni de Il sole 24 ore. Poi, il nordico Piemonte ci ha voluti nazione – Italia lo eravamo già, essa era qui dove il continente si consegna al mare nostrum. Ci avessero lasciati nel Regno delle Due Sicilie, non incideremmo nelle loro classifiche, non entreremmo a guastarle. Oh, non sono filo borbonico, evviva l’Italia. Dico solo che noi questi siamo, che ci hanno voluti, ci hanno presi con la forza e adesso ci devono usare il garbo di tenerci con tutte le scorze, le bucce, la rogna e quant’altro. E ci hanno voluti eccome. Persino i Bellunesi. Ne scovo otto tra i Mille scesi alla conquista. To’, guarda caso, l’otto per mille, devoluto non alla chiesa ma al Sud che non lo aveva chiesto. Torno serio. E ribatto a Il Sole che è una classifica da nordista, stilata sui canoni che più hanno peso e sostanza per uno di su. Chiaro che vincono le giacche blu se per il confronto vengono adottati i loro standard e i loro modelli e li si spaccia per dati inconfutabili su cui misurare il resto della nazione e la febbre del Sud. E infatti si limita ad analizzare la ricchezza e i consumi, il lavoro e l’innovazione, l’ambiente e i servizi, la demografia e la società, la giustizia e la sicurezza, la cultura e il tempo libero. Il risultato sarebbe ben diverso se avessero pesato altri parametri importanti – forse più incidenti a costruire un benessere interiore che a sua volta si traduce in qualità di vita – di quelli che è complicato trasformare in numeri, perché attengono l’anima, il cuore, la fantasia, i valori umani, i rapporti tra le persone, e se a essi avessero abbinato le condizioni esterne, anche climatiche, di paesaggio, di inquinamento. Non si può insomma stilare un rendiconto dei buoni e dei cattivi utilizzando criteri di parte improntati sulla rigida matematica. E non si può ignorare che, più a Nord si sale, più cresce il disagio dello spirito – ne sono esempio i paesi scandinavi, i più civili e nello stesso tempo quelli con la maggiore incidenza di suicidi. Boccio, quindi, la classifica de Il sole 24 ore. Fa emergere un quadro incompleto, falsato. Non s’accorge che la vita è anche altro. E, nel complimentarmi con gli amici bellunesi, puntualizzo: con tutto il rispetto, non me ne vogliate se ho certezza che non cambierei i miei giorni qui con quelli vostri lì.
"Attenti al Sud", un libro sulla cultura del pregiudizio. Mimmo Gangemi e Giuseppe Sottile a Ragusa per Panorama d'Italia, contro le leggi e le storpiature della realtà che accumunano oggi mafia e meridione, scrive Antonio Carnevale il 26 novembre 2017 su Panorama. Un’analisi anti-retorica, accettando il rischio di sfidare la dittatura del politicamente corretto. È stata questa la nota che ha dominato la presentazione del libro “Attenti al sud” (Piemme) durante la tappa a Ragusa del tour “Panorama d’Italia”. Mafia, ‘ndrangheta, cultura del pregiudizio, magistrati che fanno carriera grazie a casi gonfiati, ma anche cittadini comuni che si sentono stretti tra due fuochi: il cancro della criminalità organizzata da una parte e una sconfortante sfiducia nella giustizia dall’altra. Sono stati questi i temi finiti sotto la lente d’ingrandimento durante la serata. Argomenti spesso liquidati con semplici slogan ideologici o (peggio) trattati con il conformismo di un’imperante ipocrisia “buonista”. Invece no: non sul palco del piccolo e delizioso teatro Donnafugata di Ragusa, dove il direttore di Panorama Giorgio Mulè ha introdotto due ospiti più che titolati ad analizzare quei temi: Mimmo Gangemi, scrittore calabrese, che nel volume “Attenti al sud” firma un densissimo testo (al fianco di quelli dei suoi illustri colleghi Pino Aprile, Maurizio de Giovanni e Raffaele Nigro); e Giuseppe Sottile, siciliano, giornalista di lungo corso, che dalla cronaca giudiziaria a “L’Ora” di Palermo e poi al “Giornale di Sicilia” è passato negli anni a occuparsi sempre più spesso della sua regione e di antimafia, come testimoniano ancora le bellissime pagine che firma su Il Foglio, giornale di cui è stato condirettore e del quale è responsabile dell’edizione del sabato.
Il pregiudizio. “Il pregiudizio sul sud impera”, ha detto Gangemi. “Certo, non è sostenibile che la Calabria sia un’oasi di pace. Nelle aree più segnate dall’oppressione malavitosa si sono perpetrati crimini orrendi, con la ’ndrangheta che è testa, mani e piedi dentro i traffici peggiori: prima i sequestri, dopo la droga, le armi, le scorie tossiche, quelle radioattive. A delinquere è tuttavia una sparuta minoranza, seppure capace di un pieno controllo del territorio. L’Italia è stata però indotta a pensarla molto peggio”. “Il pregiudizio è in continua evoluzione”, sottolinea l’autore. “Lo è sin dai tempi in cui Giorgio Bocca spargeva falsità sulla Calabria nel suo L’Inferno. Profondo sud, male oscuro, del 1992, e lo è ancora oggi, con le molte inesattezze che danno vita a una narrazione falsata della realtà criminale”. Un esempio? “Gli elementi organici alla ‘ndrangheta nelle zone più calde della provincia reggina sono stimati dalla Dia in una percentuale pari al 2,7 della popolazione; ma questa cifra perde magicamente la virgola e si trasforma poi in 27 per cento: dieci volte tanto, così fu asserito nel 2012 e nel 2013 durante l’inaugurazione degli anni giudiziari a Reggio”. Non si tratta di casi isolati, afferma Gangemi: “Troppo spesso le accuse di ‘ndrangheta si sgonfiano nei processi. Non sempre gli errori giudiziari sono fatti in malafede. Ma domina una mano pesante. E si sa, ingigantire il mostro serve anche a far cresce le stellette e le carriere”.
Nuove leggi per la nuova mafia. È d’accordo Sottile: “Non c’è più bisogno di scomodare Leonardo Sciascia e i suoi ‘professionisti dell’anti-mafia’ per osservare che la gestione dell’emergenza, nata molti anni fa, è diventata una prassi anche oggi, ad emergenza finita” commenta. “Non è finita la mafia” puntualizza. “Ma la vecchia legislazione di emergenza si applica oggi a una mafia che si è trasformata, e le conseguenze sono nefaste”. Spiega il giornalista: “Quell’emergenza era nata quando la mafia faceva le stragi. Oggi non solo non ci sono più le stragi, ma nemmeno sono in circolazione i capi di quella vecchia mafia, ormai murati dentro il 41 bis, il carcere duro, lo stesso che ha scontato Riina per 24 anni, fino alla morte. Oggi c’è una nuova mafia, diversa, che continua a dissanguare il territorio, ed è giusto e sacrosanto combatterla. Ma è doveroso dire che contro la vecchia mafia stragista lo Stato ha vinto. E bisogna dunque denunciare che la cultura dell’emergenza, ormai sproporzionata, ha prodotto la cultura del sospetto e del pregiudizio, quella cultura malsana, cioè, per cui basta un “odore di fritto”, ovvero l’ombra di un “forse”, perché si possa avviare il sequestro preventivo dei beni, fino a un processo che nel migliore dei casi ci metterà 15 anni per arrivare alla verità, rovinando nel frattempo il malcapitato imprenditore, non importa se innocente”.
Il diritto alla paura. In poche parole, “la cultura dell’emergenza ha portato a stravolgere lo Stato di diritto”: su questo sono d’accordo Gangemi e Sottile, che con diversi esempi denunciano anche gli interessi nati attorno al fenomeno dei beni sequestrati: “50 miliardi di patrimonio totale, un tritacarne dove il fallimento s’incontra puntualmente prima che si concluda l’iter giudiziario”. Si fanno nomi e cognomi di chi è incappato nella trappola di una giustizia sbagliata. E si affaccia pure il tema inedito di un “diritto alla paura” dei cittadini, i quali “da soli non sanno più fidarsi di uno Stato che sembra perseguitarli anziché proteggerli”, come denuncia Gangemi. “Oggi la contrapposizione tra mafia e antimafia è diventata un tema di lotta politica” chiosa infine Sottile. “Ci sono professionisti seri che combattono la criminalità organizzata, e che svolgono un lavoro egregio” sottolinea. “Ma non si può negare che si sia formata una categoria di persone che proprio con l’anti-mafia ha accresciuto negli anni soprattutto il proprio potere personale, in termini sia di carriera professionale sia di capacità di manipolazione politica”. Un effetto collaterale di tutte queste storture è allora quella “Cultura del pregiudizio” che dà il titolo al testo di Mimmo Gangemi in “Attenti al sud”.
Le storpiature della realtà. “Durante la presentazione di un mio libro al nord” esemplifica lo scrittore “una ragazza ebbe a spendere parole di commiserazione per la vita grama che condurremmo quaggiù, costretti a sporgere uno spicchio di testa prima di svoltare l’angolo di una traversa, per essere certi che non provengano pallottole in senso contrario. Rimase sconcertata e dubbiosa vedendo che ci ridevo su: le incrinavo certezze. Quell’osservazione e altre meno fantasiose, ma altrettanto esagerate, danno il senso delle storpiature della verità e della condanna gravata addosso alla Calabria e al meridione in generale. Sono storpiature talvolta fatte ad arte, talvolta per ignoranza, talvolta per convenienza. Talvolta, forse, perché giova all’animo umano trovare altrove nefandezze da cui trarre conforto per quelle di casa propria”. Nel racconto del Mezzogiorno, insomma, si confondono troppo spesso i confini tra il bene e il male, tra mafia e antimafia, tra verità e menzogne, tra lotta alla criminalità e strumentalizzazioni politiche o carrieristiche. Stare “Attenti al sud” significa allora anche questo: puntare un faro sulle tante ombre e cercare di portarvi una nuova luce. Anche a costo di sfidare la dittatura, imperante, del politicamente corretto.
Intolleranti e discriminati: sono gli italiani secondo l’Istat (e le donne sono quelle che stanno peggio), scrive il 19 luglio 2017 Alessandra Arachi su "Il Corriere della Sera". Sono numeri che vanno letti e riletti per poter credere fino in fondo che siano veri. Li ha prodotti l’Istat realizzando un’indagine sulle discriminazioni, le intolleranze e le violenze in Italia. La prima scoperta? Sono 11 milioni e 300 mila gli italiani che dichiarano di aver subito discriminazioni, ovvero un cittadino su quattro di un’età compresa tra i 18 e i 74 anni. Ma la prima scoperta non è certo la peggiore. L’Istat ha indagato le sensibilità degli italiani rispetto agli omosessuali: è venuto fuori che nel 2017 un italiano su quattro associa l’omosessualità a una malattia. Ed entrando nel mondo del lavoro, poi, si è scoperchiato il vaso di Pandora: più di una donna su due (il 51,8%) nell’arco della vita ha subito ricatti o molestie sessuali sul lavoro, in numero assoluto 10 milioni 485 mila donne in età compresa tra i 14 e i 65 anni. L’indagine dell’Istat è contenuta nella relazione della Commissione parlamentare sull’intolleranza, voluta dalla presidente Laura Boldrini, che verrà presentata giovedì mattina a Montecitorio. È piena di numeri che ti saltano addosso, e che spaziano dal certificare quell’orribile violenza che porta ai femminicidi (una donna su tre fra i 16 e i 70 ha subito violenza fisica, in due casi su tre dal proprio partner), ad una violenza sottile e quotidiana che si chiama pregiudizio o, semplicemente, stereotipo. Un’altra cifra, per capire? Siamo sempre nel 2017 e, purtroppo sempre in Italia, il 34,4% dei cittadini (più di uno su tre) ha voluto rispondere all’Istat che una madre che lavora non può stabilire un buon rapporto con i propri figli. C’è poi un atteggiamento evidente, soprattutto in questi giorni caldi per gli sbarchi sui nostri mari, però l’Istat lo certifica: sono sei italiani su dieci che si mostrano diffidenti verso gli stranieri. Ma la verità è che la diffidenza persiste anche nei confronti degli omosessuali: un cittadino su cinque ritiene poco o per niente accettabile avere un collega, un superiore o, addirittura un amico omosessuale.
Se il comune di Arco ora chiede la certificazione di antifascismo. Ad Arco, in provincia di Trento, il comune chiede alle associazioni di volontariato di sottoscrivere una dichiarazione di riconoscimento dei "valori antifascisti", indispensabile per ottenere contributi pubblici e uso degli spazi comunali. Ma c'è chi protesta: "Iniziativa assurda", scrive Roberto Vivaldelli, Giovedì 20/07/2017, su "Il Giornale". Non solo Boldrini e Fiano, l'antifascismo militante è materia di dibattito anche nelle piccole realtà locali. Il consiglio comunale di Arco, quarta città del Trentino, ha recentemente approvato una mozione in cui chiede a tutte le associazioni del territorio che fanno domanda di utilizzo di spazi pubblici e richiesta di contributo, di firmare una dichiarazione esplicita di riconoscimento dei “valori antifascisti”. L'amministrazione comunale, sorretta dal centro-sinistra autonomista, ha approvato un documento che presto si tradurrà in un modulo obbligatorio che tutte le associazioni dovranno sottoscrivere se vorranno beneficiare degli spazi comunali e del patrocinio. Facendo riferimento alla legge Scelba del 1952 e alla Legge Mancino del 2005, la recente delibera impone come requisito necessario per l'assegnazione di spazi e contributi pubblici "il non aver subito condanne, anche con sentenza non definitiva, per i reati delle leggi sopracitate” oltre a "prevedere, nei moduli di richiesta di utilizzo di spazi pubblici da presentare al momento della richiesta di autorizzazione, una dichiarazione esplicita di riconoscimento dei valori antifascisti espressi dalla Costituzione italiana". La delibera, in realtà, va oltre e impone alle istituzioni di controllare e visionare l'operato delle associazioni sui social network e su internet, istituendo un “meccanismo di intervento impeditivo per quanto riguarda l'assegnazione di contributi, patrocini o altre forme di supporto e sostegno ad associazioni che, pur avendo sottoscritto la suddetta dichiarazione, presentino richiami all'ideologia fascista, alla sua simbologia, alla discriminazione etnica, religiosa, linguista o sessuale, verificati a livello statutario, sui siti internet e sui social network, o nell'attività pregressa". Il comune, oltre a far sottoscrivere la dichiarazione a tutte le associazioni - siano esse di volontariato, sportive o altro - dovrà dunque tenere d'occhio i social e monitorare i contenuti dei singoli post, stabilendo se essi siano più o meno "discriminatori" ed eventualmente non concedere i contributi o gli spazi pubblici secondo questa valutazione. Per i proponenti, “l'antifascismo è la radice ideale e culturale da cui nasce la Repubblica italiana e la sua costituzione democratica, la quale rappresenta il metodo democratico contro ogni forma di totalitarismo”. L'obiettivo, non troppo velato, è quello di limitare in zona l'attività di Casapound, Forza Nuova e delle varie onlus e associazioni che gravitano attorno a quel mondo. Nella tranquilla città trentina, situata nel sud del Trentino a pochi chilometri dal Lago di Garda, non tutti però hanno appoggiato quest'iniziativa del consiglio comunale, bollandola come "illiberale" e "liberticida". C'è chi, come il signor Mario Matteotti, per tanti anni consigliere comunale del vecchio PCI e ora organizzatore di importanti manifestazioni cittadine come il carnevale - che non la politica hanno ben poco a che vedere - ha deciso di “ribellarsi” e di non sottoscrivere alcuna dichiarazione di antifascismo. E se il comune non farà un passo indietro, è pronto a rinunciare al volontariato, dopo tanti anni. “Parlo a nome di un gruppo di 50 persone e volontari - ci racconta - Per noi la costituzione è sacra e l'abbiamo sempre rispettata. Alcuni di noi sono stati persino consiglieri comunali e hanno militato in partiti di sinistra. Ma questo provvedimento è assurdo e fuori tempo massimo. Non firmeremo alcun modulo. Noi riteniamo che tutti, nel loro piccolo e nella loro quotidianità, abbiano sempre rispettato la costituzione". Per Matteotti si tratta di una questione di principio: "La mia storia personale parla chiaro, non accetto che mi si chieda di firmare una dichiarazione del genere e men che meno accetto che ci sia qualcuno che giudichi il mio essere o meno contro il fascismo”. Una presa posizione che ha scatenato il dibattito nella città trentina e in tutta la provincia, con alcune associazioni pronte a seguire l'esempio del signor Matteotti. Difficile che il comune faccia un passo indietro o riveda la sua posizione.
Attenti al Sud di Pino Aprile, Maurizio De Giovanni, Mimmo Gangemi e Raffaele Nigro, pubblicato ad Ottobre 2017. Descrizione. Nel verbosissimo e infinito fiume di parole scritto e detto per raccontare il meridione d'Italia, luci e ombre non sono (quasi) mai nella stessa scena. Da una parte si mettono in evidenza criminalità, sprechi, lentezze, degrado, dall'altra si inalberano una difesa esaltata e a oltranza e un folclore al limite della caricatura. Una contrapposizione che non serve a fare chiarezza. Quello che occorre, invece, è guardare i chiari e gli scuri insieme nella stessa foto. Questo fanno le quattro autorevoli voci che compongono questo libro. Quattro intellettuali "terroni" raccontano il Sud senza sconti, senza piagnistei, senza sensi di inferiorità né di superiorità, tra la "fuganza" di chi proprio non ce la fa a restare e la "restanza" di chi invece ha deciso di tenere duro e rivitalizzare la propria terra. E le ragioni per entrambe le scelte non mancano. Il risultato è una riflessione illuminante, una messa in guardia sul valore del nostro Sud. State attenti, dicono gli autori, significa sia preoccupatevi per il Sud, sia badate a voi perché potrebbe stupirvi ed esplodervi in mano. In ogni caso, stare attenti al Sud vuol dire stare attenti all'Italia intera.
Attenti al sud è un libro che per la prima volta analizza veramente il meridione per quello che è. Pino Aprile, Maurizio De Giovanni e Raffaele Nigro decidono invece di raccontare il sud Italia per quello che è, con le sue ombre e le sue luci, con la sua meravigliosa tradizione e bellezza e con le sue profonde nefandezze. Il problema però è proprio questo: di solito il Sud viene estremizzato e stereotipato in un senso o nell’altro, nel bene e nel male. C’è chi lo racconta per la lentezza, tutti gli sprechi, la mafia, il malaffare politico e c’è invece chi dice che il Sud è meglio e che non c’è niente di meglio al mondo del cibo, della gente, della cultura di quei luoghi. La verità invece per Aprile, De Giovanni e Nigro sta nel mezzo, nel riuscire a valutare tutti gli aspetti e tutte le sfaccettature di questo Sud che è poi lo specchio dell’Italia tutta pur rappresentandone solo una fetta. Senza mai quindi caricaturare, per gli autori bisogna stare attenti a questo Sud perché potrebbe sfuggire di mano o potrebbe esploderci in mano, tra chi ci resta nel suo paese e chi ha deciso di andare via e lo guarda con gli occhi della nostalgia, dell’amore e dell’odio di chi ti ha respinto. Attenti al sud è un saggio da leggere con attenzione per capire questo nostro Paese che è ancora possibile salvare.
Attenti al sud di Pino Aprile e Mimmo Gangemi: l’orgoglio di riscoprire il nostro territorio, scrive "TropeaFestival". Un dialogo vivace, brioso e al tempo stesso veritiero e a tratti amaro quello svoltosi questo pomeriggio al Festival Leggere&Scrivere tra Pino Aprile e Mimmo Gangemi, autori con Raffaele Nigro e Maurizio De Giovanni di Attenti al Sud (Piemme 2017). Gli scrittori Aprile e Gangemi, intervistati da Enrico De Girolamo, discutono, in chiave ironica e attuale, di un territorio caratterizzato da enorme bellezza e potenzialità ma tuttora spesso vittima di un giornalismo, come sottolinea Gangemi, e di un’opinione pubblica che ne rimandano “un’immagine distorta, ingenerosa e che fa male”. Il contributo di Aprile parte da Matera, città che è insieme “radice e sintesi di tutto quello che è sud, Mediterraneo, civiltà agricola”. Capitale della cultura 2019 eppure ancora oggi isolata e, come gran parte del meridione, non valorizzata a sufficienza, in primo luogo dai suoi stessi abitanti. Chi vive al sud in genere sembra riporre poco orgoglio nelle proprie bellezze e potenzialità: “non dite che abitate in un trullo” si usava dire in passato, e molti dei nostri tesori sono diventati tali solo dopo che turisti inglesi, francesi, tedeschi hanno preso a riscoprirli. Nonostante un certo pessimismo legato al fatto di vedere ancora i giovani andare via, è fondamentale riscoprire e ricordare le nostre ricchezze, la nostra cultura, tutto quel che qui è nato (per fare un esempio, archeologia e sismologia sono discipline nate nel meridione d’Italia ed esportate nel resto del mondo). Il messaggio più forte consiste proprio in questo: bisogna ricordare che l’idea di genocidio corrisponde a una serie di azioni volte a cancellare l’identità di un popolo. È necessario invece reagire, imparando dai vinti e dal passato e riappropriandosi con orgoglio della propria identità.
Attenti al Sud - Libro a cura di Antonio Carnevale, con una postfazione di Giorgio Mulé di Mimmo Gangemi, Raffaele Nigro, Pino Aprile, Maurizio De Giovanni. Descrizione. Quattro famosi scrittori "terroni" riflettono sul Sud dell'Italia. Un'analisi appassionata del Meridione - e in filigrana dell'Italia - più illuminante di mille rapporti ufficiali. O solo ombre o solo luci, così di solito è rappresentato il meridione nel dibattito nazionale. Da una parte criminalità, sprechi, lentezze, dall'altra difesa a oltranza, esaltazione e folclore al limite della caricatura. Invece occorre guardare i chiari e gli scuri insieme nella stessa foto. Questo fanno le quattro voci che compongono questo libro: raccontano il Sud senza sconti, senza piagnistei, senza sensi di inferiorità né di superiorità, tra la fuganza di chi proprio non ce la fa a restare e la restanza di chi invece ha deciso di tenere duro e rivitalizzare la propria terra. E le ragioni per entrambe le scelte non mancano. Il risultato è una riflessione illuminante, una messa in guardia sul valore del nostro Sud. State attenti, dicono gli autori, significa sia preoccupatevi per il Sud, sia badate a voi perché potrebbe stupirvi ed esplodervi in mano. In ogni caso, stare attenti al Sud vuol dire stare attenti all'Italia intera.
«Mentre il Nord sta dissanguando il Paese, per tenere in piedi le cattedrali di una religione perduta, ovvero quella industriale, il Sud, con una scarpa e una ciabatta (come dicono a Roma), sta reinventando il mondo.» Pino Aprile
«Abbiamo il dramma della bellezza. Perché questa bellezza ci accusa. Costantemente. La nostra è una fuga dalla bellezza. Ma la bellezza ci insegue.» Maurizio De Giovanni
Attenti al Sud di Aprile, de Giovanni, Gangemi e Nigro da oggi in libreria, scrive Maria Franco il 10 Ottobre 2017 su "Zoom Sud". Nel giugno del 2015 Panorama d’Italia, il tour organizzato dal settimanale diretto Da Giorgio Mulé, si accese, a Matera, di un dibattito tra «quattro moschettieri letterari del Sud». Gli interventi di Pino Aprile (pugliese); Maurizio de Giovanni (campano), Mimmo Gangemi (calabrese) e Raffaele Nigro (lucano), sono ora al centro di Attenti al Sud, che Piemme manda in libreria il 10 ottobre. Tra la restanza, esaltata da Pino Aprile, convinto che «al Sud le nuove generazioni, recuperando il valore della differenza, e traendo da questo valore il proprio orgoglio e la propria forza, e in moltissimi casi facendone anche la propria economia, partecipano a quel movimento mondiale che sta ribaltando i cascami di una vecchia civiltà» e la fuganza temuta da Raffaele Nigro, che legge «nei volti dei nostri ragazzi una voglia, una frenesia di fuga» che «dà spago ai filosofi dell’abbandono.», Maurizio de Giovanni inserisce un nuovo termine: militanza. «Militanza nel riconoscimento di un’identità e nell’orgoglio di questa identità. – dice il padre del Commissario Ricciardi e dei Bastardi di Pizzofalcone – Chiunque si trovi con un microfono in mano e con una telecamera puntata addosso, dovrebbe ricordarsi chi è. E dirlo. Con pregi e difetti. Io non sarei così deciso nello scorporare il buono e il cattivo in maniera radicale. Perché il buono diventa poco credibile quando viene scremato di tutto il cattivo. Questa ambivalenza dobbiamo sempre ricordarla, nel definire la nostra rotondità. Noi abbiamo una sfera di cose, ma dobbiamo fare in modo che questa sfera ruoti opportunamente, che stia costantemente in movimento e che mostri tutte le sue facce. Questa è la militanza: che il meridionale sappia di essere meridionale e se lo ricordi sempre; e che si assuma la responsabilità della propria identità, nel bene e nel male. Perché nel bene non avremmo né vergogna né paura della bellezza. E nel male fronteggeremmo il problema sapendo, finalmente, combatterlo.» Se la situazione del Sud può essere vista in chiaroscuro, quella della Calabria «una terra che arranca e zoppica» pende fortemente, secondo Gangemi, verso il secondo aggettivo: «Curioso, “attenti al Sud” mi suona “attenti ai calabresi”, in tempi in cui gravano pesanti il pregiudizio e la condanna sulla Calabria, talmente alla gogna che chi la vive si muove a disagio, sulla difensiva, da colpevole, comunque. Si fa di tutto per convincerci, e in parte è avvenuto, che siamo i peggiori; che, se non ci fossimo noi, l’Italia sarebbe ben altra cosa. Vero che la Calabria ha tanti demeriti, la ’ndrangheta su tutti, e che le classifiche di civiltà la bollano buona ultima. La censura va però molto oltre le colpe reali. E si tacciono i valori che qui resistono e altrove sono in via di estinzione o già estinti: il senso della famiglia, il calore umano, la solidarietà e l’accoglienza di cui è efficace testimonianza l’apertura generosa agli sventurati che giungono dalla quarta sponda d’Italia di mussoliniana memoria.» «Certo, non è sostenibile che la Calabria sia un’oasi di pace. – afferma l’autore de La signora di Ellis Island – Nelle aree più segnate dall’oppressione malavitosa si sono perpetrati crimini orrendi, con la ’ndrangheta che è testa, mani e piedi dentro i traffici peggiori: prima i sequestri, dopo la droga, le armi, le scorie tossiche, quelle radioattive. A delinquere è tuttavia una sparuta minoranza, seppure capace di un pieno controllo del territorio e di costringere il resto della popolazione a una sorta di libertà condizionata, libera finché non impatta in un interesse anche minimo di quelle poche bestie feroci, libera finché non progredisce in un benessere che accende gli appetiti.» «La condanna è generalizzata, – osserva Gangemi – senza ragionare che la stragrande maggioranza è composta da persone perbene al più con il difetto umano di avere paura e con nessuna intenzione di trasformarsi in eroi coperti di gloria ma con i gigli sul tumulo al cimitero venuti su a furia di lacrime. O che vivono una confusione tale da non sapere più in quale parte della barricata riconoscersi e fidare. Questo pure per le antiche ferite inferte dallo stato – e non rimarginate del tutto – che fin dall’Unità s’è macchiato di soprusi e di colpe che a lungo hanno messo la museruola all’idea di una patria comune.» I calabresi finiscono con lo scontare la ‘ndrangheta, male enorme «metastasi del cancro» che fu l’onorata società, due volte, «nel subirla e nell’essere trattati alla stessa stregua dei malavitosi, come se tutti, in diverse misure, ne siano parte. O tre volte, se si aggiunge la colpa, addossata di recente, di averla esportata. Sul punto, dissento e propendo per la tesi di Federico Varese, criminologo con cattedra a Oxford, di altra fattura rispetto ai fastidiosi esperti con cui i mass media asfissiano e ammalano di morbosità la nazione.» «La ’ndrangheta è una bestia feroce da annegare sotto gli sputi del disprezzo. – ripete Gangemi – E io sto con la Giustizia, la bella e formosa signora con la bilancia nella destra, la spada nella sinistra e una benda agli occhi. Però... Però, quella signora mi sussurra in un orecchio che…» bisogna fare molte correzioni anche nel campo che si proclama anti -‘ndrangheta: «I calabresi vogliono essere dalla parte della Giustizia, di quella che però non incuta timore, che rassicuri piuttosto, si mostri amica, vicina, pronta a soccorrere, di quella che riconosca il diritto di avere paura.» «’Ndrangheta e malaffare – e quanto non funziona a dovere sul fronte opposto – bisogna raccontarli. – scrive Gangemi – Tacerli non aiuta a uscirne. Tacerli è ipocrisia, è amor di patria mal riposto. Raccontarli significa mettersi davanti a uno specchio che non inganna e riconoscere le brutture che appesantiscono l’aria, appestano la vita. Prendere coscienza dei problemi è il primo passo da cui ripartire per ricostruirsi migliori.» E per evitare che si avveri un timore che “ingrigisce i pensieri”, ovvero che «l’attuale condizione di sconfitti – sconfitti continua ad apparirmi una resa provvisoria, da cui ci si può risollevare – sia destinata a trasformarsi in una condizione di vinti da cui non si emerge.»
Quattro scrittori "Attenti al Sud". Pino Aprile, Mimmo Gangemi, Maurizio De Giovanni e Raffaele Nigro protagonisti di un incontro sul mezzogiorno, scrive il 20 giugno 2015 Antonio Carnevale, giornalista di Panorama. Matera è una formidabile metafora del sud. Sarà capitale della cultura europea nel 2019, ma provate a raggiungerla: è difficile in auto, faticoso in treno, impossibile in aereo. Matera città aperta e città chiusa, dunque. È aperta sul mondo, con le eccellenze che gli stranieri stanno finalmente scoprendo. Ed è però staccata dal resto dell’Italia, così come tutto il meridione è rimasto storicamente. Per questo, nella tappa a Matera del tour di Panorama d’Italia, abbiamo organizzato l’evento “Attenti al sud”, una tavola rotonda per riportare l’attenzione su luci e ombre del nostro mezzogiorno. Pino Aprile, Mimmo Gangemi, Maurizio De Giovanni e Raffaele Nigro: sono stati loro ad animare l’incontro, quattro testimoni d’eccezione, scrittori e conoscitori di un territorio sempre più raccontato eppure non abbastanza conosciuto nelle sue ferite e potenzialità. “Tutto il mondo è Matera” ha detto Pino Aprile, giornalista di lungo corso e scrittore (suo il best seller Terroni), grande conoscitore della Puglia, sua terra, come di tutto il sud d’Italia. “Matera era considerata la vergogna d’Italia, come disse De Gasperi, per un motivo preciso: era colpevole della sua distanza dalle città industriali” ha detto. “In un passato recente dovevamo vergognarci della nostra povertà. Ma col tempo abbiamo scoperto che in quella povertà c’era una ricchezza, la ricchezza della diversità. Oggi, con Internet, quella diversità e quella bellezza si possono mettere a frutto. La nostra vergogna è diventata il nostro orgoglio. Le nuove generazioni hanno imparato che da lì può nascere una nuova economia”. Maurizio De Giovanni, scrittore napoletano, ha messo l’accento sulle potenzialità del suo territorio. Giallista di successo, inventore delle fortunate serie del commissario Ricciardi (è in uscita fine giugno il nuovo Anime di Vetro) nonché dei Bastardi di Pizzofalcone (presto una fiction per la Rai), De Giovanni mette Napoli in tutti i suoi libri. E pensando alla sua città, ha descritto il florilegio di recentissimi successi culturali che si sono imposti da Napoli al resto del mondo nell’ambito dell’editoria, del teatro e del cinema. De Giovanni ha dimostrato che “solo il recupero di un’identità culturale, attraverso le voci degli artisti, delle università e delle istituzioni, potrà portare una nuova vita, anche economica, a tutto il territorio”. Ma ha anche messo in guardia da un pericolo, un problema d’identità della città di Napoli come di tutto il meridione. “Noi sappiamo di essere il sud?” si è domandato. “Troppo spesso il meridione acquisisce l’identità che gli è attribuita dagli sguardi esterni, e colpevolmente si sottrae alla grande responsabilità di amministrare la propria bellezza”. Di Calabria ha parlato invece Mimmo Gangemi, nato a Santa Cristina d’Aspromonte, ingegnere, scrittore di numerosi romanzi come Il giudice Meschino, per citare uno dei suoi gialli, o Un acre odore di aglio, per dire invece di uno dei suoi titoli più intensi. “La Calabria è la meno raccontata delle regioni italiane” ha detto. E ha mostrato come i media propongano un’idea stereotipata e pigra di questa terra. “In Calabria c’è sì la ‘ndrangheta, ma gli uomini dei clan sono soltanto i tasselli di una realtà più complessa, di una compagine sociale e umana che compone un mosaico sfaccettato e tuttavia trascurato dall’attenzione nazionale. Penso a certi errori giudiziari di cui non si dà conto sui giornali, o a certe notizie che ingigantiscono i fatti, o ancora ai pregiudizi difficili da smantellare”. Gangemi ha rappresentato un quadro inedito della Calabria quando ha mostrato come i calabresi siano ormai stretti fra due fuochi: “minacciati dal cancro della criminalità e, allo stesso tempo, ammalati di una sconfortante e crescente sfiducia nei confronti della giustizia”. Sul modo di trasmettere l’immagine del sud, e di un certo dilagante “savianesimo”, ha parlato infine Raffaele Nigro, giornalista e scrittore, lucano di nascita e pugliese d’adozione. Autore del romanzo I fuochi del Basento (premio supercampiello nel 1987 e best seller da un milione di copie), Nigro ha scritto oltre cento libri dove il sud e la Lucania hanno sempre un posto privilegiato, sia quando si tratta di romanzi (Il custode del museo delle cere fra i suoi più recenti) sia quando si racconta di brigantaggio, banditismo o di poesia. Nell’incontro di Matera, ha tratteggiato un affascinante ritratto della Puglia come “luogo di saggistica” in relazione alla Lucania intesa come “luogo di poesia”. E ha mostrato come la questione meridionale sia oggi soprattutto legata a una questione di immagine culturale, letteraria e mediatica. I quattro scrittori di “Attenti al sud” hanno insomma offerto la prospettiva di un meridione suscettibile d’infiniti sguardi inediti. E hanno dimostrato come tutto il sud possa ambire allo stesso destino della città dei Sassi, ovvero alla sorte di un territorio che per lungo tempo è stato trascurato e incompreso, ma che grazie agli sforzi degli intellettuali (Pasolini, per dirne uno) è stato riportato all’attenzione dell’Italia e del mondo. Quattro le parole d'ordine con cui si è chiuso l'incontro: "bellezza, racconto, responsabilità e consapevolezza", estrema sintesi di una via maestra per il riscatto del sud, che si tenga lontano però da "vittimismo" e "retorica".
I mille volti del Sud Italia per Maurizio De Giovanni. Lo scrittore a Caserta per Panorama d'Italia presenta il libro "Attenti al sud", una girandola di riflessioni sul Meridione bistrattato, scrive il 9 novembre 2017 Antonio Carnevale su Panorama. Maurizio de Giovanni a Caserta. Nona tappa del tour Panorama d’Italia. L’occasione è la presentazione di “Attenti al sud”, il volume edito da Piemme che raccoglie il suo contributo al fianco di quelli di suoi illustri colleghi scrittori: Pino Aprile, Mimmo Gangemi, Raffaele Nigro. Tutti profondi conoscitori del Mezzogiorno d’Italia, ovvero un territorio sempre più raccontato, eppure non abbastanza conosciuto nelle sue ferite e potenzialità. “Attenti al sud è un titolo che contiene diversi significati” ha esordito lo scrittore napoletano. “Significa: state attenti ai problemi del sud, e vuol dire anche state attenti perché il sud potrebbe scoppiarvi in mano, mostrando i suoi aspetti virtuosi e inediti. C’è però un terzo senso, ancora più importante, ed è un invito a stare “attenti al sud” nel senso letterale, a prestare cioè più attenzione a questa terra, con tutte le sue luci e con tutte le sue ombre”. Ha colpito dritto al cuore, de Giovanni. “Attenti al sud”, infatti, non ha l’ambizione di essere una raccolta si saggi su un aspetto particolare del Meridione, bensì vuole essere una girandola di riflessioni, anche centrifughe, capaci però di comporre un affresco quanto più vario e sfaccettato dei mille vizi e delle mille virtù di una parte d’Italia sempre più bistrattata, rimossa, sconosciuta, patologicamente proposta nel prisma “dello stereotipo tra clientele e degrado, oppure, all’opposto, tra nostalgia e folklore”. “Io non sarei così deciso nello scorporare il buono dal cattivo” ha spiegato de Giovanni. “Perché il buono diventa poco credibile quando è scremato da ciò che invece non funziona”.
L'identità del Sud. La chiacchierata prosegue tra chiari e scuri. Con al centro un tema fondamentale della questione meridionale: il modo (fuorviante) in cui il sud viene rappresentato. “Che tipo di narrazione stiamo consegnando al resto del paese?” si domanda lo scrittore. “Temo che il nostro sia innanzitutto un problema di identità” spiega. “Mi domando se noi meridionali, in fondo, siamo consapevoli di essere sud. Me lo domando perché mi accorgo che l’identità ce l’abbiamo, ma è vista con gli occhi degli altri. È raccontata per esempio da quegli editorialisti che magari a Napoli non vivono più da 30 anni ma ancora scrivono articoli dal titolo “Povera la mia Napoli”, “Che fine ha fatto la mia Napoli”. L’identità ce la facciamo creare artificialmente, ci è affibbiata da chi pontifica da fuori ma non frequenta il territorio. E dall’interno, noi, un’identità, invece, non riusciamo a trovarla”.
Contro la politica disfattista. Ecco allora la denuncia contro quei politici che definiscono un “cancro politico-sociale” quel territorio che per 50 chilometri quadrati insiste su Napoli, Caserta e Salerno e che però al suo interno contiene importanti poli industriali e culturali. “Soltanto un idiota può pensare di giudicare una terra da un solo punto di vista”. Strali contro la cultura del pregiudizio. “Napoli vista da Posillipo non è certo la stessa che si vede da Portici”. Mentre è chiara la consapevolezza di una regione in cui la camorra non è l’origine dei mali, bensì “un effetto di quel sistema antico e malato che tiene isolato un territorio dalle tante ricchezze”.
La bellezza chiusa ai cittadini. Non mancano le ombre di cui denunciarsi responsabili. Un vero “dramma” è quello della “bellezza” puntualizza lo scrittore. “Questa immensa bellezza che abbiamo intorno ci accusa costantemente” denuncia. “Abbiamo l’80 per cento delle chiese chiuse, perché non c’è personale che le tenga in piedi e che vi consenta l’entrata. Quando i napoletani passano davanti, girano la faccia, abbassano la testa, perché quella chiesa chiusa è per loro un’accusa. Quella bellezza sta lì a ribadire ciò che potevamo avere e che invece non abbiamo”. Di chi è la colpa? “Solo nostra” ammette. “Ma in questa costante fuga, quella stessa bellezza ci insegue” prosegue. “Non possiamo liberarci di lei così facilmente. Doverci fare carico di questa bellezza, dover portare la sua croce è allora la nostra maledizione. Perché solo quando capiremo che a questa condanna si deve fare fronte, quando impareremo che dobbiamo guardare in faccia le nostre capacità, soltanto allora potremo cambiare finalmente rotta”. Si snocciolano numeri. Dati oggettivi di un’arretratezza che ha origine nelle scelte della politica di ieri e di oggi. Si continua per luci e ombre. “Le contraddizioni abbondano” dice lo scrittore. “Tuttavia non dobbiamo rinunciare a testimoniare con forza l’enorme presenza culturale in ogni ambito della creatività” insiste. “I pregiudizi saranno presto smontati” confida ottimista. E le “tante eccellenze del territorio non potranno rimanere nascoste ancora per molto: esploderanno ben presto, grazie anche ai social network, un nuovo potente alleato nella lotta contro il discredito”. È un invito ai politici, alla capacità comunicativa degli amministratori locali? “No, a tutti i cittadini” sottolinea de Giovanni. “Dobbiamo essere tutti militanti”. Ma che cosa significa nel concreto? “Che il meridionale sappia di essere meridionale e se lo ricordi sempre; e che si assuma la responsabilità della propria identità, nel bene e nel male. Perché nel bene non avremmo né vergogna né paura della bellezza. E nel male fronteggeremmo il problema sapendo, finalmente, combatterlo”. Luci e ombre da guardare sempre nello stesso quadro, insomma. Il modo migliore per stare davvero Attenti al sud, e all’Italia intera.
RAZZISMO E STEREOTIPI.
L’Italia: la mappa degli stereotipi offensivi e volgari, scrive “Il Corriere della Sera” il 15 gennaio 2017. Un popolo di razzisti che a seconda della regione in cui vivono si trasformano in alcolisti, comunisti, mafiosi e “sc... di pecore”: è l’immagine, ironica e volutamente (molto) offensiva, che traspare dell’Italia da una mappa pubblicata su Reddit dall’utente lucky-o-beta che si è «divertito» a dare epiteti irreverenti, a volte volgari e ben oltre le soglie del «politcally correct» agli abitanti del BelPaese. Ed ecco i dettagli: se i valdostani sono «francesi» e i lombardi «miserabili stacanovisti che pensano di essere dei grandi», i trentini «fascisti» e i veneziani «non si sentono italiani», ecco che i piemontesi sono «juventini che in passato hanno commesso atrocità conquistando il Sud», i liguri «taccagni». «Comunisti» diventano tutti quelli che abitano tra Toscana ed Emilia, scendendo verso il mare si trova «Milano sul mare». Nell’Italia centrale e nelle Marche? Solo «terremoti». Più a Sud, la Sicilia è caratterizzata da una sola parola, «Mafia» così come in Campania e Puglia campeggia la scritta «un altro tipo di mafia», il Molise «non esiste» (un vecchio tormentone del web) e la Basilicata è denominata con un «Non parlate a nessuno di questo posto», i sardi sono amanti (diciamolo in modo elegante) delle pecore, i romani «parassiti che trascorrono il loro tempo vantandosi di quanto sia grande Roma» e la Calabria diventa «Calabria Saudita». Il gioco politicamente scorretto va forte su Reddit: qui l’utente sznupi si è cimentato col Veneto. Anzi, con la Repubblica Serenissima di Venezia. Non mancano altri Stati, come la Gran Bretagna. Il Portogallo. O la Grecia. Ma anche la Finlandia. E persino il minuscolo Lussemburgo ha i suoi stereotipi. Ma tra le mappe del pregiudizio ne appaiono tante altre. Una per ogni periodo storico. Perché a volte basta un cambio di governo, un grave fatto di cronaca o una nuova moda per trasformare l’immagine internazionale di un Paese. In questa mappa, l’Europa vista da Yanko Tsvetkov, artista bulgaro di stanza a Londra. L’Europa vista dagli americani. L’Europa per i francesi. O con noi o contro di noi sembra essere il motto della République: gli odiati inglesi sono assassini di vergini (Giovanna d’Arco...), l’Austria gli ex arcinemici, la Germania i migliori amici. La Russia è il sogno napoleonico, la Turchia non è certo europea. Ma l’Italia è semplicemente gente rumorosa. L’Europa secondo i tedeschi. Stereotipi tecnologico-economici per l’Europa interpretata dai tedeschi: Ikea in Svezia, telefoni cellulari in Finlandia, riserve di gas in Russia, forza lavoro in Turchia. E proletariato nell’ex Ddr. Ma altri sono più d’ordine culinario: pizza in Italia e cotolette in Austria, gulasch in Ungheria e whisky in Irlanda. L’Europa per gli italiani. A est di Trieste una combinazione di pornostar e baby-sitter, ladri e bizantini, bevitori di birra e danzatrici del ventre. A nord prevale lo sport (rugby in Irlanda e Wembley in Gran Bretagna), a ovest la visione italocentrica (Carla Bruni in Francia, dialetti italiani in Spagna). E il nostro Paese è diviso a metà: il sud è Africa. L’Europa per gli inglesi. Una visione che tradisce l’assenza di «sentimento europeo» e attribuisce ai Paesi del Continente o una funzione vacanziera-consumistica (crema solare in Spagna, droghe in Olanda, torta in Austria) o un certo disprezzo (ex Jugoslavia: non pervenuto). L’Italia, per gli inglesi, sarebbe terra di uomini abbronzati e canuti. Ma di mappe e stereotipi ce ne sono davvero tantissime. Qualche esempio si trova sul sito Mapping Stereotypes che, come dice il nome, racconta gli stereotipi delle singole Nazioni con il cambiare degli anni. E a seconda di quale popolo ci guarda, noi italiani diventiamo «persone noiose ma amichevoli», «ladri», «popolo di pizza e musei», «terra di shopping center», «figli di papà» o «terra d’Africa».
La banalità dell’odio invase l’Europa e scoppiò il razzismo, scrive Paolo Delgado l'11 Agosto 2017. La Germania nazista resta il modello principe della rapidità e radicalità con cui una civiltà può degenerare nel suo opposto e trasformarsi in razzismo. Il primo aprile 1933 il partito nazista arrivato al potere due mesi prima dichiarò il boicottaggio di tutti gli esercizi commerciali ebrei in Germania. Fu un fallimento. In Germania l’antisemitismo aveva radici profonde e antiche anche se, allo stesso tempo, probabilmente in nessun altro Paese europeo l’integrazione era altrettanto avanzata. Tuttavia il coinvolgimento, sia in forma attiva che semplicemente complice, del popolo tedesco nella crociata genocida dei nazisti procedette per passi successivi. Le leggi razziali del 1935 non sarebbero state possibili, o comunque avrebbero incontrato ben altra resistenza, nel 1933. La stessa legge dell’aprile 1933 che colpiva gli ebrei nell’amministrazione statale e nelle professioni, la prima nella quale venivano per la prima volta dall’emancipazione del 1871 presi di mira e fatti oggetto di discriminazione legale gli ebrei tedeschi, fu in realtà applicata nella sua versione più “morbida”. Grazie alle esenzioni dei veterani, dei figli o padri di caduti nella guerra mondiale e degli impiegati in servizio dal primo agosto 1914 l’impatto effettivo della legge fu parzialmente mitigato. Saul Friedlander stima che il 70% degli avvocati e circa metà dei giudici e pubblici ministeri poterono continuare a lavorare, sia pure in un clima di intimidazione e crescente terrore. Perché la campagna razziale assumesse realmente i caratteri totali a cui Hitler mirava sin dal principio, perché si arrivasse al pogrom, alla Notte dei Cristalli, a Wansee e alla soluzione finale dovettero entrare in gioco non uno ma diversi linguaggi articolati su piani molteplici e tali da coinvolgere fasce di verse di popolazione. Dovettero essere attivati dispositivi distinti, tra i quali la propaganda rozza e pornografica in cui eccelleva il Der Sturmer di Julius Streicher, con le sue caricature razziste e i suoi continui accenni al pericolo sessuale rappresentato dagli ebrei per le donne ariane, era certamente il più esplicito e osceno ma, da solo, non necessariamente il più pericoloso. Il tema riguarda l’oggi, non solo la ricostruzione storica. La Germania nazista resta infatti il modello principe della rapidità e radicalità con cui una civiltà può degenerare nel suo opposto, della facilità con la quale può essere operata e recepita una trasmutazione dei valori tale da rendere la disumanità non solo positiva ed encomiabile ma addirittura massima espressione di umanità, in quanto piena attuazione dello scopo evolutivo del genere umano. Da questo punto di vista, le molte leggi e aggravanti varie che mirano a sanzionare penalmente le espressioni di odio razziale, così come il diffondersi di un senso comune basato sul politcally correct che mette quelle espressioni al bando in ampie fasce sociali, sono un tentativo di contrastare razzismo e antisemitismo punendo le sue manifestazioni più triviali ma ignorando i dispositivi più sofisticati e minacciosi. Il risultato è l’America nella quale la parola “negro” è stata sostituita dalla formula “N- word” ma i neri ammazzati per strada si contano ogni anno a centinaia. Ma è anche un’Italia in cui moltissimi si indignano di fronte a frasi o comportamenti palesemente razzisti ma trovano normalissimo consegnare i migranti ai centri di detenzione libici, pur sapendo che si tratta di lager non per modo di dire ma nel senso pieno del termine, proprio come qualche anno fa reputavano il deserto cosparso di cadaveri in seguito all’accordo di Gheddafi con l’Italia molto più tollerabile che non sentir pronunciare anche da noi la “N- Word”. Perché un senso comune razzista si diffonda e si radichi è necessario prima di tutto che sia posta una “questione”, cioè che venga dato per assodato non solo dagli energumeni in camicia bruna ma anche da sofisticati intellettuali e pacifici commentatori che esiste un “problema”. Perché ci sia una “soluzione”, finale o momentanea, totale o parziale, deve prima esserci un problema. Allo stesso tempo questo “problema” non può però essere definito e circoscritto con precisione, e la sua indefinita vaghezza vale a renderlo di fatto irresolubile. In Germania l’esistenza di una “questione ebraica” era universalmente acquisita sin dall’emancipazione del 1871. Dibattiti continui, proliferazione fluviale di articoli, saggi, pamphlet e libelli. Scontri intellettuali spezzo acerrimi accompagnati dal moltiplicarsi di organizzazioni o micro- organizzazioni la cui ragione d’esistere era essenzialmente affrontare, di solito con mezzi radicali, la “questione ebraica”. Ma in cosa consistesse detta “questione”, in una Nazione in cui gli ebrei rappresentavano circa l’ 1% della popolazione ed erano in massima parte perfettamente integrati, sarebbe impossibile dirlo con chiarezza. La situazione non è molto diversa nell’Europa alle prese con l’immigrazione. Da decenni ormai è data per scontata la presenza di una “questione” i cui contorni sono tuttavia mobili, fluttuanti e incerti. Ogni tentativo di definirne i connotati, dal “portano via lavoro agli italiani” al “costano troppo” sino al “veicolano criminalità e malattie” va infatti puntualmente a sbattere contro i dati di realtà, senza che ciò modifichi di una virgola la percezione diffusa del “problema”. Il secondo luogo, il discorso dell’odio razziale, deve camuffarsi, spesso anche in buona fede, da “offensivo” in “difensivo”. Al presidente della Repubblica Hindenburg, un tipico conservatore moderatamente antisemita della Germania guglielmina, Hitler rispose nella primavera del 1933 con una lettera nella quale, negando ogni velleità di pogrom, parlava della presenza ebraica in Germania come di “un’inondazione”, termine affine all’attuale “invasione”. Il compimento del razzismo, il suo trionfo finale, consiste com’è noto nella capacità di negare l’umanità dell’oggetto d’odio. Anche da questo punto di vista i nazisti fanno scuola, più che la volgarità odiosa e da osteria di Streicher fu la derubricazione degli ebrei da esseri umani ad animali ripugnanti, insetti o topi, e addirittura a bacilli e virus a siglare il trionfo della visione nazista. Non corriamo rischi del genere in Europa, non per ora almeno. Però scontiamo certamente un valore profondamente diverso assegnato alla vita umana. Se i giornali registrassero quotidianamente l’annegamento di decine di francesi o inglesi, americani o canadesi, la reazione sarebbe ben diversa da quella, tutto sommato quasi indifferente, con la quale reagiamo alle stragi di migranti. Sono vite anche quelle: lo sappiamo, lo sentiamo, applaudiamo i tentativi di salvarle, sia pur con convinzione sempre più flebile. Però sono vite che valgono po’ meno, o molto meno, delle nostre o di quelle di chi ci somiglia.
"Fatevene una ragione: gli antichi romani erano molto africani (persino in Britannia)". Un cartone animato della Bbc scatena cospirazionisti ed estremisti di destra per aver rappresentato un centurione romano con la pelle nera. E agli studiosi che spiegano come l'impero romano fosse una società meticcia arrivano insulti e minacce, scrive il 10 agosto 2017 "La Repubblica". Il cartone animato è del 2014, ma le polemiche sono di questi giorni, a dimostrazione del clima sempre più virulento che si respira sui social network ad opera di chi cerca di far prevalere i pregiudizi sulle verità scientifiche, con gli studiosi e gli esperti insultati e minacciati per i loro tentativi di ristabilire il primato della scienza. Sul banco degli imputati degli odiatori da tastiera sono finiti stavolta non i vaccini, ma un documentario educativo realizzato tre anni fa dal canale Bbc Teach sulla storia della Gran Bretagna. Nell'episodio dedicato alla Britannia romana, il protagonista è un centurione di stanza sul Vallo di Adriano. Ciò che non può andare giù a cospirazionisti ed estremisti di destra è che il "civilizzatore" sotto le insegne Spqr abbia la pelle scura, sia sposato a una donna bianca, e che abbia per giunta due figli, ovviamente mulatti. A dar fuoco alle polveri è stato Paul Joseph Watson, attivista della alt-right britannica e gestore del sito cospirazionista Infowars, che in un tweet ha sparato a zero contro il servizio pubblico radiotelevisivo britannico: "Grazie a Dio la Bbc dipinge una Britannia romana etnicamente variegata", ha scritto. "Tanto, a chi importa l'accuratezza storica, no?". I soliti 140 caratteri buttati lì per raccogliere retweet e commenti indignati. Ma qualcuno ha deciso di non fargliela passare liscia. "Davvero, hai qualche tipo di trauma cerebrale o fai finta per compiacere i tuoi follower boccaloni?", ha twittato in risposta il divulgatore Mike Stuchbery. All'inizio aggressivo, Stuchbery ha fatto seguire una serie di tweet assai documentati per dimostrare a Watson e ai suoi seguaci che la Britannia era effettivamente, così come tutto l'impero, piena di africani, molti dei quali in posizioni preminenti di potere. Il thread completo può essere letto qui. I documenti scritti e gli scavi, spiega Stuchbery, dimostrano che la Britannia romana ospitava una grande varietà di etnie, poiché i romani avevano imparato a far arrivare nei territori conquistati legioni da parti diverse dell'impero. Ciò era vero particolarmente a Londinum, l'attuale Londra, capitale della provincia. Ma anche nella zona corrispondente alla moderna York ci sono prove di personaggi di spicco nordafricani. Lezione imparata? È vano sperarlo: alle prove di Stuchbery, Watson ha risposto con un video su YouTube in cui, di fatto, afferma di aver dimostrato di avere ragione. Ma il peggio doveva ancora arrivare: con un certo ritardo, Mary Beard, professoressa di studi classici a Cambridge, una sorta di istituzione in Gran Bretagna quando si parla di Roma antica, si accorge della polemica e si azzarda a definire il documentario Bbc "abbastanza accurato". La professoressa Beard si spinge a ravvisare nella figura del centurione africano un personaggio realmente esistito, il governatore Quinto Lollio Urbico, romano berbero che comandò sulla Britannia tra il 139 e il 142 e il cui mausoleo è ancora visitabile a Tiddis, in Algeria. Apriti cielo: su Twitter cominciano a pioverle addosso insulti. I più moderati la accusano di elitarismo e di vivere nella solita torre d'avorio degli intellettuali. Gli altri mettono in mezzo la sua età, la sua forma fisica, la sua femminilità. Quel che è peggio, Nicholas Nassim Taleb, economista tradotto anche in Italia, autore di "Il Cigno Nero", si unisce agli haters, nel suo caso per sostenere la prevalenza di una scienza (gli studi genetici) su un'altra (la storia e l'archeologia). Uno scenario davvero desolante. Su cui l'epitaffio migliore è probabilmente quello di J.K. Rowling, l'autrice di "Harry Potter". La quale, imitando in un tweet lo stile dei titoli da social network, ha scritto: "Una storica ha dato la sua dotta opinione sulla diversità etnica nella Britannia romana. Quello che è successo dopo, non vi stupirà".
Che sapete dei russi? Niente, solo che sono cattivi, scrive Lanfranco Caminiti il 15 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Nel Novecento era considerata Europa, ora è estranea. Definire qualcuno “russo” ormai suona come un insulto. È una banalizzazione negativa, perché dell’ex Unione Sovietica non si sa nulla. Dici “russo” oggi di qualcuno, di qualcosa, e suona come un insulto. I russi sono oligarchi, i russi sono aggressivi, i russi sono imperialisti – gli ultimi degli imperialisti – e odorano di incenso ortodosso che ti rimane addosso sui vestiti. Sono volgari, pacchiani, arroganti, brutali, mafiosi. Comprano tutto quello che possono e dove non possono riescono a convincere in altri modi; si ubriacano e sono sempre in mezzo a un mare di ragazze poco più che schiave di una qualche tratta balcanica; i loro atleti sono tutti dopati; i loro soldi finiscono sempre nelle banche più discutibili – a Cipro, in Grecia – o li ripuliscono nella City di Londra. I russi hackerano tutto: le email americane soprattutto. I russi spiano dappertutto. I russi producono e vendono armi ovunque e a chiunque, e mettono sul mercato pure plutonio, testate nucleari e vecchi missili intercontinentali. I russi hanno il gas e ci tengono per il collo, soprattutto quando fa tanto freddo; costruiscono i gasdotti che vogliono loro e come li vogliono loro – e mettono a libro paga ex ministri e ex primi ministri di tutta l’Europa e uomini d’affari americani per aggirare ogni embargo. I russi ti ammazzano per strada con una puntura di spillo imbevuto di polonio e non c’è modo di verificarlo; oppure ti inoculano lentamente per anni un veleno e poi una mattina ti svegli e sembri l’uomo elefante. I russi ammazzano i giornalisti coraggiosi; i russi arrestano chiunque dissenta, se scrive un manifesto, se prende un microfono in una piazza, se fa una vignetta irriverente, se canta una canzoncina irrispettosa; i russi ti sbattono in galera e buttano la chiave o ti mandano in Siberia e ti ritroveranno fra duecent’anni nel permafrost. I russi bombardano tutto ciò che si muove, donne, bambini, ospedali, civili: i russi non badano agli ostaggi se presi dai terroristi – ammazzano gli uni e gli altri. I russi avvolgono nel mistero tutto quello che qui sarebbe sulla pubblica piazza, perché hanno sempre qualcosa da nascondere. I russi non amano la libertà e la democrazia; non sanno neppure cosa significhino i diritti umani. I russi sono antisemiti. I russi sono panslavisti. I russi non hanno mai smesso di considerare l’Europa dell’est come cosa loro. I russi minacciano le repubblica baltiche. I russi vogliono lo sbocco sul Mediterraneo. I russi sono asiatici e disposti per natura al dispotismo. I russi vogliono sempre uno zar. I russi sono un pericolo. Queste affermazioni non sono tratte da un qualche articolo di un qualche esponente della nouvelle philosophie, che si incarica di ammonirci e stare all’erta e non sottovalutare, anche se l’una o l’altra la potresti ritrovare, ma sono ormai espressioni di un senso comune. E non è che, presa una per una, siano affermazioni peregrine. Però, della Russia oggi abbiamo due letture, una di banalizzazione del male e l’altra di banalizzazione del bene – e sono letture trasversali, si è russofili o russofobi a destra come a sinistra. Del male, s’è già detto. La banalizzazione del bene starebbe nel fatto che la ripresa nazionalista e imperialista sotto la guida di Putin che ha restituito alla Russia orgoglio e peso geopolitico, dopo lo sfacelo dell’era Eltsin, servirebbe a impedire che l’America faccia quello che vuole del mondo: c’è qualcuno, là fuori, che può alzare la voce e farsi sentire e non si fa mettere i piedi in testa. Perciò: viva Putin, comunque. La verità è che della Russia oggi non conosciamo niente. Non sappiamo come vivono i suoi lavoratori, i suoi impiegati, i suoi medici, i suoi insegnanti; le loro buste paga, le loro carriere, le loro gerarchie. Non sappiamo cosa succede nelle loro fabbriche, nelle campagne, negli immensi quartieroni urbani. Non abbiamo idea di quanto sia il valore d’una pensione media. Di quanto sia il valore del loro paniere, se ne hanno uno. Non sappiamo cosa pensano i loro militari, i cadetti. Non abbiamo la più pallida idea del livello delle loro università, della loro ricerca scientifica, delle loro medicine e delle loro cure. Non sappiamo più nulla della letteratura russa, delle loro accademie, nulla dei loro artisti. Non conosciamo i loro programmi alla radio, né quelli della televisione. Non vediamo i loro asili- nido, o le loro case per anziani, le loro scuole, i loro giovani studenti, né sappiamo le loro mode, il loro gergo. Tra noi e la Russia c’è un sipario. Che viene strappato solo per situazioni eccezionali, le guerre – l’Afghanistan, la Cecenia, l’Ucraina e la Crimea –, qualche clamoroso attentato – le vedove nel teatro o le bombe nella metro di Mosca –, qualche clamoroso assassinio politico – la Politkovskaja, in patria, o Litivenko all’estero –, qualche sbrasata di uno dei suoi oligarchi – per tutti, l’Abramovich con il suo Chelsea e il suo yacht da primati o quel santarellino di Khodorkovsky, per dieci anni in carcere e ora alla ricerca di un ruolo politico di opposizione. La Russia, insomma, è sempre Chernobyl. È come se ci avessero deluso – dopo essersi scrollato di dosso quell’orribile regime comunista, però non ci avessero mai amato davvero. Un po’ la parabola di Solženicyn, adorato dall’occidente finché stava in Siberia e scriveva di Arcipelago Gulag; poi se n’è venuto in America, e dopo qualche anno s’è dichiarato schifato del capitalismo e ha voluto tornare dalla Grande Madre Russia – tra incensi e nazionalismi. Puah. I russi, insomma, non sono come noi li vorremmo e sono esattamente come noi temiamo che siano, è un po’ questo lo spettrografo attraverso cui li guardiamo. Eppure, non sempre è stato così, anzi la Russia era nel cuore degli europei. Tutta la grande ondata delle rivoluzioni nazionali dell’Ottocento ha a cuore la sorte della Russia. Tutte le grandi rivoluzioni del Novecento hanno a cuore la Russia. E i russi – i grandi romanzieri dell’Ottocento – guardano all’Europa, al romanzo europeo. E i rivoluzionari russi, i bolscevichi, ma anche i menscevichi e tutti gli altri, anarchici, socialisti rivoluzionari, guardano all’Europa, si aspettano l’Europa, perché si diffonda il riformismo socialdemocratico o perché si prenda il Palazzo d’Inverno. L’intellettuale russo è europeo – parla il tedesco e il francese –, ma lo è anche l’aristocratico – parla il tedesco e il francese – e l’operaio. L’Impero zarista entra nella Prima guerra mondiale da potenza europea; l’Unione delle Repubbliche sovietiche entra nella Seconda guerra mondiale da potenza mondiale, ma salva l’Europa a Stalingrado. Per tutti gli anni Trenta, gli intellettuali tedeschi e gli intellettuali francesi e gli intellettuali inglesi andavano a Mosca – ci andavano Gide e Sartre ma anche il gollista Malraux e il già fascistizzante Malaparte, e ne stilavano reportage, chi entusiasta chi disgustato. Ma il legame di quest’Europa con la Russia era ancora saldo – tutto ideologico, ma saldo. È a Yalta – dove Roosevelt e Churchill e Stalin si spartiscono il mondo – che l’Europa si divide e l’europea Praga, l’europea Budapest, l’europea Bucarest diventano qualcosa che non conosciamo più, non capiamo più, distanti, lontane, in un altro tempo e spazio. Tutto questo improvvisamente si frantuma con il crollo del Muro di Berlino e quella straordinaria e tragica figura che è Gorbaciov. Ma quello che prevale da noi, dietro l’allegrezza di facciata, è un sentimento di vendetta: ci avete fatto penare per tanti anni, adesso ve la faremo pagare, intanto ci somiglierete, anzi prenderete il peggio da noi, e ben vi sta. Finché arriva Putin. E adesso, con Trump, le cose peggiorano. Perché Trump difende l’idea che non ci sia niente di male a avere ottimi rapporti con i russi. Solo che lui è l’America. E se l’America ha buoni rapporti con i russi, vuol dire che la cosa si mette male per noi europei. Qui stiamo. Sentiamo quasi il rumore dei cingolati russi, di nuovo, come a Budapest, come a Praga. Sarebbe il caso che ci diamo una regolata. La Russia è Europa. E non c’è Europa senza la Russia.
I MURI NELL'ERA DI INTERNET.
Valli e barriere sono antichi quanto l'uomo. Ma nessuno ha mai ottenuto il risultato sperato. La Muraglia cinese ha 2.300 anni, il Vallo di Adriano 1.900: opere ciclopiche e inutili, scrive Giordano Bruno Guerri, Giovedì 26/01/2017, su "Il Giornale". A voler fare dello spirito (del tutto fuori luogo), potremmo chiamarlo «La Grande Trumpaglia». Come ogni muro posto a separare gli Stati o i popoli, quello annunciato dal nuovo presidente degli Stati Uniti - in realtà un prolungamento dell'esistente- ne richiama subito altri due.
Prima la Grande Muraglia Cinese, appunto, la ciclopica opera costruita, nel III secolo a.C., sotto il regno di Chin Shih-Huang-Ti per proteggere i confini settentrionali dalle tribù mongole. Lunga oltre 8.000 chilometri, alta dai 4,5 ai 12 metri, larga anche 9,5 metri, collegava fortezze inattaccabili.
Il secondo è il Muro per eccellenza, quello che molti di noi ricordano integro, in piena funzione, e al quale mi onoro di avere dato qualche picconata, né astratta né teorica. Detto anche Muro della Vergogna, lo costruirono in una notte d'agosto del 1961 i sovietici e i comunisti della Germania orientale dividendo in due Berlino: non per difendersi da un'invasione, ma per impedire ai tedeschi sovietizzati a forza di evadere verso la libertà.
Quale ne sia il motivo, il muro-prigione, suscita sempre una repulsione istintiva più del muro-sbarramento. A Berlino molti furono uccisi mentre cercavano di superarlo, quel carcere lungo 156 chilometri, altri ce la fecero, i più rimasero ingabbiati, ma il mostro di cemento non riuscì a svolgere la sua funzione, la funzione di tutti i suoi simili, ovvero tenere separato per sempre chi si trova di qua da chi si trova di là.
Se a Berlino il muro cadde perché crollò l'intero sistema sovietico, la Grande Muraglia impedì, sì, un'invasione militare mongola, ma non che i mongoli e gli altri popoli nomadi della steppa la superassero a piccoli gruppi, sempre più spesso, finché le due culture si assimilarono reciprocamente. È quello che accadrà al muro di Trump: impedirà l'arrivo negli Stati Uniti di altri milioni di disoccupati e sbandati messicani ma nell'epoca di internet non potrà impedire che la società americana si ispanizzi. E viceversa. Accadde anche con il primo Muro della storia, quel Vallo di Adriano messo dai romani a separare la Britannia conquistata da quella ancora in mano ai fieri e combattivi pitti e scoti. E se lo ricordiamo oggi è per la saga fantasy creata da George R. R. Martin cui è ispirata la serie TV Il Trono di Spade. Insomma, chi di muri ferisce, di etere perisce.
Il Vallo di Adriano, costruito nella prima metà del II secolo d. C., passa per essere il più antico della storia, ma soltanto perché anche quelli più robusti si sgretolano, e noi siamo ignoranti. I primi muri, brevi quanto sanguinosamente difesi, furono certamente costruiti in epoca preistorica, per difendere una gola, un guado, un passo, da un'altra tribù. Tale è l'animo dell'uomo, cui mancano soltanto materiali e tecnica per costruire barriere insormontabili e definitive. Nel 1999 è stato scoperto, a 200 chilometri a sudest del Mar Caspio, un grande muro lungo chilometri, ancora in fase di scavo. Veniva chiamato Il Serpente Rosso, per il colore dei suoi mattoni, era lungo 195 chilometri, largo fino a 10 e serviva a proteggere una regione fertile e ricca di acqua dalle scorribande di degli Unni bianchi. Protetto da fortezze e da 36mila soldati, incuteva timore anche a Gengis Khan.
Il tempo che ci separa da queste opere ce le fa apparire magnifiche. La vicinanza geografica e temporale di quelle più recenti o in corso, ce le mostra semplicemente orribili, e anche soltanto i loro nomi e la loro collocazione fanno paura, prima ancora della funzione e dei materiali con i quali sono costruiti. Ne ricordiamo qualcuno. La linea di demarcazione militare fra le due Coree e la Linea di controllo del Kashmir, fra India e Pakistan, che almeno hanno una giustificazione militare e non riescono a sembrare un anacronismo neanche in tempi di missili. Le barriere di separazione tra Israele e Territori palestinesi, che si infrangono contro gli attentati kamikaze. La «Linea Verde» di Cipro, che taglia in due un'isola più piccola della Sicilia e della Sardegna. Le Peace Lines che nell'Irlanda del nord separano cattolici da protestanti. Sono ancora più vicini a noi i muri che circondano Ceuta e Melilla, le città spagnole del Nordafrica, per impedire l'accesso ai marocchini.
Potremmo proseguire a lungo, con molti altri esempi realizzati o in costruzione, arrivando perfino al muro di sabbia che dal 1982 divide in due il Sahara Occidentale per difendere dai guerriglieri del Fronte Polisario il ricco territorio occupato dal Marocco neanche mezzo secolo fa: un muro di sabbia secca di oltre 2.700 chilometri, con otto fortezze e un'altezza che va da 1 a 30 metri. Ognuno ha le sue giustificazioni ma, mondo cosiddetto globalizzato, quei muri ricordano l'immagine di un uomo che, tenendo il telefonino fermo tra spalla e orecchio, si china per allacciare un oggetto primitivo come le stringhe delle scarpe.
IL RAZZISMO IMMAGINARIO.
Così il "razzismo immaginario" soffoca la libertà. Il filosofo: si grida subito all'islamofobia e si cancella il dibattito, come nei regimi comunisti, scrive Alessandro Gnocchi, Martedì 7/02/2017, su "Il Giornale". In Francia sono in corso due processi molto simili. Il filosofo Pascal Bruckner, noto in Italia per numerosi saggi tra cui Il fanatismo dell'Apocalisse (Guanda, 2014), è stato denunciato per quanto ha detto nel programma Arte: «Farò i nomi dei collaborazionisti all'attentato di Charlie Hebdo, tutti coloro che hanno ideologicamente giustificato la morte dei giornalisti». Le associazioni citate subito dopo lo hanno portato in tribunale. Stessa sorte toccato allo storico Georges Bensoussan, il direttore editoriale del Mémorial de la Shoah, fra i massimi studiosi di antisemitismo di Francia. Due anni fa aveva detto alla radio: «Come sostiene un sociologo algerino, Smaïn Laacher, nelle famiglie arabe in Francia l'antisemitismo viene trasmesso con il latte materno». Incriminato per «incitamento all'odio razziale». In questo clima, è uscito il saggio di Pascal Bruckner, Un racisme imaginaire («Un razzismo immaginario», Grasset) subito al centro dell'attenzione generale. Bruckner denuncia con forza l'odio e la violenza contro i musulmani ma contesta la nozione equivoca di «islamofobia». Secondo il filosofo, le accuse di islamofobia sono un'arma per soffocare il dibattito. Da oltre vent'anni, dice Bruckner, siamo testimoni della costruzione di un nuovo delitto di opinione simile a quello che veniva rinfacciato ai dissidenti (i «nemici del popolo») nei regimi comunisti. Le accuse, oltre a limitare la libertà d'espressione, ottengono il risultato di bloccare ogni tentativo di riforma nel mondo musulmano, isolando come «islamofobo» chi vorrebbe venire a patti con la modernità occidentale. Ma «l'antirazzismo» scrive Bruckner è «un marchio in continua espansione», perché ogni gruppo sociale si sente vittima. Il discorso va oltre l'islam. Tutte le mattine qualcuno «denuncia una forma di segregazione, felice di aver aggiunto una nuova specie alla grande tassonomia del pensiero progressista». Si rinforza così l'arsenale, già preoccupante, delle leggi che puniscono i reati d'opinione. Leggi che finiscono col creare una sorta di «dispotismo dolce» nell'arena culturale. Alle associazioni di cittadini che combattevano il razzismo, quello vero, si sono sostituite lobby confessionali o comunitarie o umanitarie che inventano forme di discriminazione per giustificare la propria esistenza, ottenere il massimo della visibilità e raccogliere finanziamenti. Anche gli islamisti hanno capito il funzionamento delle società democratiche e lo sfruttano a proprio vantaggio. In nome della libertà individuale, un po' alla volta, erodono... la libertà individuale. Il libro di Bruckner contiene poi ampi riferimenti a fatti di cronaca. Ad esempio, la notte di Colonia. Tra giovedì 31 dicembre e venerdì 1 gennaio 2016, nella città tedesca decine di donne sono state molestate e aggredite sessualmente da un migliaio di ubriachi. Secondo i rapporti della polizia, la maggior parte delle persone coinvolte era di origine nord-africana o afghana. La condanna però non è stata netta e unanime, dice Bruckner che passa in rassegna alcune spiegazioni bizzarre di quell'evento. C'è chi ha negato fossero aggressioni di natura sessuale, rivendicandone la portata politica. La folla ha preso di mira donne tedesche e bianche, simbolo dell'oppressione e della mancata accoglienza. A parere di questi sociologi, scrive Bruckner, perfino lo stupro è un crimine meno grave se il movente è soprattutto politico. L'islam sarebbe la «religione degli oppressi», in quanto tale permette ai post marxisti di dare una verniciata ai vecchi dogmi. La censura, infine, si rivela controproducente. Le parole (e le idee) condannate dal politicamente corretto poi tornano nello spazio pubblico portando con sé una carica dirompente che altrimenti non avrebbero.
QUELLI CHE...SONO RAZZISTI INTERESSATI.
Università del sud: I veri numeri. In studio Pino Aprile e il Rettore dell'Università di Bari Aldo Moro, Antonio Uricchio. Intervista allo scrittore Pino Aprile ed al Rettore di Bari Antonio Felice Uricchio. Buon pomeriggio del 5 gennaio 2017 condotto da Michele Cucuzza su Telenorba. Per Pino Aprile i dati sono pretestuosi e strumentali da parte del giornale della Confindustria e del Nord e rappresentativo della Luiss per danneggiare le Università del Sud.
Università, Bari in coda alla classifica del Sole 24 Ore. Ma il rettore denuncia: “Dati parziali, li comunicheremo al giornale”, scrive TRM Network il 4 gennaio 2017. Antonio Uricchio: “Le rilevazioni sulla ricerca ferme al 2010, e sulle borse di studio la copertura è totale grazie alla Regione” L’Università di Bari al 58mo posto su 61 nella classifica del Sole 24 Ore degli atenei italiani, ma per il rettore Uricchio i dati sono incompleti o in alcuni casi addirittura obsoleti. Una classifica ingiusta, immeritata. Per Antonio Uricchio, rettore dell’Università di Bari Aldo Moro, il 58esimo posto nella classifica degli atenei stilata dal Sole 24 Ore non corrisponde alla realtà. Colpa di rilevazioni ferme a più di cinque anni fa per quanto riguarda la ricerca, e incomplete per le borse di studio. Classifiche a parte, per Uricchio è fondamentale ripartire dalle premialità assegnate agli atenei del Sud dall’ultima ripartizione del fondo di finanziamento ordinario da parte del Ministero per rafforzare la rete che lega le università pugliesi a quelle lucane.
C’è anche il populismo anticamorra di Roberto Saviano. In tanti rimproverano de Magistris di mistificare per vanità le questioni reali della città. Ma ci si deve anche domandare se queste accuse non possano essere rivolte prima allo scrittore, che non è stato mai disponibile ad essere criticato senza ergersi a vittima, scrive Eduardo Cicelyn il 12 gennaio 2017 su “Il Corriere della Sera”. O con de Magistris o con Saviano. O magari con De Giovanni all’ultimo minuto. La realtà vera di Napoli non esiste se non nelle proiezioni immaginarie veicolate dalle cronache, dai romanzi, dal teatro, dai film e oggi soprattutto dalle serie tv. E infatti, per sviare la polemica che più lo insidia, il sindaco si è già schierato via facebook con i Bastardi di Pizzofalcone, le cui ambientazioni edulcorate da una regia melensa ristampano la cartolina della città storica e monumentale. D’altro canto, anche la politica, ormai da oltre un ventennio, ci sta mettendo il suo, di linguaggio, per costruire una rappresentazione performativa della città, giocando a fabbricare sceneggiature parallele, moderniste o populiste. È molto improbabile che de Magistris riesca a spostare per più di un paio di giorni l’attenzione sulla bella Napoli di Maurizio de Giovanni. Il conflitto tra realtà e immaginazione si è radicato come un virus mutante nel cuore del dibattito politico attuale. Gomorra è la variante locale. Perciò non ci si può meravigliare che il suo autore si atteggi a detentore della verità più vera o che, sul fronte contrapposto, un sindaco per caso e senza partito si erga a paladino di una comunità rinnovata, protesa verso il sol dell’avvenire. O al massimo verso le nostalgie della città fascinosa dell’ispettore Lojacono. Sono gli effetti surreali del medesimo spettacolo, anzi della sceneggiata mediatica che fa di Napoli uno dei punti più critici e simbolici della crisi italiana. Solo nel vuoto di analisi, teorie e proposte politiche poteva impiantarsi e prosperare il germe di un’esperienza di governo, come quella demagistrisiana, casinista ma onesta, quasi senza scopo, chiamata populista per mancanza di aggettivi, essendo come a tutti è chiaro minoritaria per linguaggio e per vocazione. Tuttavia come non vedere che la crisi della politica è anche la conseguenza di un’evidente degenerazione culturale. C’entrano la letteratura mediocre, il brutto cinema, l’arte banale, il teatro senza ispirazione, il proliferare delle serie televisive e l’insolenza con cui le cattive forme promuovono se stesse, avvinte le une alle altre, rimbalzando tra giornali, televisioni e social network, mobilitando indici d’ascolto, followers, like, emoticon. Ma non se ne parla quasi mai. Non si vede lo scandalo. In tanti fanno a gara a bacchettare il cattivo politico che censura l’intellettuale. Nessuno che si chieda quale sia il pensiero più omologato e il discorso più retorico, se quelli di Saviano o se quelli di de Magistris. Mai qualcuno che alzi il dito per fare le domande impertinenti: se uno scrittore romanza e pubblica carte processuali, informative di varie polizie, teoremi di solerti magistrati è proprio certo che faccia letteratura o almeno buon giornalismo? Quando la letteratura si appella alla verità per risolvere i suoi problemi formali, che ne è della verità e della letteratura? Sarebbe necessario rispondere a questi interrogativi, perché il credito di Saviano — la sua autorevolezza mediatica, il fatto che sembrino necessariamente vere le cose che dice — si fonda sulla qualità letteraria del suo successo, cioè di un genere di discorso che per definizione pratica l’artificio per apparire verosimile.
Oggi in tanti rimproverano al sindaco di essere populista e di mistificare per la propria vanità le questioni reali della città. Prima o poi qualcuno dovrà domandarsi se le medesime accuse non debbano essere prima rivolte allo scrittore: Saviano è stato mai disponibile ad essere criticato senza ergersi a vittima? Il suo messaggio anticamorra non è un po’ troppo generico ed emotivo, del tipo noi i buoni e loro i cattivi, secondo il tipico riflesso populista e demagogico? Siamo davvero disposti a condividere la visione di Napoli a dimensione unica, teatro di uno scontro omerico tra criminalità, polizia, magistrati e persone di buona volontà, purché Saviano possa vestire per molto tempo ancora i panni dell’aedo? Si parla spesso, anche su questo giornale, di deficit della rappresentanza democratica, di un ceto politico nazionale e locale sempre più debole e incapace e mai si sono risparmiate critiche anche dure al sindaco di Napoli. Capisco che molto più difficile e meno coinvolgente sarebbe discutere del ruolo civile degli intellettuali e di problemi filosofici o letterari. Eppure credo che una comunità abbia non solo il diritto di decidere se un sindaco è bravo o non è bravo e dunque di votarlo o non votarlo alle elezioni che verranno. Altrettanto utile sarebbe poter valutare insieme se uno scrittore che vive di Napoli, come Saviano, possa imporre il copyright sulla presunta verità del suo soggetto letterario e se il racconto che ne trae riesca ad essere originale e perciò universale. La letteratura non ha mai cambiato il mondo. Forse ha anche il diritto di peggiorarlo. Noi però non ci sentiamo in colpa e non pensiamo di favorire la camorra, se leggiamo altri libri e prendiamo sul serio altri scrittori. Desideriamo la buona politica e anche la buona letteratura. Ma, se anche le incontrassimo da qualche parte, non chiederemmo la verità né all’una né all’altra.
Galli Della Loggia: «Vi spiego perché Emiliano non sarà premier». Ernesto Galli Della Loggia, storico, scrittore, una delle firme più brillanti del Corriere della Sera, sarà a Bari domani e dopodomani per presentare il suo ultimo libro Credere, Tradire, Vivere, scrive Maddalena Tulanti il 15 gennaio 2017 su “Il Corriere della Sera”.
Lo sa che l’abbiamo considerata sempre il più cattivo dei commentatori sul Sud?
«Io cattivo? Ma se i miei genitori erano entrambi napoletani! Tutta la mia giovinezza l’ho trascorsa a Napoli. Potrei perfino parlarle in napoletano se vuole!».
Conversiamo con Ernesto Galli Della Loggia, storico, scrittore, una delle firme più brillanti del Corriere della Sera, a Bari domani e dopodomani per presentare il suo ultimo, bellissimo, libro Credere, Tradire, Vivere, edito dal Mulino, e il suo documentario Il paese perduto, per la regia di Manfredi Lucibello.
Respingiamo l’idea della conversazione in lingua madre (la nostra) ma ammettiamo l’ignoranza, no, questa del napoletano ci mancava.
«Sì, perché il mio cognome è di origine piemontese e a nessuno può venire in mente…. E poi, scrivendo per il Corriere, il giornale del Nord…».
E, aggiungiamo noi, non avendo mai fatto sconti al Mezzogiorno…
«Sì, questo è vero. Ma non perché non ami il Sud, è proprio vero il contrario. Per aiutare non per sgarrupare, come dicono i napoletani».
E d’altronde il punto vero, e anche questo lei lo ha scritto nei suoi editoriali, è che il Sud è stato pochissimo al centro dell’azione politica dei governi, meno che mai di quelli della Seconda Repubblica. Un Sud che, ultimi dati Svimez, dopo i dieci anni della grande crisi si è allontanato in maniera forse irreversibile dal Nord del Paese. E’ stato un errore di Renzi, non aver imbracciato la bandiera della nuova unità d’Italia?
«Senz’altro, forse il primo, gravissimo. Poi ha cercato di cambiare in corso d’opera, soprattutto credendo che la sua presenza fisica a Napoli, a Palermo o a Bari avrebbe fatto la differenza. Così non è stato. E la situazione si è complicata. Il Sud oggi appare sempre più caudillizzato, in ogni regione c’è un caudillo, magari in lotta con gli altri e attento soprattutto ai propri interessi».
Anche in Puglia?
«Emiliano è il più forte di tutti, non solo per i suoi meriti, ma anche perché rappresenta una regione che ce l’ha fatta».
E ha come, si sa, ambizioni nazionali…
«Per questo la vedo difficile. Temo che gli anni Novanta abbiano seppellito ogni possibilità per un politico del Sud di rappresentare l’intero paese. Almeno per il momento. E’ come se stessimo negli Usa prima dell’avvento di Obama: nemmeno con la più fervida immaginazione si poteva prevedere un nero alla Casa bianca…».
Il libro di cui il prof viene a parlare in Puglia è un affresco straordinario della prima repubblica e dei valori che l’hanno sostenuta fino al suo affossamento, negli anni di Mani Pulite. Con al centro un pensiero netto: è mancato soprattutto il tradimento. Inteso come cambiamento, perché solo tradendo si cambia, si va avanti, si vive appunto.
I conti però non tornano: abbiamo bisogno di sdoganare il tradimento nella terra che ha inventato il trasformismo e in cui il voltagabbana è un personaggio centrale della nostra commedia umana?
«Guardi che non abbiamo inventato noi il trasformismo, è una bugia, noi lo abbiamo praticato, ma non più di altri. In quegli stessi anni, fine Ottocento, tutti i paesi europei hanno vissuto il fenomeno. Prenda la Gran Bretagna, grandi politici, da Palmerston a Disraeli, hanno militato in 3 o 4 partiti diversi e nessuno ne menava scandalo. Così accadeva in Francia. Il fatto è che da noi c’è sempre stato un forte moralismo che vedeva nel trasformismo la prova della pochezza della classe dirigente, sbagliando».
E il voltagabbana? Come si fa a distinguere chi cambia idea da chi cambia casacca?
«Due indizi. Primo: chi cambia casacca ne ricava un immediato vantaggio personale. Secondo: chi cambia idea spiega perché lo ha fatto».
Lei ci ricorda che anche la storia repubblicana è cominciata con una grande menzogna, quella sul fascismo e sull’antifascismo.
«Lì è andata un po’ diversamente. Non si è potuta dire la verità, non si poteva dire agli elettori: oggi venite a votare, ma siete stati tutti fascisti. Forse potevano farlo gli intellettuali, ma non lo hanno fatto. Non hanno avuto il coraggio di dire: abbiamo applaudito Mussolini. Hanno preferito avallare l’idea che la cultura era stata tutta antifascista. Non era stato così e oggi sta venendo fuori».
A proposito di intellettuali, che fine hanno fatto?
«L’intellettuale impegnato, come si diceva negli anni 70, si spegne con la fine fisica di una generazione. La verità è che il Paese non ha più interesse ad ascoltare gli intellettuali, la politica non ne ha bisogno, non li sollecita e loro ricambiano con altrettanto disinteresse».
Prof, metterebbe anche la sconfitta di Renzi al referendum istituzionale tra quelle che non tradendo non cambiano?
«Sì. Questo paese è prigioniero di corporazioni che temono ogni novità che possa mettere in pericolo i loro interessi; inoltre ha giocato un ruolo importante quel gruppo di intellettuali che considera costituzione e antifascismo come una gabbia di ferro ideologica dalla quale dopo 70 anni non è possibile uscire. L’accoppiata interessi costituiti e cultura antifascistico-costituzionalista ha prodotto il risultato che conosciamo e quindi la paralisi».
QUELLI CHE…SONO RAZZISTI CON ARTE, SENZA PARTE.
L’Arte è Arte, non è parte. L’Arte non ha tempo, né ideologia. Chi riflette luce estemporanea ed ha una ideologia, non è artista, ma partigiano. Chi è invitato da un boss criminale sanguinario mafioso può avere dei ripensamenti. Chi viene invitato ad esibirsi per l’insediamento del presidente democraticamente eletto del paese più democratico e sviluppato del mondo, e onorare il paese, da cui proviene e si rifiuta per fini politici, non merita di essere definito artista, ma semplicemente comunista, senza arte, con parte...
Guai a trasformare la lotta politica in guerra dei sessi. La competizione fra Clinton e Trump è diventata una competizione fra sinistra e destra del mondo, scrive Francesco Alberoni, Domenica 29/01/2017, su "Il Giornale". La competizione elettorale fra Hillary Clinton e Donald Trump è diventata una competizione fra sinistra e destra del mondo. In ogni Paese infatti vi erano partigiani di Obama e di Hillary e partigiani di Trump e, poiché un po' dovunque in Occidente la stampa e il mondo dello spettacolo erano orientati a sinistra, la vittoria di Trump è stata vissuta come la vittoria di un nemico della sinistra e di tutto quanto c'era di progressista. Quindi anche della cultura e dell'arte, espressioni di quanto più rozzo, grossolano e incivile c'era nel fondo barbarico dell'America. E poiché i democratici e, più in generale, quelli di sinistra si considerano i campioni della democrazia hanno visto la vittoria di Trump come l'ascesa al potere di un tiranno antidemocratico, di un potenziale despota. Contro di lui si è mobilitata la stampa e tutto il mondo dello spettacolo americano, nessun cantante si è prestato a cantare per Trump e nessun divo di Hollywood è stato presente al suo insediamento. Hillary, inoltre, si è presentata come il campione della riscossa femminista, quella che ne difende il potere e i valori. Gioco facile con Trump, accusato di essere antifemminista perché ha avuto la sfacciataggine di dichiarare che le donne sono inferiori agli uomini. Un insulto che molte donne si sono passate di bocca in bocca, che è stato rilanciato dalla stampa e di cui hanno fatto uno slogan di battaglia. Oggi stampa e televisione americane ci presentano il conflitto politico come una guerra dei sessi: da un lato le donne democratiche che difendono il progresso, dall'altra i maschilisti trumpisti rozzi e brutali. Un conflitto che qualche base sociale ce l'ha negli Stati Uniti, dove esiste una violenta competizione fra femmine e maschi. Ma i politici di sinistra, la stampa a la televisione nostrani sbagliano a credere di poterlo trapiantare in Italia. L'uragano Trump si abbatterà contro la prepotenza della Germania, le velleità della Francia e la burocrazia di Bruxelles, ma non dispiacerà agli italiani, maschi e femmine, che sono sempre stati trattati male da queste arroganti potenze europee.
Sinistra e anarchici mobilitati per rovinare la "festa" a Trump. Anarchici, movimenti di sinistra e associazioni si stanno mobilitando per una grande manifestazione contro Trump. Ecco chi c'è dietro, scrive Roberto Vivaldelli, Martedì 17/01/2017, su "Il Giornale". Movimenti per i diritti civili, anarchici, Black Lives Matter, associazioni: tutto il mondo della sinistra radicale statunitense si mobilita contro il presidente eletto Donald Trump in vista dell'insediamento ufficiale in programma venerdì 20 a Washington D.C. Come riporta l'agenzia americana Reuters, l'obiettivo degli organizzatori è chiaro: rovinare, a qualsiasi costo, la festa a Trump, anche impiegando metodi non convenzionali e violenti. I manifestanti cercheranno di radunarsi presso i 12 checkpoint di sicurezza del Campidoglio e sfileranno lungo il percorso della parata di 2,5 miglia (4 chilometri). "Vogliamo interrompere l'inaugurazione - ha affermato uno dei leader del movimento DistruptJ20, David Thurston, in conferenza stampa - vogliamo che la ribellione cresca in tutto il Paese e in tutte le città”. DisruptJ20, che sta collaborando con Black Lives Matter e altri gruppi rivoltosi, ha annunciato che ci saranno delle barricate prima dell'alba e manifestazioni dirompenti durante l'insediamento di Donald Trump. Più di 300 volontari di DisruptJ20 lavoreranno per mobilitare i manifestanti in una lunga serie di proteste che il movimento ha definito il "Festival della Resistenza". E i metodi non saranno affatto pacifici: "Non siamo a favore di una transizione pacifica del potere, dobbiamo fermarlo" - ha sottolineato uno degli organizzatori. Nel complesso, secondo il National Park Service, sono 27 i movimenti di protesta a cui sono stati concessi i permessi e che saranno presenti il giorno dell'insediamento, un numero quattro volte superiore rispetto al passato e che non ha eguali nella storia. Secondo i funzionati del governo, la cerimonia dovrebbe attirare circa 800 mila spettatori. Si temono degli scontri con i sostenitori del presidente Donald Trump. La protesta a Washington D.C proseguirà anche il giorno seguente, con più 200mila persone pronte a sfilare alla "Marcia delle Donne" ("Women's March"): un corteo organizzato da un gruppo di attiviste in risposta ai toni “sopra le righe” del neo-presidente impiegati durante la campagna elettorale. “La retorica impiegata nella recente campagna elettorale presidenziale ha demonizzato e minacciato molti di noi - immigrati, musulmani, persone di fedi diverse, LGBTQ, nativi americani, persone di colore, disabili, donne che hanno subito violenze sessuali - e le nostre comunità sono spaventate da questo. La Marcia delle Donne di Washington darà un forte messaggio ai nuovi governanti nel primo giorno di mandato”. Sul web gli attivisti anti-Trump hanno fatto circolare una petizione per fermare il presidente eletto: trattasi di un vero e proprio portale che segnala e documenta, attraverso video e fotografie, le manifestazioni contro il tycoon che si stanno svolgendo in questi giorni in tutto il Paese. "Ci rifiutiamo di accettare un'America fascista - affermano - Donald Trump, il presidente eletto, sta costruendo un regime molto pericoloso. La nostra angoscia è corretta e giusta. La nostra rabbia deve ora diventare una massiccia resistenza, prima che Trump prenda il potere". Tra i firmatari c'è anche Bill Ayers, noto pedagogista e attivista statunitense, già leader e fondatore dell'organizzazione terroristica di estrema sinistra Weather Underground che si era distinta, negli anni '70, per attacchi dinamitardi che avevano come obiettivo principale gli edifici governativi e le banche. Fu inoltre autrice di attentati compiuti contro il Campidoglio e il Pentagono. A questo quadro dalle tinte fosche, si aggiunge, ancora una volta, l'ombra dei manifestanti pagati per scendere in strada contro il neo-presidente. Sono diversi gli annunci di lavoro on line pubblicati sul portale Backpage dall'organizzazione Demand Protest in diverse città degli Stati Uniti (San Diego, Tulsa, Phoenix, ed El Paso). Demand Protest recluta personale motivo per "inviare un messaggio in occasione delle manifestazioni che si terranno in concomitanza con l'insediamento di Trump", offrendo un compenso di 2mila e 500 dollari al mese o di 50 dollari l'ora. “Se stai per agire, perché non lo fai con noi” - recitano gli annunci di lavoro sotto il titolo emblematico di “fatti pagare per lottare contro Trump”. “Stiamo degli strateghi che mobiliano i millenials in tutto il mondo - spiegano i promotori sul loro sito web - e con assoluta discrezione, che è la nostra assoluta priorità, i nostri operatori realizzano delle scene convincenti che diventano elementi costitutivi dei movimenti di massa”. La sinistra radicale americana non ha alcuna intenzione di accettare il risultato elettorale, sancito da un'elezione democratica, e si profilano giornate segnate da forti tensioni e scontri. Riusciranno a rovinare la festa a Trump?
Giorgio Armani ha detto sì: "Vestirò Melania Trump". Dopo le polemiche per l'abito Dolce e Gabbana indossato per festeggiare il Capodanno in Florida con il marito, la futura first lady ha trovato uno stilista disposto a vestirla, scrive Marta Proietti, Domenica 15/01/2017, su "Il Giornale". Giorgio Armani si è reso disponibile a vestire Melania Trump, a seguito delle polemiche per l'abito Dolce e Gabbana indossato per festeggiare il Capodanno in Florida con il marito. Ora la futura first lady sembra aver trovato uno stilista disposto a vestirla. Perché nonostante lei sia la futura first lady degli Stati Uniti d'America, sembrava ormai impossibile riuscire a scovare uno stilista che ci mettesse la faccia. Come racconta Il Fatto Quotidiano, la scarsa simpatia del mondo della moda per Melania ha radici piuttosto lontane: quando, poco dopo l'elezione del marito a presidente degli Stati Uniti, la bionda slovena aveva dichiarato di voler essere "la first lady più glamour dai tempi di Jackie Kennedy" in molti avevano storto il naso. Forse il paragone fatto da Melania è stato un po' azzardato ma resta il fatto che stiamo parlando di un ex modella, finita sulle copertine di tutto il mondo, e che se non si trattasse della moglie di Donald Trump tutti gli stilisti farebbero a gara per vestirla. Finalmente, sembra sia arrivato qualcuno disposto a dare i suoi abiti e si tratta di un italiano: Giorgio Armani.
Flavio Briatore: «Gli stilisti che non vogliono vestire Melania Trump? Gente scema». L’imprenditore alla sfilata di Billionaire Couture si toglie qualche sassolino dalle scarpe e difende apertamente l’amico Donald Trump. «È l’uomo più potente del mondo, un numero uno, anche chi lo denigra se ne deve fare una ragione. La polemica sollevata dagli stilisti che non vogliono vestire Melania è una roba scema, messa in piedi da gente scema» - Michela Proietti /Corriere TV 17 gennaio 2017. L’imprenditore, fondatore del marchio Billionaire ora rilevato dallo stilista tedesco Philipp Plein, in prima fila alla sfilata con la moglie Elisabetta Gregoraci e il figlio Nathan Falco. Oggi la famiglia partirà per Washington, per partecipare all’insediamento di Trump. «Per me un vero onore, un’occasione che capita solo una volta nella vita», ha detto Briatore.
Il Volo dice no a Trump: non canteremo per chi punta su populismo e xenofobia. I tre italiani hanno declinato lʼinvito ad esibirsi alla cerimonia di insediamento del nuovo presidente. "Mai dʼaccordo con le sue idee - spiegano - ma non va criminalizzato chi canterà per lui. E nemmeno chi non lo fa, scrive "TGCom 24" il 6 gennaio 2017. Il Volo prende le distanze da Donald Trump: il trio italiano, nonostante l'invito, non canterà alla cerimonia di insediamento del nuovo presidente Usa. I tre spiegano al "Corriere della Sera" i motivi del rifiuto: "Non siamo d'accordo con le sue idee, non possiamo appoggiare chi si basa su populismo oltre che su xenofobia e razzismo dicono Boschetto, Ginoble e Barone. Nessun problema per chi si esibirà al posto loro: "Non va criminalizzato chi canterà per Trump, così come chi non lo fa". Il Trio ha un vastissimo seguito negli Usa: il loro live al Radio City Music Hall del 4 marzo è tutto esaurito. È proprio per questo motivo che Il Volo non si preoccupa delle possibili conseguenze che potrebbe comportare il due di picche al nuovo presidente americano: "Pensiamo che il nostro futuro non dipenda da questo", sostengono decisi i tre. "Chi ci ama ci seguirà ugualmente". C'è da dire però che i tenori non sono stati i primi e nemmeno gli unici a declinare l'invito del tycoon alla cerimonia di insediamento. La lista delle celebrity che ha voltato la faccia al neoletto Trump spazia dal rapper Kanye West al bassista Gene Simmons dei Kiss, da pop star del calibro mediatico di Justin Bieber a Bruno Mars, Katy Perry e Justin Timberlake. Grande clamore ha suscitato anche il presunto rifiuto di Andrea Bocelli, peraltro amico de Il Volo, che avrebbe deciso di non esibirsi alla Casa Bianca. Non ci sono state smentite e nemmeno conferme, ma è bastata l'ira dei fan - che sono insorti in Rete lanciando l'hashtag #BoycottBocelli - a scoraggiare un'ipotetica presenza del tenore sul palco presidenziale. Sulla questione il trio italiano ammette di essere a conoscenza della versione ufficiale, ovvero quella dell'invito pervenuto e rispedito al mittente, ma sottolinea: "Quando ci vediamo preferiamo discutere di altro, tipo di musica".
Anche Il Volo dice “No” a Donald Trump: i suoi atteggiamenti sono xenofobi e razzisti, scrive "Novella 2000" il 6 gennaio 2017. Donald Trump, il neo presidente degli Stati Uniti, ha chiesto a Il Volo di esibirsi per il concerto della sua cerimonia di insediamento (il 20 gennaio), ma i tre tenori, Gianluca Ginoble, Ignazio Boschetto e Piero Barone, dopo la sorpresa iniziale, hanno risposto: “Grazie no, Mr. President”. Anche loro, dopo Elton John e Andrea Bocelli, hanno rifiutato l’offerta, motivandola con queste parole: «Abbiamo rifiutato il suo invito perché non siamo mai stati d’accordo con le sue idee: non possiamo appoggiare un uomo che ha basato la sua ascesa politica sul populismo oltre che su atteggiamenti xenofobi e razzisti». I tre cantanti, lanciati da Antonella Clerici, non sono andati tanto per il sottile convinti che la musica e la politica abbiano un legame: «Come artisti abbiamo una grande eco. Non potevamo cantare per una persona con cui non condividiamo quasi niente». Negli Stati Uniti, Il Volo è adorato e il dire “No” a Trump non preoccupa i tre cantanti: «Pensiamo che il nostro futuro non dipenda da questo. Chi ci ama ci seguirà ugualmente. Nei nostri concerti, poi, non parliamo di politica. E non siamo stati i soli a dirgli no, sappiamo anche che il nostro amico Andrea Bocelli ha rifiutato… Noi sappiamo che è andata così. Con lui non ne abbiamo parlato perché quando ci vediamo preferiamo discutere di altro, tipo di musica». Gianluca, Ignazio e Piero, hanno pure affermato che molto probabilmente non seguiranno la cerimonia d’insediamento di Donald Trump nemmeno in Tv: «Se gioca Roma-Inter guarderò la partita», ha affermato Gianluca, per poi aggiungere «Nessun rammarico. Non diremo: cosa ci siamo persi, perché la nostra è stata una decisione presa con calma. E perché tutti e tre viviamo senza rimpianti…». Ora per Donald Trump diventa sempre più complicato reclutare artisti disposti a suonare per lui, mentre alla cerimonia di insediamento di Barack Obama star come Beyoncé, Lady Gaga, Stevie Wonder e Aretha Franklin avevano fatto a gara per esserci.
Il gran rifiuto del Volo a The Donald. Il celebre trio non canterà all’inaugurazione del nuovo presidente americano, il prossimo 20 gennaio: «Non appoggiamo il populismo xenofobo», scrive Chiara Maffioletti il 6 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera". Quante volte può capitare a un artista di essere chiamato dal presidente degli Stati Uniti per esibirsi alla cerimonia del suo insediamento? osì, quando qualche settimana fa la proposta di Donald Trump è arrivata a Il Volo, Gianluca Ginoble, Ignazio Boschetto e Piero Barone, dopo la sorpresa iniziale, si sono confrontati, ci hanno riflettuto e alla fine sono arrivati alla conclusione di dire grazie no, Mr. President. «Abbiamo rifiutato il suo invito perché non siamo mai stati d’accordo con le sue idee: non possiamo appoggiare un uomo che ha basato la sua ascesa politica sul populismo oltre che su atteggiamenti xenofobi e razzisti». Insomma, non ci girano attorno. E, al contrario di quello che magari ci si potrebbe aspettare, non giocano la prudente carta — cara a tanti loro colleghi — del: «La musica non c’entra con la politica». Anzi, sono tutti e tre ben consapevoli del fatto che «come artisti abbiamo una grande eco. Non potevamo cantare per una persona con cui non condividiamo quasi niente». E come loro devono averla pensata anche tutti gli altri artisti che hanno declinato il presidenziale invito. «Ma la democrazia è importante. Non va criminalizzato chi si esibirà quel giorno, così come non va fatto con chi la pensa diversamente da noi. Per quanto ci riguarda ci rendiamo conto di essere un esempio per molti, soprattutto giovani, ed è per questo che raccontiamo la nostra idea». Negli Stati Uniti Il Volo è adorato. Il concerto del prossimo 4 marzo alla Radio City Music Hall è già «sold out» tanto che ora si prevede una nuova data. Dire no a Trump ad altri avrebbe fatto venire il dubbio di vedersi chiudere qualche porta a stelle e strisce. «Ma pensiamo che il nostro futuro non dipenda da questo. Chi ci ama ci seguirà ugualmente. Nei nostri concerti poi non parliamo di politica. E non siamo stati i soli a dirgli no, sappiamo anche che il nostro amico Andrea Bocelli ha rifiutato...». Anche se non lo ha mai confermato: non si sa se sia stato davvero invitato da Trump... «Ah. Beh noi sappiamo che è andata così. Con lui non ne abbiamo parlato perché quando ci vediamo preferiamo discutere di altro, tipo di musica». La loro decisione di prendere posizione e raccontare perché hanno detto no a Trump dipende invece dal fatto che «se anche la politica americana può apparire lontanissima da noi, il risvolto sociale di quello che succede lì ci interessa e ci riguarda». Se vi avesse chiamati Obama sareste andati? Qualche attimo di lieve, divertito, imbarazzo. Poi se la cavano così: «Comunque non ci ha chiamati». Non sanno se seguiranno la cerimonia di insediamento, il 20 gennaio: «Se gioca Roma-Inter guarderò la partita», commenta Gianluca, ma, facendosi di nuovo seri, sono tutti e tre certi che se anche la guarderanno, non avranno «nessun rammarico. Non diremo: cosa ci siamo persi, perché la nostra è stata una decisione presa con calma. E perché tutti e tre viviamo senza rimpianti. Davanti a noi poi abbiamo un tour bellissimo, gireremo l’Italia, canteremo in posti fantastici...». Non solo America quindi. E anche se non sanno cosa guarderanno in tv il giorno dell’insediamento, pare già certo che Sanremo non se lo perderanno... «Ehhh, il Festival certo che lo seguiremo, non possiamo non farlo».
I tre tenori de Il Volo rifiutano di cantare per Donald Trump. Gli artisti de Il Volo hanno declinato l'invito di Donald Trump e non canteranno alla cerimonia del suo insediamento. "Non condividiamo nulla con lui", scrive Anna Rossi, Venerdì 06/01/2017, su "Il Giornale". "Abbiamo rifiutato di cantare alla cerimonia di insediamento di Donald Trump perché non siamo mai stati d'accordo con le sue idee". Così Gianluca Ginoble, Ignazio Boschetto e Piero Barone de Il Volo hanno declinato l'invito del nuovo presidente degli Stati Uniti. In un'intervista al Corriere della Sera i tre cantanti motivano la loro decisione. "Non possiamo appoggiare un uomo che ha basato la sua ascesa politica sul populismo oltre che su atteggiamenti xenofobi e razzisti. Come artisti abbiamo una grande eco. Non potevamo cantare per una persona con cui non condividiamo quasi niente" - spiegano gli artisti de Il Volo. Il grande rifiuto dei tre cantanti non è passato inosservato e sono tanti quelli che accusano i tre ragazzi di essersi "montati un po' troppo la testa". "Quante volte può capitare ad un artista di essere chiamato dal presidente degli Stati Uniti per esibirsi alla cerimonia del suo insediamento? Pochissime. Snobbare un invito di questa portata mi sembra un po' azzardato", scrive un utente in rete. E di commenti di questo tipo ce ne sono a bizzeffe, come d'altro canto ci sono tanti altri utenti che condividono pienamente la decisione dei tre artisti. "Non pensiamo - continuano - che il nostro futuro dipenda dal nostro rifiuto a Donal Trump. Chi ci ama ci seguirà ugualmente. Nei nostri concerti poi non parliamo di politica. E non siamo stati i soli a dirgli no, sappiamo anche che il nostro amico Andrea Bocelli ha rifiutato". La loro decisione di prendere una netta posizione e raccontare perché hanno detto "no" a Trump - dicono - dipende dal fatto che "se anche la politica americana può apparire lontanissima da noi, il risvolto sociale di quello che succede lì ci interessa e ci riguarda". Condivisibili o meno, sono queste le motivazioni che hanno spinto i tre cantanti de Il Volo a rifiutare l'invito di Donald Trump.
Inauguration day, ecco chi ha rifiutato l’invito di Donald Trump, scrive “Il Corriere della Sera” il 7 gennaio 2017. Il no di Andrea Bocelli e del Volo. E tutti gli altri artisti che hanno declinato l’invito (o che lo declinerebbero se invitati) per la serata di gala del 20 gennaio 2017.
1. Il rifiuto del Volo. Un rifiuto anche dall’Italia, il no a Trump del gruppo Il Volo: «Non siamo stati mai d’accordo con le sue idee politiche e con i suoi atteggiamenti xenofobi e razzisti». Dieci settimane dopo aver sorpreso l’America e il mondo con la sua vittoria nelle elezioni americane, Donald Trump il 20 gennaio giurerà come 45esimo presidente degli Stati Uniti. Ma sono già numerosi gli artisti di mezzo mondo che, invitati a esibirsi all’evento, hanno rinunciato motivando il rifiuto con una presa di posizione contro il neo eletto leader Usa. Un illustre «No» arriva anche dall’Italia, con il Volo, l’ensemble canoro che ha poi spiegato: «Abbiamo rifiutato il suo invito perché non siamo mai stati d’accordo con le sue idee: non possiamo appoggiare un uomo che ha basato la sua ascesa politica sul populismo oltre che su atteggiamenti xenofobi e razzisti».
2. L’elegante rifiuto di Celine Dion. Secondo il sito di gossip Usa Tmz, Celine Dion avrebbe declinato l’invito presidenziale perché «già impegnata».
3. Il no politico dei Kiss. La trasgressiva band Usa ha declinato l’invito del neo presidente. A riferirlo la moglie del leader Gene Simmons, Shannon Tweed.
4. La smentita di Elton John. Il portavoce dell’artista inglese, Fran Curtis, ha comunicato ufficialmente che «Elton non si esibirà all’inaugurazione della presidenza Trump». La nota si è resa necessaria dopo l’annuncio fatto da un membro dello staff del neopresidente.
5. Garth Brooks non ci sarà. Non sarà della serata neppure la star del country Garth Brooks. A confermare il suo «gran rifiuto» la rivista «Daily Variety».
6. Lo scherzo ai The Chainsmokers. Un giornalista, forse per scherzo, aveva annunciato che i due dj riuniti sotto il nome di The Chainsmokers avrebbero partecipato alla serata inaugurale del 20 gennaio. La «battuta» è stata in ogni caso smentita dal manager della band.
7. La giovanissima star di «America’s Got Talent». Jackie Evancho, reginetta sedicenne della fortunata trasmissione poi esportata in tutto il mondo, è al momento uno dei pochi artisti confermati all’Inauguration day di Donald Trump.
8. I mal di pancia delle danzatrici. Anche l’ensemble di danza The Radio City Rockettes ha confermato che parteciperà all’evento del prossimo 20 gennaio. Tuttavia, alcune ballerine si sono dette perplesse, imbarazzate o preoccupate, nessuna di quelle di colore inoltre ha deciso di partecipare.
9. Il no di David Foster. Il musicista canadese ha diramato una nota per rispondere a quanti davano per scontata la sua partecipazione (o addirittura un suo ruolo organizzativo) in vista della serata inaugurale della presidenza Trump: «Ho cortesemente e rispettosamente declinato. Ogni altra notizia in merito è priva di fondamento».
10. Lo scontato no di Ice T. Ice T ha twittato il suo rifiuto ufficiale all’invito che gli è pervenuto telefonicamente: «Non ho neanche risposto e poi ho bloccato il numero di chi mi aveva chiamato», ha scritto l’artista afro-americano.
11. La condizione di Rebecca. La cantante britannica Rebecca Ferguson ha spiegato che si esibirà solo se potrà interpretare la canzone «Strange Fruit», il brano reso celebre da Billie Holiday diventato l’inno delle campagne antirazziste nel mondo.
12. Il sì del coro mormone. L’ensemble vocale The Mormon Tabernacle Choir ha confermato la sua partecipazione attraverso il sito Internet ufficiale della chiesa mormona statunitense.
13. Il no preventivo di Adam Lambert. Interpellato dalla Bbc su una sua eventuale partecipazione al concerto in onore di Donald Trump, il cantautore statunitense ha risposto che «non prenderei mai soldi da un tipo simile».
14. Il no di Matt Healy dei The 1975. Anche Matt Healy, leader del gruppo britannico di indie rock The 1975, sarebbe poco disposto ad accettare: «Accetterei se mi strapagassero. Ma poi scoppierebbe una rivolta».
15. L’intervista a Idina. La cantante Idina Menzel ha detto a «Vanity Fair» che probabilmente Trump dovrebbe cantare da solo: «Forse pensa di avere una bella voce, del resto crede di fare tutto benissimo».
16. La dichiarazione di John Legend. Il cantautore John Legend ha dichiarato alla Bbc: «Chi lavora con la propria creatività è portato a rigettare l’odio e l’intolleranza. Di solito aspira ad avere una mentalità aperta. Penso che sia spiacevole che molti creativi accettino di essere associati a qualcuno che si comporta in modo bigotto, predicando odio e divisione».
17. Il no delle Dixie Chicks. Anche il gruppo di country tutto al femminile ha spiegato, attraverso il proprio manager, che non accetterebbe mai un invito del genere.
18. La battuta di Rick Astley. «Dipende da quanto è grande l’assegno», il cantante britannico ha risposto così alla domanda della Bbc a proposito di una sua eventuale partecipazione alla serata del 20 gennaio. Ma subito dopo ha aggiunto: «Tuttavia, che sia Donald Trump o chiunque altro, non sono sicuro che andrei mai a suonare per un presidente americano. A dirla tutta, non è posto per un artista britannico».
19. Gli indecisi Beach Boys. I Beach Boys sono stati invitati ai primi di gennaio e non hanno ancora sciolto la riserva sulla loro partecipazione alla Inauguration day del 20.
20. Il no tardivo di Andrea Bocelli. L’artista italiano aveva inizialmente accettato, poi però ha cambiato idea sotto l’incalzante pressione dei fan sui social media: «La situazione si sta animando troppo, sta suscitando troppo clamore. Non c’è modo che io faccia questo concerto», avrebbe confidato a una fonte del «New York Post».
"Come sono strani i cantanti...". Esordisce così Vittorio Sgarbi in un video pubblicato su Facebook il 7 gennaio 2017, dove, a modo suo, interviene su uno dei temi di più stringente attualità, tra spettacolo e politica, ovvero i rifiuti incassati da Donald Trump da parte degli artisti che non vogliono esibirsi per lui alla cerimonia per l'insediamento alla Casa Bianca. Dopo una battuta su Bob Dylan che rifiuta di ritirare il premio Nobel, si passa ad Andrea Bocelli e a Il Volo.
“Come sono strani i cantanti”, esordisce Vittorio Sgarbi incredulo per alcuni atteggiamenti e cita alcuni casi eclatanti: Bob Dylan che non ritira il Nobel e il rifiuto di Andrea Bocelli sino a quello del trio Il Volo di andare a cantare per il neo presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Spiega Sgarbi: “È strano che dei cantanti vengano chiamati dal presidente degli Stati Uniti a cantare e dopo che sono sempre stati dalla parte dei capitalisti e sono pieni di soldi”. “Io conosco bene anche il trio Il Volo – sottolinea -, li ho visti da bambini, erano dei bambini, piccoli, gentili, carini come i tre porcellini. Il Volo erano tre bambini piccoli, gentili, carini però solo il desiderio di essere famosi e così vengono chiamati da Trump, ecco Trump, ma metti un disco e mandali a fare in culo, che te ne frega di avere Bocelli dal vivo, che ti ferma che sia lì, così risparmi. Vabbè, non vuoi risparmiare e così li inviti e loro cosa fanno? Il grand rifiuto del trio Il Volo a Donald? E perché non canteranno? Sono impegnati come Bob Dylan col Nobel? No, "non appoggiamo il populismo xenofobo". Io non so se sanno esattamente cosa voglia dire, però hanno risposto così, si sono confrontati e alla fine hanno detto "Grazie, no, Signor Presidente". "Non siamo mai stati d'accordo con le sue idee", ma perché avete avuto delle idee? Devono cantare o avere delle idee?”. “Così quando qualche settimana fa – prosegue Sgarbi - la proposta di Donald Trump è arrivata al Volo, Gianluca Ginoble, Ignazio Boschetto e Piero Baroni dopo la sorpresa iniziale si sono confrontati, ve li immaginate il trio che si confronta? C’hanno riflettuto e alla fine sono arrivati alla conclusione di dire: grazie no Mr President. Le motivazioni? "Non siamo d’accordo con le sue idee", ma erano dei bambini, hanno avuto le loro idee? Qualcuno le conosce le loro idee? Loro devono cantare o essere d’accordo con le idee di Trump?”. “Vorrei ricordarvi – racconta – che voi siete stati lanciati dal vostro amico e mio amico Tony Renis. Tony Renis è un italiano culo e camicia con Berlusconi, xenofobo e razzista, bravissimo e simpatico. L’avete anche inculato dopo che lui vi ha sostenuto, vi ha aiutato, voi l’avete tradito e siete con torpedine Michele Torpedine, nel 1999 è stato rinviato a giudizio per frode fiscale, corruzione e falso ideologico, certo non è come essere xenofobo e populista”. “Sarà falso – continua il critico -, ma perché frequentate questa gente? Perché frequentate Tony Renis amico di Trump e di Berlusconi? Perché frequentare Torpedine di cui sono convinto che sia innocente, ma di cui Wikipedia racconta questo che vi ho letto?”. “Allora andate a cantare e non rompete il cazzo – esclama Sgarbi -. Andate da Trump, non fate le seghe, tre coglioncelli inutili, andate e cantate di corsa, non in volo. E altrimenti lui può mettervela nel culo lo stesso, metterà su un vostro disco e voi canterete nel vuoto senza esserci per qualcuno che dirà siete in un angolo in fondo e vi ha tenuto in cucina vi lascia cantare dalla cucina, perché si vergogna di voi”. E conclude: “Io mi guarderei da fare considerazioni del cazzo su argomenti del cazzo”.
Sgarbi: "Il Volo non va da Trump? Coglioncelli". La replica: "Non siamo cd", scrive il 07/01/2017 "ADNKronos". "Tre coglioncelli inutili... Il Volo erano tre bambini carini, come i tre porcellini. Trump, metti su un cd e mandali a fare in culo". Vittorio Sgarbi commenta così la decisione con cui Il Volo ha declinato l'invito di Donald Trump, che avrebbe voluto un'esibizione del trio per la cerimonia del proprio insediamento. "Non andate a cantare perché lui è un populista... Bravi... Vorrei ricordarvi che siete stati lanciati dal mio amico Tony Renis, xenofobo e populista, bravissimo e simpatico", dice Sgarbi in un video pubblicato su Facebook. A rispondere, senza citare il critico d'arte, è Piero Barone, che forma il trio con Ignazio Boschetto e Gianluca Ginoble. "'Siete cantanti, vi hanno chiamato, dunque cantate', con questo semplice ragionamento personaggi pubblici, leoni da tastiera e odiatori seriali si stanno accanendo contro le nostre recenti affermazioni", scrive Barone su Twitter. ''Dunque per la logica che loro rivendicano, un cantante deve cantare, non deve avere un pensiero critico. Sono sicuro che nel caso avessimo detto sì, cantando alla cerimonia di insediamento, le critiche sarebbero state le stesse, forse peggiori", prosegue il messaggio. "Ecco quindi che siamo stati solo la quotidiana dose di odio di cui si nutre il dibattito social, domani toccherà ad altri o ad altre cose. Rimango del parere che un cantante - conclude - non è un cd ma una persona libera di scegliere come, quando, per chi cantare".
Sgarbi contro Il Volo: "Siete tre coglioncelli di periferia". Vittorio Sgarbi attacca nuovamente il trio Il Volo mettendo in discussione che vi sia veramente stato un invito da parte del presidente eletto Donald Trump a cantare nel giorno del suo insediamento, scrive Francesco Curridori, Lunedì 09/01/2017, su "Il Giornale". Vittorio Sgarbi contro Il Volo, parte seconda. Il critico d'arte, in questo nuovo video, mette in dubbio che il presidente eletto degli Stati Uniti, Donald Trump, abbia veramente invitati il trio canoro italiano. “Ho un dubbio: che oltre alla stronzata di aver detto ‘non andiamo’, questo non sia un pensiero che nasce da una lettera, un fax, una mail con la firma Donald Trump ma una risposta a un eventuale invito”, dice Sgarbi in un video pubblicato ieri su Facebook nel quale è tornato a criticare il Volo. "È talmente bello essere come De Niro, - aggiunge - insultare nel modo più violento Trump per dire noi siamo diversi, una categoria umana antropologicamente diversa da Trump perché a noi non importa il denaro, i soldi o la fama ma il canto. Noi siamo idealisti, abbiamo le ali come gli angeli". Sgarbi si dice assolutamente certo "che loro non potranno esibire nessuna richiesta ufficiale della segreteria di Trump. Hanno detto di no a niente. Hanno inventato un nemico brutto, cattivo, xenofobo e hanno detto: no, noi per te non cantiamo no no no". "Non vi odio, ma mi state sui coglioni. Mi sta sui coglioni chi dice di no a cazzo", dice il critico d'arte senza troppi peli sulla lingua. E anche se Trump avesse invitati per davvero Il Volo, secondo Sgarbi, avrebbero dovuto mostrare riconoscenza dato che per lui voi siete solo “tre pischelli di periferia inventati da Tony Renis”. “Fate vedere il documento ufficiale in cui la Casa Bianca chiede a tre coglioncelli di periferia musicale di cantare per l’insediamento del Presidente degli Stati Uniti. Quel documento non c’è, ve la siete inventati per fare i fenomeni, fenomeni senza ali", conclude Sgarbi.
Vittorio Sgarbi e Il Volo: ancora polemiche. Prosegue la polemica tra Il Volo e Vittorio Sgarbi sul rifiuto da parte dei tre cantanti di partecipare alla cerimonia per il giuramento di Trump, scrive Luca Romano, Lunedì 23/01/2017, su "Il Giornale". Prosegue la polemica tra Il Volo e Vittorio Sgarbi sul rifiuto da parte dei tre cantanti di partecipare alla cerimonia per il giuramento di Trump. E così dopo la mossa di Sgarbi che aveva mostrato le carte che a suo dire dimostravano il mancato invito de Il Volo negli Usa, a Domenica Live è arrivata la risposta dei cantanti che in tv hanno mostrato un altro documento che invece mostrerebbe le prove dell'invito. Una polemica che però non si è chiusa con la puntata di Domenica Live, ma è proseguita con una risposta di fuoco da parte di Sgarbi su Facebook. Una controreplica che di fatto sottolinea come l'invito de il Volo, secondo Sgarbi, non sia mai esistito: "Credo più al Presidente degli Stati Uniti, che ha dichiarato di non averli invitati, che a tre pischelli, preoccupati del loro destino per aver detto una clamorosa bugia. Il documento è palesemente insignificante. Come prevedevo, non fa riferimento a nessun ingaggio, e quindi a nessuna rinuncia ad alcun compenso che mostrerebbe l'orgoglio e il coraggio di chi l'ha rifiutato". Poi Sgarbi rincara la dose: "I tre, intorpediniti, hanno solo cercato pubblicità affiancandosi ai divi che, come De Niro, hanno vilipeso pretestuosamente Trump. Barbara D'Urso, per rimestare nel torbido, si è prestata a mostrare il documento inattendibile come prova di una convocazione che non c'è stata, come non c'è stata la volontà di Trump di chiamare né Bocelli né Il Volo". E ancora: "Qualcuno lo avrà forse ipotizzato, ma dalle informazioni in mio possesso, tramite il Consolato generale Usa a Milano, si evince che a loro (e non a una sedicente agenzia) non risulta che nessun artista italiano sia stato invitato a cantare e neanche a presenziare alle celebrazioni dell'insediamento del Presidente. E' ovvio che la Sony sta cercando di proteggere i tre marmocchi. Magari ci saranno stati contatti tra la casa discografica e qualcuno dello staff del Presidente. Certamente nulla di ufficiale e nulla di voluto da Trump. E' un ulteriore autogol per consolare i residui fans. Mister Philip T. Reeker, che è Console Generale degli Stati Uniti a Milano, è legatissimo a Trump, e può rendere pubblica la verità. L'agente de Il Volo, Michele Torpedine, ha chiesto aiuto a un'agenzia di spettacolo per farsi inviare, retrodatata, una richiesta, priva di ingaggio e di sostanza. Pura fuffa. Il Volo si arrampica sugli specchi ma si schianta nuovamente al suolo. Suzanne Bender, come sanno gli addetti ai lavori, non è altro che un agente che piazza e vende artisti". Infine afferma: "Lo scambio di mail tra la Sony Music, etichetta che pubblica le canzonette de Il Volo, e la Bender, è la prova che i tre marmocchi non hanno mai ricevuto un invito ufficiale dallo staff di Trump, ma solo quello di un agente che, tentativamente, pensava di rifilarli al neo eletto Presidente americano. Non c'è una richiesta da parte di Trump, men che meno del suo staff, d'invitare Il Volo. Non mi faccio certo intimidire dalle annunciate azioni legali, Anzi, spero proprio che le promuovano. Avremo anche la prova davanti a un Tribunale che non sono mai stati invitati da Donald Trump. E dal momento che io risponderò con una querela alle offensive affermazioni del trio, chiederò, in tribunale, proprio la testimonianza di Trump".
Razzisti contro Trump, scrive Nino Spirlì il 23 gennaio 2017 su “Il Giornale”. Già! Razzisti, ipocriti e menzogneri. Stampa fasulla e piazze pagate da chi ha preparato, con molto tempo a disposizione, un qualche migliaio di ridicoli cappellini rosa sciocco come le zucche in essi contenute. Crape vuote come un cesso abbandonato in discarica, che possono contare, però, nei tromboncini di certi giornalucci, cartacei e virtuali, che se la cantano e se la suonano fra di loro. Tutti contro il neo Presidente. Sono curioso di vedere quanti saranno a mantenere fede ai giuramenti di queste ore e a non correre a leccare il culo a Trump nei prossimi mesi. Bergoglio compreso, ridicolo nelle sue esternazioni politiche delle ultime ore. Menzione d’onore, poi, per la nostra televisione di Stato, che utilizza per il suo tg ufficiale immagini di una manifestazione sportiva di un ventennio fa per “condire” un servizietto sulle donne che manifestano contro il 45° Presidente degli USA. Menzogna su menzogna. A imperitura vergogna del giornalista che l’ha confezionato e del direttore che l’ha autorizzato!!! (Che mi tocca fare! Io, che non amo l’America, sono costretto a difenderne il Presidente. … Fortunatamente, una delle cose migliori che le siano capitate negli ultimi mesi!) E le “contestatrici”, dico loro, chi sono??? Mi rifiuto di credere che rappresentino anche solo lo 0,0000000001% del popolo femminile americano. Si vede lontano un miglio che si tratti di quattro poveracce, stile punkabbestia, che avrebbero sfilato anche contro l’altezza della Statua della Libertà, contro la dentiera del Papa o la mutanda lenta di madonna… Disadattate prezzolate e galvanizzate, magari, da qualche regalino di polverine magiche. Trump fa bene a fottersene. Come e quanto ce ne fottiamo noi, che lo aspettavamo! L’America e il Mondo avevano bisogno di un controbilanciamento americano alla perfezione politica di Putin. Una sorta di nuovo asse Reagan Gorbaciov (quella bella accoppiata dei tempi d’oro del riavvicinamento e della pace), ma in tempo di guerra vera. Con la massomafia che la fa da grande, dopo la sciagura dell’ottennio del presidente di colore con signora finta ortolana al seguito. Smargiassa e gradassa sui mercati, la massoneria si è ingigantita con la nascita e il battesimo del terrorismo islamico, con le guerre sui territori del medio oriente e del Nord Africa, con la destabilizzazione sociomorale dell’Europa. Tutte partorite dalle menti malate di un establishment creato ad hoc nelle stanze del potere colorato di nero e biondo. Però… Però! Obama e Clinton hanno perso. E, con loro, tutti quei potentati che ci hanno portati alla fame, all’umiliazione, alla schiavitù. Talmente schiavi, che oggi ci impongono di andare a marciare e urlare contro Donald. Fortunatamente, a parte qualche demente e disadattato, qualche starletta invecchiata nel mito del pisello, qualche attore inguaiato con la salute e dedito, ormai, più alla pillola blu che all’amato alcool, qualche giornalista che venderebbe sua madre tumulata pur di apparire, tutti noi siamo lucidi e non ci caschiamo, nella rete delle provocazioni. Restiamo rispettosi in attesa. Osserviamo. Per giudicare. Cosa che consigliamo anche al frettoloso papampero, panzer senza pilota e che sta allontanando migliaia di veri Cristiani dalla sua chiesa razzista vera, ma non dalla Chiesa. Fra me e me.
Barron Trump e i figli dei potenti che non hanno colpe. Usare la goffaggine di un bambino per togliere credibilità al padre è l’ultima trovata di un universo hollywoodiano lontano dalla gente e senza rispetto, scrive Marco Ventura il 27 gennaio 2017 su Panorama. Che male c’è ad avere 10 anni e non reggersi in piedi dalla stanchezza alle 3 di notte mentre al termine della campagna presidenziale che ha coinvolto tutta la famiglia tuo padre pronuncia il discorso della vita, il primo da presidente eletto degli Stati Uniti d’America? Che male c’è a sbadigliare, stralunare gli occhi, scuotersi di scatto per un applauso, infine sbuffare di sollievo quando il discorso di papà finisce? Che male c’è a sbagliare nel “dare il cinque” a tua madre e ritrovarti perciò su Twitter alla berlina della Rete come affetto da autismo (con disarmante retweet di Rosie O’Donnel, attrice, autrice tv e attivista per i diritti degli omosessuali, icona liberal del politicamente corretto)? Tutti i riflettori puntati su quel bambino in giacca e cravatta, Barron Trump, figlio di Donald e Melania Trump, che sembra non voler sorridere se non nelle foto in posa sulle copertine delle riviste glamour. Lui, Barron, “gode” delle attenzioni dei media, ma soprattutto dei social, in quanto figlio dell’impresentabile, quasi che i comportamenti del figlio minore potessero essere la spia di quelli del padre, e possano essere sfottuti dagli avversari che più facilmente riusciranno a caricaturare in miniatura, per via di discendenza, i tic e i limiti del padre odiato e potente. Ma così, permettetemi, non va. I politicamente corretti dimostrano ancora una volta di avere paraocchi ideologici e totale insensibilità. È stupenda la foto rimasta nella storia del piccolo John John che esce gattoni da un vano della scrivania nello Studio Ovale. Edificante e, di più, provvidenziale per l’immagine del padre, John Fitzgerald Kennedy. I figli nelle stanze, nei corridoi, in cucina, nei giardini della White House rendono casa e ufficio dei presidenti più umani, ambienti familiari. Eppure, John John si portò appresso negli anni la difficoltà di vivere all’ombra del padre e della sua memoria: finché fu il “cucciolo della Casa Bianca” si rivelò un formidabile portatore di messaggi positivi dal Presidente al suo popolo. Commovente pure la scena di lui ancora piccolo che poggia la mano sul feretro del padre JFK ucciso a Dallas. Chelsea Clinton, pure lei dovette subire da figlia di Bill e Hillary le ironie del pubblico e della stampa in anni (1992) in cui non esistevano ancora i social con la loro forza d’urto spesso distruttiva su costumi, linguaggio e sentimenti. Chelsea aveva l’apparecchio ai denti, di lei si disse che era il “cane della White House”. Ma non subì l’affronto dei video viralizzati sul web a sottolinearne le stranezze, semplicemente perché non esisteva la Rete. Katie Rich, autrice del Saturday Night Live, ha twittato che Barron diventerà “the first homeschool shooter”, come uno di quei giovani sballati e violenti che all’improvviso fanno strage a scuola. Un pluriomicida. Un altro autore Tv, Matt Oswalt, immagina Barron che si aggira all’interno della Casa Bianca in cerca di “cose da bruciare”. Una vena di inquietante follia insinuata nelle parole della scrittrice Caitlin Moran per la quale le espressioni di Barron sono “al 100 per cento Joffrey”, dal nome del Re di Game of Thrones. Le ironie più crudeli sono sui social, e non pongono freni alla pubblicazione di commenti di pessimo gusto. Certo è che il piccolo Trump deve abituarsi ai riflettori, alle ore piccole, al padre debordante, e poi anche essere vittima di voyerismo, invidia sociale, pregiudizio politico e, sì, cattiveria liberal. È Chelsea a difenderlo: “Barron merita di essere bambino proprio come gli altri bambini”. Chelsea amica di Ivanka, altra figlia di Trump. La barbarie della gogna irridente dei social verso Barron è che le “colpe” dei figli qui sembrano ricadere sui padri e non viceversa. Così, usare la stanchezza di un ragazzino, i suoi sbadigli, la sua goffaggine, per togliere credibilità al padre o attaccarlo, è solo l’ultima trovata di un universo hollywoodiano che vive in un cielo costellato di star ma lontano dalla gente. Rispettare il bambino che è Barron è davvero così difficile? È davvero così difficile accettare il gioco della democrazia che ha fatto vincere l’Impresentabile?
Quando l’impresentabile era Berlusconi…, scrive Paolo Delgado il 24 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Come Silvio, “The Donald” è un senza partito e anche il nazionalismo presenta punti di contatto: L’America first di Washington è simile al “Forza Italia” di Arcore. Estate 1994: tra i villeggianti che affollano le strade di una delle tante località balneari della Sardegna c’è un volto universalmente noto. Tutti lo riconoscono e lui, del resto, non cerca affatto di passare inosservato: abbronzatura da playboy anni ‘ 60, bandana colorata intorno al cranio, sorrisone malandrino. Uno dei tanti che si fermano a rimirarlo lo apostrofa strillando «Non mollare» e lui replica senza farsi pregare: «Certo che no. Gli facciamo un culo così!». L’unico giornalista presente sbigottisce e corre a scrivere. Non capita spesso e certo non sta bene che un presidente del consiglio minacci con formula tanto cruda di fare il mazzo agli avversari. Il giorno dopo, l’ultima di Silvio Berlusconi, presidente del consiglio eletto appena cinque mesi prima, campeggia su tutti i giornali del Paese. E conferma nella loro già salda opinione chi frequenta i salotti buoni ma anche chi siede ai vertici delle istituzioni: l’uomo nuovo è un intruso del quale prima ci si libera e meglio è. Ventitre anni dopo la sceneggiatura sembra riproporsi, stavolta in versione kolossal, sull’altra sponda dell’Atlantico. Le somiglianze tra il Cavaliere di allora e il Don di oggi sono innumerevoli, sin nei particolari. Chissà se qualcuno, guardano quelle centinaia di migliaia di donne e uomini sfilare a Washington in una sorta di protesta preventiva, si sarà ricordato del milione di persone che il 25 aprile 1994, a Milano, fecero la stessa cosa meno di un mese dopo la vittoria di don Silvio? E chissà quanti, di fronte al sessismo sfacciato del nuovo presidente, avranno ricordato il brivido con cui venne accolta la battutaccia del suo predecessore: «Nessuno può dire che io non apprezzi le donne. Le apprezzo moltissimo: soprattutto in certi momenti». Come il Cavaliere, the Donald è un senza partito. L’italiano aveva provveduto con una formazione fai- da- te. L’americano ha occupato d’impeto un Great Ole Party che non lo sopportava e non lo sopporta. Plutocrati, i due nascono alla politica con il marchio indelebile del possibile conflitto d’interessi. Comodamente allocati nelle fasce altissime della piramide sociale, sono arrivati al potere facendo appello alla disagiata base della medesima, in nome di un rapporto non mediato dal partito e anzi quanto più diretto possibile. Persino il ricorso al nazionalismo presenta eloquenti punti di contatto. Certo lo sciovinismo degli italiani, ancora vaccinati dalle iperboliche sparate del ventennio, di solito non va oltre la tifoseria allo stadio. E infatti Berlusconi, consapevole della diffusa tendenza diffusa, proprio su calcio e sport in generale aveva fatto leva, battezzando il suo partito con lo slogan più gridato dagli spalti ed assicurando alla sua truppa il colore azzurro della Nazionale. Non era America First, che da noi sarebbe stato ridicolo, ma titillava le medesime corde, sia pure in scala. Volendo, persino sul fronte delle controriforme un qualche accostamento non sarebbe illecito. Trump è partito lancia in resta contro una riforma del suo predecessore, ottima pur se di portata limitata rispetto alle ambizioni iniziali, l’Obamacare. Berlusconi finì quasi sfracellato nel tentativo di intervenire su un fronte, quello delle pensioni, che era già stato riformato, in peggio ma con danno ancora limitato, giusto due anni prima, dal governo di Giuliano Amato. Non sarebbe la prima volta che l’Italia, per motivi imperscrutabili, si rivela uno dei principali laboratori politici nel mondo. Dall’esperienza pionieristica di Silvio Berlusconi, l’allievo di Washington dovrebbe imparare qualcosa, ma forse la lezione sarebbe ancora più preziosa per i suoi avversari. Il caso Berlusconi dimostrò quanto micidiale possa essere, per i politici che oggi va di moda definire ‘ populisti’, il blocco composto dalla protesta sociale da un lato e dalla resistenza dell’establishment di potere dall’altro: una tenaglia dalla quale il Cavaliere finì quasi stritolato. Quel milione di persone che sfilarono sotto il diluvio a Milano il 25 aprile non avevano alcuna simpatia per le élites che sdegnavano il parvenu di Arcore, e ne erano poco cordialmente ricambiate. Le due aree sociali si cementarono tuttavia in nome di un comune e transitorio interesse: mettere al più presso alla porta l’usurpatore. E’ successo a Roma, nulla vieta che succeda a Washington. E tuttavia la campagna contro l’’ usurpatore’ condotta in nome delle buone maniere politiche, del politically correct e del bon ton più antropologico che politico, la stessa che martellò sin dal primo momento il Cavaliere e che sferza oggi il Don, si è rivelata alla resa dei conti disastrosa. Disarcionato con quel ribaltone del ‘ 94, Berlusconi è tuttavia rimasto in campo altri 17 anni, per buona parte dei quali governando il Paese. L’alterigia sprezzante, venata di una implicita componente di classe, che bersaglia oggi il burino della Casa Bianca ricorda da vicino l’incredulità offesa con cui tanti, il giorno dopo la vittoria dell’arricchito lombardo, confessavano candidi di non riconoscere più i loro concittadini. Come avevano osato, i buzzurri ignorantoni? E in fondo, sempre rispettando la scala, anche la platea elettorale non è poi così diversa. La candidata comme il faut ha stravinto a New York e in California, un po’ come la sinistra che in Italia è ormai ben radicata dalle parti dei Parioli. Il bruto ha prevalso, magari di misura ma inequivocabilmente, dove pesa il voto dei cafoni redneck, fratelli nell’animo di quei borgatari italiani che ormai un voto per la sinistra non lo concedono nemmeno con una pistola alla tempia. Perché nulla più di quell’atteggiamento altero e gonfio di malintesa superiorità convince i dimenticati che fanno benissimo a votare chi dalla loro controparte sociale è tanto disprezzato.
Giovanna Botteri, la più ostinata delle giornaliste contro Donald Trump, scrive il 10 novembre 2016 “Libero Quotidiano”. Non solo Hillary Clinton: dal voto americano escono distrutti anche giornalisti e sondaggisti. E non solo quelli a stelle e strisce. Sui nostri quotidiani, infatti, autorevoli commentatori hanno speso lunghe giornate e fiumi d'inchiostro per spiegarci che Donald Trump aveva già perso. E l'Oscar per la peggiore informazione possibile, come nota con un pizzico di ferocia Italia Oggi, forse lo conquista Giovanna Botteri, la storica inviata della Rai3, la quale ha cannoneggiato per mesi contro il "magnate sfrontato e offensivo" Trump, l'uomo che si sarebbe piegato al trionfo inevitabile di Hillary, per la quale al contrario sprecava encomi e toni enfatici. Per la Botteri, infatti, la Clinton non era tanto simbolo di banche e alta finanza, ma nume tutelare delle minoranze. Una lunga campagna elettorale, quella di Giovanna, dall'esito disastroso. Una campagna elettorale dopo la quale dovrebbe meditare in una sorta di buen retiro...
Donald John Trump e le bufale dei giornalisti italiani. Trump e Giovanna Botteri dagli Stati Uniti: tre bufale in un minuto. Vi riportiamo un ottimo fact-checking di Massimo Mazzucco di luogocomune.it sul servizio dell'inviata Rai negli Stati Uniti Giovanna Botteri a proposito della prima conferenza stampa rilasciata da Trump. Il video di Mazzucco si conclude con questa domanda, che facciamo nostra: "ma perché i cittadini italiani devono pagare il canone per pagare lo stipendio a persone come la Botteri che distorcono sistematicamente quello che ci raccontano?". Con questo spirito partigiano in Italia si è raccontata la diretta del Giuramento di Trump del 20 gennaio 2017 e non solo sulla Rai ma su tutte le altre reti. Si è stati costretti a fare zapping per evitare i commenti truci di cronisti di parte che nulla sanno cosa sia la democrazia. Gente che non sa perdere. Perfino Mentana su La 7 ha lasciato la sua impronta. Ha interrotto la diretta nel momento in cui prendeva la parola un prete cristiano. E questo nonostante ci si confronti proprio con Papa comunista.
Papa Francesco: "Trump? Pure Hitler fu eletto..." Papa Francesco a El Pais: "Nei momenti di crisi si cerca un salvatore. Pure Hitler fu eletto". Salvini: "Credo che Bergoglio sia stato frainteso...", scrive Chiara Sarra, Domenica 22/01/2017, su "Il Giornale". Sospende il giudizio - per ora - Papa Francesco su Donald Trump. Ma con un accostamento ben più pesante che se un giudizio lo avesse espresso. "Si vedrà. Vedremo ciò che fa e allora valuteremo", dice infatti il Pontefice al giornalista di El Pais che gli chiede un commento sull'elezione del tycoon a presidente degli Stati Uniti, "Nei momenti di crisi si perde la lucidità di ragionamento e questo è stato sempre per me un riferimento da tenere a mente. Cerchiamo un salvatore che ci ridia una identità e la difendiamo con ogni mezzo, muri o qualsiasi mezzo dagli altri popoli, per timore che inquinino la nostra identità e la danneggino. E questo è grave". E il riferimento viene spiegato con un esempio calzante: la Germania nazista. "Una Germania distrutta che vuole rialzarsi, che cerca una identità, un leader, qualcuno che le restituisca l'identità e si affida a un giovanotto che assicura poterlo fare, Hitler", spiega Bergoglio, "E tutti lo votano. Di fatti fu una elezione democratica, non una imposizione. Il popolo lo votò e lui lo portò alla distruzione. Questo è il pericolo che si può correre ancora oggi". "Il Papa dice tante cose, Hitler è stato sepolto dalla storia, io penso sia stato frainteso", commenta però Matteo Salvini, "Se mi danno del populista sono contento perché vuol dire che parlo al popolo, ma io penso che il Pontefice sia stato frainteso".
Anche il Papa è anti Donald: "Hitler è nato dal populismo". Bergoglio: "Vedremo ciò che fa, ma attenti ai salvatori". La lunga schiera dei giornalisti italiani contro il tycoon, scrive Paolo Bracalini, Lunedì 23/01/2017, su "Il Giornale". Il club degli antitrumpisti d'Italia, quelli che non si rassegnano al fatto che il 45esimo presidente degli Stati Uniti sia un pericoloso bifolco come Donald Trump, miliardario con mogli e prole altrettanto sgradevoli ai palati più raffinati, può però contare su una consolazione di altissimo livello: persino il Papa condivide i loro timori. Bergoglio già nella campagna presidenziale Usa aveva molto criticato il tycoon per l'idea del muro col Messico («Non è Vangelo, non mi immischio ma dico solo che quest'uomo non è cristiano se dice queste cose» disse il Papa) e dopo la vittoria di novembre aveva confessato a Repubblica i suoi dubbi («Mi interessa solo se fa soffrire i poveri»). Ad insediamento compiuto, il Papa invia il messaggio ufficiale al nuovo inquilino della Casa Bianca («le sue decisioni siano guidate da ricchezza di spirito ed etica dei valori») ma in un'intervista a El Pais si fa più esplicito il giudizio del Pontefice sul presidente Usa, il cui successo elettorale ricorda al Papa un precedente non proprio illustre. «Vedremo ciò che fa e allora valuteremo. Nei momenti di crisi si perde la lucidità di ragionamento. Cerchiamo un salvatore che ci ridia una identità e la difendiamo con ogni mezzo, muri o qualsiasi mezzo dagli altri popoli, per timore che inquinino la nostra identità e la danneggino. E questo è grave». Situazione che riporta Bergoglio alla Germania del '33. «Una Germania distrutta che vuole rialzarsi, che cerca una identità, un leader, qualcuno che le restituisca l'identità e si affida a un giovanotto che assicura poterlo fare, Hitler. E tutti lo votano. Di fatti fu una elezione democratica, non una imposizione. Il popolo lo votò e lui lo portò alla distruzione. Questo è il pericolo che si può correre ancora oggi». Quale più autorevole conferma poteva trovare uno dei più attivi antitrumpisti italiani, l'editorialista del Corriere della sera Beppe Severgnini? L'altro giorno si domandava: «Donald Trump mette in pericolo la democrazia americana?». Per rispondersi poi che sì, «la maggioranza elettorale va rispettata, sempre e dovunque. Ma non ha sempre ragione». Prova ne siano «i governi democraticamente eletti che nella prima metà del XX secolo hanno condotto l'Europa nella braccia di Mussolini e Hitler». Paragone che, a questo punto, è autorizzato da bolla papale con ceralacca. Altro inconsolabile che può trovare sollievo nella compagnia del Pontefice è Gianni Riotta, esperto di Usa e altre cose. Nel ritratto-agiografia di Barack Obama («ha affrontato i disagi cercando il dialogo ma è stato tradito dalle sue stesse virtù» è l'aspetto più negativo trovato in otto anni alla Casa Bianca), l'ex direttore del Tg1 si rammarica che «purtroppo l'educazione socievole (di Obama, ndr) non funziona nel mondo dei Trump», per Riotta lo stesso mondo «dei Putin, degli Assad, degli Erdogan, gente che predilige le maniere forti». Ma non è niente rispetto al dramma personale che sta vivendo la corrispondente della Rai negli Usa (responsabile dell'ufficio di New York, poltrona d'oro nella tv di Stato), Giovanna Botteri, orfana inconsolabile della stagione Obama. Le sue ultime corrispondenze sono diventate cult tra i fan italiani di Donald Trump, per il pathos con cui racconta l'America trumpista. Per la corrispondente Rai, un nuovo Medioevo per gli Stati Uniti.
Trump alle donne della marcia: "Perché non hanno votato?". Il presidente americano replica con sarcasmo alla Marcia delle donne, che sabato ha sfilato per le strade di Washington contro di lui. Poi twitta che il suo insediamento ha fatto registrare il record di ascolti in tv, scrive Raffaello Binelli, Domenica 22/01/2017, su "Il Giornale". Donald Trump non le manda certo a dire. Stavolta risponde alle donne che hanno marciato contro di lui a Washington e anche in altre città d'America (e non solo): "Ho visto le proteste di sabato - scrive su Twitter il presidente Usa - ma se non sbaglio abbiamo appena avuto un'elezione! Perché queste persone non hanno votato? Le celebrità fanno male alla causa". E dopo aver detto la sua sulla "Marcia delle donne", si toglie un sassolino dalle scarpe: "Wow, i dati sugli ascolti televisivi sono appena usciti: 31 milioni di persone hanno visto l'inaugurazione, 11 milioni in più rispetto ai buoni ascolti di 4 anni fa!". Trump commenta l'audience della cerimonia di insediamento, vista in tv dagli americani, per un motivo molto semplice: diversi giornali hanno scritto che è stata un mezzo flop e che poche persone sono scese in piazza per salutare il nuovo presidente. Oggi Trump sembra voler loro ricordare che, in realtà, moltissimi lo hanno seguito, anche se da lontano, attraverso la tv. E molti altri, aggiungiamo noi, tramite i social network e il web.
Madonna e il "vaffa" a Trump durante la Marcia delle donne. La popstar ha concluso la sua esibizione con una frase improvvisata, "Donald Trump, go suck a dick", un volgarissimo invito al nuovo presidente che non merita neanche di essere tradotto, scrive Michele Ardengo, Domenica 22/01/2017, su "Il Giornale". Con un berretto nero con le orecchie da gatto, Madonna ha fatto una apparizione a sorpresa alla "Marcia delle donne" anti-Trump a Washington, invocando la "rivoluzione dell'amore". "Siete pronti a scuotere il mondo? Benvenuti nella rivoluzione dell'amore", ha dichiarato dal palco la cantante prima di intonare due canzoni davanti a centinaia di manifestanti riuniti nella capitale federale. In un discorso infuocato, Madonna ha detto di aver pensato molto di "far saltare la Casa Bianca" dalla elezione di Donald Trump, ma di aver scelto invece l'amore. La regina del Pop ha anche usato diverse volte la parola "fuck", in questo caso traducibile con l'italiano "vaffa...", rivolgendosi a quelli che dicono che "niente verrà da questa marcia". Madonna ha cantato un suo singolo del 1989 "Express Yourself", un inno femminista del tempo. Ha concluso la canzone con una frase improvvisata, "Donald Trump, go suck a dick", un volgarissimo invito al nuovo presidente che non merita neanche di essere tradotto. La cantante è una delle più agguerrite oppositrici del neopresidente, e dopo l'elezione ha dichiarato: “Dopo l’elezione di Trump mi sono sentita come ci si sente quando muore qualcuno. Ho sentito un forte senso di tradimento, il mio cuore era spezzato. È così quando qualcuno ti abbandona. Ed è così che mi sento ormai ogni giorno, ogni mattina quando mi sveglio e realizzo che Trump è davvero presidente e che non è stato tutto un brutto sogno. Mi sono sentita tradita dalle donne americane che in massa hanno follemente votato per il tycoon”.
Il capriccio delle star nemiche della democrazia, scrive il 22/01/2017 Emanuele Ricucci su “Il Giornale”. Recitava il vecchio adagio romano, proprio come la reclame del The Infrè, buono per un derby, buono per chi ha perso per un numero al Superenalotto: e nun ce vonno sta! L’assurda epopea dei nuovi sacerdoti della religione laica del progresso continua. I cantastorie del bel pensare, i menestrelli dell’epoca green, senza colore e senza Patria, solidale e tollerante, senza confini, né identità. Sorridenti e splendenti, gli uomini e le donne dello star system li trovi impegnati nella grande farsa ogni volta che c’è da aprirsi la strada verso il successo mediatico o quando c’è da rimpolpare le tasche, ancora una volta, per l’ennesima volta. Vip, esasperati, esagerati ma soprattutto pronti a vendersi l’anima per la causa più giusta; finché è tale. Quando smette di essere giusta, per tutti, ma proprio tutti, ecco i saltimbanchi dei potenti a protestare come bimbi a cui è stata tolta la pallina rossa nel box dei giochi. Per strada o sui social. Che triste capriccio, inatteso da chi, come loro, dovrebbe avere la mente aperta ed elastica – incarnando il principio etico alla base del processo artistico, espressivo - e proiettata al futuro, senza pregiudizi, né stereotipi. Rappresentanti del progresso che avanza ed accoglie, apre, emancipa. Ma questa è tutta un’altra…favola. Vi viene in mente niente se dicessimo Donald Trump vs Hillary Clinton? Gli schieratissimi, i lustratissimi, gli inarrivabili. Una pletora di star contro il demone Donald, cavalcate da Hillary Clinton, uno che, tanto per intenderci, cavalcando la più pura forma di democrazia è diventato il 45esimo presidente degli Stati Uniti; uno che evoca concetti dignitosi quali identità e preferenza nazionale, che ha il coraggio di sostenere la classe media, motore di una grande potenza Occidentale, non tassando solo i ricchi, ricchi per davvero, come voleva Hillary, ma abbattendo la pressione fiscale proprio per quella fetta che l’America la incarna, la rappresenta, la simboleggia; che ha volontà di imporre una sorta di flat tax sui redditi d’impresa, capace di contribuire al rilancio dell’impantanata economia USA per cercare di garantire circa 25 milioni di posti di lavoro in dieci anni. Uno che vuole riproporre negli annichiliti 2000l’American Dream. Uno per cui popolo fa rima con Nazione e Stati Uniti non necessariamente con guerra al mondo. Obama, Madonna, Robert De Niro, Beyonce, Jennifer Lopez, Pedro Almodovar, George Clooney, Lady Gaga, Barbra Streisand, Quentin Tarantino, Anastacia, Adele, John Travolta, Eva Longoria, Morgan Freeman, Julia Roberts, Bono degli U2, Dustin Hoffman, Magic Johnson, Kim Kardashian, Leonardo Di Caprio, Bruce Springsteen, Alicia Keys, Tom Hanks, Naomi Campbell. Mancava Superman, Charlot e l’omino delle Pringles. L’esercito contro Trump in marcia per il progresso, per un’America democratica, progressista, che ripudia il razzismo, i confini ma che avrebbe ben volentieri continuato nella frattura con la Russia, che si sarebbe impicciata negli affari siriani e che si sarebbe tappata le orecchie dopo il grande botto dell’ennesima bombetta intelligente piovuta dal cielo a stelle e strisce. Quella che combatte la fame nel mondo ma che fa l’amore coi potenti prepotenti – Soros, dice niente? -. Così, a soli due giorni dall’insediamento di Trump, eccole le superstar disperate, un’altra volta ancora. In origine si andava dal pianto a cascata di Katy Perry – su Twitter: “spazzerò via con le lacrime le mie ciglia finte questa notte” -, all’odio di Lady Gaga – sotto la Trump Tower col cartello “Love Trumps Hate” -; poi Cher che tifava per i manifestanti in protesta per la vittoria di Trump, organizzati in un corteo, come neanche per il lavoro che non c’è, come neanche per chiedere più diritti, come neanche fosse un solo giorno che il nuovo presidente è stato eletto, fino allo sdegno di Bon Jovi, Micheal Moore, Bruce Springsteen e compagnia cantando, alla marcia delle donne. Chi in strada, chi sui social. E le totali contraddizioni, tipiche dell’ambiente chic-militante, vedasi Madonna, una che apre la marcia delle donne per ribadire che esse non sono oggetti, contro il sessismo e per il rispetto per l’universo femminile; la stessa che, però, promise pompini a chi avesse votato Clinton. “Ironia, delusione, commozione, ma anche speranza e poi rabbia. Tanto che non mancano i vip che decidono di scendere in piazza con i manifestanti che stanno protestando contro il neo presidente in varie città degli Usa”, scriveva Beatrice Montini sul Corriere. Non è il momento giusto per i divi di fare affari. I cantori della libertà e di un universo veramente democratico, nun ce vonno sta, proprio quando la democrazia ha fatto il suo corso, proprio quando si manifesta pura la bellezza nel vedere rispettata la libertà intellettuale degli americani che hanno scelto liberamente, contro tutto, contro tutti, contro il sistema dei sondaggi e delle previsioni dei potenti sciamani dei mass media, chi doveva essere il proprio 45esimo presidente, offrendo al mondo una ventata d’aria fresca per spazzare via il putrido e marcescente puzzo oligarchico che, giusto da qualche anno, sta invadendo il globo sotto e sopra, tenendolo in ostaggio con scelte perverse nelle alleanze mondiali, nella gestione delle società, capaci di intaccare profondamente ogni valore morale fondante alla base dell’Occidente. Artisti. Scrive Maurizio Acerbi sul Giornale: “E adesso come la mettiamo con tutti gli endorsement dei divi di Hollywood? Con la lista delle 167 star che hanno appoggiato pubblicamente la Clinton, la candidata alla Casa Bianca con il maggior numero di testimonial della storia? Le stelle, per quattro anni, staranno a guardare, interrogandosi sul loro reale appeal sulla gente, pari a zero. Da DiCaprio a Clooney, da De Niro a Hoffman, da Damon a Penn (e mi fermo qua), tutti hanno fatto a gara per salire sul carro del presunto vincitore, ritrovandosi a piedi. A questi, aggiungeteci i “grandi elettori” del mondo musicale (Madonna, tanto per citarne uno) e vedrete che lo scorsa notte si è materializzata una verità ai più invisa: lo star system conta in politica, come il due di coppe quando la briscola è bastoni. A cosa è servito mandare messaggi sempre più espliciti e meno subliminali nei film?” Pensando ai Benigni di casa nostra, rimaniamo a bocca aperta assistendo a questa grande, sciatta e capricciosa insurrezione. Ma non siamo gli unici. Di sicuro anche Madonna sarà rimasta a bocca aperta.
Quella svista sulle foto della marcia delle donne anti-Trump. La “Marcia delle donne contro Trump” è stata raccontata in modo curioso da alcuni siti italiani. Spuntano foto di 22 anni fa, scrive Franco Grilli, Sabato 21/01/2017, su "Il Giornale". La “Marcia delle donne contro Trump” è stata raccontata in modo curioso da alcuni siti italiani. Su Repubblica.it e Huffingtonpost.it. la foto scelta per accompagnare i titoli che parlano di "500 mila manifestanti" non sono proprio attuali. E non sono certo state scattate durante la manifestazione contro il neoeletto presidente. Infatti nel caso di Repubblica.it, sopra il titolo "Marcia anti Trump, donne in piazza nel mondo. A Washington sfilano in 500mila" spunta la foto della Milion Man March di Washington a cui parteciparono, nel 1995, un milione di afroamericani. Eppure il colpo d'occhio della foto può trarre in inganno. Peccato che si tratti di un evento di 22 anni fa presentato come "massa" anti-Trump. Stessa musica sull'Huffingtonpost dove viene scelta un'altra foto che riguarda sempre la manifestazione del 1995 accompagnata dal titolo: "ll primo no a Trump arriva dalle donne". Una svista? Probabile. Ma di certo il numero dei manifestanti e delle donne che hanno sfilato contro Trump è nettamente inferiore a quello che raccontano le foto della Miolion Man March di qualche anno fa...
Le donne di Donald e quelle di sinistra. La sinistra globale rode da matti per aver perso in malo modo il controllo della Casa Bianca, per di più a favore di uno come Trump, scrive Alessandro Sallusti, Domenica 22/01/2017, su "Il Giornale". Ieri, in molte città americane e di mezzo mondo, migliaia di donne sono scese in piazza contro il presidente Trump. Dicono di voler difendere i diritti delle donne, anche se non è chiaro quale sia la minaccia. Prepariamoci: da oggi, e chissà per quanto tempo, di queste «marce civili» ne vedremo ovunque a giorni alterni, perché la sinistra globale rode da matti per aver perso in malo modo il controllo della Casa Bianca, per di più a favore di uno come Trump. Non importa che il neo presidente prometta più lavoro e meno tasse, meno finanza e più politica. Deve essere fatto passare per un pericolo, a prescindere, come successe in Italia con Berlusconi. La marcia di ieri è stata ovviamente benedetta da Hillary Clinton, che ha commentato: «Noi unite per i nostri valori». E dire che, se esistesse una logica, le donne dovrebbero marciare proprio contro la Clinton, una che ha difeso e protetto un molestatore seriale, il marito Bill, e sputtanato una delle sue vittime, la stagista Monica Lewinsky. Oppure contro il Partito democratico americano, che ha occultato l'allegra e promiscua attività sessuale dei Kennedy, icone della sinistra radical chic. E dopo le donne, toccherà agli immigrati. Già mi vedo fiaccolate democratiche in tutte le capitali del mondo al primo dollaro che Trump spenderà per completare il famigerato muro con il Messico. Muro, si badi bene, ideato, progettato e avviato dai Clinton, così come il più famoso «muro» tirato su in Europa, dopo quello di Berlino, è quello costruito, a tempo di record, dal socialista Hollande a Calais. E poi, al primo sparo americano oltre confine, sarà il turno di quei pacifisti che non hanno aperto bocca durante le numerose, e disastrose, scorribande di Obama, titolare del più vergognoso Premio Nobel per la Pace della storia. L'elenco, vedrete, sarà lungo. Trump ha detto chiaramente di volersi occupare quasi esclusivamente della rinascita americana. E che la sinistra, in tutto il mondo, vorrà occuparsi a tempo pieno di lui, imprevisto della storia che scombussola i piani dei salotti buoni e smaschera le ipocrisie del sistema: l'amata Clinton le donne le ha umiliate, Trump, almeno tre tante ne ha sposate -, le ha rese miliardarie.
DOPO MEDIA E SILICON VALLEY ANCHE LE STAR DEL CINEMA SI SCHIERANO CONTRO TRUMP, scrive Paolo Mastrolilli per la Stampa il 10 gennaio 2017. La guerra tra Hollywood e il nuovo presidente Trump è stata dichiarata ufficialmente domenica sera, con il discorso di Meryl Streep alla cerimonia di premiazione dei Golden Globes. Ora si tratta di vedere se la vincerà ancora lui, come ha fatto a novembre nelle elezioni parlando alla pancia dell'America, o se la resistenza del mondo liberal riuscirà a indebolirlo. Il problema è capire se le uscite come quella della Streep aiutano o danneggiano la sua causa. Donald ha vinto le elezioni contro l'establishment, e i suoi sostenitori erano risentiti in particolare con le élite, l' 1% più ricco del Paese, i liberal di New York e della California che vivono nel privilegio e pretendono di dettare l' agenda al resto del Paese. Sentire una ricca attrice, che usa la ricca serata per la celebrazione della sua categoria come tribuna contro il presidente, farà cambiare idea agli elettori di Trump, o li convincerà ancora di più di aver scelto bene? E i moderati, i centristi, gli incerti, quelli che magari si erano rassegnati a votare Donald solo all' ultimo momento nel segreto dell'urna, rimpiangeranno di averlo fatto dopo la tirata di Meryl, o si sentiranno più confortati nella loro decisione? Lo scontro tra queste due Americhe comunque è iniziato, e durerà per i prossimi quattro anni. Gay Talese, come d' abitudine, va controcorrente: «Sono stanco di sentire gente dello spettacolo che usa le cerimonie di premiazione per fare sermoni politici. Se vogliono guidare il Paese, si presentino alle elezioni, come avevano fatto Ronald Reagan e Arnold Schwarzenegger. Con queste uscite, peraltro, ottengono il risultato opposto a quello voluto, perché rafforzano il risentimento degli elettori di Trump verso le élite liberal».
Cominciamo dalla sostanza del discorso fatto da Maryl Streep durante la premiazione dei Golden Globes. Come lo giudica?
«Non lo giudico, perché il punto non è questo. Il problema non è condividere o meno le sue parole, ma il modo e la situazione in cui sono state pronunciate».
Lei fa lo scrittore e il giornalista, e negli Usa il Primo emendamento della Costituzione garantisce la libertà di espressione a lei e a tutti, inclusi i neonazisti, chi brucia la bandiera, o chi vuole pubblicare pornografia. Perché un'attrice non dovrebbe dire quello che pensa?
«Certo che può farlo, ma il problema è il contesto. I Golden Globes, come gli Oscar, sono una cerimonia organizzata per celebrare i migliori film dell'anno. Perché devono essere trasformati in una tribuna politica? Perché un'attrice, che oltretutto non ha presentato un film su questi temi e quindi non avrebbe una ragione diretta per discuterli, dovrebbe usare la piattaforma offerta da una premiazione per giudicare la presidenza degli Stati Uniti? Ha tutto il diritto di esprimere la sua opinione, ma in un altro contesto. Così, invece, tutto diventa una photo opportunity».
Quale sarebbe il contesto adatto?
«Ognuno può parlare della direzione del Paese dove crede, se però queste persone hanno voglia di fare politica, sono libere di candidarsi. Dal mondo dello spettacolo sono già emersi personaggi come Ronald Reagan e Arnold Schwarzenegger, e per certi versi si può sostenere che lo stesso Trump proviene almeno in parte da questa esperienza. Naturalmente gli attori sono grandi comunicatori e hanno il vantaggio della popolarità. Se vogliono usare queste doti nella politica, però, dovrebbero farlo attraverso la candidatura, come ha fatto appunto il Presidente eletto».
Ma se una persona ritiene che l'America stia andando in una direzione pericolosa, non dovrebbe sfruttare ogni occasione per denunciare i rischi?
«Io penso che le uscite come quella di Meryl Streep danneggiano la sua stessa causa, perché rafforzano la convinzione di chi ha votato Trump. Gli elettori del nuovo presidente lo hanno scelto proprio contro l'establishment, che nella loro mente include le élite liberal come quella di Hollywood. Prendendo una posizione così netta, e sfruttando una sede non appropriata a cui gli altri cittadini non hanno accesso, la Streep ha confermato tutti questi pregiudizi. Forse ha soddisfatto chi era già contro Trump, ma non credo che abbia fatto altri proseliti, e invece ha solidificato le convinzioni dei suoi elettori».
L’IPOCRISIA DI MERYL STREEP. Piers Morgan per “Mail On Line”. Oh no Meryl, anche tu? Proprio quando pensavo avessimo finito con gli istrioni che odiano Trump, ecco che la più grande star di Hollywood si unisce alla moda e infilza con un altro stiletto il Presidente-eletto, dieci giorni prima dell’inaugurazione. Chiariamo subito una cosa: io amo Meryl Streep. E’ la più grande attrice della storia (e non come ha ipocritamente twittato Trump ‘la più sopravvalutata di Hollywood’). E, per esperienza personale, posso dire che è anche una donna deliziosa, incredibilmente intelligente, calorosa, divertente e perbene. Un modello perfetto per gli attori e per le femministe. Perciò, quando lei parla, il mondo ascolta. Ai Golden Globes ha ritirato il premio e approfittato per sferrare un attacco personale a Trump. Ha iniziato dicendo: «Voi, stampa estera, e tutti noi in questa sala, apparteniamo ai segmenti più diffamati dalla società americana» e la telecamera ha inquadrato centinaia di ricchi, i più privilegiati della società americana, seduti e con indosso abiti da 20.000 dollari, che ridevano ad alta voce per questo orribile vittimismo. Ha aggiunto che “se cacciassimo da Hollywood tutti gli stranieri e la gente che viene da fuori, non resterebbe nulla da guardare se non il football e le arti marziali. Che non sono arti”. Wow. Non sentivo una simile snobberia elitaria da quando Hillary Clinton etichettò i sostenitori di Trump ‘un branco di miserabili’. Per sua informazione, Ms Streep, milioni di normali americani amano il football e sarebbero felici di guardarlo al posto del prossimo film di Woody Allen.
Bufera su Charlie Sheen: "Caro Dio, il prossimo sia Trump, ti prego". È scoppiata una furiosa polemica per un tweet pubblicato sui social network dal noto attore hollywoodiano, scrive Marta Proietti, Giovedì 29/12/2016, su "Il Giornale". Il 2016 è stato un anno caratterizzato da molte morti illustri. Dal cantante George Michael all'attrice Carrie Fisher, "principessa Leia" di Star wars, a cui è poi seguito il decesso della mamma. Ad hollywood però qualcuno spera che il prossimo a morire sia il neopresidente eletto Donald Trump. È scoppiata una furiosa polemica dopo che l'attore Charlie Sheen ha pubblicato un tweet sui social network. "Caro Dio, il prossimo sia Trump, ti prego", ha scritto Sheen, che pure si è di recente proclamato repubblicano, attirandosi l'ira dei conservatori.
Lo schifo statunitense…scrive Alessandro Bertirotti l'1 gennaio 2017 su “Il Giornale”. È tutta questione di...indecenza. Leggere questo tipo di notizia ci fa ben capire come siamo ridotti, e mi riferisco all’intera umanità che abita indegnamente questa meravigliosa terra. È vero che internet è un grande secchio di spazzatura, all’interno del quale, però e con la giusta attenzione, è possibile rinvenire occasioni di studio, confronto e miglioramento. Certo, il prezzo è proprio di questo tipo: leggere notizie che evidenziano l’infimo livello di qualche esponente umano pubblico, come nel caso di questo attorucolo. Che gli attori siano, specialmente se hollywoodiani, quasi inutili individui para-pensanti non è novità. Il lusso delle feste inutili, la frequentazione con droghe d’abuso, la solitudine e la depressione della ricchezza, l’esistenza reale confusa con quella virtuale: tutte situazioni che inducono ad espressioni di questo tipo. Io non so come si comporterà Donald Trump, mentre so di certo come si è comportato Barak Obama: il peggior presidente che gli Stati Uniti d’America abbiano avuto in tutta la loro storia. Ossia, quel presidente che ha ricevuto il premio Nobel per la Pace nel 2009, e che ha seguito i consigli di una come la Clinton, la quale non è proprio del tutto estranea all’Isis, alla Libia e a tutto quel difficile mondo che si chiama Siria. Dunque, prima di augurare la morte a qualcuno e pubblicamente, sarebbe forse più civile imparare a tacere, e verificare, con attenzione politicamente corretta, quali saranno i comportamenti che il nuovo Presidente degli Stati Uniti vorrà adottare, sia verso il Paese che lo ha eletto legittimamente, che verso la comunità internazionale. Intanto, loro, gli Stati Uniti, votano ed hanno un Presidente eletto, noi, in questa povera Italia, anche se legittimato dalla Costituzione (che abbiamo, deo gratias, salvato…) chissà quando torneremo a votare.
Come Obama ha aiutato l’Isis, scrive il 25 gennaio 2017 Giampaolo Rossi su "Gli Occhi della Guerra" su “Il Giornale”. È il 22 settembre del 2016 e a New York, nella sede della Missione olandese alle Nazioni Unite, si svolge una riunione riservata; anzi riservatissima. Il Segretario di Stato dell’amministrazione Obama, John Kerry, s’incontra a porte chiuse con un gruppo di dissidenti siriani anti-Assad. Oggetto della discussione: provare a capire i possibili sviluppi della guerra e definire il ruolo degli Stati Uniti. La riunione viene registrata segretamente da uno dei presenti ed il suo contenuto è oggi integralmente reso libero da Wikileaks e accessibile sul web. In quei giorni Washington e Mosca si erano accordati per un “cessate il fuoco” che avrebbe dovuto consentire interventi umanitari per Aleppo e definire meglio sul terreno la distinzione tra ribelli moderati e combattenti jihadisti. Ma quattro giorni prima di questa riunione, gli aerei americani avevano violato il cessate il fuoco bombardando (ufficialmente “per errore”), le postazioni dell’esercito arabo-siriano a Deir Ezzor, uccidendo 60 soldati di Assad che difendevano con i denti l’accerchiamento della sacca strategica dai mercenari dell’Isis. Secondo un articolo del New York Times pubblicato il 30 settembre (di cui parleremo in seguito) la riunione vedeva attorno al tavolo circa 20 persone: oltre a Kerry e al suo staff, i rappresentanti di quattro gruppi anti-Assad che fornivano soccorso e servizi medici nelle zone controllate dai ribelli (tra i quali è facile immaginare anche i leggendari Elmetti Bianchi di cui abbiamo parlato qui) e diplomatici di almeno tre o quattro paesi della coalizione a guida Usa. Come scrive il quotidiano, la registrazione fu fatta “da un partecipante non-siriano e confermata nella sua autenticità da parecchi altri presenti”. Nel colloquio John Kerry esprime frustrazione per l’impossibilità degli Usa di intervenire direttamente nel conflitto siriano; mentre la Russia può farlo perché ha avuto la richiesta diretta del governo di Assad (che è appunto il governo legittimo). Ma c’è un passaggio incredibile che svela il doppio gioco adottato in Medio Oriente dall’amministrazione Obama: dal minuto 26 della registrazione si sente Kerry affermare: “La ragione per cui la Russia è intervenuta in Siria è perché l’Isis stava diventando sempre più forte e minacciando Damasco… per questo la Russia è intervenuta perché non volevano un governo Daesh”. E poi la parte più sconvolgente: “Noi sapevamo che l’Isis stava crescendo, lo stavamo osservando. Noi abbiamo visto che Daesh cresceva in forza e abbiamo pensato che questo avrebbe potuto minacciare Assad costringendolo a negoziare… ma invece di negoziare lui ha ricevuto l’aiuto di Putin…” In altre parole, Kerry conferma che mentre l’obiettivo della Russia era combattere l’Isis, l’obiettivo degli Usa era combattere Assad anche con l’aiuto dell’Isis. Per l’amministrazione Obama sia nella gestione estera Clinton che Kerry, i tagliagole dell’Isis, l’espansione del Califfato, le stragi in Europa, il dramma profughi sono stati, tutto sommato, mali minori rispetto all’obiettivo primario: abbattere Assad e completare l’effetto domino iniziato con le Primavere Arabe, con la guerra in Libia e con il caos mediorientale. Le parole di Kerry svelano il grande imbroglio della retorica sulla “guerra al terrorismo” di Obama in questi anni. E arriviamo al ruolo dei media democratici. Il New York Times riceve la registrazione della riunione per primo e ne dà notizia in un articolo del 30 Settembre 2016. Ma cosa fa il grande giornale liberal, campione di moralismo e di retorica sulla libera informazione? Censura la parte più compromettente pronunciata da John Kerry; nell’articolo inserisce parti dell’audio ma, guarda caso, non questa, che doveva essere così imbarazzante da non venire riportata neanche nel resoconto della riunione. Alla Cnn fanno anche peggio: pubblicano in un primo tempo sul sito l’intero file audio ma poi lo cancellano (una volta resisi conto del reale contenuto della registrazione) sostituendolo con un breve servizio, adducendo motivi legati al rischio di identificazione dei presenti. La registrazione non conferma quello che Donald Trump ha ripetuto in campagna elettorale: e cioè che Obama ha creato l’Isis. Ma sicuramente conferma che Obama non ha mai combattuto realmente l’Isis; ma al contrario, lo ha usato per il proprio disegno di destabilizzazione del Medio Oriente. D’altro canto, se dietro l’Isis non c’era lo zampino della Cia di Obama, sicuramente c’era quello dei suoi alleati sauditi come rivelò la stessa Hillary Clinton, in una mail svelata da Wikileaks, dove la candidata democratica, mentre riceveva milioni di dollari di finanziamento dalle oscurantiste monarchie del Golfo per la sua Fondazione, ammetteva che l’Arabia Saudita (e il Qatar) finanziavano l’Isis. La vera ragione dell’opposizione senza precedenti a Donald Trump è proprio questa: un Presidente eletto ma non controllabile dal sistema di potere che ha governato l’America in questi anni (quello della Cia, di Soros e di Goldman Sachs), potrebbe svelare il vero volto dell’élite criminale che ha governato l’America in questi anni e di cui Obama è stato il volto pulito ed ecumenico.
Elmetti bianchi candidati all’Oscar, scrive il 26 gennaio 2017 Roberto Vivaldelli su "Gli Occhi della Guerra" su "Il Giornale". “Miglior documentario”. L’Academy Awards di Hollywood candida all’Oscar “White Elmets”, il documentario-cortometraggio prodotto dal colosso statunitense Netlifx incentrato sulle gesta degli elmetti bianchi siriani, i 3 mila volontari diventati famosi in tutto il mondo per le azioni di soccorso a favore dei civili nelle macerie di Aleppo Est, nelle aree un tempo occupate dai ribelli. Nati nel 2013, i volontari sono così chiamati proprio per i caschi bianchi protettivi indossati durante le operazioni che svolgono sul campo a sostegno della popolazione. “White Elmets – ha affermato Raed Saleh, leader del gruppo – rappresenta una nuova opportunità di trasmettere il nostro messaggio morale e umanitario”. La pellicola è diretta da Orlando von Einsiedel, ed è uno dei tanti film diffusi in streaming nominati quest’anno all’89esima premiazione degli Oscar. “Sono così orgoglioso di aver curato la fotografia di questo film e di questa nomination” ha scritto su twitter il fotografo Khaled Khatib.
Riconosciuti dai media e dalle istituzioni occidentali. Un importante riconoscimento internazionale che giunge dopo le recenti dichiarazioni dell’attore George Clooney, intenzionato a girare un film sul tema. Senza dimenticare che questi “angeli”, così come molti li hanno descritti, figuravano persino tra i candidati del Nobel per la Pace del 2016. Dopotutto la campagna mediatica occidentale a loro favore è stata imponente, sin dagli inizi. Lo stesso Guardian, ha lanciato una petizione per sostenere la loro volata al Nobel; il Foglio dello scorso 5 ottobre ha invece dedicato una pagina intera al fondatore dei “White Helmets” mentre il Time ha riservato loro una copertina. Lo stesso ha fatto recentemente Left, scatenando un feroce dibattito sul web.
Sono davvero degli “angeli”? L’accusa della giornalista Vanessa Beeley. Ma chi sono davvero gli elmetti bianchi? Degli eroici e pavidi volontari, emblema di moralità, coraggio, altruismo e ora nuovi idoli dell’establishment hollywodiano? La giornalista indipendente Vanessa Beeley si è più volte occupata degli elmetti bianchi - “Difesa civile siriana” – e dei presunti legami con i terroristi di Jabhat Al-Nusra (ora Jabhat Fateh al-Sham), la diramazione siriana di Al-Qaeda. “Il fondatore dell’organizzazione – scrive la giornalista – James Le Mesurier, si è laureato presso la Elite Royal Military Academy della Gran Bretagna, a Sandhurst, ed è un ufficiale britannico che faceva parte dell’intelligence, coinvolto in in una lunga serie di interventi militarti della Nato in molti teatri di guerra, tra cui Bosnia, Kosovo e Iraq. Egli vanta anche una serie di incarichi di alto profilo presso le Nazioni Unite, l’Unione europea, e nel Regno Unito. Inoltre, ha stretti legami con “La Academi”, la compagnia militare privata statunitense fondata nel 1997 da Erik Prince”.
Finanziati dai governi e vicini ad Al-Nusra. Vanessa Beeley ricostruisce la storia e origini dei volontari siriani: “Con oltre 60 milioni di euro che provengono dalla Gran Bretagna e da altre nazioni come l’Olanda – osserva – gli elmetti bianchi rappresentano una delle ong più foraggiate nel teatro della guerra siriana. Essi sostengono di non essere legati ad alcun gruppo in Siria e di essere indipendenti. In realtà sono ben integrati con Al-Nusra e collegati con la maggioranza delle compagini terroristiche in Siria. Durante il mio recente viaggio in Siria, mi ha ancora una volta colpito la risposta dalla maggior parte dei siriani quando chiedevo loro se sapessero che fossero caschi bianchi: la maggior parte delle persone non ne aveva mai sentito parlare”. In un video, che ha scatenato il dibattito sui social, alcuni membri degli elmetti bianchi inscenano un’azione di soccorso per il “mannequin challenge”: documento che viene spesso usato per minare la credibilità dell’organizzazione umanitaria.
Il ruolo degli elmetti bianchi nella crisi dell’acqua di Damasco. E non è finita. Nelle scorse settimane, Damasco è rimasta senz’acqua per almeno tre settimane a causa di un guasto individuato presso la fonte di Wadi Barada, a 25 km dalla capitale siriana. Il New York Times aveva citato il servizio fotografico di un’attivista anti-Assad, il quale accusava il governo siriano ed Hezbollah di aver provocato il guasto. È lo stesso reporter, membro attivo degli elmetti bianchi, a pubblicare sui social un comunicato stampa firmato da sedicenti “gruppi civili” – tra cui appare anche il logo dei White Helmets – in cui offriva, previo il sostegno della comunità internazionale, “di stabilire, attraverso una commissione, la responsabilità del guasto che sta lasciando senz’acqua milioni di persone a Damasco e garantire il ripristino e il funzionamento della fonte di Ain al-Fijah springs il prima possibile sotto la supervisione delle Nazioni Unite”. Peccato che sia sufficiente fare una piccola ricerca e visionare il profilo Facebook di questo membro della blasonata organizzazione umanitaria per imbattersi in comunicati del Fronte islamico – fazione salafita e islamista alleata ad Al-Nusra – o in alcune fotografie di manifestazioni dove sventola la bandiera di Al-Nusra. Hollywood è consapevole di quello che sta facendo?
Venti anni da Srebrenica, cronistoria di un genocidio. Oltre 8 mila musulmani massacrati dai serbo-bosniaci in 3 giorni, le foto della commemorazione, scrive Nadira Sehovic il 24 marzo 2016 su "L'Ansa". Vent'anni fa in questi giorni - era l'11 luglio - l'Europa visse una delle pagine più nere della sua storia recente: nell'estate del 1995 le truppe serbo-bosniache agli ordini del generale Ratko Mladic irruppero nella cittadina di Srebrenica, assediata da tre anni, e in pochi giorni massacrarono più di 8 mila musulmani - 8.372 la cifra ufficiale - per lo più uomini e ragazzi. Oltre agli abitanti, a Srebrenica c'erano anche i profughi che in tre anni di guerra si erano a loro volta rifugiati, scacciati dalle città e dai villaggi vicini, in quella che le Nazioni Unite avevano dichiarato zona protetta: in tutto 40.000 persone. Il giorno precedente la caduta, il 10 luglio, a causa dei bombardamenti, circa diecimila musulmani, per lo più donne, vecchi e bambini, cercarono rifugio a Potocari, nella base dei caschi blu olandesi, mentre circa 15 mila uomini di tutte le età si incamminarono attraverso i boschi in direzione di Tuzla, sotto il controllo delle forze governative. Alcuni erano civili, altri militari, dei quali solo un terzo armati. La Nato cominciò a bombardare i carri armati serbi che avanzavano verso la città, ma dopo che i serbi, che già tenevano in ostaggio 300 caschi blu francesi e britannici, minacciarono di attaccare i soldati dell'Onu olandesi, i bombardamenti cessarono. L'11 luglio Ratko Mladic, oggi sotto processo al Tribunale penale dell'Aja (Tpi) per genocidio e crimini di guerra e contro l'umanità, entrò in una Srebrenica deserta; nel mentre verso sera a Potocari c'erano già 20-25 mila rifugiati. Alcune migliaia riuscirono a entrare nel recinto della base olandese, altri si accamparono fuori. Il 12 luglio i soldati di Mladic cominciarono a dividere gli uomini, tra i 15 e i 65 anni, da donne, bambini e anziani. Gli uomini vennero uccisi sul posto o portati in varie strutture nell'area di Bratunac. Oltre 23 mila donne, bambini piccoli e anziani vennero invece deportati con dei pullman e camion verso Tuzla entro la sera del 13 luglio. Quello stesso giorno i caschi blu olandesi costrinsero i rifugiati a lasciare la base consegnandoli praticamente nelle mani dei carnefici. Fra il 12 e il 23 luglio una parte degli uomini e ragazzi che si erano avviati verso Tuzla attraverso i boschi vennero uccisi in imboscate, decimati dai bombardamenti, si arresero e furono fatti prigionieri in varie località. Si stima che nel pomeriggio del 13 luglio oltre sei mila musulmani vennero fatti prigionieri. Le prime esecuzioni di massa cominciarono nel pomeriggio del 13 con la fucilazione di 150 musulmani a Cerska, e si conclusero il 16 luglio, quando cominciarono gli scavi delle fosse comuni. Un mese e mezzo dopo, militari e poliziotti serbo-bosniaci, per occultare le prove del massacro, riesumarono e riseppellirono i corpi delle vittime in altre località della zona. Fino ad oggi sono state aperte 93 fosse comuni, contenenti ossa dalle quali si sono ottenuti 7.033 profili Dna: comparati con i campioni dei congiunti sopravvissuti hanno permesso l'identificazione di 6.930 vittime. Per il genocidio di Srebrenica sono state finora incriminate per crimini di guerra 70 persone: 20 dal Tribunale internazionale dell'Aja (Tpi) e 50 dal tribunale di Sarajevo. Tredici imputati, tra cui tre comandanti militari serbi, sono stati condannati all'ergastolo.
Srebrenica: esce fuori la verità, il massacro fu compiuto da tagliagole bosniaci musulmani, scrive sul suo blog Gianni Fraschetti il 22 Gennaio 2016. Finalmente emerge la verità su Srebrenica: i civili non furono uccisi dai Serbi, ma dagli stessi musulmani bosniaci per ordine di Alija Izetbegovic, presidente dei musulmani bosniaci, d'accordo con Bill Clinton. Una operazione, come le bombe di mortaio sul mercato di Sarajevo, per incolpare i serbi e bombardarli. Un po' come il gas nervino in Siria. Ecco l'articolo citato di Nicola Bizzi pubblicato in rete. Dopo la confessione shock del politico bosniaco Ibran Mustafić, veterano di guerra, chi restituirà la dignità a Slobodan Milošević, ucciso in carcere, a Radovan Karadžić e al Generale Ratko Mladić, ancora oggi detenuti all’Aja? Lo storico russo Boris Yousef, in un suo saggio del 1994, scrisse quella che ritengo una sacrosanta verità: «Le guerre sono un po’ come il raffreddore: devono fare il loro decorso naturale. Se un ammalato di raffreddore viene attorniato da più medici che gli propinano i farmaci più disparati, spesso contrastanti fra loro, la malattia, che si sarebbe naturalmente risolta nel giro di pochi giorni, rischia di protrarsi per settimane e di indebolire il paziente, di minarlo nel fisico, e di arrecare danni talvolta permanenti e imprevedibili». Yousef scrisse questa osservazione nel Luglio del 1994, nel bel mezzo della guerra civile jugoslava, un anno prima della caduta della Repubblica Serba di Krajina e sedici mesi prima dei discussi accordi Dayton che scontentarono in Bosnia tutte le parti in campo, imponendo una situazione di stallo potenzialmente esplosiva. E ritengo che tale osservazione si adatti a pennello al conflitto jugoslavo. Un lungo e sanguinoso conflitto che, formalmente iniziato nel 1991, con la secessione dalla Federazione delle repubbliche di Slovenia e Croazia, era stato già da tempo preparato e pianificato da alcune potenze occidentali (con in testa l’Austria e la Germania), da diversi servizi segreti, sempre occidentali, da gruppi occulti di potere sovranazionali e transnazionali (Bilderberg, Trilaterale, Pinay, Ert Europe, etc.) e, per certi versi, anche dal Vaticano. La Jugoslavija, forte potenza economica e militare, da decenni alla guida del movimento dei Paesi non Allineati, dopo la morte del Maresciallo Tito, avvenuta nel 1980, era divenuta scomoda e ingombrante e, di conseguenza, l’obiettivo geo-strategico primario di una serie di avvoltoi che miravano a distruggerla, a smembrarla e a spartirsi le sue spoglie. Si assistette così ad una progressiva destabilizzazione del Paese, avviata già nel biennio 1986-87, destabilizzazione alla quale si oppose con forza soltanto Slobodan Milošević, divenuto Presidente della Repubblica Socialista di Serbia, e che toccò il culmine con la creazione in Croazia, nel Maggio del 1989, dell’Unione Democratica Croata (Hrvatska Demokratska Zajednica o HDZ), partito anti-comunista di centro-destra che a tratti riprendeva le idee scioviniste degli Ustascia di Ante Pavelić, guidato dal controverso ex Generale di Tito Franjo Tuđman. Sarebbe lungo in questa sede ripercorrere tutte le tappe che portarono al precipitare degli eventi, alla necessità degli interventi della Jugoslosvenska Narodna Armija dapprima in Slovenia e poi in Croazia, alla definitiva scissione dalla Federazione delle due repubbliche ribelli e all’allargamento del conflitto nella vicina Bosnia. Si tratta di eventi sui quali esiste moltissima documentazione, la maggior parte della quale risulta però essere fortemente viziata da interpretazioni personali e di parte degli storici o volutamente travisata da giornalisti asserviti alle lobby di potere mediatico-economico europee ed americane. Giornalisti che della Jugoslavija e della sua storia ritengo che non abbiano mai capito niente. Come ho scritto poc’anzi, ritengo che la saggia affermazione di Boris Yousef si adatti molto bene al conflitto civile jugoslavo. A prescindere dal fatto che esso è stato generato da palesi ingerenze esterne, ritengo che sarebbe potuto terminare naturalmente manu militari nel giro di pochi mesi, senza le continue ingerenze, le pressioni e le intromissioni della sedicente ‘Comunità Internazionale’, delle Nazioni Unite e di molteplici altre organizzazioni che agivano dietro le quinte (Fondo Monetario Internazionale, OSCE, UNHCR, Unione Europea e criminalità organizzata italiana e sud-americana). Sono state proprio queste ingerenze (i vari farmaci dagli effetti contrastanti citati nella metafora di Yousef) a prolungare il conflitto per anni, con la continua richiesta, dall’alto, di tregue impossibili e non risolutive, e con la pretesa di ridisegnare la cartina geografica dell’area sulla base delle convenienze economiche e non della realtà etnica e sociale del territorio. Ma si tratta di una storia in buona parte ancora non scritta, perché sono state troppe le complicità di molti leader europei, complicità che si vuole continuare a nascondere, ad occultare. Ed è per questo che gli storici continuano ad ignorare che la Croazia di Tuđman costruì il suo esercito grazie al traffico internazionale di droga (tutte quelle navi che dal Sud America gettavano l’ancora nel porto di Zara, secondo voi cosa contenevano?). È per questo che continuano a non domandarsi per quale motivo tutto il contenuto dei magazzini militari della defunta Repubblica Democratica Tedesca siano prontamente finiti nelle mani di Zagabria. Si tratta di vicende che conosco molto bene, perché ho trascorso nei Balcani buona parte degli anni ’90, prevalentemente a Belgrado e a Skopje. Parlo bene tutte le lingue dell’area, compresi i relativi dialetti, e ho avuto a lungo contatti con l’amministrazione di Slobodan Milošević, che ho avuto l’onore di incontrare in più di un’occasione. Sono stato, fra l’altro, l’unico esponente politico italiano ad essere presente ai suoi funerali, in una fredda giornata di Marzo del 2006. Sono stato quindi un diretto testimone dei principali eventi che hanno segnato la storia del conflitto civile jugoslavo e degli sviluppi ad esso successivi. Ho visto con i miei occhi le decine di migliaia di profughi serbi costretti a lasciare Knin e le altre località della Srpska Republika Krajina, sotto la spinta dell’occupazione croata delle loro case, avvenuta con l’appoggio dell’esercito americano. Ho seguito da vicino tutte le tappe dello scontro in Bosnia, i disordini nel Kosovo, la galoppante inflazione a nove cifre che cambiava nel giro di poche ore il potere d’acquisto di una banconota. Ho vissuto il dramma, nel 1999, dei criminali bombardamenti della NATO su Belgrado e su altre città della Serbia. Ed è per questo che non ho mai creduto – a ragione – alle tante bugie che riportavano la stampa europea e quella italiana in primis. Bugie e disinformazioni dettate da quell’operazione di marketing pubblicitario (non saprei come altro definirla) pianificata sui tavoli di Washington e di Langley che impose a tutta l’opinione pubblica la favoletta dei Serbi cattivi aguzzini di poveri e innocenti Croati, Albanesi e musulmani bosniaci. Favoletta che ha però incredibilmente funzionato per lunghissimo tempo, portando all’inevitabile criminalizzazione e demonizzazione di una delle parti in conflitto e tacendo sui crimini e sulle nefandezze delle altre. La guerra, e a maggior ragione una guerra civile, non è ovviamente un pranzo di gala e non vi si distribuiscono caramelle e cotillon. In guerra si muore. In guerra si uccide o si viene uccisi. La guerra significa fame, sofferenza, freddo, fango, sudore, privazioni e sangue. Ed è fatta, necessariamente, anche di propaganda. Durante il lungo conflitto civile jugoslavo nessuno può negare che siano state commesse numerose atrocità, soprattutto dettate dal risveglio di un mai sopito odio etnico. Ma mai nessun conflitto, dal termine della Seconda Guerra Mondiale, ha visto un simile massiccio impiego di false flag, azioni pianificate ad arte, quasi sempre dall’intelligence, per scatenare le reazioni dell’avversario o per attribuirgli colpe non sue. Ho già spiegato il concetto di false flag in numerosi miei articoli, denunciando l’escalation del loro impiego su tutti i più recenti teatri di guerra. Fino ad oggi la più nota false flag della guerra civile jugoslava era la tragica strage di civili al mercato di Sarajevo, quella che determinò l’intervento della NATO, che bombardò ripetutamente, per rappresaglia, le postazioni serbo-bosniache sulle colline della città. Venne poi appurato con assoluta certezza che fu lo stesso governo musulmano-bosniaco di Alija Izetbegović a uccidere decine di suoi cittadini in quel cannoneggiamento, per far ricadere poi la colpa sui Serbi. E quella che io ho sempre ritenuto la più colossale false flag del conflitto, ovvero il massacro di oltre mille civili musulmani avvenuto a Srebrenica, del quale fu incolpato l’esercito serbo-bosniaco comandato dal Generale Ratko Mladić, che da allora venne accusato di ‘crimi di guerra’ e braccato dal Tribunale Penale Internazionale dell’Aja fino al suo arresto, avvenuto il 26 Maggio 2011, si sta finalmente rivelando in tutta la sua realtà. In tutta la sua realtà, appunto, di false flag. I giornali italiani, che all’epoca scrissero titoli a caratteri cubitali per dipingere come un macellaio il Generale Mladić e come un folle criminale assetato di sangue il Presidente della Repubblica Serba di Bosnia Radovan Karadžić, anch’egli arrestato nel 2008 e sulla cui testa pendeva una taglia di 5 milioni di Dollari offerta dagli Stati Uniti per la sua cattura, hanno praticamente passato sotto silenzio una sconvolgente notizia. Una notizia a cui ha dato spazio nel nostro Paese soltanto il quotidiano Rinascita, diretto dall’amico Ugo Gaudenzi, e fa finalmente piena luce sui fatti di Srebrenica, stabilendo che la colpa non fu dei vituperati Serbi, ma dei musulmani bosniaci. Ibran Mustafić, veterano di guerra e politico bosniaco-musulmano, probabilmente perché spinto dal rimorso o da una crisi di coscienza, ha rilasciato ai media una sconcertante confessione: almeno mille civili musulmano-bosniaci di Srebrenica vennero uccisi dai loro stessi connazionali, da quelle milizie che in teoria avrebbero dovuto assisterli e proteggerli, durante la fuga a Tuzla nel Luglio 1995, avvenuta in seguito all’occupazione serba della città. E apprendiamo che la loro sorte venne stabilita a tavolino dalle autorità musulmano-bosniache, che stesero delle vere e proprie liste di proscrizione di coloro a cui «doveva essere impedito, a qualsiasi costo, di raggiungere la libertà». Come riporta Enrico Vigna su Rinascita, Ibran Mustafić ha pubblicato un libro, Caos pianificato, nel quale alcuni dei crimini commessi dai soldati dell’esercito musulmano della Bosnia-Erzegovina contro i Serbi sono per la prima volta ammessi e descritti, così come il continuo illegale rifornimento occidentale di armi ai separatisti musulmano-bosniaci, prima e durante la guerra, e – questo è molto significativo – anche durante il periodo in cui Srebrenica era una zona smilitarizzata sotto la protezione delle Nazioni Unite. Mustafić racconta inoltre, con dovizia di particolari, dei conflitti tra musulmani e della dissolutezza generale dell’amministrazione di Srebrenica, governata dalla mafia, sotto il comandante militare bosniaco Naser Orić. A causa delle torture di comuni cittadini nel 1994, quando Orić e le autorità locali vendevano gli aiuti umanitari a prezzi esorbitanti invece di distribuirli alla popolazione, molti bosniaci fuggirono volontariamente dalla città. «Coloro che hanno cercato la salvezza in Serbia, sono riusciti ad arrivare alla loro destinazione finale, ma coloro che sono fuggiti in direzione di Tuzla (governata dall’esercito musulmano) sono stati perseguitati o uccisi», svela Mustafić. E, ben prima del massacro dei civili musulmani di Srebrenica nel Luglio 1995, erano stati perpetrati da tempo crimini indiscriminati contro la popolazione serba della zona. Crimini che Mustafić descrive molto bene nel suo libro, essendone venuto a conoscenza già nel 1992, quando era fuggito da Sarajevo a Tuzla. «Lì – egli scrive – il mio parente Mirsad Mustafić mi mostrò un elenco di soldati serbi prigionieri, che furono uccisi in un luogo chiamato Zalazje. Tra gli altri c’erano i nomi del suo compagno di scuola Branko Simić e di suo fratello Pero, dell’ex giudice Slobodan Ilić, dell’autista di Zvornik Mijo Rakić, dell’infermiera Rada Milanović. Inoltre, nelle battaglie intorno ed a Srebrenica, durante la guerra, ci sono stati più di 3.200 Serbi di questo e dei comuni limitrofi uccisi». Mustafić ci riferisce a riguardo una terribile confessione del famigerato Naser Orić, confessione che non mi sento qui di riportare per l’inaudita crudezza con cui questo criminale di guerra descrive i barbari omicidi commessi con le sue mani su uomini e donne che hanno avuto la sventura di trovarsi alla sua mercé. Ma voglio citare il racconto di uno zio di Mustafić, anch’esso riportato nel libro: «Naser venne e mi disse di prepararmi subito e di andare con la Zastava vicino alla prigione di Srebrenica. Mi vestii e uscii subito. Quando arrivai alla prigione, loro presero tutti quelli catturati precedentemente a Zalazje e mi ordinarono di ritrasportarli lì. Quando siamo arrivati alla discarica, mi hanno ordinato di fermarmi e parcheggiare il camion. Mi allontanai a una certa distanza, ma quando ho visto la loro furia ed il massacro è iniziato, mi sono sentito male, ero pallido come un cencio. Quando Zulfo Tursunović ha dilaniato il petto dell’infermiera Rada Milanovic con un coltello, chiedendo falsamente dove fosse la radio, non ho avuto il coraggio di guardare. Ho camminato dalla discarica e sono arrivato a Srebrenica. Loro presero un camion, e io andai a casa a Potocari. L’intera pista era inondata di sangue». Da quanto ci racconta Mustafić, gli elenchi dei ‘bosniaci non affidabili’ erano ben noti già da allora alla leadership musulmana ed al Presidente Alija Izetbegović, e l’esistenza di questi elenchi è stata confermata da decine di persone. «Almeno dieci volte ho sentito l’ex capo della polizia Meholjić menzionare le liste. Tuttavia, non sarei sorpreso se decidesse di negarlo», dice Mustafić, che è anche un membro di lunga data del comitato organizzatore per gli eventi di Srebrenica. Secondo Mustafić, l’elenco venne redatto dalla mafia di Srebrenica, che comprendeva la leadership politica e militare della città sin dal 1993. I ‘padroni della vita e della morte nella zona’, come lui li definisce nel suo libro. E, senza esitazione, sostiene: «Se fossi io a dover giudicare Naser Orić, assassino conclamato di più di 3.000 Serbi nella zona di Srebrenica (clamorosamente assolto dal Tribunale Internazionale dell’Aja!) lo condannerei a venti anni per i crimini che ha commesso contro i Serbi; per i crimini commessi contro i suoi connazionali lo condannerei a minimo 200.000 anni di carcere. Lui è il maggiore responsabile per Srebrenica, la più grande macchia nella storia dell’umanità». Ma l’aspetto più inquietante ed eclatante delle rivelazioni di Mustafić è l’ammissione che il genocidio di Srebrenica è stato concordato tra la comunità internazionale e Alija Izetbegović, e in particolare tra Izetbegović e il presidente USA Bill Clinton, per far ricadere la colpa sui Serbi, come Ibran Mustafić afferma con totale convinzione. «Per i crimini commessi a Srebrenica, Izetbegović e Bill Clinton sono direttamente responsabili. E, per quanto mi riguarda, il loro accordo è stato il crimine più grande di tutti, la causa di quello che è successo nel Luglio 1995. Il momento in cui Bil Clinton entrò nel Memoriale di Srebrenica è stato il momento in cui il cattivo torna sulla scena del crimine», ha detto Mustafić. Lo stesso Bill Clinton, aggiungo io, che superò poi se stesso nel 1999, con la creazione ad arte delle false fosse comuni nel Kosovo (altro clamoroso esempio di ‘false flag’), nelle quali i miliziani albanesi dell’UCK gettavano i loro stessi caduti in combattimento e perfino le salme dei defunti appositamente riesumate dai cimiteri, per incolpare mediaticamente, di fronte a tutto il mondo, l’esercito di Belgrado e poter dare il via a due mesi di bombardamenti sulla Serbia. Come sottolinea sempre Mustafić, riguardo a Srebrenica ci sono inoltre state grandi mistificazioni sui nomi e sul numero reale delle vittime. Molte vittime delle milizie musulmane non sono state inserite in questo elenco, mentre vi sono stati inseriti ad arte cittadini di Srebrenica da tempo emigrati e morti all’estero. E un discorso simile riguarda le persone torturate o che si sono dichiarate tali. «Molti bosniaci musulmani – sostiene Mustafić – hanno deciso di dichiararsi vittime perché non avevano alcun mezzo di sostentamento ed erano senza lavoro, così hanno usato l’occasione. Un’altra cosa che non torna è che tra il 1993 e il 1995 Srebrenica era una zona smilitarizzata. Come mai improvvisamente abbiamo così tanti invalidi di guerra di Srebrenica?». Egli ritiene che sarà molto difficile determinare il numero esatto di morti e dei dispersi di Srebrenica. «È molto difficile – sostiene nel suo libro – perché i fatti di Srebrenica sono stati per troppo tempo oggetto di mistificazioni, e il burattinaio capo di esse è stato Amor Masović, che con la fortuna fatta sopra il palcoscenico di Srebrenica potrebbe vivere allegramente per i prossimi cinquecento anni! Tuttavia, ci sono stati alcuni membri dell’entourage di Izetbegović che, a partire dall’estate del 1992, hanno lavorato per realizzare il progetto di rendere i musulmani bosniaci le permanenti ed esclusive vittime della guerra». Il massacro di Srebrenica servì come pretesto a Bill Clinton per scatenare, dal 30 Agosto al 20 Settembre del 1995, la famigerata Operazione Deliberate Force, una campagna di bombardamento intensivo, con l’uso di micidiali bombe all’uranio impoverito, con la quale le forze della NATO distrussero il comando dell’esercito serbo-bosniaco, devastandone irrimediabilmente i sistemi di controllo del territorio. Operazione che spinse le forze croate e musulmano-bosniache ad avanzare in buona parte delle aree controllate dai Serbi, offensiva che si arrestò soltanto alle porte della capitale serbo-bosnica Banja Lukae che costrinse i Serbi ad un cessate il fuoco e all’accettazione degli accordi di Dayton, che determinarono una spartizione della Bosnia fra le due parti (la croato-musulmana e la serba). Spartizione che penalizzò fortemente la Republika Srpska, che venne privata di buona parte dei territori faticosamente conquistati in tre anni di duri combattimenti. Alija Izetbegović, fautore del distacco della Bosnia-Erzegovina dalla federazione jugoslava nel 1992, dopo un referendum fortemente contestato e boicottato dai cittadini di etnia serba (oltre il 30% della popolazione) è rimasto in carica come Presidente dell’autoproclamato nuovo Stato fino al 14 Marzo 1996, divenendo in seguito membro della Presidenza collegiale dello Stato federale imposto dagli accordi di Dayton fino al 5 Ottobre del 2000, quando venne sostituito da Sulejman Tihić. È morto nel suo letto a Sarajevo il 19 Ottobre 2003 e non ha mai pagato per i suoi crimini. Ha anzi ricevuto prestigiosi premi e riconoscimenti internazionali, fra cui le massime onorificenze della Croazia (nel 1995) e della Turchia (nel 1997). E ha saputo bene far dimenticare agli occhi della ‘comunità internazionale’ la sua natura di musulmano fanatico e fondamentalista ed i suoi numerosi arresti e le sue lunghe detenzioni, all’epoca di Tito, (in particolare dal 1946 al 1949 e dal 1983 al 1988) per attività sovversive e ostili allo Stato. Nella sua celebre Dichiarazione Islamica, pubblicata nel 1970, dichiarava: «non ci sarà mai pace né coesistenza tra la fede islamica e le istituzioni politiche e sociali non islamiche» e che «il movimento islamico può e deve impadronirsi del potere politico perché è moralmente e numericamente così forte che può non solo distruggere il potere non islamico esistente, ma anche crearne uno nuovo islamico». E ha mantenuto fede a queste sue promesse, precipitando la tradizionalmente laica Bosnia-Erzegovina, luogo dove storicamente hanno sempre convissuto in pace diverse culture e diverse religioni, in una satrapia fondamentalista, con l’appoggio ed i finanziamenti dell’Arabia Saudita e di altri stati del Golfo e con l’importazione di migliaia di mujahiddin provenienti da varie zone del Medio Oriente, che seminarono in Bosnia il terrore e si resero responsabili di immani massacri. Slobodan Milošević, accusato di crimini contro l’umanità (accuse principalmente fondate su una sua presunta regia del massacro di Srebrenica), nonostante abbia sempre proclamato la sua innocenza, venne arrestato e condotto in carcere all’Aja. Essendo un valente avvocato, scelse di difendersi da solo di fronte alle accuse del Tribunale Penale Internazionale, ma morì in circostanze mai chiarite nella sua cella l’11 Marzo 2006. Sono insistenti le voci secondo cui sarebbe stato avvelenato perché ritenuto ormai prossimo a vincere il processo e a scagionarsi da ogni accusa, e perché molti leader europei temevano il terremoto che avrebbero scatenato le sue dichiarazioni. Radovan Karadžić, l’ex Presidente della Repubblica Serba di Bosnia, e il Generale Ratko Mladić, comandante in capo dell’esercito bosniaco, sono stati anch’essi arrestati e si trovano in cella all’Aja. Sul loro capo pendono le stesse accuse di ‘crimini contro l’umanità’, fondate essenzialmente sul massacro di Srebrenica. Adesso che su Srebrenica è finalmente venuta fuori la verità, dovrebbe essere facile per loro arrivare ad un’assoluzione, a meno che qualcuno non abbia deciso che debbano fare la fine di Milošević. Ma chi restituirà a loro e al defunto Presidente Jugoslavo la dignità e l’onorabilità? Tutte le grandi potenze occidentali, dagli Stati Uniti all’Unione Europea, dovrebbero ammettere di aver sbagliato, ma dubito sinceramente che lo faranno. Fonte: press.russianews.it
Le fake news su Trump di Repubblica e la post-verità di Michele Serra, scrive Claudio Messora il 23 gennaio 2017 su Bioblu. Di Massimo Mazza. L’amaca di Michele Serra è finita in cima alla prima pagina di Repubblica, ma questo non ha evidentemente incentivato il giornalista a migliorare la qualità della sua striscia quotidiana, che oggi registra l’ennesimo scivolone figlio d’approssimazione e ignoranza dei temi con i quali il nostro si cimenta. Oggi Serra vuole dirci che il rozzo Trump messo accanto a Obama fa una pessima figura. Conclusione che non è certo una novità o una brillante intuizione originale, così per dare più forza e colore al pezzo s’è avventurato in un assurdo, quanto falso, paragone tra gli avi dei due: «Si poteva intuire, risalendo per li rami, che il cow-boy trisavolo di Trump, quando entrava nel saloon con lo stuzzicadenti in bocca, non era molto più chic del bisavolo di Obama nei campi di cotone. E almeno gli avi di Obama cantavano il blues e non quel terribile country con la giacca bianca piena di frange.» Come molti prima lui, Serra qui compie la penosa operazione di costruire una realtà adatta alla conclusione che vuole raggiungere, ma lo fa maldestramente, mettendo in fila una notevole serie di clamorose falsità, fino a costruire una post-verità nella quale tutti i pezzi s’incastrano alla perfezione come desiderato dall’autore. Falsità figlie di approssimazione e di un tirare a indovinare tipico di un certo giornalismo italiano, talmente pigro da non compiere nemmeno le più elementari verifiche. La storia delle famiglie Trump e Obama è lì, a un click di distanza per tutti, ma Serra ha manifestato più e più volte fastidio e sfiducia per le informazioni che corrono in rete e quindi, evidentemente, ha saltato il passaggio ed è partito in quarta inventandosi due alberi genealogici che potessero sostenere le conclusioni alle quali voleva arrivare. Purtroppo per Serra gli avi di Donald Trump non sono mai stati cow-boy, suo nonno è nato in Baviera e sua nonna in Scozia. Nessuna delle due famiglie è mai vissuta nel West, ma sulla costa Est, a New York, quanto di più lontano esista negli Stati Uniti dal West dei cow-boy. Il nonno di Trump una volta arrivato in America fece il barbiere e poi si lanciò nel settore immobiliare, carriera poi seguita del figlio e dal nipote, ora presidente. La cafonaggine di Trump non è quella del campagnolo, ma quella del figlio di un ricco abitante di New York, la cafonaggine del nato ricco che non ha studiato molto e che ha passato la vita a far soldi in modi spesso discutibili. Anche la descrizione del bisavolo di Obama è del tutto falsa, perché la madre di Obama è bianca ed è originaria del Kansas, mentre suo padre è nato e vissuto in Kenya e ovviamente non discende da schiavi portati in America, l’ex presidente non è per niente «pronipote di schiavi» come lo presenta Serra aprendo il pezzo. È Obama, dei due, quello che ha i cow-boy tra gli avi, la madre era addirittura parente di Buffalo Bill alla lontana, e sono i suoi avi quelli che più probabilmente ballavano al ritmo del country. Ci sono i cow-boy tra gli avi di Obama, non ce ne sono invece tra quelli di Trump, la famiglia del quale i cow-boy li ha visti solo in televisione, proprio come Michele Serra.
L'ordine di Putin. Le carte nelle mani di Trump: l'attacco segreto dello zar agli Usa, scrive “Libero Quotidiano” il 7 gennaio 2017. Nel rapporto delle agenzie di intelligence Usa illustrato oggi al presidente eletto Doanld Trump si sostiene che Putin ha cercato di aiutare l’elezione di Trump e di screditare la candidata democratica Hillary Clinton. Nel testo i vertici degli 007 Usa sostengono anche che la Russia tenterà nuovamente di influenzare le elezioni, stavolta di alleati Usa. Riferimento alle prossime elezioni in Europa, a partire da quelle presidenziali a aprile/maggio in Francia e legislative in Germania a settembre. «Abbiamo determinato che il presidente russo Vladimir Putin ha ordinato nel 2016 una campagna per influenzare l’elezione presidenziale Usa. L’obiettivo dei russi era quello di minare la fiducia dell’opinione pubblica americana nel processo elettorale democratico, denigrare il segretario (di Stato Hillary) Clinton, e danneggiare la sua eleggibilità in quanto potenziale presidente» si legge nel testo curato dal direttore della National Intelligence, James Clapper, responsabile dimissionario del coordinamento delle 17 agenzie di spionaggio e controspionaggio Usa. Nel testo i capi delle agenzie di intelligence Usa aggiungono che «Putin e il governo russo hanno manifestato una chiare preferenza per il presidente eletto Trump». Trump che stasera dopo aver ricevuto il rapporto ha sostenuto che gli attacchi - senza nominare solo la Russia ma citando anche genericamente «la Cina, altri Paesi e gruppi» - ci sono stati ma che non hanno influito in alcun modo sull’esito finale: «Non ci sono stati assolutamente effetti sul risultato delle elezioni (presidenziali dell’8 novembre) incluso il fatto che non c’è stata alcuna alterazione delle macchine per votare» ha dichiarato il prossimo inquilino della Casa Bianca la cui elezione è stata ratificata oggi anche formalmente dal Congresso. Il rapporto, invece, sostiene «con alto grado di fiducia» che «i tentativi russi di influenzare l’elezione presidenziale Usa nel 2016 rappresentano la più recente espressione del desiderio di lunga data di Mosca di minare l’ordine democratico liberale Usa, e queste attività hanno dimostrato una significativa escalation nel livello di attività, scopi e sforzi rispetto a precedenti operazioni» di Mosca. Nel testo, prosegue la Cnn, gli 007 spiegano che Mosca ha usato diversi mezzi per tentare di alterare il risultato con «operazioni coperte (segrete), come ciber-attacchi, e con operazioni a volto scoperto da parte di agenzie governative russe, media finanziati da Mosca, intermediari di terze parti e attività a pagamento di troll (account di attacco attivi sui diversi sistemi di social network, ndr)». Il testo dato a Trump, e trapelato staserà, è quello di 25 pagine, non quello di 50 contenenti informazioni classificate - come le metodologie usate per accertare le responsabilità di Mosca - fornito al presidente uscente Obama, anche se le conclusioni sono identiche. In una dichiarazione l’ufficio di Clapper ha sottolineato che «la comunità di intelligence (Usa) non ha preso alcuna posizione sull’impatto delle attività russe sull’esito delle elezioni (presidenziali) del 2016». Il ministero della Sicurezza Interna (Homeland Security) ha aggiunto, sottolinea la Cnn, che «nessuno dei sistemi colpiti o compromessi dai russi erano coinvolti nella conta dei voti».
Trump attacca i giudici, difende Putin: «Anche in America ci sono assassini». Il leader russo come George W. Bush nella guerra in Iraq: «Quanta gente che è morta». Il «bando agli immigrati» verso la Corte Suprema, scrive Giuseppe Sarcina, corrispondente da New York, il 5 febbraio 2017 su “Il Corriere della Sera”. «Vladimir Putin non è un killer?», chiede Bill O’Reilly, il conduttore più famoso della tv conservatrice Fox News. Sono le 16 di domenica: gli americani si preparano a vivere il Super Bowl, la partita di football e lo show di contorno più seguiti dell’anno. L’intervista a Donald Trump fa parte della grande attesa. Questa la risposta del presidente degli Stati Uniti: «Pensi che l’America sia così innocente? Anche da noi ci sono molti assassini». «Sì, ma qui stiamo parlando di un leader», replica il giornalista. Trump non arretra: «Anche noi abbiamo fatto tanti errori. Pensa solo alla guerra dell’Iraq. Quanta gente è morta». Ecco fatto: in due minuti Trump ha messo insieme un’equazione esplosiva. Le responsabilità di Putin sono, di fatto, accostabili a quelle di George W. Bush, il presidente che ordinò l’invasione dell’Iraq. Il resto dell’intervista sembra ormai routine, tra un avvertimento all’Iran e l’approccio verso Mosca: «Io rispetto Putin, è il capo del suo Paese. Non so se ci andrò d’accordo, questo si vedrà. Dico, però, che sarebbe meglio trovare un’intesa con la Russia piuttosto che litigarci. E se la Russia ci aiuta nella lotta contro l’Isis e il terrorismo islamico nel mondo, beh, allora questa è una cosa buona». Spianati dall’ennesima sorpresa, i vertici del partito repubblicano avevano già tentato il recupero in mattinata, quando Fox aveva diffuso stralci del colloquio. Mitch McConnell, leader della maggioranza al Senato, aveva preso le distanze: «Putin è un ex agente del Kgb. È un criminale. È stato eletto in un modo che la maggior parte delle persone non considererebbe una votazione credibile. Non penso si possa confrontare il modo in cui agiscono i russi e quello degli Stati Uniti». Ma intanto Trump è già altrove, ad appiccare un altro incendio, via Twitter. Tema: l’ordine esecutivo che sospende, a tempo indeterminato, l’ingresso nel Paese dei profughi siriani e per 120 giorni l’accesso di tutti gli altri richiedenti asilo. Inoltre il bando blocca i viaggiatori in arrivo da sette Paesi musulmani: Siria, Libia, Iran, Iraq, Somalia, Sudan, Yemen. Ieri mattina la Corte d’appello di San Francisco ha confermato la sentenza del giudice James Robart di Seattle, respingendo il ricorso presentato dal Dipartimento di Giustizia. Risultato: il provvedimento restrittivo firmato dal presidente il 27 gennaio scorso resta inapplicabile. La battaglia legale e lo scontro istituzionale tra magistratura e Casa Bianca continuano. Trump lo alimenta con i suoi tweet: «È incredibile come un giudice possa mettere il nostro Paese in un così grave pericolo. Se succede qualcosa, prendetevela con lui e il sistema giudiziario». E ancora: «Ho dato istruzioni al ministero della Sicurezza interna di controllare le persone che entrano nel nostro Paese con grande attenzione. I tribunali stanno rendendo il nostro lavoro molto difficile».
Russofobia: due secoli di “fake news”, scrive Giampaolo Rossi il 6 gennaio 2017 su “Il Giornale”. La russofobia è un sentimento diffuso nel mondo anglosassone e affonda le sue radici in almeno due secoli di storia. Per gli inglesi d’inizio ‘800, la Russia divenne un incubo quando lo zar Alessandro I ricacciò i francesi da Mosca inseguendoli fino a Parigi dove entrò trionfalmente quel 30 marzo del 1814 che segnò il destino di Napoleone. Quel giorno un brivido scosse anche i circoli diplomatici di Londra e la corte britannica fino a quel momento simpatizzanti di Mosca: se i russi potevano arrivare in Francia, voleva dire che potevano arrivare dovunque. Per gli inglesi il timore non era il continente europeo ma l’Asia Centrale e sopratutto l’India, fulcro della potenza imperiale britannica. E fu allora, di fronte alla impressionante prova di forza degli “uomini delle steppe”, che si diffuse una delle più incredibili “fake news” mai inventate nella storia: il “Testamento di Pietro il Grande”, il presunto ordine impartito dal grande zar sul suo letto di morte, con il quale disegnava il futuro dominio dell’Europa e del mondo da parte di Mosca, partendo dalla conquista di Costantinopoli. Il Testamento di Pietro il Grande era un bufala scritta nel 1756 su commissione dei servizi di propaganda francesi; in esso si attribuiva al grande Zar l’ammonimento ai suoi sudditi e successori circa la missione divina della Russia: “In nome della Santissima e indivisibile Trinità, noi, Pietro, imperatore e autocrate di tutte le Russie, (..) rischiarati con la luce di Dio a cui dobbiamo la nostra corona (…) ci permettiamo di guardare il popolo russo come chiamato per il futuro al dominio generale dell’Europa”. Se fino a quel momento, questa fake news era stata utilizzata dai francesi (per giustificare le ambizioni di conquista di Napoleone) e dagli ambienti nazionalisti polacchi e ucraini, con l’ergersi di Mosca ad unica rivale della Gran Bretagna, fu adottata da Londra. Eppure, come spiega Guy Mettan, in un libro che dovrebbe essere letto da molti dei parolai anti-russi del giornalismo occidentale, la russofobia inglese elevò il pericolo russo a livello globale (non semplicemente la conquista dell’Europa, ma del mondo) cambiandone la natura: mentre per i francesi la russofobia rimase limitata ai circoli diplomatici e filosofici (la disputa su democrazia e dispotismo era in fondo una battaglia delle idee), gli inglesi la “democratizzarono”, la trasferirono sull’opinione pubblica, sulla manipolazione dell’immaginario simbolico. Per tutto l’800, nella pubblicistica britannica, “l’isteria anti-russa” raggiunse vette mai viste in Europa producendo una quantità infinita di stereotipi anti-russi che plasmarono i pregiudizi in maniera simile a quella che provano a fare oggi i media occidentali. E così, ad esempio, durante la guerra russo-turca (1877-1878) la pubblicistica inglese si prodigò a dimostrare come i russi e i loro alleati bulgari fossero “selvaggi subumani, corrotti, ignoranti e viziosi”, arrivando a dipingere i turchi come eroi e a nascondere le atrocità compiute da loro contro le popolazioni cristiane; esattamente come oggi, i media americani e inglesi hanno trasformato i sanguinari mercenari islamisti al soldo dei sauditi (e della Cia) in “ribelli moderati” ed eroici combattenti per la libertà. Motivo per cui, per esempio, la liberazione di Aleppo dopo anni di terrore jihadista (finanziato dagli Usa e dai sauditi) diventa un crimine compiuto da russi e siriani. E così come oggi Hollywood alimenta l’immaginario del russo cattivo, criminale, perfido, così nell’800 la letteratura inglese costruì l’immaginario spaventoso del russo orribile e demoniaco; come ricorda Mettan, il personaggio di Dracula uscito dal romanzo di Bram Stoker (cantore dell’imperialismo di Sua Maestà) altro non era che la riproposizione in chiave horror degli stereotipi peggiori che l’Inghilterra vittoriana aveva costruito sulla Russia e sul mondo slavo governato da principi barbari, crudeli e demoniaci. E non è un caso che l’eroe che ucciderà il mostruoso conte Dracula, liberando il mondo dall’orrore del vampiro, era un avvocato inglese. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la russofobia fu esportata oltre Oceano e secondo uno schema che ereditarono gli Usa, Mosca che fino a qualche anno prima era stata l’alleata preziosa contro la Germania (così come nell’800 lo era stata per gli inglesi contro la Francia), divenne improvvisamente il nemico numero uno. Non è un caso che Henry Truman, il presidente Usa della Guerra Fredda, fece ancora riferimento alla “bufala” del Testamento di Pietro il Grande. Ovviamente la russofobia, ieri come oggi, ha un fine preciso: giustificare le politiche imperialiste di Gran Bretagna e Stati Uniti. Nell’800, mentre Londra diffondeva la “bufala” del Testamento di Pietro il Grande per dimostrare l’espansionismo russo, l’Impero britannico aumentava di almeno 20 volte le sue dimensioni, così come la Francia coloniale. E anche oggi la “russofobia” paventa un Occidente preda della sfrenate ambizioni di dominio planetario del nuovo Pietro il Grande, quel Vladimir Putin che, secondo quello che politici e i sicofanti intellettuali dell’Occidente raccontano, è in procinto di conquistare l’Europa, il mondo, il sistema solare. Ma come abbiamo già scritto, semmai è il contrario: mentre l’Occidente grida “al lupo al lupo”, o meglio, “all’Orso all’Orso”, la Nato allarga i suoi confini, le sue sfere d’influenza e arriva a lambire proprio la Russia con un rapporto di forze talmente sbilanciato da rendere irrealistico il solo pensare che la Russia possa provare a coltivare sogni di conquista dell’Europa. E così, dopo aver destabilizzato il Medio Oriente con le finte Primavere Arabe, scatenato guerre “umanitarie” in Iraq, Afghanistan e Libia; dopo aver alimentato il conflitto in Siria, giocato un ruolo ambiguo con il Califfato islamico e con l’Isis, aiutato a diffondere l’integralismo islamista abbattendo tutti i regimi laici e finanziando i gruppi di Al Qaeda; dopo aver seminato rivoluzioni colorate e costruito colpi di Stato democratici (come in Ucraina), e mentre partecipa per procura alla guerra saudita nello Yemen, l’Occidente prova a raccontare che il pericolo per la pace del mondo è la Russia. Il Testamento di Pietro il Grande ha fatto scuola e mentire come il diavolo è la vera regola dei cantori stonati della democrazia.
Luttwak brutalizza Obama: "È finito, come l'ha ridotto Putin", scrive “Libero Quotidiano” l'1 gennaio 2017. Un bambino stizzito e vendicativo, una fine patetica. Non va per il sottile Edward Luttwak, che in un'intervista commenta così, senza troppi giri di parole, il finale di presidenza di Barack Obama. Lui caccia 35 russi dal suolo americano con l'accusa di spionaggio e Vladimir Putin, invece che buttare fuori altrettanti diplomatici americani dalla Russia, fa finta di nulla e, anzi, fa pure gli auguri a Barack. Una umiliazione, sottolinea il politologo americano, che ha due motivazioni. "Non reagendo Putin vuole dimostrare che Obama non conta più nulla. Che il suo è il dispetto di un personaggio frustrato e rancoroso. Che non si rassegna ad accettare la sconfitta elettorale della candidata democratica Hillary Clinton. Che vuole compromettere più di quanto abbia già fatto il futuro delle relazioni russo-americane. Che vuole legare le mani al suo successore Donald Trump". La seconda è che in realtà lo scandalo delle mail rubate alla Clinton porta con sé una domanda molto più importante e imbarazzante per Obama e i democratici: "Erano vere o erano false? Se erano vere, come pare nel caso del sabotaggio subito da Bernie Sanders (il rivale della Clinton nelle primarie democratiche, ndr) gli elettori americani dovrebbero essere grati a Wikileaks che si è assunta la responsabilità della pubblicazione, li ha aiutati a chiarirsi le idee e a scegliere". Tra l'altro, aggiunge Luttwak, non ci sono prove che dietro Assange e Wikileaks, responsabili della pubblicazione di quelle mail, ci sia il Cremlino. "A questo punto - conclude Luttwak - le espulsioni decise da Obama appaiono frutto di una reazione avventata se non addirittura infantile. Non è sbagliato dirlo". A Putin non resta che aspettare Trump, che "può annullare con un colpo di penna quelle espulsioni. E allora la strada sarà libera per prospettive nuove sia in politica che in economia. Queste sono le priorità di Trump e di Putin. Avrebbe dovuto immaginarlo anche Obama".
La mia famiglia ha votato Trump. E io li capisco. Pubblichiamo uno dei testi apparso sul numero 5 di Futura, la newsletter di Corriere, scrive Claudia Durastanti il 6 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera".
"Non ho ereditato una formazione politica dalla mia famiglia. I primi anni della mia vita li ho trascorsi in un quartiere italo-americano storicamente repubblicano di New York, il cui orientamento politico si basava su assunti e forme di saggezza popolare di questo tipo: «se hai una caramella e puoi darla a un bambino bianco o a uno nero, dalla a quello bianco». Non sembrava una questione di razzismo quanto di sopravvivenza: erano gli anni di Spike Lee, i bianchi non andavano a Bed Stuy e i neri non venivano a Bensonhurst. L’eroe della mia famiglia era il fratello di mia madre, nato in Basilicata ma cresciuto negli Stati Uniti, che a vent’anni si era messo giacca e cravatta ed era andato a fare un colloquio per una società informatica. Durante il tragitto di ritorno, senza sapere l’esito del colloquio, aveva incontrato un amico che gli aveva parlato di una possibilità immediata in una grossa compagnia a cui lui non poteva prendere parte. Mio zio era tornato di corsa a Manhattan, si era presentato al colloquio al posto dell’amico ed era entrato in Goldman Sachs, dove avrebbe lavorato per circa quarant’anni. Dopo il 2008, ha fatto le scatole di cartone come tutti gli altri. Quando l’ho visto la scorsa estate mi ha detto che avrebbe votato Donald Trump, e a me è sembrata una scelta coerente con la vita che aveva vissuto. Trump era solo un’effigie rossa e scintillante su un edificio in cui i cocktail costavano più che altrove. Quando ero piccola, i miei genitori e i miei parenti non mi portavano al Natural History Museum o al Metropolitan, ma a vedere le case dei ricchi. Le gite in famiglia erano questi pellegrinaggi a Dyker Heights, a vedere ville bellissime in cui vivevano donne che somigliavano alle mogli di John Gotti o altri affiliati della famiglia Gambino, oppure a Holmdel in New Jersey dove vivono tuttora i CEO delle più grandi società d’affari di New York. Penso di essere entrata in ogni grattacielo di Manhattan accessibile al pubblico in quegli anni. Ho trascorso ore al World Trade Center, all’Empire State Building e al Trump Plaza a comprare gadget orrendi che mia madre custodisce ancora — magneti da frigorifero e portachiavi ormai sbiaditi — e ogni volta che tentavo una deviazione per una meta più adatta ai miei interessi di ragazzina, venivo dirottata verso la Quinta Strada a imparare che in America era tutto possibile. Anche all’epoca Trump era ovunque: faceva apparizioni nei film di Natale, e somigliava a uno zio buono e un po’ scemo che voleva solo farti divertire. Ho sprecato tempo pure nell’edificio che portava il suo nome ad Atlantic City; un’altra delle mete culturali preferite dalla mia famiglia erano i casinò. Anche se ho trascorso l’infanzia a sognare di essere adottata da una famiglia novecentesca ed ebrea che dissemina romanzi mitteleuropei sul tappeto del salotto, la realtà è che mio nonno adorava Rudy Giuliani finché questo non ha deciso di ripulire Midtown e mio nonno non si è convinto che il suo quartiere a Brooklyn si sarebbe riempito di eroinomani e locali a luci rosse. Per gli italo-americani, la tutela del proprio spazio conquistato a fatica veniva sempre prima del bene collettivo. Non ho ereditato un pensiero politico dalla mia famiglia: quello che ho ereditato, invece, è un miscuglio di aspirazione, vittimismo, cabala, accidia e rabbia che possono assumere qualsiasi orientamento ideologico conveniente e a disposizione. Riesco a tenere questi impulsi populisti a bada solo perché ho studiato e ho deciso che dovevo dare un significato meno limitato alla mia sofferenza di classe. Ho cercato di autodisciplinarmi e di educarmi per non essere debole e strumentalizzabile, senza sapere che sarei diventata solo antistorica. Eppure, questo corredo genetico inutile e triste mi torna utile in circostanze come la Brexit e l’elezione di Donald Trump. È come se avessi dei sensori che mi permettono di anticipare le agitazioni collettive pur essendo molto meno informata dei miei conoscenti che si occupano attivamente di politica: una specie di riluttante familiarità con il disastro, che mi salva dal trauma epistemologico di una politica che non va nella direzione in cui voglio. L’ultima volta che ho preso un volo per New York da Heathrow ho visto un signore con il cappellino «Make America Great Again» e la maglietta «I stand with Chrysler», mentre su uno schermo luminoso c’era la promozione di un volo per l’Iraq sotto la dicitura «Welcome to Baghdad». Ho mandato subito un messaggio in cui raccontavo la coincidenza e chiedevo: Quand’è che la nostra vita è diventata un libro di DeLillo? Non penso di essere una buona elettrice o una buona partecipante alla vita pubblica: in me prevalgono sempre l’impressione e la suggestione, mi soffermo sulla simbologia di certe derive autoritarie, perdo tempo sulla metafora. Poi subentrano il buon senso e la difesa dei diritti di chi mi circonda, e la mia militanza diventa pratica. Nel caso delle elezioni americane ho fatto quel che si conveniva al mio profilo democratico: Sanders alle primarie e Clinton alle presidenziali. Ma ero consapevole che si trattava di una scelta in controtendenza rispetto a quello che stava succedendo negli Stati Uniti: era la cosa giusta da fare, non quella reale. Quando torno in America, tendo a evitare i luoghi di ritrovo da giovane intellettuale bianca e triste e trascorro gran parte del tempo con una famiglia molto diversa da me. Lo faccio per ragioni di affetto ma anche di interesse. Un incontro di slam poetry nell’East Village non ha nulla da insegnarmi; imparare come gli addetti portuali riescono a imbrogliare i controlli del sindacato facendo pipì da un fallo di plastica per potersi drogare mi aiuta ad avere un’idea di società più larga di quella a cui appartengo. E così quando sono a Manhattan torno a essere la ragazzina che entrava nei centri commerciali di lusso, si sedeva sui divanetti del Trump Plaza e si annoiava nei casinò mentre gli adulti scommettevano lo stipendio, e all’improvviso mi ricordo di tutta quella gente che vuole diventare ricca e si incattivisce sperando che non lo diventino gli altri. Con il tempo è subentrata una sorta di compassione. Quando una persona a cui vuoi bene ti porta sul tetto di un condominio privato di Tribeca convincendoti a imbucarti, ti fa ammirare la vista della città e ti chiede «Won’t you literally kill someone for this?» ti ritrovi a balbettare, perché non sai cosa rispondere, e hai paura di offenderla con il tuo distacco. Per me get rich or die trying è solo un’espressione un po’ coatta che uso quando faccio il verso ai rapper americani che pure ascolto, non un interesse che perseguo nella vita. Ma in America quell’interesse è ovunque da sempre, è un impulso che attraversa qualsiasi classe ed etnia sociale e non ha differenze di genere. Stokely Carmichael diceva che la violenza è americana come la cherry pie, e il desiderio di farsi da sé e di scavalcare posizioni sociali è il suo contrappunto perfetto: il mito del self-made man non è una falsa coscienza tipica degli anni Ottanta, è l’archetipo della nazione. Solo perché oggi invece di indossare un vestito dei Brooks Brothers ordina dei latte a Carrol Gardens e lavora nell’industria creativa, non significa che lo yuppie sia morto. Ha solo cambiato vestito. Che poi, al netto di misoginia, desiderio di impunità, razzismo e un senso dell’umorismo da cartone animato, forse ho più di qualche tratto in comune con un elettore di Donald Trump. Sono insoddisfatta dall’offerta politica, sospettosa dell’istituto democratico, ho istinti di rivolta ma sono troppo pigra e narcotizzata e libresca per soddisfarli, e vedere Citizen Four, Black Mirror e Hypernormalization di Adam Curtis non hanno fatto di me una cittadina più accorta ma solo più spaventata e quasi tendente all’esoterismo. Il senso di militanza provato all’epoca della seconda invasione americana in Iraq nel 2003 l’ho perso, e ogni volta che assisto a un evento politico di queste proporzioni alla mia preoccupazione si sovrappone una forma di perversa fibrillazione, un autentico istinto alla distruzione, familiare e insopportabilmente vicino. E per quanto ripudi quegli americani bianchi appena usciti da una confraternita universitaria (per tanti aspetti questo è stato il voto dei «dude bro») che promettono di giocare a Call of Duty per le strade con ogni outsider che incontrano, e sia genuinamente terrorizzata da quello che accadrà a metà dei cittadini di quella nazione, c’è anche questo senso di colpa in fondo un po’ cattolico, di dover espiare il peccato originale di un Occidente che merita la fine, una stanchezza sotterranea che è difficile spiegare e che forse posso permettermi perché la mia immediata sussistenza biologica non è minacciata da Donald Trump, e in fin dei conti la Brexit non sarà una deportazione di massa. Se invece di ascoltare Alanis Morissette mi fossi ritrovata a impastare sterco e paglia in India per fare dei mattoni, se i miei genitori mi avessero data in matrimonio a un uomo più anziano e avessero fatto di me una concubina giovane, se fossi cresciuta a Swansea figlia di una ragazza madre, cosa avrei fatto della mia esistenza? E la risposta che mi sono sempre data è che a vivere in un sobborgo del mondo occidentale avanzato avrei avuto un dente d’oro e sarei diventata una hooligan, perché quella compulsione e il desiderio insopprimibile di fare una cosa sbagliata, esasperata e brutale, li capisco. È una forza elementare che sono l’istruzione ma anche il caso e la Storia a convogliare: avrei potuto diventare una Pantera Nera come una skinhead, una alt-right come una suffragetta. A maggior ragione in un Paese come gli Stati Uniti, dove senza una borsa di studio o un genitore con un trust fund studiare è impossibile e impari molto presto il concetto di limite. Nei casi migliori a convogliare questa forza è Bernie Sanders, nei peggiori il nuovo Presidente degli Stati Uniti. Nel mio addestramento maldestro al pensiero democratico e liberale, nella mia attuale frustrazione, l’unica certezza che persiste è il dovere politico e umano di immedesimarmi nella condizione dell’altro, soprattutto se l’altro è più debole di me, e questo vale per qualsiasi cittadino o soggetto. Anche laido, ostile e difficile da amare. Se c’è una cosa che trovo davvero terrificante e distopica è l’idea di trovarmi a popolare un mondo estraneo, in cui ho la presunzione di umanità e tutti gli altri sono ridotti a zombie, assassini e parassiti. Cosa me ne faccio della mia umanità in quel caso? Forse spererei solo di essere morsa e di diventare come loro. A volte mi auguro che questo processo di polarizzazione nella società occidentale si chiuda così, con la formazione di un esercito di individui mutanti, senza genere, razza o classe sociale; che a furia di spinte contrapposte diventino tutti uguali, un branco di scimmie in coro che di libertà non vuole neanche sentire parlare. Perché è a quella libertà che ho cercato di educarmi, e ci sono giornate in cui mi convinco che non è servito a molto: l’unica cosa che mi pare di aver imparato da queste elezioni, come da altri episodi recenti, è che non c’è istinto umano più condiviso che il piacere di distruggere una cosa bella". La versione originale di questo pezzo è apparsa su Pixarthinking.
QUELLI CHE...SONO RAZZISTI E BASTA.
Sfregio di Berlino ai nostri agenti: "Niente medaglia a eroi di Sesto". Il governo tedesco rinuncia a premiare i due agenti italiani che uccisero Amri: "Fanno apologia del fascismo", scrive Domenico Ferrara, Domenica 12/02/2017 su "Il Dubbio". Luca Scatà, 29 anni, e Christian Movio, 36 anni, i due agenti di polizia del commissariato di Sesto San Giovanni che il 23 dicembre hanno fermato e ucciso Anis Amri, l'attentatore di Berlino, sono stati trasferiti ad altri uffici di polizia in altre località, mantenute per il momento segrete. La decisione è stata presa dal Viminale anche per premiare i due poliziotti ed è stata confermata dal commissariato di Sesto San Giovanni. Dalla Germania però arriva lo sfregio ai nostri agenti. Secondo quanto riporta la Bild, i due non riceveranno alcuna onorificenza da Berlino. Motivo? Sono considerati soggetti tendenti all’apologia del fascismo. Insomma, l'idea di consegnare una medaglia è morta sul nascere. Sempre secondo quanto scrive la Bild, due ministri teutonici hanno escluso ogni tipo di premio. Il tutto perché sui profili Facebook e Instagram Scatà aveva pubblicato una foto in cui sorridente faceva il saluto romano, una foto di Mussolini in cui lo definiva "tradito" e un post in occasione del 25 aprile in cui affermava di non festeggiare perché lui è "dalla parte di quella Italia, di quegli italiani, che non tradirono e non si arresero". Movio, dal canto suo, è accusato di aver condiviso alcuni post da siti anti-immigrati e di aver pubblicato una foto di una bottiglia di Coca-Cola con scritto il nome di Adolf. Per questi motivi, il coraggio degli agenti non conta più. L'aver tolto un peso alla Germania vendicandola per la strage di Berlino passa in secondo piano. L'aver rischiato la vita compiendo il proprio dovere pure.
«Foto di Mussolini sui profili». La Germania non premia i due agenti che fermarono lo stragista di Berlino. Il governo tedesco voleva dare una medaglia ai due «eroi di Sesto San Giovanni» ma ha preferito rinunciare dopo aver scoperto che nei loro profili c’erano «frasi di estrema destra e foto di Mussolini», scrive Danilo Taino l'11 febbraio 2017 su “Il Corriere della Sera”. Gli «eroi» di Sesto San Giovanni sono stati declassati nella considerazione delle autorità tedesche. I due poliziotti che il 23 dicembre scorso intercettarono e uccisero, durante uno scontro a fuoco, il terrorista del mercatino di Natale di Berlino non riceveranno alcuna onorificenza in Germania. Gli agenti sono considerati tendenti all’apologia di fascismo, quindi meglio lasciare perdere. Ieri, il quotidiano Bild ha rivelato che il governo tedesco stava considerando l’idea di dare una medaglia a Cristian Movio e a Luca Scatà. In effetti, le autorità della Germania avevano tirato un respiro di sollievo quando avevano avuto la notizia che il ventiquattrenne Anis Amri – il quale quattro giorni prima, alla guida di un camion, aveva ucciso 12 persone e ferite altre 55 - era stato fermato alle porte di Milano. Le sollevava da una ricerca della quale avevano perso il filo. Permetteva loro di tranquillizzare i cittadini. Le toglieva da un notevole imbarazzo. La stessa Angela Merkel aveva subito ringraziato la polizia italiana e i due agenti. Ora, però, la Bild dice che, secondo due ministri dei quali non cita i nomi, l’onorificenza è fuori questione. Sui profili di Facebook e di Instagram, presto oscurati dalla Questura di Milano dopo lo scontro di Sesto San Giovanni, i due poliziotti avevano pubblicato fotografie e commenti di chiara ispirazione di estrema destra, qualcosa su cui nessun governo tedesco può passare sopra.
Scatà – 29 anni, l’agente che ha sparato ad Amri - aveva mostrato su Istagram una sua fotografia in cui fa il saluto romano (mentre indossa una maglia con la bandiera britannica, curiosamente); una fotografia di Mussolini dove definiva il Duce «tradito» e i traditori «infami»; e un post scritto in occasione di un 25 aprile nel quale diceva che non avrebbe festeggiato perché lui è «dalla parte di quella Italia, di quegli italiani, che non tradirono e non si arresero».
Movio – 36 anni, il poliziotto ferito da un colpo sparato da Amri – pare invece che condividesse su Facebook post tratti da siti razzisti e anti-immigrati, in più avrebbe pubblicato la fotografia di una bottiglia di Coca-Cola, quelle con i nomi propri sull’etichetta, con la scritta Adolf (il nome meno apprezzato in Germania).
Stephan Mayer, un esperto di affari interni della Csu (il partito gemello bavarese della Cdu di Merkel), ha commentato che «la decisione del governo federale di non dare un’onorificenza a questi due poliziotti è assolutamente corretta a causa della loro ovvia attitudine neofascista». A Berlino si evitano così polemiche e scivoloni imbarazzanti. Da semplici fotografie e post è difficile stabilire quali siano gli orientamenti politici dei due poliziotti italiani. E difficile è chiederglielo ora: quando i loro nomi sono stati resi noti – immediatamente dopo la sparatoria del 23 dicembre, dal ministro dell’Interno Marco Minniti – sono stati trasferiti e protetti per ragioni di sicurezza. Ma non è questo il problema: le loro opinioni politiche sono un fatto personale. La questione vera è che non le hanno tenute per se stessi ma le hanno rese pubbliche sui social network. Anche qui, in fondo, niente di straordinario se non fosse che Scatà e Movio sono membri delle forze dell’ordine. E che la pubblicazione di loro opinioni estreme possa dare l’idea che certi poliziotti non sono sereni quando affrontano alcune delle questioni di ordine pubblico più delicate del momento, per esempio quelle che riguardano gli immigrati. Più in generale, anche la reputazione della Polizia può subirne un danno. Per non prendere nessun rischio, i tedeschi hanno comprensibilmente rinunciato a rendere loro onore. Peccato ma inevitabile.
Poliziotti eroi, Corrado Ziglio: "Li conosco, cosa succederà ora", scrive di Lucia Esposito su "Libero Quotidiano” il 2 gennaio 2017. Due poliziotti italiani uccidono Amis Amri, il terrorista di Berlino. Durante un controllo di documenti si imbattono nel tunisino che, dopo aver vagato tra la Germania, l'Olanda e la Francia era arrivato davanti alla stazione di Sesto San Giovanni. Ha urlato: "Bastardi" e poi ha sparato. Ha ferito il poliziotto Cristian Movio, 36 anni ma l'agente in prova Luca Scatà, ha sparato e lo ha ucciso. C' è chi dice: Sono degli eroi e chi minimizza: Hanno fatto solo il loro dovere. L' Italia si divide e scoppia la polemica sull' opportunità di diffondere i loro nomi e sul rischio ritorsioni. Il professor Corrado Ziglio dell'Università di Bologna è un antropologo delle professioni, ha vissuto per mesi come un poliziotto, è salito sulle volanti, è entrato nei commissariati da Bolzano a Siracusa, ha passato intere giornate negli uffici immigrazione e in quelli dell'anticrimine. Da ventidue anni si occupa di formazione dei poliziotti e, dice scherzando, "con loro ho mangiato quintali di pizza e bevuto ettolitri di birra". Dopo aver visto da dentro il mondo della polizia, ha scritto due libri sulle attività operative degli agenti e per sei anni ha insegnato alla Scuola Superiore di Roma dove si formano i funzionari. Insegna anche alla Scuola per il controllo del territorio di Pescara: da qui passano tutti gli uomini e le donne delle volanti, delle sale operative, dei reparti prevenzione crimini. Ha l'approccio scientifico dello studioso ma il linguaggio chiaro e semplice di chi tutto quello che teorizza l' ha vissuto e lo vive ancora.
Professore, ma i due poliziotti che hanno ucciso il terrorista sono eroi o hanno fatto solo il loro dovere?
"Tutti i poliziotti hanno un fortissimo senso del dovere e quando dicono che hanno solo fatto il loro lavoro, lo pensano veramente".
Ma era il caso di far conoscere i loro nomi?
"Ho qualche dubbio. Forse c' è stata un po' di imprudenza dettata dalla dimensione dell'orgoglio per l'operazione che era stata portata a termine".
Al di là delle minacce di ritorsioni che sono arrivate, da un punto di vista professionale che cosa succederà?
"Dipende dai loro superiori, da come li gestiranno".
Che cosa potrebbe accadere?
"Potrebbero montarsi la testa, cambiare il loro modo di pensare. Potrebbero diventare dei giustizieri".
In che senso dei giustizieri?
"Potrebbero sviluppare atteggiamenti sopra le righe rispetto al protocollo che ogni poliziotto deve osservare. Ed è per questo che dico che molto dipende da come saranno gestiti dai loro superiori".
I due agenti sono stati attaccati anche perché sui loro social sono state trovare frasi razziste e foto col saluto romano.
"Di questo non so nulla, me lo dice lei".
Come lo spiega?
"In tutti gli ambienti ci sono persone di diverse ideologie, ma non cambia molto".
Come mai da professore di Scienze della Formazione è entrato in contatto con il mondo della polizia?
"È stato l'allora questore di Bologna che, dopo i fatti drammatici della Uno Bianca decise di risollevare l'immagine della Polizia con una grande intuizione: capì che bisognava partire dalla formazione. Mi chiese di tenere dei corsi. Ma io prima di strutturare il progetto chiesi di vivere la vita dei poliziotti e così ho trascorso diversi mesi con loro".
Su cosa lavora?
"Soprattutto sui processi di deterioramento professionale".
E quali sono?
"I poliziotti si trovano tutti i giorni davanti alle brutture della vita. Per loro è importantissima la formazione intesa non solo come l'insieme delle competenze professionali e dei protocolli da applicare, ma bisogna lavorare sulla loro emotività".
Quali rischi corrono?
"L' interiorizzazione di un processo subdolo che è il cinismo".
Sì, ma il poliziotto deve essere un duro. Almeno nell' immaginario collettivo lo è.
"Esiste quello che chiamo il cinismo buono e che hanno anche i medici. È necessario per svolgere una determinata professione. Se il chirurgo sviene quando vede il sangue, non può operare. È quel giusto distacco necessario per non farsi travolgere dalle emozioni. Ma poi c' è un cinismo cattivo che è quello che atrofizza i sentimenti anche negli altri ambiti".
La vita professionale che condiziona quella privata.
"Esatto. Quella dei poliziotti è la categoria più colpita da divorzi e separazioni. Questo è un dato sociologico. Conosco molte mogli, compagne e fidanzate di agenti e spesso mi riferiscono di quanto sia diventato scortese, insensibile, freddo il proprio uomo".
Che cosa lamentano i poliziotti che ha conosciuto?
"La solitudine. Nel senso che se anche accadono cose pesanti, non ne possono parlare. Ho raccolto centinaia di testimonianze. È vero ci sono gli psicologi, ma se li metti al corrente di un tuo problema rischi che ti ritirino l'arma e il tesserino e vieni sospeso dal servizio".
Soffrono per il nostro sistema giudiziario che spesso rimette in libertà soggetti che hanno faticato a prendere?
"Sono molto equilibrati. Capiscono la differenza dei ruoli. Molti si lamentano perché non sono sufficientemente gratificati. Non solo da un punto di vista economico perché hanno stipendi oggettivamente bassi, ma anche sul piano della soddisfazione personale. I propri superiori tendono a non gratificare e così gli agenti traggono la loro soddisfazione nell' aiutare gli altri".
Durante i corsi di formazione che consigli dà ai poliziotti?
"Non dispenso consigli. Pongo delle questioni e sollecito una riflessione. Cito per esempio il quadrato dello psicanalista Bion e spiego che ogni contesto professionale è pieno di sostanze tossiche come le invidie e le gelosie dei colleghi, ma anche quelle che ciascuno di noi porta con il proprio carattere. Se non si riconoscono queste tossicità si trovano delle vie di fuga".
Quali?
"La prima porta a non assumersi le proprie responsabilità A questo ci penserà qualcun altro, la seconda che spinge a trovare un capo espiatorio Non è colpa mia, la terza che spinge a valorizzare solo se stessi e l' altro collega con cui si lavora, e la quarta che induce all' attesa del Messia. Si aspetta che arrivi qualcosa dall' alto che cambi tutto. Ma in questo modo si rischia di consumare tutta la vita professionale facendo il giro dei quattro cantoni. Non ci si schioda Si passa da una via di fuga all' altra Non indico soluzioni, ma voglio solo che acquisiscano consapevolezza".
Poi cos' altro spiega?
"Ho creato l'immagine della farfalla".
Perché?
"Spiego che per volare alto professionalmente abbiamo bisogno di quattro ali come una farfalla. L' ala delle competenze, quella della comunicazione perché bisogna saper gestire anche verbalmente la propria professionalità e quella della consapevolezza del ruolo. Spesso i poliziotti, come gli insegnanti e i medici, dimenticano la loro funzione sociale. Nella formazione iniziale non sono sufficienti le nozioni di deontologia, ci deve essere consapevolezza dell'enorme ruolo sociale che svolgono".
La quarta ala?
"È quella del carattere".
Ma quello mica si può cambiare?
"Certo che sì. Bisogna solo avere consapevolezza del proprio carattere. E ci sono autorevoli studi che dimostrano come, a condizionare la vita professionale, sia proprio l'aspetto caratteriale".
Quale tratto caratteriale permette di avere successo?
"Se lavori in squadra o dirigi una squadra non puoi avere un caratteraccio. Maltrattare i tuoi collaboratori o umiliarli davanti a tutti, per esempio, non puoi farlo perché rovini le professionalità degli altri".
Lei che da studioso ha vissuto come un poliziotto qual è stata l'emozione più forte che ha provato?
"Le ho provate tutte. Loro vivono tutti i sentimenti. Anche lo stupore per le cose che fanno".
Ha mai avuto paura?
"Mi sono trovato in situazioni pericolose. Come entrare in una gioielleria dopo un furto senza sapere se dentro c' erano ancora i ladri oppure no".
Cosa la colpisce?
"La creatività e l'umanità. E il fatto che nonostante la distanza geografica usino le stesse espressioni, come una vera tribù. Fare il poliziotto a Bolzano non è come farlo a Napoli, eppure in Trentino come in Campania, i poliziotti usano frasi come il pesce puzza dalla testa. E poi ci sono tradizioni che vanno avanti da anni".
Per esempio?
"A Napoli e a Siracusa a Natale i poliziotti vanno nelle case dove c' è povertà, portano giochi e cibo. Così controllano il territorio attraverso la costruzione del consenso".
"I medici della Calabria? È giusto pagarli meno perché sono meno bravi". Susanna Ceccardi sulla sanità e gli stipendi dei medici al Nord e al Sud: "Non ce l'ho con i calabresi, ma va premiata la qualità", scrive Claudio Cartaldo, Mercoledì 13/12/2017, su "Il Giornale". "Ho visto i dati della differenza degli stipendi tra i medici calabresi e i medici dell’Emilia Romagna. Ci saremmo tutti stupiti negativamente se gli stipendi dei medici calabresi fossero stati più alti di quelli dell’Emilia Romagna. Menomale che non è così”. Susanna Ceccardi, sindaco leghista di Cascina (Pisa), è intervenuta ad Agorà ed ha provato a spiegare la sua posizione sul perché - secondo lei - i dottori che operano al Nord dovrebbero essere pagati più di quelli che lavorano al Sud. A discutere di sanità in studio erano presenti la conduttrice Serena Bortone, il sociologo Domenico De Masie e Carlo Puca, giornalista di Panorama. Secondo la Ceccardi non è vero che il problema della malasanità al Sud sia dovuta, come ha provato a replicare la Bortone, alle "strutture complicate" in cui si trova a lavorare il dottore meridionale: "Secondo me no, perché in Emilia Romagna hanno delle strutture specializzate, hanno delle specializzazioni maggiori", dice il sindaco leghista. E alla domanda se sia giusto pagare meno un medico del sud, risponde: “Bisogna utilizzare il metodo meritocratico: se medici fanno meglio il loro lavoro devono essere pagati di più. Questo è normale, come dovrebbe essere in tutte le sanità”. E ancora: "Sto parlando di qualità: scusi ma i casi di malasanità li ha presenti in Calabria?". Gli altri ospiti in studio non hanno condiviso le parole della Ceccardi. Che però ha tirato dritto per la sua strada. "Eh però dipenderà anche dai medici che lasciano i bisturi negli stomaci della gente...", spiega mentre il sociologo De Masi prova a controbattere sostenendo che il problema riguardi il sistema e non il singolo lavoratore. "A volte dipende anche dal singolo lavoratore - replica il sindaco - perché ci sono magari medici molto bravi che devono essere pagati di più. Necessariamente. Bisogna premiare di più attraverso il metodo meritocratico. Non ce l’ho col medico calabrese. Ci sono tanti medici calabresi che lavorano in strutture di eccellenza magari in tutta Italia e in tutto il mondo che vengono pagati di più, ma la sanità calabrese non è proprio un’eccellenza in Italia, non veniamo a fare i buonisti". Ma di fronte alle obiezioni dei presenti, secondo cui i dottori dalla Calabria se ne vanno proprio perché le strutture sono inadeguate, Ceccardi - come riporta il Fatto - conclude: "In Calabria, anche per i casi di malasanità, ci sono medici meno bravi che in Emilia Romagna. Nella media, poi magari ci sono delle eccellenze".
Lega Nord, la sindaca di Cascina Ceccardi: “E’ giusto che i medici calabresi siano pagati meno perché sono meno bravi”. L'amministratrice del Comune pisano ad Agorà: "I casi di malasanità in Calabria li avete presenti?". Il sociologo De Masi ribatte: "Ma la qualità del servizio dipende anche dall'organizzazione complessiva". E lei: "Eh però dipenderà anche dai medici che lasciano i bisturi negli stomaci", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 12 dicembre 2017. Vuole togliere “Nord” dal simbolo della Lega, fa campagna elettorale da anni tra Puglia, Campania e Sicilia, ha messo il cappello sulla vittoria di Nello Musumeci, sul partito nazionalista anziché nordista ha litigato di brutto con Umberto Bossi. Ma la campagna di Matteo Salvini al Sud rischia di finire maluccio se le tesi del Carroccio sono quelle della sindaca di Cascina, Comune medio-piccolo della provincia di Pisa, simbolo dello sfondamento dei leghisti al Centro in direzione Meridione. Secondo Susanna Ceccardi, infatti, è giusto che i medici calabresi siano pagati meno (molto meno) dei medici dell’Emilia Romagna. Lo ha detto durante Agorà, il programma di Rai3. “Ho visto i dati della differenza degli stipendi tra i medici calabresi e i medici dell’Emilia Romagna. Ci saremmo tutti stupiti negativamente se gli stipendi dei medici calabresi fossero stati più alti di quelli dell’Emilia Romagna. Menomale che non è così” ha detto la sindaca leghista. A nulla sono servite le obiezioni della conduttrice Serena Bortone e degli altri ospiti in studio, come il sociologo Domenico De Masi e il cronista di Panorama Carlo Puca. “Dovrebbe essere uguale” replica alla sindaca De Masi. E lei: “No, non dovrebbe essere uguale”. La Bortone cerca di contestualizzare: “Probabilmente lavora in strutture complicate è bravo almeno tanto quanto quello emiliano”. Ma la Ceccardi non ci sta: “Secondo me no, perché in Emilia Romagna hanno delle strutture specializzate, hanno delle specializzazioni maggiori”. E quindi è giusto pagare meno un medico calabrese?, insiste la Bortone. “Bisogna utilizzare il metodo meritocratico” replica la sindaca pisana. Puca cerca di farla ragionare: “Mi sa che Salvini così i voti al Sud Salvini non li prende se continua così”. Ma la prima cittadina leghista insiste: “Se i medici fanno bene il loro lavoro, devono essere pagati di più ma questo è normale come dovrebbe essere in tutte le sanità”. De Masi prova ancora a capire: “A parità di lavoro, i calabresi dovrebbero essere pagati di meno?”. La Ceccardi risponde: “Sto parlando di qualità: scusi ma i casi di malasanità li ha presenti in Calabria?”. Il sociologo tenta di spiegare che la qualità della sanità non dipende dal singolo lavoratore, ma dall’organizzazione complessiva. Ma la Ceccardi non ci sente: “Eh però dipenderà anche dai medici che lasciano i bisturi negli stomaci”. Contestare questa tesi, per la sindaca, è “fare i buonisti” (“ma lei non capisce niente di organizzazione”, ribatte De Masi). “A volte dipende anche dal singolo lavoratore, perché ci sono magari medici molto bravi che devono essere pagati di più. Bisogna premiare di più attraverso il metodo meritocratico”. Bortone e De Masi ci provano una volta per tutte: “Secondo lei è giusto pagare meno un medico calabrese che magari fa lo stesso lavoro di uno di Milano?”. La Ceccardi torna sul punto: “No io non ce l’ho col medico calabrese. Ci sono tanti medici calabresi che lavorano in strutture di eccellenza magari in tutta Italia e in tutto il mondo che vengono pagati di più, ma la sanità calabrese non è proprio un’eccellenza in Italia, non veniamo a fare i buonisti”. “Infatti la sanità è così perché i più bravi se ne vanno” ragiona Puca. Alla fine la Ceccardi dice di essere stata fraintesa, rispiega cosa voleva dire. “In Calabria, anche per i casi di malasanità, ci sono medici meno bravi che in Emilia Romagna. Nella media, poi magari ci sono delle eccellenze”.
«Medici calabresi più scarsi? È un’idiozia», scrive "L'Altro Corriere" il 13 dicembre 2017. Dura lettera dei cinque presidenti degli Ordini provinciali dopo l’apparizione della sindaca leghista di Cascina ad Agorà. «In una situazione di sfascio è solo grazie a loro se possiamo ancora parlare di servizi sanitari». Scura: «Tengono alto il nome fuori dalla regione». Mettere d’accordo i cinque presidenti degli Ordini provinciali dei medici è stato facile, facilissimo. Così come far loro firmare una lettera nella quale «esprimono il loro sdegno per le inaccettabili e farneticanti tesi espresse da Susanna Ceccardi, intervenuta, nella sua veste di sindaco della Città di Cascina, nella trasmissione di approfondimento giornalistico “Agorà”, andata in onda su Rai 3 il 12 dicembre». Per Ceccardi (potete leggerlo qui), i medici calabresi dovrebbero essere pagati di meno dei colleghi che operano in altre Regioni d’Italia, perché meno bravi. Idea ribadita più volte, seppure con sfumature diverse, nel corso della trasmissione. E che ha provocato la reazione dei presidenti degli ordini Eugenio Corcioni (Cosenza), Vicenzo Ciconte (Catanzaro), Pasquale Veneziano (Reggio Calabria), Enrico Ciliberto (Crotone) e Antonino Maglia (Vibo Valentia). «L’offensività, la stupidità e la rozzezza di una tale tesi – scrivono in una nota – è in re ipsa e non meriterebbe di essere commentata, se non fosse stata espressa in una trasmissione giornalistica di punta del servizio televisivo pubblico nazionale». «Nessuno – spiegano i medici – vuole qui negare i problemi che investono il servizio sanitario della Calabria, ma di questo stato di fatto i medici sono innanzitutto vittime. In realtà, in una situazione di generale sfascio, è solo grazie all’abnegazione, alla professionalità ed al senso di responsabilità degli operatori sanitari se, oggi, possiamo ancora parlare di servizi sanitari, comunque, erogati in Calabria». L’elenco delle doglianze dei medici è lungo: «Anni di gestione commissariale, con blocco delle assunzioni, hanno ridotto al lumicino gli organici, cosicché, oggi, sempre meno medici si trovano a combattere da soli in strutture complesse, cercando di rispondere al meglio delle loro possibilità alle richieste di salute che arrivano dai pazienti. Il tutto in strutture sempre più fatiscenti, in cui gli investimenti tecnologici sono chimere». L’idea che qualcuno possa pensare che sia giusto pagarli di meno perché più scarsi dei loro colleghi è assurda: «In realtà – scrivono ancora i presidenti degli Ordini –, medici che, in questa situazione di disorganizzazione totale, riescono, comunque, a curare i malati dovrebbero essere premiati, perché portatori di professionalità e di valori fuori dal comune. Medici che, infatti, quando si trasferiscono in altre realtà, meglio organizzate e gestite, si dimostrano, sempre e subito, all’altezza dei compiti che sono chiamati a svolgere, per la loro invidiabile preparazione e professionalità». Ceccardi faceva riferimento anche a casi di errori medici («i bisturi lasciati nello stomaco»). Per i cinque presidenti «è solo il caso di evidenziare che i dati smentiscono la favola secondo la quale i medici calabresi sarebbero autori di errori professionali in misura maggiore di altre realtà. Fermo restando che quando errori vengono acclarati, vanno perseguiti e puniti, i dati dicono, infatti, che, pur nelle condizioni date e sopra evidenziate, i casi di errori professionali da parte dei medici calabresi non differiscono dalla media nazionale. Solo che per i populisti, in cerca di visibilità e voti, l’errore del medico calabrese fa più notizia, perché i medici calabresi non hanno santi in paradiso e non hanno apparati economici, politici ed informativi che li tutelano, come, invece, avviene, in tante altre realtà». «Non intendo entrare nel merito alle dichiarazioni della sindaca leghista Ceccardi rilasciate ad Agorà in quanto alle scemenze ed alle offese di tal genere non si può rispondere. Esse qualificano chi le pronuncia e non certo chi le riceve». Lo ha detto il segretario aziendale Anaao-Assomed Ao di Reggio Calabria, Gianluigi Scaffidi. «Dico solo che i medici calabresi, la cui bravura non può essere sicuramente certificata da tale Ceccardi da Cascina, dovrebbero essere pagati il doppio rispetto a chi sotto il profilo organizzativo è messo in condizione di esprimere al meglio la propria professionalità. Noi, invece – prosegue -, in Calabria paghiamo la insulsaggine, ignoranza, incompetenza, clientelismo ed arroganza di chi, come il sindaco di Cascina, rappresenta le istituzioni che presiedono all’organizzazione del Servizio sanitario regionale. Di ogni colore politico. Ieri Scopelliti, oggi Oliverio. Faccia della stessa identica medaglia». «Chiudo – conclude Scaffidi – con i miei complimenti all’ex presidente Scopelliti per i nuovi compagni di viaggio sceltisi per il suo tentativo di riciclaggio. Avrà tutta la categoria medica vicina». «In merito alle dichiarazioni rilasciate ad una televisione nazionale circa l’opportunità che i medici calabresi guadagnino meno dei colleghi di altre regioni, mi preme fare alcune osservazioni di merito». Lo ha detto il commissario ad acta della Sanità in Calabria, Massimo Scura. «Molti medici calabresi fanno fino in fondo il loro dovere, anzi – spiega -, vista la situazione nella quale è precipitata la sanità calabrese negli anni addietro, molti di loro, come pure molti altri dirigenti sanitari e non, molti infermieri e altro personale del comparto, riescono ad esprimere la loro professionalità con grande abnegazione in mezzo a tante difficoltà». «A dimostrazione del loro valore va infine osservato – conclude Scura – che molti medici calabresi tengono alto il nome della loro terra fuori regione ed io ne conosco tantissimi e alcuni di loro sono tornati a lavorare in Calabria con splendidi risultati».
Medici calabresi meno bravi? Oliverio: “Affermazione razzista”, scrive il 14 dicembre 2017 CN24Tv. “Medici calabresi meno bravi”, polemica su frase sindaca leghista. Le affermazioni rilasciate nel corso di una trasmissione televisiva dalla sindaca leghista di Cascina, Susanna Ceccardi, secondo la quale i medici calabresi dovrebbero essere pagati di meno perché meno bravi di quelli di altre regioni "sono inauditamente offensive ed ingiuriose, non solo verso i nostri professionisti, ma soprattutto perché esse confermano il perdurare di uno stereotipo negativo con cui molti ancora guardano alla nostra regione”. È quanto puntualizza, in una nota, il Presidente della Regione, Mario Oliverio aggiungendo che sarebbe "evidente che la sindaca di Cascina non conosce affatto la storia della nostra terra, quella passata e quella recente. Non sa che la Calabria è la regione dove sono nati - faccio solo qualche esempio- Bruno da Longobucco, il Premio Nobel Renato Dulbecco e il professor Francesco Crucitti e ignora completamente il fatto che anche nella sua terra, la Toscana, operano tantissimi medici calabresi stimati e ammirati". "La sindaca, inoltre – insiste il Governatore - disconosce completamente la professionalità dei nostri medici che, pur costretti ad operare in un sistema sanitario commissariato da anni, costretto a subire tagli e distorsioni evidenti, spesso offrono prestazioni di riconosciuta eccellenza. Farsi prendere la mano, magari per un desiderio di visibilità - aggiunge Oliverio - significa agitare triti luoghi comuni, stereotipi e immagini generalizzate rispetto ad una regione la cui maggioranza è, invece, costituita da cittadini e professionisti onesti e perbene, che studiano e lavorano con la stessa dedizione, la stessa passione e la stessa professionalità di tutti gli italiani onesti e perbene”. “Non è con le offese e con affermazioni rozze e razziste - conclude Oliverio - che si costruisce l’unità e il riscatto di un popolo. Ai medici calabresi, a cui riconfermiamo la nostra stima e la nostra ammirazione incondizionata, esprimiamo solidarietà e vicinanza”.
OFFESE AI MEDICI CALABRESI: GALLO PORTA IL CASO IN CONSIGLIO REGIONALE, scrive il 17 dicembre 2017 "Strill". «Il Governo regionale scenda in campo per tutelare dignità e professionalità dei medici calabresi». Lo chiede il consigliere regionale Gianluca Gallo in un ordine del giorno che sarà presentato in Aula in occasione della seduta del 19 Dicembre. Al centro dell’atto, le affermazioni della sindaca di Cascina, Susanna Ceccardi, che il 12 Dicembre, intervenendo alla trasmissione televisiva “Agorà”, in onda su Rai Tre, aveva dichiarato che i medici calabresi dovrebbero essere pagati di meno perchè meno bravi di quelli delle altre regioni, rendendosi inoltre autrice di altri commenti palesemente denigratori, volti a dimostrare l’infondata minorità del personale sanitario calabrese rispetto a quello di altre regioni. «Unanime – ricorda Gallo – è stato lo sdegno per frasi palesemente ingiuriose e diffamatorie, che non tengono in alcun conto l’abnegazione, la professionalità ed il senso di responsabilità degli operatori sanitari calabresi, al contrario ancor più apprezzabili se rapportate alle precarie condizioni in cui da anni versa il sistema sanitario calabrese. Tanti sono, del resto, gli esempi di medici calabresi che, nella terra d’origine o in altre realtà, hanno conseguito e conseguono brillanti risultati professionali, dimostrandosi comunque e sempre all’altezza dei compiti che sono chiamati a svolgere». Una situazione attestata anche dalle statistiche, che come sottolinea Gallo, «smentiscono con la forza dei numeri l’assunto per il quale i medici calabresi sarebbero autori di errori professionali in misura maggiore rispetto ai colleghi di altre realtà». Situazione messa in luce anche dai presidenti degli Ordini dei Medici chirurghi e degli odontoiatri delle cinque province calabresi, scesi in campo per contestare le dichiarazioni rilasciate dalla sindaca di Cascina, auspicando l’avvio di azioni di tutela, anche in sede giudiziaria, in favore dei medici calabresi. «Proprio per questo – chiosa Gallo – chiederò alla giunta regionale di far seguire alle parole di condanna del presidente Oliverio azioni concrete, impegnando la giunta ad assumere tutte le iniziative necessarie e idonee affinchè vengano tutelate la dignità dei medici calabresi e l’immagine ed il buon nome della Calabria, valutando ogni azione a tal fine possibile, non escluse quelle eventualmente esperibili in sede istituzionale, civile e penale».
Filippo Facci e il piagnisteo napoletano: "Ecco perché ve lo meritate". Libero Quotidiano il 3 marzo 2017. Eh, i napoletani. Mio padre dopo i cinquant' anni andò a lavorare a Napoli e prese casa vicino allo stadio di San Paolo; una sera stava rientrando in auto - mi raccontò - e incrociò la folla che lasciava lo stadio dopo che il Napoli le aveva buscate da una squadra del norditalia, non ricordo quale. L' auto aveva la targa di Milano. Un passante disse qualcosa a mio padre che si sporse verso la sinistra, ma era solo una scusa per distrarlo mentre un ragazzetto aveva infilato le braccia dal finestrino di destra e si era messo a frugare nel cruscotto; mio padre gridò «ladro!» e poi andò così: «chi ladro?»; «l'ha detto chillo»; «'o settentrionale ha detto che siamo ladri»; «ah, un razzista di Milano...». La faccio breve: è tanto se tornò a casa vivo. Trovo esemplare questo raccontino ancor oggi: la frustrazione, l'aggressività, il vittimismo e poi ancora l'aggressività. Napoli. Di questa tendenza alla lagna ebbi modo di accorgermi anche quando passai qualche mese a Napoli per il servizio di leva, laddove conobbi molti napoletani nel bene e nel male: il problema è che ora dobbiamo parlarne nel male, viste le reazioni al titolo «Piagnisteo napoletano» che Libero ha pubblicato ieri. Ora non entro nel merito delle questioni affrontate negli articoli che sono, poi, capisaldi storici del napoletanismo: l' assenteismo cronico, le assunzioni indiscriminate, i funzionari pubblici in quantità sovietica, il complottismo calcistico, lo smercio delle tessere del Pd e non solo, gli illeciti creativi, la tendenza a fottere te e soprattutto quello Stato per cui il napoletano medio ha pochissimo rispetto, preso com' è, da secoli di storia, a doversene difendere come se fosse un eterno invasore. E poi Francesco Specchia, ieri, ha già descritto benissimo il pianto ecumenico dei partenopei, le sceneggiate lacrimevoli e a voce alta, quel napoletano medio che rischia di essere perpetuamente «mariuolo dentro» e vittimista strategico. La persecuzione - Il problema è che di queste cose, con dei napoletani, non si può neppure parlare, perché alzano gli occhi al cielo e si avvoltolano in quel loro fatalismo plebeo e sanfedista che ancor oggi impedisce loro di essere un popolo. Perseguitati da tutti: dai Borboni, da sovrani e vicerè, dal fascismo, dagli americani, dai politici, dalla Regione, ora dalla comunità europea, poi naturalmente dagli arbitri e nel suo piccolo persino da Libero. Io, come detto, non scrivo da una baita in montagna rigirando la polenta, credo di essere sufficientemente di mondo da non dovermi difendere da repliche anche educate tipo «Napoli è bellissima» e «devi studiare la storia di Napoli» e «vieni a Napoli», roba così. Le so queste cose, molti di noi le sanno. A Napoli ho un po' di amici (tutti molto signori, come a Napoli sanno essere incredibilmente) e a Napoli ho anche vissuto. Ogni tanto ci vado. Credo che a Napoli si possa vivere bene come in poche altre città del mondo, ma basta così, non è questo in discussione: si può vivere bene - mi assicura un amico che ci si è appena trasferito - anche a Caracas, il che non toglie che Caracas abbia certe caratteristiche per delle ragioni storiche che si possono discutere, ma che ha lo stesso. Così come Napoli ha dei record che la rendono unica in tutta Europa: la disoccupazione soprattutto giovanile, l'astensione alle urne, le costruzioni abusive, i reati ambientali, quelli legati all' usura, gli scippi e i furti d' auto, e non sto neppure citando il suo più grande successo letterario d' esportazione: la camorra. E poi ha il piagnisteo, il vittimismo, l'autocommiserazione: una tendenza palese a de-responsabilizzarsi e a incolpare chicchessia, soprattutto i predoni razzisti del Nord. E sarà colpa del Nord se un'indagine del Sole 24 Ore, basata sulla qualità della vita nelle città (tenore di vita, affari e lavoro, servizi, ambiente, salute, popolazione, ordine pubblico e tempo libero), ha messo Napoli al 107esimo posto, esattamente l'ultimo. Oppure se «Reddit» - un sito di social news frequentato anche da Barack Obama - ha messo Napoli ai vertici della classifica dei luoghi turistici più deludenti secondo chi c' è stato. La classe dirigente - Tempo fa, per aver scritto certe cose e per aver detto che a Napoli la spazzatura impera ancora in tutti i vicoli - non lo scrissi certo io solo - sono stato addirittura querelato dalla «città di Napoli», in pratica il presidente della «Municipalità Napoli Nord». Aveva pure chiesto un intervento dell'Ordine dei giornalisti. Avevo scritto di quello di cui stiamo parlando: dell'inconsapevolezza di molti napoletani di ciò che Napoli oggettivamente è (dati alla mano) e di come è mediamente considerata, e poi mi ero permesso un'invettiva contro un consigliere napoletano che aveva lamentato «gli investimenti che non si fanno al Sud». Vado testuale: «Che nel 2015 un consigliere napoletano abbia ancora il fegato di chiedere soldi senza andare a nascondersi sottoterra (sotto la spazzatura, vorremmo dire) mostra come la classe dirigente napoletana viva in una bolla completamente separata dalla percezione del reale». Ecco, è così. Dopodiché sui cosiddetti «social» avevo ricevuto innumerevoli minacce varie, auguri di morte, parolacce, solita roba da straccioni anonimi. Insulti, sì. Ma soprattutto piagnisteo. Che dite, ricominceranno?
"Piagnisteo napoletano". Ecco l'articolo sotto accusa su Libero del 2 marzo 2017 di Francesco Specchia. Vide Napule e po muore. C'è qualcosa di terribilmente fascinoso, nel piagnisteo che in questi giorni avvolge Napoli. Una tammurriata d'illegalità, il senso dell'etica pubblica che si scioglie nel chiagn' e futte, al posto del sangue di San Gennaro. Nell'area Nord di Napoli, a Miano, sfilano ventimila aspiranti elettori, ombre diafane comparse dal nulla e ignote all'anagrafe, diligentemente in fila per iscriversi al del Pd con in mano una tessera comprata da altri a 10 euro e con in bocca la parola d'ordine, «Mi manda Michel...», (variazione di «Mi manda Picone» , ma nel senso di Michel Di Prisco vicepresidente della Municipalità Miano-Scondigliano). Tutti costoro ora son lì a lamentarsi con i boss locali perchè il partito, da Roma, ha snasato olezzo di compravendita di voti. E il partito, memore della grande tradizione partenopea -dai Borbone a Achille Lauro a Valeria Valente - dell'urna magica e delle preferenze riprodotte per partogenesi, ha dunque subito bloccato il tesseramento, inviando colà un commissario milanese, Emanuele Fiano per indagare e capire; il quale Fiano, probabilmente ora corre il rischio di finire blandito dagli autoctoni; e tramortito di pizza, pastiera e sfogliatelle; e spinto ad ispezionare una sede del Pd di cartapesta, come nei film di Totò. A Napoli, oggi, si lamentano tutti. Si lamentano anche i decathleti del cartellino, quei 94 assenteisti professionisti arrestati e indagati all'Ospedale di Loreto Mare. Tra costoro perfino s' indigna quel medico il quale, risultando in corsia, era invece andato in taxi a giocare a tennis giustificandosi con «meglio lavorare tre ore bene, piuttosto che otto ore svogliati in corsia...». E si strazia, addirittura, quel dipendente addetto proprio al controllo degli assenteisti che in orario di servizio preferiva, giustamente, fare lo chef in un hotel. Non a Napoli, a Nola. Sessantaquattro chilometri al giorno: resistenza fisica e dedizione asburgiche, peraltro. E si lamentano, trottando sotto il suddetto nosocomio, armate di striscioni e cori in rima baciata, le turbe di infermieri precari che ora avanzano il proprio giusto diritto al posto fisso, dato che quelli che l'occupavano prima, il posto fisso, ora hanno traslocato nelle patrie galere. E, vicino agli infermieri, si muovono, alle falde della Prefettura, e piangono in quadrata falange, frotte d' immigrati protestanti in modalità antirazzista (e se c' è una città non razzista è proprio Napoli) contro, nell' ordine: la «legge Bossi-Fini», le spese militari, le politiche di guerra, il ministro Minniti. Uno strepitoso senso dell'ammuina. Ovviamente, ulula alla luna pure il Napoli Calcio dopo i due rigori beccati dalla Juve, però «non per l'arbitro ma per le decisioni», dimenticando che le decisioni sono dell'arbitro. Ed esprime un vivace dissenso finanche l'imprenditore Alfredo Romeo, arrestato da carabinieri e Finanza in azione congiunta, «in relazione ad un episodio di corruzione nell'ambito dell'inchiesta Consip». Con lui è perquisito l'ex parlamentare -napoletanissimo- Italo Bocchino. La cosa che mi ha inquietato è che Romeo non nega, ma si giustifica invocando «analoghe modalità» adottate dai suoi concorrenti; cioè se qua rubano e corrompono tutti, che i' songo l'unico fesso? Ed è questo il punto. Il punto è che questo pianto ecumenico, queste lacrime da sceneggiata, rischiano d'affondare la dignità d'un popolo che ha una grande storia. Confermano che il napoletano medio è ancora «mariuolo dentro», vittimista strategico. E non ha rispetto di uno Stato che certo - è la solita trama- l'ha storicamente considerato un figlio illegittimo. Ma è inutile estrarre dal cilindro dalla polemiche la trita «questione meridionale» che vibra dai tempi di Giustino Fortunato a quelli di Luciano De Crescenzo. Chi scrive è un cultore antico della napoletanità. Cresciuto a Totò ed Eduardo, educato alla scuola giuridico/ economica di Filangeri, ammaliato dal rock dei Bennato, io mi chiedo spesso - tralasciando la camorra- perché, dal motorino senza casco alla truffa come strategia fiscale, Napoli tenda a fotterti. Non è tanto una questione storica, o etica, o psicologica, ma semantica. Forse c' entra la cazzimma. Per i templari della napoletanità 'a cazzima - termine intraducibile- è la furbesca pratica dello stare al mondo, l'esaltazione del maschio alfa nelle procelle di una società spietata. L'essere un po' figl' e n' crocchia. Per il resto del modo, è la pratica spietata di sfruttare gli altri, anche amici e parenti, per raggiungere il proprio scopo. «Dai grandi affari o business alle schermaglie meschine per chi deve pagare il pranzo o il caffè» (Pino Daniele). Dispiace per i napoletani perbene...
"Napoli indecorosa". E il pm dà ragione a Giletti. Il conduttore Rai aveva denunciato una situazione scandalosa a Napoli. De Magistris lo ha querelato, ma il pm chiede l'archiviazione, scrive Chiara Sarra, Domenica 17/07/2016, su "Il Giornale". "Napoli è indecorosa". Parole pronunciate in Rai da Massimo Giletti e che avevano suscitato un vespaio di polemiche, oltre a costargli una querela da parte di Luigi De Magistris. Ma, come racconta oggi Repubblica, per il conduttore tv la procura di Napoli ha chiesto l'archiviazione. "La situazione di degrado che affligge alcune zone di Napoli e, in particolare, quella della stazione ferroviaria centrale, è da tempo oggetto di trattazione e denuncia e in diversi quotidiani e in varie trasmissioni televisive", scrive nella sua richiesta il sostituto procuratore Anna Frasca, "Significativa è, in tal senso, la notizia riportata, in più occasioni, proprio da alcuni giornali in ordine ai cosiddetti mercatini dei rifiuti che venivano svolti, fino a poco tempo fa, con periodicità proprio nei pressi della stazione centrale di Napoli, alimentando il fenomeno di accumulo di rifiuti e dunque di degrado dell'intera zona circostante". Insomma, un quadro tale per cui Giletti non deve essere accusato di diffamazione: "Tale situazione, attesa la sua rilevanza sociale, rende legittimi anche valutazioni e giudizi molto forti quali quelli espressi dall'odierno indagato in ordine allo stato di decoro della città e all'efficacia dell'azione di governo condotta negli anni dalla classe politica locale".
Massimo Giletti offende il Sud all’Arena: “Furbetti? Tutti meridionali”, scrive il 10 ottobre 2016 "La Voce di Napoli". Massimo Giletti ci casca di nuovo e offende il Sud. Durante la scorsa puntata, domenica 9 ottobre, de L’Arena il conduttore milanese torna a fare dichiarazioni poco lusinghiere sul Meridione. La lezione della scorsa volta pare non sia servita, sembrava che fosse “pace fatta” con Napoli dopo l’incontro in canoa con l’imprenditore Enrico Schettino. Il conduttore di Rai Uno avrebbe attribuito la colpa della crisi economica agli “sprechi tutti meridionali”. Non è la prima volta che Giletti utilizza una problematica italiana per infangare il Mezzogiorno quindi verrebbe da chiedersi: come mai l’uomo non hai mai additato città del Nord di fronte a situazioni anche molto complesse che hanno investito l’Italia Settentrionale con scandali finanziari? Questa volta le dichiarazioni di Massimo Giletti non sono passate inosservate, il Movimento Neoborbonico, infatti, avrebbe inviato una petizione alla Camera e una richiesta di intervento alla Commissione Vigilanza della Rai. Questa è la proposta del Movimento avanzata su Facebook: “Ancora una volta il conduttore piemontese, non nuovo a uscite contro Napoli, contro il Sud e contro la storia meridionale, ha presentato la solita lunga e unilaterale serie di luoghi comuni tra “furbetti”, vitalizi, pensioni e sprechi tutti meridionali. Premesso che chi commette questi reati deve essere sempre punito, non si ricordano, però, servizi simili in quella trasmissione per casi come quelli magari veneti (tra Mose e banche fallite) o lombardi (tra maxi-evasioni fiscali ed Expo) o tosco-padani (Monte Paschi in testa) o anche per la stessa “bigliettopoli” che ha coinvolto la Juventus in queste settimane. Si richiede, allora, se si tratta di una linea editoriale seguita da Giletti o se si tratta di una linea politica che, in un momento di crisi grave come quello attuale, vuole magari evidenziare l’impossibilità di “redimere” il Sud e la conseguente inutilità di aiutarlo. Il Movimento Neoborbonico ha invitato anche gli altri movimenti meridionalisti a inviare agli sponsor della trasmissione delle mail per comunicare che non utilizzeranno più prodotti e servizi di aziende che sostengono programmi che, di fatto, danneggiano il Sud.”
Killeraggio di Giletti contro la Sicilia. Ma lui quanti soldi pubblici ingurgita? Scrive "I Nuovi Vespri" il 26 febbraio 2017. Ancora un’altra puntata de l’Arena dedicata alla denigrazione della nostra regione. Pure con notizie false di cui poi si scusano, ma il messaggio è passato. E mentre lo pseudo giornalista fa la predica a chi incassa vitalizi erogati dalle casse pubbliche, lui intasca una quantità di soldi tale che dovrebbe indurlo a stare zitto…
E anche oggi, Massimo Giletti, nel corso de l’Arena, su Rai 1 si è divertito a denigrare la Sicilia. Ormai è chiaro: la sua è una missione. Per conto di chi la svolge, non lo sappiamo, ma poiché Rai significa politica, ovvio che i mandanti vanno cercati là. La Sicilia come capro espiatorio? Arma di distrazione di massa? Oppure una operazione più raffinata che mira a screditare un intero popolo che così, magari, non potrà reagire dinnanzi a nuovi furiosi tagli del Governo nazionale? Sia quel che sia, di pulito non c’è nulla in questa storia di cui non si vede la fine. E sempre più siciliani se ne stanno accorgendo se è vero che oggi la pagina Twitter della trasmissione è stata inondata di critiche. Non solo Twitter, anche su Facebook ci sono state reazioni accesissime. Incluse quelle di un’eurodeputata siciliana, Michela Giuffrida, ex giornalista di Catania che non ha esitato a definire il programma “la sagra del populismo, dell’approssimazione, della disinformazione”. Ma è stato il Presidente dell’Ars, Giovanni Ardizzone, oggi, a tenergli testa più degli altri. Perché l’argomento trattato lo tocca da vicino per il ruolo che ricopre. Come già la scorsa settimana, infatti, si è parlato di vitalizi. Ancora una volta Giletti si è scordato di soffermarsi su quelli nazionali: oltre 2000 ex deputati ne usufruiscono, ha scritto il Fatto quotidiano. Particolare che la settimana scorsa aveva ricordato lo stesso Ardizzone. Ma per l’Arena esiste solo la Sicilia, al massimo la Campania e la Sardegna. Basta che sia Sud e basta che se ne parli male. Ecco, dunque, il circo di Giletti, ancora una volta contro la Sicilia, pure con notizie false: “La Sicilia non lo ha mai applicato il contributo di solidarietà” ha tuonato questa specie di giornalista. Non è così. Si parla della trattenuta tra il 6 ed il 12% sulle pensioni più alte e sui vitalizi incassati da chi aveva svolto funzioni pubbliche introdotta dal Governo Letta. La Sicilia lo ha applicato per il triennio previsto (2014-2016). A quel punto, Ardizzone ha annunciato querela. E sono arrivate le scuse degli autori della trasmissione e poi quelle di Giletti che ha scaricato tutto su Crocetta, ospite in studio, che non lo ha contraddetto (figuriamoci). “Giletti- scrive il Presidente dell’Ars su Facebook- deve scusarsi con tutti i siciliani non solo con me. Giletti tentando di riparare alle ripetute falsità pronunciate nei miei confronti si è scusato, scaricando su Crocetta che non ha smentito dette falsità. E’ vero che Crocetta con i suoi contorcimenti dialettici ha contribuito al massacro della Sicilia, ma Giletti in nome della maledetta audience disinforma continuamente con notizie assolutamente infondate”. Lo ripetiamo: dietro il sistematico massacro della Sicilia c’ è una operazione politica. Il problema trattato, come detto, non riguarda solo la Sicilia e andrebbe risolto con una legge nazionale che evidentemente nessuno vuole. Ecco perché Ardizzone ha chiesto a Giletti, che lo ha invitato, di potere partecipare insieme con i Presidenti di Camera e Senato.
Però fanno schifo i Siciliani. L’importante è che passi questo messaggio. Noi non possiamo certo esortarvi a non pagare il canone Rai, non ci è consentito, ma possiamo dirvi quanto è pagato Giletti per l’opera di killeraggio continua contro la Sicilia. E velo diciamo perché sono soldi pubblici. Ebbene, come ha rivelato la stampa nazionale, Massimo Giletti ha un minimo garantito di 500mila euro lordi l’anno, nel 2016 però ne ha incassati 313mila di più per extra, totale 813mila euro. Una cifra impressionante. Questi non sono soldi pubblici? Perché non chiede al suo amico panettiere che ne pensa del fatto che un conduttore Rai del suo calibro possa guadagnare così tanto? O dobbiamo considerare questa somma il premio ad un killer? E se cosi fosse, si è mai vista una vittima pagare il suo carnefice? Giustissime le esortazioni che arrivano da più parti: si faccia un programma dedicato ai costi dei programmi Rai. Vedremo se ci sarà indignazione o meno nel vedere così tanti soldi degli italiani destinati a simili personaggi per simili lavori e lavoretti. Stendiamo un velo pietoso sulla presenza di Crocetta in studio. Che ha definito la Sicilia “la regione più canaglia d’Italia”. Ma si sa, come siamo, giudichiamo. “Si è prestato al gioco di chi intende massacrare la Sicilia. Si apre un problema istituzionale non indifferente. Convocherò consiglio di presidenza per martedì alle ore 10 per le necessarie determinazioni” ha commentato Ardizzone. Non si preoccupi più di tanto. Il problema Crocetta appartiene già al passato.
Busalacchi: “La sceneggiata di Giletti serve allo Stato per giustificare un ulteriore scippo di 700 milioni alla Sicilia”, scrive "I Nuovi Vespri" il 27 febbraio 2017. La verità è che lo Stato italiano non sa dove trovare 3 miliardi e mezzo di Euro chiesti dalla solita Europa dell’Euro. A Roma hanno già deciso che 700-800 milioni di Euro dovranno essere fatti pagare alla Regione siciliana, cioè a 5 milioni di Siciliani. Da qui la gazzarra organizzata da Giletti. Che serve soltanto a giustificare l’ennesimo scippo ai danni della nostra Isola. “L’attenzione mediatica che da qualche settimana si concentra sulla Sicilia, con argomenti spesso faziosi, se non sbagliati, ha una spiegazione semplice: lo Stato, per fronteggiare la richiesta dell’Unione Europea di una manovra di 3 miliardi e mezzo, ha deciso che 700-800 milioni circa li dovrà pagare la Regione siciliana. Da qui l’accanimento sui vitalizi degli ex deputati del Parlamento dell’Isola – con la solita sceneggiata da Giletti – che sono uno scandalo, ma che non sono diversi da quelli della Camera, del Senato e di altre Regioni italiane”. Lo dice Franco Busalacchi, candidato alla presidenza della Regione siciliana con I Nuovi Vespri (ed editore di questo blog), commentando l’ennesima puntata de L’Arena di Giletti dedicata al massacro della Sicilia (ve ne parliamo qua). “Quello che potrebbe succedere è molto grave – aggiunge Busalacchi -. Lo Stato, non sapendo dove trovare i soldi per la manovra folle chiesta dall’Europa dell’Euro, deve giustificare agli occhi dell’opinione pubblica nazionale un ulteriore scippo di circa 700 milioni di Euro al Bilancio della Regione siciliana. E l’unico modo che ha per giustificare un’ennesima porcata ai danni di 5 milioni di Siciliani è quello di rimestare su questa storia dei vitalizi: vitalizi per gli ex parlamentari che, detto per inciso, sarà la prima cosa che abolirò se verrò eletto presidente della Regione”. “Ma in questa storia il tema non è rappresentato dai vitalizi degli ex parlamentari dell’Ars – osserva il leader de I Nuovi Vespri -. Proviamo, sinteticamente, a illustrare quello che potrebbe succedere. La Regione ha un Bilancio di ‘cassa’ di circa 13 miliardi e mezzo di Euro. Il dato non è alla lettera, perché il consuntivo 2016 lo conosceremo a fine giugno. Ma i ‘numeri’ pressappoco, sono questi”. “Da 13 miliardi e mezzo – precisa Busalacchi – vanno tolti i 9 miliardi e 200 milioni circa della sanità. Restano 4,3 miliardi di Euro circa. Se gli togliamo il contributo per il risanamento della finanza pubblica che ci chiede ogni anno lo Stato (un miliardo e 300 milioni di Euro) la disponibilità per la Regione si riduce a 3 miliardi di Euro circa. Con questa cifra tutti i soggetti che, a vario titolo, dipendono dalla spesa regionale, sono oggi in grande sofferenza. Penso alle ex Province, ai Comuni, ai precari, agli operai della Forestale”. “Ebbene, nonostante ciò – aggiunge il candidato alla presidenza della Regione – il Governo Gentiloni avrebbe deciso di togliere dal Bilancio della Regione altri 700 milioni di Euro circa, portando il contributo per il risanamento dei conti dello Stato a carico della Regione siciliana da un miliardo e 300 milioni di Euro a circa 2 miliardi. Se ciò dovesse accadere gli effetti sulla vita dei Siciliani sarebbero terribili, se si pensa che si parla anche di un ulteriore taglio di 50 milioni di Euro al contributo dello Stato alla sanità siciliana, che passerebbe da 2 miliardi e 200 milioni di Euro all’anno a 2 miliardi e 150 milioni di Euro”. “Mi auguro che Roma trovi altrove i soldi per fronteggiare le richieste di Bruxelles – dice sempre Busalacchi -. Anche perché né il presidente della Regione, Rosario Crocetta, né l’assessore dimissionario, Gianluca Miccichè, hanno avuto il coraggio di dire – forse per non mettersi contro il Governo romano – che i contributi per assicurare l’assistenza h24 ai disabili gravi e gravissimi della Sicilia li ha tagliati il Governo nazionale. Quando governeremo noi – conclude il leader de I Nuovi Vespri – contesteremo a Roma tutti i fondi che ha depredato dal Bilancio regionale, a cominciare dalla sanità. Sarà una battaglia durissima, per questo è necessario che tutti i Siciliani di buona volontà si sveglino”.
GILETTI, IL SUD E I SOLITI LUOGHI COMUNI ANTIMERIDIONALI, scrive "parlamentoduesicilie.it". Il Movimento Neoborbonico ha inviato una petizione alla Camera e una richiesta di intervento alla Commissione Vigilanza della Rai dopo l'ultima puntata dell'Arena di Giletti (9/10/16). Ancora una volta il conduttore piemontese, non nuovo a uscite contro Napoli, contro il Sud e contro la storia meridionale, ha presentato la solita lunga e unilaterale serie di luoghi comuni tra "furbetti", vitalizi, pensioni e sprechi tutti meridionali. Premesso che chi commette questi reati deve essere sempre punito, non si ricordano, però, servizi simili in quella trasmissione per casi come quelli magari veneti (tra Mose e banche fallite) o lombardi (tra maxi-evasioni fiscali ed Expo) o tosco-padani (Monte Paschi in testa) o anche per la stessa "bigliettopoli" che ha coinvolto la Juventus in queste settimane. Si richiede, allora, se si tratta di una linea editoriale seguita da Giletti o se si tratta di una linea politica che, in un momento di crisi grave come quello attuale, vuole magari evidenziare l'impossibilità di "redimere" il Sud e la conseguente inutilità di aiutarlo. Il Movimento Neoborbonico ha invitato anche gli altri movimenti meridionalisti a inviare agli sponsor della trasmissione delle mail per comunicare che non utilizzeranno più prodotti e servizi di aziende che sostengono programmi che, di fatto, danneggiano il Sud.
Primi successi di una battaglia importante. La risposta di LIDL: "In relazione alla Sua precedente segnalazione, precisiamo che LIDL è totalmente estranea alle dichiarazioni rilasciate dal noto giornalista della Rai e ne subiamo anzi le conseguenze negative, nel momento in cui si diffondono messaggi che possono comportare, come nel caso specifico, uno svilimento dell'immagine della nostra società che opera nel sud Italia da oltre vent'anni con centinaia di punti vendita. Certi della doverosa necessità di tale chiarimento La ringraziamo per l'attenzione prestata e inviamo i nostri migliori saluti. Assistenza Clienti LIDL".
Oscar Farinetti dà lezioni di politica ai Siciliani: senti un po’ da quale pulpito…, scrive "I Nuovi Vespri" il 30 gennaio 2017. Alla Sicilia, preferisce l’estero. Al grano italiano, preferisce quello canadese (al glifosato). Attacca l’Autonomia come se parlasse di olive. Sentenzia sul popolo siciliano e dispensa consigli. Eccolo qui: un altro uomo affetto dalla sindrome ‘Lei non sa chi sono io’… In dieci anni non ha mai pensato di aprire una sede del suo food store in Sicilia. E dire che nella nostra Isola non mancano di certo le eccellenze egonostranomiche. Ha sempre preferito tenersene alla larga. Ora però, in visita a Palermo per una manifestazione organizzata dalla rivista online Cronache di Gusto, di Sicilia diventa un grande esperto. Non di cibi e vini, ma di politica e, addirittura, di Autonomia. Parliamo di Oscar Farinetti, patron di Eataly, per sua stessa ammissione grande amico di Matteo Renzi che difende a spada tratta in tutte le occasioni. La sua visita di oggi nel capoluogo siciliano è stata preceduta da interviste a tutta pagina sui quotidiani cartacei siciliani. Nelle quali, oltre alla solita retorica su quanto sia bella la Sicilia, oltre al paragone di renziana memoria sul numero di turisti che arrivano sulle isole spagnole e che invece non arrivano qua (giustissimo, come abbiamo detto anche quando queste parole le ha pronunciate Renzi, ma né lui, né Renzi sembrano rendersi conto che se un biglietto per le Canarie costa molto meno di un volo per la Sicilia, non è colpa dei Siciliani), ci dedica una predica di cui avremmo fatto volentieri a meno. In buona sostanza, sentenzia che dovremmo lamentarci di meno, rimboccarci le maniche e riconoscere i nostri errori. In poche righe, praticamente, ci accusa di vittimismo, pigrizia e presunzione. La solita visione nordica al limite del razzismo culturale che hanno molti imprenditori italioti che, però, sono i primi a correre in Sicilia quando si tratta di accaparrarsi fondi pubblici per iniziative imprenditoriali che poi portano profitto altrove (basti ricordare che la storia della Cassa per il Mezzogiorno e poi dell’Agensud è piena di questi esempi). Ma il Nostro si spinge oltre, parlando pure di Statuto: “Che direste se vi chiedessi di abolire la vostra Autonomia?”, dice al Giornale di Sicilia. Una domanda che è tutto un programma (politico?). Noi diremmo che farebbe meglio a parlare di formaggi e di vini e non di cose che non conosce, perché se l’Autonomia fosse tra le sue competenze e se la Sicilia gli fosse cara, semmai avrebbe suggerito ai Siciliani di lottare per una sua totale applicazione, a partire da quegli articoli dello Statuto che consentirebbe alla nostra Regione di usufruire di quella fiscalità di vantaggio che, là dove è stata implementata, ha portato sviluppo e attratto molti investimenti e molti turisti (dalle isole spagnole a Malta, per limitarci ad esempi vicini). Aiuterebbe pure ad evitare quegli scippi di risorse da parte del Governo nazionale che, con Renzi, sono diventati massicci (e, come ricordiamo sempre, stigmatizzati anche dalla Corte dei Conti). Se si fosse informato meglio prima di sentenziare (invece di limitarsi alla letteratura renziana), Farinetti avrebbe fatto una figura migliore di quella che ha fatto. Ma, in fondo, perché dovrebbe stargli a cuore la Sicilia? Parliamo di un imprenditore che, non solo, come detto, non ha mai investito qui, ma che ti dice anche che forse lo farà tra un paio di anni (“A Catania perché ho parlato con l’amico Enzo Bianco) perché per ora è concentrato sull’estero. Liberissimo, va da sé, di investire dove vuole. Ma ci risparmi le prediche. Non siamo tra quelli pronti a leccargli le mani perché magari speranzosi di fare qualche affare con lui (abbondano). Gli affari li lasciamo agli affaristi. Qui si parla della dignità di un popolo, della sua storia e dei sui diritti negati che non può essere messa in discussione da uno che non ne sa nulla e che, in aggiunta, preferisce investire all’estero. Tra l’altro non va dimenticato neanche che Oscar Farinetti, proprio lui, nella epocale battaglia in corso sull’utilizzo dei grani italiani contro quelli stranieri, leggasi grani del Sud, si è schierato altrove. Ricordate? Ha sostenuto che è il grano duro italiano non garantisce pasta di qualità “non è di alta qualità”. Ha difeso pure quello canadese, ricco di glifosato, erbicida velenoso per la salute. Per non parlare delle micotossine. Questo sarebbe un imprenditore ambasciatore del Made In Italy. E, allora, signor Farinetti: vada all’estero e ci resti se vuole. E lasci perdere la Sicilia.
Il Sud Italia raccontato dal cinema: non solo «Gomorra», scrive Marco Bruna l’8 marzo 2017 su “Il Corriere della Sera”. Negli ultimi vent’anni il cinema italiano ha raccontato il Sud come un luogo senza possibilità di riscatto, contraddistinto da un senso di degrado umano e sociale. Questo canone «gomorrizzato» del Sud ha riscosso grande popolarità, anche sul piccolo schermo.
Aurelio De Laurentiis al termine della gara Napoli-Real Madrid del 7 marzo 2017 persa dalla sua squadra si è esposto in prima persona ai microfoni di Premium Sport HD, applaudendo i calciatori, chiudendo definitivamente il caso Sarri e non si risparmia contro la stampa del Nord, e per questo rimbrottato dal conduttore in studio, Sandro Sabatini, infastidito dalle sue parole. Queste le sue parole. “Stasera la squadra ha giocato un primo tempo esemplare, anche nella ripresa i ragazzi hanno dato il massimo. Affrontavamo il Real Madrid e per noi è già un successo confrontarsi con loro, con i campioni del Mondo. I tifosi hanno offerto uno spettacolo eccellente, avevamo dei grandissimi ospiti che hanno avuto una grandissima accoglienza in uno stadio che soffre la sua vecchiaia; abbiamo dato un’immagine di noi esemplare facendo sfoggio anche della tradizione culinaria napoletana. Sarri ha dato una lezione di calcio agli avversari, giocando una partita straordinaria. Sono convinto che faremo ancora grandi cose in campionato, ora ci resta da affrontare due volte la Juventus al San Paolo e noi speriamo di fare una grande figura. Non c’è stato mai nessun caso aperto, se qualcuno si vedesse l’intervista che ho concesso Veltroni ho sempre parlato di Maurizio come di un’esteta del calcio e di un grande allenatore. Io dopo Madrid non ho mai parlato di Sarri, ero arrabbiato con la squadra e salvai solo Insigne. Poiché i giornalisti del Nord mi odiano, ed odiano il Napoli. E’ da Cavour che il Nord odia il sud. Si sono scatenati tutti contro di noi per creare zizzania dentro casa nostra. Hanno provato ad aggiungere ad una sconfitta altra cattiveria, così magari riperdono avranno pensato, ed è infatti successo con l’Atalanta. Quando parlai di "cazzimma" all’andata qualcuno si era chiesto cosa intendessi, poi ho visto che il termine è stato ripreso anche dalla Gazzetta dello Sport che è storicamente il giornale di Juventus, Inter e Milan. La Gazzetta dello Sport è sempre stata contro il Napoli, c’è Mimmo Malfitano che mi dispiace perché è stato aggredito, ma è sempre stato un tifoso della Juventus. (Il presidente fa un preciso riferimento ad un giornalista che martedì ha subito un atto intimidatorio). Cazzimma? La ricchezza dell’Italia sta nella regionalità, nei dialetti, nei modi di dire e anche il calcio può essere veicolo di trasporto per questo dialetto regionale. Il nostro è un Paese disunito e regionalizzato, con un Paese spaccato ma nessuno può dirlo. Io sono un cittadino libero e dico quello che penso e nessuno può chiudermi la bocca. Il Corriere dello Sport è invece un paladino del calcio Napoli, storicamente è così. Non sono l’uomo delle polemiche, ma dopo dodici anni di calcio sono stufo. I tifosi del Napoli ci hanno regalato uno stadio meraviglioso, in un impianto che soffre il peso dell'età essendo alquanto vetusto. Continuiamo ad andare negli stadi a sentire gente che inneggia all'eruzione del Vesuvio e i napoletani non si ribellano. Oggi il nostro pubblico ha dato dimostrazione di crescita culturale. Adesso vogliamo sfidare la Juventus a testa alta, con un San Paolo ruggente e fervente. Sentire in ogni stadio cantare "Lavali col fuoco" e nessuno dice nulla mi dà molto fastidio, non mi sognerei di dirlo ad un altro cittadino italiano. Stasera i napoletani hanno dato una dimostrazione di civiltà a tutti. o vivo in questo paese, lo racconto da 43 anni attraverso i miei film. C'è una contrapposizione che il presidente Napolitano ha provato a frenare ma se c'è un paese che vive di contrasti è il nostro. Siamo in un regime silente, io sono un vero democratico, amo la libertà di espressione, sono un cittadino che paga le tasse e nessuno mi può chiudere la bocca".
«Gravi e inaccettabili». Così Paolo Pirovano, segretario nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, e Pierfrancesco Gallizzi, consigliere della Federazione Nazionale della Stampa, definiscono le parole di De Laurentiis dopo la partita con il Real Madrid. «Affermazioni fuori luogo - aggiungono Pirovano e Gallizzi - che fanno male al Napoli calcio, a Napoli città e all’Italia intera. C’è d’augurarsi che, a freddo, De Laurentiis chieda scusa».
Vesuvio, l'iPhone lava Napoli col fuoco. «Ecco perché capita», scrive Marco Perillo Giovedì 12 Gennaio 2017 su “Il Mattino di Napoli”. Non bastavano i beceri cori che quasi ogni domenica o in qualsiasi turno infrasettimanale della serie A riecheggiano negli stadi italiani, a cominciare da quello della Juventus a Torino per estendersi a macchia d'olio in tutta la Penisola. «Vesuvio, lavali col fuoco» è la canzoncina più odiata dai tifosi del Napoli, che da ieri, come una tremenda beffa, si sono ritrovati lo stesso leit-motiv digitando la parola «Vesuvio» sui dispositivi della Apple. Basta infatti scrivere il nome del vulcano campano all'interno delle note così come nei messaggi Whatsapp, nelle mail oppure a margine dello schermo, che compaiono le seguenti parole suggerite: «lavali», «col» e «fuoco». Praticamente, la frase che compone l'irritante sfottò. Un fenomeno scoperto e denunciato dal conduttore della seguitissima trasmissione sportiva «Radio Goal» Valter De Maggio, sule frequenze di Radio Kiss Kiss. Una goccia che ha fatto traboccare un vaso già colmo e che ha mandato su tutte le furie i tifosi partenopei. In centinaia si sono scatenati coi commenti più disparati sui social. Tanto che su Twitter è stato lanciato l'hashtag #AppleVesuvio per protestare contro l'azienda di Cupertino e chiederle di cambiare subito i suggerimenti della cosiddetta «tastiera predittiva». «Voglio spiegare come funziona - ha raccontato De Maggio - la tastiera predittiva è un algoritmo, crea un dizionario locale, acquisisce dal web le parole più frequenti, più viene utilizzato un termine, più viene suggerito. Abbiamo fatto alcune prove, abbiamo inserito altri termini e neologismi frequenti non compaiono. Se scrivo Juve esce storia, se scrivo Vesuvio deve uscire Napoli, non lavali col fuoco. In un momento storico in cui si cerca di sensibilizzare sul tema del razzismo, questa circostanza non può passare inosservata e speriamo che l'azienda statunitense riesca a modificare e a migliorare il suo algoritmo in questo caso particolare. È una vicenda gravissima». In effetti, come ha raccontato De Maggio, tutto sarebbe dovuto agli algoritmi. Ovvero, una serie di istruzioni matematiche che posso permettere di associare sui dispositivi le parole più ricercate in Rete, i cosiddetti «trend topic». Facciamo un esempio: se in un determinato territorio - come la Campania o l'intera Italia - si digita continuamente la frase «Vesuvio lavali col fuoco» o semplicemente si caricano e si condividono video sull'argomento, è possibile che il vocabolario in locale di uno smartphone «impari» quelle parole di uso molto comune e le «ripeta». Il che, in qualche modo, è la controprova che sul Web sono costantemente effettuate ricerche sulla discriminazione territoriale nei confronti dei napoletani. «Il concetto principale è che tutte le parole più tipiche che viaggiano in Rete sono immagazzinate in grossi database- spiega Ernesto Burattini, già ordinario di Informatica alla Federico II -. Possiamo vedere gli algoritmi come dei navigatori nascosti che girano in rete e trovano queste parole sensibili e le ripropongono agli utenti. Un po' come avviene coi messaggi pubblicitari che ci appaiono su molti siti e che riflettono le ricerche che noi facciamo in Rete. Molto spesso queste informazioni, sono fornite a ditte che poi vendono pubblicità». Un'altra spiegazione per cui accade il fenomeno «Vesuvio» potrebbe essere il cloud: un grande bacino di espressioni dalla lingua italiana che spesso segnala espressioni di uso comune tra gli utenti. Dunque, nessuna volontarietà da imputare alla Apple, anche se il fenomeno non si ripete su altri tipi di dispositivi, come Android. Ciò, spiegano gli esperti, potrebbe dipendere dal tipo di protezione, che è diverso da un supporto a un altro. Intanto centinaia di napoletani sono sul piede di guerra e la rabbia corre sui social. «Compro IPhone e Ipad razzisti a metà prezzo» ha scritto qualcuno, tra il serio e il faceto. Poiché all'ombra del Vesuvio è così: se si tocca una nota dolente come questa, non si perdona niente, e nemmeno alla tecnologia. Eppure non è la prima volta che a livello internettiano capita una cosa del genere: nel giugno 2015 destò scalpore una scoperta che fece parlare il popolo della Rete per giorni e giorni. Se si digitava su Google Maps la frase «lavali col fuoco», l'indicatore portava dritto proprio all'immagine del Vesuvio. In quel caso si trattò dello scherzo di qualche buontempone che sparse in Rete diversi bug, non dimenticando la «legge del contrappasso». Si prendeva in giro anche la «Vecchia Signora»: se infatti si digitava «vai a cagare» si veniva spediti direttamente allo Juventus Stadium. Tanto che Google Italia intervenne per scusarsi, ma solo con la Juve. Il riferimento al Vesuvio è rimasto.
Dalla retorica dell’antimafia alla nuova Questione meridionale, scrive di Giancarlo Costabile, Docente Unical, Giovedì 22 Settembre 2016 su "Il Corriere della Calabria". La disperazione è una malattia sociale. Forse la peggiore. Corrado Alvaro amava dire che «la disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere rettamente sia inutile». In Calabria e nel Sud il rischio che stiamo correndo è di permanere in una condizione di subalternità culturale rispetto agli altri territori del Paese, accettando come ineluttabile un destino amaro segnato dalle ingiustizie e dal malaffare. Il problema criminale è innegabilmente parte costitutiva della Questione meridionale, ma non può, in alcun modo, esaurirne la complessità dei suoi paradigmi. Dietro le vicende di Melito Porto Salvo e Nicotera, con il loro miserabile apparato di responsabilità individuali e collettive, non si cela soltanto il dominio mafioso con le sue necessità di comunicazione sociale. Le mafie sono l'epifenomeno di un problema strutturale sul piano socio-economico che caratterizza la storia del Mezzogiorno prima e dopo l'Unità del Paese. Il Meridione non è riuscito a mettere compiutamente in discussione la forma padronale, di matrice feudale, delle sue relazioni di potere sociale, neanche in questi 70 anni di storia repubblicana. La nostra è, infatti, ancora una società di padroni, che si nutre di rapporti verticali funzionali a modelli di organizzazione piramidale della vita pubblica. A Sud di Roma, e in Calabria specialmente, vi sono larghi strati della popolazione che non faticano a riconoscersi quali portatori della peggiore antropologia educativa: quella dell'uomo-struzzo. La cosiddetta antimafia di professione, lautamente pagata con denaro pubblico in tutti questi anni per ogni genere di proposta educativa messa in cantiere, non ha quasi mai affrontato con rigore scientifico il tema della fenomenologia dell'oppressione che si pone come sovrastruttura ideologica dell'economia padronale meridionale. A Melito come a Nicotera, ma è così in molte aree del Mezzogiorno, prevalgono una morale privata ed un'etica pubblica figlie concettuali di un'ideologia del silenzio e della rassegnazione, che ha sequestrato il nostro presente, amputando il futuro delle giovani generazioni. L'uomo-struzzo non deve né vedere né sentire, ma solo tacere perché è destinato all'obbedienza padronale. Regola aurea vigente sia per coloro che sapevano della mattanza da "Arancia meccanica" alla quale era sottoposta l'adolescente di Melito Porto Salvo, sia per le decine di nicoteresi che osservavano l'arrivo dell'elicottero degli sposi, accolti da non pochi applausi nella piazza comunale. La Costituzione nata dalla Resistenza è materia ancora sconosciuta nel tessuto socio-culturale del Meridione. Al Sud non serve più l'antimafia dei cortei e delle liturgie convegnistiche, che hanno ridotto la Questione meridionale a mera criminologia, con la quale segmenti nodali dello Stato hanno trasformato il disegno dell'emancipazione collettiva delle nostre terre in un bisogno personale di affermazione e prestigio sociale. La centralità della nuova Questione meridionale è determinata dall'urgenza di frantumare il paradigma padronale dell'inginocchiatoio, che sta avvelenando i pozzi della speranza. E una società senza speranza non è altro che una comunità di sepolcri imbiancati destinata a sporcare l'esistenza, ammantando con il nero della disperazione la bellezza dell'azzurro del cielo. Soltanto frantumando la struttura padronale dell'economia meridionale, riusciremo a costruire un nuovo habitat educativo per la nostra gente. Antonio Gramsci osservava opportunamente che se ogni relazione umana è una relazione educativa, ogni rapporto educativo è un rapporto di potere. Una nuova egemonia culturale deve farsi progetto di cambiamento di questo modo di intendere e vivere le relazioni umane, sia produttive che compiutamente pedagogiche. Dal 2000 ad oggi, la Svimez ci spiega che sono quasi 2 milioni gli emigrati dal Mezzogiorno, in larga parte laureati e sotto i 35 anni di età. Sempre secondo questo importante centro di ricerca, entro il 2050 solamente 1 italiano su 4 abiterà le città meridionali. Scientificamente si chiama desertificazione civile, politicamente è un olocausto. Se non vogliamo altre Melito e Nicotera, dobbiamo uscire dall'ipocrisia di certa antimafia, fatta di sirene estetizzanti, spasmodica ricerca di denaro pubblico, danze folcloristiche. E, invece, rilanciare con forza la centralità dello sviluppo del Meridione, a cui non bastano le politiche sull'ordine pubblico e la diligente azione repressiva della Magistratura, ma soprattutto occorrono interventi strutturali in materia di capitale umano, leve fiscali, innovazione logistica e tecnologica. Il Mezzogiorno non può continuare ad essere una "questione", ma deve diventare il cantiere di una rinnovata speranza: da non-luogo del presente a luogo del futuro.
Amartya Sen: "Divisione tra Nord e Sud conseguenza dell'imperialismo". Il premio Nobel ragiona sul nostro Mezzogiorno. Perché cambiare è possibile. E tra cento anni tutto può essere diverso, scrive l'11 gennaio 2017 "L'Espresso". Il Sud visto con gli occhi del premio Nobel Amartya Sen, che da sempre studia e combatte le diseguaglianze. La visione di Sen è scritta in una lunga intervista raccolta nel libro "Con il Sud, visioni e storie di un'Italia che può cambiare"(edito da Mondadori), curato dalla Fondazione con il Sud presieduta da Carlo Borgomeo. I diritti d’autore sulle vendite saranno interamente devoluti dalla Fondazione a Liberos, che ha dato vita in Sardegna a un progetto innovativo fondato sulla promozione della lettura come fonte di coesione sociale, portandola in centinaia di piccole comunità isolate. Insieme al Nobel molti altre sono le interviste presenti nel libro. Edgar Morin, Raffaele Cantone, Franco Roberti, Rosy Bindi, Luigi Ciotti, Mimmo Calopresti, Chiara Saraceno e molti altri. L'Espresso pubblica un estratto del dialogo con Amartya Sen. Negli ultimi anni la pretesa di rappresentare il mondo come diviso in un Nord e un Sud – dove con Nord si intendeva in genere progresso socio-economico, con Sud l’arretratezza e la lotta al suo superamento – è apparsa via via inadeguata a rappresentare la complessità del presente. Come è cambiato questo paradigma? Sarebbe un errore pensare che questa distinzione risalga a un passato remoto. A ben guardare la Storia, anzi, spesso è stato proprio il Sud ad avere forme di sviluppo superiori rispetto a quelle del Nord. Dopotutto la civiltà minoica proveniva dalla Grecia, dal Sud. La cultura greca ebbe importanti influenze sulla storia italiana e poi su quella europea, proprio attraverso il Sud. Al contrario, quelle rivolte così temute dai romani e che finirono per minarne l’impero, provenivano dal Nord. Dunque l’idea di un Sud arretrato da contrapporre a un Nord più avanzato è molto recente e, fino a un paio di secoli fa, non aveva alcun senso. Questo concetto è semmai un risultato dell’imperialismo, che si mosse dall’Europa al mondo intero. Nel caso della Francia si diresse a sud, ma nel caso del Regno Unito, invece, fu rivolto a est. Proprio per questo motivo, nel contesto dell’impero britannico, la contrapposizione è tra Occidente evoluto e oriente antiquato, mentre in Francia le distinzioni tra progresso e arretratezza vengono più spesso applicate a una dicotomia Nord-Sud. In realtà delle concezioni così superficiali non potevano reggere a lungo, soprattutto di fronte ai fenomeni di sviluppo di cui sono protagoniste l’Asia, l’Africa e l’America Latina. Insomma questo presunto grande gap, mi sembra ormai davvero un’idea difficile da sostenere. Eppure in Italia ancora oggi si discute – talvolta molto animatamente – di Nord e di Sud, con implicazioni che spaziano dai riflessi sull’attualità di grandi passaggi storici alle misure economiche da adottare fino a presunte distinzioni di carattere antropologico e culturale. Certo, nel corso della storia italiana c’è stata e c’è questa divisione tra Nord e Sud: ancora una volta non la definirei tradizionale, se pensiamo – solo per fare un esempio – alla storia intellettuale di Napoli. Si tratta di una divisione che persiste. Era forte quando ero giovane, è forte oggi che sono anziano. Ho iniziato a interessarmi a questi argomenti verso la fine degli anni cinquanta, grazie al lavoro condotto con il mio primo studente di ricerca, che fu Luigi Spaventa. Dalla nostra collaborazione appresi una serie di questioni che continuano a essere attuali, sullo sviluppo del capitalismo in Italia e sull’industrializzazione del Paese. Penso che ci sia stato un tempo in cui il Nord poteva apparire più sviluppato, e mi rendo conto che si tratta di un problema ancora oggi aperto in Italia, ma in futuro le cose potrebbero cambiare. So che la vostra fondazione si chiama CON IL SUD, ma è possibile che tra un secolo tutto anche in Italia sarà molto diverso e magari la fondazione dovrà cambiare nome e diventare una fondazione CON IL NORD. Interrogandoci sul futuro del Sud dell’Italia – la sua bellezza, i suoi problemi storicamente sedimentati – ci troviamo necessariamente a ridefinire il concetto di benessere e di qualità della vita. Vuole aiutarci a declinare questi termini in modo che tengano conto di questa complessità? Se l’obiettivo che vogliamo porci è di vivere bene, allora bisogna rifarsi a quello che uno studioso “meridionale”, Aristotele, affermò nella sua Etica nicomachea: ciò che stiamo cercando, nella vita, non è la ricchezza materiale, o meglio la cerchiamo solamente come strumento per ottenere le cose davvero importanti, quelle che possano consentirci una buona qualità della nostra esistenza. Ecco, si tratta di un pensiero che proviene dal Sud, ma voglio sottolineare che ragionamenti di questo tipo si sono riproposti molte volte nella Storia. Nessuno tra gli antichi filosofi pensava che il senso della vita possa ridursi alla ricchezza, che si possa essere appagati senza essere felici, produttivi, creativi, culturalmente stimolati e messi in condizione di dedicarci ad attività che valutiamo come utili o importanti. Quindi ritengo che questa idea per cui la ricchezza e il profitto sono la misura del successo nella vita sia profondamente sbagliata. Certo, come ci insegna Aristotele, la ricchezza è uno strumento per ottenere molte cose – non tutte, per la verità, ma molte cose. Per questo è molto importante che le persone abbiano la concreta possibilità di ottenere un reddito: questo significa opportunità occupazionali, significa salari adeguati, ma significa anche poter contare su un’assistenza sanitaria degna, su un valido sistema scolastico a cui magari possa provvedere lo Stato. Di questo abbiamo bisogno. Così come ci serve la protezione dell’ambiente e non fiumi inquinati. Per vivere bene abbiamo bisogno anche di un contesto sociale in cui il crimine non sia dilagante e in cui le persone si possano sentire al sicuro, in cui possano fidarsi le une delle altre e comunicare tra di loro senza la paura che possa accadere qualcosa di terribile. Dunque abbiamo bisogno di molte cose nella vita, non di una cosa sola. Spesso la chiamiamo libertà, ma anche la libertà è un concetto che si articola in una vasta serie di aspetti diversi. Per raggiungere alcuni di questi, essere o non essere ricchi può fare la differenza, e per questo aumentare la ricchezza a Sud sarebbe molto importante. Ma non è l’unico parametro. Molto dipende anche da come è organizzata la società, da come lo Stato funziona e da come la stessa cultura può rendere la vita umana più soddisfacente. Cosa ne pensa della proposta di abbassare i livelli salariali nelle cosiddette “aree depresse”, sul presupposto che il costo della vita è inferiore e con l’obiettivo di favorire lo sviluppo di nuove imprese?
Ci sono alcuni casi in cui la richiesta di salari troppo alti può scoraggiare l’occupazione, ma questa conseguenza è spesso troppo enfatizzata. All’opposto, ad esempio, c’è anche il pericolo che, riducendo i salari, la produttività della manodopera si abbassi. Non è molto chiaro, poi, quanta diminuzione dei livelli occupazionali si determini a fronte di salari più alti. Quindi non credo di poter fornire una regola generale su questo. In alcuni contesti può avere un qualche senso, certo, ma in quelle situazioni in cui gli operai sono sfruttati e non hanno il potere contrattuale su cui possono contare impiegati, industriali e capitalisti, bene, in questi casi si potrebbe invece provare a reintegrare i salari, allo scopo di incrementare il potere d’acquisto. Penso all’esperienza di Bangladesh, Vietnam, Cambogia o anche alla Cina. Fino a poco tempo fa questi Paesi sono riusciti a raggiungere alti livelli di produzione nel tessile e in altri settori, tenendo bassi i salari, ma – ad esempio in Cina – anche in ragione di questi successi hanno dovuto aumentarli e questo non ha certo determinato l’impossibilità dello sviluppo.
Gli italiani sono i più razzisti d'Europa: primi per odio contro i rom, i musulmani e gli ebrei, scrive il 3 giugno 2015 Mauro Munafò su "L'Espresso". Orgoglio italiano, finalmente siamo primi in qualcosa: l'odio razziale. Tra i nostri cugini europei non c'è infatti nessuno che ci batte quando si parla di detestare i rom e i musulmani. Quando invece si tratta di odiare gli ebrei siamo secondi dietro la Polonia: peccato, abbiamo sfiorato il triplete. Sarà per la prossima volta. A certificare che in Europa siamo un caso di studio, in senso negativo ovviamente, ci pensa una ricerca pubblicata ieri dal Pew research center e dedicata in generale all'Unione Europea, con una parte che si concentra invece sulla percezione delle minoranze nei vari paesi. La ricerca non credo possa cogliere nessuno di sorpresa, anche se i numeri del distacco rispetto ai nostri vicini europei sono quantomeno inquietanti. Ma basta ciarlare, ecco qualche numero. Come vengono percepiti i Rom in Europa? Gli italiani, con l'86 per cento, sono di gran lunga il popolo che vede con maggior sfavore i Rom. Solo 9 italiani su 100 hanno un'opinione favorevole. Piuttosto curioso notare come in Germania, Spagna e Regno Unito siano molti di più coloro che hanno una percezione positiva e solo la Francia, seppure con numeri assai diversi, è più o meno nella nostra situazione. Direi che questo grafico dovrebbe aiutare a capire quanto il problema forse non siano direttamente "i rom" in quanto tali, ma la gestione della loro presenza sul territorio. Gestione su cui tanti hanno lucrato, e lucrano, milioni di euro e voti. Vabbeh ma i rom saranno un'eccezione no? Chissà quanto siamo più moderati e aperti quando parliamo di altre categorie, come i musulmani. Beh, non proprio. Anche qui, siamo primi in classifica. Sei italiani su dieci non vedono di buon occhio i musulmani, mentre in Regno Unito, Francia e Germania le cifre sono ribaltate. Una ricerca che conferma quanto riportato da un altro studio, quello di Ipsos, di cui avevo parlato un anno fa circa e da cui emergeva come gli italiani credono di essere circondati da musulmani. A completare il terzetto arriva la percezione per gli ebrei. "Purtroppo" qui ci classifichiamo solo secondi, dietro la Polonia. Interessante in ogni caso notare come un italiano su 5 abbia un qualche pregiudizio nei confronti degli ebrei, mentre in Francia e Regno Unito a condividere questi sentimenti sono appena 7 persone su cento. Forse dovrei chiudere questo post con una mia opinione, un giudizio su quanto avviene di fronte ai nostri occhi, un commento sulla stranezza del caso italiano in Europa. Ma stavolta preferisco tacere e far parlare i semplici numeri. Se volete dire qualcosa voi, i commenti sotto sono il posto giusto. PS. Temendo che qui sotto possa scatenarsi l'inferno già avvenuto in occasione della ricerca sull'ignoranza degli italiani, mi premuro di darvi tutte le informazioni aggiuntive per valutare la bontà e la serietà dello studio. A questo link trovate il testo della ricerca. Per ottenere questi risultati, il centro Pew ha realizzato interviste a campione, qui trovate i dettagli sulla metodologia: dichiarano un margine di errore del 4,1 per cento.
Padova, annunci razzisti: "Non si affitta ai meridionali". "No a gay friendly, no pet friendly, no coppie con figli, trans, meridionali, specialmente napoletani e siciliani", si legge in un annuncio, scrive Marianna Di Piazza, Domenica 8/10/2017, su "Il Giornale". "Non si affitta ai meridionali. Specialmente napoletani e siciliani". I pregiudizi nei confronti di chi arriva dal Sud sono ancora forti e radicati e così, a Padova, sono ricomparsi annunci razzisti. Chi cerca casa e si affida ai social network si può imbattere in questo tipo di annunci. È successo pochi giorni fa a Vittorio Savino, medico residente ad Aversa e dirigente presso l’Asl di Caserta, che ha accompagnato la figlia a Padova per cercarle una sistemazione nella città veneta, dove la ragazza seguirà un corso di formazione. Come riporta il Messaggero, il medico ha pubblicato sulla sua pagina Facebook gli annunci razzisti. "Via Facciolati: no a gay friendly, no pet friendly, no coppie con figli, trans, meridionali, specialmente napoletani e siciliani. Valutabili altre zone del centro sud". E ancora: "Zona Guidda Bassonello: solo a ragazze bella presenza del nord, no meridionali". Il post del medico ha fatto molto scalpore. Le reazioni e i commenti sono stati centinaia. C'è chi ha raccontato la sua esperienza e la difficoltà a trovare un affitto e chi invece difende la città veneta come Domenico. "Abito a Padova da 17 anni e non ho trovato problemi a trovare casa allora ed in seguito. Consiglio di trovare forme di condivisione di appartamenti poiché le abitazioni affittabili sono quasi tutte ad appannaggio di universitari. Un giro presso le facoltà potrebbe favorire la ricerca. Auguri!".
Padova, tornano gli annunci razzisti: «Non si affitta ai meridionali, specialmente napoletani e siciliani», scrive Gennaro Morra su "Il Gazzettino" Sabato 7 Ottobre 2017. Sembra una storia degli anni Settanta, quando i meridionali che emigravano al nord in cerca di lavoro avevano difficoltà a trovare un alloggio. Soprattutto a Torino, dove gli italiani del sud si spostavano in massa per entrare in Fiat, spesso trovavano affissi sui portoni d’ingresso degli edifici dei cartelli che avvisavano: “Non si affitta ai meridionali”. I settentrionali non li volevano come inquilini perché c’era il pregiudizio che creassero problemi: ladri, chiassosi e poco inclini all’igiene. A distanza di quarant’anni quei pregiudizi sembrano tutt’altro che archiviati, anche se i terroni in cerca di una casa nel profondo nord non vengono più accolti da quei fatidici cartelli, ma ai tempi di internet l’antipatica avvertenza è contenuta in qualche annuncio pubblicato sui social network. È quello che racconta Vittorio Savino, medico residente ad Aversa e dirigente presso l’Asl di Caserta, che nei giorni scorsi ha accompagnato la figlia a Padova per cercarle una sistemazione nella città veneta, dove la ragazza nei prossimi mesi dovrà seguire un corso di formazione. «Si naviga su internet e si gira per la città per trovare una soluzione – scrive l’uomo sulla sua bacheca di Facebook –. Prezzi tutto sommato non male, anzi in qualche caso buoni, ma c'è il trucco». E il trucco di cui parla Savino consiste nelle particolari limitazioni poste dai proprietari che offrono le abitazioni in affitto. Lui stesso ne cita qualche esempio: «Via Porcellini (Forcellini – ndr): non si fitta a studenti, meridionali, gay friendly, animali perché si vive in condominio». E poi: «Via Facciolati: no a gay friendly, no pet friendly, no coppie con figli, trans, meridionali, specialmente napoletani e siciliani. Valutabili altre zone del centro sud». E ancora: «Zona Guidda Bassonello: solo a ragazze bella presenza del nord, no meridionali». E infine: «Corso del popolo: no a gay, no a persone del sud, no sardi». Ma Savino elenca pure altre proibizioni alquanto bizzarre: «Ci sono divieti anche per lavoratori (??), ciccioni (???), neri, marocchini, persone in cattive condizioni di salute». Il post ha fatto molto scalpore su Faceboook, ricevendo centinaia di reazioni, condivisioni e commenti e innescando un’accesa discussione su come vengono effettivamente accolti i meridionali al nord. Patrizia racconta la sua personale esperienza: «Questo succedeva nel 1971, quando a causa del lavoro siamo stati costretti a salire su a Torino, e sino a quando papà non ha trovato lavoro stabile, prima in fonderia e poi in Fiat, non ci fittavano un appartamento. Poi ci studiavano e quando poco dopo hanno capito che eravamo persone tranquille e oneste, volevano aprirsi. Al che mia madre disse: “No grazie ci bastiamo anche da soli”. L'ignoranza, l'intolleranza, i pregiudizi a prescindere sono brutte bestie. Credono di avere il pedigree, ma in tutte le grandi o piccole città ormai c'è degrado e loro non ne sono esenti». Invece, Cinzia suggerisce una soluzione non proprio lecita: «Benvenuti in Veneto. Se proponi di voler pagare un 50 per cento in più o in nero, magicamente si aprono le porte». Ma c’è anche qualcuno che, come Domenico, difende la città dove si è trasferito tempo fa: «Abito a Padova da 17 anni e non ho trovato problemi a trovare casa allora ed in seguito. Consiglio di trovare forme di condivisione di appartamenti poiché le abitazioni affittabili sono quasi tutte ad appannaggio di universitari. Un giro presso le facoltà potrebbe favorire la ricerca. Auguri!».
Razzismo: la presunta scientificità delle teorie contro le genti del Sud, scrive Alessandro Cannavale il 22 marzo 2015, su "Il Fatto Quotidiano". Alla radice dei pregiudizi nei confronti degli abitanti del Sud ci sono ragioni di carattere politico, culturale e persino scientifico. O pseudoscientifico. Lo storico Rosario Villari sottolineò, infatti, che “alla fine del secolo scorso (XIX, ndR) le idee dei sociologi sul rapporto tra la razza e alcuni fenomeni caratteristici dell’arretratezza del Mezzogiorno erano largamente accolte nell’opinione pubblica italiana e trovavano molto credito nelle file dello stesso Partito Socialista; […] uno dei primi obiettivi polemici del meridionalismo democratico e socialista fu proprio il pregiudizio razziale nei confronti del Mezzogiorno, diffuso specialmente negli ambienti operai del Nord influenzati dal riformismo socialista”. E così, il siciliano Napoleone Colajanni, già nel 1898, dovette contestare con forza e ironia, a tratti, le posizioni razzistiche della cosiddetta scuola lombrosiana. “Il Lombroso, infatti, in numerose e ben note pubblicazioni, ha sostenuto sempre che l’alta delinquenza di alcuni paesi, specialmente di alcune regioni d’Italia, devesi all’influenza di un fattore irriducibile: la razza”. I seguaci del criminologo veronese si affannavano in deduzioni in cui statistica e dati antropometrici vengono assunti come dimostrazioni di assunti opinabili e discriminatori. E guai ad avere un cranio dolicocefalo… La dice lunga, a tal proposito, la diatriba, tuttora aperta, sul cranio del “brigante” Villella, finito sotto i ferri del criminologo Lombroso, che vi ritrovò la fossetta occipitale interna o cerebellare mediana, il tratto peculiare dell’attitudine alla “delinquenza”, che dimostrava i suoi assunti…Le idee sulla razza hanno avuto la loro influenza lungo il secolo XX, come tutti sappiamo. E hanno sempre trovato qualche scienziato che si è prodigato a dimostrare questa o quella teoria. Ma, nel secondo dopoguerra, un altro approccio è stato scelto per spiegare il divario socio-economico tra Nord e Sud d’Italia. È prevalsa la spiegazione che coinvolge il cosiddetto “familismo amorale”, che, secondo il politologo americano Edward Banfield, spiegava la carenza di una capacità d’azione collettiva – al Sud – in termini non di razza, ma culturali. Come ricorda Emanuele Ferragina in un suo interessante articolo sulla questione, “Banfield sostenne che l’incapacità dei meridionali di agire collettivamente per contribuire al miglioramento della situazione socio-economica del loro paese era la logica conseguenza dell’habitus culturale di prendersi cura esclusivamente della propria famiglia nucleare e del suo benessere di breve periodo”. Ferragina, su basi scientifiche, dimostra bene come la teoria del familismo amorale, pur avendo validità generale, non spiega la mancanza di propensione all’azione collettiva tra i meridionali. Inoltre, “i meridionali sembrano essere meno familisti amorali dei settentrionali”. E che l’approccio di Banfield “è più importante per spiegare la mancanza di propensione all’azione tra gli altri cittadini europei piuttosto che fra i meridionali”. Ora, superate le spiegazioni basate sulla razza o sugli stereotipi, potrete immaginare che queste storie siano ormai desuete e degne di un armadio ebbro di naftalina. Devo dissulludervi. Il terzo millennio non è scevro da argomentazioni forti sulle genti del Sud. Ad esempio, potreste imbattervi negli studi del Prof. Richard Lynn, che, dal 2010, “finalmente” ci spiegano l’arretratezza del Sud. Sulla rivista scientifica Intelligence (si chiama proprio così), egli si propone di dimostrare che “Le differenze nel quoziente di intelligenza (IQ) tra nord e sud Italia corrispondono a differenze nel reddito, educazione, mortalità infantile, statura e alfabetizzazione”. Fino a sostenere, a parole sue, “The lower IQ in southern Italy may be attributable to genetic admixture with populations from the Near East and North Africa”. Della serie: non siamo noi razzisti, stavolta, siete voi che frequentate la gente sbagliata, corrompendo il vostro patrimonio genetico. Occorrono ulteriori commenti? Per fortuna, arrivano i nostri. I ricercatori italiani Vittorio Daniele (Università di Catanzaro) e Paolo Malanima (CNR) hanno analizzato il lavoro di Lynn e nel 2011 hanno pubblicato un lavoro che giunge a delle conclusioni alquanto nette: i risultati del loro studio non confermano il nesso causale tra quoziente intellettivo e i dati economici di un territorio, smentendo in maniera drastica i risultati ottenuti dall’accademico britannico.
Un odiatore tribale e razzista dei meridionali. Razzista. Non nel senso del ragioniere che se ne va ad ammazzare senegalesi. Ma razzista con l’idea che quelli del sud – e i siciliani in particolare – fossero gente non evoluta, non emancipata, non civile, insomma, gens inferiore rispetto al nord, in questo senso, sì. Lo era, scrive Pietrangelo Buttafuoco i 27 Dicembre 2011 su "Il Foglio". Razzista. Non nel senso del ragioniere che se ne va ad ammazzare senegalesi. Ma razzista con l’idea che quelli del sud – e i siciliani in particolare – fossero gente non evoluta, non emancipata, non civile, insomma, gens inferiore rispetto al nord, in questo senso, sì. Lo era. Giorgio Bocca – buonanima – aveva un’idea precisa dell’Italia e riteneva che “l’Inferno”, ovvero quella categoria dello spirito che fece da Ur-Gomorra a Roberto Saviano, fosse, appunto, il “cimiciaio” di un vasto sud abitato da belve meridionali. Se ne andava in giro per Palermo e se ne ritraeva come se fosse nella plaga flatulenta di un’umanità sciancata. Antonio Di Grado, presidente della Fondazione Sciascia, giustamente non se lo può scordare di quella volta quando Bocca, inviato in Sicilia, raccontò di un Leonardo Sciascia in abito bianco, con la paglietta da avvocaticchio, immerso in ragionamenti mafiosi. Ancora oggi nessuno, neppure tra i più devoti innamorati di Bocca, può credere ad una scena simile. Non è possibile che Gian Antonio Stella creda a tutto ciò, né Ezio Mauro che lo ha eletto a bussola. Forse tanti lettori avranno creduto a quel racconto, ma chi è del mestiere sa quanto fosse scivoloso il patto del cronista con la verità. E quello di Bocca è stato un negoziato marchiato dal pregiudizio. Razzista, certo. Bocca viaggiava in Italia e cercava solo ciò che voleva trovare. E fu così che s’inventò uno Sciascia con la coppola. Se solo avesse avuto la convenienza – polemica, per carità – perfino di Saviano avrebbe fatto un camorrista. E non ha avuto tema di consegnare in una delle sue ultime interviste, edite in un video Feltrinelli (“La Neve e il fuoco” di Maria Pace Ottieri e Luca Masella), una sequela di luoghi comuni sul sud degne delle sagre padane, giusto quelle tribù nelle cui vallate avrebbe saputo attingere umori, spurghi e bestemmie. E pubblico. Seguì la prima Lega, lavorò per Silvio Berlusconi e il nord è stato la sua platea ideale, un nord speciale dove abitava il “ceto medio riflessivo”, “il girotondo” e “il cattolico adulto”. Era quel mondo tutto sbrigativo e rapace della sinistra conformista, un mondo addolcito dalla convinzione di stare dalla parte giusta ma pur sempre duro nel giudicare quell’umanità lazzarona da redimere a colpi di manette, di tasse e di Costituzione. Razzista, Bocca, lo fu non perché si ritrovò ad essere fascista in gioventù ma per quell’azionismo dell’età matura che lo teneva avvinto all’idea di aggiustare l’umanità malata degli italiani. Non ebbe la possibilità di fare il salto nel vuoto e ritrovarsi – come Oriana Fallaci, da lui ribattezzata con stizza e genio “Oliala” – tra gli applausi della peggiore destra. Razzismo per razzismo avrebbe potuto uscirsene anche lui con la difesa dell’occidente. Sarebbe bastato sostituire la parola “meridionali” con “musulmani”. Tutto qua.
"Vado a caccia grossa di notizie al Sud ma non fraternizzo coi meridionali-belve". Giorgio Bocca: «Terre orrende, Napoli è un cimiciaio». E su Silvio: «Scrivo che è un porco, dovrebbe amarmi», scrive il 29 settembre 2011 "Il Corriere del Mezzogiorno". Senza freni, Giorgio Bocca. Il grande vecchio del giornalismo tricolore va a valanga sul Sud. Cioè, una valanga di melma, con cui il novantunenne ricopre il Meridione e i meridionali. L'intervista-fiume nella quale Bocca non risparmia nessuno tranne se stesso sarà presentata il 3 ottobre prossimo. S'intitola La neve e il fuoco, sorta di documentario realizzato da Maria Pace Ottieri e Luca Masella per Feltrinelli Real cinema. Un'ora di colloquio in cui, come anticipa Libero, il decano delle firme italiane giustifica la sottoscrizione dell'appello contro il commissario Luigi Calabresi («Era un reazionario estremo, nemico del movimento») e fa a pezzi, tra i tanti, Pier Paolo Pasolini («Di una violenza spaventosa. E poi mi annoiava, sono un po' omofobo»), Marco Travaglio («Scrive libri coi ritagli della questura»), Gianni Brera («Carogna»), Camilla Cederna («La correttezza in persona. Ma quando scoprì la politica ha iniziato a dare i numeri»), Silvio Berlusconi («Mi stupisco che non mi ami, io scrivo sui giornali che è un maiale e dentro di me penso che lui dica: beh, in fondo ha ragione») e appunto Napoli e il Sud, per cui riserva gli epiteti peggiori. «Durante i miei viaggi - dice Bocca nella videointervista - c'era sempre questo contrasto tra paesaggi meravigliosi e gente orrenda, un'umanità repellente». Parlando di Palermo: «Una volta mi trovavo nei pressi del palazzo di giustizia. C'era una puzza di marcio, con gente mostruosa che usciva dalle catapecchie». Anche Napoli è nel suo cuore...«Vai in quella città (alla quale nel 2005 ha dedicato il libro «Napoli siamo noi»,ndr) ed è un cimiciaio, ancora adesso. Ci sono zone inguaribili». Concede poi che tanto squallore almeno porta notizie giornalisticamente appetibili. Ma nessuna «gratitudine». «Grato? Come dire: sono grato perché vado a caccia grossa di belve. Insomma, non sei grato alle belve, fai la caccia grossa, non è che fraternizzi con le belve».
Il Mattino del 15 aprile 1995. Ieri sera l'onorevole Berlusconi a "Tempo reale" ha indirettamente offeso napoletani e meridionali usando l'aggettivo borbonico in senso spregiativo incorrendo in uno dei più squallidi luoghi comuni che si perpetuano da tanto tempo. Rispondendo ad un articolo comparso sulla Voce molti mesi fa su questo giornale avevo dimostrato l'infondatezza del "facite ammuina", un falso decreto che facendo bella mostra di sé in tanti uffici e in tante case settentrionali e non, mortifica i meridionali facendoli passare per quello che non sono stati, e noto con amarezza che per ridare alla nostra gente la dignità che gli spetta non basteranno cent'anni. Il lavoro scientifico di denigrazione e di cancellazione della memoria operato per più di un secolo è proprio difficile da smontare. Quando sostengo che noi meridionali veniamo alla luce con delle tare genetiche e siamo quindi un po' mafiosi, un po' camorristi, un po' furbetti, un po' ladruncoli, un po' lazzari non lo dico per piangermi addosso, lo dico solo perché sono i fatti che lo dimostrano. Le pubblicità con i napoletani della Findus o quella della pizza surgelata, oggetto di polemiche in questi giorni ne sono la dimostrazione. Ieri davanti a milioni di italiani Berlusconi ha usato l'aggettivo borbonico per ricordare per l'ennesima volta quel falso regolamento di marina che campeggia forse anche nei suoi uffici. Quel "facite ammuina" inventato per denigrare i napoletani, per farli passare sempre e comunque per fannulloni e imbroglioni continua a dilettare la gente soprattutto quella che ci vuole male. E' lo stesso andazzo che fa sì che un manuale Mondadori per le scuole medie riporti come immagine di Napoli capitale del Regno delle Due Sicilie un piccolo e "folkloristico vicolo dei quartieri spagnoli". Berlusconi faccia ricercare i regolamenti della marina napoletana, che fu la terza d'Europa e vedrà che di quel decreto non v'è traccia e se pensa seriamente di operare in favore di quel Sud di cui tutti si riempiono la bocca senza poi far niente o pensando di sradicare ancora una volta i suoi abitanti per farli emigrare di nuovo, magari con una ventina di milioni per incoraggiamento, vedi vicenda dei portalettere, trovi modo di fare ammenda e di rettificare. Se non lo farà saranno i meridionali e i napoletani a regolarsi di conseguenza.
“I meridionali? Altro che cultura, hanno esportato solo mafia e pidocchi”, scrive il 9 dicembre 2014 Francesco Pipitone su "Vesuvio Live". In occasione delle elezioni europee dello scorso maggio Matteo Salvini e la sua Lega Nord hanno trovato il conquistato qualche decina di migliaia di voti al Sud: 43.180 nella circoscrizione meridionale, equivalente allo 0,75% dei voti; 15.235 voti in Campania, lo 0,66% del totale. Numeri piccoli, ma da non trascurare a causa dell’astensionismo e della capacità dei leghisti di far leva sugli istinti bassi delle persone, sull’intolleranza, sull’ignoranza, fattori che potrebbero determinare un aumento dei consensi per Salvini, specialmente se costui sarà messo a capo di una coalizione di “destra” sostenuta, tra gli altri, da Silvio Berlusconi, il quale ha già fatto sapere che intende elevare il segretario della Lega al rango di goleador. Grazie al potere mediatico di Berlusconi, prima che politico ed economico, ci dobbiamo insomma aspettare una rilevante presenza di Matteo Salvini in Televisione e sui giornali, dove avrà l’occasione di riferire le proprie sciocchezze atte a raggirare i poveri cristi che, pur avendo la memoria corta e capendo poco dei fatti della politica, intendono esercitare lo stesso il proprio diritto di voto: la Lega Nord incrementerà il proprio consenso al Sud, e troppo se non stiamo attenti e non creiamo un’alternativa a questi individui che da 154 anni stanno succhiando il sangue del Mezzogiorno. Non dobbiamo dimenticare i decenni di razzismo praticati dal Nord a discapito del Sud, non dobbiamo dimenticare che ci hanno chiamato e continuano a chiamarci scimmie, marocchini (in senso dispregiativo), terroni, colerosi, mafiosi, pidocchiosi, ladri, assassini, scansafatiche e tutto il resto. Milioni di persone hanno abbandonato la propria casa, la moglie e i figli per andare a produrre al Nord, il quale ha guadagnato con il lavoro degli emigrati del Sud, che vivevano peggio delle bestie in stanze piccolissime e affollate, tenuti alla larga dai signori “perbene” come fossero appestati. “Non si affitta ai meridionali”, questa è l’accoglienza dei nostri fratelli italiani. Su questi sentimenti la Lega Nord ha edificato la propria forza, per poi vedere un crollo dei consensi dopo due decenni in cui non ha fatto niente a parte rubare, e lo dimostrano gli scandali che hanno coinvolto gli uomini di punta del partito del Nord, compreso il fondatore Umberto Bossi che usava i soldi pubblici per pagare il proprio lusso. Nel video seguente potete ascoltare la registrazione di qualche telefonata degli ascoltatori all’emittente Radio Padania Libera, dove emergono il razzismo e il ribrezzo verso i “terroni”, ignoranti e nullafacenti, che hanno rubato il lavoro e esportato solamente la mafia e i pidocchi. Questa è la Lega Nord, votatela.
Contro i meridionali, ecco come parla l’Italia razzista. Una rassegna di citazioni di segno razzista contro il Sud.
“Sono lieto che Napoli abbia delle notti così severe. La razza diventerà più dura. La guerra farà dei napoletani un popolo nordico” – BENITO MUSSOLINI dopo i pesantissimi bombardamenti alleati sulla città – diari di Ciano 1937-1943.
“Noi siamo Celti e Longobardi..! Non siamo MERDACCIA Levantina e Mediterranea.. Noi siamo Padani..!”(Borghezio, europarlamentare).
“Senti che puzza scappano anche i cani stanno arrivando i napoletani o colerosi terremotati con il sapone non vi siete mai lavati…napoli merda, …” (Salvini, europarlamentare).
“E’ proprio per questo che invito ad assumere trevigiani: i meridionali vengono qua come sanguisughe.” (Leonardo Muraro, presidente della provincia di Treviso).
“Siamo stanchi di sentire in tv parlare in napoletano e romano.” (Luca Zaia, presidente della regione Veneto).
“Questa parte del Paese non cambia mai, l’Abruzzo e’ un peso morto per noi come tutto il Sud.” (Borghezio, europarlamentare).
“Gli immigrati bisognerebbe vestirli da leprotti per fare pim pim pim col fucile.” (Giancarlo Gentilini, vice sindaco di Treviso).
“Quegli islamici di merda e le loro palandrane del cazzo! Li prenderemo per le barbe e li rispediremo a casa a calci nel culo!” (Mario Borghezio, europarlamentare).
“Agli immigrati bisognerebbe prendere le impronte dei piedi per risalire ai tracciati particolari delle tribù.”(Erminio Boso, europarlamentare).
“La civiltà gay ha trasformato la Padania in un ricettacolo di culattoni.” (Roberto Calderoli, ministro della Semplificazione Normativa).
“Nella vita penso si debba provare tutto tranne due cose: i culattoni e la droga.” (Renzo Bossi, consigliere regionale della Lombardia).
“Gli omosessuali? La tolleranza ci può anche essere ma se vengono messi dove sono sempre stati… anche nelle foibe.” (Giancarlo Valmori, assessore all’ambiente di Albizzate).
“A Gorgo hanno violentato una donna con uno scalpello davanti e didietro. E io dico a Pecoraro Scanio che voglio che succeda la stessa cosa a sua sorella e a sua madre.” (Giancarlo Gentilini, vice sindaco di Treviso).
“Carrozze metro solo per milanesi.” (Matteo Salvini, eurodeputato).
“Sono stato, sono e rimarrò un razzista secondo le ultime direttive UE poichè credo, e aspetto smentita da quei pochi che mi leggono, che certe notizie riportate solo da Il Giornale definiscano chiaramente che tra razza e razza c’è e ci deve essere differenza.” (Giacomo Rolletti, assessore all’ambiente di Varazze).
“Gli sciacalli vanno fucilati. Bisogna dare alle forze dell’ordine l’autorità di provvedere all’esecuzione sul posto. Ci vuole la legge marziale.” (Leonardo Muraro, presidente della provincia di Treviso).
“Darò immediatamente disposizioni alla mia comandante affinché faccia pulizia etnica dei culattoni.” (Giancarlo Gentilini, vice sindaco di Treviso).
“I disabili nella scuola? Ritardano lo svolgimento dei programmi scolastici, più utile metterli su percorsi differenziati.” (Pietro Fontanini, presidente della provincia di Udine).
“E’ un reato offrire anche solo un the caldo ad un immigrato clandestino.” (Luca Zaia, presidente della regione Veneto).
“Viva la famiglia e abbasso i culattoni!” (Roberto Calderoli, ministro della Semplificazione Normativa).
“Rispediamo gli immigrati a casa in vagoni piombati.” (Giancarlo Gentilini, vice sindaco di Treviso).
“Finché ci saremo noi, i musulmani non potranno pregare in comunità.” (Marco Colombo, sindaco di Sesto Calende).
“Vergognati, extracomunitario!” (Loris Marini, vicepresidente della sesta circoscrizione di Verona).
Se ancora non si è capito essere culattoni è un peccato capitale.” (Roberto Calderoli, ministro della Semplificazione Normativa).
“Parcheggi gratis per le famiglie, esclusi stranieri e coppie di fatto. (Roberto Anelli, sindaco di Alzano).
Voglio la rivoluzione contro i campi dei nomadi e degli zingari: io ne ho distrutti due a Treviso. (Giancarlo Gentilini, vice sindaco di Treviso).
“Noi ci lasciamo togliere i canti natalizi da una banda di cornuti islamici di merda.” (Mario Borghezio, eurodeputato).
“L’immigrato non è mio fratello, ha un colore della pelle diverso. Cosa facciamo degli immigrati che sono rimasti in strada dopo gli sgomberi? Purtroppo il forno crematorio di Santa Bona non è ancora pronto.” (Piergiorgio Stiffoni, senatore).
“Fermiamo per un anno le vendite di case e di attività commerciali a tutti gli extracomunitari.” (Matteo Salvini, eurodeputato).
“E’ inammissibile che anche in alcune zone di Milano ci siano veri e propri assembramenti di cittadini stranieri che sostano nei giardini pubblici.” (Davide Boni, capodelegazione nella giunta regionale della Lombardia).
“I gommoni degli immigrati devono essere affondati a colpi di bazooka.” (Giancarlo Gentilini, vice sindaco di Treviso). Tratta dalla pagina Facebook di “Briganti”.
IL PAESE DELLE BANANE ED IL REFERENDUM DA PRESA PER IL CULO.
Rieccoci: siamo il Paese delle Banane, scrive Carlo Fusi il 17 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". I leader politici invece di confrontarsi sulle ricette per portare l’Italia fuori dai guai, si accapigliano in una campagna elettorale da pifferai. Berlusconi promette ai pensionati dentiere e cinema gratis; Renzi ripropone l’eterno self-portrait: il premier sono io; Di Maio chiede l’intervento dell’Ocse per le elezioni in Sicilia. La campagna elettorale è appena cominciata e si ripropone l’immagine dell’Italia Paese delle Banane. I leader politici invece di ricette per tirare fuori il Paese si dilettano nei panni di magici Pifferai. Al via la campagna elettorale: riecco il Paese delle banane. Nel week end appena trascorso, dal punto di vista dei fatti politici sono accadute le seguenti cose: l’assicurazione fornita da Matteo Renzi che il candidato premier del Pd e del centrosinistra comunque articolato sarà lui punto e basta; l’avvertimento da parte di Silvio Berlusconi – tra un omaggio e l’altro all’uso del bidet – che o il centrodestra avrà la maggioranza alle elezioni oppure lui si ritirerà «perché vorrebbe dire che gli italiani non sanno giudicare» ; l’invettiva ( con annessa bestemmia sul blog, poi rimossa) di Beppe Grillo contro «i due imbroglioni» che hanno fatto la riforma elettorale: appunto Matteo e Silvio, peraltro mai citati per nome. Mentre Salvini, invece citato, «fa più schifo di entrambi». Potrebbe anche bastare. Ma è impossibile non sottolineare il recente nominato “capo politico” dei Cinquestelle, Luigi Di Maio, che invoca osservatori Osce nelle elezioni siciliane per timori di brogli. Ce n’è abbastanza per riprovare la consueta e sconsolante certezza di una campagna elettorale che è appena cominciata (?) e inesorabilmente ripropone l’immagine del- l’Italia come Repubblica delle Banane. Per capirci. Il Parlamento è alle prese con una riforma elettorale a metà del guado che dovrebbe aiutare la governabilità e che al contrario in tanti assicurano lascerà intatto il rischio ingovernabilità. Il governo ha dato via libera alla legge di Stabilità usando però la formula “salvo intese”. Vuol dire che il testo ufficiale del provvedimento non c’è e arriverà solo in un secondo momento: quando saranno state trovate le coperture economiche che tuttora mancano, insomma. Ciò nonostante, il titolare dell’Economia assicura che le risorse «sono poche ma ben indirizzate». Nel frattempo la Ue, riservatamente ma con forza, insiste a chiedere misure serie e credibili per diminuire il mostruoso debito pubblico: lo stesso che il ministro Padoan, ormai da anni, assicura che scenderà. Testardo, è in crescita continua e al momento ha toccato la quota record di oltre 2.260 miliardi di euro. Esaminando le cifre della manovra contenute nella Nota di aggiustamento al Def, l’Ufficio parlamentare di bilancio giudica «poco prudenziali» le stime di palazzo Chigi e Mef per il 2019 e 2020. Significa che, una volta chiuse le urne politiche del prossimo marzo, all’incertezza politica si sommerà la bomba ad orologeria economica che si sta allestendo. Problemi? Niente affatto: niente «lacrime e sangue» taglia corto il premier Gentiloni; e chi vivrà, vedrà. Si potrebbe proseguire, ma il quadro è sufficientemente chiaro. Per chi ama i paradossi: chiaro di riflessi oscuri. In sostanza il Paese è seduto su un vulcano e la coesione sociale si frantuma; lo sanno tutti, lo dicono tutti. Pur tuttavia i leader politici invece di accapigliarsi, ovvio, ma sulle ricette per portare fuori gli italiani dai guai nei quali si trovano, tranquillamente disputano a colpi di inattendibilità. Berlusconi ripropone sé stesso nel rifacimento del “ghe pensi mi” e promette sconti sui cinema e teatri agli anziani; pensioni minime a mille euro, dentiere e protesi gratis naturalmente senza specificare dove troverà le risorse. Renzi ha già spiegato nel suo libro Avanti che intende mettere il veto se la Ue non allargherà i cordoni della borsa. Tralasciando che quei cordoni sono già larghi: vedi flessibilità fin qui concessa ma che l’abolizione del Fiscal compact farebbe saltare con un aggravio di una trentina di miliardi di nuove tasse. Grillo non propone niente: i vaffa li ha spesi tutti, ora tocca a Di Maio. L’ex comico si limita a favorire l’abbraccio tra due signore notoriamente in dissenso: il sindaco di Roma Virginia Raggi e la candidata pentastellata alla regione Lazio, Roberta Lombardi. Il presente e il futuro dell’offerta politica grillina: c’è chi sente brividi correre per la schiena. Abbiamo parlato di inizio di campagna elettorale ma sappiamo bene che da noi quel periodo è ultra dilatato e dura un’intera legislatura. Adesso è forse arrivato il momento di fare uno stop. Di aggiustare il tiro. Di mettere la mordacchia alla demagogia. In Europa (vedi risultati elettorali austriaci) e nel mondo soffiano preoccupanti venti di insofferenza alimentati da paure che saranno pure irrazionali ma che attecchiscono su settori crescenti di opinione pubblica. Rilanciarli preparerebbe il peggio. Come pure seguire i tanti pifferai che indicano il paese di Bengodi, la terra di creduloni descritta da Boccaccio, dove c’era «una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli». Un incubo.
Così Grillo e Bossi hanno anticipato l'Europa di oggi. In Francia, Spagna e Germania le vecchie famiglie politiche vanno in crisi. È già accaduto. Con Lega e M5S.Il territorio senza politica di Bossi, scrive Marco Damilano l'11 ottobre 2017 su "L'Espresso". Secessionismo addio, ha intonato il capo leghista Matteo Salvini all’indomani del referendum catalano. Quando il 22 ottobre si voterà in Lombardia e Veneto «per richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori e particolari forme di autonomia», come si legge nel quesito, il referendum avverrà «nel quadro dell’unità nazionale» e ai sensi dell’articolo 116 della Costituzione. Due notazioni che servono a rendere costituzionale un voto puramente consultivo. Così, nell’ottobre della rivoluzione di Barcellona, la Lega costruisce la richiesta ai cittadini lombardi e veneti di più autonomia nel modo più moderato, senza strappi costituzionali, senza lo “sbrego” della Carta che tanti anni fa invocava il politologo Gianfranco Miglio. Da tempo, in effetti, la Lega non parla più di Padania, autodeterminazione dei popoli, secessione, macro-regioni, devolution alla scozzese e modello catalano, che negli anni Novanta suonava come versione soft dell’autonomismo hard. Forse perché quella bandiera è in mano al fondatore - oggi nemico di Salvini - Umberto Bossi, l’uomo della marcia del Po. Forse perché il nuovo vento separatista sorprende la Lega al momento di compiere il passaggio opposto, da Lega nord a Lega Italia, da partito del settentrione a movimento nazionale. Da partito che vorrebbe il Nord con la parte forte dell’Europa a formazione che vuole l’Italia fuori dall’euro. O forse perché, e non ce ne siamo neppure accorti, in Italia lo sbrego è già avvenuto. Da tempo. Tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta, i “trenta gloriosi”, i trent’anni in cui le società europee sono cresciute a ritmi da capogiro (industrializzazione, piena occupazione, Stato sociale, benessere diffuso), era lo Stato nazionale a costituire lo spazio delle politiche pubbliche che favorivano e accompagnavano il miracolo economico. Mentre la mediazione tra le istituzioni centrali e la società in cambiamento era svolta da una rete di soggetti, i mitici corpi intermedi: sindacati, associazioni di categoria, cooperative. E, più di tutti, i partiti. Toccava a loro, i grandi partiti nazionali di massa, mettere in collegamento i cittadini con lo Stato, portare le masse nel cuore delle istituzioni, come si diceva all’epoca. Succedeva così in tutta Europa, nell’Inghilterra laburista e nella Germania della socialdemocrazia e del modello renano cattolico e democristiano, l’economia sociale di mercato. E così, ancor di più, nell’Italia della Repubblica dei partiti. Dove la giovane unità nazionale (solo nel 2011 sono stati celebrati i 150 anni dello Stato unitario), lo sviluppo del sistema industriale e delle infrastrutture produttive garantito dai grandi enti pubblici, l’Iri e l’Eni, la pedagogia civica delle masse affidata alla scuola dell’obbligo e alla televisione di Stato (la Rai), avevano consegnato al sistema dei partiti che tutto questo controllava in modo diretto il potere e il ruolo di rappresentare lo Stato presso i cittadini. Diffusi, onnipresenti, capillari. Una sezione in ogni comune, con i suoi organi direttivi, i partiti erano il vero ufficio di collegamento sul territorio tra lo Stato centrale e le periferie, tra Roma e la base. «La sezione Dc di Casalserugo ha aperto un ufficio di assistenza in via Umberto I n. 7, tutti i giorni, escluso il sabato, dalle 18 alle 19.30. Tutti i cittadini possono usufruire di questo servizio», avvisava un volantino della Dc che in Veneto negli anni Settanta superava stabilmente il 50 per cento dei voti. Chiedete e vi sarà dato. Invasivi, soffocanti. Banche, istituti di credito, casse rurali, concessionarie, autostrade e acquedotti, enti di bonifica. Cura del collegio, lettere di raccomandazione, clientele. Tutto era controllato in modo ferreo dai partiti. Il consenso era la moneta di scambio rispetto alla capacità di soluzione dei problemi. Ma anche la dimostrazione che i partiti di massa, non solo quelli governativi egemonizzati dall’eterna Democrazia cristiana, sapevano ascoltare le istanze dei cittadini, anche quelli più lontani dai centri del potere, e riportarli verso su, nel cuore dello Stato centrale, fino a Roma. Anche nel resto d’Europa funzionava così. I deputati di collegio inglesi. I notabili francesi che continuavano a essere sindaci dei loro piccoli comuni anche quando arrivavano agli incarichi ministeriali. Le classi dirigenti dei Länder tedeschi che salivano fino al vertice del sistema federale. E, sempre, in ogni caso, i partiti con le loro strutture elefantiache a far da camera di compensazione, a evitare che gli interessi particolari disgregassero il corpaccione statale anziché assicurarne il funzionamento. Erano i partiti la mano visibile dell’assistenza e dell’intervento pubblico, alternativa alla mano invisibile del mercato. È stato così nei gloriosi trent’anni. E nel resto d’Europa il sistema dei grandi partiti nazionali è sembrato reggere ancora a lungo anche dopo la recessione degli anni Settanta e la caduta del muro di Berlino. Oggi è in crisi ovunque. L’ultimo paese in cui è venuto giù, una settimana fa, è stata la Germania dei partiti-Stato, delle grandi fondazioni che costituiscono il motore di Cdu-Csu e di Spd. All’epoca della prima Grosse Koalition, nel 1966 con il cancelliere democristiano Kurt Kiesinger, i due partiti avevano raccolto il 90 per cento dei voti e sommavano nel Bundestag 447 seggi su 496, nel 2005 il 70 per cento e 448 su 614, nel 2013 il 66 per cento e 504 seggi su 631, dal voto del 24 settembre escono entrambi al minimo storico e insieme fanno appena il 53 per cento dei voti. In Francia, alle presidenziali di maggio, i socialisti sono usciti quasi azzerati e i repubblicani eredi del gollismo fuori dal ballottaggio, al loro posto brilla la stella di Emmanuel Macron, un senza partito. La Spagna, fino a due anni fa considerato il sistema politico più stabile d’Europa, quattro premier in quarant’anni di democrazia in alternanza tra destra e sinistra (Felipe González, José Maria Aznar, José Luis Zapatero, Mariano Rajoy), la formula perfetta, è alle prese al centro con la fragilità dei partiti (due elezioni politiche in sei mesi tra il 2015 e il 2016, un governo di minoranza) e nelle regioni con la rivoluzione territoriale della Catalogna, dove governa una strana coalizione centro destra-estrema sinistra tenuta insieme dalla bandiera dell’indipendenza, che potrebbe riaccendere altri separatismi, a partire dai paesi baschi su cui lo scrittore Fernando Aramburu ha scritto il suo capolavoro “Patria” (appena pubblicato da Guanda). La crisi degli Stati-nazione, l’impossibilità degli Stati di rispondere alle richieste di società divenute più ricche ma anche più esigenti e a rischio impoverimento, coincide in tutta Europa con la crisi dei partiti nazionali. Sostituiti da due nuove creature che l’Italia ha anticipato da decenni e poi esportato. Il territorio senza politica. E l’anti-politica senza territorio. Il territorio senza politica è stato anticipato dalla Lega Nord di Bossi che si chiama così dal 1989, anno non casuale, ed è ormai il più antico partito italiano. Alle elezioni europee dell’89 aveva conquistato in Lombardia l’8,9 per cento dei voti. L’anno dopo, alle regionali del 1990, aveva raggiunto il 18,6 per cento, con oltre un milione e 183mila voti, secondo partito della regione più ricca d’Italia dopo la Dc: vent’anni dopo, nel 2010, con la Lega partito cardine del governo e alla conquista delle regioni del Nord i voti assoluti saranno meno, un milione e 117mila. È il territorio che si organizza senza ideologie politiche, senza identità di destra e di sinistra, «una forza trasversale e interclassista», la definisce all’epoca il sociologo Giancarlo Rovati, tenuta insieme dal protagonismo del Nord e dalla rivolta contro Roma ladrona: fiscale, sociale, politica. La Lega è di destra quando parla di immigrati e di sinistra quando si atteggia a erede della Resistenza contro la «porcilaia fascista» alleata con Silvio Berlusconi. La Lega è il territorio pronto ad allearsi con chiunque per difendere gli interessi del Nord: è questa la sua politica. È poi arrivata, più di recente, l’anti-politica senza territorio. Il boom elettorale del Movimento 5 Stelle nel 2013 è il trionfo di una formazione eterea, di organizzazione virtuale, che nelle elezioni politiche del 25 febbraio raccoglie un quarto dei voti e arriva primo in cinquanta province e in undici regioni, da Trapani e Ragusa alla Lombardia forza-leghista o nelle Marche governate dal Pd. Un «partito senza territorio», l’ha definito Ilvo Diamanti, senza radici e senza culture politiche alle spalle, nato sull’onda della rivolta, il vaffa contro la politica tradizionale. In entrambi i casi, Lega e M5S, nel 1992-93 e nel 2013, a uscire sconfitti sono stati i partiti nazionali, organizzati sul territorio sulla base di identità politiche riconoscibili (il cattolicesimo democratico, il socialismo, il comunismo, la cultura laica liberale o repubblicana, la destra post-fascista), sostituiti da partiti come Forza Italia o Alleanza nazionale che mettevano il riferimento alla nazione o alla patria nel nome all’inizio degli anni Novanta, proprio quando il ruolo dello Stato-nazione si andava perdendo. E dunque c’è da chiedersi, ancora una volta, se l’Italia non abbia anticipato di anni i fenomeni che ora sconvolgono il panorama politico europeo: i partiti delle piccole patrie regionali, come quelli catalani, le formazioni senza passato alle spalle tenute insieme sulla rivolta contro il sistema come l’Afd in Germania. Mentre la sinistra di origine socialista e socialdemocratica, nata alla fine dell’Ottocento sulla spinta internazionalista e diventata nella seconda metà del Novecento il motore della nuova Europa fino a governare negli anni Novanta quindici paesi su 17 nell’Unione europea, risulta la famiglia politica più in crisi, perché la più legata allo spazio delle politiche pubbliche nazionali. Sempre più angusto e ridotto, destinato a essere spazzato via dalla doppia rivolta, dei territori e dell’anti-politica. Tentati da una santa alleanza contro l’Europa. Per questo, in Italia, il governo M5S-Lega, Di Maio-Salvini, che per ora è pura fantapolitica, potrebbe ritrovarsi tra qualche mese come l’ennesimo prodotto del laboratorio italiano destinato a fare scuola nel resto dell’Europa, con la storia e la geografia impazzite.
Secessione è una parola per ricchi. Il caso catalano rilancia i sogni separatisti delle regioni più floride del Vecchio Continente. Che vogliono staccarsi dallo Stato. Non dall’Europa, scrive il 2 ottobre 2015 Gigi Riva su “L’Espresso”. L'unico precedente giuridico a cui si può fare riferimento è l’arbitrato della Commissione Badinter, dal nome dell’allora presidente della Corte Costituzionale francese. La Comunità economica europea (non era ancora Unione europea) chiese, nel 1991, a un gruppo di esperti un parere non vincolante sulla secessione delle Repubbliche jugoslave. Oltre a una Costituzione che prevedesse la tutela dei diritti delle minoranze, la Commissione raccomandò il ricorso a un referendum. In Croazia e Slovenia si era già tenuto. In Bosnia Erzegovina no. Le autorità di Sarajevo lo promossero, vinse il sì, la Bosnia fu riconosciuta internazionalmente. E scoppiò la guerra. Benché quel vecchio arbitrato spostasse nei fatti il criterio sino ad allora accettato dell’inviolabilità delle frontiere verso il principio dell’autodeterminazione dei popoli, il paragone con la Catalogna di oggi, dal punto di vista legale, è indicativo ma zoppo. La Jugoslavia era una Federazione, la Spagna un Regno diviso in 17 comunità autonome. Madrid sostiene che un referendum indipendentista è anticostituzionale, Barcellona il contrario. Ma il “latinorum” da Azzeccagarbugli è un buon esercizio di scuola per studenti di diritto. La prassi delle separazioni dimostra quanto, davanti all’inerzia della Storia, valgano poco i principi giuridici, spesso siano anzi spudoratamente calpestati. O usati come foglia di fico per legittimare a posteriori una prova di forza. Non è stato forse il caso della Crimea tornata sotto Putin? Ai margini dell’Unione europea i confini si sono cambiati nel sangue. Balcani, Ucraina. Solo la Cecoslovacchia è l’esempio di un cammino ordinato e condiviso. Dentro l’Unione si assiste a un paradosso in realtà tale sono in apparenza. La presenza della forza centripeta di Bruxelles, un’entità sovranazionale, stimola per opposto una forza centrifuga, il riemergere dei localismi, in opposizione a un potere statale centrale vissuto con fastidio e come un raddoppio di delega. I più visionari tra i padri fondatori avevano del resto immaginato, alla fine di un percorso maturo, l’Europa delle regioni come alternativa all’Europa degli Stati: le radici lunghe di troppe diversità avrebbero finito col vincere su costruzioni ideali però arbitrarie al punto da scadere in mere espressioni geografiche. La guerra fredda aveva sconsigliato avventurismi perché aveva creato identità nell’opposizione al modello “altro”. Negli anni immediatamente successivi alla caduta del muro di Berlino, quando si credeva di andare verso un “nuovo ordine” e verso la pace perpetua kantiana, erano riemerse istanze poi temporaneamente congelate dalla crisi economica che ha ribaltato l’agenda nel nome della comune emergenza. Ci si era illusi che la vague secessionista fosse passata. Era stata solo messa tra parentesi. La Catalogna rischia adesso di essere esempio per rivendicazioni in sonno. Un indipendentismo dei ricchi stanchi di “mantenere aree più povere”, è il minimo comune denominatore nel Vecchio Continente (già fu lo slogan programmatico di Slovenia e Croazia). È il caso dei catalani come dei fiamminghi in Belgio, degli scozzesi che però devono rifare i conti sui proventi del petrolio ora che il prezzo del greggio è in picchiata. Della stessa Lega Nord, riconvertita in “nazionale” ma col retropensiero separatista che resiste nella base e non è stato abbandonato dal vertice se Matteo Salvini, pur temendo di toccare un tema troppo delicato, invoca i «piccoli passi» per ottenere pragmaticamente «ciò che è possibile». La Catalogna fa da battistrada ed era logico attenderselo da una regione che già nel 1992, all’epoca delle sue Olimpiadi, era riuscita ad ottenere che il suo idioma fosse considerato lingua ufficiale dei Giochi accanto a francese, inglese e castigliano (spagnolo): non era mai successo. Influì sul privilegio il fatto che il catalano Juan Antonio Samaranch fosse presidente del Comitato olimpico internazionale. La lingua, la maggiore ricchezza rispetto al resto della Spagna, una vena anarchico-repubblicana che mal si sposa col re di Madrid sono gli ingredienti peraltro insufficienti per il passo estremo. Ci vuole, al minimo, un referendum dall’esito incerto che spaccherà, facile pronostico, la comunità. L’Unione ha da preoccuparsi da un lato. Dall’altro può vedere il bicchiere mezzo pieno. Perché la stragrande maggioranza della gente che a Barcellona vuole il divorzio dalla capitale, per nessuna ragione lascerebbe Bruxelles e la garanzia di far parte di un consesso più largo. I secessionisti ricchi di euro e di Europa hanno bisogno.
Il referendum lombardo non è solo inutile, è anche ingiusto, scrive Stefano Colombo l'11 ottobre 2017. Operazione di facciata per scaldare i cuori dell’elettorato leghista tradizionale, il referendum potrebbe essere una cattiva idea sotto tutti i punti di vista. Sono passati ormai quattro mesi da quel 29 maggio in cui Roberto Maroni ha annunciato che il 22 ottobre si sarebbe tenuto un referendum sull’autonomia lombarda. Il governatore leghista stava architettando la consultazione da più di due anni – il consiglio regionale lombardo aveva già dato il via libera nel febbraio del 2015 – ma ha dato l’annuncio ufficiale soltanto questa primavera, in una giornata esoterica: la Festa della Lombardia, una ricorrenza istituita da lui stesso per ricordare la Battaglia di Legnano. Questo il quesito a cui saranno chiamati a rispondere i cittadini: “Volete voi che la Regione Lombardia, in considerazione della sua specialità, nel quadro dell’unità nazionale, intraprenda le iniziative istituzionali necessarie per richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione e con riferimento a ogni materia legislativa per cui tale procedimento sia ammesso in base all’articolo richiamato?”
Un quesito piuttosto fumoso, che non indica di preciso cosa si intenda con “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” — e che risulta buffo e culinario quando prende in considerazione “la sua specialità.” Ma non è un problema, perché questo referendum in realtà non intende ottenere davvero qualcosa: è stato pensato per scaldare i cuori leghisti e fare un po’ di propaganda per il governatore al termine del suo mandato. Il governo aveva già dato disponibilità a trattare con la regione per venire incontro ad alcune delle richieste del Palazzo Lombardia, rendendo inutile il referendum. In realtà, essendo puramente consultivo e non vincolante, sarebbe stato inutile anche se il governo avesse ignorato le lamentele di Maroni— ma la propaganda viene prima di tutto. Com’è noto infatti l’autonomismo è sempre stato uno dei cavalli di battaglia della Lega Nord — il motivo stesso per cui la Lega è nata, forse. Specie nei primi tempi, la parola secesiùn era stampata nel programma e soprattutto nei cuori dei militanti. Col passare del tempo però — con il consolidarsi dell’amicizia con Berlusconi, l’istituzionalizzazione del movimento e l’ingresso al governo — le spinte indipendentiste si sono annacquate in rivendicazioni più blande: la richiesta di maggiore autonomia per le istituzioni locali, la devolution, la macroregione, eccetera. Negli ultimi tre anni, il segretario Salvini ha cercato di tenere insieme l’identità nordista col tentativo di fondare un partito populista di destra a base nazionale — mandando su tutte le furie il fondatore Bossi. Salvini, ovviamente, è entusiasta del referendum. Sa bene che non può scontentare la propria base polentona: nonostante le velleità nazionaliste infatti il suo partito è ancora radicato quasi esclusivamente al Nord, dove governa due regioni importantissime — Lombardia e Veneto. Tra lui e Maroni non scorre buonissimo sangue, ma senza dubbio la Lega arriverà al doppio referendum entusiasta e unita: lo stesso giorno, infatti, si terrà un referendum analogo in Veneto. Alcune fonti informate sulle dinamiche leghiste ci hanno riferito che i piani alti della Lega hanno paura che la partecipazione al referendum si riveli un flop, nonostante il chiacchiericcio pubblico diffuso intorno ad esso dopo i risultati esplosivi del referendum catalano. Ma questo referendum, se non si è leghisti, ha senso? Nessun esponente di spicco della politica lombarda si era espresso contro l’idea di una maggior autonomia della propria regione. Le critiche arrivate dall’opposizione, soprattutto quella del PD, che in Consiglio regionale è la principale formazione di minoranza, si concentrano tutte sul fatto che il referendum sarà un salasso non necessario per le casse lombarde. La consultazione infatti verrà a costare complessivamente 48 milioni di euro — di cui addirittura 23 per l’acquisto dei tablet su cui si voterà e 3 milioni per la propaganda di dubbio gusto promossa dalla Regione stessa, particolarmente martellante soprattutto nel capoluogo.
Il sindaco di Milano Giuseppe Sala si è esposto fino a dichiarare quanto segue: “Io consiglierò di votare positivamente. Questo non è un tema che appartiene alla Lega ma un po’ a tutti, e su cui il governo ha dato chiare aperture: a mio parere è un tema giusto. Ma il referendum è assolutamente inutile.” Altri personaggi di spicco come Maurizio Martina, il nuovo migliore amico di Renzi che proviene dalla bergamasca, o il segretario regionale del PD Alessandro Alfieri, hanno tutti mosso critiche su questa linea. Addirittura, a fine giugno si era costituito un comitato per il sì tra i sindaci dei capoluoghi lombardi controllati dal PD: Varese, Bergamo, Milano, Brescia, Mantova, Cremona e Sondrio — unico assente il sindaco PD di Pavia Depaoli. In particolare il sì è sostenuto dal primo cittadino bergamasco Giorgio Gori, probabile candidato di centrosinistra alle prossime consultazioni regionali. Quello che fa gola agli amministratori locali di ogni colore e dimensione – in modo magari comprensibile, dal loro punto di vista – è la possibilità che il governo conceda alla Regione Lombardia di tenere per sé una percentuale maggiore delle tasse versate allo stato dai propri cittadini. Oggi il residuo fiscale lombardo ammonta a 53 milioni di euro, e tutti sperano di poterlo ridurre per dare un po’ di respiro, ad esempio, alle casse dei comuni. Noi siamo già indipendenti, ma per rimanere tali abbiamo bisogno del vostro aiuto: sta per finire la campagna crowdfunding su Produzioni dal basso, se ti piace il nostro lavoro prendi in considerazione l’idea di donarci 5 euro. È il momento però di far notare anche che più competenze non significa necessariamente più soldi. Facciamo un esempio assurdo: ai sensi dell’articolo 116 della Costituzione, lo stato centrale decide di trasferire alla regione la gestione dell’istruzione pubblica. I soldi che verranno girati dallo stato alla regione per gestire la sua nuova competenza – perché in ogni caso i soldi delle tasse passeranno da Roma che provvederà a farli ritornare sul territorio – saranno la stessa quantità di quanto era lo stato a gestire direttamente la materia. In altre parole: l’unica differenza potrebbe essere che sulla busta paga degli insegnanti ci sia solo un cambio di mittente, non di cifre.
Nonostante sia quantomeno discutibile che al PD convenga appoggiare anche solo in modo ambiguo una mozione così caratterizzante dei suoi principali avversari regionali, il punto di vista degli amministratori locali può essere anche comprensibile. Però, pur essendo le cariche pubbliche più numerose e vicine ai cittadini rispetto a quelle statali, gli amministratori locali non hanno necessariamente ragione. Siamo sicuri che l’aumento di potere delle istituzioni locali, in particolare delle regioni, sia anche a livello concettuale una buona cosa? Negli ultimi venticinque anni il discorso politico italiano ha visto crescere una vena di ostilità verso lo stato centrale, visto come un vampiro gestito da politici incapaci e parassiti. Questo non vuol dire, però, che dare più poteri alle regioni sia necessariamente una buona soluzione al malgoverno centrale. In particolare, in Lombardia e altrove, alcuni tra i maggiori scandali politici degli ultimi anni hanno coinvolto figure – anche di spicco – della politica locale e regionale. Un esempio lampante è il caso dell’ex Presidente della Regione Roberto Formigoni, più volte incriminato per intrallazzi vari, soprattutto nel settore della sanità: che a sentire il centrodestra è il fiore all’occhiello dell’amministrazione regionale, la testimonianza che il decentramento funziona. Forse non è proprio così. Solo un anno e mezzo fa è stato arrestato Mario Mantovani, vicepresidente della Regione e braccio destro di Maroni, con una lunga serie di accuse di corruzione.
Anche nel probabile caso in cui – tramite referendum o trattative dirette col governo – il governatore riuscisse ad ottenere una maggiore autonomia in qualche campo come l’istruzione, i trasporti o la sanità, c’è da chiedersi come verrebbero gestiti questo potere e queste risorse. Cosa ci si può aspettare da questa amministrazione regionale? Un finanziamento per un nuovo telefono omofobo? Qualche scritta sul Pirellone inneggiante alla famiglia tradizionale più di una volta ogni due mesi? Inoltre, anche se la nostra regione fosse governata dalla giunta più virtuosa possibile, è discutibile che fomentare e incentivare i piccoli campanilismi sia una buona idea. Quando si fa parte di una comunità è giusto versare il proprio contributo perché venga redistribuito. Anzi, soprattutto se si fa parte dello stato italiano, che è uno dei paesi con la più drammatica disparità di sviluppo economico e sociale al suo interno. Basta guardare questa cartina per rendersi conto che la questione meridionale, centocinquant’anni dopo la supposta unità d’Italia, è ancora il nostro problema numero uno di questo paese — nonostante non sia nemmeno tra i primi dieci argomenti più discussi dai nostri politici. Anziché consentire ai più ricchi di tenersi più soldi, si potrebbero usare le famose risorse che le amministrazioni locali vorrebbero per sé in un programma serio di investimenti pubblici per la crescita, non assistenzialista, del mezzogiorno. Il divario Nord-Sud è già enorme, allargarlo non è una buona idea.
Votare Sì al referendum lombardo per non pagare più dazio a Roma, scrive il 4 Ottobre 2017 Luigi Amicone su "Tempi". Una Italian California che non ci vede più nessuno in Europa. Faremo ripartire il lavoro da Trapani a Gorizia, valorizzando le risorse in loco. Questa mattina, 4 ottobre di san Francesco patrono dell’Italia, mi sento molto buono perché sono quasi arrivato all’età della ragione (ho sfondato i 60) e perciò non voglio litigare con quella pierina della Meloni che sfrutta il referendum all’hashish della Catalogna per picconare quello di Lombardia. Altro mondo il 22 ottobre autonomista lombardo dal primo ottobre bolscevico di Barcellona. Per altro, data storica al servizio di una vera Italia unita. Un sogno? Sì. Ma bellissimo quando andremo a comandare noi. E che detto molto in soldoni si sintetizza in questo: il sogno del taglio della mano morta di Roma. Padrino senza un Marlon Brando che ci taglieggia e digerisce nel nulla le risorse da sud a nord. Ma se ci mettiamo d’accordo noi, regioni del nord e del sud, bypassando l’artiglio parassitario dei palazzi del dazio romano, vedrete che ci rifacciamo un Paese federalista e solidale. Una Italian California che non ci vede più nessuno in Europa. Faremo ripartire il lavoro da Trapani a Gorizia, valorizzando le risorse in loco. E a quelli che prendono lo stipendio e le pensioni dorate per controllare i controllori del controllo di chi lavora e paga le tasse per farci il buco miliardario di tutti gli enti locali e statali romani tenuti nella famosa “legalità” dello status quo dell’unità ottocentesca trombona e magna magna del sudore e sangue del popolo, da paparazzi trasformisti e polverose Corti e azzeccagarbugli di Stato. Ma non voglio farmi subito querelare per “attentato” all’Unità dello Stato. Che L’Unità è già fallita da un pezzo. E lo Stato, il nostro Stato colabrodo, è ormai l’ultimo rifugio delle canaglie. Dunque, dicevo, siccome è il mio compleanno e scocca nel giorno del poverello d’Assisi che ci ha resi orgogliosi di essere italiani, per prima cosa dirò che il quotidiano romano Repubblica ci faccia il santo piacere di smetterla con questo ricicciamento della (falsa) notizia dell’“evasione fiscale” record in Italia. Che è la notizia che ha fondato il governo Monti, che la Merkel ha fortemente voluto e su cui la Ue (lato Nord Europa) scommette ancora per spazzolare i risparmiatori italiani e indurre una finanziaria da prelievo forzoso nei conti correnti (già lo fece Amato su spintarella di Soros, l’amichetto di D’Alema, e non mi pare una grande idea, vedi Ungheria che ha capito tutto). Per altro a Repubblica, la romana doc, bisogna dire questo: siete per il fisco? Ok, incominciate a far pagare al vostro padrone quel tot di centinaia di milioni di elusione fiscale che gli hanno sentenziato (e sono 26 anni che mette di mezzo avvocati per non pagare). E poi mettetevi il cuore in pace: sappiamo che il vostro Carlo De Benedetti, oltre a essere stato la tessera numero 1 del Pd è stato lo spavaldo, “moderno imprenditore”, che spiegò tranquillo al Financial Times, a proposito delle Olivetti di Prima Repubblica, chissà perché, adottate in ogni piega di ufficio statale, dalle poste ai ministeri: «Ho pagato le tangenti, lo rifarei, questo era il sistema». Già quando il sistema “era”, c’era chi aveva il privilegio di tangentare (gli altri: “in galera!”). Quando il sistema è, beh, 26 anni di avvocati per non pagare. Dalla panetteria Repubblica, cari cittadini, eccovi qui sfornate di giornata brioches di indignazione per tutti! Dopo di che, eccovi la notizia vera, suffragata dai dati regionali e statali, che ho pubblicato qui, su Tempi del 25 aprile 2015 e che ripropongo per rinfrescare la memoria alle pierine Meloni e per darvi buone ragioni, cittadini del nord e del sud, per andare il 22 ottobre a votare “sì”. E in un bellissimo giorno che verrà, a comandare bypassando il taccagno e sperperatore dazio di Roma.
Tratto da Tempi, 25 aprile 2015 – Domanda da terza elementare: quante sono le regioni italiane? Le regioni italiane sono 20. Bravo Pierino. E sapresti dirmi quali di queste venti regioni sono a “statuto speciale”, cioè sono regioni a cui la Costituzione italiana ha concesso, tra l’altro, il privilegio di trattenere sul proprio territorio chi il 60, chi il 70, chi il 90, chi il 100 per cento delle tasse pagate dai cittadini? Ma certo che lo so signora maestra! Le regioni a statuto speciale sono cinque: il Friuli Venezia Giulia, che trattiene il 60 per cento dei tributi; la Sardegna, che si tiene il 70; la Valle d’Aosta e il Trentino Alto Adige, il 90; la Sicilia, il 100 per cento. Molto bene, Pierino. Adesso vai a casa e studia i fatti. Perché al di là di quello che sta scritto nella Costituzione, in realtà le regioni a statuto speciale sono 19, mentre una, e una soltanto, è a statuto ordinario. La Lombardia. Il bancomat dello Stato centrale. Dopo di che capirai perché i grandi corpi dello Stato (procure), i grandi giornali statalisti (Repubblica) e i grandi partiti centralisti (Pd), sono ancora a mordere questa regione “ordinaria”, nel tentativo di radere definitivamente al suolo (come hanno fatto con Formigoni, non parliamo di Berlusconi e, più recentemente, con il politicamente lombardo Lupi) un modello di buon governo di cui si è voluto in ogni modo impedire l’affermazione a livello nazionale.
Quanti default mascherati. Ricapitoliamo. Il tema è: quanto pagano i cittadini per mantenere servizi e amministrazione pubblica (almeno) decenti? Quali sono le regioni che spendono meno e meglio le tasse dei cittadini? La settimana scorsa abbiamo illustrato i dati in cui emerge la distanza siderale che c’è tra il governo lombardo e tutti gli altri nell’uso dei soldi dei contribuenti. Dal costo pro capite del personale pubblico (19,8 euro in Lombardia, record nazionale di spesa minima, 177 euro in Molise, record di spesa massima; media nazionale: 43,9) alle spese per la sanità che rappresentano l’80 per cento del budget delle regioni (il costante pareggio di bilancio della Lombardia contro le decine di miliardi di buco accumulati dalle regioni del Sud con conseguenti piani di rientro, malasanità, pesanti ticket, disagi per l’utenza; l’arrancare anche delle regioni del Centro-Nord, i disavanzi di quelle a statuto speciale). Dalle aliquote fiscali Irpef e Irap (mediamente superiori ovunque alle aliquote lombarde) alla situazione del trasporto pubblico locale (dove ancora una volta la Lombardia si segnala per essere largamente al di sopra del livello minimo di efficienza, mentre da Roma in giù il servizio dei trasporti locali è allo sbando, tecnicamente “in default” se non fosse sussidiato dallo Stato). Da ultimo avevamo visto che mentre la Lombardia paga regolarmente i propri fornitori e perciò non chiede un cent allo Stato, la sola regione Lazio, per non fallire come pubblica amministrazione e, soprattutto, per non far fallire i suoi creditori, si è “mangiata” tra il 2013 e il 2014 una cifra pari a sei volte il presunto “tesoretto” del governo Renzi, incassando dallo Stato, cioè dalla collettività, oltre 9 miliardi in “anticipazioni finanziare” cosiddette. Che in realtà sono “mutui”, visto che il Lazio e le altre regioni che ne hanno usufruito (Campania e Piemonte su tutte) devono restituire questi soldi “anticipati” dallo Stato in 30 anni (ma allo Stato non è stato fatto divieto dalla Costituzione, articolo 119, di fare debito per la spesa corrente?).
La madre di tutte le sperequazioni. Come mai la Lombardia è l’unica regione italiana che non gode di uno “statuto speciale”? Osserva la tabella dei dati nazionali, Pierino. Non ti sembra che, eccetto la Lombardia, siano ormai “speciali” tutte le regioni italiane, in via di principio (costituzionale) o di fatto (per politiche di governo dello Stato)? Vediamo. La Lombardia ha il più alto residuo fiscale nazionale. Sfiora i 54 miliardi di euro l’anno. Significa che un buon 32 per cento del suo saldo positivo tra entrate e spese (comprese quelle per il buono scuola, per la difesa della vita nascente, per il sostegno alle famiglie e parecchi altri provvedimenti sociali assenti in quasi tutto il panorama regionale del Paese) la Lombardia lo devolve interamente allo Stato. In “solidarietà” alle regioni meno abbienti e in perequazione al gettito delle regioni più piccole. Ora, proprio tenendo presente questa percentuale di residuo fiscale, al di là delle cifre in valore assoluto versate a Roma (che dipendono ovviamente da quantità della popolazione e distribuzione di ricchezza e povertà nei vari territori), salta immediatamente agli occhi l’iniquità e l’ingiustizia pazzesca che lo Stato centrale esercita nei confronti della Lombardia. Essa, infatti, è la regione italiana che in percentuale trattiene il minore gettito (entrate). Solo il 68 per cento. Viceversa, in tutte le altre regioni succede il contrario. Succede che, benché 9 delle altre regioni italiane presentino residui fiscali in valore assoluto molto più bassi di quelli della Lombardia e le rimanenti altre 10, concentrate al Sud, addirittura residui negativi, tutte e 19 trattengono e spendono per sé percentuali altissime del gettito locale, e sono quindi divenute di fatto tutte regioni a statuto speciale. C’entrano niente, nel caso esaminato, le opinioni politiche. Le generalizzazioni demagogiche dei giornaloni contro la “casta” dei politici. Il vittimismo sulle regioni “povere”. Le furbastre ondate di indignazione orchestrate contro questo o quel “ladro” dal circuito mediatico-giudiziario. Qui – come per i dati esposti settimana scorsa e sintetizzati sopra – c’entra un sistema. Qui c’entra uno Stato centralista che fa dell’iniquità, della sperequazione e, quindi, dello sperpero delle risorse un sistema ben oliato e superlegalizzato. Approfondiamo. Dopo la Lombardia, la seconda regione più “spremuta” dallo Stato è il Veneto. Però siamo già 6 punti percentuali sopra la Lombardia, cioè al 74 per cento delle entrate trattenute, spese sul proprio territorio. Un “privilegio” superiore a quanto la Costituzione assegnerebbe alla Sardegna. Piccolo particolare: la Sardegna trattiene e spende in regione non il 70 e neanche il 100 per cento delle entrate. Bensì, il 100 più un rabbocco di un altro 26 per cento prelevato in solidarietà dalla cassa comune dei contribuenti italiani. Ma questo non è niente. Piemonte, Toscana, Marche, Umbria, Lazio e Liguria, a cui lo Stato concede di trattenere e spendere, nell’ordine, andiamo per difetto, l’83 per cento delle entrate, l’84, l’87, il 90, fino a picchi del 92 (Lazio) e 95 per cento (Liguria), sembrano regioni quasi più “speciali” del Trentino Alto Adige (96 per cento). Di sicuro, più “speciali” delle amministrazioni pubbliche trentine e altoatesine sono l’Abruzzo (105 per cento), la Basilicata (106), la Campania (107), il Molise (109) e la Puglia (109). Significa che a tutte queste amministrazioni regionali non soltanto lo Stato concede il privilegio di trattenere e spendere in loco l’intera posta fiscale, ma siccome spendono più di quello che incassano, lo Stato mette a disposizione di queste regioni un bancomat (dicesi “trasferimenti”) per prelevare altri soldi dalla cassa comune di tutti i contribuenti italiani (e specialmente lombardi).
Traduzione per i contribuenti. Domanda: lo Stato concede tale privilegio a queste regioni perché esse erogano servizi particolari, più “speciali”, di quelli erogati dal Trentino Alto Adige? Se così fosse, si capirebbe perché non è affatto la Sicilia la regione più “speciale” d’Italia (120 per cento), ma è la Calabria. Regione a “statuto speciale” per eccellenza, visto che incassa e trattiene e spende quasi il 128 per cento, tra entrate e rabbocchi statali. Tradotta in soldini pagati dalle comunità regionali dei contribuenti, la morale è la seguente. Come ci ricordano gli Uffici Studi della Cgia di Mestre sulla base dei dati Unioncamere e dei conti pubblici territoriali (Cpt), la Lombardia, pur gestendo mediamente bene le tasse dei suoi cittadini, pur mantenendo servizi mediamente superiori alla media nazionale, subisce da parte dello Stato centrale i maggiori tagli e prelievi di risorse. Tradotto in euro pro capite, ci ricorda la Cgia, significa che con residui fiscali annui pari a 53,9 miliardi di euro in Lombardia, «ogni cittadino lombardo (neonati e ultracentenari compresi) dà in solidarietà al resto del Paese oltre 5.500 euro all’anno». E tutte le altre regioni? Per lo più spendono. E soprattutto spandono. Tanto paga Pantalone lombardo.
Referendum autonomia, Vittorio Feltri l'Ottobre 2017 su "Libero Quotidiano": non diamo i nostri soldi a quelli che li spendono male. Il referendum che si voterà in ottobre circa l’autonomia delle regioni Veneto e Lombardia non viene pubblicizzato a dovere poiché infastidisce il potere centrale e il Mezzogiorno. I quali temono di perdere la tetta da cui succhiare risorse. È noto che il Nord produca più del Sud e mandi a Roma la quasi totalità dei proventi fiscali locali, che poi servono ad alimentare le casse dello Stato, incline a sprecare capitali a scopi elettoralistici. La novità consiste nel fatto che i lombardi e i veneti ne hanno piene le scatole di versare denaro a chi non è in grado di utilizzarlo convenientemente. Lavorare per gli altri che non lavorano affatto non è piacevole. Ecco perché i governatori Maroni e Zaia si sono impegnati legittimamente in questo plebiscito consultivo: si tratta di accertare se gli abitanti delle zone ad alta densità industriale vogliono o no amministrarsi in proprio, trattenendo sul territorio una quantità maggiore, rispetto ad oggi, dei loro quattrini sudati. Dove sia lo scandalo della iniziativa non sappiamo. La contrarietà da taluni manifestata a questo sano progetto si spiega soltanto col desiderio di negare a Milano e a Venezia il diritto di amministrare i loro beni in favore dei propri cittadini. Durante una trasmissione televisiva imperniata sul tema dell’autonomia, il direttore del Messaggero di Roma, Virman Cusenza, si è espresso contro il referendum senza una ragione plausibile. Egli infatti è siciliano, e di ciò almeno noi non abbiamo colpa, quindi di una regione che della autonomia ha fatto pessimo uso. Ebbene con quale faccia egli vieta alla Lombardia di avere le stesse facoltà gestionali di cui gode (inutilmente, per cronica inettitudine) la Sicilia? La quale, se fa schifo, non è responsabilità dei lombardi bensì dei concittadini di Cusenza. In Italia le regioni autonome sono cinque. Perché non averne sei o sette? Sul punto il direttore del Messaggero, come tutti i meridionali, tace o tergiversa. In silenzio stanno anche i giornaloni nazionali e le tivù più importanti. Gli addetti alla informazione sono quasi tutti terroni e terrorizzati alla idea che Lombardia e Veneto cessino di versare palanche sotto il Po. La questione è molto semplice. Ciascuno è obbligato a vivere del suo, come si diceva una volta. Nessuno impedisce al Mezzogiorno di creare imprese, posti di lavoro e ricchezza. Le popolazioni meridionali utilizzino i finanziamenti statali per realizzare infrastrutture, cioè le basi per incrementare l’economia. Non si illudano di campare in eterno alle spalle degli odiati nordici, che sono stanchi di essere sfruttati quali bancomat. Il mese prossimo lombardi e veneti pertanto voteranno sì al referendum per essere padroni del loro portafogli. Non c’è nulla di ideologico né di razzistico nella ricerca della autonomia, solo l’esigenza di essere uguali alla Sicilia e di dimostrare ad essa che tale autonomia si può sfruttare per crescere e non per sprofondare in un mare di debiti palermitani. Vittorio Feltri
Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 16.03.2017. Da oltre mezzo secolo ascolto discorsi e leggo articoli che auspicano la crescita del Mezzogiorno. I politici meridionali in particolare predicano in continuazione che è necessario investire al Sud per migliorare le condizioni generali del Paese. Belle parole, ma soltanto parole. Fatti concreti se ne sono visti pochi, se si escludono vari foraggiamenti a pioggia distribuiti nelle regioni più disastrate dello Stivale, denaro non utilizzato poi per creare infrastrutture, bensì per arricchire mafie e oligarchie. Cosicché il divario tra il ricco Nord e il resto della penisola non è mai stato colmato. E oggi siamo ancora qui a blaterare sul modo per aiutare i terroni (senza offesa) a essere un po' meno terroni. I soliti pistolotti vacui, la solita retorica inconcludente. Risultato, la spaccatura tra le due Italie è sempre più profonda. Quando si dice che la politica è incapace di fare progetti e di realizzarli ci si attiene al realismo più crudo. Oltretutto, le cose non migliorano neanche per forza di inerzia, ma peggiorano. Per risollevare la Calabria e la Sicilia, prima Berlusconi e dopo Renzi si erano messi in testa di costruire il ponte sullo stretto di Messina. Una idea del cavolo ma comunque un'idea. Ovviamente abortita per motivi che è inutile elencare tutti, basta citarne uno: mancavano i soldi.
Ci domandiamo come immaginassero, sia Silvio sia Matteo, di trovare il grano necessario per legare col cemento l'isola alla penisola. Mistero. Sorvoliamo sulle velleità infantili dei due ex premier e veniamo alla più stringente attualità. I deficienti che amministrano la nostra vituperata nazione, per dare una mano ai fratelli calabresi hanno deciso di chiudere l'Aeroporto di Reggio. Perché non rende alle compagnie che gestiscono i voli, che pertanto si rifiutano di seguitare a decollare e ad atterrare nel suddetto scalo. Da giugno in poi i reggini che desidereranno venire a Milano e poi tornare nella loro città saranno costretti a usare mezzi diversi dal jet: il treno (non quello ad alta velocità che laggiù non c'è), l'automobile o la carrozza di San Francesco, cioè i sandali. Vi rendete conto, cari lettori, che avanti di questo passo il Mezzogiorno precipiterà a livelli africani?
Vi pare una mossa intelligente sopprimere l'aeroporto nel capoluogo di una regione che non dispone di altre infrastrutture, visto che l'autostrada è un sentiero accidentato e la ferrovia è ottocentesca? Dato che il ponte tra Scilla e Cariddi non si può erigere, per compensare il buco togliamo anche l'aerostazione e che i reggini vadano a fare in culo, loro, la 'Ndrangheta e la 'nduja. Il ragionamento cretino prosegue. La Calabria ha una sola risorsa importante, il turismo, e noi ci attrezziamo per ucciderlo abbattendo gli aerei perché costano di più di quanto ricavano. Ecco come i nostri meridionalisti del piffero intendono incrementare l'economia del Sud. Non sanno poveri idioti che i trasporti sono un servizio oneroso, questo è pacifico, ma indispensabile per creare giri di affari e quindi ricchezza. Hanno condannato a morte la regione e ne piangono la salma. Sono scemi o delinquenti? Entrambe le cose. Ai calabresi tocca soltanto l'incombenza di ospitare e assistere profughi portatori di miseria, malattie e problemi sociali. E ci stupiamo che essi preferiscano la mafia allo Stato.
"Guardatevi allo specchio e poi sputatevi": Feltri, lo schiaffo a (certi) napoletani, scrive il 13 Luglio 2017 su "Libero Quotidiano". Il Vesuvio è in fiamme. Chi ha appiccato il fuoco? Persone del posto, ovviamente, criminali che nessuno ha ostacolato e dei quali non si scoprirà mai l'identità per un motivo banale: essi agiscono grazie a una rete di complici che pascolano nella malavita locale, attiva più che mai, e sono al servizio di boss potenti.
Lo stesso fenomeno si registra in Sicilia dove non c' è verso di scoprire né gli autori materiali degli incendi né i loro mandanti, i quali non agiscono a capocchia, ma sono mossi da loschi interessi. Di fronte al fuoco che si propaga a grande velocità e su vasti territori, la maggior parte dei cittadini punta il dito accusatore sullo Stato, dice che l'autorità è inesistente, assente. Non c' è anima che si chieda cosa facciano le migliaia di guardie forestali, pagate dalla pubblica amministrazione, per sorvegliare le zone loro affidate ed evitare che siano incenerite. Il sospetto, anzi la certezza, è che si grattino il ventre e non svolgano neanche distrattamente i compiti loro assegnati in cambio di una buona retribuzione. Secondo la vulgata meridionale la colpa di ogni sfacelo è sempre del mitico Stato, quasi che questo fosse una divinità demiurgica. In realtà lo Stato che manifesta le proprie forze, o debolezze, a Napoli o a Palermo, è lo stesso presente a Pordenone e a Conegliano Veneto, per altro incarnato prevalentemente da funzionari del Mezzogiorno emigrati per questioni alimentari, i quali se al Nord sono efficienti significa che non sono stupidi e indolenti. Se sono bravi quassù perché laggiú sono asini? Evidentemente il problema nasce dal condizionamento ambientale. Non c' entra l'antropologia, bensì la sociologia. La gente del Mezzogiorno è più portata a collaborare con i delinquenti, temuti e venerati, che non con le Forze dell'ordine, poco rispettate. Infatti i meridionali che vivono a Milano sono diventati più milanesi dei milanesi, si sono perfettamente inseriti e sono i primi a comportarsi osservando le regole. Parecchi di quelli rimasti in Terronia, invece, influenzati dalla comunità storta in cui campano, ne adottano le cattive abitudini e sono guai. I peggiori di essi sono addirittura piromani e danneggiano i compaesani. Avranno la loro bella convenienza. E allora è inutile e ridicolo che il sindaco di Napoli quereli Libero perché analizza i costumi partenopei senza ipocrisia, focalizzandone i difetti maggiori. Qui non c' entra il razzismo e altre simili stupidaggini. Si tratta soltanto di prendere atto di ciò che è sotto gli occhi di chiunque ne abbia due aperti. Il disastro del Vesuvio, dove non è sorto un edificio che non sia abusivo (complimenti alle amministrazioni cieche), non é stato provocato da calamità naturali: i napoletani - non tutti per carità - si sono bruciati da sé. Si guardino allo specchio e sputino. Non sbagliano bersaglio. Vittorio Feltri
Il dopo referendum sarà il vero problema. Secondo il giurista Mario Speroni, nel caso in cui prevalga il sì molto dipenderà da chi vincerà le prossime elezioni, scrive Michele Mancino su "Varesenews.it" il 12 ottobre 2017. Il prossimo 22 ottobre si terrà, in Lombardia ed in Veneto, un referendum, al fine di ottenere una maggiore autonomia, da parte dello stato italiano. Il quesito iniziale, che era il seguente “Volete voi che la Regione Lombardia, nel quadro dell’unità nazionale, intraprenda le iniziative istituzionali necessarie per richiedere allo stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse, ai sensi e per gli effetti di cui all’art.116, 3° comma, della costituzione?” – e quindi piuttosto generico – è stato ora modificato con il decreto del presidente Maroni n.683 del 28/5/17, che indice il referendum per il 22 ottobre prossimo, utilizzando, per la prima volta, il voto elettronico. Esso suona così: “Volete voi che la Regione Lombardia, in considerazione della sua specialità, nel quadro dell’unità nazionale, intraprenda le iniziative istituzionali necessarie per richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione e con riferimento a ogni materia legislativa per cui tale procedimento sia ammesso in base all’articolo richiamato?”. Lo stesso presidente Maroni – al meeting di CL di Rimini del 22 agosto– ha poi dichiarato: «Se vinco presenterò richiesta per ottenere lo statuto speciale in Lombardia. Voglio le stesse condizioni della Sicilia», creando un po’ di confusione, perché la maggiore autonomia, prevista dal referendum del 22 ottobre, non è quella cui fanno riferimento le regioni a statuto speciale – come appunto la Sicilia – che sono indicate dall’art.116 della costituzione italiana. Se la Lombardia dovesse aggiungersi ad esse, sarebbe necessaria una revisione costituzionale, il che prevederebbe lunghissime procedure e quasi certamente un referendum nazionale. Perché gli elettori delle regioni favorite dall’attuale sistema – cioè la grande maggioranza del paese – dovrebbero votare contro il loro interesse? Cerchiamo di essere seri. – Torniamo ora al nuovo quesito referendario. Esso ora chiarisce che le materie di cui si chiede l’attribuzione alla regione sono tutte quelle previste dal 3° comma dell’art.116 della costituzione italiana, nessuna esclusa. Si tratta, quindi, di ben 23 materie, di cui alcune di grande importanza, come l’ “istruzione” – sia nei suoi profili istituzionali, che in quelli contenutistici – l’ “ambiente ed i beni culturali”; i rapporti internazionali – sia con gli stati esteri, che con l’UE e le altre organizzazioni internazionali; il commercio con l’estero; l’ordinamento delle professioni; la ricerca scientifica; la tutela della salute; l’alimentazione; il governo del territorio; gli aeroporti e le grandi reti di trasporto; le comunicazioni; l’energia; le banche ed il credito fondiario regionali. Se tutte queste materie venissero interamente trasferite dalle competenze dello stato a quelle della regione Lombardia, questa diverrebbe un vero e proprio “stato confederato” con la repubblica italiana. Ma – attenzione – l‘art.116 della costituzione italiana non dice così: esso si limita a riferirsi solo “ad ulteriori forme” – oltre a quelle già esistenti – “di autonomia”, negli ambiti suddetti, da conferire alle regioni a statuto ordinario, non al trasferimento delle materie sopra nominate nella loro interezza. E qui la regione Lombardia avrebbe dovuto prima studiare quali competenze effettivamente chiedere, ma questo non è stato fatto, finora. Di conseguenza il cittadino elettore non saprà, votando sì, che cosa effettivamente la regione vorrà acquisire dallo stato. Ciò nonostante – da convinto federalista – auspico che il referendum passi ed il fatto che il PD abbia dato il suo – non so quanto sincero – appoggio, non mi fa dubitare che succederà. Più il governante è vicino – anche fisicamente – al governato, meglio viene gestito il potere – come già rilevava, nel 1944, Luigi Einaudi, esule in Svizzera ed avendo presente l’ordinamento della Confederazione, nel suo articolo “Via il prefetto”, cioè via il centralismo, apparso sul supplemento della “Gazzetta Ticinese”, del 17 luglio 1944, intitolato “L’Italia e il secondo risorgimento”. Il problema è il dopo: passato il referendum, dovranno iniziare le trattative con il governo. Molto dipende da chi vincerà le prossime elezioni. Ma anche una volta raggiunta un’intesa – come prevista dall’art.116, 3° c., della costituzione italiana – la relativa legge dovrà essere approvata dalle due camere “a maggioranza assoluta dei componenti”. Ritengo che ciò sia quasi impossibile, almeno che la regione Lombardia non si accontenti di poco. Dopo tutto, Lombardia e Veneto mantengono, con le imposte statali lì prelevate, gran parte del resto d’Italia, così come ha ben dimostrato il sociologo ed economista torinese Luca Ricolfi – allora vicino al PD – nel suo libro “Il sacco del Nord. Saggio sulla giustizia territoriale”, dove dimostra – dati alla mano – come oltre 50 miliardi di euro, ogni anno, se ne vanno ingiustificatamente dalle regioni settentrionali.
Il referendum truffa della Lega a spese degli italiani, scrive il 9/10/2017 Luigi Pandolfi, Giornalista e politologo, su "L'Huffingtonpost.it. C'è poco da fare: nonostante la svolta "italica" di Salvini, il vizio di giocare con i cittadini del Nord la Lega non lo perde mai. È nel suo Dna. L'ultima trovata (in Veneto, a dire il vero, c'avevano già provato qualche anno fa) è il referendum "consultivo" in programma per il prossimo 22 ottobre. Una roba da ridere, se non fosse che costerà milioni e milioni di euro all'erario. In un articolo apparso sul Tempo alcuni giorni fa a firma di Dario Martini, si parlava di un costo complessivo – tra le due regioni - pari a 64 milioni di euro, di cui ben 22 sarebbero serviti per comprare 24 mila tablet per il voto elettronico in Lombardia (916 euro a pezzo). Soldi spesi inutilmente, per chiedere ai cittadini della Lombardia e del Veneto se sono d'accordo acché le loro regioni negozino con il governo centrale una maggiore autonomia su alcune materie di legislazione concorrente e su altre di esclusiva competenza statale (giudici di pace, istruzione, ambiente). Un'opzione prevista dalla Costituzione, che non prevede, tuttavia, alcun referendum, ma, semplicemente, l' "iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali", e, infine, una legge che le Camere dovranno approvare a maggioranza assoluta dei componenti. Ma che significa "materie di legislazione concorrente"? Che già oggi, per queste materie, "spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato". Ergo: su tutta una serie di materie, dalla sicurezza sul lavoro all'energia, dal governo del territorio ai porti (e agli aeroporti), passando per le casse di risparmio, la protezione civile e la valorizzazione dei beni culturali, già oggi le regioni decidono e legiferano, sebbene nel rispetto dei principi fondamentali dell'ordinamento. A rendere maggiormente irritante questa farsa sono i quesiti proposti agli elettori, nei quali non c'è nessun accenno alla materie su cui queste regioni chiederebbero l'autonomia. In Veneto, addirittura, gli elettori saranno chiamati a esprimersi sul seguente quesito: "Vuoi che alla Regione del Veneto siano attribuite forme e condizioni particolari di autonomia?". Più o meno come chiedere a un bambino se vuole bene a mamma e papà. Nessuna meraviglia, beninteso: nel 2012 il governatore Zaia, per farsi dire che un referendum sull'indipendenza del Veneto era inammissibile (ai sensi dell'art. 5 della Costituzione), si rivolse all'Avvocatura regionale, che, manco a farlo apposta (sic!), pronunciò un secco no. È il federalismo fiscale? Le magiche risorse che dovrebbero rimanere sul territorio? Macché, tra tutte le "chiamate" dell'articolo 117 il fisco non c'è. Autonomia sì, ma con i soldi di Roma. Non va dimenticato, peraltro, che, nel 2015, la Corte costituzionale aveva già censurato la norma contenuta nella legge n.15/2014 della Regione Veneto (quella relativa al referendum consultivo per l'autonomia), laddove si prospettava che la Regione mantenesse "almeno l'ottanta per cento dei tributi riscossi nel territorio regionale", con la motivazione che la "distrazione di una cospicua percentuale dalla finanza pubblica generale" avrebbe alterato gli equilibri della stessa e i "legami di solidarietà tra la popolazione regionale e il resto della Repubblica". Capitolo chiuso. Sul piano formale, quindi, questo referendum è una farsa. Sul piano politico, come è stato riconosciuto da più parti, esso costituisce un mezzo attraverso il quale la Lega nazionalista cerca di rinsaldare il suo rapporto col Nord, recuperando, a pochi mesi dalle elezioni politiche (e a spese dei cittadini), il vecchio argomento dell'autonomia, su cui ha campato per oltre un ventennio. Com'è accaduto in passato – c'è stato un periodo in cui bisognava per forza dirsi "federalisti" -, anche questa volta, la legittimazione arriva dagli "avversari". Sindaci, amministratori, dirigenti locali del Pd che si affannano a dichiararsi per il Sì. Un sostegno ufficiale al referendum arriva, invece, dal Movimento 5 Stelle, che, in questo caso, pensa pure (e dichiara) che i soldi pubblici siano spesi bene ("I soldi spesi per interpellare i cittadini non sono mai uno spreco"). Piccoli e meschini calcoli di bottega, ipocrisia a gogò. Al fondo, problemi atavici di un Paese che, a furia di soffiare sul fuoco degli egoismi, complici stagnazione e disagio sociale, rischia la bancarotta (fraudolenta).
Referendum autonomie. Riscrivere il patto nazionale che ci tiene uniti, trasformando l’Italia in uno Stato federale, scrive il 23 Ottobre 2017 Mario Castellano su "Faro di Roma". Questa mattina, un collega giornalista straniero, pur essendo ottimo conoscitore dell’Italia, esprimeva il suo stupore per il risultato del referendum in Veneto. Abbiamo dovuto spiegargli che la Repubblica di Venezia durò più tempo dell’Impero Romano: esattamente dal 697, quando i profughi da Aquileia, distrutta dalle invasioni barbariche, trovarono riparo sull’isola di Rialto, nell’insalubre laguna, ed elessero il loro primo Doge, Paolo Lucio Anafesto, fino al 1797, quando – con l’arrivo del Generale Bonaparte – i rivoluzionari francesi trasformarono il vecchio regime oligarchico in una Repubblica democratica; la quale ebbe vita effimera, fino al tradimento consumato pochi mesi dopo da Napoleone a Campoformio. Ippolito Niervo ricorda quella pagina di storia, che aveva sentito raccontare da uno dei presenti, nelle “Confessioni di un Italiano”: il “Maggior Consiglio”, composto da tutti i figli maschi delle famiglie nobiliari, votò per la nuova Costituzione, ma ciò fu il risultato di un colpo di mano perpetrato dal settore democratico – molto minoritario nell’assemblea – che comunque deliberò in assenza del numero legale. Si dice anche che Manin, l’ultimo Doge, svenne nel momento di lasciare la sua carica. La bandiera con il Leone di San Marco, ammainata nelle colonie veneziane della Dalmazia, era letteralmente intrisa di lacrime, ed il testo della loro estrema dichiarazione di fedeltà alla Serenissima, redatto in lingua regionale, veniva imparato a memoria nelle terre chiamate in seguito “irredente”. Dall’altra parte, i fautori dell’Unità – durante il Risorgimento – citavano come prova della decrepitezza dei vecchi Stati regionali, e quindi della necessità di superarli, il fatto che le uniche unità militari a difendere l’indipendenza fossero quelle composte dai mercenari “schiavoni”, cioè sloveni: i soldati veneti, cioè “italiani” – non mossero un dito. Se la fine della Repubblica fu ingloriosa, era stata gloriosa la sua storia, durata esattamente millecento anni. Di quella vicenda rimane testimonianza nella vitalità delle lingua regionale, l’unica ancora parlata correntemente nell’Italia Settentrionale: quello che impropriamente chiamiamo “dialetto” fu sempre impiegato nei documenti ufficiali, mentre tutti gli altri “Antichi Stati” avevano adottato da tempo l’italiano; l’ultimo era stato il Piemonte, sotto Emanuele Filiberto, nel sedicesimo secolo. Perduta l’Indipendenza, il Veneto godette di una condizione privilegiata nell’ambito dell’Impero Austriaco, che mantenne l’italiano come lingua ufficiale ella sua Marina Militare anche dopo il 1866, in omaggio alla sola Trieste. La Regione di Venezia diede il maggiore apporto all’emigrazione, verso l’estero come verso il resto d’Italia – proporzionalmente più dello stesso Meridione – ma solo dopo l’annessione al Regno sabaudo. Il flusso degli Italiani verso l’estero cominciò in tutte le Regioni a partire da quel momento: la prima a scontarlo fu la Liguria, inglobata nel Piemonte fin dal Congresso di Vienna. In conclusione, possiamo dire che la Repubblica di Venezia fu il più radicato e solido tra gli Stati regionali italiani: la storia narrata dal Manzoni nei “Promessi Sposi”, in cui si compara la prosperità della Bergamasca – “Terra di San Marco”, come proclamò il Cardinale Roncalli nell’assumere la carica di Patriarca di Venezia – con la miseria e la corruzione di Milano, sottoposta al dominio spagnolo, intendeva significare quanto fosse importante e benefica l’Indipendenza anche senza l’Unità. Nel 1848, “l’anno dei portenti”, a Venezia non venne proclamata l’annessione al Piemonte, bensì la restaurazione della Serenissima Repubblica, sotto la guida di due personaggi tra loro agli antipodi, ed anche in pessimi rapporti personali: l’israelita Daniele Manin ed il cattolico integralista Nicolò Tommaseo; segno questo che la rivendicazione dell’Indipendenza – in chiave regionale – era, come si direbbe oggi – “trasversale”. La resistenza dei Veneti alla restaurazione austriaca fu tra i momenti più gloriosi del Risorgimento, caratterizzata da una grande partecipazione popolare: resistettero all’invasore le fortezze di Osoppo e di Marghera, i cui difensori vennero tutti uccisi, e la stessa Venezia; “Il morbo infuria, il pan ci manca, sul ponte sventola bandiera bianca”, cantò nell’occasione il Poeta Fusinato. E’ quindi comprensibile, dati simili precedenti, che i Veneti chiedano più competenze per la loro Regione. Fin qui le loro ragioni storiche.
Sul piano economico, si ha un bel dire che l’autonomia fiscale non basta di per sé ad assicurare il benessere, citando l’esempio negativo della Sicilia: i Veneti hanno sotto gli occhi l’esempio virtuoso non solo del Sud Tirolo tedesco, ma anche del Trentino di espressione italiana, con cui anzi condividono la stessa lingua regionale. In queste due Provincie, erette in Regione a Statuto Speciale ma anche reciprocamente autonome, il principio per cui l’intero introito tributario deve essere gestito e speso “in loco” ha assicurato un tale livello di benessere che Bolzano preferisce stare dov’è, e cioè né con Roma, né con Vienna. Rimangono le ragioni politiche, che risultano da una miscela tra quelle di radice storica ed identitaria e le altre, di ordine finanziario contingente. Che la Lega abbia basato le sue campagne elettorali su di una costante sostanzialmente razzista, prima contro i Meridionali e poi contro gli immigrati stranieri, è un fatto incontrovertibile.
Il razzismo non può mai essere condiviso, e deve al contrario essere sempre combattuto. Rimane però da vedere se questo atteggiamento può essere superato abolendo la coabitazione forzata tra genti diverse, che acuisce – anziché attenuare – la loro reciproca avversione. Oggi nemmeno si ricorda, in Italia, il contrasto risorgimentale con l’Austria. Non soltanto perché è venuto meno il contenzioso bilaterale, che anzi – risolta nel 1918 la questione detta degli “irredenti” – si era rovesciato, con la richiesta di una adeguata tutela per i cittadini italiani di lingua tedesca abitanti al di qua del Brennero, ma soprattutto perché l’Impero Austriaco, quel “carcere dei popoli” contro cui predicava Giuseppe Mazzini, si è dissolto, lasciando nei suoi antichi sudditi un ricordo perfino nostalgico. Lenin, che aveva studiato il problema delle nazionalità nell’Impero Russo, affermò una grande verità quando disse: “Un popolo che opprime un altro popolo non può essere libero”; in effetti, anche i Russi – e non solo le genti a loro sottomesse – soffrivano a causa dell’autocrazia. L’affermazione di Lenin può essere però letta in un senso più ampio: la Francia e gli Stati Uniti uscirono, sia pure con molte ferite morali, dalla guerra di Algeria e dalla guerra del Vietnam proprio perché le democrazie possono cadere negli errori (e quali errori!), ma sono anche in grado di correggerli senza rinnegare sé stesse.
L’unione Sovietica crollò invece sotto il peso della sua guerra coloniale in Afghanistan e dell’oppressione che imponeva ai popoli del suo impero esterno ed interno; il regime comunista venne condannato dalla sua stessa sclerosi, che lo rendeva incapace di riformarsi. Quella che si è aperta ieri per la Spagna, oggi per l’Italia, domani – forse – per il Belgio e per altre democrazie dell’Europa Occidentale è una prova che mette in discussione la stessa natura democratica di questi Stati: i loro popoli – per usare l’espressione di Lenin – non sono oppressi da un potere, bensì da un problema.
Non si può certo dire che la Spagna opprima la Catalogna, che l’Italia opprima il Veneto, o che il Belgio opprima le Fiandre: l’identità di queste Regioni può esprimersi liberamente, né si riscontra quella sudditanza economica che caratterizzava i territori sotto regime coloniale, condannati alla monocoltura e ad altre forme di sfruttamento in base agli interessi della Madrepatria. Se la Catalogna, il Veneto e le Fiandre soffrissero una simile ingiustizia, i loro abitanti sarebbero più poveri degli (altri?) Spagnoli, Italiani e Belgi: essi godono viceversa di un maggiore benessere. Chi potrebbe in realtà lamentare il permanere di una situazione semicoloniale sono – per motivi storici, politici ed economici – gli abitanti del Meridione d’Italia. I quali – prima o poi – trarranno le conseguenze del trattamento subito. Quel giorno, l’indipendentismo leghista sarà ricordato come la farsa che – nel caso specifico – precede la tragedia, anziché seguirla. Come però si dice in francese, “chaque jour sa peine”, ed oggi siamo di fronte al problema posto dal Veneto di Zaia. Quando in Italia esisteva una classe dirigente degna del nome, dovemmo affrontare una ribellione separatista armata nel Sud Tirolo. Fu subito chiaro che la repressione dei reati non bastava per risolvere il problema, consistente nel diritto di alcuni cittadini italiani di vedere riconosciuta e tutelata la loro specificità culturale, come d’altronde esige la Costituzione della Repubblica. Ne uscimmo applicando il metodo negoziale su due distinti piani: quello internazionale con la Potenza protettrice dei cittadini sud tirolesi di lingua tedesca, cioè l’Austria, e quello interno con i rappresentanti di tale popolazione. La soluzione trovata allora ha fatto sì che questa minoranza fosse classificata dal Consiglio d’Europa come la seconda meglio trattata del Continente, dopo quella di lingua svedese delle Isole Aaland, appartenenti alla Finlandia.
Anche la Gran Bretagna ha evitato che la Scozia se ne distaccasse, in primo luogo accettando il principio dell’autodeterminazione mediante la celebrazione di un referendum concordato; e in secondo luogo concedendo più autonomia in cambio della rinunzia alla secessione. Merito del pragmatismo anglosassone, ma anche del fatto che a Londra – evidentemente – esiste ancora una classe dirigente. Se l’avessimo anche noi, Roma dovrebbe in primo luogo prendere atto del fatto che i Veneti hanno esercitato – in forma pienamente legale e legittima anche dal punto di vista del Diritto interno – il loro diritto all’autodeterminazione: per fortuna non rivendicando l’Indipendenza, bensì soltanto un ampliamento dell’autonomia. Questo non obbliga naturalmente gli organi della Repubblica a concedere loro tutto quanto reclamano: tanto più che bisognerebbe per prima cosa stabilire con precisione quali maggiori competenze vengono richieste per la Regione. La Repubblica è però tenuta – se non vuole vulnerare il Diritto Internazionale, ed aprire per giunta un contenzioso interno foriero in prospettiva dei peggiori sviluppi – ad aprire un negoziato.
Anche i bambini dell’asilo sanno che Zaia è un secessionista dichiarato, dal momento che il suo Partito reclama il distacco dall’Italia, non si sa bene di quali territori: mai si è chiarito, infatti, quali sarebbero i confini della “Padania”. Tuttavia, Roma in tanto si troverà dalla parte della ragione in quanto aprirà un negoziato, concedendo tutto quanto è ragionevole e motivando il rifiuto di ciò che risulta viceversa incompatibile con il principio dell’Unità nazionale: un principio che Zaia afferma, sia pure ipocritamente, di non voler mettere in discussione.
Si dice che accontentare le rivendicazioni del Veneto vorrebbe dire smembrare lo Stato italiano. Questo, però, non è vero: si presenta anzi l’occasione storica – che al contempo la è migliore, ma anche l’ultima – per riscrivere il patto nazionale che ci tiene uniti, trasformando l’Italia in uno Stato federale. E’ l’occasione migliore in quanto possiamo ancora far valere nei confronti dei secessionisti le ragioni di chi – essenzialmente i Meridionali – ha pagato e paga tuttora il prezzo più pesante alla causa unitaria. Siamo però dinnanzi all’ultima occasione perché Zaia, posto di fronte al rifiuto, o peggio alla manifesta incapacità da parte del Governo nazionale di aprire un vero negoziato – nel quale le reciproche concessioni sono inevitabili – dapprima innalzerà demagogicamente le sue pretese, e poi dirà ai Veneti che Roma non vuole trattare, che lo Stato italiano li prende in giro.
In quel momento, sarà tardi per salvare l’Unità d’Italia. Ricordiamoci che la crisi catalana è precipitata quando il Partito di Rajoy ha fatto cassare dal Tribunale Costituzionale gli articoli del nuovo Statuto della Generalità che riconoscevano l’esistenza di più Nazioni nell’ambito dello Stato spagnolo, mentre invece occorreva procedere speditamente verso una riforma che lo trasformasse in una federazione. Gentiloni e Renzi corrono ora il rischio di fare una figura ancora peggiore, perché non è questa la rivendicazione dei Veneti, che si accontenterebbero in fondo di qualche soldo e di qualche competenza in più.
Lincoln tentò di impedire la secessione, e la conseguente guerra civile, proponendo ai Sudisti di stabilire le condizioni alle quali sarebbero stati disposti a rimanere nell’Unione. A questo punto, risultò che i Confederati volevano comunque dissolverla, e fu dunque chiaro chi aveva ragione. La statura politica di Rajoy e di Gentiloni non è paragonabile a quella di Lincoln, ma purtroppo neanche a quella dimostrata a suo tempo da Adolfo Suarez e da Giulio Andreotti. E’ vero che Zaia ricorda più i “fire eaters” del Sud che Jefferson Davis, ma non è a lui che dobbiamo chiedere conto della preservazione dell’Unità nazionale. Questa causa si serve dimostrando di essere fermi sui principi e pragmatici nell’azione politica, non già schiavi della retorica ed incapaci di scelte concrete.
Un referendum da presa per il culo. Il 22 ottobre 2017 si chiede ai cittadini interessati. “Volete essere autonomi e tenere per voi tutto l’incasso?” E’ logico che tutti direbbero sì, senza distinzione di ideologia o natali. Ed i quorum raggiunti sono fallimentari tenuto conto dell’interesse intrinseco del quesito.
Specialmente, poi, se è stato enfatizzato tanto dai giornali e le tv del Nord, comprese quelle di Berlusconi.
“Al di là dell’enorme spreco di soldi pubblici per organizzare due referendum buoni solo a fare un po’ di propaganda elettorale a spese dei contribuenti, ha evidenziato il trionfo dell’egoismo di chi è più ricco e pensa di poter vivere meglio mantenendo sul territorio le risorse derivante dalle imposte dopo aver beneficiato per decenni di aiuti statali e del sostegno dello Stato”. Lo ha detto il consigliere regionale dei Verdi della Campania, Francesco Emilio Borrelli, per il quale “la Lega ha mostrato, ancora una volta, il suo vero volto che è fatto di odio verso il Sud e i meridionali”.
“Così come ha ricordato anche Prodi, chiedere ai cittadini se vogliono pagare meno tasse ancora una volta a danno dei meridionali è come un invito a nozze che non si può rifiutare, ma il problema è che, per chiederlo, in questo caso, Zaia e Maroni hanno speso milioni di euro di soldi pubblici per farlo” ha aggiunto Borrelli chiedendo ai cittadini lombardi e veneti: “Visto come sprecano i vostri soldi e come hanno speso, in passato, quelli, sempre pubblici, per il finanziamento ai partiti, siete proprio sicuri di volergliene affidare ancora di più?” “La Regione Campania viene privata ogni anno di 250 milioni di euro che vengono sottratti ai servizi sanitari e ai nostri concittadini perché considerata la regione più giovane d’Italia e grazie a una norma introdotta dai governatori leghisti e mai tolta” ha continuato Borrelli, sottolineando che “ogni anno la sola Campania viene depredata di centinaia di milioni di euro di fondi che invece vengono destinati al ricco Nord senza alcuna reale motivazione”. “La Rampa” 23 ottobre 2017.
Referendum leghista sull'autonomia, una pistola puntata contro il Sud! Scrive Natale Cuccurese il 22 agosto 2017. Lombardia e Veneto celebreranno il 22 ottobre prossimo due referendum consultivi per chiedere maggiore autonomia regionale. Li hanno indetti a braccetto due presidenti di Regione leghisti, Roberto Maroni e Luca Zaia, con il sostegno di tutto il centrodestra, ma anche il voto decisivo del Movimento 5 Stelle, che sostiene l’iniziativa anche in un recentissimo post di Grillo. L'idea è quella di sfruttare l'articolo 116 della Costituzione per spingere il Governo a trattare la cessione di maggiori materie di competenza alle due Regioni. Nell’ultimo periodo anche parecchi sindaci lombardi del PD si sono aggiunti ai sostenitori dell’iniziativa, così come negli ultimi giorni il Presidente dell’Emilia-Romagna Bonaccini, escludendo però il passaggio referendario. Interessante rimarcare come prima in Veneto, poi in Lombardia si è saldata un'alleanza necessaria con il M5s per far passare i due provvedimenti nei rispettivi Consigli regionali, dov'era necessaria una maggioranza dei due terzi. I leghisti hanno tenuto i quesiti nel cassetto fino a un tempo per loro propizio. L'anno pre-elettorale del 2017. Una farsa, secondo alcuni dirigenti Dem, come il citato Bonaccini, che si sono invece poi ritrovati a rincorrere Maroni e Zaia una volta annunciata la data della consultazione per il 22 ottobre, anche perché essere contro la richiesta di maggior autonomia fiscale, che è nel Dna di molti cittadini ed imprenditori, potrebbe far pagare al Pd un prezzo alto in vista delle prossime elezioni politiche, forse ancora più alto di quello delle ultime Comunali. Un piano ben strutturato e di lungo periodo quello leghista, che parte da lontano con il “frutto avvelenato” della riforma del titolo V della Costituzione nel 2001. Nella forma, i due quesiti referendari sono però formulati in maniera diversa.
Essenziale, quello del Veneto: "Vuoi che alla Regione del Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?".
Più circostanziato, il quesito che gli elettori lombardi troveranno sulla loro scheda elettronica: "Volete voi che la Regione Lombardia, in considerazione della sua specialità, nel quadro dell’unità nazionale, intraprenda le iniziative istituzionali necessarie per richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione e con riferimento a ogni materia legislativa per cui tale procedimento sia ammesso in base all’articolo richiamato?".
E se il testo del referendum veneto si limita al virgolettato sopra riportato, quello lombardo, pur ripetendo la stessa identica frase, la inserisce in un contesto che rende il testo più cauto ed elaborato ma in fin dei conti ancor meno chiaro. Insomma, autonomisti nei proclami ma prudenti nella forma, forse per paura di risvegliare l’elettorato di sinistra (o la Corte costituzionale). Il quesito mescola due questioni, come recentemente analizzato dall’economista Gianfranco Viesti sulla rivista “Il Mulino”. La prima è l’attribuzione di ulteriori forme di autonomia alle regioni. All’articolo 116 della Costituzione si prevede che con legge dello Stato possano essere attribuite alle regioni a statuto ordinario «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia», rispetto alla vasta lista delle materie a legislazione concorrente (terzo comma dell’articolo 117), e all’organizzazione della giustizia di pace, alle norme generali sull’istruzione e alla tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. D’altra parte l’articolo 116 prevede già che le regioni possano prendere l’iniziativa per richiedere maggiori dosi di autonomia, sentiti gli enti locali, senza alcun bisogno di referendum e dei relativi costi (dai 20 ai 50 Milioni di € secondo alcune stime). Strada questa che sembra voglia percorrere il Presidente Bonaccini per l’Emilia-Romagna.
L’iniziativa non precisa le materie sui cui si vuole maggiore autonomia, non nasce dall’individuazione di specifici temi su cui si ritiene sarebbe più opportuna una competenza regionale, ma il vero obiettivo sono le risorse finanziarie che si vogliono trattenere, detto che se si volesse trattenerle tutte si dovrebbe chiaramente parlare di secessione. La maggiore autonomia, infatti, è “a beneficio esclusivo del grande popolo lombardo che si vedrebbe così sgravato, grazie all’autonomia fiscale, di ampie porzioni di fiscalità regionale e godrebbe di uno spettro maggiore di servizi e di un’assistenza rafforzata”. Ma non finisce qui: perché il presidente della Regione Lombardia Maroni è impegnato a convocare un tavolo, dopo lo svolgimento del referendum, composto da tutte quelle regioni che vantano un credito annuale nei confronti dello Stato centrale, per costituire un “Fronte del residuo fiscale”, “applicando il sacrosanto principio, ormai non più trascurabile, che le risorse rimangano nei territori che le hanno generate”. Se vinceranno i Sì, (come probabile, chi mai non vorrebbe più autonomia fiscale in Italia?!) alle due Regioni non saranno attribuite di diritto maggiori forme di autonomia. La trattativa che potrebbe seguire i due referendum, come detto, sarebbe già possibile ora proprio sulla base dell'articolo 116 della Costituzione: è quello che inizialmente il centrosinistra aveva ricordato a Maroni e Zaia, i quali però hanno sostenuto di non essere mai stati ascoltati dai Governi in carica (evidentemente compresi quelli del centrodestra che li hanno visti anche ministri). La norma infatti stabilisce che la singola Regione interessata, sentiti gli enti locali, può chiedere di avere maggiori materie di competenza fra quelle elencate nel successivo articolo 117 in materia di organizzazione della giustizia di pace, ambiente, istruzione, oltre che fra quelle attualmente concorrenti con lo Stato, per un totale di 26 materie, come per esempio il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Una volta firmata, l'intesa fra Stato e Regione deve essere ratificata con una legge, che per essere approvata deve ottenere il voto della maggioranza assoluta dei componenti (non bastano i presenti) delle due Camere. Un iter non scontato e lungo. Il punto da cui nasce la necessità per i leghisti dell’iniziativa è in quel piccolo inciso all’interno del quesito: «con le relative risorse». Il vero obiettivo è quindi ottenere maggiori risorse pubbliche rispetto alla situazione attuale e alle Regioni “non virtuose” ed il referendum serve solo come arma di pressione sul Parlamento, nel caso questa richiesta fosse sostenuta da un forte mandato popolare (necessario un dato superiore almeno ai 5 milioni di cittadini nella sola Lombardia, a detta dei promotori). Così come avvenne in UK nel caso della Brexit.
Si dice: per trattenere sul suolo regionale una maggiore quota delle tasse pagate dai cittadini. Ma le regole della tassazione e dell’allocazione della spesa nel nostro paese sono stabilite dai grandi principi costituzionali: ad esempio, la progressività della tassazione e l’istruzione obbligatoria e gratuita. Il «residuo fiscale» è semplicemente l’esito, in Italia come in tutti gli altri paesi civili, dell’applicazione delle norme costituzionali in presenza di differenze territoriali nei redditi, utile quindi per il principio di solidarietà redistributiva. Il tentativo del referendum, dietro le richieste di maggiore autonomia, è quindi semplicemente quello di ottenere dallo Stato l’allocazione, in via preventiva, di maggiori risorse, ovviamente sottraendole a tutti gli altri cittadini italiani. È una evidente scelta politica che si colloca nella tradizione egoistica leghista. Tratteniamo per noi più soldi, gli altri, in primis i meridionali, prima spremuti e poi fatti passare, grazie anche alla compiacenza dei media, per spreconi, si arrangino. Una deriva assai pericolosa, con una destra rampante, troppo spesso appiattita sui diktat leghisti, che dopo le elezioni politiche potrebbe trovarsi al governo del Paese e da lì sostenere l’iniziativa con degli effetti del tutto imprevedibili, visto che mira a scardinare gli assetti costituzionali su cui è basato il nostro Paese e a imporre l’egoismo territoriale dei più ricchi. In altre parole le Regioni “povere”, dovranno arrangiarsi con quel poco che passerà il convento romano (a cui sempre bisognerà obbligatoriamente rivolgersi dato il residuo negativo) e cioè ancora meno di oggi visto che verranno a mancare risorse, mentre le Regioni “ricche" potranno mantenere poteri, trattenere risorse e gestirsi autonomamente. Utile rimarcare come le Regioni del Sud non solo siano state messe in condizioni di squilibrio anche grazie alle politiche nazionali che da sempre privilegiano il Nord, ma siano in difficoltà a raggiungere l’utile anche per motivi tecnici. Basta ricordare ad esempio il caso emblematico dello spostamento della sede legale di Alenia, qualche anno fa, dalla Campania alla Lombardia. Spostare una sede legale comporta significative conseguenze fiscali, a cominciare dall’Iva, che è tassa pagata dal consumatore finale direttamente allo Stato ma che successivamente viene girata per circa il 40% – 45% del suo valore alla Regione del produttore. E' un caso fra i tanti che seguono le acquisizioni di aziende del Sud da parte di imprenditori con sede legale a Nord, per non parlare poi di chi produce ed inquina nel Mezzogiorno per arricchire Regioni del Nord, come visto sopra, grazie anche al solito ricatto occupazionale "o salute o lavoro" (Ilva, Basilicata...). Inoltre il Sud, terra di consumatori è penalizzato verso il nord, terra di produttori. Basta guardare le statistiche per vedere che nel solo 2008, nel confronto tra la Lombardia e la Campania, i produttori residenti in Lombardia hanno venduto beni in Campania che hanno sommato un’IVA di circa 20-25 miliardi di euro. Al contrario i produttori residenti in Campania hanno venduto in Lombardia beni che hanno sommato un’IVA di circa 2 miliardi di euro. La differenze tra queste due cifre è andata allo Stato centrale e successivamente è stata trasferita per il 40-45% alla Regione di residenza dei produttori. Come a dire: nel 2008 i campani hanno finanziato in contanti e per circa 10-12 miliardi di euro la regione Lombardia. E questo è solo un anno fra tanti, riferito ad una sola Regione del Sud, la Campania...In altre parole si vedrà sancita una differenziazione di opportunità fra territori nella stessa nazione, alla faccia della proclamata uguaglianza costituzionale che, seppur da sempre solo sulla carta, al momento ci permette ancora di rivendicare legittimamente uguali diritti e uguali servizi. E’ un piano che parte da lontano e che si interseca perfettamente in decenni di politiche pubbliche che hanno incremento uno scarto nel Paese fra Sud e Centro-Nord, come nel caso della disparità di investimenti spesa in opere pubbliche (come da tabella SVIMEZ) che si acuisce a partire dai primi anni novanta, cioè dalle prime affermazioni elettorali della lega nord, riducendosi sempre più fino ad arrivare agli attuali minimi storici. Al nord invece l'intervento è rimasto inalterato o è aumentato. Scarto di investimenti che ora forse permetterà appunto di concorrere a togliere legalmente diritti ad alcuni per dare privilegi ad altri. A questi mancati investimenti statali al Sud si sono poi ultimamente sommate le politiche di austerità europea, che non a caso hanno impoverito tutti i Mezzogiorno d’Europa (come da tabella Eurostat in allegato e come argomentato nel corso della conferenza stampa alla Camera del 27 Luglio scorso insieme a Pippo Civati).
A questo quadro desolante si aggiunga che il governo sottrae da anni al Sud una notevole quota dei fondi di coesione, destinandoli poi al nord, fondi destinati originariamente alla costruzione di infrastrutture nel Sud. Occorrerebbe a questo punto, come da Rapporto SVIMEZ 2010, la creazione di una Macroregione Sud raggiungendo fra le Regioni del Sud tutte le intese necessarie, ai sensi dell'articolo 117, ottavo comma, della Costituzione, per l'esercizio unitario, anche attraverso l'istituzione di organi comuni, delle funzioni di propria competenza. Seguita dal centralizzare la gestione dei Fondi, ritornando ad un piano del Mezzogiorno e ad una Agenzia destinata a dirigere e a gestire progetti strategici: acque, rifiuti, difesa del suolo, infrastrutture strategiche ecc. In Calabria è in preparazione un referendum in tal senso, proposto dallo stesso centrodestra, anche in funzione evidente di non perdere consensi al Sud, ma a questo punto è una proposta giocata solo in difesa e tutta da definirsi nei tempi (comunque giudicata impossibile dall' On Gianluca Pini della Lega Nord, in una intervista sul QN Nazionale del 22 Agosto in riferimento all'ottenimento dell'autonomia basandosi sull'applicazione dei relativi articoli della Costituzione). D’altra parte la proposta della Macroregione, proprio basata sulla proposta Svimez era, in tempi non sospetti e giocando in attacco (anticipando cioè la propaganda leghista), fra i punti di programma che il Partito del Sud ha concretamente proposto a Michele Emiliano in occasione delle ultime elezioni regionali pugliesi 2015 e che Emiliano ha accettato inserendoli nel suo programma di governo regionale. Detto applicare il riparto che ovviamente serve, come visto, un accordo fra tutte le Regioni e detto che una collaborazione fra diverse Regioni del Sud si è andato a concretizzare pochi mesi dopo l'elezione, soprattutto in occasione del referendum di aprile 2016 contro le trivelle. In definitiva il Sud può uscire da questa stagione referendaria leghista con le ossa rotte, non solo definitivamente indicato al pubblico ludibrio, soprattutto dai media, quale cicala responsabile del proprio stato, ma soprattutto definitivamente marginalizzato, per non dire segregato. Da rimarcare che inefficienze di sistema, politici e politiche inefficienti al Sud ci sono e sono da combattere, non si afferma il contrario, ma ci sono in egual misura anche al Centro-Nord, dove tanti scandali finanziari e non solo si susseguono da decenni. Ad esempio quello recentissimo delle banche, le cui conseguenze e i cui costi sono però ripartiti anche sui contribuenti del Sud, mentre per il Banco di Napoli a suo tempo si agì in modo differente, o meglio consegnando, per problematiche molto inferiori, l’ultima grande Banca del Sud nelle mani del San Paolo di Torino. In poche parole nessuna preclusione verso l'idea di autonomia, anzi ben venga per tutti, ma partendo da pari opportunità. Oggi invece "il gioco" a cui ci vogliono far partecipare è truccato alla radice e va combattuto. C'è chi in questi ultimi decenni ha goduto di tutte le opportunità, pagate da tutti, ed ora si vuole sfilare col "bottino". Per prevenire ogni forma di egoismo territoriale, basterebbe semplicemente applicare il riparto del versamento dell’IVA in base alla sede territoriale della singola unità produttiva in cui la vendita è stata effettuata e non più in base alla sede legale dell’azienda produttrice, anche vincolando tutti i soldi così ottenuti in spesa in opere pubbliche per il Mezzogiorno tramite il governo nazionale. Nei fatti invece il ventennio leghista si concluderebbe così con un “delitto perfetto” contro il Sud. Inutile sottolineare cosa questo comporterebbe per il nostro futuro, con il Sud che già attualmente vede la metà della popolazione in povertà relativa e con una disoccupazione oltre il 30% (quella giovanile oltre il 50%) si possono facilmente prevedere scenari catastrofici, anche per la stessa tenuta democratica del Paese, se non ci si opporrà subito nelle opportune sedi a questa pericolosa deriva. Un referendum consultivo contro il quale è opportuno esprimersi in modo chiaro, anche sotto forma di invito all’astensione, da parte di chi ha a cuore le sorti del Sud e da parte di tutta la sinistra, visto che mira anche nei fatti a formalizzare la creazione di cittadini con opportunità e servizi di serie A e di serie B, il che è semplicemente inaccettabile!
Referendum autonomista: anche nel Salento c’è chi esulta, scrive Marcello Greco il 23 ottobre 2017 su "Tag Press". Andrea Caroppo, Consigliere di “Sud In Testa – Salvini Premier”, parla di risultato straordinario del Referendum: “Cittadini rifiutano decisioni prese lontano ma autonomia impossibile con amministratori inconcludenti”. Fino a qualche anno fa, quando nel sud Italia qualcuno votava Lega Nord c’era incredulità. Perché una persona del sud dovrebbe votare un partito nordista fondato proprio sull’antimeridionalismo e sulla volontà di secessione delle regioni del nord dal resto dell’Italia? Poi dopo qualche anno, un giovane rampollo della Lega Nord, nella corrente dei Comunisti Padani, un politico in carriera dal 1993, prima da Consigliere comunale a Milano, poi da Europarlamentare, di nome Matteo Salvini, riesce a far perdere la memoria a molti meridionali, grazie al suo trasformismo.
Il Salvini del primo ventennio è un padano convinto, indossa le magliette con la scritta “Prima il Nord”, non si sente italiano e non ha una buona considerazione dei meridionali. Alla festa padana di Pontida nel 2009 intonò con altri militanti leghisti un coro razzista contro i napoletani: “Che puzza, scappano anche i cani, sono arrivati i napoletani”. Successivamente (nel 2013) minimizzò scusandosi, sostenendo che si trattò di semplici cori da stadio. Quindi solo un mucchio di parole senza senso, da non prendere sul serio. Come il resto dei suoi discorsi, probabilmente. Nello stesso anno aveva anche proposto di istituire sui mezzi pubblici posti o vagoni riservati ai milanesi. Anche queste parole senza senso, probabilmente. Ma anche le parole hanno un peso, soprattutto per un leader politico. Non si è mai sentito italiano, come ha avuto modo di dichiarare: “Il tricolore non mi rappresenta, non la sento come la mia bandiera, a casa mia ho solo la bandiera della Lombardia e quella di Milano […] e è solo la Nazionale di calcio, per cui non tifo”. Quando era ancora pro-euro dichiarò che “i meridionali l’euro non se lo meritano, la Lombardia e il Nord l’euro se lo possono permettere. Io a Milano – disse – lo voglio, perché qui siamo in Europa. Il Sud invece è come la Grecia e ha bisogno di un’altra moneta”. Nel febbraio 2014 ha dichiarato di aver cambiato idea sui meridionali: “Probabilmente il Sud lo conoscevo poco, ho fatto e abbiamo fatto degli errori”. Vent’anni di pubblici insulti (quelli suoi) per poi ammettere che fossero il frutto di una scarsa conoscenza dei meridionali (in altre parole, pregiudizi). Forse sono tante le cose che conosce poco, magari cambierà idea anche sugli immigrati stranieri, ammettendo fra qualche anno di aver avuto qualche pregiudizio.
La trasformazione salviniana. La trasformazione di Salvini è cominciata nel 2013, con l’elezione a segretario della Lega Nord, intuendo che poteva aspirare ad essere un leader nazionale, contando anche sui voti dei meridionali. Il nemico allora non è più il meridionale, ma l’euro e l’immigrato, il musulmano. Sceglie di seguire la linea dell’estrema destra e smette di essere comunista. Ma il nordismo e la voglia di indipendenza delle regioni del nord sono stati solo tolti dai riflettori, tant’è che è lui stesso a promuovere nel 2014 il referendum in Lombardia per chiedere l’indipendenza della Regione dalla Repubblica Italiana. Nello stesso anno, per presentarsi al sud e al centro celando ogni riferimento alla politica settentrionalista, fonda “Noi con Salvini”, che altro non è che un volto diverso della Lega Nord. Passa il tempo, qualcuno non dimentica, altri lo fanno e il consenso intorno al nuovo Salvini crescono. Nascono i comitati locali e il leghismo viene sdoganato anche al sud.
Non deve sorprendere quindi se c’è chi nel Salento esulta per il risultato del referendum autonomista in Veneto e Lombardia. Ma è stato veramente un successo? Si è votato in sole due regioni e mentre in Veneto ha votato il 57,2% degli elettori, in Lombardia solo il 40% ha deciso di votare.
“I meridionali? Altro che cultura, hanno esportato solo mafia e pidocchi”, scrive il 9 dicembre 2014 Francesco Pipitone su "Vesuvio Live". In occasione delle elezioni europee dello scorso maggio Matteo Salvini e la sua Lega Nord hanno trovato il conquistato qualche decina di migliaia di voti al Sud: 43.180 nella circoscrizione meridionale, equivalente allo 0,75% dei voti; 15.235 voti in Campania, lo 0,66% del totale. Numeri piccoli, ma da non trascurare a causa dell’astensionismo e della capacità dei leghisti di far leva sugli istinti bassi delle persone, sull’intolleranza, sull’ignoranza, fattori che potrebbero determinare un aumento dei consensi per Salvini, specialmente se costui sarà messo a capo di una coalizione di “destra” sostenuta, tra gli altri, da Silvio Berlusconi, il quale ha già fatto sapere che intende elevare il segretario della Lega al rango di goleador. Grazie al potere mediatico di Berlusconi, prima che politico ed economico, ci dobbiamo insomma aspettare una rilevante presenza di Matteo Salvini in Televisione e sui giornali, dove avrà l’occasione di riferire le proprie sciocchezze atte a raggirare i poveri cristi che, pur avendo la memoria corta e capendo poco dei fatti della politica, intendono esercitare lo stesso il proprio diritto di voto: la Lega Nord incrementerà il proprio consenso al Sud, e troppo se non stiamo attenti e non creiamo un’alternativa a questi individui che da 154 anni stanno succhiando il sangue del Mezzogiorno. Non dobbiamo dimenticare i decenni di razzismo praticati dal Nord a discapito del Sud, non dobbiamo dimenticare che ci hanno chiamato e continuano a chiamarci scimmie, marocchini (in senso dispregiativo), terroni, colerosi, mafiosi, pidocchiosi, ladri, assassini, scansafatiche e tutto il resto. Milioni di persone hanno abbandonato la propria casa, la moglie e i figli per andare a produrre al Nord, il quale ha guadagnato con il lavoro degli emigrati del Sud, che vivevano peggio delle bestie in stanze piccolissime e affollate, tenuti alla larga dai signori “perbene” come fossero appestati. “Non si affitta ai meridionali”, questa è l’accoglienza dei nostri fratelli italiani. Su questi sentimenti la Lega Nord ha edificato la propria forza, per poi vedere un crollo dei consensi dopo due decenni in cui non ha fatto niente a parte rubare, e lo dimostrano gli scandali che hanno coinvolto gli uomini di punta del partito del Nord, compreso il fondatore Umberto Bossi che usava i soldi pubblici per pagare il proprio lusso. Nel video seguente potete ascoltare la registrazione di qualche telefonata degli ascoltatori all’emittente Radio Padania Libera, dove emergono il razzismo e il ribrezzo verso i “terroni”, ignoranti e nullafacenti, che hanno rubato il lavoro e esportato solamente la mafia e i pidocchi. Questa è la Lega Nord, votatela.
Quanto costano i referendum in Lombardia e Veneto. Si parla di diversi milioni di euro: la Lombardia spenderà più di tre volte i soldi del Veneto, a causa dell'acquisto di 24mila tablet, scrive sabato 21 ottobre 2017 "Il Post". Il 22 ottobre in Lombardia e Veneto si terrà un referendum consultivo sull’autonomia delle due regioni. Il referendum è stato promosso dalla maggioranza di centrodestra che governa sia in Veneto che in Lombardia, e in particolare dalla Lega Nord, di cui fanno parte i presidenti delle due regioni. La Lega ha difeso il referendum spiegando che in caso di vittoria dei Sì avrà sufficiente credibilità politica per chiedere allo stato una più ampia autonomia delle due regioni. I critici del referendum hanno fatto notare che una simile richiesta poteva essere avanzata senza alcun voto – come previsto dall’articolo 116 della Costituzione e come infatti ha scelto di fare la regione Emilia-Romagna – e hanno accusato la Lega di spendere fondi pubblici per un’iniziativa politica. Ma quanto costano esattamente i due referendum? La Lombardia spenderà molto più del Veneto, quasi 50 milioni di euro contro 14. I costi sono superiori a causa dell’acquisto di 24mila tablet che verranno usati per le procedure di voto e che dopo il referendum verranno donati alle scuole. Solo per l’acquisto dei tablet e dei software relativi, la Lombardia ha speso 23 milioni. Altri 24 serviranno per pagare gli scrutatori e garantire il resto delle operazioni, mentre altri 1,6 milioni di euro sono stati spesi per la campagna elettorale. Per avere un termine di paragone: 50 milioni di euro è più o meno quello che spenderà la Regione fra 2017 e 2019 per finanziare le tariffe agevolate del trasporto pubblico. Il presidente lombardo Roberto Maroni ha definito le polemiche sui costi del referendum «infondate», e ha aggiunto che considera l’acquisto dei tablet «un investimento»: «non sono schede che il giorno dopo vengono bruciate e buttate al macero. Sono strumenti che rimarranno in dotazione alle scuole».
In Veneto invece si voterà come al solito, con carta e penna. In Lombardia non sarà necessario raggiungere il quorum per considerare valido il referendum. In Veneto la legge regionale prevede invece che per considerare valido il risultato debba esprimersi almeno il 50 per cento più uno dei votanti. I seggi resteranno aperti dalle 7 alle 23.
Come è andato il referendum in Lombardia e Veneto? Le 5 cose da sapere. A poche ore dalla conclusione della domenica referendaria nelle due regioni, un primo bilancio dati alla mano, scrive il 23 ottobre 2017 "L'Agi".
Entrambi i referendum (sia quello in Lombardia che quello in Veneto) sono risultati validi. Come prevedibile, i “Sì” sono risultati nettamente maggioritari (oltre il 95% in Lombardia, ben il 98% in Veneto). Trattandosi di referendum consultivi, non avranno effetti legali diretti e immediati. Ma il segnale politico c’è, ed è forte, e “autorizza” i governi delle due regioni ad avviare una trattativa con il governo dello stato centrale per ottenere una maggiore autonomia in una serie di ambiti di competenza.
Il ruolo dell’affluenza. L’affluenza era la variabile più interessante di questi referendum. In Veneto lo era in modo particolare, perché per essere valido il referendum doveva recarsi al voto più del 50% + 1 degli aventi diritto. In Lombardia, invece, non era previsto quorum – e questo a causa delle differenti legislazioni regionali in materia di referendum consultivi. Alla fine in Veneto si è abbondantemente superata la soglia richiesta (con oltre il 57% circa di affluenza) mentre in Lombardia il dato è stato più basso, ma comunque non irrilevante, soprattutto per un referendum (perdipiù consultivo). Il dato politico è rilevante: soprattutto in Veneto, dove oltre il 56% degli aventi diritto è andato a votare e ha votato “Sì”. Per il governatore della regione Zaia si tratta di una incontestabile vittoria politica.
Mappe e caratteristiche dell’affluenza. La mappa dell’affluenza in Lombardia (relativa al dato delle ore 19, poiché mentre scriviamo non è ancora stato diffuso quello definitivo delle ore 23) mostra come ci sia stata un’affluenza nettamente maggiore nelle province (in particolare quella bergamasca) che nelle grandi città: a Milano la partecipazione è stata nettamente inferiore al dato regionale, così come a Brescia e a Mantova. Situazione simile in Veneto. La differenza tra comuni capoluogo e resto della provincia è evidente anche in Veneto: enormi le differenze di affluenza tra città come Padova, Verona, Venezia e Vicenza e quella (media) registrata nei comuni delle rispettive province. Più omogeneo il dato nel caso di Belluno e Rovigo.
Com’è andato il voto elettronico. In Lombardia c’era un’importante novità: si è per la prima volta sperimentato il voto elettronico, votato esclusivamente su dei tablet e abbandonando il tradizionale sistema di scheda cartacea. Il sistema non ha causato particolari problemi agli elettori (anche i più anziani si sono dimostrati in grado di utilizzare correttamente i supporti tecnologici) ma la raccolta dei dati ha presentato diversi problemi. In particolare, per diverse ore non sono stati disponibili i dati sull’affluenza né quelli finali relativi allo scrutinio. Inizialmente era stato messo online dalla regione Lombardia un sito apposito per il computo delle affluenze e dei risultati, ma quest’ultimo non si è rivelato all’altezza ed è stato reso irraggiungibile per gran parte del tempo. Una sperimentazione interessante, ma certamente da rivedere nei suoi effetti pratici.
Chi ha votato di più? Un grafico ci dice molto della natura politica di questa consultazione, perlomeno per ciò che riguarda il Veneto. Emerge una correlazione molto significativa tra la partecipazione al voto (e quindi il favore verso la richiesta di autonomia, viste le percentuali di “Sì”) e percentuali di voto al “No” in occasione del referendum costituzionale dello scorso 4 dicembre 2016. In altre parole, maggiore fu la percentuale di “No” alla riforma costituzionale, maggiore è stata questa volta l’affluenza. In effetti questa correlazione non dovrebbe stupire, visto che nella riforma bocciata l’anno scorso veniva rivista in senso centralista la ripartizione di competenze tra stato e regioni.
Referendum autonomia, scoppia la "rivolta" degli scrutinatori: "Bloccati nelle scuole". "Con il vecchio sistema in mezz'ora ce la saremmo cavata", scrive il 23 ottobre 2017 “Il Giorno”. Referendum Lombardia, a Milano scoppia la "rivolta" degli scrutinatori. "Siamo bloccati all'interno delle scuole", "siamo qui a caso": è questa la protesta di diversi scrutatori che oggi hanno lavorato nei seggi dove si è usato per la prima volta il voto elettronico. Dopo la fine di tutte le operazioni, è necessario attendere di ricevere la conferma che la lettura delle penne usb, che contengono i dati di voto dei singoli tablet, è andata a buon fine. In caso contrario i digital assistants devono ricavarli direttamente dalle memorie interne delle voting machine. "Non possiamo uscire e si prospetta che dovremo restare qui fino alle quattro o cinque del mattino" hanno spiegato da una scuola nella zona di Turro a Milano, convinti che "con il vecchio sistema in mezz'ora ce la saremmo cavata". A due ore e mezza dalla chiusura delle urne, i presidente e gli scrutatori sono bloccati all'interno delle sezioni "senza fare nulla". In una scuola di San Siro a Milano, i presidenti hanno minacciato di andarsene chiudendo i verbali con gli agenti della polizia locale che prospettano loro una denuncia se chiuderanno senza autorizzazione.
Referendum, stravince il Sì. Zaia: «Con questo voto esistono solo i veneti, vogliamo i 9/10 delle tasse», scrive “Il Mattino" Domenica 22 Ottobre 2017. Il referendum in Veneto ha raggiunto il quorum. Alle ore 23, con i seggi chiusi, l'affluenza è stata registrata al 57.2%. Il dato più alto a Vicenza (62.7%) e il più basso a Rovigo (49.9%). Il 98.1% (2.272.970 elettori) ha votato Sì, chiedendo per il Veneto maggior autonomia dallo Stato centrale. Raggiante naturalmente il governatore Luca Zaia, che fino all'ultimo ha spronato i veneti ad andare a votare con un post su Facebook e con un messaggio vocale diventato virale su WhatsApp. «Ho convocato la giunta regionale per domani mattina per il progetto di legge sull'autonomia - ha dichiarato subito dopo aver saputo i primi risultati ufficiali -. Sarà il nostro contratto da presentare al governo. Penso che con questa elezione si dimostri che non esiste il partito dell'autonomia, esistono i veneti che si esprimono a favore di questo concetto. Noi chiediamo tutte le 23 materie, e i nove decimi delle tasse». «Vincono i veneti, il senso civico dei veneti del "paroni a casa nostra" - ha aggiunto il governatore - Nell'alveo della Costituzione si possono fare le riforme. Il Veneto c'è, i veneti hanno risposto all'appello. Vince la voglia di dire che siamo padroni a casa nostra».
La polemica si è subito innescata tra Roma e il Veneto: da una parte Gianclaudio Bressa, sottosegretario per gli Affari regionali, che ha specificato che di autonomia si parlerà ma non per quanto riguarda il fisco, dall'altra Maurizio Martina, ministro dell'Agricoltura e vicesegretario del Pd, in un'intervista a Repubblica: «Zaia e Maroni potranno avviare lo stesso percorso di confronto aperto dal presidente emiliano Bonaccini», ma «le materie fiscali - e anche altre, come la sicurezza - non sono e non possono essere materia di trattativa né con il Veneto, né con la Lombardia e neanche con l'Emilia Romagna. Non lo dico io: lo dice la Costituzione, con gli articoli 116 e 117 che indicano chiaramente gli ambiti su cui ci può essere una diversa distribuzione delle competenze». Ed ecco che nella mattina dopo la festa per la vittoria del "Sì" arriva la risposta del presidente della Regione Veneto Luca Zaia, intervenendo ai microfoni di RTL 102.5: «Io ero rimasto al punto, e lo dico anche da ex ministro, che Martina si occupa dell'agricoltura e penso che il nostro interlocutore sia il Presidente del Consiglio. Non c'è alcuna volontà di cercare la rissa ma sentirci dire che con una chiamata del popolo come questa la trattativa deve essere come quella dell'Emilia-Romagna che ha chiesto solo cinque materie e a tutt'oggi non ha firmato nulla di valido giuridicamente vuol dire disconoscere il popolo veneto. Se questa è la scelta del Governo ne prendiamo atto, ma me lo dica ufficialmente il Presidente del Consiglio». Il Presidente del Veneto ha elencato poi le prossime mosse: «oggi approviamo la piattaforma negoziale, per cui vuol dire che tratteremo su questa base direttamente con questo Governo. Il problema è che le cose vanno fatte bene, con tutta un procedura chiara e sancita dalla legge - ha chiarito - per questo ho detto che l'Emilia-Romagna non ha firmato un'intesa come prevede la legge ma una dichiarazione di intenti, così è titolata perché tale è, perciò non è vero che l'Emilia-Romagna ha fatto la trattativa». Quindi a lei il "modello" Emilia-Romagna non va bene? «Noi tifiamo per l'Emilia-Romagna affinché porti a casa tutte le competenze scritte in Costituzione, non 5 ma 23, tifiamo per loro - ha concluso -. Per quanto riguarda la richiesta è una richiesta di 23 materie e 9/10 delle tasse, esattamente quello che la Costituzione prevede». «È una bella giornata perché i veneti hanno dato una bella espressione di civiltà, di democrazia e di partecipazione: oltre due milioni e mezzo di cittadini che vanno a votare è un bel segnale», ha concluso Zaia. È Belluno con il 2,6 dei votanti la provincia che ha percentualmente mostrato il maggior numero di no al quesito referendario sull'autonomia in Veneto. Sono stati 109.533 a votare il referendum per la Provincia di Belluno, pari al 52.25% degli elettori (non conteggiando gli Aire - residenti all'estero la percentuale sale al 66.24%). Il 98.67% ha votato Sì. Al contrario, i più convinti per il sì sono stati gli abitanti delle province di Vicenza e Verona, dove il consenso ha toccato il 98,3%. Interessante il dato sull'affluenza nell'arco della giornata, che dimostra come l'affluenza sia stata particolarmente alta nelle ore serali: complessivamente alle 12 era del 21,1%, alle 19 del 50,1% e alla chiusura dei seggi alle 23 del 57,2%, peraltro in una giornata in larga parte dominata, soprattutto al pomeriggio, da forti piogge. Già alle 19 parte delle province venete aveva superato il quorum: si attestava alle 52,1% a Padova, al 51,7% a Treviso, al 55,9% a Vicenza. Sotto al quorum alle 19 erano ancora Belluno al 45%, Rovigo al 41,9%, Venezia al 47,1%, Verona al 47,2%. Nonostante l'ora tarda i veneti hanno continuato ad andare a votare e così alle 23 il quorum provinciale è stato superato a Belluno con il 51%, sfiorato a Rovigo con il 49,9%, superato a Venezia con il 53,7% e a Verona con il 55%. A quel punto le altre province erano già bel al di sopra del 'tettò del 50% più 1: Padova che ha chiuso alle 23 con il 59,7%, Treviso con il 58,1 e Vicenza con il 62,7%.
Tutto quello che non ha funzionato al referendum, oltre ai tablet, scrivono Alessandro Massone e Stefano Colombo il 23 ottobre 2017 su "The Sub Marine". Mentre scriviamo quest’articolo, non sono ancora stati diffusi i risultati ufficiali dell’affluenza e delle percentuali del referendum per l’autonomia lombardo. Un ritardo clamoroso, se si pensa che i risultati sarebbero dovuti arrivare ieri sera verso le undici e che il costosissimo sistema di voto elettronico era una delle novità più rilevanti della consultazione elettorale e, secondo quanto ha dichiarato Maroni ieri sera, il principale motivo per cui il Movimento 5 Stelle ha appoggiato la consultazione. È difficile analizzare il voto di ieri senza arrivare alla conclusione che Roberto Maroni sarà costretto a dimettersi. Questo ovviamente non succederà, perché viviamo nell’epoca della completa de-responsabilizzazione della politica, e non ci sarà nessuna conseguenza ad aver sprecato risorse e martellato una regione intera di propaganda per un referendum che chiaramente non era sentito come necessario dalla cittadinanza. Il risultato — che commentiamo seppure appunto ancora nebuloso — indica una partecipazione da record–al–contrario, in particolare a Milano. Questo dato mina persino la diffusa critica che il referendum fosse riassumibile nelle volontà autonomiste di una regione ricca rispetto ad un paese mediamente più povero. Non è bastato nemmeno il sostegno quasi unanime delle principali figure politiche lombarde, compresi molti amministratori di centrosinistra che si sono schierati dalla parte del referendum, a convincere la gente ad andare alle urne — ops, ai tablet. Il confronto in termini di affluenza tra Milano e il resto della Lombardia — e rispetto al Veneto — rivela un altro dato: che si sia trattato di un voto largamente mosso da un ampio analfabetismo politico, nutrito di propaganda spesso completamente scollegata dalla realtà, che ha potuto attecchire soprattutto per colpa della mancanza di qualsiasi tipo di opposizione ai messaggi sotto-testuali progressivamente sempre più deliranti della campagna per il Sì. Almeno il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, avrà sperato da qualche parte nel suo cervello elettorale di poter salire sul tanko del vincitore in vista dell’esame prossime elezioni regionali, che si avvicinano sempre più. Invece si ritroverà a salire sul carro della vergogna, almeno davanti alla maggior parte della popolazione lombarda. Il costo esorbitante dei tablet — sostanzialmente l’unica critica mossa dal centro democratico lombardo e dallo stesso Gori — è un utile segnale se letto nel contesto dell’analfabetismo politico: visto che non è in nessun modo un dovere della popolazione essere informata riguardo alla politica e ai suoi codici, il contenuto della politica sta sostanzialmente perdendo importanza di fronte ad un pubblico sempre più influenzabile dalla propaganda. È difficile pensare che questo referendum sarebbe stato possibile anche solo dieci anni fa. Ed è proprio il suo completo vuoto ideologico e tecnico che tenterà i suoi tanti sostenitori, storici e ultimi arrivati di svicolare dalla sconfitta in nuove piroette comunicative. Gori e il suo partito infatti avrebbero potuto impersonare la fazione del buonsenso e spiegare ai cittadini perché questo referendum era, in sostanza, una presa in giro sotto un punto di vista sia economico che politico. Invece ha scelto di essere d’accordo con il referendum dichiarando di andare a votare sì però gli stavano sulle balle tutti i soldi spesi da Maroni quindi uffa il referendum l’avrebbe fatto diverso però insomma alla fine non per fare un favore a Maroni eh però votiamo sì.
Una posizione non chiara. E difficilmente sfruttabile alle prossime elezioni. Cosa sapevano gli elettori che si sono recati alle urne per votare Sì? Erano coscienti delle conseguenze economiche e politiche del proprio voto? Il voto in Veneto e in pianura padana evidenzia un elettorato disagiato, che vota per la proposta che fa stare meglio, senza preoccupazione delle conseguenze. È facile legare le conseguenze politiche — in Veneto ci saranno, in Lombardia no — al risultato del voto, ma si tratta soprattutto di un risultato forzoso, costruito su anni di propaganda e comunicazione politica, anche dal basso, che prometteva molto di più del trattenere qualche euro in più dalle casse dello Stato. Ma se è facile giungere alle conclusioni che Maroni debba dimettersi, idealmente oggi, magari domani se il suo tablet ci mette un po’ a caricarsi, viceversa questa dovrebbe essere occasione generale per un utile esame di coscienza per non solo i politici leghisti, noti per non averne affatto, ma per la classe politica italiana. All’indomani di una campagna elettorale che si preannuncia nucleare, è impossibile non leggere questa campagna referendaria come una sorta di anteprima dei livelli di bassezza a cui assisteremo nei prossimi mesi. Così, mentre non è lecito aspettarsi un vero programma elettorale e propaganda elettorale dalla Lega — o forse da tutto il centrodestra italiano — che non si è mai sforzato in questo senso, è impossibile non riguardare alle dichiarazioni di pancia delle scorse settimane di tanti sindaci e attivisti democratici e chiedersi, ragionevolmente, se loro saranno capaci di produrre un programma elettorale organico: finora, l’hanno sempre fatto. Oggi, è più difficile crederci, e getta ombre profonde sulla credibilità di tutto il Partito democratico alle politiche. Con tatticismo fantozziano, il partito ha deciso di abbracciare una battaglia tradizionalmente nemmeno propria del centrodestra ma della destra vera — ritenendo di non potersi esimere dal coro autonomista. Così, per quanto incredibile possa sembrare, anche a causa di questo atteggiamento fumoso del PD, il vincitore morale di questa manifestazione, o almeno la parte politica che ne trarrà i vantaggi più cospicui, è il centrodestra.
Il Pd, che avrebbe dovuto contrastare in tutti i modi questo voto ha piegato tutti i propri valori scommettendo che questa volta dovesse “dire qualcosa di destra.” Ed è riuscito a perdere anche questa volta, anche insieme alla peggior destra che poteva scegliersi.
Tutti i partiti erano per il sì al referendum.
Referendum. Grillo: “Chi parla di truffa o soldi buttati via fa a pugni con un dato numerico”, scrive il 24 ottobre 2017 "La Prima Pagina". Beppe Grillo ringrazia chi “ha votato e capito questi referendum storici: è la loro vittoria, non della Lega e dei partiti”. E’ quanto scrive il leader del M5S sul suo blog. Il commento arriva dopo il voto in Lombardia e Veneto che ha registrato il successo di partecipazione.
Grillo sostiene che “chi parla di truffa o soldi buttati via fa a pugni con un dato numerico: 5,5 milioni di italiani hanno detto sì all’autonomia”. Il comici genovese rimarca che “l’affluenza è stata alta nonostante la strumentalizzazione della Lega”, “che si è comportata vergognosamente”. “Noi raccogliamo la sfida lanciata da veneti e lombardi”, conclude.
Gli elettori M5S hanno votato come i leghisti al referendum in Veneto. L'analisi dell'Istituto Cattaneo: la promozione dell'autonomia del Veneto è stata percepita come uno strumento da utilizzare contro il "sistema" a cui il M5s si oppone, scrive "Next Quotidiano" martedì 24 ottobre 2017. Secondo un’analisi del voto, effettuata dall’Istituto Cattaneo su tre città – Padova, Treviso e Venezia – in comparazione con le politiche del 2013, anche gli elettori del M5S hanno votato in massa per il sì al referendum per l’autonomia. «A ogni votazione secondo il Cattaneo – “il partito di Grillo” identifica un chiaro obiettivo politico. La promozione dell’autonomia del Veneto è stata, evidentemente, percepita come uno strumento da utilizzare contro il “sistema”». Un dato certamente interessante è quello che mostra in tutte e tre le città considerate gli elettori del M5s unanimemente favorevoli al Sì. Come hanno votato gli elettori dei principali partiti al referendum per l’autonomia (Corriere della Sera, 24 ottobre 2017). In questo caso, la promozione dell’autonomia del Veneto è stata, evidentemente, percepita come uno strumento da utilizzare contro il “sistema” a cui il M5s si oppone. Gli elettori che nel 2013 scelsero il Pd invece si dividono. A prevalere è la scelta del non-voto, a cui aderisce una quota compresa fra il 57% di Venezia e il 66% di Padova. Vi è però anche una fetta rilevante pari a un terzo che, in linea con l’indicazione di alcuni esponenti di questo partito, ha scelto di recarsi alle urne e votare Sì. Vi è infine un 3% che sulla scheda ha votato No. Il risultato della consultazione lombarda è sicuramente meno importante, in termini numerici, rispetto a quello veneto, ma indica comunque la presenza di un terzo dell’elettorato lombardo favorevole alla richiesta di maggiore autonomia nei confronti dello Stato centrale”, prosegue l’Istituto Cattaneo che, in merito ai flussi, osserva: “la partecipazione alle urne è più elevata nelle province del nord-est, in particolare nei territori di Bergamo, Brescia e Sondrio (zone, per inciso, di maggior radicamento della Lega nord). Invece, l’affluenza si affievolisce spostandoci verso sud, con riferimento soprattutto alle province di Mantova, Cremona e Pavia”. “Rispetto al Veneto, dove l’alta partecipazione ha avuto un carattere fortemente trasversale, nel caso della Lombardia l’affluenza sembra essersi maggiormente caratterizzata, almeno a livello geografico, dal traino – non esclusivo ma significativo – della Lega nord”, conclude.
Vi racconto i balletti del Pd di Renzi sui referendum in Lombardia e Veneto, scrive Giuliano Cazzola su "Formiche" il 24 ottobre 2017. Ma il Pd ha una propria linea o continua ad imitare quella degli altri partiti e movimenti? A volte si infila sotto il tavolo dei populisti (ad esempio, con il disegno di legge Richetti sui vitalizi e con la mozione su Bankitalia) nella speranza che gli resti qualche osso da spolpare. In altri casi, come nel referendum lombardo-veneto di domenica, una parte importante di quel partito (le strutture delle regioni in cui si è votato) si è accodata alla Lega Nord e alle altre forze di centrodestra, capovolgendo completamente l’impostazione centralistica contenuta nella legge Boschi di revisione della Carta costituzionale. È vero che alcuni esponenti dem hanno criticato – tardivamente – quella (inutile?) esibizione muscolare. Ma, in politica, quando si vota in un referendum, chi è contrario lo dimostra attraverso la campagna elettorale. Non si limita a stare alla finestra e ad accorgersi, il giorno dopo, di quanto è accaduto. Del resto, a parte le procedure, non mi pare ci sia una differenza sostanziale tra il governatore “rosso” e quelli “verdi”.
Il PD e il Referendum sull’autonomia della Regione Lombardia, scrive Maurizio Montanari su "PD Monza" l'11 Ottobre 2017. Andando all'incontro sul referendum pensavo ai miei conoscenti sicuri sulla posizione da tenere: “Ci si astiene! il PD è sempre stato contrario a questo referendum! Perché Gori e alcuni Sindaci ora sono per il Sì?”. Immaginavo di non trovare i miei conoscenti all'incontro e questo articoletto è stato scritto pensando al loro. Parto da una di quelle “chicche” che arricchiscono questi incontri. Nel 2007 la richiesta di maggiore autonomia venne approvata da tutto il Consiglio regionale lombardo, compresi DS e Margherita. Venne quindi dato mandato a Formigoni di trattare con il governo di allora guidato da Romano Prodi. Caduto Prodi, Formigoni venne convocato ad Arcore dal neo primo ministro Berlusconi. Indovinate chi trovò con Berlusconi? Gli allora ministri Roberto Maroni e Luca Zaia (sì proprio loro!). In quell’incontro Formigoni si sentì dire che la richiesta di autonomia lombarda doveva essere lasciata cadere! Certo che le persone vengono proprio prese in giro da una certa politica che vorrebbe essere popolare e populista…. La “chicca” è stata raccontata da Formigoni in una recente intervista ed è stata riportata da Enrico Brambilla. Veniamo ai contenuti veri e propri dell'incontro. Le posizioni dei due relatori: Enrico Brambilla a favore del non voto e Roberto Invernizzi per il Sì. Ma, entrambi, favorevoli ad una richiesta di maggiore autonomia nell'ambito di quello che viene chiamato “federalismo differenziato”. Ed entrambi concordi sull’inutilità di questo referendum che costerà circa 50 Milioni di euro, tanto quanto la Regione spende per tutti i piani di zona socio-sanitari. Il consiglio della Regione Emilia Romagna ha approvato, col voto contrario della Lega Nord!!!, una richiesta di maggiore autonomia su alcune materie (tutela del lavoro, istruzione, commercio con l’estero, rigenerazione urbana, tutela della salute e dell’ambiente, governance locale; qui il link per chi volesse approfondire), evitando lo spreco referendario. Spreco che, ricordo io, in Lombardia è passato con l'approvazione del Movimento 5 Stelle. Certo i grillini sono “animali strani”: si indignano per i biglietti gratuiti dati negli stadi ai consiglieri comunali (costo per la comunità qualche centinaio di euro) e minimizzano una spesa inutile di 50 Milioni di euro. Spesa inutile? Sì inutile! Anche il prevalere del Sì non comporterà alcuna conseguenza a breve termine. Per di più allo scadere della legislatura e quindi con la necessità di aspettare la formazione del nuovo governo per intavolare qualsiasi trattativa. Altre informazioni emerse riguardano i messaggi scorretti contenuti nel sito istituzionale della Regione Lombardia. Prima di tutto la promessa di trattenere in Regione almeno la metà del residuo fiscale per un importo pari a 27 Miliardi di euro. Enrico ha spiegato che il residuo fiscale consiste nella differenza tra le tasse raccolte in Regione e i servizi ricevuti dallo Stato e ha valutato la cifra di 27 Miliardi assolutamente spropositata. A questo proposito l'ottenimento di una maggiore autonomia comporta non il trasferimento di più soldi ma quello di nuove competenze. Infine Maroni sta dicendo che chiederà più autonomia su tutte le 23 materie possibili. Anche su questo Enrico si è detto scettico: che senso avrebbe portare a livello regionale le decisioni sulle grandi reti di trasporto e di navigazione? Per finire le mie conclusioni dopo l’incontro: al referendum non andrò a votare dovremo, come PD, riprendere la discussione sulla forma e sui contenuti di una maggiore autonomia. Per esempio riusciremo a proporre alle prossime elezioni regionali un modello di sanità diverso da quello costruito da Formigoni e Maroni? Costoso e che sta indebolendo la Sanità pubblica a favore di quella privata.
Referendum autonomia, Maroni: "Grazie ai sindaci Pd per il sì". Referendum autonomia, Maroni "tira le orecchie" ai Cinque Stelle e ringrazia i sindaci del Pd schieratisi a favore del sì. Intanto Galli attacca Martina, scrive Lunedì, 9 ottobre 2017, "Affari Italiani". "Se vince il sì, con qualsiasi percentuale, andrò a Roma per iniziare le trattative. Se vince il no, fine delle trasmissioni e non si parlerà più di autonomia": così il governatore lombardo Roberto Maroni. Che ha anche rivolto un pensiero ai sindaci del Pd favorevoli alla consultazione: Voglio ringraziare tutti gli amministratori in particolare i sindaci del Pd" che si sono impegnati per il 'si'' al referendum per l'autonomia della Lombardia. I sindaci dem lombardi, ha sostenuto Maroni, hanno dimostrato di saper "anteporre l'interesse dei cittadini agli ordini di partito". "Io l'ho fatto per Ema, ho dato la disponibiltà" del Pirellone, "avendo la Lega contro", ha ricordato. Maroni non ha voluto dare previsioni sull'affluenza e su quale sarà il limite entro il quale considerare il referendum un successo o un flop. Diversamente dal Veneto, in Lombardia non c'è il quorum, ha ricordato, "a me interessa capire se vince il sì o vince il no". "Più saranno i sì più potere negoziale io avrò" nella trattativa col governo, ha garantito, ribadendo che se l'affluenza sarà alta chiederà un accordo per "tutte le competenze" per cui può negoziare più autonomia. E sulle scelte in casa Pd è intervenuto anche Stefano Bruno Galli, a capo del gruppo consiliare "Maroni Presidente - Lombardia In Testa" al Consiglio regionale lombardo e relatore del referendum per l'autonomia della Lombardia: ""La crepa che attraversa il Pd sul tema dell'autonomia non potrebbe ricevere rappresentazione più surreale che nella città di Bergamo. Da una parte Giorgio Gori, sindaco e promesso sfidante (e le primarie?) di Roberto Maroni, ha capito da tempo che se non si fosse schierato per il sì al referendum per l'autonomia della Lombardia non avrebbe avuto senso nemmeno scendere in campo per le Regionali del 2018. Dall'altra parte, Maurizio Martina, ministro bergamasco e campione di preferenze quando venne eletto consigliere regionale nel 2013, detesta il referendum al punto da vederne solo i costi organizzativi. Un ministro della Repubblica, un lombardo, che davanti all'oggettivo fallimento dell'istituto del regionalismo differenziato, ossia al fallimento che dura da 16 anni di ogni trattativa tra Stato e regioni ex art. 116 terzo comma, non è in grado di guardare oltre ai costi della democrazia, lascia senza parole. Anche perchè Martina è ministro dell'Agricoltura e la Lombardia è la prima regione agricola del Paese. Senso della realtà, visione prospettica, fiuto per il futuro: zero. Ogni considerazione sacrificata sull'altare di un brevissimo calcolo politico". Maroni oggi ha presentato ai sindaci e ai responsabili degli uffici elettorali lombardi il sistema di voto elettronico, introdotto per la prima volta in Italia: "Sarà semplicissimo - ha detto -, basta un tocco per scegliere tra sì, no o scheda bianca", ha spiegato il governatore lombardo Roberto Maroni, simulando il voto davanti alle telecamere. Le voting machine, ha continuato, chiederanno una conferma del voto e poi un beep segnalerà la conclusione dell'operazione. "A chiusura del seggio la macchina stamperà immediatamente la scheda con il dato del seggio", ha proseguito, "non ci sarà spoglio, nè rischio di brogli, conosceremo immediatamente il risultato del referendum". Nel frattempo il governatore Regionale Roberto Maroni fa il punto sulla campagna verso il 22 ottobre. E tira le orecchie ai Cinque Stelle: "Si stanno impegnando tutti. Non tanto i 5 stelle". Il voto favorevole dei 5 stelle in Consiglio regionale lombardo fu determinante per il via libera alla consultazione. Maroni ha anticipato che sentirà Silvio Berlusconi nei prossimi giorni e lo inviterà a "venire sabato mattina" all'incontro sul referendum organizzato dal coordinamento regionale di Forza Italia a Milano. "Io ci sarò. Lo sentirò, so che è molto impegnato ma magari un'oretta libera la trova", ha continuato Maroni. "La Lega ha organizzato la chiusura a Bergamo", ha ricordato il governatore lombardo. "Grazie al M5S la sperimentazione sul voto elettronico per il referendum del 22 ottobre è una realtà e rappresenta una grande vittoria per la democrazia, per i cittadini e per la Lombardia. Per l'immediato futuro la possibilità che i cittadini si esprimano con il voto elettronico va ampliata fino alla realizzazione della democrazia diretta; un obiettivo che terrorizza tutti i partiti che hanno dimostrato ampiamente di essere allergici alle urne". Così Andrea Fiasconaro, capogruppo del M5S in Consiglio regionale lombardo. "Continuano poi le mistificazioni di Maroni sul referendum e dopo le balle sui miliardi di euro arrivano quelle sul M5S. Se dal 22 ottobre si farà qualche passo in avanti in Lombardia sull'autonomia è solo grazie al M5S che, oltre a proporre il quesito e a portare a casa il voto elettronico, sta facendo un lavoro capillare sui territori per smontare le fake news indipendentiste della Lega", ha concluso. Per il sindaco di Milano Giuseppe Sala, il referendum per l'autonomia dalla Lombardia del prossimo 22 ottobre "si poteva evitare perchè è un referendum non deliberativo e si poteva avviare un tavolo di contatto con il Governo". "Pero', posto che ci sarà - ha detto Sala ai microfoni di Rtl 102.5 -, io andrò a votare sì e da parte mia cercherò di spiegare perchè, non è che si può votare sì perchè rimarranno più tasse lombarde ai lombardi, non è vero, ma una maggior autonomia funzionale, quella è auspicabile". "Se la devo dire tutta - ha osservato il sindaco di Milano - penso che questo Paese se vorra' andare avanti con 8000 Comuni, 93 province, 14 città metropolitane, 20 regioni, non va da nessuna parte". Il comitato bergamasco per il 'si' al referendum per l'autonomia della Lombardia ha organizzato per venerdì 20 una cena di chiusura della campagna elettorale cui hanno finora confermato la loro partecipazione, per la Lega, Matteo Salvini e Roberto Maroni, e, per Forza Italia, Giovanni Toti e Mariastella Gelmini. Alla cena - 25 euro alla Fiera di Bergamo - è stato invitato anche Silvio Berlusconi, che invece non è dato presente, sabato mattina, all'evento, sempre sul referendum, organizzato a Milano dal coordinamento lombardo di FI. Nel capoluogo orobico attese circa 2000 persone, tra imprenditori e rappresentano della società civile.
Referendum autonomia, il Pd: "I costi stanno lievitando, siamo già a 55 milioni". La Lega: "E' il costo della democrazia", scrive Martedì 10 Ottobre 2017 "Leggo". A conti fatti il referendum per l’autonomia del 22 ottobre costerà «più di 55 milioni di euro». Lo denuncia il Pd in Regione che sulla spesa per la consultazione già aveva sollevato critiche. Ma ora, secondo il capogruppo Enrico Brambilla, i numeri stanno anche lievitando. «Ormai siamo a un costo di oltre 55 milioni di euro, si tratta di uno spreco di risorse. La democrazia ha un costo, lo sappiamo, ma lo spreco va correlato all’inutilità della consultazione», ha attaccato ieri. Tra le voci principali elencate dal Pd «i 22 milioni per il voto elettronico e l’acquisto delle voting machine, i 24,5 milioni di euro per la gestione della consultazione, con anche i rimborsi ai Comuni, tre milioni per la comunicazione e cinque per l’invio di lettere ai cittadini». Numeri che secondo l’opposizione pesano soprattutto se confrontati con quelli per le politiche per i cittadini. «La Regione Lombardia per i piani sociali dei 1500 Comuni, per esempio – ha detto Brambilla - quest’anno ha stanziato 48 milioni di euro, mentre per il referendum siamo oltre i 55». La replica è arrivata dal capogruppo della Lega Massimiliano Romeo. «Si tratta - ha sostenuto - di costi della democrazia, e quelli del Pd sono «pretesti per attaccare la consultazione». Sul voto i democratici lasciano in ogni caso libertà di scelta, anche se, è la posizione del partito, la consultazione si poteva evitare, aprendo direttamente la trattativa con lo Stato per ottenere maggiori competenze. Ieri sul referendum iri è intervenuto anche l’ex presidente della Regione Roberto Formigoni, mostrando più di una perplessità. «Voterò sì, anche se sono amareggiato e deluso perché l’autonomia è una cosa seria che viene affrontata in modo banale». E ha aggiunto: «Invece il quesito è molto vago, è come chiedere se vuoi bene alla mamma, tutti rispondono sì». E poi: «Se Maroni avesse voluto poteva comunque chiedere di aprire la trattativa in qualsiasi momento».
I preti schierati per il "Sì" benedicono il referendum. Parrocchie venete e giornali diocesani invitano i fedeli al voto: "Sarebbe d'accordo pure don Sturzo, ne parlava", scrive Stefano Filippi, Venerdì 20/10/2017, su "Il Giornale". Il parroco è anonimo, la chiesa pure (è in provincia di Treviso), ma l'assessore regionale veneto Giampaolo Bottacin, leghista, garantisce che è tutto vero: ne fa fede la foto scattata con il telefonino e pubblicata sulla sua bacheca Facebook. È un avviso parrocchiale che invita a votare domenica. «Partecipare al Referendum (la maiuscola è nell'originale, ndr) in massa è un segnale importante che viene mandato alla dirigenza del Paese», esorta il prete. Che poi cita Platone: «Una delle punizioni che ti aspettano per non avere partecipato alla vita politica è di essere poi governato da esseri incapaci». E chiude con un grave monito: «Per un cristiano, poi, è dovere morale assumersi le proprie responsabilità e non far parte della massa degli impotenti e dei vili e che scarica sempre la colpa sugli altri». Impotenti e vigliacchi: il parroco («un prete autonomista come ce ne sono tanti», scherza Bottacin) non va per il sottile. Più argomentata è la posizione della Chiesa veneta, ma il senso è quello: croce sul Sì. «Il referendum è nella legalità e nella legalità va tutto bene», ha detto monsignor Corrado Pizziolo, vescovo di Vittorio Veneto (Treviso). Domenica scorsa vari settimanali diocesani hanno aperto il giornale con titoli sul referendum. Verona Fedele ha pubblicato i pareri di quattro politici locali (lista Zaia, Pd, Cinque stelle, Forza Italia): favorevoli 3 su 4. Guglielmo Frezza, direttore della Difesa del popolo (Padova) e Lauro Paoletto, numero uno della Voce dei Berici (Vicenza) hanno scritto così: «Il referendum c'è. Si poteva certo avviare la procedura per richiedere maggiore autonomia anche senza. Ci si sarebbe riusciti? Forse. Ma con i se, i ma e i forse non si va lontano. Oggi il referendum c'è e vale pena interrogarsi su come fare in modo che sia un'occasione per crescere come comunità, veneta e italiana». L'appoggio non è smaccato ma in Veneto il referendum prevede il quorum del 50 per cento più 1; perciò ogni invito a prendere sul serio il quesito autonomista rappresenta di fatto un endorsement al Sì. Del resto, così ha spiegato Paoletto al Corriere Veneto: «Federalismo e autonomia fanno parte della dottrina evangelica, ne parlava già don Luigi Sturzo. Ora il problema è quale autonomia coniughi solidarietà ed efficienza. Se il Sì avrà ben riconoscibile il marchio del Veneto, sullo sfondo della bandiera italiana, potrà essere davvero fattibile e condivisibile». Autonomia solidale è la parola d'ordine degli ambienti ecclesiastici davanti al referendum. Nelle curie venete si ricorda che vent'anni fa i vescovi del Nordest scrissero all'allora premier Massimo D'Alema una lettera intitolata «Il federalismo dei campanili» avallando le istanze anti centraliste e che la Chiesa stessa, pur essendo una monarchia assoluta, di fatto ha una struttura «federalista» con le diocesi e le Conferenze episcopali: le questioni locali affrontate in autonomia in un contesto unitario. Non si schiera il patriarca di Venezia, Francesco Moraglia. Dopo aver dichiarato, a proposito della Catalogna, che «l'autonomia è la grande sfida che le democrazie di oggi, in questo periodo, si trovano innanzi», ha fatto sapere che non intendeva prendere nessuna posizione su temi politici, né intervenire «a gamba tesa su competizioni elettorali in atto, a cominciare dai referendum». Invece il nuovo arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini, non si è fatto problemi a sollecitare gli elettori a partecipare a «consultazioni importanti per le istituzioni politiche e amministrative» che costituiscono «un'occasione per riflettere, confrontarsi, esprimersi sugli aspetti istituzionali della società civile».
Referendum, Berlusconi: "Soddisfatto, non è contro lʼunità nazionale". "Se Veneto e Lombardia crescono ne guadagna il Paese intero", scrive il 23 ottobre 2017 TGcom 24. Silvio Berlusconi si dice "soddisfatto per il risultato dei referendum della Lombardia e del Veneto, che abbiamo sostenuto con convinzione e con impegno attivo". Secondo il leader di Forza Italia, "era giusto consentire ai cittadini di esprimersi, ed ora è necessario che da questo voto nasca un processo di riforma federalista, che avvicini le scelte di governo alla gente. Non è un risultato che va contro l'unità nazionale, che per noi è sacra". "L'unità nazionale è sacra", dice Berlusconi che aggiunge: "Sono convinto che se Lombardia e Veneto potranno crescere più velocemente, tutto il paese ne guadagnerà". Per il leader di Forza Italia, in una nota. "Il principio di sussidiarietà, quello secondo il quale il pubblico non deve fare ciò che può fare il privato, e nel pubblico le decisioni vanno prese al livello più vicino possibile ai cittadini, è da sempre al centro dei nostri programmi. Gli elettori del Veneto e della Lombardia hanno dimostrato di condividerlo - prosegue Berlusconi -. Ora comincia una fase nuova: credo che toccherà a noi, quando torneremo alla guida del paese dopo le elezioni, dare compiuta attuazione a una riforma che potrà riguardare tutte le regioni italiane".
Autonomia Veneto, Berlusconi: "Sì convinto, non è contro unità", scrive il 13 ottobre 2017 "TgCom24". Il referendum "non ha ovviamente nulla in comune con le drammatiche notizie che ci vengono dalla Catalogna". "Se il Veneto deve tornare ad essere una delle locomotive d'Italia, ha bisogno di istituzioni che siano in grado di supportare e non ostacolare il lavoro dei veneti. Per questo voteremo 'sì' con grande convinzione al referendum di domenica 22". Lo ha detto il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, precisando che il referendum per l'autonomia "non è contro l'unità nazionale, anzi: un Veneto più libero e avanzato è un vantaggio per l'Italia intera". "Non ha ovviamente nulla in comune con le drammatiche notizie che ci vengono dalla Catalogna - prosegue Berlusconi -. Quello Veneto è un referendum per affermare il principio di sussidiarietà, che è nel nostro programma fin dal 1994.
Berlusconi e le uscite razziste, scrive l'11 ottobre 2016 "Lettera 43". «Una che va con un negro mi fa schifo», disse B riferito a Fico e Balotelli. Ma non è stato un caso isolato. «Che poi, te lo dico, a me una che va con un negro mi fa schifo». No, non è l'ennesimo video rubato di Donald Trump. Arcore, Villa San Martino. Silvio Berlusconi sta parlando amabilmente nel suo salotto con Marysthelle Polanco e altre due ragazze della relazione tra Roberta Fico e Mario Balotelli. «Raffaella Fico…Raffaella…», dice la showgirl domenicana al Cav che le risponde, ignorando di essere ripreso: «A me una che va con un negro mi fa schifo».
«PAPI, ANCHE IO SONO NEGRA». Polanco a quel punto fa notare al gentile e generoso ospite che in fondo anche lei proprio caucasica non è. «Papi, ma io sono negra!». «No tesoro», risponde lui sorridendo, «lascia stare, tu sei abbronzata». Con Polanco quel giorno ad Arcore c'erano anche altre due ragazze accorse per chiedere all'ex premier un posticino in televisione. Come la Fico, oppure come «quella di Sipario» o come Emilio Fede. «Devi chiamare e dire: lui non fa più il direttore, lo faccio io il direttore del Tg4», scherza Polanco che per inciso era l'olgettina che durante i dopocena eleganti raccontò di essersi travestita anche da Ilda Boccassini.
L'INCHIESTA RUBY TER. Il video di 27 minuti, il cui contenuto è stato reso pubblico da Giustiziami, è stato depositato agli avvocati dalla Procura di Milano e proviene dalla rogatoria Svizzera condotta nell’ambito dell’inchiesta Ruby ter. «Abbronzato, bello e giovane» per il Cav era pure Barack Obama. Una dichiarazione del 2008 che fece scoppiare una bufera. Non è stato però l'unico scivolone a sfondo razzista di Berlusconi.
OSSESSIONE BALOTELLI. Il 21 febbraio scorso, festeggiando a Milanello i suoi 30 anni di Milan, era tornato su Balotelli «che è italiano, ma ha preso un po' troppo sole». Quella del calciatore bresciano pare essere una ossessione di famiglia visto che a febbraio 2013 a cadere in fallo era stato pure Paolo. «E adesso», chiuse un suo intervento durante la campagna elettorale il fratello dell'ex premier, «andiamo a vedere come se la cava il negretto di famiglia, la testa calda». Il meglio di sé B. però lo diede nel giugno 2009.
«MILANO? UNA CITTÀ AFRICANA». «Non posso accettare che quando circoliamo nelle nostre città ci sembra di essere, e mi è capitato nel centro di Milano, in una città africana e non in una città europea per il numero di stranieri che ci sono». Città africana nella quale però una giovane marocchina fermata in questura venne fatta rimettere in libertà su pressione di B perché «nipote di Mubarak». Karima El Mahroug forse non era al 100% africana, ma solo abbronzata.
II Mattino del 15 aprile 1995. Ieri sera l'onorevole Berlusconi a "Tempo reale" ha indirettamente offeso napoletani e meridionali usando l'aggettivo borbonico in senso spregiativo incorrendo in uno dei più squallidi luoghi comuni che si perpetuano da tanto tempo. Rispondendo ad un articolo comparso sulla Voce molti mesi fa su questo giornale avevo dimostrato l'infondatezza del "facite ammuina", un falso decreto che facendo bella mostra di sé in tanti uffici e in tante case settentrionali e non, mortifica i meridionali facendoli passare per quello che non sono stati, e noto con amarezza che per ridare alla nostra gente la dignità che gli spetta non basteranno cent'anni. Il lavoro scientifico di denigrazione e di cancellazione della memoria operato per più di un secolo è proprio difficile da smontare. Quando sostengo che noi meridionali veniamo alla luce con delle tare genetiche e siamo quindi un po' mafiosi, un po' camorristi, un po' furbetti, un po' ladruncoli, un po' lazzari non lo dico per piangermi addosso, lo dico solo perché sono i fatti che lo dimostrano. Le pubblicità con i napoletani della Findus o quella della pizza surgelata, oggetto di polemiche in questi giorni ne sono la dimostrazione. Ieri davanti a milioni di italiani Berlusconi ha usato l'aggettivo borbonico per ricordare per l'ennesima volta quel falso regolamento di marina che campeggia forse anche nei suoi uffici. Quel "facite ammuina" inventato per denigrare i napoletani, per farli passare sempre e comunque per fannulloni e imbroglioni continua a dilettare la gente soprattutto quella che ci vuole male. E' lo stesso andazzo che fa sì che un manuale Mondadori per le scuole medie riporti come immagine di Napoli capitale del Regno delle Due Sicilie un piccolo e "folkloristico vicolo dei quartieri spagnoli". Berlusconi faccia ricercare i regolamenti della marina napoletana, che fu la terza d'Europa e vedrà che di quel decreto non v'è traccia e se pensa seriamente di operare in favore di quel Sud di cui tutti si riempiono la bocca senza poi far niente o pensando di sradicare ancora una volta i suoi abitanti per farli emigrare di nuovo, magari con una ventina di milioni per incoraggiamento, vedi vicenda dei portalettere, trovi modo di fare ammenda e di rettificare. Se non lo farà saranno i meridionali e i napoletani a regolarsi di conseguenza.
Berlusconi, il ritorno: dal “bidet per scopatori africani” all’apprezzamento per moglie e figlia di Trump, scrive Gisella Ruccia il 15 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Gag, barzellette, freddure, ode per gli animali “esseri senzienti”, battute pruriginose assortite. Silvio Berlusconi non smentisce il suo tradizionale repertorio nel lungo “one man show” tenuto a Ischia per presentare i punti del programma di Forza Italia. Lo spauracchio principale del Cavaliere è il M5S, movimento “pericoloso, incapace e pauperista”, che, a suo dire, ha un frontman chiamato Luigi Di Maio, con un deus ex machina che è nientepopodimeno che il magistrato Piercamillo Davigo: “So che ci sono stati tre incontri tra Grillo, Casaleggio e Davigo che ora smentisce. Guardate chi è Davigo: è un concentrato di odio, invidia e rabbia. I suoi collaboratori dicono che non l’hanno mai visto sorridere nemmeno una volta. Non so perché abbia dei brutti denti oppure perché non ne sia proprio capace”. Via libera quindi agli strali contro i giustizialisti pentastellati, occasione per annunciare la riforma della giustizia secondo Silvio: cambiamento assoluto delle intercettazioni, non appellabilità delle sentenze di assoluzione, pm con stessi diritti degli avvocati della difesa, carcere prima del processo solo a chi commette atti di violenza, per tutti gli altri varrà invece la cauzione, secondo il modello americano. “C’è qualcuno di voi che ancora si fida di dire al telefono alla propria mogliettina un complimento birichino?”, chiede Berlusconi al pubblico. Poi un tributo a Donald Trump: “Che pena vedere i candidati alle presidenziali che gli americani hanno messo in campo. C’è un’incredibile crisi di leadership a livello internazionale. Ora c’è questo signor Trump, di cui ammiro la moglie e la figlia”. Immancabile il ricordo di Gheddafi: “Sono andato nei centri di accoglienza e non ho visto bidet. Ho cercato di dire che erano necessari e ho pensato: ‘Voglio insegnare a questi scopatori africani che anche i preliminari sono importanti’. Vedo che la signora Carfagna in prima fila si è scandalizzata, e questo va bene”. Infine, una battuta sul Paradiso: “Dio mi ha chiamato e mi ha detto: la tua idea di trasformare il Paradiso in società per azioni e quotarla, mi è piaciuta moltissimo. C’è solo una cosa che non capisco: perché dovrei fare il vicepresidente?”
Saviano: «I piemontesi non facevano il bidet». Lo scrittore risponde ad Amandola. Scrive "Lettera 43" il 22 ottobre 2012. Il tweet di Roberto Saviano dopo la dichiarazione del giornalista del Tgr Piemonte, Giampiero Amandola. La frase infelice che il giornalista della Rai, Giampiero Amandola durante il Tgr Piemonte ha espresso nei confronti dei napoletani («Puzzano») ha sconvolto anche il giornalista e scrittore campano Roberto Saviano. Su twitter, lunedì 22 ottobre, ha espresso il suo disappunto: «Quando i piemontesi videro il bidet nella Reggia di Caserta lo definirono oggetto sconosciuto a forma di chitarra». Amandola intanto è stato sospeso. La decisione è stata presa dalla Rai che ha definito il comportamento del giornalista «inqualificabile». Il mister dei partenopei Walter Mazzarri era entrato a gamba tesa: «Spero che chi ha sbagliato paghi. Se la giustizia permette che si sentano i cori che ho sentito io (i cori razzisti cantati allo Juventus Stadium, ndr), è una vergogna. Gli organi competenti facciano quel che si deve. Vale per tutti, che lo facciamo noi o i tifosi Juve. Spero paghino». «VOI LI DISTINGUETE DALLA PUZZA?». A scatenare la furibonda reazione dei napoletani è stato un momento del servizio del Tg regionale piemontese trasmesso sabato 20. «I napoletani sono ovunque, come i cinesi», ha detto un tifoso bianconero. Amandola ha rincarato la dose: «E voi li distinguete dalla puzza, a quanto pare...».
Certo, però, che al piemontese Gramellini la puntualizzazione non è andata giù.
Fogne e bidet, scrive il 23/10/2012 Massimo Gramellini su “La Stampa”. Quando si scriverà il libro più lungo del mondo - l’enciclopedia della stupidità umana - due righe verranno dedicate al servizio trasmesso l’altra sera dal Tg3 Piemonte. Il giornalista inviato a Juve-Napoli per uno di quei famigerati pezzi che si definiscono «di colore» chiede a un tifoso juventino se sia in grado di distinguere i napoletani dai cinesi in base alla puzza. Nella scenetta tutto è grottesco: l’intento ironico incomprensibile e persino il fatto che a discettare razzisticamente sui «terroni» sia un ragazzo dal vistoso accento meridionale. Un tempo il siparietto penoso non avrebbe oltrepassato le valli piemontesi, ma ormai la potenza della Rete amplifica le fesserie. Così la puzza dei napoletani (un po’ meno quella dei cinesi) è diventata argomento di discussione nazionale, riaprendo le solite ferite freschissime che risalgono al Risorgimento. Anche Saviano si è sentito punto sul vivo e ha pensato bene di inzupparci la penna in modo spiritoso: «Quando i piemontesi videro il bidet nella reggia di Caserta lo definirono “oggetto sconosciuto a forma di chitarra”». Vero: in Piemonte all’epoca non avevano i bidet. Però avevano le fogne. Mentre i rimpianti Borbone, per potersi pulire le loro terga nel bidet, tenevano la gran parte della popolazione nella melma. Ora, che agli eredi diretti di Franceschiello dispiaccia di non potersi più pulire le terga nel bidet in esclusiva, posso capirlo. Ma che i pronipoti di quelli che venivano tenuti nella melma vivano l’arrivo dei piemontesi come una degradazione, mi pare esagerato. Vedete un po’ dove ci ha portati quel servizio razzista. Comunque, a scanso di equivoci, per lo scudetto io tifo Napoli.
Son razzisti anche se comunisti…Scrive Stefano Di Michele per "il Foglio" il 22 ottobre 2012. Prima l'uovo o la gallina? Oppure: prima il bidet o la fogna? Non bastassero le primarie ad aprire epocali questioni a sinistra - sotto le palme alle Cayman o alla pompa a Bettola? - ora è il momento della disputa: ha da considerarsi segno di maggiore civiltà l'oggetto che consente agevolmente di detergere le terga o la destinazione finale, diciamo così, della produzione fuoriuscita dalle stesse? Tra molte dispute che in zona sfiorano temerariamente il sanitario - intese quali questioni che richiedono conforto e spiegazioni di appositi luminari, adesso si è passati più prosaicamente allo scontro intorno ai sanitari - intesi quali manufatti che richiedono innanzi tutto il conforto di capaci idraulici. E' una questione esplosa tutta all'interno del faziano programma "Che tempo che fa" - con un'impennata che a questo punto necessita non solo di meteorologiche previsioni sull'anticiclone, ma anche di condominiali valutazioni sui tubi di scarico. E' come rivedere in campo Sua Maestà borbonica e Sua Eccellenza il conte di Cavour - nella fattispecie, Roberto Saviano (dal Regno delle Due Sicilie) e Massimo Gramellini (dal Regno di Sardegna). Tutto è cominciato con quel giornalista della Rai piemontese che ha avuto la bella pensata di chiedere ai tifosi juventini, in attesa della squadra dei napoletani, se dalla puzza avrebbero riconosciuto i medesimi. A parte la battuta godibile (per non allontanarsi dalla metafora) come una merda di cavallo sotto i piedi, la questione del puzzare più a nord o più a sud ha richiesto l'intervento dei due più avvertiti intellettuali del cenacolo regolato e adunato da don Fazio: appunto Saviano e dunque Gramellini - "i gioielli preferiti", ironizza il Corriere del Mezzogiorno.
Il primo ha espresso subito il suo disappunto igienico-borbonico-antirisorgimentale con un tweet, rievocando lo stupore dei piemontesi quando nella Reggia di Caserta si trovarono davanti l'innovativo bidet, e ignorando sia la forma sia la praticità del manufatto, con gaddiano trasporto lo definirono "oggetto sconosciuto a forma di chitarra" - il che, peraltro, non pochi dubbi accende tanto sullo stato igienico sottostante dei militi nordici, quanto sulla loro personale arguzia.
Gramellini (cavouriano: si desume dal collo delle camicie, oltre che dal ritratto del Conte che spicca sopra il suo letto), non volendo essere da meno, ha immediatamente fatto conoscere il proprio fervido disappunto igienico- savoiardo-risorgimentale sulla prima pagina della Stampa, concedendo l'onore del bidet al napoletano, ma rivendicando ai piemontesi quello non meno fondamentale delle fogne, "mentre i rimpianti Borboni, per potersi pulire le loro terga nel bidet, tenevano la gran parte della popolazione nella melma". Polemica di sostanza e sapori (per non dire odori) forti. Urge in trasmissione rapida convocazione di filosofi e storici a consueta transumanza faziana - oltre alla cara Littizzetto, che dibattendo così spesso tanto del "Walter" quanto della "Jolanda" (nello specifico: Quello e Quella) né sul bidet né sulle fogne dovrebbe mostrarsi impreparata. E all'uovo e alla gallina, pertanto, si torna: si può avere il bidet senza fogne? e se c'hai le fogne ma non il bidet, con le fogne che ci fai? C'è materia per un'intera prima serata su RaiTre, così da consentire alle due colonne portanti della trasmissione di poter pubblicamente e una volta per tutte chiarire la vexata quaestio. E invece del solito raffinatissimo gruppo musicale, al centro dello studio una riproduzione della famosa fontana, da ognuno inteso "pisciatoio", di Duchamp: così che nei pressi, sia Cavour sia Franceschiello possano finalmente liberarsi (di ogni dubbio storico).
Bidet. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il suo nome deriva dal francese bidet, termine che indica anche il pony. L'omonimia è dovuta alla somiglianza della posizione che si assume durante l'utilizzo del bidet con quella della cavalcata del pony. La parola deriva dalla radice celtica bid, col significato di piccolo, e bidein, piccola creatura.
Il bidet inizia a comparire negli arredamenti francesi tra la fine del XVII e l'inizio del XVIII secolo, ma non si conosce ovviamente né la data certa né il nome del suo inventore. La prima testimonianza certa risale al 1710, anno in cui tale Christophe Des Rosiers, lo installò presso l'abitazione della famiglia reale francese. In realtà i bidet, immediatamente dopo l'introduzione, furono poco utilizzati in Francia; a Versailles ne esistevano in circa cento stanze, ma furono dismessi tutti in una decina di anni. I pochi esemplari usati finirono nelle case d'appuntamenti. Nella seconda metà del Settecento la Regina di Napoli Maria Carolina d'Asburgo-Lorena volle un bidet nel suo bagno personale alla Reggia di Caserta, ignorandone l'etichetta di "strumento di lavoro da meretricio". Secondo l'anedottica l'inizio della diffusione di questo sanitario in Italia coinciderebbe con questo evento e, sempre secondo una leggenda priva di riscontri, dopo l'unità d'Italia, nella Reggia di Caserta i funzionari chiamati a redigere l'inventario dei beni si sarebbero trovati di fronte al bidet che non conoscevano e l'avrebbero catalogato come "oggetto per uso sconosciuto a forma di chitarra". In realtà il bidet si è diffuso in Italia in tempi relativamente recenti dopo il secondo dopoguerra. Tanto i gabinetti comuni delle case operaie dei grandi centri urbani, quanto le latrine contadine ne erano generalmente privi. Ancora negli anni '60 del Novecento non era raro che soprattutto i nuovi immigrati nelle grandi città del nord usassero il bidet come lavatoio per i panni o "pulisci piedi".
Dal 1900, durante l'età vittoriana, con la diffusione delle tubature all'interno delle case private, il bidet divenne un oggetto utilizzato non più in camera da letto, ma nel bagno, insieme al water, che sostituiva il pitale tenuto in camera.
Nel 1960 invece ci fu l'introduzione sul mercato di un sanitario risultante dall'unione del water con il bidet, particolarmente utile in piccoli ambienti in cui i due sanitari non troverebbero posto; esso è a volte detto "bidet elettronico", ma in Italia non ha incontrato favore e non si è diffuso.
I bidet non sono presenti in tutti i paesi europei: sono comuni solo in Grecia, Spagna, e soprattutto in Italia e in Portogallo, paesi nei quali l'installazione di un bidet fu resa obbligatoria nel 1975. Secondo un sondaggio francese del 1995, è l'Italia il paese in cui il bidet è utilizzato più di frequente (97%), seguito dal Portogallo al secondo posto (92%) e dalla Francia al terzo (42%); in Germania il suo uso è raro (6%) e in Gran Bretagna rarissimo (3%). In America Latina i bidet si trovano in Brasile, Paraguay e Cile, e soprattutto in Argentina e Uruguay, dove sono installati nel 90% delle case private; sono abbastanza comuni anche in Medio Oriente. In Giappone, pur essendo pressoché assenti, sono però sostituiti nella funzione da un sanitario che unisce le funzioni del water e quella del bidet, detto washlet, presente nel 60% delle case private e non raro negli alberghi. In Francia, Paese d'origine del bidet, a partire dagli anni settanta, per ragioni di economia e di spazio, sono raramente installati bidet nei nuovi appartamenti (dal 95% di presenza nei bagni nel 1970, la percentuale è scesa al 42% nel 1993) e una grande quantità di persone ha eliminato il bidet dalla propria casa. Un fenomeno analogo si sta riscontrando in Spagna, dove è sempre più frequente la mancanza del bidet nelle nuove abitazioni e nelle vecchie case ristrutturate, per un uso diverso dello spazio, sebbene gli appartamenti di lusso e con almeno due stanze da bagno continuino a esserne equipaggiati. I residenti di paesi in cui il bidet domestico è raro (come gli Stati Uniti d'America e il Regno Unito, ad esempio) spesso non hanno alcuna idea di come usarlo quando ne trovano uno all'estero. Gli statunitensi hanno visto per la prima volta il bidet nei bordelli francesi durante la seconda guerra mondiale e ancora collegano questo sanitario all'idea che le prostitute lo usassero per lavarsi i genitali in seguito ai rapporti sessuali. I pregiudizi sono comuni tra gli abitanti di questi paesi, che a volte considerano il bidet un oggetto strano e anche sporco; ciò fa parte dei tabù legati all'igiene personale.
Quando al nord ancora mangiavano con le mani...
Dopo il bidet un altro primato meridionale: la forchetta, scrive il 20 ottobre 2014 Angelo Calemme. Lo sapevate che la forchetta con cui quotidianamente tutto il mondo attorciglia gli spaghetti è un’invenzione napoletana? In stretta controtendenza con lo “SputtaNapoli” e le menzognere letture risorgimentali e filosabaude della storia d’Italia diffondiamo questa notizia curiosa che in questi giorni grande clamore e consensi sembra suscitare sul web e, soprattutto, sui social network: la forchetta a 4 rebbi è un’invenzione duosiciliana e, più precisamente, napoletana. La forchetta ha origini antiche e, in base agli ultimi studi storici e archeologici, si presume sia una specificità della civiltà antica, mediterranea e romana. La forchetta venne sin da subito concepita come uno strumento da affiancare ai ditali d’argento con i quali i delicati polpastrelli delle famiglie patrizie greche e romane preferivano non ustionarsi durante i banchetti. Con la scomparsa della civiltà romana d’Occidente la forchetta sopravvisse solo nell’Impero romano d’Oriente e reintrodotta in Europa a partire dal 1003 dai veneziani, in seguito al matrimonio tra Maria Argyropoulaina, nipote di Costantino VIII, e Giovanni Orseolo, figlio del Doge Pietro II Orseolo. In seguito al boicottaggio della Chiesa che la definì un “demoniaco oggetto” essa ebbe una diffusione travagliata per circa 767 anni fino a quando il Regno di Ferdinando IV di Borbone e la regina Maria Carolina, nella persona del gran ciambellano Gennaro Spadaccini, non la secolarizzò, e ridisegnò, con 4 punte, ribattezzandola con il nome di modello broccia o napolitania.
Quest’ultima è la forchetta che tutto l’Occidente in particolare e la ristorazione in generale utilizza quotidianamente e che, solitamente, viene associata alla degustazione degli spaghetti al sugo di pomodoro.
Peccato Gramellini…anche le fogne in Italia sono nate prima al sud.
Fognatura. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Per fognatura (più formalmente sistema di drenaggio urbano o impianto di fognatura, volgarmente chiavica) si intende il complesso di canalizzazioni, generalmente sotterranee, per raccogliere e smaltire lontano da insediamenti civili e/o produttivi le acque superficiali (meteoriche, di lavaggio, ecc.) e quelle reflue provenienti dalle attività umane in generale. Le canalizzazioni, in generale, funzionano a pelo libero; in tratti particolari, in funzione dell'altimetria dell'abitato da servire, il loro funzionamento può essere in pressione (condotte prementi in partenza da stazioni di pompaggio, attraversamenti, sifoni, ecc.). Le prime testimonianze storiche di fognature risalgono ad un periodo compreso tra il 2500 e il 2000 a.C. circa e sono state trovate a Mohenjo-daro, nell'attuale Pakistan. Dai resti si è potuta ricostruire la fisionomia della città che, sotto il livello stradale, presentava una vasta rete di canali in mattoni in grado di convogliare le acque reflue provenienti dalle abitazioni. Anche la città di Ninive, capitale del regno assiro tra l'VIII e il VI secolo a.C. era fornita di una rete fognaria. Le fognature antiche più efficienti furono però quelle di Roma. La prima cloaca romana di cui si abbia notizia risale al VII secolo a.C. e fu progettata per bonificare gli acquitrini che occupavano le vallate alla base dei colli dell'Urbe, e far defluire verso il Tevere i liquami del Foro Romano, di Campo Marzio e del Foro Boario. La realizzazione più importante fu però la cloaca massima, la cui costruzione fu avviata nel VI secolo a.C. sotto il leggendario re di Roma di origine etrusca Tarquinio Prisco. Con la cloaca massima (inizialmente era un canale a cielo aperto ma successivamente fu coperto per consentire l'espansione del centro cittadino), di cui si possono vedere alcuni tratti e lo sbocco presso i resti del Ponte Rotto, i romani ci hanno tramandato uno dei più importanti esempi di ingegneria idraulico-sanitaria. Con la caduta dell'impero, non vennero più costruite nuove fogne e spesso quelle esistenti furono abbandonate. Solo molto più tardi, nel XVII secolo, si sentì nuovamente l'esigenza di costruire fognature a seguito della forte urbanizzazione di città come Parigi e, dal XIX secolo, Londra.
DIECI COSE CHE NON SAI SULLE FOGNE Cosa c'è da sapere sulle fogne? Tante cose, almeno 10. Eccole! Scrive "Focusjunior.it".
1. Fogna, chiavica, cloaca sono tutti nomi che indicano la stessa cosa: un sistema di canalizzazioni per raccogliere e smaltire le acque di scarico. La più antica che si conosca è stata ritrovata fra i resti di Mohenjo-Daro, una città della Valle dell’Indo, nell’attuale Pakistan, e risale al 2500 a. C.
2. Roma può vantare la rete di scarico più efficiente dell’antichità. L’asse portante era la Cloaca Maxima, un canale di scolo sotterraneo che, nel punto di maggiore ampiezza, era alto 3,3 metri e largo 4 metri e mezzo!
3. Le fogne più famose dell’età moderna sono quelle di Parigi. I cunicoli descritti nei Miserabili di Victor Hugo sono una vera città sotto la città: a ogni strada in superficie corrisponde la sua galleria sotterranea, con tanto di segnaletica, per un totale di 2.300 chilometri di percorso.
4. Nell'Ottocento a Londra c'erano solo 24 km di fognature: il grosso dei rifiuti organici finiva nei pozzi neri, che nessuno svuotava. Nel 1858 il fetore era così forte che non si poteva uscire di casa senza un fazzoletto sul naso: ancora oggi è ricordato come l'anno della Grande Puzza.
5. Non era solo questione di odori: la mancanza di igiene era una continua fonte di malattie. Dopo l’episodio della Grande Puzza (v. punto 4), a Londra si iniziarono i lavori per 2.000 km di tunnel fognari che in pochi anni misero fine alle epidemie di colera, prima frequentissime.
6. Mai sentito parlare di coccodrilli nelle fogne di New York? È ovviamente una leggenda metropolitana, ma con un fondo di verità. Nel 1935, sotto la 123a strada fu realmente avvistato (e catturato) un alligatore di 2 m, forse fuggito dal carico di una nave ormeggiata al porto.
7. Spesso nelle fogne finisce anche l’olio usato, che oltre a essere inquinante rischia di provocare danni anche seri. Nel 2013 i tecnici chiamati a ispezionare le fogne di Londra per un’ostruzione, trovarono un enorme grumo di grasso di 15 tonnellate. Per rimuoverlo ci sono voluti 3 giorni di lavoro.
8. Nelle fogne c’è anche chi ci abita. Nel 2013 la polizia di Bucarest ha fatto sgomberare un canale fognario divenuto la dimora di 35 ragazzi. Purtroppo non è una storia nuova: da tempo la sorte dei ragazzi di strada romeni è stata denunciata dal clown francese Miloud, che dal ’92 li coinvolge nei suoi spettacoli.
9. Mai sentito parlare del Musée des Egouts? È il museo delle fogne di Parigi, visitato ogni anno da circa 100 mila persone. Si entra (ovviamente) da un tombino, al 93 di quai d’Orsay, e si percorrono circa 500 metri nel sottosuolo, alla scoperta della storia e del funzionamento della rete fognaria.
10. “Oggi mi sento una cacca”. Al museo della Scienza e della tecnica di Tokyo si è tenuta un’interessante mostra sulle toilette dove, calandosi con uno scivolo in un enorme water, si poteva provare l’ebbrezza di un viaggio virtuale nelle fogne. Obbligatorio, però, indossare un casco protettivo... a forma di escremento!
Le fogne borboniche e la melma… di Venezia, scrive il 24 ottobre 2012 Angelo Forgione. Riflessivo sul bidet e colto da un impeto d’orgoglio piemontese, Massimo Gramellini nega che nella Napoli borbonica esistesse una rete fognaria e dice che dappertutto fosse melma. Lo scrittore si è infilato in un vicolo cieco dal quale è uscito scrivendo su Facebook di voler approfondire la lettura della storia dei Borbone ma non rettificando le sue inesattezze sul giornale dove le aveva scritte. Nella foto tratta da una relazione del Centro Speleologico Meridionale si può notare una fogna borbonica in disuso. Certo, la rete fognaria era statica, proprio perché antica; divenne sempre più inadeguata con l’espansione demografica e urbana, non vi è alcun dubbio, e si arrivò al punto di dover mettere mano al sottosuolo di Napoli all’epoca del “Risanamento”, ma accadde 34 anni dopo l’unità d’Italia, non 5 e nemmeno 10. Del resto, come dimostrano i tecnici del Comune di Napoli in una relazione sugli “interventi di razionalizzazione del sistema fognario cittadino” di qualche anno fa, “il mutato assetto degli insediamenti sul territorio richiedeva interventi urgenti sulla rete fognaria cittadina, in parte risalente ad epoca borbonica”. D’altronde, quando due settimane fa Napoli si allagò per il primo temporale autunnale, tutti i quotidiani si affrettarono a scrivere che “Napoli è dotata di un impianto fognario che risale all’epoca dei Borbone…”. La melma a Napoli? Wolfgang Goethe raccontò nel Viaggio in Italia del 1787 la pulizia delle strade della città dovuta anche ad un formidabile riciclaggio degli alimenti in eccesso che si attuava tra la città e le campagne tutt’intorno, un’operosità che faceva persino in modo che, nonostante girassero numerose carrozze per le strade della città, lo sterco dei cavalli fosse praticamente inesistente. Lo descrisse così: “E con quanta cura raccattano lo sterco di cavalli e di muli! A malincuore abbandonano le strade quando si fa buio, e i ricchi che a mezzanotte escono dall’Opera certo non pensano che già prima dello spuntar dell’alba qualcuno si metterà a inseguire diligentemente le tracce dei loro cavalli”. A Napoli, in pratica, si faceva una specie di “compost” ante litteram. Una pulizia che lo scrittore tedesco (tedesco!) reputò superiore agli altri posti visitati: Trento, Verona, Vicenza, Padova, Venezia, Ferrara, Bologna, Firenze, Perugia, Roma, e poi le città siciliane. E vide pure la melma, si, proprio quella buttata da Gramellini su Napoli, ma non a Napoli bensì a Venezia, che trovò sporchissima. Per la precisione la definì “melma corrosiva” lungo le strade. Inutile far notare che il viaggio in Italia del grande letterato tedesco non passò per Torino. Piuttosto bisognerebbe domandarsi perchè la città pulita del Sette-Ottocento sia divenuta sporca nel Novecento.
Referendum per l’autonomia: pensavamo di essercene liberati, invece ritorna la fiera delle identità, scrive Francescomaria Tedesco il 23 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Pensavamo di esserci liberati della farsa in costume delle identità, di esserci finalmente tolti la zavorra del particolarismo linguistico, culturale e perfino etnico. Lo pensavamo dopo le vicende giudiziarie della Lega Nord, ma anche dopo la svolta “nazionale” di Salvinie di quel partito che aveva smesso di gridare “prima il Nord” (certo, ahimè Salvini si è messo a gridare “prima gli italiani”, non è che sia meglio…). Ma soprattutto pensavamo di esserci liberati di quei bislacchi progetti dopo decenni di studi in cui la linguistica, l’antropologia, l’etnologia, ci avevano detto e ripetuto che le identità sono porose, osmotiche, comunicanti, che le lingue sono vive, e che rintracciare e isolare i singoli “contributi” alla costruzione delle culture è un’opera non solo e non tanto pericolosa (poiché, come dice il poeta, i frutti puri impazziscono), ma inutile. Avevamo letto le Comunità immaginate di Anderson e ci eravamo fatti un’idea sul ruolo del capitalismo-a-stampa nella costruzione delle identità, avevamo compulsato il celeberrimo volume curato da Hobsbawm e Ranger sull’Invenzione della tradizione, che iniziava proprio così: “Le ‘tradizioni’ che ci appaiono, o si pretendono, antiche hanno spesso un’origine piuttosto recente, e talvolta sono inventate di sana pianta”. Eravamo anche riusciti a elaborare il fatto che l’invenzione delle identità e delle tradizioni aveva avuto una funzione “ideologica”, e che dunque esse non necessariamente andavano scartate come fanfole e carnevalate. In fondo anche l’identità nazionale è un’invenzione, ci eravamo convinti a ragione. E avevamo però detto, come ha scritto Alain Touraine, che “è perché ci opponiamo risolutamente agli Stati comunitari che rimaniamo attaccati agli Stati nazionali. Poiché in essi delle popolazioni e culture differenti si mischiano per costituire una civiltà”.
Lo Stato nazionale come comunità di diritto e non di destino, in cui non siamo consanguinei per via di una madre comune, ma fratelli posticci, affratellati da un patto (che si chiama Costituzione). Certo, si dirà: questo progetto è nato male, traballante, violento, tranchant, e oggi più che mai è fragile, stretto tra le spinte esterne, la tensione omologante delle istituzioni sovranazionali e internazionali, e le spinte interne. E non è un caso che la rimessa in discussione di quel progetto avvenga nel momento della gravissimacrisi economica di questo decennio, poiché essa spinge verso la rivendicazione del “nostro” suolo, della “nostra” lingua, della “nostra” cultura e – perché no? – dei “nostri” soldi. Così, quello che non era riuscito alla Lega è riuscito alla crisi: rimettere di nuovo in discussione le nostre acquisizioni, minare l’idea della creolizzazione delle culture, rilanciare il progetto di una cristallizzazione e musealizzazione (e ri-politicizzazione) delle identità e delle lingue attraverso fantasiose grammatiche e discutibili alberi genealogici. Con l’esito che dalla critica dello Stato nazionale promanino, attraverso un paradossale avvitamento, progetti di creazione di piccoli Stati nazionali che procedano attraverso gli stessi schemi di quelli: nazione, lingua, cultura, perfino etnia (o addirittura “razza”). Gli stessi schemi, ma senza l’apparato critico che ne è seguito, senza la rielaborazione che ha permesso di mettere all’opera la fictio e passare dall’identità nazionale alla comunità di diritto attraverso la finzione giuridica della cittadinanza. E se oggi dallo Stato nazionale siamo potuti approdare allo Stato tout court, le piccole patrie propongono il ritorno a piccoli staterelli nazionali, comunità di destino. Ma lo Stato nazionale è una fratria inventata, ed è tramite essa che possiamo costruire il vivere insieme. Questo non vuol dire dismettere ogni rivendicazione di autonomia, ma smontare il dispositivo che le sottende quasi tutte. Perché ad oggi non si vedono all’opera rivendicazioni autonomiste o indipendentiste che usino il lessico della comunità di diritto, che segnalino l’esigenza di comunità interconnesse a livello europeo con altre comunità, municipalità, esperimenti di autogoverno. Comunità aperte agli altri, all’integrazione. Ciò a cui si assiste è la recrudescenza delle classiche rivendicazioni nazionali in scala ridotta. E certo, i lombardi e i veneti rivendicano i loro soldi (che poi occorrerebbe capire come calcolare il residuo fiscale, cosa da far tremare le vene e i polsi), ma gratta gratta al fondo c’è l’idea di un tufo profondo, un’identità particolaristica, un “noi” 2.0.
Referendum Lombardia Veneto, a ribellarsi dovrebbero essere le persone del Sud, scrive Alessandro Cannavale il 22 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Oggi, in Italia, una parte di una parte del Paese chiede di tenere per sé più risorse perché in questa fase storica il suo reddito pro capite è più alto e, per mantenere standard di servizi più alti per i propri cittadini, decide bene di spendere circa 70 milioni di euro per un referendum dall’orizzonte quanto meno fumoso. Sempre positivo il ricorso alle urne, ma il fine non giustifica i mezzi, in alcuni casi, dato che le Regioni hanno ben altri strumenti, senz’altro più economici, per invocare più autonomia. È il caso del referendum Lombardo-Veneto, basato sull’idea che troppo alto sarebbe il residuo fiscale delle regioni coinvolte: intorno ai 50 miliardi. In realtà, secondo Paolo Balduzzi, l’ammontare vero di quel residuo, sarebbe circa la metà. Mi pare sempre più frequente il ricorso all’immagine comoda e rassicurante dello steccato, a livello globale. Da Donald Trump, che sostiene: “A Nation Without Borders Is Not A Nation” ai referendum autonomisti, fino alla Brexit. Ovunque, la paura dell’uomo occidentale lo sta portando a erigere muri di protezione: contro i migranti, contro il nemico. Aggiungerei, contro i meridionali. Eppure, in Italia vige ancora una Costituzione. Questa Costituzione sostiene all’art. 117 lett.m che occorre provvedere alla “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. Parole che rischiano di rimanere una dichiarazione formale e vuota, se tutti i cittadini italiani non vedono riconosciuti eguali diritti: la Costituzione rischia sempre più di esser violata nella sostanza e tutto ciò che conduce verso una simile aberrazione è in conflitto con quel dettato, violandone i principi fondamentali. L’esperienza quotidiana insegna, purtroppo, che in molte regioni (meridionali) il livello dei servizi offerti ai cittadini è sempre più basso. Trasporti, sanità, asili, scuola, università. Le migliaia di studenti che emigrano nelle università del Nord e l’emorragia di capitale umano hanno fatto sì che in dieci anni il Sud abbia perso 3,3 miliardi di euro di investimento in capitale umano e 2,5 miliardi di tasse, che emigrano verso le università del Nord. Infatti, il Sud ha perso 716 mila persone, in questi anni, di cui circa 198 mila laureati, solo negli ultimi anni. Queste ingenti somme il residuo fiscale, evidentemente, non le conta. Come il quotidiano acquisto di prodotti e servizi. E che dire della spesa drammatica dei migranti della sanità che, per avere cure migliori, si trasferiscono quotidianamente al Nord con un triste indotto collegato? Chi solletichi le paure e gli egoismi della gente, sa perfettamente che un Pil più alto oggi è il frutto di spese sostenute da tutto il Paese per arricchire aree più sviluppate e farne “locomotori” che avrebbero dovuto trainare tutto il paese. E invece non trainano nulla a quanto pare. Bisognerebbe metter mano alla gravissima discrepanza tra trasferimenti alle Regioni e livelli dei servizi, mettere a nudo l’inettitudine di chi i fondi trasferiti non riesce a metterli a frutto, invece di aggiungere confusione demagogica. Un bell’articolo di Francesco Sabatino su Lettera43 ricorda che “il divario tra Sud e Nord nelle risorse pubbliche va ben oltre il residuo fiscale, anche tenendo conto che i centro settentrionali possono contare sul supporto di un sistema semipubblico come quello delle fondazioni (patrimonio totale di 40 miliardi quasi interamente collocato sopra Roma) o che gli incentivi a fondo perduto sono stati sostituiti da strumenti legati all’acquisto di macchinari e servizi (la nuova Sabatini o i superammortamenti di Industria 4.0) che premiano soprattutto le aree più produttive”. Si fa sempre così, in Italia: anziché metter mano ai problemi si elucubra e si divide nel segno della demagogia. Dove vanno a finire i soldi trasferiti? Perché non si chiarisce questo punto? Perché non si mette il cittadino nelle condizioni di sapere la ragione di questi buchi e di queste disfunzioni? Dovrebbe esser la gente del Sud a ribellarsi, di fronte a tanto spreco di risorse. Infine, le interdipendenze dell’economia globale rendono ridicolo ogni sussulto neonazionalista. Il concetto di confine è superato e scandaloso e rischia di mettere in discussione il più nobile progetto europeo che, pur con gravi defaillance, è riuscito ad avvicinare le popolazioni del nostro continente come mai nella storia. Non confondiamo l’oro con le patacche. Ringrazio Natale Cuccurese per le gradevoli conversazioni sul Sud.
Referendum per l’autonomia di Lombardia e Veneto, le scomode verità da non dire, scrive Lavoce.info il 14 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Il 22 ottobre si tengono in Lombardia e Veneto due referendum per “ottenere maggiore autonomia”. Circolano molte inesattezze sui cosiddetti residui fiscali e sulle materie su cui si chiede la competenza. Forse un negoziato avrebbe prodotto più risultati. Di Paolo Balduzzi (Fonte: lavoce.info).
La questione dei residui. Si avvicina la data del referendum sull’autonomia in Veneto e Lombardia. L’obiettivo dei proponenti, dando per scontata una vittoria del “sì”, è quello di ottenere una partecipazione al voto molto elevata. Nel tentativo di suscitare tanto l’interesse di chi è favorevole quanto lo sdegno di chi è contrario, si assiste perciò all’ennesima campagna elettorale farcita di esagerazioni e inesattezze. L’inesattezza maggiore ruota interno ai cosiddetti residui fiscali. Si tratta della differenza tra entrate e spese della pubblica amministrazione riferite a ogni singola regione. Il calcolo dei residui è molto critico, soprattutto per la componente di spesa regionalizzata. Come considerare infatti la spesa per la difesa nazionale, concentrata prevalentemente nelle sole regioni di confine? O la spesa per tutti gli organi costituzionali, localizzata esclusivamente nel Lazio? È evidente che quelle spese devono essere ricollocate anche rispetto alle altre regioni, utilizzando un criterio discrezionale (per esempio, la dimensione demografica). Sull’entità dei residui esistono dunque stime molto diverse. Per esempio, Eupolis Lombardia ha pubblicato uno studio in cui confronta le proprie stime (47 miliardi di euro come media nel triennio 2009-2011 per la Lombardia) con quelle di altre ricerche, alcune più ottimistiche e altre meno. Curiosamente, Eupolis viene citata dai proponenti come fonte di un’altra cifra (57 miliardi) la cui precisa origine, tuttavia, rimane ignota. In entrambi i casi si tratta di numeri abbastanza irrealistici: contributi di maggiore rigore scientifico li hanno stimati in circa 30 miliardi. Ma fossero pure47 o 57 miliardi, il punto è che i residui vengono originati per differenza. È ovvio che se lo Stato concederà autonomia a una regione su una quota, a seconda della dimensione delle competenze trasferite, smetterà di spenderli esso stesso sotto forma di spesa regionalizzata: il residuo fiscale rimarrà dunque identico.
Anche sulle materie trasferite si sono sentite molte inesattezze. Innanzitutto, le regioni possono chiedere di ottenere competenza esclusiva in tutte le materie a competenza concorrente (art. 117 terzo comma, Costituzione). Possono anche chiedere competenza esclusiva su alcune materie che la Costituzione attribuisce in maniera esclusiva allo Stato: organizzazione della giustizia di pace; norme generali sull’istruzione; tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. Quantitativamente, la più rilevante tra tutte è sicuramente l’istruzione, escludendo la sanità che già però occupa in media l’80 per cento dei bilanci regionali.
Cosa farà il governo? Cosa succederà poi il giorno successivo alla chiusura delle urne? Innanzitutto, la regione avvierà l’iter necessario e previsto dall’articolo 116, vale a dire aprirà ufficialmente il procedimento di richiesta e sentirà gli enti locali. In seguito, avvierà la trattativa con lo Stato (il governo). Ora, se la regione avesse a disposizione un criterio tecnico per sostenere la propria richiesta (ad esempio, l’equilibrio di spese e entrate, come era previsto dall’articolo 116 della riforma costituzionale bocciata nel 2016), il governo avrebbe poche armi a disposizione per dire di no o per non procedere (come avvenuto in tutti i tentativi precedenti). Sulla base del semplice risultato di un referendum, invece, il governo avrà certamente più libertà e discrezionalità nel temporeggiare e nell’argomentare contro la sua valenza politica. Infatti, c’è un pericolo sottovalutato dai proponenti del referendum: che il governo decida di non dare alcun credito alla consultazione per mandare un segnale alle altre regioni. In altri termini, se domani il governo concede maggiore autonomia a Lombardia e Veneto sulla base di un referendum, è lecito aspettarsi che dopodomani anche le altre regioni a statuto ordinario organizzino un’analoga consultazione. Ma è difficile credere che il governo sia disposto a concedere maggiore autonomia a tutte le regioni italiane. Come scoraggiare quindi referendum di questo tipo? Dando poco peso a quelli già svolti. Ciò non vuol dire che Veneto e Lombardia non otterranno nulla: ma quello che otterranno, se lo otterranno, arriverà sulla base di criteri tecnici e non politici. L’articolo 116 contiene un richiamo ai principi dell’articolo 119. Tra questi, vi è anche quello organizzativo di garantire l’equilibrio tra entrate e spese a seguito della concessione di maggiore autonomia. Certo, è una cosa ben diversa dal criterio selettivo che è rimasto escluso dall’articolo 116; è comunque con molta probabilità l’unico che sarà fatto valere. Ci si sarebbe potuti arrivare direttamente per via negoziale (come sta cercando di fare la regione Emilia-Romagna), senza il rischio di un flop referendario che – quello sì, invece – metterà la parola fine alle velleità di (maggiore) autonomia delle regioni per i prossimi dieci o venti anni. Con buona pace di chi sostiene un referendum a soli fini meramente ed egoisticamente elettorali.
Se già son razzisti tra loro…
Referendum, la rivincita del «Leon» e i malumori veneti nei decenni di Lega a dominio lombardo. Da anni e anni i leghisti veneti soffrivano verso gli amici lombardi di una sorta di sudditanza venuta meno, probabilmente, solo ieri, scrive Gian Antonio Stella il 23 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera". «Né con Roma, né con Milano!», diceva uno striscione alla «Festa dei Veneti» indetta una decina di anni fa dalla associazione «Raixe Venete», cioè radici venete, nata «co l’intento de tegner viva la identità…». Va da sé che l’altra sera, davanti alla schiacciante superiorità percentuale dei veneti sui lombardi al referendum per l’autonomia, non c’è leghista da Peschiera a Bibione che non abbia fatto l’occhiolino al vicino: «Tò!». Per carità, Roberto Maroni si è precipitato a precisare subito che «non c’era nessuna gara con Luca Zaia». E il governatore veneto è andato più in là dicendo che non si è trattato d’una vittoria del «Leon che magna el teròn» e meno ancora del Carroccio: «Questa elezione dimostra che non esiste il “partito dell’autonomia”, esistono i veneti che si esprimono a favore di questo concetto». Scelta che fa dire a Bepi Covre, a lungo parlamentare leghista poi espulso («solo dai trevisani») che «il giovanotto è cresciuto. Molto. Ha imparato a muoversi con intelligenza. Per questo deve restare qua. Guai se dovesse ascoltare certe sirene romane. Col referendum abbiamo fatto lo zaino con la borraccia, i panini, la corda e tutto quel che serve per scalare la montagna. La scalata, però, deve ancora iniziare. E sarà durissima».
«In difesa della lingua, dei costumi e delle tradizioni veneta». Certo è che da anni e anni i leghisti veneti soffrivano verso gli amici lombardi di una sorta di sudditanza venuta meno, probabilmente, solo ieri. Sudditanza sfociata non di rado in malumori sotterranei e aperte contestazioni. Basti ricordare l’«era berlusconiana» della legislatura trionfalmente iniziata nel 2001. Lombardo era il segretario del partito e ministro per le riforme Umberto Bossi (come il suo successore Roberto Calderoli), lombardo il ministro della giustizia Roberto Castelli, lombardo il ministro del lavoro Roberto Maroni, lombardo il capogruppo alla Camera Andrea Gibelli, lombardo il primo e il terzo dei capigruppi al Senato Castelli e Pirovano, lombardi tre su quattro degli europarlamentari a Bruxelles, lombardo il direttore del quotidiano la Padania, lombardo il direttore di Radio Padania Libera e via così. Per non dire dei segretari: il «quasi a vita» Umberto Bossi, Roberto Maroni e Matteo Salvini. Tutti e tre, ovvio, lombardi. Senza che mai sia stata manco ipotizzata una candidatura padovana, veronese o trevisana. Era scontato: il potere era lì, tra Milano e Varese. Eppure i primi a tirar su la testa autonomista erano stati i veneti. Racconterà mistico Franco Rocchetta: «La prima volta che dissi che volevo fondare la Liga fu il 18 agosto 1968, nella chiesa di Santa Maria di Danzica». Conosceva il polacco? «Neanche una parola». E allora? «Come cominciai a parlare le parole presero a sgorgarmi naturalmente...». Polacchi a parte, i pionieri veneti decisero di dar vita nel lontano dicembre ’79 a un partito che si trattenesse «in difesa della lingua, dei costumi, delle tradizioni venete». Fondato ufficialmente l’anno dopo, in uno studio notarile di Padova.
Lo strappo di Comencini. Primi a metter su la Liga Veneta, primi ad eleggere nel 1983 un deputato e un senatore presto espulsi da Rocchetta («il padre della madre di tutte le leghe») e dalla moglie Marilena Marin, primi a raccogliere nell’87 quasi 300.000 voti mancando il quorum per un soffio, primi ad allearsi con Umberto Bossi e la Lega Lombarda nata nel frattempo per fondare nell’89, dal notaio, la Lega Nord. Dalla quale sarebbero stati poi espulsi lasciando agli archivi parole infuocate: «Riconosco le mie colpe: pensare con la mia testa ed esser coerente coi miei ideali legittimati dal voto popolare in quel Veneto che si ostina a non essere colonia politica dei pretoriani della “Legaboss”». Di più: «Bossi è ormai come Hitler nel bunker con Erminio Boso al posto di Eva Braun. Certo, Erminio non ha la stessa femminilità ma ama il Capo con la stessa “vis amandi”». Arsenico. Fatto sta che per anni e anni la «Liga» è rimasta fedele al Senatùr, avendone in cambio la parata annuale veneziana in riva degli Schiavoni, lo spostamento del sedicente Parlamento della Padania nella villa vicentina «La Favorita» a Sarego e poco più. Inquieta ma fedele. Nonostante certe battute bossiane di rivendicazione della primogenitura: «L’effetto Lega è ormai uscito definitivamente dalla Lombardia entrando in Piemonte, in Liguria e in Emilia Romagna, con un solo anello debole: il Veneto». Fedele ma inquieta, tanto da spingere nel ’98 allo strappo l’allora segretario veneto Fabrizio Comencini: «Avevamo votato con Giancarlo Galan una risoluzione per l’autonomia del Veneto. Fu letta come una rivolta venetista. Uscì sulla Padania un articolo firmato “Il Capitano” che diceva peste e corna, sostenendo che io non avevo capito che era una manovra di Berlusconi per rompere la Lega». Fu espulso insieme con quattro parlamentari e sette consiglieri regionali.
«Più Liga e meno Lega». Un malessere carsico, quello «lighista». Un malessere che per tanto tempo ogni tanto si inabissava e tornava a galla. Come quando una dozzina di anni fa saltò la mosca al naso perfino a Giancarlo Gentilini, l’ex sindaco-sceriffo di Treviso, che finì per sbottare contro i «lumbard» dopo l’ennesima «prepotenza» rovesciando su di loro l’accusa più rovente: «La Lega veneta è sempre forte, forse troppo, e può darsi che questa forza e questo consenso popolare abbiano messo sul chi va là qualche esponente romano della Lega Nord». Peggio: «C’è sempre qualcuno, in questo ambiente, che è pronto a piantarti un coltello nella schiena non appena volti le spalle. E io penso che qualche responsabile della Lega a Roma abbia azionato il coltello». «Più Liga e meno Lega», sarebbe diventato lo slogan di tanti venetisti insofferenti. E questo, come gli riconoscono anche gli avversari, è forse il vero miracolo compiuto da Luca Zaia forzando sul referendum. Essere riuscito a tenere insieme, al voto di domenica, senza sventolare troppo la bandiera del partito, tante anime diverse. I fedelissimi e gli scontenti, i tiepidi e gli entusiasti e perfino un po’ di espulsi che comunque sono riusciti a ritrovarsi. Oltre a tantissimi che, come dicono i numeri, non sono mai stati leghisti e magari mai lo saranno. Gli sarebbe andata bene, dirà lui, anche se l’affluenza fosse stata altrettanto massiccia in Lombardia. Il distacco sui lombardi, però, non è solo «lo sfizio» supplementare. C’è di più. Molto di più...
Lombardia e Veneto ci guadagnano di più con il sì al referendum? I vincitori rilanciano l’idea di trattenere più soldi delle tasse, ma più autonomia significa meno spesa dello Stato. La somma resterebbe la stessa, scrive Luca Zorloni il 23 ottobre 2017 su "Wired". Le urne dei referendum sull’autonomia indetti da Lombardia e Veneto si sono chiuse senza sorprese, almeno sotto il profilo politico. La vittoria del sì con percentuali bulgare era nell’aria. Le due regioni sono a guida leghista e di quell’ala della Lega che ancora sostiene le politiche secessioniste e federaliste che hanno ispirato la fondazione del movimento. C’è stata una convergenza di altri partiti sul sì, come il Pd. E più in generale nelle province di Lombardia e Veneto l’argomentazione del “Nord vessato da Roma per coprire le spese degli altri” ha gioco facile. Lo stesso quesito è risultato a molti osservatori quasi scontato nella risposta. Tuttavia l’esito della consultazione, costata 14 milioni di euro in Veneto e 50 milioni in Lombardia, di cui circa la metà è servita a comprare i tablet per votare, che non hanno funzionato a dovere, avrà riflessi diretti sulle tasche dei contribuenti delle due regioni? È probabile che gli elettori restino delusi.
Le campagne per il sì sono state incardinate sul principio del residuo fiscale: a veneti e lombardi lo Stato centrale restituisce meno di ciò che versano. L’autonomia, nei loro piani, dovrebbe servire a trattenere più tasse. “È ovvio che se lo stato concederà autonomia a una regione su una quota, a seconda della dimensione delle competenze trasferite, smetterà di spenderli esso stesso sotto forma di spesa regionalizzata: il residuo fiscale rimarrà dunque identico”, è la conclusione a cui giunge su lavoce.info l’accademico Paolo Balduzzi. Balduzzi è docente all’università Cattolica di Milano ed è stato nella commissione per la revisione della spesa pubblica, guidata da Carlo Cottarelli. Contesta i numeri sui residui fiscali della Lombardia, stimati dall’istituto statistico regionale Eupolis per il 2009-2012 in 47 miliardi di euro, diventati poi 57 miliardi “la cui precisa origine, tuttavia, rimane ignota”. “In entrambi i casi si tratta di numeri abbastanza irrealistici: contributi di maggiore rigore scientifico li hanno stimati in circa 30 miliardi”, aggiunge. Lo stesso studio di Eupolis evidenzia che le altre regioni con un alto residuo fiscale sono, nell’ordine, Emilia Romagna, Lazio e Veneto, che oscillano tra i 13 miliardi e gli 11 miliardi.
In un’analisi comparata delle entrate fiscali e delle spese delle Regioni la Banca d’Italia, gli autori, Alessandra Staderini ed Emilio Vadalà, osservano che “i residui fiscali finiscono spesso, impropriamente, per essere presi come indicatori del finanziamento da parte del Nord delle inefficienze e degli sprechi che caratterizzano le finanze pubbliche nel Mezzogiorno”. Ma, spiegano, “dalla nostra analisi è emerso come il problema delle finanze pubbliche del Mezzogiorno non vada ricercato nell’esistenza di residui positivi, perché, come si è mostrato, a parità di dimensioni dell’operatore pubblico e dato il divario di sviluppo economico tra le due macro aree del paese, essi non possono cambiare di segno e non possono comunque scendere sotto una soglia minima”. Al contrario, aggiungono, “il problema delle finanze pubbliche meridionali risiede nella qualità dei servizi ricevuti dai cittadini, nel fatto cioè che essa sia in media nettamente inferiore al Sud, nonostante un livello di spesa pro capite analogo”.
I due referendum, quindi, difficilmente potranno confermare le promesse dei governatori di Lombardia e Veneto, Roberto Maroni e Luca Zaia, di trattenere più soldi nelle loro casse. Con questo mandato, più forte per Zaia perché ha posto un quorum del 50%+1 e l’ha superato, i due politici potranno negoziare spazi di manovra nelle materie che il titolo V della Costituzione assegna alla legislazione “concorrente” di Stato e Regioni. Temi come il commercio con l’estero, il lavoro, l’istruzione e la formazione professionale, la ricerca scientifica, le infrastrutture di trasporto e di comunicazione, energia e previdenza, casse di risparmio ed enti di credito fondiario. Le Regioni potranno chiedere di gestire con maggiore autonomia settori che influenzano la vita economica dei loro territori, che le possono rendere più competitivi all’estero e creare maggiore ricchezza per le famiglie. Nel 2015 la Lombardia ha generato un pil di 357.200 milioni di euro, pari a 36.600 euro a testa, e il Veneto di 151.634 milioni di euro, di 31.600 euro pro capite. La somma è quasi un terzo del prodotto interno lordo italiano e il valore pro capite è più elevato dei 27.800 euro della media nazionale. Il governo ha tutto l’interesse a sminare una campagna politica che potrebbe generare reazioni a catena e quindi a concedere qualche risultato per appagare il fronte del sì senza sollevare una corsa all’autonomia delle altre regioni. Sarà un lavoro di lima. Ma il residuo fiscale resterà fuori dai giochi. I primi a non guadagnarci sarebbero gli stessi lombardi e veneti.
Referendum sull'autonomia, i numeri del divario Nord-Sud. Rispetto alle tasse pagate, nelle due Regioni non tornano complessivamente 8.400 euro per cittadino. Dal crollo degli investimenti nel Mezzogiorno alla fuga di braccia e cervelli: la situazione ai raggi X, scrive Francesco Pacifico il 21 ottobre 2017 su "Lettera 43". Prima della crisi ogni cittadino della Lombardia, rispetto alle tasse pagate, si vedeva restituire quasi 6 mila euro in meno rispetto a quanto aveva versato. Il Veneto ha visto scendere da quasi 3 mila euro a poco meno di 2.400 la differenza. Contemporaneamente la Campania, che storicamente ottiene in trasferimenti più di quanto versa in tributi, ha perso quasi 1.000 euro procapite, la Sicilia 375. Sulla Voce.info gli economisti Paolo Di Caro e Maria Teresa Monteduro hanno chiarito quanto valgono i residui fiscali nelle Regioni che sono andate al referendum. Non a caso il cavallo di battaglia dei governatori Roberto Maroni e Luca Zaia, che in nome della perequazione e con questo voto chiedono una non meglio specificata autonomia, che potrebbe tradursi in minori trasferimenti verso il centro, mantenendo più risorse sul proprio territorio. Eppure questo dato rischia di creare confusione, perché il divario tra Sud e Nord nelle risorse pubbliche va ben oltre il residuo fiscale, anche tenendo conto che i centri settentrionali possono contare sul supporto di un sistema semipubblico come quello delle fondazioni (patrimonio totale di 40 miliardi quasi interamente collocato sopra Roma) o che gli incentivi a fondo perduto sono stati sostituiti da strumenti legati all’acquisto di macchinari e servizi (la nuova Sabatini o i superammortamenti di Industria 4.0) che premiano soprattutto le aree più produttive.
CROLLO DEGLI INVESTIMENTI AL SUD. Tra il 2015 e il 2016 il Sud è cresciuto più del Nord perché la spesa per investimenti (+2%) ha guardato soprattutto in direzione della parte più debole del Paese. Un’eccezione, perché non sempre le cose sono andate così. Soltanto nel 2014 la spesa pubblica in percentuale del Pil in conto capitale era calata nel Mezzogiorno del 2,1% contro lo 0,8 del Centro-Nord, con un effetto depressivo sia sui servizi sia sui consumi. Non a caso lo Svimez ha fatto notare che soltanto negli anni della crisi, «a livello settoriale, c'è stato un crollo epocale al Sud degli investimenti dell'industria in senso stretto, ridottisi dal 2008 al 2014 addirittura del 59,3%, oltre tre volte in più rispetto al già pesante calo del Centro-Nord (-17,1%)».
CERVELLI E BRACCIA IN FUGA. Prima del riequilibrio avuto con i nuovi parametri di valutazione della ricerca, l’università meridionale si è vista tagliare le risorse di un valore superiore al 15%. In base alla qualità dei servizi offerti e alle altissime aliquote legate al dissesto dei conti della sanità, i cittadini meridionali finiscono per spendere di più proprio attraverso strumenti di rientro come i ticket. Ed è anche per questo che nel Mezzogiorno, come avverte la stessa Svimez, circa 10 abitanti su 100 vivono in povertà assoluta, contro i sei del Centro Nord. Senza contare che negli ultimi cinque anni sono emigrati dall’area più debole del Paese 1,7 milioni di persone a fronte di 1 milione di rientri: la perdita secca è stata di 716 unità, il 72,4% under 34 e 198 mila i laureati. Cervelli e braccia che per lo più stanno arricchendo il Nord con il loro lavoro e le loro competenze.
LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.
In Regione Lombardia non tornano 54 miliardi di tasse versate. (Lnews - Milano 06 settembre 2017). "La Lombardia è la regione che versa più tasse allo Stato ricevendo, in cambio, meno trasferimenti in termini di spesa pubblica. In questi anni, infatti, il residuo fiscale della Lombardia ha raggiunto la cifra record di 54 miliardi (fonte: Eupolis Lombardia). Si tratta del valore in assoluto più alto tra tutte le regioni italiane. Un'immensità anche a livello europeo se si pensa che due regioni tra le più industrializzate d'Europa come la Catalogna e la Baviera hanno rispettivamente un residuo fiscale di 8 miliardi e 1,5 miliardi". Lo scrive una Nota pubblicata oggi dal sito lombardiaspeciale.regione.lombardia.it.
RESIDUO FISCALE - "Con il termine residuo fiscale - spiega la Nota - s'intende la differenza tra quanto un territorio verso allo Stato sotto forma di imposte e quanto riceve sotto forma di spesa pubblica. Se il residuo fiscale abbia segno positivo, il territorio versa più di quanto riceve; se c'è un residuo negativo il territorio riceve più di quanto versa. Secondo James McGill Buchanan Jr, premio Nobel per l'Economia nel 1986, cui si attribuisce la paternità della definizione, il trattamento che lo Stato riserva ai cittadini può considerarsi equo se determina residui fiscali minimi in capo a individui, a prescindere dal territorio nel quale risiedono. Differenze marcate denotano una violazione dei principi di equità basilari".
I DATI PER REGIONE - "Dopo la Lombardia - appunta il teso - si colloca l'Emilia Romagna, con un residuo fiscale di 18.861 milioni di euro. Seguono Veneto (15.458 mln), Piemonte (8.606 mln), Toscana (5.422 mln), Lazio (3.775 mln), Marche (2.027 mln), Bolzano (1.100 mln), Liguria (610 mln), Friuli Venezia Giulia (526 mln), Valle d'Aosta (65 mln). In coda alla classifica: Umbria (-82 mln), Molise (-614 mln), Trento (-249 mln), Basilicata (-1.261 mln), Abruzzo (-1.301 mln), Sardegna (-5.262 mln), Campania (-5.705 mln), Calabria (-5.871 mln), Puglia (-6.419 mln) e Sicilia (-10.617 mln)".
IL DATO PRO CAPITE - Anche per quanto riguarda il residuo fiscale pro capite, la Lombardia presenta i valori più alti d'Italia, con 5.217 euro. Seguono Emilia Romagna (4.239), Veneto (3.141), Provincia Autonoma di Bolzano (2.117), Piemonte (1.950), Toscana (1.447), Marche (1.310), Lazio (641), Valle d'Aosta (508), Friuli Venezia Giulia (430), Liguria (386), Umbria (-92), Provincia Autonoma di Trento (-464), Campania (-974), Abruzzo (-979), Puglia (-1.572), Molise (-1.963), Sicilia (-2.089), Basilicata (-2.192), Calabria (-2.975) e Sardegna (-3.169)", spiega la Nota pubblicata.
Da sempre i giornali e le tv nordiste, spalleggiate dagli organi d’informazione stataliste, ce la menano sul fatto che ci sia un grande disavanzo finanziario tra le regioni del centro-nord ricco e le regioni povere del sud Italia. I conti, fatti in modo bizzarro, rilevano che il centro-nord paga molto di più di quanto riceva e che la differenza vada in solidarietà a quelle regioni che a loro volta sono votate allo spreco ed al ladrocinio. A fronte di ciò, i settentrionali, hanno deciso che è meglio tagliare quel cordone ombelicale e lasciar cadere quella zavorra che è il sud Italia. Ed il referendum secessionista è stato organizzato per questo, facendo leva sull’ignoranza della gente.
Ora facciamo degli esempi scolastici che si studiano negli istituti tecnici commerciali, per dimostrare di quanta malafede ed ignoranza sia propagandato questo referendum.
Una partita iva, persona o società, registra in contabilità la gestione e versa tasse, imposte e contributi nel luogo della sede legale presso cui redige i suoi bilanci semplici o consolidati (gruppi d’impreso con un capogruppo).
Il Centro-Nord Italia, con la Lombardia ed il Lazio in particolare, è territorio privilegiato per eleggere sede legale d’azienda, per la vicinanza con i mercati europei. Dove c’è sede legale vi è iscrizione al registro generale dell’imprese. Ergo: sede di versamento fiscale che alimenta quei numeri, oggetto di nota della Regione Lombardia. Quei dati, però, spesso, nascondono la ricchezza prodotta al sud (stabilimenti, appalti, manodopera, ecc.), ma contabilizzata al nord.
E’ risaputo che nel centro-nord Italia hanno stabilito le loro sedi legali le più grandi aziende economiche-finanziarie italiane e lì pagano le tasse. Il Sud Italia è di fatto una colonia di mercato. Di là si produce merce e lavoro (e disinformazione), di qua si consuma e si alimenta il mercato.
Il residuo fiscale era tollerato e l’assistenzialismo era alimentato, affinchè il mercato meridionale non cedesse e le aziende del nord potessero continuare a produrre beni e servizi e ad alimentare ricchezza nell’Italia settentrionale, condannando il sud ad un perenne sottosviluppo e terra di emigrazione.
Oggi lo Stato centralista assorbe tutta la ricchezza nazionale prodotta e l'assistenzialismo si è bloccato, ma il sud Italia continua ad essere un mercato da monopolizzare da parte delle aziende del Centro-Nord Italia. Una eventuale secessione a sfondo razzista-economica votata dai nordisti sarebbe un toccasana per i meridionali, che imporrebbero diversi rapporti commerciali, imponendo dei dazi od altre forme di limitazioni alle merci del nord. Il maggior costo di beni e servizi del nord Italia favorirebbe la nascita nel sud Italia di aziende, favorite economicamente dal minor costo della mano d’opera del posto e delle spese di trasporto e logistica locale. Inoltre quello che produce il centro nord è acquisibile su altri mercati. Quello che si produce al Sud Italia è peculiare e da quel mercato, per forza, bisogna attingere e comprare...
Quindi, viva il referendum…
Dal Piemonte alla Basilicata, tutti vogliono l'autonomia: "Inizia l'era del neoregionalismo". Dopo il voto in Lombardia e Veneto, sono moltissime le regioni a volersi accodare. Al nord come al sud. Salvini: «Proporremo referendum ovunque». Ma c'è anche chi non ci sta. Il governatore della Toscana Rossi: «È solo un tentativo di mascherare i veri problemi», scrive Federico Marconi il 23 ottobre 2017 su “L’Espresso”. Adesso tutti vogliono l’autonomia. L’esito del referendum in Lombardia e Veneto, che si aggiunge al protocollo d’intesa firmato dal governatore dell’Emilia Romagna Stefano Bonacini con il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, ha aperto il dibattito in moltissime regioni italiane. Poco dopo la chiusura delle urne, Roberto Maroni aveva annunciato «l’inizio di una nuova stagione del neoregionalismo». E le reazioni del giorno dopo gli danno ragione. Dalla Puglia alla Toscana, dal Piemonte alla Basilicata, non c’è regione che non voglia ridiscutere con il governo le competenze attribuite dalla Costituzione. «Proporremo a tutte le regioni che lo chiederanno un referendum per l’autonomia» gongola il segretario della Lega Matteo Salvini: a leggere le dichiarazioni di giornata, non saranno pochi i consigli regionali che si tireranno indietro.
La Liguria è in trepidazione: vuole essere tra le prime regioni a seguire Veneto, Lombardia e Emilia. «Siamo pronti sia a celebrare un referendum, sia a trattare a livello parlamentare. C’è voglia di autonomia, di valorizzare le autonomie locali, di maggiori poteri a sindaci e regioni» afferma il governatore ligure Giovanni Toti. Che chiede una riforma ampia degli statuti regionali: «Il governo dovrebbe aprire un dibattito serio e vero con la Conferenza delle Regioni e tutti i governatori, e le forze parlamentari dovrebbero iniziare a scrivere una riforma costituzionale che parta proprio da quella richiesta di maggiore autonomia e maggiori poteri che arriva dai veneti e dai lombardi».
In Piemonte scaldano i motori. «Preso ci sarà un referendum anche qui» afferma il segretario regionale della Lega, Riccardo Molinari. «Abbiamo già una legge pronta, depositata dal Gruppo della Lega in Consiglio regionale, abbiamo costituito un Comitato apolitico che sta lavorando per informare i cittadini sui benefici dell'autonomia» continua Molinari «basta solo la volontà del presidente Chiamparino per partire. Chiediamo, quindi, al presidente di far approvare la nostra proposta di legge in modo da dare voce nel più breve tempo possibile ai cittadini piemontesi oppure di proporne una propria, che se andrà nella direzione di una consultazione popolare in tempi certi avrà il nostro appoggio».
In Campania, il governatore De Luca sembra più cauto. Non parla di referendum, ma si inserisce nella linea di chi chiede riforme. «Se la sfida è quella dell'efficienza, del rigore, della gestione corretta delle risorse, io sono davanti ai nostri amici lombardi e veneti» afferma De Luca. «Per quanto mi riguarda va bene anche un ragionamento sul riparto delle risorse, a condizione però che non si faccia il gioco delle tre carte» continua l’ex sindaco di Salerno «vi sono ambiti nei quali il Sud è fortemente penalizzato, a cominciare da quello della sanità». Porta l’esempio della regione Campania che «viene privata ogni anno di 250 milioni di euro che vengono sottratti ai servizi e ai nostri concittadini perchè considerata la regione più giovane Italia. Questo è un assurdo».
Sempre al Sud, un altro governatore Dem vuole aprire il dibattito su una maggiore autonomia. Ma non attraverso una chiamata alle urne dei cittadini. «Non ho i soldi per fare un referendum. Faremo una cosa più tranquilla, faremo un grande forum regionale nel quale tutti coloro che vorranno discutere di questa ipotesi della autonomia diranno la loro» ha affermato il presidente della Puglia Michele Emiliano. «Noi abbiamo una legge sulla partecipazione molto evoluta ma anche molto economica» continua «spenderemo poche decine di migliaia di euro».
Anche in Basilicata c’è bisogno «di un nuovo patto democratico, di una rinnovata democrazia lucana che parta dall'attuazione dello Statuto, approvato dopo anni di attesa, sino ad un contesto normativo che contempli la nuova legge elettorale, un nuovo assetto delle funzioni dei diversi livelli istituzionali accompagnato da risorse come il fondo unico per gli enti locali». Lo ha affermato il consigliere regionale Piero Lacorazza, per cui la vera sfida non è non è «invocare un'indipendenza o un'autonomia pasticciata poiché le piccole patrie non sono la risposta per ridurre i rischi e far crescere le opportunità della globalizzazione».
«Proporremo il referendum anche in Lazio» ha dichiarato il segretario della Lega Salvini. Ma il governatore Zingaretti frena: «Noi, come tutte le regioni, abbiamo bisogno dell'Italia: servono efficienza e coesione, più che l'autonomia. Lo stato federale deve essere l'Europa». E anche in Toscana il presidente della regione non si è fatto prendere dalla febbre autonomista. «Si alimentano divisioni tra gli italiani che danneggeranno la già fragile architettura istituzionale del Paese» ha dichiarato il governatore Enrico Rossi. «Per la destra del Nord conta solo l'autonomia, la rivendicazione della “piccola patria” regionale e l'illusione che si pagheranno meno tasse. Le vere questioni non valgono» continua Rossi «i tagli alla sanità e alla scuola, i salari e le pensioni basse, la precarietà del lavoro, la lotta agli sprechi e all'evasione fiscale, le diseguaglianze sociali. Solo una sinistra politica e sociale può fermare questa deriva».
La “Grande Lucania”, tra autonomia e secessione, scrive Luigi Iannone il 18 ottobre 2017. Quando si parla di “Grande Lucania”, si rispolvera una storia poco conosciuta al di fuori dell’area in questione, ma secolare e complessa, che sostiene le aspirazioni di autonomiae le velleità di secessione portate avanti dalla passione e dall’azione dei cittadini di un territorio peculiare, omogeneo dal punto di vista culturale e geografico, ma diviso a livello amministrativo tra l’attuale provincia di Salerno e la regione Basilicata. Questi attuali confini geografici della Basilicata risultano solo in maniera approssimativa corrispondere a quella che era “Grande Lucania”, un’entità precisamente identificabile attraverso un lungo percorso storico. Nel corso dei secoli quel territorio fu teatro di scontro e, al tempo stesso, di preziosissimo incontro di civiltà diverse che contribuirono a forgiarne l’identità. Ogni presenza ha lasciato tracce del proprio passaggio, dando vita ad un composto mosaico di arte, cultura e tradizioni.
Ad abitare per primi la Lucania furono gli Enotri (detti anche Itali) e gli Joni, stanziati gli uni sulle coste tirreniche, gli altri su quelle opposte. Dalla fine del VIII secolo a.C. in poi si avviò in Italia la colonizzazione greca, che segnò profondamente il territorio. Intorno alla fine del V secolo i Lucani, popolazione di stirpe osco-sannitica, provenienti dall’Italia centrale e guidati dal mitico Lucus, avanzarono dalle montagne alle zone costiere. Poi, con ondate successive, muovendosi dal Tirreno presero il controllo della parte interna della Basilicata. Si spinsero attraverso le pianure del fiume Sele, all’interno di quella regione che fu poi detta Cilento. Nasceva così, nel corso del IV secolo, la “La Grande Lucania”. La conquista e la conseguente amministrazione romana preserva grosso modo l’unità del territorio così costituito per numerosi secoli. Mantenutasi pressoché indipendente nonostante conflitti, invasioni e dominazioni anche durante i tumultuosi secoli del tramonto della civiltà antica e dell’epoca medievale, la divisione comincia solo a partire dal basso Medioevo, quando dapprima i Normanni (che si sostituirono ai Longobardi nella dominazione del Mezzogiorno), e poi definitivamente gli Angioini, spezzarono l’unità dell’antica regione lucana, dividendola sommariamente tra territori ionici e tirrenici, per varie ragioni di equilibrio politico-dinastico. Tutte le successive dominazioni, dagli imperi dell’età moderna fino all’unità d’Italia, conserveranno distrattamente questa scissione, e inoltre non riterranno necessario attribuire ad entrambi i territori di quella regione autonomia amministrativa, di cui invece altre realtà godono e hanno goduto, né valorizzeranno in nessun modo la caratteristica identità lucana e lo sviluppo della regione.
Anche l’amministrazione del Regno dei Savoia e poi della Repubblica Italiana si iscriveranno nel solco dei numerosi predecessori, per altro nel contesto di un deterioramento significativo della situazione economica. La monarchia e i governi dall’Ottocento al 1945 dimostreranno scarsa attenzione, quando non aperta ostilità, verso l’autonomia e le istanze locali, soprattutto durante il fascismo. Inoltre la politica socio-economica del regno nei confronti della regione lucana e del meridione in generale, che meriterebbero una trattazione vasta ed approfondita, sono stati notoriamente caratterizzati più da ombre che da luci. Il riconoscimento delle autonomie locali e la promozione di un costruttivo decentramento territoriale presente nella Costituzione repubblicana del 1948, a cui seguì l’istituzione delle Regioni completata compiutamente negli anni successivi, non muta significativamente la situazione, innanzitutto a livello territoriale: ancora oggi la ex “Grande Lucania” si divide tra Campania e Basilicata.
Forse proprio questi secoli di mortificazione, insieme economica e culturale, di una comunità accomunata da un territorio ben determinato da storia e tradizioni uniche, hanno comportato nell’area del Cilento e del Vallo di Diano, oggi in provincia di Salerno, la nascita di un movimento che a più riprese ha preteso il riconoscimento morale ed amministrativo di una antichissima specificità territoriale, declinabile attraverso una forte autonomia, o realizzato compiutamente tramite il ricongiungimento con la controparte lucana in Basilicata, che alcuni sentono come irrinunciabile. Alcuni, ma quanti? E soprattutto, come? Cerchiamo di rispondere a questi interrogativi ripercorrendo la storia recente del progetto “Grande Lucania”. Il movimento, basato come detto soprattutto su una comune memoria storica e culturale, nasce da un sentimento spontaneo diffusissimo presso comunità locali, che ha covato a lungo sotto la pelle del territorio ma che mai si è tradotto in concreta e rilevante azione politica fino al XXI secolo. È con il costituirsi, a partire dal 2005, di numerosi comitati civici in diversi comuni dell’area che il progetto “Grande Lucania” prende definitivamente forma e sostanza, promosso dall’omonima associazione, coadiuvata da fondazioni culturali e non, ed animata da importanti personalità locali e da numerosi cittadini. L’associazione e i comitati si danno l’obiettivo di applicare l’articolo 32 della Costituzione per la celebrazione di una discussione pubblica e di referendum popolare, che, in caso di esito positivo, comporterebbe l’agognata secessione e il passaggio alla regione Basilicata dei territori lucani in Campania con il suffragio e la partecipazione dei cittadini. Il referendum avrebbe in realtà valore consultivo, ma il Governo sarebbe obbligato, sentiti i Consigli Regionali interessati, a recepirne gli esiti e ad applicarli mediante un processo legislativo rinforzato. Tuttavia le amministrazioni comunali che hanno deliberato a favore del quesito referendario da sottoporre ai cittadini per separare il proprio Comune dalla Campania sono state relativamente esigue, non più di una ventina (come riportato dal quotidiano online Onda news), laddove invece i promotori erano ben più ambiziosi: intervistato da La Gazzetta del Mezzogiorno, uno degli ideologi del progetto, il procuratore Raffaele De Dominicis, era infatti arrivato a dichiarare: «Il nostro obiettivo è di coinvolgere almeno un’ottantina di paesi della zona per poi presentare ufficialmente la richiesta di un referendum». Lo stesso De Dominicis, ancora speranzoso, riconosceva nel 2011 che «le adesioni ci sono, ma quelle già acquisite non bastano a giustificare un referendum. Spero che altri decideranno di seguirci.» Questo non è ad oggi avvenuto, e forse conseguentemente, ma per ragioni in verità imprecisate e attinenti alle dinamiche politiche locali e nazionali, il processo ha conosciuto un pesante rallentamento, fino praticamente ad arenarsi quasi del tutto ormai da diversi anni, caratterizzati tra l’altro dalla volontà dei vari governi di ridurre il numero gli enti locali e di tagliare i fondi destinati al territorio. Solo sporadici, negli ultimi anni, sono stati i tentativi di riportare in auge la “questione lucana”, mai coronati da considerevoli successi. Ma quella che può sembrare la sconfitta su tutti i fronti di un localismo ritenuto da più parti come esasperato e non più attuale, non è in realtà classificabile come tale: la presenza e il gradimento dei temi posti dall’iniziativa sul territorio è ancora forte, appoggiata da numerosi sindaci, ed espressione di una volontà, più culturale che politica, che batte ancora nei cuori delle popolazioni del Cilento e del Vallo di Diano. Questa volontà di autodeterminarsi e di rappresentarsi come realtà territoriale e culturale specifica non è sopita, e non potrà esserlo.
Molto spesso proprio istanze simili, e il caso lucano non fa certo eccezione, incubano ed esprimono disagi e difficoltà di intere popolazioni che vogliono contare di più in termini di democrazia e di valorizzazione e distribuzione di risorse, che semplicemente desiderano una maggiore autonomia e riconoscimento. Quel riconoscimento, prima morale, e poi amministrativo ed economico, delle proprie caratteristiche e peculiarità a cui si faceva riferimento qualche riga più in alto, imprescindibile tanto per la tenuta democratica quanto per l’unità territoriale di un moderno paese europeo. Elementi di strettissima attualità in un continente sempre più attraversato da forti aspirazioni indipendentiste, non sempre serene e plurali come quelle lucane, che rischia di implodere e precipitare verso il caos e una conflittualità sociale e territoriale pericolosissima. Come i recenti fatti catalani hanno dimostrato, per scongiurare simili rischi è necessario promuovere l’autonomia e costruire rapporti armonici e rispettosi con le comunità locali, e non prevaricarne i diritti fondamentali. La Grande Lucania non è la Catalogna, non vuole e forse non può esserlo, ma la questione di fondo trascende i singoli casi, e suggerisce l’urgente promozione di una nuova logica nell’amministrazione del territorio, che non abbia paura di sostenere le autonomie per affermare l’unità. Luigi Iannone
MERIDIONALI: MAFIOSI PER SEMPRE.
Ravetto vs Aprile: "Sembra l'avvocato dei mafiosi", su Tagadà de La7 l'8 giugno 2018. Scontro in studio tra Laura Ravetto (FI) ed il giornalista Pino Aprile sulle frasi razziste della prima su dove e come opera la mafia in Italia.
Laura Ravetto: E’ inutile raccontarci favole. Il Sud lo liberi e liberi le risorse, perché non è non potrebbero vivere meglio ed essere più produttivi con il turismo, se lo liberi dalla criminalità organizzata…
Pino Aprile: …la mafia…
Laura Ravetto: scusi, cominciamo da dire la verità, guardi. Il Sud lo conosco bene anch’io. Quante volte mi son sentita dire, andando anche soltanto su una spiaggia del sud “perché non fate quello perché non fate l’altro?" “Perché purtroppo abbiamo dei limiti; purtroppo vengono a dirci, purtroppo vengono a chiederci". Scusate. Cominciamo a dire la verità. Il, la sfida che lancerei a Salvini, oltre naturalmente la sfida dell’immigrazione, è veramente quella: liberiamo il Sud. La vera infrastruttura per il Sud è liberarla dalla criminalità organizzata. Che soffoca la loro economia; che soffoca le loro imprese. Le soffoca con il pizzo, le soffoca con il controllo sugli imprenditori. Quanti imprenditori del Sud mi hanno raccontato di capannoni bruciati, perché erano sotto ricatto. Facciamo questa cosa seriamente e poi vediamo. Perché non è che a Sud sono meno bravi a lavorare o hanno meno possibilità di lavorare, considerato che il nostro paese è a vocazione turistica. Cominciamo a dire la verità. Io personalmente credo che Salvini, se vuol passare alla storia, questo deve portare a casa.
Tiziana Panella: anche perché sarebbe una cosa che tutti i Governi precedenti non hanno fatto.
Pino Aprile: quei dati sono frutto di scelte politiche, esattamente come diceva prima Cottarelli. Perché se dalla spesa pubblica, quella, diciamo, che dovrebbe essere uguale per tutti, tu sottrai ogni anno per ogni cittadino del Sud 4340 euro, che fa 85 miliardi all’anno, e monitorati gli ultimi 10 anni, fanno 850 miliardi. Se sottrai 6,5 miliardi all’anno di investimenti pubblici al sud rispetto all’uguale per tutti, ecc, i risultati sono quelli. Quanto alla mafia al Sud versa il sangue, al Nord porta i soldi. Non a letto (rivolto alla Ravetto) l’ultimo rapporto di Scarpinato….
Laura Ravetto: scusi sta dicendo che ho detto sbagliato? Perdoni, ma sta dicendo che non c’è la mafia al Sud?
Pino Aprile: sto dicendo che la mafia opera al Nord ed ammazza al sud...
Laura Ravetto: e vabbè, liberiamola dal Nord e da Sud, scusi (come se il pericolo fosse il Nord ed il Sud ndr)...
Pino Aprile: Lei ha detto che il Sud deve essere liberato…
Laura Ravetto: e vabbè perché si offende? Guardi che lo dico per il Sud eh. Non è un’offesa. Ma liberiamola anche dal Nord (?)...
Pino Aprile: lei ha parlato della mafia al Sud...
Laura Ravetto: ma è la realtà. Si offende…
Pino Aprile: posso dire due dati? Non mi sto offendendo…
Laura Ravetto: scusi eh…si offende…sembra l’avvocato dei mafiosi! Sa così sembra che difende i mafiosi…
Pino Aprile: …sto portando dei dati...
Laura Ravetto: non sono contraddittoria…
Pino Aprile: signora mi fa parlare?
Laura Ravetto: sì, sì, ma non mi venga addosso perché dico che va liberato il sud dalla criminalità organizzata, se non mi preoccupo.
Pino Aprile: lei non ha letto l’ultimo rapporto. Uno studio fatto a Bologna…
Laura Ravetto:..ma lei non lo sa se non l’ho letto. Perché da quello che ho detto da cosa evince che non l’ho letto.
Pino Aprile:…il 20% delle aziende del Nord hanno contatti con la mafia…
Laura Ravetto: ..ma che centra, benissimo, andiamo a beccarli anche lì.
Pino Aprile: Liberate il Nord. Liberate l’economia del Nord dalla mafia….
Poi finisce in gazzarra ad opera della Ravetto che non accetta la critica su quello che ha detto a sfondo razzista.
Mafia, quei padrini nella nebbia della Padania. Per anni ho raccontato come giornalista l’invasione delle cosche al nord. Ora la giustizia conferma una verità che nessuno voleva vedere, scrive Giovanni Tizian il 6 marzo 2017 su "L'Espresso". La nebbia della pianura padana è un mantello naturale sotto il quale nascondere intrallazzi e imbrogli. Alibi perfetto per chi vuole fingersi cieco. «Ciechi che pur vedendo non vedono», rifletteva così il protagonista di “Cecità”, capolavoro del premio Nobel José Saramago. Benché il romanzo si riferisse all’indifferenza di cui è intrisa la nostra società, il concetto si adatta benissimo ai tanti seguaci della filosofia del “non vedo, non sento, non parlo”. Le tre scimmiette dell’omertà mafiosa hanno risalito la penisola. Hanno seguito la linea della palma. Come aveva profetizzato Leonardo Sciascia quando paragonava l’avanzata culturale e finanziaria della mafia verso i ricchi territori del Nord al fenomeno climatico propizio alla coltivazione della palma che, secondo gli scienziati, saliva verso nord di 500 metri ogni anno. Una voce rimasta inascoltata, quella dello scrittore siciliano, da alcuni giudicata fin troppo allarmistica. Lo stesso giudizio guardingo e superficiale riservato ai cronisti che hanno raccontato i focolai mafiosi sparsi lungo la penisola. Chi scrive e parla di mafie conosce bene questi silenzi istituzionali. Ostacoli insidiosi. Generano confusione, disorientano i cittadini e isolano i giornalisti, colpiti sempre più spesso da querele temerarie, che sanno di messaggio minatorio. Fin dai primi articoli che ho scritto sulla Gazzetta di Modena ho provato, insieme ai colleghi, a sbriciolare quel muro di reticenza e inconsapevolezza che circondava la provincia. Dapprima nessuna reazione. Solo la curiosità di qualche cittadino e l’attenzione delle associazioni antimafia. Poi arrivò l’ironia di alcuni politici, in difesa del “buon nome” della regione. Il tribunale di Bologna ha riconosciuto il metodo mafioso applicato da un'organizzazione che dal Ravennate operava in tutta l'Emilia Romagna. E per questo motivo i giudici hanno condannato gli imputati per associazione mafiosa. Una sentenza con pochissimi precedenti nella Pianura Padana, soprattutto per il fatto che questo gruppo finito alla sbarra non è collegato direttamente alla 'ndrangheta calabrese, ma come tale si comporta. Questo è il metodo mafioso che il pm Francesco Caleca ha sostenuto nel suo impianto accusatorio, riconosciuto in sentenza. E non ha importanza se questo processo sia stato chiamato "Black Monkey" e non compaia la parola mafia nella sua denominazione. Ciò che prevale è che per il tribunale questa è associazione mafiosa. E come tale si è comportata anche quando uno degli imputati ha minacciato di morte il nostro collega Giovanni Tizian che sulle pagine della Gazzetta di Modena aveva denunciato questi affari mafiosi intrecciati con il business delle slot machine. Oggi insieme alla giustizia ha vinto anche la buona informazione. Ha vinto il coraggio di Giovanni. Il mio giornale di allora, e così oggi L’Espresso, mi hanno sempre sostenuto. E siamo andati avanti. Fino a quando due di quelle inchieste mi sono costate un pezzo di libertà: inquietanti minacce di morte e l’assegnazione di una scorta. Sono trascorsi quasi sei anni dall’intercettazione di quella telefonata, «gli spariamo in bocca», che ha cambiato all’improvviso la mia vita e quella della mia famiglia. Gli articoli che avevano disturbato il boss legato alla ’ndrangheta sono finiti agli atti del processo Black Monkey. Tre anni di dibattimento in tribunale a Bologna per stabilire se l’organizzazione al cui vertice stava Nicola “Rocco” Femia fosse associazione mafiosa. Tra le tante parti civili, insieme all’Ordine dei giornalisti, c’ero anch’io. Il 22 febbraio scorso la corte ha pronunciato il verdetto di primo grado: il gruppo Femia è mafia e dovrà risarcire il giornalista, sia me sia l’Ordine. I giudici hanno certificato, dunque, l’esistenza in Emilia Romagna di una cosca autonoma e moderna. E non meno importante, hanno riconosciuto nell’informazione un valore democratico da tutelare dalle ingerenze del potere criminale. A queste latitudini, dove ormai la palma cresce rigogliosa, i padrini sono al vertice di organizzazioni poco militari e molto imprenditoriali. Corrompono e solo se strettamente necessario sparano. Spesso sono nuclei autonomi nelle decisioni e nelle strategie. Condizionano la politica, l’economia, la pubblica amministrazione, il mondo delle professioni, le forze dell’ordine e anche pezzi di informazione. Per anni chi ha provato a denunciare la complessità di tale groviglio di interessi è stato etichettato come un folle speculatore e, perché no, pure incosciente. Intanto alcuni prefetti negavano, qualche sindaco riveriva i capi ’ndrina e inveiva contro la stampa. Assessori, consiglieri e candidati vari replicavano immagini note al Sud: in fila dai boss per elemosinare qualche voto. Fino ad arrivare ai consigli comunali sciolti per mafia. Più noi cronisti individuavamo le ferite sul corpo malandato della pianura padana, più le risposte oscillavano tra l’indifferenza, lo scherno, la negazione e le querele. Poi sono arrivate le intimidazioni. E qui qualcuno ha suggerito che sarebbe stato forse necessario chiedere aiuto a un medico specialista per farsi prescrivere una cura antibiotica. La speranza è che gli antibiotici facciano effetto al più presto. Prima che sia troppo tardi. Per chiudere con la stagione dello stupore e inaugurare il tempo della consapevolezza. Tra la nebbia cercano riparo ancora troppi complici insospettabili. Stanare i mafiosi e i loro manutengoli non può essere compito esclusivo dei magistrati o delle forze dell’ordine. Né di qualche visionario giornalista.
"La mia vita a metà per aver denunciato la 'ndrangheta al Nord". "Nel 2011 un boss intercettato al telefono disse che voleva spararmi in bocca perché avevo scritto nei miei articoli dei suoi affari. Ora il tribunale di Bologna gli ha dato 26 anni in primo grado. E ha riconosciuto che nelle regioni settentrionali la mafia è ormai radicata". Parla il nostro cronista, scrive Giovanni Tizian il 23 febbraio 2017. Oltre la linea Gotica c'è una mafia silente. Per niente rumorosa, accorta a non apparire, abile nel penetrare nei tessuti sani della società. E se invece questi tessuti non fossero così sani? Il sospetto è che nei territori del Nord ci sia una forte richiesta di mafia, dei suoi metodi e strumenti. La chiamano voglia di clan. Imprenditori, professionisti, politici, servitori dello Stato, che nati e cresciuti nelle regioni ricche hanno scelto di stare dalla parte del crimine. Indizi e sentenze recenti, degli ultimi anni, hanno trasformato il dubbio in certezza. Spesso anche nel minacciare l'accento è misto: nel mio caso quando boss e faccendiere, progettavano di eliminarmi, il piemontese si mescolava all'accento calabrese. La telefonata intercettata risale al 2011. E non smetterò mai di ringraziare quegli uomini e quelle donne della guardia di finanza che hanno ascoltato e segnalato d'urgenza il fatto alla procura antimafia di Bologna. Da lì il procuratore dell'epoca Roberto Alfonso, insieme al pm Francesco Caleca che seguiva l'inchiesta sul gruppo Femia, chiese alla prefettura di Modena di mettermi sotto scorta. Così iniziò una vita diversamente libera. Un'esistenza vissuta nell'equilibrio tra fragilità, insicurezze, paure, ma anche tra l'amore di chi in questi quasi sei anni mi è stato vicino, sopportando un vita di certo non facile. Poi, ieri, a distanza di così tanto tempo, il tribunale di Bologna ha riconosciuto l’esistenza di un clan mafioso che in Emilia aveva messo radici. L'esistenza di quella cosca che voleva bloccare l'informazione locale immaginando persino di usare il piombo per raggiungere l'obiettivo. Il tribunale di Bologna ha riconosciuto il metodo mafioso applicato da un'organizzazione che dal Ravennate operava in tutta l'Emilia Romagna. E per questo motivo i giudici hanno condannato gli imputati per associazione mafiosa. Una sentenza con pochissimi precedenti nella Pianura Padana, soprattutto per il fatto che questo gruppo finito alla sbarra non è collegato direttamente alla 'ndrangheta calabrese, ma come tale si comporta. Questo è il metodo mafioso che il pm Francesco Caleca ha sostenuto nel suo impianto accusatorio, riconosciuto in sentenza. E non ha importanza se questo processo sia stato chiamato "Black Monkey" e non compaia la parola mafia nella sua denominazione. Ciò che prevale è che per il tribunale questa è associazione mafiosa. E come tale si è comportata anche quando uno degli imputati ha minacciato di morte il nostro collega Giovanni Tizian che sulle pagine della Gazzetta di Modena aveva denunciato questi affari mafiosi intrecciati con il business delle slot machine. Oggi insieme alla giustizia ha vinto anche la buona informazione. Ha vinto il coraggio di Giovanni. Il capo Nicola Femia e i suoi figli, Nicolas e Guendalina, sono stati condannati a pene pesanti: Nicola detto "Rocco" a 26 anni, Nicolas a 15 e la figlia a 10. E per la prima volta viene riconosciuta l’intimidazione all’informazione. Per questo i giudici hanno stabilito che il clan Femia dovrà risarcire il giornalista che firma questo articolo e l’Ordine dei giornalisti. Risarcimento per le minacce ricevute. «O la smette o gli sparo in bocca», diceva il faccendiere Guido Torello (condannato a 9 anni) al boss Femia che si lamentava dei ripetuti articoli che avevo pubblicato sulla Gazzetta di Modena. Risarcimento per aver minacciato la libertà di stampa, non solo la mia vita. Anche per questo il verdetto di primo grado del processo "Black Monkey" è un punto di rottura nella storia dell’antimafia del Paese. Che serve a tutta la categoria. E spero possa far sentire meno soli quei colleghi che senza scorta e in trincea scrivono dei poteri criminali nelle province d'Italia. Lo spero, nonostante il dibattimento che si è concluso ieri a Bologna si sia svolto nel silenzio. Sebbene la mafia come tema di dibattito pubblico non abbia più l’appeal di un tempo. Alla fine questa sentenza rappresenta uno spartiacque. Perché da ora in avanti le organizzazioni mafiose che pensavano di farla franca nei territori del Centro-Nord dovranno rassegnarsi a essere giudicate con la stessa severità che gli viene riservata dai tribunali del Sud, allenati da decenni di violenza e lotta antimafia. In questi anni vissuti sotto protezione ho maturato una convinzione: il mestiere di informare è un servizio. Un servizio per i lettori, che sono cittadini. A loro proviamo a dare gli strumenti per leggere ciò che accade nella comunità in cui vivono. Un’informazione corretta, insomma, che sia un argine al veleno delle forze criminali. Sono trascorsi cinque anni e mezzo dal 22 dicembre 2011, da quando, cioè, la Questura di Modena mi comunicò che da quel giorno avrei vissuto sotto scorta. Non avevo la minima idea di cosa significasse. Non sapevo esattamente quali cambiamenti avrebbe portato nella mia vita. Avevo 29 anni. Le lacrime della mia compagna, il divieto di informare persino i parenti stretti, i primi due agenti che mi aspettavano sotto casa: mi istruirono in fretta su ciò che potevo fare e soprattutto su cosa non avrei più potuto fare da quel momento in poi. Ero come un bambino che imparava a muovere i primi passi in una nuova vita. Una vita a metà. I momenti di intimità familiare sarebbero diventati una rarità di cui godere appieno. Non posso però neanche scordare le voci di chi bollava il tutto come una strumentalizzazione per procurarmi notorietà e attenzione. Non ho mai risposto. Non mi ha mai appassionato la ferocia del dibattito social. Preferisco scrivere, raccontare, indagare. Guardare negli occhi, scrutare ciò che a prima vista non si vede, entrare nelle storie. Prendermi il tempo per interpretare la verità. Che cammina sempre piano. C’è voluto tempo anche per la sentenza del processo Black Monkey, ma è un verdetto storico. Merito di una procura guidata all’epoca da Roberto Alfonso (oggi procuratore generale di Milano) e di un pm, Francesco Caleca, che ha descritto alla perfezione la mafia moderna senza alcun protagonismo. Ma un ringraziamento speciale va a chi ogni settimana, sacrificando il proprio tempo, ha riempito l’aula 11 del tribunale: studenti, tantissimi; ai loro docenti; agli amici; alle associazioni che si sono costituite parte civile, da Libera a Sos Impresa; per finire agli enti locali che hanno ottenuto il risarcimento per i danni di un clan che ha ucciso un pezzo di economia. Perché questo fanno le mafie 2.0, ammazzano imprese sane e uccidono la buona economia.
Nessuno ha il coraggio di dire a Bindi che è razzista? Scrive Mimmo Gangemi il 22 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". Per la presidente dell’Antimafia è impossibile che in Valle d’Aosta non ci sia ’ndrangheta, stante che il 30% della popolazione è di origine calabrese. La Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, on. le Rosy Bindi, dichiara che è impossibile che in Valle d’Aosta non ci sia ’ndrangheta – «che ha condizionato e continua a condizionare l’economia» – stante che il 30% della popolazione è di origine calabrese. Qua e là annota punti di vista di matrice abbastanza lombrosiana, che criminalizzano molto oltre i demeriti reali, aggiungono pregiudizio al pregiudizio, alimentano la fantasia assurda che quaggiù sia il Far West e una terra irredimibile, allontanano l’idea di una patria comune, distruggono i sogni dei nostri giovani su un futuro possibile. Io non sono in grado di escludere la presenza della ’ndrangheta – essa va dove fiuta i soldi o dove c’è, da parte di imprenditori locali, una richiesta sociale di ’ndrangheta, delle prestazioni in cui è altamente specializzata: i subappalti da spremere, il lavoro nero, la fornitura di inerti di dubbia provenienza, lo smaltimento dei rifiuti di cantiere, di quelli tossici o peggio, l’abbattimento violento dei costi, la pace sindacale per sì o per forza, la garanzia di controlli addomesticabili, e non con il sorriso. Ma, dopo aver controllato la cronaca delittuosa, non mi pare che compaia granché o che sia incisiva da dover indurre a tali spietate esternazioni. E non mi piace che tra le righe si colga l’insinuazione che il calabrese è, in diverse misure, colpevole di ’ ndrangheta – o di calabresità, che è l’identica cosa. Alludervi è anche disprezzare il bisogno che ha spinto tanto lontano i passi della speranza e gli immani sacrifici sopportati per tirarsi su. L’emigrazione in Valle d’Aosta è stata tra le più faticose e disperate. I primi giunsero nel 1924. E giunsero per fame. Lavorarono alla Cogne, nelle miniere di magnetite. E quelli di seconda e terza generazione hanno dimenticato le origini, sono ben inseriti e valdostani fino al midollo, pochi quelli che ricompaiono per una visita a San Giorgio Morgeto, nel Reggino, da dove partirono in massa. Più che ai “nostri” tanto discriminati, forse si dovrebbe guardare alle storie di ordinaria corruzione, non calabrese e non ’ ndranghetista, che nelle Procure di lì hanno fascicoli robusti. Detto questo, la on. le Bindi Rosy da Sinalunga – civile Toscana, non l’abbrutita Calabria – dovrebbe mettersi d’accordo con se stessa.
Chiarisco: alle ultime politiche, dopo che la sua candidatura traballò da ottavo grado della scala Richter e non ci fu regione disposta ad accoglierla, per sottrarsi alla rottamazione a costo zero ha dovuto riparare nell’abbrutita Calabria, che sarà tutta mafiosa ma sa essere anche generosa e salvatrice per chi, come lei, non intende rinunciare alla poltrona imbottita, con le molle ormai sbrindellate stante i decenni che le stuzzica poggiando il nobile deretano. È prona come si pretende da una colonia, la Calabria. In quell’occasione elettorale lo fu due volte, con la on. le Bindi e con un altro personaggio di cui l’Italia va fiera, tale Scilipoti Domenico, una bella accoppiata, entrambi eletti. La on. le fu prima con migliaia di voti nelle primarie PD del Reggino e, da capolista, ottenne l’entrata trionfale in Parlamento. Assecondando la sua ipotesi sulla Valle d’Aosta e sulla presenza ’ ndranghetista, diventa legittimo estendere a lei il suo stesso convincimento che, dove ci sono calabresi, per forza ci sono ’ndranghetisti. Quindi, essendo la Calabria piena di calabresi – questa, una perla di saggezza alla Max Catalano, in “Quelli della notte” – logica pretende che tra le sue migliaia di voti ci siano stati quelli degli ’ ndranghetisti, non si scappa.
Ne tragga le conseguenze. Oppure per lei, e per le Santa Maria Goretti in circolazione, l’equazione non vale e i voti ’ndranghetisti non puzzano e non infettano? Eh no, troppo comodo. Qua da noi persino il vago sospetto d’aver preso certi voti conduce a una incriminazione per 416 bis e spesso al carcere duro del 41 bis. Questo è. Forse però si è trattato di parole in libera uscita, di un blackout momentaneo del cervello. Se così, dovrebbe battersi il petto con una mazza ferrata, chiedere scusa ai calabresi onesti, che sono la stragrande maggioranza della popolazione, e fare penitenza magari davanti alla Madonna dagli occhi incerti nel Santuario di Polsi oltraggiato come ritrovo di ’ ndrangheta e invece da decenni diventato solo luogo di preghiera e di devozione. Ora mi aspetto l’indignazione dei calabresi. Temo che non ci sarà, a parte quella di qualche spirito libero – e incosciente, vista l’aria che tira. E stavolta dovrebbero invece, di più i nostri politici che, ahinoi, tacciono sempre, mai una voce che si alzi possente e riesca ad oltrepassare il Pollino. Coraggio, uno scatto d’orgoglio, tirate fuori la rabbia e gli attributi. Se non ci riuscite, almeno il mea culpa per aver miracolato una parlamentare che ripaga con acredine la terra che l’ha eletta e a cui, nell’euforia della rielezione piovuta dal cielo, aveva promesso attenzioni amorevoli.
Toscani shock: «Niente selfie, sei calabrese...», scrive Simona Musco il 21 ottobre 2016, su "Il Dubbio". Antonio Marziale, Garante per l'infanzia e l'adolescenza: «Nel 2007 non ha avuto remore a prendersi i soldi per la campagna pubblicitaria della regione». «Non vedo il motivo per cui dovremmo farci una foto. Per quanto ne so, potresti essere un mafioso». Sono queste le parole con le quali Oliviero Toscani ha negato una fotografia a Vittorio Sibiriu. Lui ha solo 18 anni e una faccia pulita. Un'intelligenza vivida e la passione per l'arte. Quella che lo ha spinto, giovedì, al Valentianum di Vibo Valentia, per assistere alla lectio magistralis del fotografo e alla sua mostra "Razza Umana". Una mostra, ha spiegato lo stesso Toscani, che rappresenta uno studio antropologico sulla morfologia degli esseri umani, «per vedere come siamo fatti, che faccia abbiamo, per capire le differenze». Parole che associate alla storia di Vittorio riportano alla mente il concetto di "razza maledetta" dal sapore lombrosiano. Toscani era «un mito», fino a due giorni fa, quando ha rifiutato l'invito del ragazzo. «Anche Matteo Messina Denaro non ha la faccia da mafioso eppure lo è», avrebbe spiegato, come se quelle parole fossero del tutto normali. A raccontarlo è lo stesso giovane, studente della quinta classe del liceo scientifico di Vibo. «Ho seguito la conferenza stampa e ho aspettato il mio turno per fare una foto - ci racconta -. C'era una degustazione di vini e altra gente che si avvicinava a lui per qualche scatto. Ho aspettato un po' per non disturbarlo, poi gli ho chiesto di poter fare una foto. Al suo no stavo andando via, quando mi ha fermato per spiegarmi, come se fosse del tutto normale, che potrei essere uno 'ndranghetista». Vittorio, figlio di una poliziotta e di un carabiniere, non è riuscito ad avere alcuna reazione. È andato via, portando con sé l'amica rimasta con il cellulare in mano, pronta ad immortalare quel momento. «Lo consideravo uno dei più grandi non solo come artista, ma anche come persona. Beh, ora so che di certo come persona non lo è», aggiunge. Nessuno ha reagito alle parole di Toscani. Nessuno è intervenuto in difesa di Vittorio, che solo il giorno dopo è riuscito a metabolizzare la rabbia e l'indignazione, scrivendo un messaggio indirizzato al famoso fotografo, colui che già nel 2007, ingaggiato dalla Regione Calabria per una campagna promozionale, aveva partorito, alla modica cifra di 3,8 milioni la frase - tra le altre - "Mafiosi? Sì, siamo calabresi". «Vorrei ricordare al signor Toscani che la principale qualità di un artista dovrebbe essere l'umiltà, cosa che a quanto pare non rientra tra i termini del suo vocabolario. E vorrei dire che l'unica cosa che il suo atteggiamento provoca in me è lo sdegno - scrive Vittorio -. Mi dispiace molto di averla conosciuta e di aver perso due ore della mia vita ad ascoltare le sue parole definite "anticonformiste" e usate "per lanciare messaggi contro i pregiudizi", ai miei occhi adesso appaiono solamente come poco coerenti». Commenti al vetriolo sono arrivati da Antonio Marziale, Garante per l'infanzia e l'adolescenza della Regione Calabria. «Se le cose stanno così - ha dichiarato -, Toscani farebbe bene a spiegarci se ha avuto le stesse remore a prendersi i soldi per la campagna pubblicitaria del 2007. Come si fa a fare una battuta del genere ad un ragazzo? La sua è la generazione che più patisce il fatto di aver consentito alla 'ndrangheta di proliferare in questo territorio. Lui senza provocazione sarebbe un fotografo qualunque, la sua arte è opinabile, le sue provocazioni non portano nulla. Anche perché la provocazione deve essere saggia e commisurata al soggetto che la riceve. Questa storia, purtroppo, conferma il masochismo dei calabresi - conclude -. Continuiamo ad acclamare gente che ci insulta, come Vasco Rossi o Antonello Venditti. Dico una cosa a Vittorio: non sentirti offeso, Toscani è il vuoto».
Magalli: “Mai insultato i calabresi”, la replica del conduttore sulla polemica con un video del 18/11/2016 su "La Stampa”. «Mi piacerebbe mettere la parola fine a questa polemica inutile che si sta trascinando sulla Calabria indignata. A me dispiace moltissimo che i calabresi si siano dispiaciuti per qualcosa che in realtà io non ho detto. Lo voglio chiarire: i calabresi sono ottime persone, ho passato anni di vacanze in Calabria, ho amici calabresi e conosco i loro innumerevoli pregi e conosco anche il loro principale difetto che è quello di essere permalosi». Così Giancarlo Magalli si difende dopo le accuse piovutegli addosso per la frase pronunciata il 15 novembre scorso durante I fatti vostri su Rai2, dopo la mancata risposta al telefono del telespettatore estratto, di Casignana, in provincia di Reggio Calabria. «Siete permalosi a torto perché avete giudicato qualcosa senza vederla o sentirla - prosegue -. Tutti quelli che si sono indignati e sono tanti, si sono indignati non per quello che hanno visto, ma per quello che hanno letto. Quando uno legge robaccia tipo l’Huffington Post: Magalli virgolette «I calabresi scippano le vecchiette», hanno ragione ad indignarsi. Solo che io non ho mai detto nulla del genere. Un giornale ha scritto: Magalli offende i meridionali. Io non ho mai parlato dei meridionali. Faccio questo lavoro da trent’anni, se avessi qualcosa contro i meridionali sarebbe già venuto fuori, no?» «Il problema - spiega ancora - è la cosa originaria che non era riferita a Casignana, a niente, era solo una frase detta a cavolo, dicendo: vi lamentate che non vi telefoniamo per il gioco e poi non ci siete quando vi telefoniamo, ma dove andate? A scippare le vecchiette? Una battuta, certamente cretina, ma non riferita né a Casignana, né alla Calabria, né al Meridione. Solo che chi l’ha sentita l’ha capita, tanti non l’hanno sentita e commentano il commento di un altro. Vorrei che questa cosa finisse, anche perché sta raggiungendo toni inconsulti. Speriamo che si raggiunga questa tranquillità perché ci sono cose più serie a cui pensare».
L'antimeridionalismo qualunquista di Vecchioni & company, scrive "Infoaut Palermo" il 6 Dicembre 2015. Siamo chiaramente di parte; è normale: lo siamo sempre stati. E anche meridionali - beh - come è ovvio, lo siamo sempre stati: ci siamo nati al Sud. Ci siamo cresciuti in quest'isola chiamata Sicilia; ci stiamo vivendo; ci stiamo lottando. E onestamente nella merda, a volte, anche tutt'ora, un po' ci siamo sentiti. Nella merda non perché, oggettivamente parlando, la Sicilia sia un'isola di merda; e neanche perché ogni giorno ci troviamo a dover guardare orde barbare di “senzacasco” sfrecciare per le nostre strade; o manipoli di “posteggiatori della sedicesima fila” aggravare lo storico problema del traffico palermitano. Un po' nella merda ci troviamo a sguazzare letteralmente per altri motivi. Ma su questo ritorneremo fra un attimo. “Chi sa fa, chi non sa insegna” - ecco un vecchio detto (a dire il vero forse un po' ingeneroso verso le professioni dell'insegnamento) a cui la mente ci riporta leggendo le ultime dichiarazioni del professor Roberto Vecchioni. Professore intellettuale (o almeno così considerato da molti) che, invitato qualche giorno fa all'università di Palermo a parlare di rapporti figli-genitori, ha brillantemente deciso di lasciarsi andare ad alcuni spiacevoli commenti sulla terra in cui si trovava in visita: la Sicilia. Ecco, il professore intellettuale pare abbia sentito il dovere morale di “provocare” sostenendo la tesi secondo cui la Sicilia “è un'isola di merda” andando poi a chiarire meglio il senso della provocazione: “una forzatura per smuovere le coscienze di siciliani che si accontentano di vivere tra assenza di caschi, macchine mal posteggiate, abusivismo edilizio etc.” Insomma, la Sicilia è secondo il professore “una merda” perché “incivile”. Pare anche che Vecchioni si sia lasciato andare ad un paragone non proprio di buon gusto tra una Palermo che “col cazzo che avrebbe potuto...” ed una Milano che invece ha ospitato l'Expo e i suoi 25 milioni di visitatori: e i soldi, secondo il professore, non c'entrerebbero proprio nulla. Questione di inciviltà!!! La polemica è così scatenata, il dibattito aperto. La rabbia si diffonde, ovviamente, tra la maggioranza dei siciliani; ma non fra tutti. Un altro professore, per esempio, seguito da una folta schiera di istruiti pensatori (spesso “di sinistra”), Leoluca Orlando sindaco di Palermo, si schiera a difesa dell'intellettuale milanese arrivando a sostenere che le parole di Vecchioni sarebbero “un atto di amore verso la Sicilia” perché coraggiose e realistiche. Altri, nello stesso fronte, si limitano ad apprezzare la denuncia della questione sollevata in quel discusso intervento: l'inciviltà! Ecco un primo grosso (grossissimo) problema di cui, forse, i meridionali dovrebbero assolutamente liberarsi: l'accusa di inciviltà. Che poi è quella (anche se cambiano i toni) che ci sentiamo e portiamo dietro dai tempi dell'unità italiana. Cerchiamo di valutare allora, usufruendo dello stesso vocabolario di una certa retorica dominante, cosa sia civile e cosa no. Se a Vecchioni le macchine in doppia fila e i motociclisti senza casco appaiono come grande segno d’inciviltà, un tantino più incivili ci sembrano la devastazione ambientale e umana nei nostri territori tramite petrolchimici o basi militari; d'inciviltà ci parlano le statistiche su disoccupazione giovanile e conseguente emigrazione a cui sono costretti i siciliani, o quello che è uno dei tassi percentuale di morti sul lavoro più alti d’Europa; oppure che i cittadini di Messina, Gela, Agrigento, etc, rimangano senza acqua corrente per settimane. Ospedali che chiudono, cavalcavia autostradali che crollano, collegamenti marittimi con le isole minori interrotti per settimane, decine di migliaia di precari della pubblica amministrazione continuamente a rischio reddito, insomma, “d’inciviltà” su cui il nostro intellettuale dell’ultim’ora poteva concentrarsi ce n’è parecchia in Sicilia; e ricondurre un sistema di estremo sfruttamento delle risorse umane e territoriali (che ci racconta in due parole quella che è la storia dell’imposizione italiana al meridione), a una semplice “questione culturale”, non fa di certo onore alla sua nomea d’intellettuale(?). Quello che invece in maniera tutt’altro che provocatoria, vogliamo e ci sentiamo di rintracciare anche nella citata inciviltà vecchioniana, è un atteggiamento contro le regole e le regolamentazioni che inconsciamente però, esprime un grado di rifiuto: ieri alla costrizione a un determinato sistema economico e a certi modelli di vita e di condotta sociale, oggi all’assenza totale di servizi, tutele, garanzie sociali, e di una precarietà che si fa esistenziale, e di cui la nostra regione detiene sicuramente il primato in Italia. Quindi ci chiediamo ancora: come si misura il grado di civiltà di un popolo? Dal numero di caschi? O dal numero di gente che, pur e soprattutto nei suoi tessuti più indigenti, conosce cooperazione e solidarietà molto più che in tanti luoghi civili!? Dalle auto in doppia fila o dal numero di persone che, senza casa, muoiono per le strade notturne di grandi città del nord!? Cosa c'è poi di civile nell'avere come presidente della Regione un razzista come Maroni!? O cosa ci sarà mai di civile in quel grande partito del nord come la Lega, che fa di razzismo e xenofobia i suoi manifesti politici!? A Vecchioni la parola (per la verità non ci interessa molto la sua risposta…). A questo punto non possono che tornarci alla mente le recenti polemiche televisive su altri due interventi molto discussi: quello di Massimo Giletti sull' “indecenza” di Napoli; e sempre a proposito di Napoli, il recentissimo dibattito scaturito dall'appellativo scelto da Enrico Mentana (direttore del TgLa7) per richiamare in una trasmissione calcistica un collega giornalista napoletano: “Pulcinella”. A occhi attenti, l'antimeridionalismo paternalistico ha ormai pieno titolo su media e main stream, soprattutto se sei considerato un intellettuale. Da quando poi Renzi quest’estate ha nuovamente riportato in auge la “questione meridionale” (con la solita narrazione del sottosviluppo per silenziare l’incapacità governativa di porre rimedio alle problematiche sociali ed economiche dell’Isola), sembra che chiunque (evidentemente confondendo “lo spettacolo” e l’opinionismo da tv con le analisi e le valutazioni storiche e politiche) possa permettersi di dire qualsiasi cretinata, basta che poi le facciano seguire un qualsiasi complimento sulla storia e le grandi tradizioni di un popolo per pulirsi la faccia. Come del resto Vecchioni ha già fatto con una lettera al Corriere della Sera, in cui il professore però - oltre al pulirsi la faccia - si lascia nuovamente andare in stereotipi stigmatizzanti e assai pregiudizievoli sulla “pigrizia dei meridionali” e anche che quanti non lo hanno capito sono “pusillanimi e mafiosi”. Finalmente! Ci chiedevamo come la parola mafiosi non fosse stata pronunziata dal professore nel grande logos intellettuale dei luoghi comuni. Le decine e decine di studenti e non solo che hanno abbandonato l'aula durante il suo intervento... saranno mafiosi?! Cretinate e cretini a parte, quello a cui assistiamo è il diffondersi di nuove (perchè mai abbandonate e tralasciate nelle retoriche del sottosviluppo, o della mancata modernità del sud, etc) forme di razzismo antimeridionale. Razzismo antimeridionale che tanto fa comodo alle governance, locali e nazionali, perché utili a distrarre l’opinione pubblica da quello che è il vero trattamento riservato al sud: un neocolonialismo petrolifero e di estrazione e sfruttamento di risorse e materie prime da far invidia a quello dell’epoca dell’unità d’Italia, a fronte di una continua scarsità di accesso a reddito, servizi e diritti sempre più negatici e sottrattici con commissariamenti e istituzionalizzazione dello stato d’emergenza. Come dire, i siciliani sapranno pure quali sono i problemi della loro quotidianità e della loro terra, in alternativa…possono chiedere a Vecchioni. Sicuramente molti siciliani si sentono offesi dalle parole del caro professore, ma non scriviamo queste righe per unirci al coro dell'indignazione: speriamo soltanto di proporre l'individuazione di vecchie/nuove forme di razzismo che finiscono per diventare anche forme di controllo delle condotte, libertà di manovra capitalistica sui territori, commissariamenti politici e repressione di classe. Perché i problemi veri non sono i “senzacasco” ma i senzacasa; e non il modo di parcheggiare ma l'assenza di servizi sociali e come detto, di accesso al reddito. E persino dell'acqua corrente!!!! e questo, a nostro modo di vedere, è la vera inciviltà. A cui i siciliani dovrebbero ribellarsi senza bisogno di professori che diano lezioni di dignità: non ne abbiamo bisogno. Infoaut Palermo
Sei parente di un mafioso? Sei un mafioso pure tu... Così chiudono le aziende, scrive il 27 ottobre 2016 “Il Dubbio”. L'intervento di Carlo Giovanardi, componente della Commissione Giustizia del Senato. Il codice antimafia stabilisce che tentativi di infiltrazione mafiosa, che danno luogo all'adozione dell'informazione antimafia interdittiva, possono essere concretamente desunti da:
a) Provvedimenti giudiziari che dispongono misure cautelari, rinvii a giudizio, condanne, ecc.;
b) Proposta o provvedimento di applicazione delle misure di prevenzione ai sensi della legge 575 del 1967;
c) Degli accertamenti disposti dal Prefetto.
Con alcune piccole recenti modifiche che cambiano soltanto marginalmente la normativa. Il punto c) come si vede dà ampi poteri discrezionali ai prefetti che in tutti i provvedimenti assunti sul territorio nazionale motivano sempre l'interdittiva con queste premesse: «Atteso che, come più volte riportato dalla dottrina e dalla giurisprudenza, il concetto di "tentativo di infiltrazione mafiosa", in quanto di matrice sociologica e non giuridica, si presenta estremamente sfumato e differenziato rispetto all'accertamento operato dal giudice penale, "signore del fatto" e che la norma non richiede che ci si trovi al cospetto di una impresa "criminale", né si richiede la prova dell'intervenuta "occupazione" mafiosa, né si presuppone l'accertamento di responsabilità penali in capo ai titolari dell'impresa sospettata, essendo sufficiente che dalle informazioni acquisite tramite gli organi di polizia si desuma un quadro indiziario che, complessivamente inteso, ma comunque plausibile, sia sintomatico del pericolo di un qualsivoglia collegamento tra l'impresa e la criminalità organizzata. Considerato che, per costante giurisprudenza, la cautela antimafia non mira all'accertamento di responsabilità, ma si colloca come la forma di massima anticipazione dell'azione di prevenzione, inerente alla funzione di polizia di sicurezza, rispetto a cui assumono rilievo, per legge, fatti e vicende anche solo sintomatici e indiziari, al di là dell'individuazione di responsabilità penali (T. A. R. Campania, Napoli, I, 12 giugno 2002 nr. 3403; Consiglio di Stato, VI, 11 settembre 2001, nr. 4724), e che, di conseguenza, le informative in materia di lotta antimafia possono essere fondate su fatti e vicende aventi un valore sintomatico e indiziario, poiché mirano alla prevenzione di infiltrazioni mafiose e criminali nel tessuto economico-imprenditoriale, anche a prescindere dal concreto accertamento in sede penale di reati». Vediamo ora di capire come la preoccupazione del legislatore di difendere le aziende dalle infiltrazioni mafiose sia stata completamente stravolta dalle interpretazioni giurisprudenziali e dalla prassi delle prefetture, andando ben al di là del rispetto formale e sostanziale dei principi costituzionali e anche del buon senso, con un meccanismo infernale che massacra le aziende, le fa fallire e distrugge migliaia di posti di lavoro. Bisogna tener conto infatti che all'impresa colpita da interdittiva antimafia vengono immediatamente risolti i contratti in essere, bloccati i pagamenti, impedito di acquisire nuovi lavori, ecc. a tempo indeterminato, fino a che cioè, non venga meno un plausibile, sintomatico pericolo di un qualsivoglia collegamento tra l'impresa e la criminalità organizzata. E da cosa si può dedurre questo pericolo che le forze di polizia comunicano al Prefetto? Incredibilmente anche da semplici rapporti di amicizia o di parentela o di affinità con i titolari o i dipendenti della impresa ma anche con persone che con le imprese non c'entrano assolutamente nulla. Due recenti casi modenesi spiegano la follia di questa procedure. Un'impresa locale con titolare originario di Napoli, felicemente sposato con una palermitana conosciuta mentre era militare in Sicilia nell'ambito dell'operazione Vespri Siciliani, dalla quale ha avuto tre figli, assunse a suo tempo, con l'autorizzazione del giudice tutelare e l'approvazione dei servizi sociali, cognato e suocero usciti dal carcere a Palermo dopo aver scontato una condanna per attività mafiosa. Sulla base di questa circostanza all'impresa è stata negata l'iscrizione alla white list ed è scattata l'interdittiva antimafia. L'imprenditore ha immediatamente licenziato cognato e suocero ma per la Prefettura questo non era sufficiente e l'ha invitato a rivolgersi al Tar dell'Emilia-Romagna che a sorpresa ha confermato l'interdittiva con la stupefacente motivazione che malgrado il licenziamento permaneva il rapporto di parentela (semmai affinità, sic. ndr). Soltanto recentemente, dopo questa surreale decisione, il Consiglio di Stato ha finalmente riconosciuto le buone ragioni dell'imprenditore escludendo che il semplice rapporto di affinità possa essere sufficiente per mantenere una interdittiva. Nel frattempo sempre a Modena un altro imprenditore di origine campana si è visto applicare l'interdittiva, in base a precedenti penali del fratello, con il quale non ha rapporti di nessun tipo da tantissimi anni, con inevitabile fallimento e rovina per moglie e figli, decisione confermata dal Tar dell'Emilia-Romagna perché "non si esclude", pur non essendoci attualità di una situazione di pericolo, che il passato oscuro del fratello, comparso in una lista di componenti di un clan di casalesi, arrestati per ordine della Procura, possa nascondere futuri tentativi di infiltrazione. Bisogna aggiungere, per chiarezza espositiva, che diversamente dai procedimenti penali dove c'è possibilità di difesa e contraddittorio, l'imprenditore a cui viene rifiutata l'iscrizione alla white list non viene ascoltato dalla Prefettura e neppure può prendere visione egli atti che lo riguardano, che sono secretati. Di fronte a questa situazione, essendo in discussione in commissione Giustizia del Senato la riforma del Codice Antimafia, sono stati sentiti in audizione il prefetto Bruno Frattasi, attuale comandante dei Vigili del Fuoco, per anni responsabile dell'Ufficio legislativo del Ministero degli Interni, i Prefetti di Milano, Palermo, Napoli, Reggio Calabria, Modena, ecc., illustri avvocati, docenti di diritto amministrativo e rappresentanti delle associazioni imprenditoriali. Ad eccezione dei Prefetti sul territorio, che hanno sostenuto di vivere nel migliore dei mondi possibile e non si sono accorti di nessuna criticità, da Frattasi, i professori, gli avvocati e le associazioni degli imprenditori sono state sottolineate le incongruenze e i limiti di questo sistema ed indicate soluzioni come l'obbligo di sentire l'imprenditore, fare verificare i provvedimenti interdittivi da un giudice terzo, accompagnare l'azienda colpita da interdittiva a superare lo stato di pericolo prima che possa giungere il fallimento. Con una consapevolezza che è emersa chiaramente: la criminalità organizzata non viene minimamente scalfita da questi provvedimenti che viceversa per la loro assoluta arbitrarietà e disprezzo per l'economia reale non possono che creare disaffezione e rancore verso le istituzioni.
Se non sai che il parente del tuo amico è mafioso sei mafioso anche tu…, scrive Tiziana Maiolo il 21 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Il politico patrocinò la festa paesana dello stacco organizzata da un parente di un presunto ndranghetista. Colpevole di “inconsapevolezza”, l’assessore va rimosso. Ci mancava solo Rosy Bindi nel caravanserraglio di quanti hanno preso di mira il Comune milanese di Corsico e il famoso (mancato) “Festival dello stocco di Mammola”, per saldare vecchi e nuovi conti politici. La Commissione bicamerale Antimafia è arrivata a Milano giovedì con un programma ambizioso: audizioni dei massimi vertici della magistratura (il procuratore generale Alfonso, il procuratore capo Greco e la responsabile della Dda Boccassini) e discussione sulla presenza di spezzoni di ‘ ndrangheta al nord, e in particolare nelle inchieste su Expo e il riciclaggio. Ma tutto è rimasto sbiadito in un cono d’ombra illuminato prepotentemente dal caso del merluzzo, il famoso stocco di Mammola, che viene festeggiato ogni anno da 38 anni in Calabria con il patrocinio dell’ambasciata di Norvegia, ma che non si può evidentemente esportare nel milanese. La Presidente Rosy Bindi è stata perentoria: l’assessore alle politiche giovanili Maurizio Mannino, che nell’ottobre dell’anno scorso aveva dato il patrocinio alla Festa dello stocco a Corsico senza rendersi conto del fatto che il promotore dell’evento era il genero di una persona indagata per appartenenza alla ‘ ndrangheta, deve essere subito rimosso. Altrimenti verrebbero avviate, per iniziativa di una serie di zelanti parlamentari del Pd, le procedure per arrivare al commissariamento del Comune di Corsico. Certo, dice la stessa Presidente dell’Antimafia, il sindaco era inconsapevole, ma “l’inconsapevolezza per essere innocente deve essere dimostrata”. Inversione dell’onere della prova, al di là e al di fuori da qualunque iniziativa giudiziaria, dunque. Il concetto è questo, in definitiva: se anche tu non sai con chi hai a che fare (cioè uno colpevole di essere parente di un altro), sei a tua volta colpevole a prescindere. E la cosa grave è che su questa vicenda di Corsico si soni mossi parlamentari del Pd (la famosa nuova generazione dei “garantisti”) come Claudio Fava e Franco Mirabelli e persino il mediatico promotore di libri nonché procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. Tutti compatti contro il sindaco Filippo Errante, colpevole di “tradimento”, perché da ex sindacalista e assessore di una giunta di sinistra, ha osato non solo allearsi con il centrodestra, ma addirittura portarlo alla vittoria dopo sessanta anni di governo ininterrotto di sinistra. Un capovolgimento politico che brucia ancora, dopo oltre un anno. Il che è comprensibile, soprattutto per la candidata sconfitta, l’ex sindaco Maria Ferrucci. La quale un risultato a casa l’ha portato, quello di riuscire a fare annullare la festa dello stocco e di conseguenza di indebolire la figura del neo- sindaco. Il quale sarà costretto oggi anche a rinunciare a un suo assessore di punta. Indebolendosi sempre più. Ma c’è da domandarsi se sia di grande soddisfazione politica per l’ex sindaco e per il suo partito essere costretti a denunciare per simpatia con le mafie una persona come il sindaco Errante che un tempo militava nelle loro fila. E cercare di sconfiggere per via burocratica e tramite i prefetti e le commissioni antimafia (neanche per via giudiziaria, non essendoci inchiesta alcuna all’orizzonte) chi ha vinto le elezioni. Democraticamente e non con un colpo di stato.
Storia di Pino Maniaci su Cnn: «Ha perseguitato la mafia, ora è lui il bersaglio», scrive il 26/12/2016 “La Sicilia”. La celebre rete televisiva americana dedica al direttore di Telejato, recentemente indagato per estorsione, un ampio servizio sulle sue pagine on line. "Pino Maniaci è stato uno dei pochi ad avere avuto il coraggio di denunciare la mafia in Sicilia". La Cnn dedica al direttore di Telejato un lungo servizio pubblicato sulle sue pagine on line, un servizio dove ricostruisce la vicenda di Maniaci finito sotto inchiesta a sua volta per estorsione ai danni di un amministratore locale. "He goes after the mob; now he’s the target", ha perseguitato la mafia, ora è lui il bersaglio, scrive il reporter Joel Labi, in una lunga inchiesta nella quale compare anche una intervista video intitolata "The Mafia Hunter", "Il Cacciatore di mafiosi". "Il reporter Pino Maniaci - scrive la Cnn - è stato una delle poche persone a denunciare pubblicamente la mafia in Sicilia". Maniaci, sottolinea l’influente emittente televisiva statunitense, "ha usato la sua piccola televisione fatta in casa per combattere il crimine organizzato" da allora "è diventato bersaglio a sua volta".
Parola anche ad Antonio Ingroia, legale di Maniaci: "non ho mai visto niente di simile nei miei vent'anni come magistrato e avvocato", afferma l’ex pm. "Si sta utilizzando un video (quello delle intercettazioni ambientali, ndr) per distruggere un uomo di televisione...". Non è la prima volta che la storia di Maniaci finisce sulla stampa internazionale. In passato anche The Guardian e l’Economist hanno dedicato spazio al direttore di Telejato.
Caso Maniaci, Ingroia: “Ci voleva la CNN per ricordare un processo surreale”, scrive "Telejato" il 26 dicembre 2016. “C’è voluta la CNN per ricordare che in Italia sta per cominciare un processo surreale come quello a carico di un giornalista coraggioso come Pino Maniaci. Pur avendo milioni di notizie da dare, la più grande tv del mondo ha deciso di raccontare con un lungo articolo sulla homepage del suo sito internet la storia di un’indagine basata sul nulla, costruita dalla Procura di Palermo su accuse infondate o su fatti per i quali Maniaci ha fornito ampia e puntuale spiegazione”. Così l’avvocato Antonio Ingroia, difensore con l’avvocato Bartolomeo Parrino di Pino Maniaci. “Dovrebbe far riflettere – aggiunge – com’è stato trattato il caso in Italia, dove la gran parte della stampa ha già processato e condannato mediaticamente Maniaci, con superficialità e approssimazione, dando per certa la tesi della Procura. Una dimostrazione di sconcertante conformismo, un conformismo confermato anche dalla reazione di alcuni organi di stampa nazionali, subito pronti a criticare la CNN con l’accusa di aver dimenticato di dare la notizia dell’uccisione dei cani di Maniaci e della reazione che Maniaci ebbe. Una circostanza non rilevante ai fini del processo e di cui comunque Maniaci ha ampiamente dato spiegazione nelle sedi opportune. Ma tant’è – conclude Ingroia – c’è chi ha già emesso la sua sentenza e non vuole sentirsi dire che forse si è sbagliato”.
Lettera aperta di Pino Maniaci ai colleghi giornalisti, scrive il 28 settembre 2016 "Telejato". «Cari colleghi, sin dal primo giorno in cui vi è stata data la notizia, il video e le intercettazioni delle vicende in cui la Procura di Palermo ha deciso di “impallinarmi”, assieme a nove mafiosi di Borgetto che con me non c’entravano niente, a nessuno di voi è venuto il minimo dubbio che ci fosse qualcosa che non quadrava. Conosco il vostro rapporto con i magistrati: sono loro che vi passano le notizie e il materiale per integrarle, quindi nessuno di voi oserebbe mettere in discussione l’operato di chi, alla tirata delle somme, offre gli elementi per mandare avanti il proprio lavoro, di chi vi fa campare. Tutti avete emesso, in partenza la sentenza di condanna, sia perché quello che dice la Procura non si discute, sia perché rispetto a voi io non sono un giornalista, non merito questa etichetta e, addirittura, diffamo la vostra categoria. Ad alcuni non è parso vero di potere dilatare la macchina del fango messa in moto nei miei confronti. Altri hanno sottilmente distinto l’aspetto penale, per la verità molto fragile, da quello “morale” o etico, arrivando alla conclusione che se i risvolti penali di ciò di cui ero accusato erano irrilevanti, dal punto di vista morale io ero condannato e condannabile perché le intercettazioni che abilmente erano state confezionate e vi erano state date in pasto, mettevano in evidenza una persona senza scrupoli e senza rispetto per i valori minimi della convivenza e della morale comune: come potevo io fare la predica agli altri, quando non avevo rispetto per le istituzioni, per la magistratura e la legalità da essa rappresentata, per i politici, per il Presidente della Repubblica e persino per la mia famiglia? Anche adesso che, dopo essere stato finalmente ascoltato, alcune cose sono state chiarite, molti di voi sono rimasti fermi alla prima devastante impressione che vi è stata offerta e che escludeva addirittura qualsiasi personale rivalsa da parte di quei settori del tribunale di cui avevo messo in luce la vergognosa gestione. Sono stati ignorati, da parte vostra, che pur li conoscevate bene, anni d’impegno, di denunce, di servizi a rischio, di documentazione di attività sociali, culturali, religiose. È stato ignorato il ruolo di una redazione in costante rinnovo, ignorata la presenza di scolaresche, associazioni, volontariato, sincera collaborazione, il tutto senza un minimo di risvolto o di vantaggio economico. Cosa aggiungere? Che nessuno di voi, diversamente da quanto posso io fare, ha la piena libertà di scrivere ed esprimere i propri giudizi, dal momento che questi si uniformano a quelli di chi vi paga o vi dà le informazioni? La libertà di stampa non è acqua fresca e lo si nota giornalmente dal modo in cui vengono confezionati giornali e telegiornali e dalla scarsa capacità di chi vede e ascolta, di maturare un proprio giudizio e di notare subito dove sta il trucco o lo stravolgimento della notizia. Che aggiungere? Il regime non è finito, anzi sta cercando di rafforzarsi sia con lo stravolgimento dei principi costituzionali su cui andremo a votare, sia con le minacce di coloro che da sempre hanno agito indisturbati, sia con gli avvertimenti mafiosi, sia con il reato di diffamazione a mezzo stampa, che non si ha nessuna voglia di cambiare per agevolare il nostro lavoro. La titolare della Distilleria Bertolino una volta lo disse con chiarezza: “Una volta c’era la pistola, adesso basta la denuncia”. Oppure un buon servizio giornalistico. Una volta che la pietra è stata buttata ritirarla diventa difficile, anzi impossibile.»
Xylella, Trentino contro la Puglia: «Causa vostra, giù export di mele», scrive Marco Mangano il 20 novembre 2016 su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La Xylella Fastidiosa spacca l’Italia ortofrutticola. Il batterio killer degli ulivi, oltre ad assestare colpi violenti al paesaggio, al territorio, all’immagine della Puglia, arreca «danni collaterali» (mutuando il titolo del famoso film interpretato da Arnold Schwarzenegger) anche alla parte dell’economia agricola del tutto estranea alla batteriosi. La Giordania esige dagli esportatori certificati in cui si assicuri l’assenza della patologia. Ciò, oltre ad avvenire per l’uva pugliese, si verifica per le mele trentine. Ed è qui che casca l’asino: i produttori della Val di Non puntano l’indice contro la Puglia: sostengono che se non fosse stato per loro non avrebbero subito alcun calo nell’export verso la Giordania. Un danno riflesso alla zona delle mele d’eccellenza. «Stiamo incontrando problemi di ordine burocratico poiché la Giordania chiede ai produttori pugliesi di dichiarare sul certificato fitosanitario che i prodotti sono esenti da Xylella», afferma Giacomo Suglia, presidente pugliese dell’Apeo (associazione produttori ed esportatori ortofrutticoli) nonché vicepresidente nazionale di FruitImprese. «Ritengo - osserva - che il ministero delle Politiche agricole debba intervenire per fare chiarezza: intendo dire che sarebbe opportuna una campagna attraverso cui i Paesi importatori potessero essere rassicurati circa l’impossibilità che prodotti come l’uva, le mele e molti altri possano essere colpiti dal batterio. I frutti sono estranei alla patologia e, pertanto, non possono arrecare alcun danno alla salute, né trasferire la patologia». Insomma, la Xylella diventa una questione di politica agricola, per nulla trascurabile. La Puglia deve difendersi non soltanto dagli attacchi della sputacchina, l’insetto vettore che spadroneggia fra gli uliveti, assicurando notti insonni agli olivicoltori del Barese (dove si produce l’altissima qualità), ma anche dalle accuse del Nord. Diamo un’occhiata all’avanzata del batterio: dopo essere sbarcato a Ostuni e a Martina Franca (come anticipato in entrambi i casi dalla Gazzetta), la situazione pare incontrollabile. E non soltanto sul piano dell’espansione batterica. I nervi vengono messi a dura prova: abbiamo già riferito del conflitto fra Cia e Anas. Lo scorso 20 ottobre, in seguito all’individuazione di un focolaio a Ostuni, in una stazione di servizio all’altezza dei villaggi turistici «Monticelli» e «Rosa Marina», la Regione firmava un’ordinanza di sradicamento non solo dell’ulivo colpito dalla batteriosi, ma anche delle piante ospiti. Venivano, però, abbattuti l’albero ammalato e le piante che si trovavano nel raggio di cento metri dall’ulivo, ma non quelle (oleandri) che - nello stesso raggio di 100 metri - ricadevano e ricadono in aree di pertinenza dell’Anas. La confederazione sostiene che queste piante siano pericolose e che non abbia senso limitare lo sradicamento solo ad alcuni alberi. La Cia scrive all’Anas, sollecitandola a procedere nel più breve tempo possibile allo sradicamento.
La leggenda assurda della mafia che incendia i boschi e i monti, scrive Alberto Cisterna il 27 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Sia chiaro uno può anche sbagliare. Ma ad occhio e croce saranno vent’anni che circola la storia che ad incendiare i boschi ed a devastare le colline della Calabria, della Sicilia o della Campania siano ndrangheta, mafia e camorra. La leggenda assurda della mafia che incendia i boschi e i monti. Tuttavia, a memoria, non ci si ricorda di uomini delle cosche che siano stati arrestati e men che meno condannati per barbarie del genere. Non è un’esclusiva della Calabria dove la tesi circola da maggiore tempo. In Sicilia e in Campania si sentono le stesse cose da altrettanti anni. Tra squinternati, giovinastri, villeggianti incauti, pastori in cerca di pascoli, vigili del fuoco esaltati, il panorama (il bestiario) degli incendiari è composito e multiforme, ma di mafiosi non si vede neanche l’ombra. La qualcosa, alla lunga, non può restare priva di ricadute. O gli inquirenti sono degli inetti che non riescono a venire a capo della questione oppure, in genere, le mafie non c’entrano nulla. E poiché occorre scartare la prima ipotesi, tenuto conto del livello delle forze antimafia nel paese, la seconda prospettiva comincia a prendere piede in modo sostanziale. Non è una questione da poco. Un conto è teorizzare una strategia mafiosa volta a depredare e deturpare il territorio, altro è dare la caccia ai portatori di microinteressi e microbisogni, quando non a dei veri e propri teppisti e mascalzoni. Si tratta di adottare strategie del tutto diverse, ricorrere a strumenti investigativi completamente nuovi. Ad esempio qualche drone gioverebbe più di cento intercettazioni. Nel frattempo, invece, è tutto un teorizzare, ipotizzare, allarmare in vista di tenebrose trame mafiose che, alla fine, è il caso di dire, risultano fumose e prive di riscontri. D’altronde bruciano la California, la Spagna, la Francia, la Grecia, il Portogallo, ed in modo anche più devastante che in Italia, e nessuno si azzarda a lanciare l’idea che le mafie italiane, espandendosi per il mondo, si siano messe a dar fuoco alle foreste di mezzo globo come se fossero in Aspromonte. E’ all’incirca una sciocchezza e, come tutte, le superstizioni ha una matrice tutta italica. Il sillogismo è semplice: la mafia controlla il territorio in modo capillare, il territorio brucia, la mafia incendia il territorio. Naturalmente, come tutte le aberrazioni logiche, anche questa parte da un postulato opinabile, anzi da due. Non è più vero, e per fortuna da un paio di decenni, che le mafie controllino il territorio in modo così asfissiante e meticoloso, come in passato. Hanno strategie ed obiettivi diversi e il controllo è costoso e poco redditizio ormai. In secondo luogo il fatto che i boschi brucino non realizza alcun evidente interesse delle mafie che, difatti, nessuno indica con un minimo di precisione. Piuttosto, per molti decenni, i più importanti esponenti della ndrangheta amavano essere additati come i «re della montagna». Si facevano chiamare così i più pericolosi ras della ndrangheta reggina, tutti direttamente impegnati nell’industria boschiva che ha costituito, almeno nella Calabria aspromontana, la prima forma di imprenditoria mafiosa. Dalla montagna e dal suo controllo la ndrangheta ha ricavato vantaggi enormi, si pensi soltanto alla stagione dei sequestri di persona e alle fasi iniziali dello stoccaggio della cocaina. In montagna, in fosse scavate nel terreno, la ndrangheta ci nascondeva persino il denaro. E poi è vero o no che i picciotti hanno invocato per decenni la protezione della Madonna della Montagna a Polsi? Basterebbe rileggere con attenzione il capolavoro di Gioacchino Criaco, Anime nere, per rendersi conto di quale rapporto ancestrale, interiore, anzi intimo leghi la gente di ‘ndrangheta (come tanti calabresi perbene) alla montagna e sbarazzarsi, così, di una certa allure che nasconde, da qualche tempo, le proprie inefficienze dietro lo spettro di una mafia purtroppo, a suo dire, imbattibile. Sia chiaro, non si sono mai viste neppure coppole iscritte al WWF o versare contributi ad Italia Nostra, ma qui parliamo di interessi, di denaro, di progetti di egemonia che dovrebbero indurre i boss ad appiccare incendi qui e là in giro per il Mezzogiorno d’Italia. Tra parecchie dozzine di pentiti e decine di migliaia di intercettazioni, che nulla raccontano in proposito, gli unici a farsi beccare al telefono a parlare di fuoco e fiamme sono stati i vigili volontari di Ragusa per intascare dieci euro l’ora. Siccome la storia prosegue, come detto, da troppo tempo è forse giunta l’ora di chiedere le prove a chi sostiene cose del genere. La pubblica opinione è ormai alluvionata dai “ragionamenti” degli inquirenti, avrebbe diritto anche alla dimostrazione di ciò che si sostiene. Se davvero ci fossero le cosche dietro la distruzione piromane sarebbe un fatto gravissimo, un vero e proprio attentato alla Repubblica. Un atto di guerra e, come ricordava Georges Benjamin Clemenceau, «La guerra è una cosa troppo seria per lasciarla in mano ai militari», figuriamoci ad altri.
IL RACKET DEI TURISTI NORDISTI.
La notte del terremoto di Ischia: non volevano pagare il ticket dell’aliscafo, dopo aver dimenticato…di pagare l’albergo! Scrive il 27 agosto 2017 "Il Corriere del Giorno". Un gesto miserabile dei turisti la notte del terremoto di Ischia: oltre 400 mila euro di conti non pagati. Un comportamento al livello di quelli sciacalli che predano le case distrutte dal terremoto approfittando del fuggi fuggi. Mentre si discute dell’abuso edilizio, e mentre si parla delle vittime degli abusi, emerge lo squallore l’abuso nella maestria della truffa. Lo ha reso noto l’Associazione Albergatori di Ischia svelando il comportamento truffaldino di persone che con la scusa dell’emergenza hanno scelto la via della fuga dagli hotels senza pagare il conto. Un gruppo senza dignità di squallide persone hanno fatto i bagagli con la scusante della paura, approfittando della tragedia per evitare di aprire il proprio portafoglio. I racconti giornalistici del giorno dopo della scossa di terremoto sull’ Isola di Ischia, ci avevano riferito dei diecimila turisti in vacanza sull’isola durante il terremoto, che avevano preferito fare un rapido ritorno nelle loro case d’origine, la mattina dopo la scossa sismica. La ragione, scriveva la stampa, ignara, sembrava comprensiva. In molti se ne erano andati annullando la vacanza, facendo in realtà anche danno a se stessi, o almeno così era sembrata. Ma l’associazione albergatori di Ischia ha reso noto che questi “turisti-vigliacchi-truffatori”, se ne sono andati lasciando oltre 400.000 euro di conti non saldati nei loro alberghi e residences turistici ove alloggiavano. Quindi non siamo di fronte ad un caso isolato dunque, non si è trattato di una dimenticanza dettata dalla fretta o dalla paura, ma un comportamento collettivo, quasi un comune intento truffaldino. Con le forze dell’ordine completamente impegnate nei soccorsi e nello sgombero dalle aree maggiormente colpite, e contando anche sull’immancabile clima di confusione generale, per tanti turisti-truffatori l’esodo anticipato di qualche giorno ha fornito l’alibi perfetto per abbandonare senza pagare anche le case prese in fitto per le vacanze di agosto. O quanto meno, senza completare il pagamento, dopo aver versato solo la caparra all’arrivo. Non si sono riuniti per concordare un’azione comune, ma in tanti hanno pensato e fatto la stessa cosa. Si son detti “per fortuna che ci sono le macerie, così non si accorgeranno che me ne vado senza essere scoperto, e soprattutto senza pagare il conto”. Dei veri e propri vigliacchi-truffatori quindi per minimo due motivi: Primo. Si sono comportati come i predoni-avvoltoi che rubano nelle case distrutte dal terremoto approfittano di una condizione necessità per trarne profitto. Secondo. Solo dei miserabili mentre si discute degli abusi edilizi, e mentre si parla delle vittime degli abusi, fanno dell’abuso il loro stile di vita, e manifestando la loro “maestria” nella truffa. La vicenda dei fitti non pagati fa il paio con quella relativa alla pretesa, avanzata sempre l’altra notte dai tanti in fuga dall’isola, di non pagare il biglietto del traghetto, perchè “evacuati dal terremoto” “L’altra notte si sono pure presi a botte sulle banchine pur di trovare un posto sulle navi, e adesso sappiamo perché. Non era il panico per nuove scosse di terremoto, quanto piuttosto la paura di non riuscire a scappare in tempo senza aver pagato il conto” raccontano non senza ironia i poliziotti in servizio presso il Commissariato P.S. di Ischia, dove alla fine qualcuno dei creditori beffati e truffati si è rivolto. La prima furbizia è andata bene. Ma dopo il lauto pranzo gratis, i soliti furbi almeno il caffè sono stati costretti a pagarlo. Le compagnie marittime infatti si sono fatte pagare regolarmente il trasporto e al massimo hanno convertito senza costi di transazione i biglietti prenotati per fine agosto, anticipandoli alla data dell’altra notte. Non è questa certamente la prima volta che villeggianti o clienti d’albergo in vacanza a Ischia, si dileguano prima di aver saldato il conto della vacanza. È sicuramente però la prima volta che i furbetti della vacanza hanno trovato nel terremoto un complice che ne ha avallato la fuga. Fredda, seppure sconsolata e rabbiosa la considerazione di Ermando Mennella, presidente della Federalberghi delle isole di Ischia e Procida. “La quantificazione non si regge su basi scientifiche, è ovvio, ma su una serie di fattori comunque chiari. Sono cinquemila le persone che hanno lasciato le strutture alberghiere prima della conclusione della vacanza, in seguito alla paura generata dalla scossa. E altrettante sono andate via dalle seconde case, dalle abitazioni di proprietà o da quelle prese in affitto per questo periodo. Poi bisogna aggiungere un migliaio di pendolari della nuotata che non stanno più affollando traghetti e aliscafi secondo lo schema classico del mordi e fuggi”. Un turista, una famiglia di turisti, che se ne vanno dagli alberghi senza pagare il conto, in un’isola come Ischia che vive di turismo, che è stata letteralmente messa in ginocchio da una catastrofe naturale, secondo noi è paragonabile ad una persona che trovandosi sul luogo di un incidente d’auto, vedendo una vittima a terra, ferita, gli si avvicina -, ma non per prestarle soccorso, ma solo con il fine vergognoso di rubarle il portafogli.
Questi sono dei veri e propri miserabili. Ora sono tornati nelle proprie case, staranno contando i soldi risparmiati, ma non sanno che rischiamo di essere inseguiti dalla sfortuna. E’ noto che quello che la vita regala, per un destino fatale, prima o poi la vita toglie…
La meta del turista fai da te che arriva in Salento è il mare, il sole, il vento ma è stantio a metter mano nel portafogli e nell’intelletto. C’è tanta quantità, ma poca qualità. Il turista fai da te che arriva nel Salento è come un profugo in cerca spasmodica di benessere gratuito. Crede nei luoghi comuni e nei pregiudizi, nelle false promesse e nelle rappresentazioni menzognere mediatiche. Con prenotazione diretta last minute, al netto dell’agenzia, prende un appartamento con locazione al ribasso e con pretesa di accesso al mare. Si aggrega in gruppo per pagare ancora meno. Ma a lui sembra ancora tanto. Poi si meraviglia della sguaiatezza di ciò che ha trovato. Tutto l’anno fa la spesa nei centri commerciali e pretende di trovarli a ridosso del mare. Non vuol fare qualche kilometro per andare al centro commerciale più vicino, di cui i paesi limitrofi son pieni, e si lamenta dei prezzi del negozietto stagionale sotto casa. Durante l’anno non ha mai mangiato una pizza al tavolo e quando lo fa in vacanza se ne lamenta del costo. Vero è che il furbetto salentino lo trovi sempre, ma anche in Puglia c’è la legge del mercato: cambia pizzeria per il prezzo giusto. Il turista fai da te tutto l’anno vive in palazzoni anonimi, arriva in Salento e si chiude nel tugurio che ha affittato con poco e poi si lamenta del fatto che in loco non c’è niente, nonostante sia arrivato nel Salento, dove ogni dì è festa di sagre e rappresentazioni storiche e di visite culturali, che lui non ha mai frequentato perché non si sposta da casa sua. Comunque una tintarella a piè di battigia del mare cristallino salentino è già una soddisfazione che non ha prezzo. Il turista fai da te si lamenta del fatto che sta meglio a casa sua (dove si sta peggio per cognizione di causa) e che qui non vuol più tornare, ma, nonostante il piagnisteo, ogni anno te lo ritrovi nella spiaggia libera vicino al tuo ombrellone. Si lamenta della mancanza di infrastrutture. Accuse proferite in riferimento a zone ambientali protette dove è vietato urbanizzare e di cui egli ne gode la bellezza. A casa sua ha lasciato sporcizia e disservizi, ma si lamenta della sporcizia e della mancanza di servizi stagionali sulle spiagge. Intanto, però, tra una battuta e l’altra, butta cicche di sigaretta e cartacce sulla spiaggia e viola ogni norma giuridica e morale. La raccolta differenziata dei rifiuti, poi, non sa cosa sia. Ogni discorso aperto per socializzare si chiude con l’accusa ai meridionali di sperperare i soldi pagati da lui. Lui, ignorante, brutto e cafone, che risulta essere, anche, evasore fiscale. Il turista fai da te lamentoso è come il profugo: viene in Salento e si aspetta osanna, vitto e alloggio gratis di Boldriniana fattura. Ma nel Salento accogliente, rispettoso e tollerante allora sì che trova un bel: Vaffanculo…
Quando il turista malcapitato viene a San Pietro in Bevagna, a Specchiarica o a Torre Colimena dice: “qua non c’è niente e quel poco è abbandonato e pieno di disservizi. Non ci torno più!” Al turista deluso e disincantato gli dico: «Campomarino di Maruggio, Porto Cesareo, Gallipoli, Castro, Otranto, perché sono famosi?» “Per il mare, per le coste, per i servizi e per le strutture ricettive” risponde lui. «Questo perché sono paesi marinari a vocazione turistica. Ci sono pescatori ed imprenditori e gli amministratori sono la loro illuminata espressione» chiarisco io. «E Manduria perché è famosa?» Gli chiedo ancora io. “Per il vino Primitivo!” risponde prontamente lui. Allora gli spiego che, appunto, Manduria è un paesone agricolo a vocazione contadina e da buoni agricoltori, i manduriani, da sempre i 17 km della loro costa non la considerano come una risorsa turistica da sfruttare, (né saprebbero come fare, perché non è nelle loro capacità), ma bensì semplicemente come dei terreni agricoli non coltivati a vigna ed edificati abusivamente, perciò da trascurare e da mungere tributariamente.
Antonio Giangrande, turismo e risorse ambientali: “Ci vogliono brutti, sporchi e cattivi”. 19 settembre 20016. Dibattito pubblico a Otranto, in Puglia, sul tema: “Prospettive a Mezzogiorno”. Il resoconto del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Nel Salento: sole, mare e vento. Terra di emigrazione e di sotto sviluppo economico e sociale dei giovani locali. Salentini che emigrano per mancanza di lavoro…spesso con un diploma dell’istituto alberghiero. Salentini che perennemente si lamentano della mancanza di infrastrutture per uno sviluppo economico e che reiteratamente protestano per i consueti disservizi sulle coste e sui luoghi di cultura. Salentini con lo stipendio pubblico che si improvvisano ambientalisti affinchè si ritorni all’Era della pietra. Salentini con la sindrome di Nimby: sempre no ad ogni proposta di sviluppo sociale ed economico, sia mai che i giovani alzino la testa a danno delle strutture politiche padronali. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. Salentini che dalla nascita fin alla morte si accompagnano con le stesse facce di amministratori pubblici retrogradi che causano il sottosviluppo e che usano ancora il metro di misura dei loro albori politici: per decenni sempre gli stessi senza soluzione di continuità e di aggiornamento.
Presente al convegno Flavio Briatore, fine conoscitore del tema, boccia il modello turistico italiano, partendo proprio dalla Sardegna del suo Billionaire. Intanto per il caro trasporti: «Hanno un’isola e non lo sanno – dice Briatore alla platea del convegno – pensano che la gente arrivi per caso. La gente arriva o via mare o via aerea: sono due monopoli, per cui fanno i prezzi (che vogliono). Se tu vai da Barcellona a Maiorca, quattro persone sul traghetto spendono 600 euro. Da Genova ad Alghero ne spendono 1600. L’80 per cento degli amministratori – aggiunge ancora Briatore – non ha mai preso un aereo. Come si fa a parlare di turismo senza averlo mai visto?».
Briatore è poi passato alla Puglia, dove nell’estate 2017 aprirà il Twiga Beach di Otranto grazie a una cordata di imprenditori locali ed ha criticato l’offerta turistica del territorio, sottolineando in particolare la mancanza di servizi adeguati alle esigenze dei turisti più facoltosi, sorvolando sulla mancanza di infrastrutture primarie: «Se volete il turismo servono i grandi marchi e non la pensione Mariuccia, non bastano prati, né musei, il turismo di cultura prende una fascia bassa di ospiti, mentre il turismo degli yacht è quello che porta i soldi, perché una barca da 70 metri può spendere fino a 25mila euro al giorno. Masserie e casette, villaggi turistici, hotel a due e tre stelle, tutta roba che va bene per chi vuole spendere poco – ha affermato Briatore – ma non porterà qui chi ha molto denaro. Ci sono persone che spendono 10-20mila euro al giorno quando sono in vacanza, ma a questi turisti non bastano cascine e musei, prati e scogliere – ha continuato l’imprenditore – io so bene come ragiona chi ha molti soldi: vogliono hotel extralusso, porti per i loro yacht e tanto divertimento». Non poteva essere altrimenti: Briatore ha puntato il dito sulle mancanze di infrastrutture a sostegno di quelle strutture turistiche mancanti ad uso e consumo di un’utenza diversificata e non solo mirata ad un turismo di massa che non guarda alla qualità dei servizi ed alla mancanza di infrastrutture. Una semplice analisi di un esperto. Una banalità. Invece…
Sulle affermazioni di Briatore si è scatenato un acceso dibattito, in particolare sui social: centinaia i commenti, quasi tutti contro.
I contro, come prevedibile, sono coloro che sono stati punti nel nerbo, ossia gli amministratori incapaci di dare sviluppo economico e risposte ai ragazzi che emigrano e quei piccoli imprenditori che con dilettantismo muovono un giro di affari di turismo di massa a basso consumo con scarsa qualità di servizio.
L’assessore regionale Sardo Maninchedda: «A parole stupide preferisco non rispondere».
Francesco Caizzi, presidente di Federalberghi Puglia replica alle parole dell’imprenditore: «La Puglia non è Montecarlo, Briatore si rassegni. La Puglia ha hotel che vanno dai 2 stelle ai 5 stelle, dai bed & breakfast agli affittacamere. Sono strutture per tutte le tasche e le esigenze, ma con un unico denominatore comune: rispettano l’identità del luogo. Questo significa che non ci si può aspettare un’autostrada a 4 corsie per raggiungere una masseria. È probabile che si dovrà percorrere un tratto di sterrato, ma nessuno ha mai avuto da ridire su questo. Anzi, fa parte del fascino del luogo».
Loredana Capone, assessore imperituri (governo Vendola per 10 anni e con il Governo Emiliano), che ha concluso da poco un lavoro di diversi mesi sul piano strategico del turismo, ha illustrato il punto di vista di un eterno amministratore pubblico: «Dobbiamo partire da quello che abbiamo per puntare ai mercati internazionali. Come stiamo nei mercati? Prima di tutto evitando qualsiasi rischio di speculazione e abusivismo. È puntando sulla valorizzazione del patrimonio, residenze storiche, masserie, borghi, che saremo in grado di offrire un turismo di qualità, capace di portare ricchezza. Non i grandi alberghi uguali dappertutto, modelli omologati e omologanti. Anche gli investimenti internazionali puntano al recupero più che alla nuove costruzioni».
La visione di Briatore proprio non piace a Sergio Blasi, altro esponente eterno del Pd che si è detto disponibile a concorrere alla primarie del centrosinistra a Lecce: «Briatore punta alla creazione di non-luoghi riservati all’accesso esclusivo di una élite economica ad altissima qualità di spesa, nei quali conta chi sei prima di entrare e non quello che sarai diventato alla fine del tuo viaggio o della tua vacanza. Io la ritengo una prospettiva poco interessante per il Salento. E lo dico da persona che ha criticato fortemente la svolta “di massa” di alcune attrazioni, che a furia di sbandierare numeri sempre più alti finiscono per rovinare più che per valorizzare le opportunità di crescita. Ma esiste un mezzo – ha proseguito nel suo post l’ex segretario regionale del Pd – nel quale collocare un’offerta turistica che sia in grado di valorizzare le potenzialità inespresse, e sono tante, garantendo al contempo una “selezione” non in base al ceto sociale quanto agli interessi e alle aspettative del turista. Noi dobbiamo guardare ad un turismo che apprezza la cultura, anche quella popolare, la natura e il paesaggio. Che apprezza i musei e i centri storici tanto quanto il buon vino e il buon cibo. Che sia in grado di apprezzare e rispettare la terra che visita e di non farci perdere il rispetto per noi stessi».
Per Albano Carrisi: “La Puglia piace così!”
Naturalmente l’Italia degli invidiosi, che odiano la ricchezza, quella ricchezza che forma le opportunità di lavoro per chi poi, senza quell’occasione è costretto ad emigrare, non ha notato la luna, ma ha guardato il dito. Il discorso di Briatore non è passato inosservato sul web dove alcuni utenti classisti, stupidi ed ignoranti hanno manifestato subito il loro disappunto. “Tranquillo Briatore, i parassiti milionari che viaggiano e non pagano non ce li vogliamo in Puglia”, ha commentato un internauta, “Noi vogliamo musei e prati perché vogliamo gente che ami cultura e natura. Gli alberghi di lusso fateli a Dubai”, ha ribattuto un altro.
Ci vogliono brutti, sporchi e cattivi. E’ chiaro che il Salento quello ha come risorsa: sole, mare e vento. E quelle risorse deve sfruttare: in termini di agricoltura, ma anche in termini di turismo, essendo l’approdo del mediterraneo. E’ lapalissiano che le piccole e le grandi realtà turistiche possono coesistere e la Puglia e il Salento possono essere benissimo l’alcova di tutti i ceti sociali e di tutte le esigenze. E se poi le grandi strutture turistiche incentivano opere pubbliche eternamente mancanti a vantaggio del territorio, ben vengano: il doppio binario, strade decenti al posto delle mulattiere, aeroporti, collegamenti ferro-gommati pubblici accettabili per i pendolari ed i turisti, ecc.. Ma il sunto del discorso è questo. Salento: sole, mare e vento. Ossia un luogo di paesini e paesoni agricoli a vocazione contadina con il mito tradizionale della “taranta” e della “pizzica”. E da buoni agricoltori, i salentini, da sempre, la loro costa non la considerano come una risorsa turistica da sfruttare, (né saprebbero come fare, perché non è nelle loro capacità), ma bensì semplicemente come dei terreni agricoli non coltivati a vigna od ulivi ed edificati abusivamente, perciò da trascurare. Ed i contadini poveri ed ignoranti, si sa, son sottomessi al potere dei politicanti masso-mafiosi locali.
Stesso discorso va ampliato in tutto il Sud Italia. Gente meridionale: Terroni e mafiosi agli occhi dei settentrionali, che invidiano chi ha sole, mare e vento, e non si fa niente per smentirli, proprio per mancanza di cultura e prospettive di sviluppo autonomo della gente del sud: frignona, contestataria e nel frattempo refrattaria ad ogni cambiamento e ad una autonoma e propria iniziativa, politica, economica e sociale.
Allora chi è causa del suo mal, pianga se stesso.
ITALIANI. MAFIOSI PER SEMPRE.
Mafia, un brand di successo, scrive il 4 agosto 2017 Attilio Bolzoni su "La Repubblica". E' la parola italiana più conosciuta al mondo. Più di pizza, più di spaghetti. La troviamo in tutti i dizionari e in tutte le enciclopedie di ogni Paese, dal Magreb all'Australia, dall'America Latina al Giappone. Ha la sua etimologia probabilmente nell'espressione araba "maha fat”, che pressappoco vuol dire protezione o immunità. Quando un italiano - e soprattutto un siciliano - va all'estero, la battuta è sempre una, immancabile: «Italia? Mafia. Italiano? Mafioso». E poi giù una risata. Come se l'argomento fosse divertente. La parola mafia non ha sempre avuto lo stesso significato. Un secolo fa rappresentava una cosa, un'altra negli Anni Cinquanta e Sessanta, un'altra ancora dopo le uccisioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ogni epoca ha avuto la sua mafia. Ufficialmente esiste dal 25 aprile del 1865 - quando il termine "Maffia", scritto con due effe, apparve per la prima volta in un rapporto ufficiale inviato dal prefetto Filippo Antonio Gualterio al ministro dell'Interno del tempo - ma ha avuto la sua incubazione almeno un secolo prima. Nel Regno delle Due Sicilie c'erano sette e unioni e "fratellanze" con a capo un possidente, un notabile e spesso anche un arciprete. Fenomeno tipico della Sicilia e delle regioni meridionali - in Campania è camorra e in Calabria 'ndrangheta - secondo i funzionari governativi di quegli anni «era incarnata nei costumi ed ereditata col sangue». Per letterati e studiosi delle tradizioni popolari come Giuseppe Pitrè «il mafioso non è un ladro, non è un assassino ma un uomo coraggioso...e la mafia è la coscienza del proprio essere, l'esagerato concetto della propria forza individuale». Dal 9 settembre del 1982 essere mafioso in Italia è reato. Dal 30 gennaio del 1992 - sentenza della Corte di Cassazione sul maxi processo a Cosa Nostra - la mafia è considerata un'associazione criminale e segreta. Ma nonostante ciò la parola mafia è diventata un "marchio" di qualità, un brand di successo. Nel febbraio del 2014 sono andato in Spagna per realizzare un reportage su una catena di 34 ristoranti che si chiamano "La Mafia se sienta a la mesa", la mafia si siede a tavola. Ai loro clienti offrono una carta fedeltà e una "zona infantil" riservata ai bambini con speciali menu. Per fortuna la presidente della commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi ha portato avanti una battaglia attraverso il ministero degli Esteri e, dopo un paio d'anni, l'Ufficio Marchi e Disegni dell'Unione Europea ha censurato i proprietari della catena di ristoranti spagnoli accogliendo un ricorso dell'Italia «per l'invalidità del marchio». In Austria hanno pubblicizzato un "panino Falcone", nome del giudice grande nemico dei boss ma che «purtroppo sarà grigliato come un salsicciotto». In Sicilia si vendono da sempre gadget inneggianti ai mafiosi, pupi con la lupara, tazze con il profilo del Padrino-Marlon Brando, magliette e adesivi che fanno il verso a Cosa Nostra. In Germania ha grande mercato da qualche anno la musica della mafia, spacciata anche da alcuni miei colleghi tedeschi come «autentica cultura calabrese». Ho ascoltato una canzone "dedicata" all'uccisione del prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa. Comincia così: «Hanno ammazzato il generale/non ha avuto neanche il tempo di pregare...». Oscenità smerciate come tradizione popolare.
MAFIA COMUNISTA. IL RACKET DELLE OCCUPAZIONI ABUSIVE DEGLI IMMOBILI.
Non mi sento italiano…ma per fortuna o purtroppo lo sono…A proposito dello sgombero dell’immobile occupato abusivamente da stranieri a Roma: Perché gli organi di informazione ideologizzati, che hanno perso ogni forma di credibilità, esaltano una frase detta sotto pressione e tensione da un solo poliziotto e sottacciono le violenze a danno degli altri agenti di polizia? E perché gli scribacchini si indignano dello sgombero di un immobile occupato abusivamente e pagato con i fondi pensione dei cittadini italiani, mentre tacciono spudoratamente, quando ad essere cacciati di casa sono quei cittadini italiani vittime di sfratti o esecuzioni forzate, frutto di usure bancarie impunite o di sentenze vendute?
Immobili occupati illegalmente. Il Governo catto comunista, anziché ristabilire l’ordine, spiega che prima dello sgombero, bisogna pensare a trovare una casa agli occupanti criminali. Si pensa di assegnare ai mafiosi occupanti le case confiscate (spesso illegalmente) ai mafiosi o presunti tali. Un vero esproprio proletario a danno dei cittadini onesti italiani (chi mafioso non è ma si vede confiscato un bene e chi, cittadino onesto indigente non occupante, che non si vede assegnare una casa di cui ha diritto.
Clandestini occupanti abusivi: Italia spaccata. Abbiamo paura perfino dei cinghiali…scrive "Blitz Quotidiano" il 28 agosto 2017. C’è del comico nella vicenda degli sgomberi e dei migranti clandestini e occupanti abusivi. Sarebbe da ridere se non fosse da piangere, scrive Cronaca Oggi. Siamo in piena confusione mentale, abbiamo paura anche di offendere i cinghiali. A Savona hanno persino fatto una battuta anticinghiali senza armi per allontanarli dalle spiagge e spingere verso le colline il branco di cinghiali che da settimane raggiunge il litorale savonese seminando terrore fra i bagnanti. Intanto l’ex sindaco di Sestri levante, Lavarello si è scontrato in moto con un branco di cinghiali e si è ferito. Ha ragione Laura Boldrini quando dice che stiamo dando una “pessima immagine del nostro paese”. Però non nel senso che intende lei. La pessima immagine è quella di un Paese e di un Governo incapaci persino di affrontare un problema di ordine pubblico relativamente modesto come quello del palazzo occupato abusivamente a Roma da un gruppo di immigrati, clandestini e no, in forte odore di illegalità e violenze. Nel palazzo dei migranti, subaffitti a irregolari a 10 euro.
Il racket delle occupazioni: nel palazzo soldi, estorsioni violenze. Minniti sperava nel gran colpo e ha mandato i poliziotti a sgomberare. Come giustamente dice Roberta Lombardi del M5s, “la reazione della polizia fa parte della gestione dell’ordine pubblico ed era tutto sommato prevedibile davanti alla resistenza”. Il Movimento 5 stelle è diviso fra i sostenitori di Luigi DI Maio che difende Virginia Raggi e Roberto Fico, in corsa per la leadership. Le reazioni sono state forti, da dentro il Pd e dal Vaticano, per non parlare del coro delle Boldrini. Così Minniti cambia le regole: niente sgomberi degli abusivi se non hanno casa. I prefetti potranno requisire edifici. Si studia utilizzo beni delle mafie. Il dietro front, se tale è, costituirebbe fonte di imbarazzo anche per Paolo Gentiloni, che poche ore prima della clamorosa rivelazione aveva fatto sapere di essere totalmente a fianco di Minniti sulla linea della fermezza. L’unica, bisogna ricordare, che può fare sperare al Pd un minimo di tenuta elettorale.
Hanno aspettato 4 anni. e hanno combinato un bel pasticcio fra Prefetto e Comune. Ora ci spiegano che Prefetto, donna e Sindaco, donna, non corre buon sangue nemmeno si parlano. Francesco Grignetti sulla Stampa di Torino scrive di “manifesta incomunicabilità tra prefetto Paola Basilone e sindaco Virginia Raggi, le due primedonne di Roma, al Viminale è considerata come il vizio d’origine di questa storia”. Virginia Raggi si affida alla Stampa. Si fa intervistare e rivela che metà degli sgomberati non ha accettato le sistemazioni proposte dal Comune. Conferma il Messaggero. Preferiscono stare accampati in strada. Vogliono vedere prima le fotografie degli alloggi.
Ma il cupio dissolvi che corrode l’anima della sinistra da quando è morto il Pci sta minando le basi. Il presidente del Pd Matteo Orfini parla per tutti: “Quello che è accaduto a Roma in questi giorni non è normale. E non lo deve diventare. Non si può continuare a pensare che un dramma sociale possa essere ridotto a questione di ordine pubblico». E ancora: «A essere inadeguata è stata anche la gestione da parte delle forze dell’ordine. Non si esegue uno sgombero con quelle modalità e non lo si fa senza una adeguata soluzione alternativa. Soprattutto, non si risponde alla povertà con le cariche e con gli idranti”. La povertà giustifica ogni illegalità. È la via italiana al socialismo. Ditelo a Stalin. Sullo sfondo il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, che sfrutta l’occasione per un po’ di visibilità, dopo avere lanciato l’allarme bufala di bloccare l’acqua a Roma perché un lago sembrava prosciugato. C’è un po’ meno acqua, è vero, ma il lago è ancora quasi tutto lì.
Il racket delle occupazioni, riprende Giorgio dell’Arti su "Il Corriere della Sera" un articolo de "La Gazzetta dello Sport del 27 agosto 2017. Ieri un cinquemila persone hanno sfilato per le vie di Roma, tra piazza dell’Esquilino e piazza Santa Maria di Loreto (piazza Venezia) per reclamare il diritto alla casa. La manifestazione era stata indetta da tempo dai comitati per il diritto all’abitare, ma i fatti di piazza Indipendenza di giovedì scorso l’hanno improvvisamente caricata d’ansia. Gli organizzatori hanno pensato bene di dare un posto d’onore, nel corteo, a etiopi ed eritrei che stavano nel palazzo di via Curtatone. La polizia, a sua volta, ha imposto controlli rigidissimi: niente aste, niente bastoni, niente bottiglie di vetro. Striscioni: «Via Curtatone, Indipendenza, siamo rifugiati non terroristi», «Vogliamo un tetto», «Vogliamo una casa», «Vogliamo vivere come i romani», «Libertà. Libertà». I manifestanti hanno marciato con il conforto delle parole pronunciate dal segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin. Le immagini dell’azione di polizia in piazza Indipendenza, ha detto il monsignore, «non possono che provocare sconcerto e dolore, soprattutto dalla violenza che si è manifestata. E la violenza non è accettabile da nessuna parte. Però credo che, da quello che ho visto e da quello che ho letto, ci sia la possibilità di fare le cose un po’ meglio, fare le cose bene, perché ci sono le regole. Adesso, per esempio, ho visto che ci sarà questo impegno a trovare per queste persone delle abitazioni alternative prima di arrivare a questi estremi».
Sì? Minniti non parla, ma il senatore Manconi, che presiede la commissione Diritti umani, ha fatto sapere che, per quanto ne sa lui («non posso virgolettarlo»), «il ministro dell’Interno Minniti non autorizzerà altri sgomberi a Roma senza che vi siano pronte soluzioni abitative». Un’altra fonte del Viminale, anonima, conferma: «La prossima settimana scriveremo nuove linee guida per effettuare gli sgomberi ordinati dai giudici, e le invieremo a tutti i prefetti d’Italia. Tra le disposizioni ci sarà sicuramente quella di non autorizzarli se prima non è stata concordata una sistemazione dove alloggiare chi ne ha diritto. È una regola di buon senso, e non sarà l’unica». Il ministero, sempre in via ufficiosa, fa sapere di non avere avuto alcun ruolo nello sgombero di giovedì scorso, e richiama l’articolo 11 del decreto Minniti-Orlando sul decoro urbano, decreto convertito in legge a febbraio (Disposizioni in materia di occupazioni arbitrarie di immobili). L’articolo in questione prevede «la tutela dei nuclei familiari in situazioni di disagio economico e sociale» e stabilisce che in ogni caso i livelli assistenziali «devono essere garantiti dalle Regioni e dagli enti locali». Alla fine si afferma che «il sindaco, in presenza di persone meritevoli di tutela, può dare disposizioni in deroga a quanto previsto a tutela delle condizioni igienico-sanitarie». Per il nostro gusto c’è troppa gente coinvolta nelle decisioni da prendere. Ma tant’è. Gli uomini di Minniti stanno preparando la circolare da inviare ai prefetti con le linee guida di applicazione della legge. La Raggi e il governatore della Regione Lazio intanto si scambiano accuse per i fatti di giovedì scorso.
Che succede se io offro una casa al povero rifugiato occupante via Curtatone e il povero rifugiato la rifiuta? E già, è quello che è successo, e il rifiuto rende il rifugiato un po’ meno rifugiato di prima. Sospetta è anche l’esibizione delle donne incinte e dei bambini infelici, decorazioni simili a quelle che esibiscono le mendicanti che si mostrano col bambino in braccio per intenerirci il cuore. Il fatto è che la palazzina di via Curtatone era soprattutto un problema di malavita.
Vale a dire? Gli interni erano stati trasformati in alloggi piuttosto confortevoli, camere da letto, televisori anche al plasma, divani e frigoriferi, tavoli e poltrone, quadri alle pareti, immagini della Madonna e del cuore di Gesù (etiopi ed eritrei sono in genere cattolici) col solo problema delle cucine, per farle funzionare bisognava far ricorso alle bombole del gas. Gli appartamenti così ricavati venivano affittati a 10, 15 o persino 30 euro al giorno, a seconda dello spazio impegnato e della durata del soggiorno. La polizia ha trovato pacchi di ricevute che rendono inequivocabile lo sfruttamento del palazzo. Si spacciava droga, si dava ospitalità a trafficanti di uomini, si vendevano le aree-soggiorno anche per dodicimila euro. La resistenza ad andare da un’altra parte nasce dal desiderio di riconquistare via Curtatone, così centrale e conveniente. Calmate le acque, proveranno di certo a rioccuparlo.
C’è un racket dietro tutto questo? Naturalmente. Per esempio, un Comitato di lotta per la casa, capeggiato da una cinquantottenne Maria Giuseppa Vitale, detta Pina, messo sotto inchiesta dalla Procura risultò composto da gente che, qualificandosi come antagonista e schierata in difesa dei poveri, costringeva in realtà i poveri a occupare edifici, poi estorceva loro denaro o prestazioni lavorative gratuite «utilizzando il Comitato come uno strumento di potere proiettato a ottenere profitti».
È una situazione solo romana o il caso è nazionale? A Roma i palazzi da liberare sono cento, con una top list di quindici edifici indicata dall’ex sindaco Alemanno. A occupare sarebbero almeno 4.000 persone. Federcasa sostiene che gli alloggi detenuti illegalmente in tutta Italia sono 48 mila, in gran parte di proprietà pubblica. Di questi 48 mila, 40 mila sono stati occupate a forza, gli altri sarebbero abitati da gente a cui è scaduto il contratto e che non se ne va. Può in questa terra di nessuno annidarsi anche il pericolo di uno sviluppo dell’azione jihadista? Purtroppo, sì. È vero che allo sgombero di via Curtatone s’è proceduto in tutta fretta per la preoccupazione determinata dai fatti di Barcellona? Al ministero negano, ma la voce corre e con una certa forza.
Immigrati liberi di occupare. Il disagio sociale è sicuramente un problema, ma il Far West è assai più pericoloso, soprattutto se benedetto dal ministro dell'Interno, scrive Alessandro Sallusti, Domenica 27/08/2017, su "Il Giornale". Il ministro Minniti ha dimostrato di sapersi muovere con fermezza e buon senso e gliene abbiamo sempre dato atto. Ma sulla gestione del dopo sgombero degli immigrati di Roma qualche cosa si è inceppato al vertice del ministero dell'Interno e della polizia. Peggio del «non fare» c'è solo il fare e poi pentirsi di averlo fatto. Così come a disorientare i soldati sono i generali che danno ordini e contrordini creando solo caos, così i cittadini rimangono disorientati da uno Stato che smentisce se stesso. Qualcuno deve avere pur deciso - per fortuna e finalmente diciamo noi - di intervenire per sloggiare gli abusivi di piazza Indipendenza. E quel qualcuno doveva pur sapere che uno sgombero è una operazione in sé violenta, anche se condotta in guanti bianchi. Perché a volte fare rispettare la legge è cosa violenta. Sono violente le cartelle di Equitalia, lo sono i pignoramenti, lo sono un avviso di garanzia e un arresto preventivo, lo è una sentenza di divorzio che toglie l'agibilità dei figli a uno dei due genitori. La democrazia è violenta perché deve imporre a tutti, senza distinzioni di censo, sesso e credo, il rispetto delle regole e l'unico spartiacque è se qualcuno, investito dell'ingrato compito, abusa di questo enorme e delicato potere. Non risulta - salvo un eccesso verbale rimasto senza seguito - che a Roma i poliziotti abbiano commesso abusi. Anzi, semmai è stato documentato il contrario. Minniti, quindi, si sta pentendo non di un fatto ma del fatto: «Mai più sgomberi senza prima aver individuato soluzioni alternative». Che è come dire: la legge va fatta rispettare solo quando è possibile e il farlo non crea complicazioni. Quindi - il ministro mi passi la semplificazione - se non trovo parcheggio posso lasciare la macchina in divieto di sosta, se non ho soldi non pagare le tasse, se ho fame rubare. Il disagio sociale è sicuramente un problema, ma il Far West è assai più pericoloso, soprattutto se benedetto dal ministro dell'Interno. Che, come purtroppo tutti i politici, nel momento critico diventa culturalmente succube di tre giornali, quattro opinionisti salottieri e qualche vescovo che gli danno del fascista. Mi perdoni, signor ministro, non si lasci intimidire: violento è chi, immigrato o no, le case le occupa, non lei che, per una volta, aveva deciso di liberarle come prevedono le legge e la Costituzione.
La mossa shock del Governo: così potranno rubarci casa. Con le nuove norme addio sgomberi. E chi occupa può anche chiedere la residenza e allacciare luce e gas, scrive Antonio Signorini, Lunedì 28/08/2017, su "Il Giornale". Se occupi un immobile il massimo del rischio sarà che le istituzioni ti trovino casa. Oppure - versione più estrema e improbabile - che il proprietario dell'immobile occupato debba trasformarsi in agente immobiliare per trovarti un'alternativa.
Il presidente di Confedilizia Giorgio Spaziani Testa ha già detto che valuterà se impugnarla. Oggi il vertice del ministro dell'Interno e forse chiarirà un po' i dettagli, ma è già chiaro che si tratterà di un contentino alla sinistra, sull'onda emotiva dello sgombero di Roma. Un'altra stratificazione di norme e intralci burocratici che renderà più difficile e pesante per un proprietario di immobile tornare in possesso del suo bene. Una norma irrazionale, che allungherà ancora i tempi biblici della giustizia civile italiana. Ma anche senza la direttiva, basta la normativa in vigore a tutelare chi viola la legge e penalizzare il legittimo proprietario di un immobile. Ad esempio la norma approvata pochi mesi fa, dentro il decreto «sicurezza delle città» del ministero dell'Interno (decreto 14 del 2017), più volte segnalato da Confedilizia come un grimaldello pro occupazioni. In sintesi il decreto non prevede direttamente che si debbano trovare alternative abitative per gli occupanti. Ma stabilisce che siano i prefetti e i sindaci gli arbitri del come e del quando i proprietari di immobili potranno rientrare in possesso dei loro beni. Se il giudice ordina uno sgombero, da aprile scorso, si deve passare dal prefetto per renderlo esecutivo. Sta a lui decidere, tenendo conto di «possibili turbative dell'ordine e la sicurezza» se mandare le forze dell'ordine. Un incentivo per i movimenti di lotta per la casa (ex autonomia operaia) a minacciare disordini. Più difficile fare intervenire le forze dell'ordine. Il prefetto deve decidere tenendo conto della «tutela dei nuclei familiari in situazioni di disagio economico e sociale». Comuni e regioni devono farsi carico di garantire «livelli assistenziali». Contro le decisioni del prefetto si potrà fare ricorso. Ma il massimo che si potrà ottenere è fare procedere con lo sgombero. Nella legge, insomma, ci si premura di evitare cause civili dei proprietari. Che saranno presumibilmente tante. Un regalo agli occupanti, arriva anche attraverso i sindaci. I caso di «presenza di persone minorenni o meritevoli di tutela» oppure per motivi di tutela delle condizioni igienico sanitarie, i primi cittadini potranno non applicare il decreto Legge 47 del 2014. È la legge Lupi che stabiliva il divieto di alloggiare le utenze di energia, acqua, gas e anche telefonia a chi occupa abusivamente. I sindaci potranno anche decidere di riconoscere agli occupanti il diritto a stabilire la residenza nell'immobile occupato oppure di avere una casa assegnata dal comune. Magari la stessa che hanno sottratto a chi ne aveva diritto, se si trattava di edilizia popolare, Prima del decreto c'era un divieto espresso. Insomma, una mano consistente agli squatter organizzati. Dietro chi occupa per bisogno, come noto, ci sono organizzazioni che traggono illegalmente vantaggio, sia in termini di proselitismo sia economico, come dimostrato dalle ricevute trovate nell'immobile liberato dagli occupanti a Roma. Il decreto era già il risultato di compromessi tutti politici e attenzione nulla al merito della policy. Quella delle occupazioni - più o meno politiche - è una piaga che le cifre ufficiali non riescono a fare emergere. È uno dei tanti casi che rendono l'Italia un paese poco competitivo per gli investimenti esteri. Bruxelles punta il faro da anni sui tempi lunghissimi della giustizia civile italiana e sulla impossibilità per i privati di avere giustizia. Il decreto, e probabilmente la successiva direttiva, peggioreranno questa situazione.
E Veltroni pagava l'affitto al "Salam Palace" nel nome del filo rosso tra okkupanti e Pd. Da D'Erme a «Tarzan» Alzetta, gli antagonisti sbarcati al governo di Roma, scrive Massimo Malpica, Lunedì 28/08/2017, su "Il Giornale". C'è sempre stato un filo rosso, talvolta occulto, talvolta palese, tra le giunte romane di centrosinistra - almeno fino a Walter Veltroni - e i movimenti capitolini di lotta per la casa. Che a Roma erano già attivi con Francesco Rutelli al Campidoglio, ma che moltiplicano sigle e attività quando è il futuro fondatore del Pd che, nel 2001, comincia a governare la Città eterna. Non è un caso che proprio nel 2002 comincia un'ondata di «okkupazioni» alcune delle quali ancora in essere, ormai «storiche», come la caserma del Porto fluviale, a Ostiense, da qualche anno decorata dal coloratissimo murales dello street artist Blu. O il celebre «Salam Palace» all'Anagnina. Quest'ultimo, diventato poi un (imbarazzante) caso internazionale per le precarie condizioni in cui vivono gli occupanti, tra i quali numerosi stranieri con lo status di rifugiato, era stato persino «legittimato» da Veltroni, che nel 2006 decise di contattare la proprietà - l'Enasarco - e di cominciare a pagare con i soldi del Campidoglio, quindi dei romani, affitto e bollette all'ente. Il tentativo di «alleanza» non finì comunque bene, perché quando l'anno successivo il comune di Roma propose lo sgombero con contestuale trasferimento degli ospiti in altre sistemazioni, quasi tutti si guardarono bene dal fare armi e bagagli, restando nell'edificio - che infatti è ancora occupato, come dimostra la sua presenza nella top 15 delle sgomberi della prefettura - nonostante il ritorno del degrado e, va da sé, del totale abusivismo. Quelli furono anche gli anni in cui, appoggiandosi alla sinistra radicale che, a sua volta, sosteneva la maggioranza in Campidoglio, si affacciarono alla politica e nelle istituzioni i leader del movimento di lotta per la casa. Se ora uno dei volti noti è quello di Luca Fagiano (già agli onori delle cronache perché secondo il decreto di sgombero del palazzo di via Curtatone era stato tra gli organizzatori della clamorosa okkupazione), è difficile per i romani dimenticarsi di Nunzio D'Erme, primo consigliere comunale arrivato al governo della città partendo dai movimenti antagonisti, nel 2006. E ancora più difficile è non ricordarsi di Andrea Alzetta, detto «Tarzan», che si candidò nelle liste di Rifondazione (ma nel segno di Action) con tanto di cover di «Tarzan lo fa», ovviamente modificata nel testo per adattarsi alla lotta per la casa, e che si ritrovò nel 2008 in consiglio comunale con la rispettabile dote di 2.192 preferenze, il più votato della lista. «Tarzan» ci riprovò nel 2013, risultando eletto nuovamente con poco meno di 2mila preferenze salvo, poi, essere il primo dichiarato «non proclamabile» secondo la legge Severino che era appena entrata in vigore, per una condanna per scontri di piazza passata in giudicato, e respinto sulla soglia dell'Aula Giulio Cesare nonostante il ricorso al Tar, che gli diede torto.
Festival no global illegale e fuochi d'artificio abusivi. Per l'evento-beffa dei centri sociali a San Siro il «gran finale» è uno spettacolo pirotecnico, scrive Alberto Giannoni, Martedì 18/07/2017, su "Il Giornale". Un finale col botto per i centri sociali di San Siro. Uno spettacolo pirotecnico non autorizzato ha concluso il festival dell'illegalità nel cuore del quadrilatero che vanta il poco invidiabile record degli alloggi occupati abusivamente. E in piazzale Selinunte ormai sembra abusiva anche la speranza, visto che altri cinque alloggi sono stati presi di mira dal racket delle occupazioni. È il consigliere comunale Alessandro De Chirico (Fi) a denunciare il finale-beffa di questa vicenda surreale. E ne ha parlato anche in Consiglio comunale, il vice capogruppo di Forza Italia, preannunciando un'interrogazione, che arriva dopo giorni e giorni di segnalazioni sue. E denunce, finora inascoltate. Tutto è iniziato il 13 luglio, quando in piazza Selinunte è partita l'ottava edizione del «San Siro Street Festival» una manifestazione che viene organizzata dal centro sociale «Il Cantiere», l'ala dura del movimento anarchico antagonista che ha base in piazzale Stuparich. De Chirico riferisce di aver ricevuto numerose segnalazioni sulla vendita di alcolici nel corso dell'evento, «senza autorizzazione né rilascio di ricevuta fiscale». E ancora; «Imbrattamento di muri di una palazzina privata, musica a tutto volume fino alle 4.30 del mattino, fuochi d'artificio in violazione delle norme comunali». «Se vietano i bastoni per i selfie in Darsena - spiega - non penso che possa fare fuochi d'artificio il primo che passa, anche per evidenti ragioni di sicurezza». Il 10 luglio, in occasione della presentazione dei vigli di quartiere proprio in piazzale Selinunte, De Chirico ha parlato con il sindaco Sala «per avvisarlo - dice - dell'organizzazione di tale festival e l'11 luglio ho presentato un esposto presso il commissariato Bonola di Polizia dello Stato». De Chirico nell'interrogazione ricorda anche che «la mattina del 13 luglio i vigili di quartiere posizionati in piazzale Selinunte con unità mobile, assistevano al montaggio delle strutture per la manifestazione», mentre «operai di Unareti spa (A2A, ndr) hanno allacciato a una colonnina elettrica gli impianti». Non è tutto: «Nella mattina di sabato 15 luglio, un centinaio di attivisti No sgomberi inscenava un corteo per le vie di San Siro per manifestare contro gli sgomberi degli alloggi indebitamente occupati». E, per marcare la coerenza fra idee e azioni, nelle stesse ore vengono occupati abusivamente alcuni alloggi Aler fra piazzale Selinunte, via Maratta e via Gigante. De Chirico ora chiede al sindaco la richiesta e l'autorizzazione rilasciata al festival, domanda se è vero «che l'autorità comunale abbia richiesto a Unareti l'allacciamento elettrico» e vuol sapere «chi ha sostenuto le spese per l'occupazione di suolo pubblico, per la luce elettrica e la pulizia del piazzale e delle vie limitrofe». E pensando ai militanti di estrema destra denunciati pochi giorni fa per aver manifestato senza autorizzazione davanti a Palazzo Marino, De Chirico si chiede e chiede se, in questa Milano, «con Sala qualcuno è più non autorizzato di altri».
COSTRETTI A PAGARE PER LE STANZE. LE «FATTURE» DEL RACKET. Di Ilaria Sacchettoni per "Il Corriere della Sera" del 26 agosto 2017. Pagava Jodit. E pagava Mohamed. Alla fine pagavano tutti. Perché nella città delle emergenze abitative si paga anche per occupare un alloggio. Dieci euro a persona ogni giorno. Che alla fine, moltiplicato per circa 700 persone, quanti erano (a pieno regime) gli occupanti di via Curtatone, fa settemila euro al giorno. A chi andavano quei soldi? Tra i documenti agli atti degli investigatori c' è anche un plico leggero ma importante che ieri la Sea srl, assistita dall' avvocato Carlo Arnulfo, ha sottoposto ai carabinieri. Una massa di ricevute firmate dai profughi alloggiati nel palazzo. Fogli su cui spiccano cifre e sigle. Dieci euro. Trenta euro. Venti. Cinquanta. Soldi versati ad altri immigrati, a quanto pare, intermediari di cui non sono chiari ruolo e contatti. Una somma discreta per garantire che cosa? Che a Jodit e alle centinaia di disperati precariamente alloggiati in quegli spazi non se ne aggiungessero altre? Erano legati a qualche frangia dei movimenti di occupazione? Non si può escludere. Possibile che qualcuno sfruttasse l'ennesima emergenza cittadina. Non sarebbe una novità. Grande è la confusione riguardo alle fughe di informazioni che precedono le occupazioni in città. Mentre alcune inchieste - e fra tutte quella sull' ex centro sociale «Angelo Mai» (poi rinato) - hanno dissipato una serie di dubbi sullo sfruttamento della categoria «immigrati» da parte di movimenti e politici. Era il 2014. E lo stesso reparto della Digos che oggi indaga sullo sgombero di piazza Indipendenza, rintracciò in casa di alcuni leader dei movimenti di occupazione banconote per migliaia di euro, ricevute e, soprattutto, l'elenco di nomi e delle somme versate dalle famiglie in occupazione. L' inchiesta andò oltre fotografando un quadro di «desolante e diffusa illegalità, con profili di responsabilità di carattere non esclusivamente penale e civile ma anche amministrativo, sociale e politico» per usare le parole del gip Riccardo Amoroso. Uno scenario in cui erano anche diffusi «contatti e rapporti con esponenti politici per individuare alloggi da occupare».
IL BUSINESS DELLA CASA: 2000 EURO AL MESE AGLI ORGANIZZATORI. Di Camilla Mozzetti e Adelaide Pierucci per " Il Messaggero" del 26 agosto 2017. Dieci euro per coricarsi una notte nel palazzo occupato. Anche se su giacigli improvvisati o su brande accatastate in stanzette e corridoi. Sulla pelle dei disperati c'era chi provava a fare fortuna. Poteva fruttare migliaia di euro al mese il palazzo occupato da migranti e rifugiati sgomberato giovedì, in via Curtatone in piazza Indipendenza, dopo una mattinata da guerriglia urbana, chiusa con centinaia di sfollati e cinque arresti, con gli occupanti, per lo più rifugiati, che lanciavano bombole, sedie, bottiglie e sassi agli agenti in tenuta antisommossa. Durante le fasi di sgombero sono state trovate delle ricevute con tariffe anche giornaliere. «Tre giorni al quinto piano, stanza 22. Trenta euro». A conti fatti per ogni famiglia, il gruppo di stranieri che per primo ha occupato l'edificio nel lontano 2013 richiedeva ad ogni nucleo familiare in cerca di sistemazione, anche temporanea, dieci euro al giorno. Ogni mese, con questo sistema, il gruppo non ancora identificato, riusciva a guadagnare una cifra variabile ma comunque compresa tra i 1.500 e i 2.000 euro. La documentazione è stata ritrovata durante lo sgombero. Al momento il materiale è nella mani dei carabinieri. Che da ieri si sono messi a caccia dei primi riscontri. Una ricevuta è intestata a un certo Gebru e risale all'aprile del 2016. La firma di chi ha incassato è illeggibile. I giorni di occupazione tassata è di tre. Due, tre e quattro aprile. Il pagamento all'uscita. Non una novità in città. Dove all'opera ci sono gruppi di finti benefattori che mascherano associazioni a delinquere organizzate allo scopo di compiere occupazioni abusive di immobili e quindi estorsioni ai bisognosi collocati. Come quella capeggiata da una leader storica del Comitato di lotta per la casa Maria Giuseppa Vitale, 58 anni, nota come Pina. In questo caso accusata di «aver pianificato ed attuato l'occupazione» di uno stabile in via Terme di Caracalla trasformato nel centro sociale Angelo Mai, dell'ex scuola Amerigo Vespucci e dell'ex clinica San Giorgio. Un'accusa pesante a cui vanno aggiunte le contestazioni di furto di risorse energetiche, di estorsione, violenza privata, ingiuria, e minacce. Secondo la procura infatti i rappresentanti del Comitato avevano messo in piedi un'associazione che, con la scusa di trovare un alloggio per i bisognosi, «li costringeva a occupare gli edifici, per poi estorcergli denaro e prestazioni lavorative gratuite, sotto minacce, ingiurie e violenze». Nel palazzo di via Curtatone, nove piani un tempo sede della Federconsorzi, intanto, si contano i danni. Nell'immobile di proprietà del Fondo Omega Immobiliare, gestito dalla SeA, Servizi Avanzati srl, i lavori di restauro potrebbero durare mesi. Le finestre al primo piano vanno messe in sicurezza. Gli infissi pericolanti rimossi. L'impianto elettrico con una serie di allacci volanti realizzati dagli occupanti va ripristinato. I lavori d'urgenza, in attesa del dissequestro, sono stati sollecitati ieri in procura dal legale della SeA, l'avvocato Carlo Arnulfo, che nella richiesta di autorizzazione ha parlato di «lavori indifferibili». Provvedimento ora al vaglio del procuratore aggiunto Francesco Caporale. Il decreto di sequestro preventivo era stato emesso nel dicembre 2015 dal gip Monica Ciancio, su richiesta del pm Eugenio Albamonte. Ma lo sgombero era sempre slittato. Il palazzo, soggetto a vincolo della soprintendenza dei beni architettonici, era stato «invaso», come aveva scritto il gip nel provvedimento, «il 12 ottobre 2013 da Luca Fagiano», altro leader del Coordinamento Cittadino di Lotta per la Casa, «insieme ad altre duecento persone», che a stretto giro sono raddoppiate, fino a triplicarsi. Il sequestro preventivo avrebbe dovuto evitare «il progressivo deterioramento dell'immobile». Interrotto di fatto solo l'altra mattina. Il Campidoglio ora prova a correre ai ripari. Il primo atto riguarda i migranti sloggiati dal palazzo occupato. È stata firmata una dichiarazione di intenti con la stessa SE.A che metterà a disposizione sei villette a Gavignano Sabina, in provincia di Rieti, per i rifugiati politici, anche con bambini al seguito. «Per ottemperare alla necessità di accoglienza di sei mesi», ha sottoscritto l'atto l'assessore alle politiche abitative Rosalia Alba Castiglione. La domanda potrebbe suonare retorica, ma per quale motivo una società che prova a recuperare un edificio occupato riesce dopo anni a riaverlo offre poi gratuitamente al Comune di Roma altri alloggi? «Il Comune spiega l'avvocato Arnulfo, rappresentante la Sea, ci ha chiesto un contributo di solidarietà. Le villette sono a disposizione per sei mesi e sono emerse dopo che in passato era stata rifiutata dagli occupanti una sistemazione in un'altra struttura che la Sea gestisce senza esserne proprietaria a Tivoli».
GLI ERITREI CACCIATI SONO PIÙ RICCHI DI TANTI ITALIANI. Di Franco Bechis per "Libero Quotidiano" del 26 agosto 2017. Nemmeno dopo tutto quel che è accaduto il Fondo Omega di Idea Fimit ha potuto riprendere possesso del palazzo di sua proprietà occupato da più di 500 eritrei dal 2013. Le chiavi non sono ancora state restituite al legittimo proprietario perché lo sgombero non è ancora terminato: fino al tardo pomeriggio di ieri erano ancora asserragliate dentro alcune donne incinte, e la polizia non ha voluto ovviamente forzare la mano. Donne e bambini sono stati più volte utilizzati sia dagli occupanti che dalle associazioni per il diritto alla casa e da alcune onlus che non raramente li hanno manovrati, ed è probabile che siano esposti in prima fila oggi nel corteo di protesta ad altissimo rischio organizzato alle 16,30 a Roma, con partenza in piazza dell'Esquilino in una città blindata per l'occasione con paura di nuovi scontri. Movimenti antagonisti e ong che sono spuntati come funghi durante lo sgombero per cavalcare anche politicamente la vicenda degli scontri con la polizia hanno arringato fin dai primi giorni gli occupanti perché rifiutassero le soluzioni abitative loro proposte sia dall' assessorato ai servizi sociali di Roma che dalla società Sea che quell'immobile dovrebbe prendere in affitto dal Fondo Omega appena liberato. Per altro quella soluzione provvisoria (alcune villette a Forano, in provincia di Rieti) è stata sbarrata dal sindaco Pd del paese, Marco Cortella, che ieri non ha voluto sentire ragioni. «Sono contrario», ha detto Cortella, «perché siamo il comune nella provincia di Rieti con il numero più alto di richiedenti asilo. Ne abbiamo già 40 su 3168 cittadini, oltre la percentuale del 3 per mille per ogni Comune prevista dal Ministero dell'Interno. Invece di gratificarci, ci mortificano». Al momento gli sfollati dall' immobile di via Curtatone si sono dispersi per la città, alcuni convogliati da alcune associazioni (Baobab in testa) in ricoveri di emergenza, altri andati in una sorta di rifugio provvisorio vicino alla stazione Tiburtina, altri ancora presi comunque in gestione dalle strutture comunali. E tutti pronti a tornare appena verrà allentata la tensione e la vigilanza in quel palazzo dove ormai si erano insediati da anni. C' è un rarissimo video - girato nel novembre scorso da Rete Zero, una tv privata di Rieti- che in pochi minuti fa capire come si svolgeva la vita all' interno del palazzo occupato, e che tipo di sistemazione avevano trovato gli eritrei. Ormai non era un accampamento come ci si potrebbe immaginare, ma un ufficio trasformato in un vero e proprio palazzo residenziale. Nell' androne interno chi vi abitava lasciava in modo ordinato biciclette, passeggini e carrozzine. Poi lungo le scale si arrivava ai corridoi degli uffici che erano stati unificati e trasformati in veri e propri alloggi, con tutto l'arredamento che era necessario. L' unica cosa artigianale - mancando gli allacciamenti al gas - erano le cucine, con i forni alimentati da quelle bombole al Gpl che avevano tanto preoccupato i vigili del fuoco nell' unica parziale ispezione fatta. In casa non mancava nulla: parte giorno e parte notte, letti e divani, tavoli, poltrone, tende per difendere la propria privacy, quadri e immagini religiose (crocifissi e madonnine, perché erano quasi tutti cristiani gli abitanti). Poi frigoriferi, lavatrici, elettrodomestici vari (forni a micro onde, macchine per il caffè) e in non poche abitazioni anche televisori al plasma di grande dimensioni e decoder per ricevere la tv satellitare collegati alle parabole installate dagli stessi migranti sul tetto dell'edificio. Entrando in quel palazzo occupato si ha dunque l'impressione di un certo benessere di chi vi abitava, e che gli eritrei fossero ben al di sopra della soglia di povertà si capisce bene anche dalle immagini scattate sia nel giorno degli scontri che ieri quando sono tornati lì vicino a spiegare la loro protesta alla stampa: molti hanno in mano smartphone di ultima generazione del valore di centinaia di euro. Avevano uno stile di vita compatibile anche con una abitazione regolarizzata da un affitto a Roma, magari non in zone così centrali. Che non fossero poveri in canna viene confermato informalmente dai rappresentanti della comunità eritrea in Italia che abbiamo sentito in queste ore, che confermano l'esistenza di lavori regolarmente retribuiti per buona parte degli occupanti. Altri elementi informativi invece fanno capire che non poche fossero le infiltrazioni in quel palazzo, anche di tipo criminale. Non tutti quelli che vi abitavano erano eritrei: molti etiopi, qualche somalo. Eritrei si sono tutti dichiarati al momento dello sbarco in Italia proprio per potere godere della protezione internazionale, e non avendo documenti per molti di loro l'attesa delle verifiche è stata talmente lunga da potersi imboscare con facilità. Dentro il palazzo - secondo le stesse fonti ufficiali della comunità eritrea in Italia - accanto a una vita normale ce ne era una parallela, con cui ci si arrangiava e si otteneva qualche guadagno extra. La più banale veniva dalla sistemazione di alcune stanze con il minimo necessario che venivano affittate a 15 euro a notte agli eritrei di passaggio a Roma. Una sorta di bed and breakfast. Esisteva anche un altro tipo di commercio: quello delle abitazioni permanenti ricavate in quegli uffici. Se qualcuno di loro trovava regolare sistemazione in città, vendeva i diritti di abitazione in via Curtatone per cifre di una certa importanza, "anche 12 mila euro". Le forze di polizia erano già intervenute all' interno in poche occasioni per stroncare altri tipi di commercio assai più irregolari: sette inquilini arrestati per traffico di migranti, e altri identificati e fermati per traffico di stupefacenti.
Roma, «Vuoi occupare una casa abusivamente? Devi fare la tessera dell’associazione». Così funziona il mercato delle occupazioni abusive. E il Comune costruisce case che lascia vuote, scrive il 10 febbraio 2016 Antonio Crispino su Corriere TV. Tre giorni dopo la sentenza di sfratto si sono presentati a casa i soliti due italiani. La signora Norma gli ha aperto, li ha fatti accomodare e offerto il caffè. Dicevano di avere una soluzione al suo problema. A 73 anni, con nessun parente ad aiutarla, senza soldi (se non la pensione da 600 euro), le è sembrata manna dal cielo. Del resto la proprietaria diventava sempre più insistente: «Devi lasciare la casa, è un anno che non paghi». E poco le importavano gli acciacchi fisici che impediscono a Norma di lavorare ancora, dopo 40 anni a servizio come badante. I due italiani con accento calabrese le dicono che non deve più preoccuparsi, avrebbero trovato una sistemazione nel giro di due giorni. Le danno appuntamento fuori a un bar per vedere la zona in cui si trova la sua nuova casa, al Quarticciolo. Ma è sempre chiusa, non si può mai entrare. Perché si tratta di un appartamento da occupare. Un dettaglio che i due italiani le dicono solo in un secondo momento. All’alba del giorno dopo sarebbero venuti, avrebbero sfondato la porta e sarebbero entrati. Anche al trasloco avrebbero pensato loro. Le chiedono 5mila euro subito, poi mille euro al mese per circa un anno. In totale fanno diciassettemila euro. Di casi come questi ce ne segnalano tanti. Tutti accomunati da un particolare: le visite di queste persone avvengono sempre dopo qualche giorno dalla sentenza di sfratto. «Abbiamo notizie di un fiorente racket delle occupazioni abusive - denuncia Fabrizio Ragucci, dell’Unione Inquilini di Roma -. Si va dai diecimila ai cinquantamila euro per occupare una casa. La gente paga con la speranza di un condono o una sanatoria». Il Comune stima che le case occupate in questo modo siano circa 750. E non ci sarebbero solo quelle dell’edilizia residenziale pubblica ma anche quelle di proprietà del Campidoglio. Il sistema delle occupazioni a Roma è ben organizzato. Va dai procacciatori che sono fin dentro i tribunali e arriva ai manovali, disposti a sfondare porte in cambio di pochi euro. «Mi proposero 400 euro per aiutarli ad aprire una porta, erano magrebini, si occupavano della zona di Centocelle. A Roma ogni quartiere ha la sua gestione» racconta Gianni, un ragazzo rom che la casa l’ha occupata per sé. E’ in una palazzina in via Santa Croce di Gerusalemme, a due passi dalla basilica di San Giovanni in Laterano. Era dell’Inpdap, abbandonata dal 2006. Oggi l’ingresso è presidiato 24 ore su 24. Quelli che una volta erano uffici sono diventati monolocali per 180 famiglie. «Quando siamo arrivati c’era una guardia giurata, l’abbiamo mandata via e poi ci siamo preoccupati di ripristinare acqua ed energia elettrica. In questi anni di crisi economica sono state colpite tante famiglie di muratori, elettricisti, idraulici che hanno perso casa. Ci hanno aiutato. Ognuno ha offerto la propria competenza». Un vero e proprio “caso” quello di Action che ha attirato anche l’attenzione del Santo Padre, come racconta Paolo Perrini, tra i responsabili del movimento: «Non solo ci ha incoraggiati ad andare avanti ma ci ha anche inviato la benedizione apostolica. Ormai non siamo più illegali ma un esempio». Insomma è tutt’altra cosa rispetto al racket di Primavalle. Nel popolare quartiere romano, cosa si deve occupare e chi deve farlo è stabilito dai clan. E quasi tutti sono fiancheggiatori e affiliati, come emerso lo scorso marzo in occasione dell’arresto, tra gli altri, di Massimiliano Crea, il boss di Stilo (Reggio Calabria) che, secondo gli inquirenti, ha il controllo di questo mercato. Ma anche nei casi dei movimenti con scopi sociali resta poco chiaro il sistema delle assegnazioni degli spazi occupati. Una sorta di paradosso. Chi occupa lo fa perché non è riuscito a entrare nelle graduatorie comunali. A sua volta, nel girone parallelo illegale, deve attrezzarsi per risultare in cima alla lista di quelli che andranno a occupare abusivamente una casa al prossimo turno. E l’elenco delle famiglie in attesa è altrettanto lungo. «La precedenza viene data a chi ha fatto la tessera dell’associazione. Inoltre si vede la partecipazione ai cortei, alle manifestazioni, ai picchetti, ai comizi». E’ la risposta di uno dei tanti capi dei movimenti quando ci presentiamo a chiedere una residenza. La rilevanza non è data tanto dal costo della tessera (pochi euro) ma dalla strumentalizzazione politico-elettorale. Non è un caso, infatti, che ogni movimento abbia il proprio consigliere, assessore, onorevole di riferimento. Ne fece un elenco Sergio Marchi quando fu candidato alla presidenza del Municipio Roma I per La Destra: «Action ha fatto eleggere in Campidoglio un campione dell’occupazione abusiva, Andrea Alzetta, detto Tarzan… L’estrema sinistra con il presidente del X Municipio Sandro Medici ha occupato gli alloggi dismessi degli enti pubblici… Andrea Catarci nel XI Municipio ha capitanato l’occupazione dell’ex deposito Atac sull’Appia Nuova». Dimenticandosi però di citare quelli ad opera della parte politica opposta, come Casapound che in via Napoleone III non solo ha occupato un intero edificio ma ci ha fatto la sede nazionale del partito. Eppure le case vuote a Roma ci sono. Le andiamo a vedere in via San Giovanni Reatino. Sono bei caseggiati ma quasi tutti vuoti. Tant’è che il Campidoglio è stato costretto a installare degli allarmi anti-intrusione. Da anni si attendono le assegnazioni. “Ho aspettato diciassette anni per avere questa casa, feci domanda nel ’95, avevo tre figli piccoli, ora ho quattro nipoti” ci dice una delle poche residenti. Nella scala dove abita ci sono dodici appartamenti, la metà è vuota. Ha la figlia nei cosiddetti residence, ossia i centri per l’assistenza alloggiativa temporanea. “Sono undici anni che mia figlia sta lì e non si sa che fine farà”, si sfoga la signora. E ha ragione, perché sono veri e propri tuguri. Tant’è che la settimana scorsa il commissario Francesco Paolo Tronca ha disposto la chiusura di sette centri su ventisei. “Il Comune ha sostituito i residence con i bonus casa. Nella sostanza è una buona idea ma nella pratica è fallimentare perché i proprietari dovrebbero essere pagati non dall’inquilino ma dal Comune. Nessuno si fida della pubblica amministrazione, ritengono che sia un cattivo pagatore e per questo non danno in fitto le case” chiosano dall’Unione Inquilini. Il sindacato di base Asia Usb, invece, stima che ogni anno si liberano dai 1000 ai 1300 alloggi che però non vengono riassegnati, motivo per il quale le graduatorie non avanzano. Nel 2014 la Regione stanziò 192 milioni di euro per reperire abitazioni libere ma, secondo il prefetto Gabrielli “ci furono divergenze tra gli uffici regionali e comunali sul come darvi attuazione”. Intanto i più disperati occupano qualunque cosa. Andiamo in via Tor de’ Schiavi. Ci accoglie Roudi, un etiope che parla benissimo l’italiano. Ci porta a vedere quello che era uno spogliatoio per gli operai dell’Acea (società per le forniture di acqua, luce e gas). Era in disuso da quasi dieci anni. “Quando entrammo la prima volta c’era l’erba talmente alta che non si vedeva niente”. Sono tutti stranieri: badanti, muratori, agricoltori. Tutti lavorano in nero. I tetti sono in amianto. Le pareti in cartongesso. Le stanze talmente piccole che fatichiamo a entrare con la telecamera. Per ottimizzare gli spazi hanno creato dei soppalchi con materiali di fortuna. Ci vivono intere famiglie, anche di sette persone. Tra loro incontriamo un rifugiato dalla Colombia: “Avevo una casa in campagna. I guerriglieri me l’hanno incendiata e sono scappato”. Ci mostra la stanza da letto, la divide con la compagna. Si deve salire su una scala in legno su un soppalco malfermo. Non si riesce a stare in piedi tanto è basso, non ci sono finestre o bocche d’aria. Lui è sorridente. “Non potrei chiedere di meglio, non mi manca niente, ho un posto dove mettere la testa e dormire”.
Case occupate, i numeri del fenomeno in Italia. Non solo Roma. Nel Paese ci sono 48 mila alloggi detenuti illegalmente. Specialmente da extracomunitari. A Milano ne viene preso uno ogni due giorni. Racket, danno economico, rischio per i privati: i dati, scrive Carlo Terzano su Lettera 43 il 25 agosto 2017. Il giorno dopo la guerriglia urbana di Roma, rimangono a terra i segni degli scontri tra gli occupanti e la polizia. Sull'asfalto e nelle aiuole giacciono gli stracci con i quali i disperati avevano provato a costruire delle tende di fortuna, le assi di legno brandite per difendersi dalle cariche, resti di cibo. Sembra una periferia degradata, invece è piazza Indipendenza, a 300 metri dalla centralissima stazione Termini e ad altrettanti dal ministero dell'Economia. E mentre ci si indigna per le frasi pronunciate da un agente, ci si chiede quanti altri palazzi di via Curtatone esistano in tutta Italia, quante altre battaglie per la casa saranno inscenate in autunno, quanti altri feriti finiranno in ospedale.
L'ex sede romana di Federconsorzi e Ispra di via Curtatone era occupata dal 2013. Il piano per lo sgombero è scattato sabato 19 agosto 2017, a stretto giro dagli attentati di giovedì 17 a Barcellona e Cambrils. Il prefetto della capitale, Paola Basilone, la definisce «operazione di cleaning», ma resta il dubbio che i fatti spagnoli abbiano spinto le autorità romane ad agire quasi di impulso, senza prima predisporre altre strutture di accoglienza e rischiando che l'intera azione di polizia si risolvesse in quei tafferugli ripresi dalle telecamere. Nell'enorme palazzo grigio, in una situazione di assoluto degrado, vivevano 800 persone (dimezzate nelle ultime settimane, ma 40 di loro dovrebbero trovare una nuova sistemazione), quasi tutte eritree e somale. La situazione andava avanti da così tanto tempo che molti si erano iscritti alle Asl e i bambini dello stabile frequentavano normalmente la scuola del quartiere. Perché l'ordine di sgombero è arrivato all'improvviso? Perché, di colpo, si è avvertita l'urgenza di ripristinare la legalità? Se le autorità temono che in posti simili possa annidarsi il germe jihadista, quanti altri palazzi di via Curtatone esistono in tutta Italia?
Per l'ex sindaco Gianni Alemanno «a Roma c'è una situazione insostenibile, una bomba sociale che rischia di esplodere in qualsiasi momento: ci sono troppi immigrati che nessuno sa dove mettere e che stanno diventando sempre più incontrollabili e aggressivi». Il prefetto oggi minimizza, ma ammette dalle pagine del Corriere che nella capitale ci sono altri 15 palazzi da sgomberare con altrettanta urgenza (parla infatti di una «top list 15») su di un totale di 100, nella medesima situazione. Gli occupanti, per la prefettura, sarebbero 4 mila. Il prefetto chiosa: «Mi fa una certa impressione [parlare di numeri tanto grandi, ndr] perché quando ero a Torino di palazzi occupati ce n'era uno solo». In realtà la situazione è cambiata anche a Torino. E la sensazione è che ora i prefetti delle più grandi città italiane lottino contro il tempo per evitare che interi quartieri diventino territori di nessuno, in cui possano germinare l'odio per la società occidentale o addirittura il jihad, come è accaduto nelle banlieue parigine. Pare impossibile, eppure non esiste un “catasto delle abitazioni occupate”. Molte infatti appartengono all'edilizia pubblica, una minima parte sono invece di privati, e questo ha reso più difficile censirle. Ci si deve affidare ai singoli dati nelle mani dei vari enti. Nel 2016 Federcasa, in collaborazione con Vpsitex e Nomisma, ha promosso un’analisi sul tema delle occupazioni abusive delle case popolari in Italia: gli alloggi dell'Erp (Edilizia residenziale pubblica) occupati sono circa 48 mila, su di un totale di oltre 750 mila. Il 6,4% delle abitazioni gestite dagli Enti associati a Federcasa. Di queste 48 mila, 40 mila (l'81%) sarebbero state occupate con la forza, mentre 9 mila sarebbero detenute da soggetti cui è venuto meno il titolo (scadenza del contratto).
Secondo i dati, il fenomeno è progressivamente aumentato negli ultimi anni: +20,9% tra il 2004 e il 2013. Le aree maggiormente interessate sono il Mezzogiorno (53,4%) e il Centro Italia (36,5%).
Dopo l'emergenza del 2014, sembrava terminato il periodo degli sgomberi a Milano. Invece le occupazioni hanno ripreso ad aumentare. Secondo i dati di giugno, sono circa 3.500 gli appartamenti detenuti in modo illegale, su di un totale di 38 mila che fanno capo ad Aler. L'emergenza si è spostata dal quartiere Giambellino – che resta, assieme a Corvetto e Lorenteggio, uno dei fronti caldi - a San Siro. Una omologa milanese della palazzina romana di via Curtatone si trova in via Civitali, a due passi dallo Stadio Meazza. Aler denuncia che è occupata quasi per intero da egiziani: una coincidenza un po' strana per non destare qualche sospetto, che rivela il tam tam tra le varie comunità, soprattutto nordafricane, che avviene quando si individua un possibile alloggio. Il danno economico è enorme: la sola morosità (ammontare degli affitti non pagati) nel quartiere di San Siro supera i 14 milioni di euro. A fine 2015 gli immobili occupati erano 3.010; a fine 2016 3.263: questo vuol dire che a Milano l'occupazione selvaggia procede al ritmo di oltre un appartamento ogni due giorni. Il 5 giugno 2017, durante una commissione consiliare congiunta Casa e Periferie, il presidente di Aler, Angelo Sala, ha spiegato: «Ad agire sono bande criminali, agenzie immobiliari gestite dal racket che fanno arrivare gente dall'estero perché a Milano troveranno la casa». Rispetto a qualche anno fa, si è infatti invertita la tendenza: «Oggi non c'è più l'occupazione d'urgenza dell'italiano, ma è un'occupazione degli immigrati, e difatti le richieste regolari per entrare in graduatoria da parte degli stranieri diminuiscono».
A Torino, dopo gli sgomberi dell'ex quartiere operaio Falchera, resta aperta la questione dell'ex villaggio olimpico, che versa in una situazione di totale abbandono ed è occupato da circa un migliaio di persone. Le quattro palazzine, che un tempo ospitavano atleti di tutto il mondo, sono detenute da 4 anni da extracomunitari, molti dei quali in Italia regolarmente.
Nel 2017 sono state attaccate da un gruppo di ultras. Per evitare ciò che è successo a Roma, prima di procedere con lo sgombero, l’amministrazione ha scelto la via dell'integrazione: contratti di lavoro nei cantieri navali di Fincantieri in Liguria, Veneto e Friuli per chi collaborerà. Molti hanno già aderito e stanno lavorando.
Visti i numeri, sarebbe sbagliato credere che chi occupa lo faccia con le sue sole forze e gratuitamente. Negli anni si è infatti sviluppato un racket che fornisce un servizio completo: forzare le porte, montare nuove serrature e provvedere agli allacci abusivi nel caso vengano disattivate le utenze. Si fanno chiamare “mediatori” e, come gli enti per l'edilizia popolare, stilano una lista di possibili inquilini. Come per gli enti che operano alla luce del sole, danno la precedenza ai più bisognosi: extracomunitari, famiglie con bambini o anziani disabili. Non per carità cristiana, ma perché si tratta di soggetti più facilmente ricattabili e le loro condizioni sono utili a rallentare la giustizia civile.
Il racket delle occupazioni non si ferma davanti a niente e da tempo ha preso di mira anche gli alloggi dei privati. Come difendersi dunque da una occupazione abusiva? A rispondere è l'avvocato Andrea Brunelli, del Foro di Genova: «Se al ritorno dalle ferie trovate la vostra abitazione occupata da sconosciuti è sconsigliabile risolvere la questione con la forza. Il rischio è una denuncia per esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose (art. 392 c.p.) o sulle persone (art. 393)». Quindi come comportarsi? «La strada maestra è quella di azionare un giudizio civile, chiedendo al giudice di tutelare il nostro “possesso” dell’immobile occupato con un’azione possessoria, più rapida della causa civile ordinaria. Il magistrato valuterà se l’immobile è nel legittimo possesso del ricorrente e ordinerà agli abusivi di lasciare l’edificio, disponendo l’uso della forza pubblica per procedere allo sgombero». Quanto tempo occorre prima di rientrare in possesso dell'immobile? «Purtroppo le tempistiche, che variano da tribunale a tribunale a seconda del carico di lavoro da smaltire, e i costi - che verosimilmente rimarranno in capo a chi ha ragione, in quanto l’abusivo difficilmente avrà beni aggredibili - fanno sembrare tutto questo procedimento come una “beffa” per il danneggiato. Si può allora aggiungere anche una denuncia penale per “invasione di terreni o edifici” (art. 633 c.p.) e cercare almeno la soddisfazione, quasi esclusivamente di principio, di veder condannato penalmente l’abusivo».
Case popolari solo a stranieri? Magari non è proprio così ma basta farsi un giro in certe zone per rendersi conto che la realtà sembra sempre di più penalizzare gli italiani. Il record delle case popolari. Una su due va agli stranieri. Ecco le graduatorie per avere accesso agli alloggi di edilizia residenziale. Più del 50% delle domande vengono da immigrati. E i milanesi aspettano, scrive Chiara Campo su “Il Giornale”. Ci sono Aba Hassan, Abad, Abadir. Ventisette cognomi su ventisette solo nella prima pagina (e almeno 17 idonei). Ma scorrendo il malloppo delle 1.094 pagine che in ordine alfabetico formano le graduatorie per accedere alle case popolari del Comune, almeno il 50% dei partecipanti è di provenienza straniera. Basta leggere i primi dieci fogli per avere l'impressione che, tra gli Abderrahman e gli Abebe, gli italiani siano dei «panda» in estinzione. Le graduatorie pubblicate da Palazzo Marino si riferiscono al bando aperto fino a fine giugno 2013 a chi ha bisogno di appartamenti di edilizia residenziale. Chi entra nell'elenco non ha automaticamente la casa perché la lista d'attesa è lunga, ma tra i criteri per avanzare in classifica ci sono ovviamente reddito (basso) e numero di figli (alto). Le proteste dei leghisti sono note: «Gli immigrati lavorano in nero e fanno tanti figli». Nel 2012 (sono dati del Sicet) su 1190 assegnazioni nel capoluogo lombardo 495, quasi la metà 455, sono state a favore di immigrati. A vedere gli elenchi l'impressione è che la percentuale possa alzarsi ancora, a scapito di tante famiglie milanesi che probabilmente versano tasse da più tempo e nella crisi avrebbero altrettanto bisogno di una casa a basso costo. «Sono per l'integrazione - commenta Silvia Sardone, consigliera Pdl della Zona 2 - ma questa non si può realizzare con una potenziale discriminazione per gli italiani. Probabilmente il sistema di costruzione delle graduatorie ha bisogno di essere reso più equo». Ci tiene a sottolineare: «Non sono razzista, non lo sono mai stata e non lo sarò. Non sono nemmeno perbenista né figlia di un buonismo di sinistra cieco della realtà. Ho molto amici italiani con cognomi stranieri, hanno un lavoro ed un mutuo sulla casa». Ma «nella prime pagine degli elenchi in ordine alfabetico si fa fatica a trovare un cognome italiano e complessivamente sono tantissimi i cognomi stranieri. Indipendentemente da chi ha studiato i criteri di partecipazione e assegnazione e di quando siano stati creati penso che oggi, nel 2013, debbano essere rivisti. Perché sono stanca di pagare delle tasse per servizi che spesso godono gli altri». Anche il capogruppo milanese della Lega torna a chiedere agli enti (Regione per prima) di rivedere i criteri di accesso, alzando ad esempio i 5 anni d residenza minima: «Serve una norma che difenda la nostra gente da chi, si dice, porta ricchezza, ma invece rappresenta un costo».
Laddove l’alloggio non viene assegnato, si occupa (si ruba) con il beneplacito delle Istituzioni.
Quando si parla di case occupate abusivamente o illegalmente, in genere la mente è portata a collegare tale fenomeno a quello dei centri sociali, scrive “Mole 24”. Un tema che di per sé sarebbe da approfondire, perché esistono centri sociali occupati da autonomi, altri da anarchici, altri ancora dai cosiddetti “squatter”, termine che deriva dall’inglese “to squat”, che non è solo un esercizio per rassodare i glutei ma significa anche per l’appunto “occupare abusivamente”. Ma l’occupazione abusiva delle case è in realtà un fenomeno assai nascosto e taciuto, praticamente sommerso. Un’anomalia che pochi conoscono, ancor meno denunciano o rivelano, essenzialmente perché non si sa come risolvere. Le leggi ci sono, o forse no, e se anche esistono pare proprio che le sentenze più attuali siano maggiormente orientate a tutelare gli interessi dell’occupante abusivo piuttosto che quelli del proprietario che reclama i suoi diritti da “esautorato”, sia che si parli del Comune in senso lato sia che si parli di un qualsiasi fruitore di case popolari che si ritrova il suo alloggio occupato da “ospiti” che hanno deciso di prenderne il possesso. Il fenomeno si riduce spesso ad essere una guerra tra poveri. Parliamo, per fare un esempio non così lontano dalla realtà, di un anziano pensionato costretto ad essere ricoverato in ospedale per giorni, settimane o anche mesi: ebbene, questo anziano signore, qualora fosse residente in un alloggio popolare, una volta dimesso potrebbe rischiare di tornare a casa e non riuscire più ad aprire la porta d’ingresso. Serratura cambiata, e l’amara sorpresa che nel frattempo alcuni sconosciuti hanno preso possesso dell’abitazione. Un problema risolvibile? Non così tanto. Anzi, potrebbe essere l’inizio di un lungo iter giudiziario, e se il nuovo o i nuovi occupanti, siano essi studenti cacciati di casa, extracomunitari, disoccupati o famiglie indigenti, dimostrano di essere alle prese con una situazione economica insostenibile o di non aver mai potuto accedere a bandi di assegnazione alle case popolari per vari motivi (ad esempio: non ne sono stati fatti per lunghi periodi), l’anziano in questione potrebbe rischiare di sudare le proverbiali sette camicie. Trattandosi di case popolari, la proprietà non è di nessuno ma del Comune. Questo vuol dire che quando qualcuno non è presente, fra gli altri bisognosi scatta una vera e propria corsa a chi arraffa la casa. Ci sarebbero sì le graduatorie per assegnare gli immobili, ma non mai vengono rispettate. Nel sud, affidarsi alla criminalità organizzata, pagando il dovuto, è il metodo più sicuro per assicurarsi una casa popolare. Chi pensa che questo sia un fenomeno di nicchia, si sbaglia di grosso. Le cifre infatti sono clamorose, anche se difficilmente reperibili. L’indagine più recente e affidabile da questo punto di vista è stata realizzata da Dexia Crediop per Federcasa sul Social Housing 2008. E parla di ben 40.000 case popolari occupate abusivamente in tutto lo Stivale, che se venissero assegnate a chi ne ha diritto permetterebbero a circa 100.000 persone di uscire da uno stato di emergenza.
L’onestà non paga. Ti serve una casa? Sfonda la porta e occupa, scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. L’appartamento di edilizia residenziale è abitato da una famiglia legittima assegnataria del diritto alla casa ottenuto attraverso un regolare quanto raro bando pubblico con relativo posto in graduatoria? Chi se ne fotte. Li cacci a calci in culo. E se non vogliono andare via, aspetti che escano e ti impossessi dell’abitazione. Con calma poi metti i loro mobili, vestiti e effetti personali in strada. Se malauguratamente qualcuno di loro ha la pazza idea di contattare le forze dell’ordine per sporgere denuncia, niente problema: li fai minacciare da qualche “cumpariello” inducendoli a dichiarare che quelle persone sono amici-parenti. Onde evitare però sospetti, con calma fai presentare un certificato di stato di famiglia dove i “signori occupanti” risultano dei conviventi. Il trucco è palese. Non regge l’escamotage dell’appartamento ceduto volontariamente. Certo. Gli investigatori non dormono. Questo è chiaro. Il solerte poliziotto esegue l’accertamento. I nodi alla fine vengo al pettine. La denuncia scatta immediata. La giustizia è lenta ma implacabile. Lo Stato vince. Gli occupanti abusivi in generale ammettono subito che sono abusivi. Quindi? Nei fatti c’è un organismo dello Stato – i verbali delle forze dell’ordine, le lettere di diffida degli enti pubblici gestori degli appartamenti – che certifica che a decorrere dal giorno x, dal mese x, dall’anno x, l’abitazione che era assegnata a tizio, caio e sempronio ora con la violenza e il sopruso è stato occupata da pinco pallino qualsiasi. La malapolitica trasversalmente e consociativamente per puri e bassi calcoli elettoralistici e non solo mascherati da esigenze sociali, di povertà, di coesione sociale e stronzate varie compulsando e piegando le istituzioni si attivano e varano con il classico blitz leggi, norme, regolamenti che vanno a sanare gli abusivi. Chi ha infranto la legge, chi ha prevaricato sul più debole, chi ha strizzato l’occhio al camorrista e al politiconzolo di turno, chi non mai ha presentato una regolare domanda di assegnazione, chi neppure ha i requisiti minimi per ottenere alla luce del sole un’abitazione si ritrova per "legge" un alloggio di proprietà pubblica a canone agevolatissimo. Accade in Campania e dove sennò in Africa?
Martedì 7 maggio 2013 è stato pubblicato sul Burc la nuova sanatoria per chi ha assaltato le case degli enti pubblici. La Regione Campania guidata dal governatore Stefano Caldoro ha varato all’interno della finanziaria regionale un provvedimento che regolarizza e stabilisce che può richiedere l’alloggio chi lo ha occupato prima del 31 dicembre 2010. Si badi bene che lo scorso anno era stato deciso con una legge simile che poteva ottenere la casa chi l’aveva assaltata entro il 2009. L’interrogativo sorge spontaneo: se puntualmente ogni anno varate una sanatoria per gli abusivi ma perché allora pubblicate i bandi di assegnazione con graduatoria se poi le persone oneste sono destinate ad avere sempre la peggio? Misteri regionali. C’è da precisare però che la nuova sanatoria contiene delle norme “innovative” e “rivoluzionarie” a tutela della legalità (non è una battuta!) per evitare che tra gli assegnatari in sanatoria ci siano pregiudicati e che le occupazione siano guidate dalla camorra. A questo punto c’è davvero da ridere. Le norme per entrare in vigore – però – hanno bisogno del “si” degli enti locali. Ecco il Comune di Napoli – ad esempio – ha detto “no”. Non è pragmatismo ma è guardare negli occhi il mostro. A Napoli non è solo malavita ci sono casi davvero di estrema povertà. Ma è facile adoperare, manipolare e nascondersi dietro questi ultimi per far proliferare camorra e fauna circostante. A Napoli i clan hanno sempre gestito le case di edilizia pubblica. Ad esempio a Scampia chi vive nei lotti di edilizia popolare sa bene che la continuità abitativa dipende dalle sorti del clan di riferimento. Chi perde la guerra, infatti, deve lasciare gli appartamenti ai nuovi padroni. Un altro esempio è il rione De Gasperi a Ponticelli. Qui il boss Ciro Sarno – ora fortunatamente dietro le sbarre a scontare diversi ergastoli – decideva le famiglie che potevano abitare negli appartamenti del Comune di Napoli. Una tarantella durata per decenni tanto che il padrino Ciro Sarno era soprannominato in senso dispregiativo ‘o Sindaco proprio per questa sua capacità di disporre di alloggi pubblici. Stesso discorso per le case del rione Traiano a Soccavo, le palazzine di Pianura, i parchi di Casavatore, Melito e Caivano.
Di cosa parliamo? Alle conferenze stampa ci si riempie la bocca con parole come legalità, anticamorra, lotta ai clan. Poi alla prima occasione utile invece di mostrare discontinuità, polso duro, mano ferma si deliberano norme che hanno effetti nefasti: alimentano il mercato della case pubbliche gestite dai soliti professionisti dell’occupazione abusiva borderline con i clan. Circola in Italia una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha, avendola occupata con la forza o l'astuzia.
E gli alloggi di proprietà?
Le Iene, 1 ottobre 2013: case occupate abusivamente.
23.40. L’associazione Action organizza occupazioni di case: prima erano per lo più extracomunitari, ora sempre più spesso esponenti del ceto medio che non riesce più a pagare il mutuo e viene sfrattata. Occupano così case vuote o sfitte. O, peggio, entrano in case abitate, cambiano la serratura e addio (un incubo per molti). Una signora, però, ha rioccupato la casa da cui è stata sfrattata.
23.48. Si racconta la storia di una ragazza non ancora trentenne, fiorista, che ha occupato una casa comprata da una famiglia, che ha acceso un mutuo e che ora si trova con un immobile svalutato e un ambiente ben diverso da quello residenziale che avevano scelto per far crescere i propri figli. “Si è scatenata una guerra tra poveri” dice una signora che vive qui ‘legalmente’, che va a lavorare tutti i giorni per pagare un mutuo per una casa che non rivenderà mai allo stesso prezzo. E’ truffata anche lei.
L’occupazione abusiva degli immobili altrui e la tutela delle vittime.
In sede civile, scrive Alessio Anceschi, chi si veda abusivamente privato del proprio immobile può certamente adire l’autorità giudiziaria al fine di rientrare nella disponibilità di esso da coloro che lo hanno illegittimamente occupato. In tal senso, potrà proporre l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), oppure, entro i termini previsti dalla legge, l’azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.). Il legittimo proprietario o possessore dell’immobile potrà anche agire al fine di ottenere il risarcimento dei danni sofferti, i quali si prestano ad essere molto ingenti, sia sotto il profilo patrimoniale, che esistenziale. In tutti i casi, tuttavia, in considerazione della lunghezza del procedimento civile e soprattutto del procedimento di esecuzione, il legittimo proprietario o possessore dell’immobile si trova concretamente privato della propria abitazione (e di tutti i beni che in essa sono contenuti) e quindi costretto a vivere altrove, da parenti o amici, quando và bene, in ricoveri o per la strada quando và male.
Sotto il profilo penale sono ravvisabili molti reati. Prima di tutti, il reato di invasione di terreni od edifici (art. 633 c.p.), ma anche altri reati contro il patrimonio funzionalmente collegati all’occupazione abusiva, quali il danneggiamento (art. 635 c.p.) ed il furto (artt. 624 e 625 c.p.). Il secondo luogo, colui che occupa abusivamente un immobile altrui commette il reato di violazione di domicilio (art. 614 c.p.). Anche in questo caso, tuttavia, la tutela postuma che consegue alla sentenza non si presta a tutelare adeguatamente la vittima. Infatti, il reato di cui all’art. 633 c.p., unica tra le ipotesi citate ad integrare un reato permanente, non consente l’applicazione né di misure precautelari, né di misure cautelari. Lo stesso vale per gli altri reati sopra indicati, soprattutto quando non vi sia stata flagranza di reato. La vittima dovrà quindi attendere l’interminabile protrarsi del procedimento penale ed anche in caso di condanna, non avrà garanzie sulla reintegrazione del proprio bene immobile, posto che l’esiguità delle pene previste per i reati indicati e le mille vie d’uscita che offre il sistema penale, si presta a beffare nuovamente la povera vittima, anche laddove si sia costituita parte civile. Laddove poi l’abusivo trascini nell’immobile occupato la propria famiglia, con prole minorenne, le possibilità di vedersi restituire la propria abitazione scendono drasticamente, in virtù dei vari meccanismi presenti tanto sotto il profilo civilistico, quanto di quello penalistico.
La mancanza di tutela per la vittima è evidente in tutta la sua ingiustizia. Essa diventa ancora più oltraggiosa quando le vittime sono i soggetti deboli, soprattutto, come accade spesso, gli anziani. Che fare? Nell’attesa che ciò si compia, ove si ritenga che il nostro “Sistema Giudiziario” sembri tutelare solo i criminali, può osservarsi che esso può tutelare anche le vittime, laddove siano costrette a convertirsi, per “necessità” di sopravvivenza e per autotutela. In effetti, occorre osservare che, il nostro ordinamento penale, che di recente ha anche ampliato la portata applicativa della scriminante della legittima difesa nelle ipotesi di violazione di domicilio (art. 52 c.p., come mod. l. 13.2.2006 n. 59), non consente che una persona ultrasettantenne possa subire una misura custodiale in carcere (artt. 275 co. 4° c.p.p. e 47 ter, l. 354/1975). Conseguentemente, solamente laddove l’anziano ultrasettantenne, spinto dall’amarezza, trovasse il coraggio di commettere omicidio nei confronti di tutti coloro che, senza scrupoli, lo abbiano indebitamente spogliato della propria abitazione, potrebbe rientrare immediatamente nel possesso della propria abitazione, con la sicurezza che, il nostro sistema giudiziario, gli garantirebbe una doverosa permanenza in essa attraverso gli arresti o la detenzione domiciliare. Contraddizioni di questa nostra Italia !!!
"Esci di casa e te la occupano… e alla Cassazione va bene così" ha titolato un quotidiano commentando una sentenza della Cassazione che avrebbe di fatto legittimato l'occupazione abusiva degli alloggi. L'articolo riportava le affermazioni di un sedicente funzionario dell'ex Istituto autonomo case popolari (Iacp) che consigliava all'assegnatario di un alloggio di mettere una porta blindata perché "Se sua mamma e suo papa vanno in ferie un paio di settimane, poi arrivano degli abusivi, quelli sfondano, mettono fuori i mobili, ci mettono i loro, e nessuno ha il potere di sgomberarli… Non ci si crede, ma è così". Ed infatti non bisogna credergli… Non è così, scrive “Sicurezza Pubblica”. Gli ipotetici abusivi di cui sopra commettono il reato di violazione di domicilio, e la polizia giudiziaria deve intervenire d'iniziativa per "impedire che venga portato a conseguenze ulteriori" (art. 55 cpp) allontanando (anche con la forza) i colpevoli dai locali occupati contro la legge. Il secondo comma dell'art. 614 cp commina (cioè minaccia) la pena della reclusione fino a tre anni a chiunque si trattenga nell'abitazione altrui o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno. La pena è da uno a cinque anni (arresto facoltativo, dunque) e si procede d'ufficio se il fatto è commesso con violenza sulle cose o alle persone, o se il colpevole è palesemente armato. Il reato è permanente. Perciò possiamo andare tranquillamente in ferie perché se qualcuno viola il nostro domicilio forzando la porta o una finestra, la polizia giudiziaria è obbligata a liberare l'alloggio ed il colpevole può essere arrestato. Quali potrebbero essere le responsabilità della polizia giudiziaria, che eventualmente omettesse o ritardasse l'intervento? Secondo l'art. 55 c.p.p. la p.g. deve (obbligo giuridico) impedire che i reati vengano portati a ulteriori conseguenze, mentre secondo l'art, 40 comma 2 del c.p.: "Non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". Perciò le ulteriori conseguenze dell'occupazione potrebbero essere addebitate ai responsabili del ritardo o dell'omissione.
Cosa ha veramente la Cassazione?
L'equivoco è nato dalla errata lettura della sentenza 27 giugno - 26 settembre2007, n. 35580, in cui la suprema Corte ha trattato il caso di una persona che, denunciata per aver occupato abusivamente un alloggio ex Iacp vuoto, aveva invocato l'esimente dello stato di necessità previsto dall'art. 54 cp, ma era stata condannata. La Corte non ha affatto legittimato il reato, ma si è limitata ad annullare la sentenza d'appello con rinvio ad altro giudice, ritenendo che fosse stata omessa la dovuta indagine per verificare se l'esimente stessa sussistesse o meno. Nulla di rivoluzionario dunque, ma applicazione di un principio: quando il giudice ravvisa l'art. 54 cp, il reato sussiste, ma "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona". In quest'ottica, giova rammentare la sentenza 9265 del 9 marzo 2012, che ha definitivamente fatto chiarezza (qualora ce ne fosse stato bisogno). La Cassazione ha respinto il ricorso di una 43enne contro la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto la donna colpevole del reato di cui agli articoli 633 e 639 bis Cp per avere abusivamente occupato un immobile di proprietà dello Iacp di Palermo. La seconda sezione penale, confermando la condanna, ha escluso lo stato di necessità precisando che in base all’articolo 54 Cp per configurare questa esimente (la cui prova spetta all’imputato che la invoca), occorre che «nel momento in cui l’agente agisce contra ius - al fine di evitare un danno grave alla persona - il pericolo deve essere imminente e, quindi, individuato e circoscritto nel tempo e nello spazio. L’attualità del pericolo esclude quindi tutte quelle situazioni di pericolo non contingenti caratterizzate da una sorta di cronicità essendo datate e destinate a protrarsi nel tempo». Nell' ipotesi dell’occupazione di beni altrui, lo stato di necessità può essere invocato soltanto per un pericolo attuale e transitorio non certo per sopperire alla necessità di risolvere la propria esigenza abitativa, tanto più che gli alloggi Iacp sono proprio destinati a risolvere esigenze abitative di non abbienti, attraverso procedure pubbliche e regolamentate. In sintesi: una precaria e ipotetica condizione di salute non può legittimare, ai sensi dell’articolo 54 Cp, un’occupazione permanente di un immobile per risolvere, in realtà, in modo surrettizio, un’esigenza abitativa.
Sequestro preventivo dell'immobile occupato abusivamente.
La sussistenza di eventuali cause di giustificazione non esclude l'applicabilità della misura cautelare reale del sequestro preventivo. D'altronde la libera disponibilità dell'immobile comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato, che il sequestro preventivo mira invece a congelare. (Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza n. 7722/12; depositata il 28 febbraio). Il caso. Due indagati del reato di invasione e occupazione di un edificio di proprietà dell'Istituto Autonomo Case Popolari ricorrevano per cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale del Riesame di Lecce, che confermava il sequestro preventivo dell'immobile disposto dal GIP. A sostegno della loro tesi difensiva, gli indagati introducevano un elemento afferente il merito della responsabilità penale, sostenendo come fosse documentato lo stato di assoluta indigenza in cui versavano, tale da averli costretti ad occupare l'immobile per la necessità di evitare un danno maggiore alla loro esistenza e salute. In sostanza, invocavano lo stato di necessità che, secondo la tesi difensiva, avrebbe non solo giustificato l'occupazione, ma che avrebbe potuto determinare una revoca del provvedimento cautelare disposto…non opera per le misure cautelari reali. La Suprema Corte esamina la censura, ma la rigetta perché, nel silenzio della legge, non può applicarsi la regola - prevista dall'art. 273 comma 2 c.p.p. per le sole misure cautelari personali - che stabilisce che nessuna misura (personale) può essere disposta quando il fatto è compiuto in presenza di una causa di giustificazione, quale appunto l'invocato stato di necessità. L'ordinanza impugnata ha chiarito che i due indagati hanno abusivamente occupato un alloggio già assegnato ad altra persona, poi deceduta, e ha correttamente rilevato che è del tutto irrilevante la circostanza che nel lontano 1983 il B. sia stato assegnatario di un altro alloggio del cui possesso sarebbe stato spogliato. Se queste sono le circostanze di fatto non è ravvisabile alcuna violazione di legge, ma solo una diversa valutazione dei fatti stessi non consentita in questa sede di legittimità, per di più con riferimento a misure cautelari reali (art. 325, comma 1, c.p.p.). Per quanto concerne la sussistenza della dedotta causa di giustificazione, se è vero che, in tema di misure cautelari personali, ai sensi dall'art. 273, comma 2, cod. proc. pen., nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione, l'applicabilità di una analoga normativa con riferimento alle misure cautelari reali, in assenza di espressa previsione di legge, deve tenere conto dei limiti imposti al Tribunale in sede di riesame, nel senso che la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare reale da parte del tribunale del riesame non può tradursi in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale (per tutte: Sez. U, n. 7 del 23/02/2000, Bocedi, Rv. 215840). È evidente, pertanto, che una causa di giustificazione può rilevare nell'ambito del procedimento relativo a misure cautelari reali solo se la sua sussistenza possa affermarsi con un ragionevole grado di certezza. Anche sulla sussistenza del periculum in mora l'ordinanza impugnata, espressamente pronunciandosi sul punto, afferma che la libera disponibilità da parte degli indagati dell'immobile in questione comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato commesso. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Condotta e dolo specifico.
L'articolo 633 cp stabilisce che "Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o trame altrimenti profitto è punito a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa. Si procede d'ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata, o da più di dieci persone anche senz'armi". Si procede altresì d'ufficio (art. 638 bis c.p.) se si tratta di acque, terreni, fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. Perché sussista il reato, occorre che l'agente penetri dall'esterno nell'immobile (anche senza violenza) e ne violi l'esclusività della proprietà o del possesso per una apprezzabile durata, contro la volontà del titolare del diritto o senza che la legge autorizzi tale condotta. Questo reato non consiste nel semplice fatto di invadere edifici o terreni altrui, ma richiede il dolo specifico, cioè la coscienza e volontà di invaderli al fine di occuparli o trame altrimenti profitto. Non occorre neppure l'intenzione dell'occupazione definitiva, anche se essa deve avere una durata apprezzabile. In caso di immobile già invaso, è possibile il concorso successivo di persone diverse dai primi autori dell'invasione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 maggio 1975, n. 5459). Quanto al reato di violazione di domicilio, previsto dall'art. 614 del C.P., esso è ravvisabile anche "nella condotta di abusiva introduzione (o abusiva permanenza) nei locali di una guardia medica fuori dell'orario ordinario di apertura al pubblico per l'assistenza sanitaria. Infatti, se nell'orario ordinario di servizio la guardia medica è aperta al pubblico, nell'orario notturno l'acceso è limitato a quelli che hanno necessità di assistenza medica e che quindi sono ammessi all'interno dei locali della stessa. Pertanto in questo particolare contesto l'ambiente della guardia medica costituisce un'area riservata che può assimilarsi a quella di un temporaneo privato domicilio del medico chiamato a permanere lì durante la notte per potersi attivare, ove necessario, per apprestare l'assistenza sanitaria dovuta" (Cass. pen. Sez. III, sent. 6 giugno - 30 agosto 2012, n. 33518, in Guida al diritto n. 39 del 2012, pag. 88).
Flagranza e procedibilità d'ufficio.
Il reato d'invasione di terreno o edifici ha natura permanente e cessa soltanto con l'allontanamento del soggetto dall'edificio, o con la sentenza di condanna, dato che l'offesa al patrimonio pubblico perdura sino a che continua l'invasione arbitraria dell'immobile. Dopo la pronuncia della sentenza, la protrazione del comportamento illecito da luogo a una nuova ipotesi di reato, che non necessita del requisito dell'invasione, ma si sostanzia nella prosecuzione dell'occupazione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 dicembre 2003, n. 49169). Nella distinzione tra uso pubblico e uso privato, una recente pronuncia ha affermato che "l'alloggio realizzato dall'Istituto autonomo delle case popolari (lacp), conserva la sua destinazione pubblicistica anche quando ne sia avvenuta la consegna all'assegnatario, cui non abbia ancora fatto seguito il definitivo trasferimento della proprietà. Ne deriva che, in tale situazione, l'eventuale invasione ad opera di terzi dell'alloggio medesimo è perseguibile d'ufficio, ai sensi dell'art. 639 bis cp" (Cass. pen., Sez. Il, 12 novembre 2007, n. 41538). In caso di invasione arbitraria di edifici costruiti da un appaltatore per conto dell'ex lacp e non ancora consegnati all'Istituto, la persona offesa, titolare del diritto di querela è l'appaltatore. Ai fini della procedibilità d'ufficio del reato di cui all'art. 633 c.p., l'uso della disgiuntiva nell'art. 633-bis (edifici pubblici o destinati a uso pubblico) pone il carattere pubblico come di per sè sufficiente a configurare la procedibilità d'ufficio, nel senso che è sufficiente che l'edificio sia di proprietà di un ente pubblico. A tal fine, si devono considerare pubblici, secondo la nozione che il legislatore penale ha mutuato dagli articoli 822 e seguenti del Cc, i beni appartenenti a qualsiasi titolo allo stato o a un ente pubblico, quindi non solo i beni demaniali, ma anche quelli facenti parte del patrimonio disponibile o indisponibile degli enti predetti. Mentre, sempre per la procedibilità d'ufficio, sono da considerare "destinati a uso pubblico" quegli altri beni che, pur in ipo0tesi appartenenti a privati, detta destinazione abbiano concretamente ricevuto (Corte Appello di Palermo, sent. 20-22 giugno 2011, n. 2351 in Guida al diritto n. 46 del 19 novembre 2011).
L'art. 634 c.p. - Turbativa violenta del possesso di cose immobili.
Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo 633 c.p., turba, con violenza alla persona o con minaccia, l'altrui pacifico possesso di cose immobili, è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa da euro 103 a euro 309. Il fatto si considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci persone. La maggior parte della dottrina ritiene che l'unica distinzione possibile sia quella che fa perno sull'elemento soggettivo: mentre nell'art. 633 è previsto il dolo specifico, per l'art. 634 è sufficiente il dolo generico. Di conseguenza si dovrà applicare l'art. 634 qualora vi sia un'invasione non qualificata dal fine di occupare i terreno e gli edifici o di trarne altrimenti profitto. Viceversa sussisterà la fattispecie di cui all'art. 633 anche nel caso di invasione violenta finalizzata all'occupazione o al profitto. La turbativa di cui all'art. 634 postula un comportamento minimo più grave della semplice introduzione (art. 637) e meno grave dell'invasione (art. 633). La nozione di turbativa deve intendersi come una non pregnante compromissione dei poteri del possessore. La semplice violenza sulle cose, che non sia usata per coartare l'altrui volontà, non basta ad integrare il reato. Peraltro il comma 2 dell'art. 634, parifica alla violenza alla persona e alla minaccia, la presenza di un numero di persone (che commettono il fatto) superiore a dieci. Si discute se si tratti di un delitto istantaneo o permanente. Prevale l'opinione che ritiene trattarsi di reato istantaneo, potendo assumere connotazione permanente allorchè la perturbazione richieda l'esperimento di una condotta prolungata nel tempo, sostenuta da costante volontà del soggetto agente (Manzini).
Come agire?
Il delitto di violazione di domicilio è permanente ed ammette l'arresto facoltativo in flagranza (art. 381, lett. f-bis c.p.p.) Anche il delitto di invasione al fine di occupazione (art. 633 c.p.) è permanente: la condotta criminosa perdura per tutto il tempo dell'occupazione e deve essere interrotta dalla polizia giudiziaria, che anche di propria iniziativa deve impedire che i reati vengano portati a ulteriore conseguenze (art. 55 cpp). Non appena i titolari del diritto sull'alloggio danno notizia dell'avvenuta invasione agli organi di pg questi ultimi, se dispongono delle forze necessarie, debbono procedere allo sgombero, senza necessità di attendere il provvedimento dell'Autorità. In ambedue i casi spetta al giudice valutare poi l'esistenza di eventuali esimenti.
Inerente l'occupazione abusiva di un immobile, pare opportuno inserire una breve digressione sulle azioni a tutela dei diritti di godimento e del possesso. Il panorama si presenta alquanto vario; troviamo, infatti, le azioni concesse al solo proprietario, quelle esperibili dal titolare di un diritto di godimento su cosa altrui o dal possessore in quanto tale. Tali azioni vengono qualificate come reali, in quanto offrono tutela per il solo fatto della violazione del diritto.
L'azione di rivendicazione, rientrante fra le azioni petitorie, tende ad ottenere il riconoscimento del diritto del proprietario sul bene e presuppone la mancanza del possesso da parte dello stesso; è imprescrittibile e richiede la dimostrazione del proprio diritto risalendo ad un acquisto a titolo originario.
L'azione negatoria è concessa al proprietario al fine di veder dichiarata l'inesistenza di diritti altrui sulla cosa o la cessazione di turbative o molestie; in questo caso al proprietario si richiede soltanto la prova, anche in via presuntiva, dell'esistenza di un titolo dal quale risulti il suo acquisto.
L'azione di regolamento di confini mira all'accertamento del proprio diritto nel caso in cui siano incerti i confini dello stesso rispetto a quello confinante; in tale ipotesi la prova del confine può essere data in qualsiasi modo. Nell'azione di apposizione di termini, al contrario, ciò che si richiede al Giudice è l'individuazione, tramite indicazioni distintive, dei segni di confine tra due fondi confinanti.
L'azione confessoria è volta a far dichiarare l'esistenza del proprio diritto contro chi ne contesti l'esercizio, e a far cessare gli atti impeditivi al suo svolgimento.
A difesa del possesso incontriamo le categorie delle azioni possessorie e di enunciazione: le prime si distinguono nell'azione di reintegrazione, che mira a far recuperare il bene a chi sia stato violentemente o clandestinamente spogliato del possesso, da proporsi entro un anno dallo spoglio, e l'azione di manutenzione, proposta al fine di far cessare le molestie e le turbative all'esercizio del diritto.
L'azione di manutenzione, al contrario di quella di reintegrazione, ha una funzione conservativa, poiché mira alla cessazione della molestia per conservare integro il possesso, e una funzione preventiva, poiché può essere esperita anche verso il solo pericolo di una molestia. Diversamente dalle azioni a difesa della proprietà, che impongono la prova del diritto, il possessore ha soltanto l'onere di dimostrare il possesso (in quanto questo prescinde dall'effettiva titolarità del diritto). Le azioni di enunciazione, con le quali si tende alla eliminazione di un pericolo proveniente dal fondo vicino, si distinguono nella denunzia di nuova opera e di danno temuto; esse, infatti, vengono qualificate come azioni inibitorie, cautelari, che possono dar luogo a provvedimenti provvisori.
IL RAZZISMO DEGLI ANTIRAZZISTI.
Gli italiani sono i più islamofobi e antisemiti d'Europa (e anche di gran lunga), scrive il 31 maggio 2018 Mauro Munafò su "L'Espresso". C'è un'interessante e approfondita ricerca pubblicata in questi giorni dal Pew research Center, istituto di statistica americano. Si chiama “Essere cristiani nell'Europa occidentale” e, in 168 pagine, affronta il tema della religione in Europa sotto tantissimi punti di vista: la secolarizzazione, l'apertura dei religiosi ai diritti civili, il calo o l'aumento della partecipazione alle funzioni religiose e in generale tutte le differenze che ci sono tra credenti e non credenti nell'affrontare vari temi della via quotidiana. Ma facciamo un passo indietro: tutti i dati di cui inserirò le tabelle si basano su una ricerca del Pew fatta in 15 paesi europei e su un totale di 24.599 adulti a cui è stato sottoposto un questionario telefonico (sia su rete fissa che mobile). Tutte le persone ascoltate sono maggiorenni e sono stati “sondati” almeno 1.500 persone per ogni paese, scelte formando un campione rappresentativo del Paese stesso (la metodologia completa la trovate a pagina 165 dello studio). I numeri che trovo più interessanti e preoccupanti in questo studio sono i seguenti: il 12 per cento degli italiani non vorrebbe avere ebrei vicini di casa, numero che sale fino al 21 per cento quando si parla di avere come dirimpettai persone di fede musulmana. La media europea è largamente inferiore: appena 8 per cento quando si parla di ebrei e 11 per cento per i musulmani. Con paesi come Danimarca o Olanda in cui queste percentuali sono prossime allo zero. I dati diventano ancora più preoccupanti quando si parla di avere un ebreo o un musulmano in famiglia. Non vorrebbe mai trovarsi un ebreo al cenone di Natale un italiano su quattro (la media europea è del 17 per cento). E siamo l'unico paese in Europa in cui il numero di persone che non vorrebbe essere imparentato con un musulmano è superiore al 40 per cento. Il 43 per cento per essere esatti, unico Stato in cui i favorevoli e i contrari sono lo stesso numero: nel resto d'Europa c'è un significativo gap tra queste due cifre, tanto che in media ci sono oltre 40 punti di differenza. Il quadro continua a farsi oscuro leggendo le altre statistiche, di cui vi sintetizzo solo qualche numero: siamo quelli che più di tutti ritengono che l'insegnamento dell'Islam sia portatore di violenza. E per oltre metà degli italiani l'Islam è incompatibile con la cultura e i valori nazionali. Almeno in quest'ultima categoria però ci batte qualcuno: l'insospettabile Finlandia.
Lo scrittore Catozzella: "Chi odia i migranti è perché ci ritrova se stesso". Nei suoi libri ci ha consegnato una visione diretta delle tragedie delle migrazioni. All'Espresso spiega perché nel nostro Paese sia così difficile l'accettazione e quali politiche potrebbero essere messe in campo per affrontare il fenomeno. Senza risparmiare critiche a tutte le forze in Parlamento, da Minniti a Salvini passando per il M5s, scrive Christian Dalenz il 5 giugno 2018 su "L'Espresso". Giuseppe Catozzella, scrittore, 41 anni, ha creato un caso editoriale nel 2016 con Non dirmi che hai paura, romanzo in cui raccontava la storia vera di un'atleta somala che muore in mare cercando di raggiungere e partecipare alle Olimpiadi di Londra. Un'opera che gli ha valso non solo sperticati elogi da parte della critica, ma anche la nomina di ambasciatore Unhcr, l'agenzia Onu per i rifugiati. Il nuovo libro che sta presentando in giro per l'Italia, E tu splendi, cerca ora di affrontare il tema delle migrazioni dal punto di vista dell'accoglienza e dell'integrazione. Viste proprio in un luogo dove è più difficile realizzarle; un piccolo paese della Basilicata, dove una famiglia di immigrati cerca di sconfiggere la diffidenza della popolazione locale grazie all'aiuto di un giovane ragazzo italiano che la prende in simpatia. Anche stavolta è arrivato il successo: E tu splendi è in classifica da otto settimane ed è in ristampa per la quarta volta. Proviamo insieme a lui a capire come affrontare, sia a livello italiano sia europeo, questa tematica di attualità così stringente.
Ha scritto che l’Italia oggi è “un Paese dalla mentalità asfittica”. Che cosa intende? E siamo sempre stati così o lo siamo diventati? E se lo siamo diventati, quando è avvenuto, come, perché?
«Lo siamo sempre stati, fin dall'Unità, credo. Siamo un paese contadino e segnato dalla miseria che non ha conosciuto la "rivoluzione" borghese o liberale, al contrario dei grandi Stati nazionali europei, cioè non è mai stato in grado di costruirsi una identità culturale e collettiva, e un disegno del futuro slegato dalla materia, dalla terra, dal bisogno. Abbiamo conosciuto un benessere economico per pochi decenni, dalla fine del secondo dopoguerra fino a una decina di anni fa. Ma in mancanza di strutture culturali diffuse, di un senso collettivo di nazione e partecipazione e di uno slancio culturale verso il futuro, non abbiamo potuto che interpretare e utilizzare quel breve benessere in chiave privata, familistica, materialistica. L'italiano ha imparato che il tertium non esiste, che la Giustizia non esiste, che per sopravvivere occorre "fottere" il prossimo e lo Stato, perché lo fanno tutti, Stato incluso. Che non vige la certezza della pena ma l'unica certezza che più gravi per la collettività saranno i reati e meno verranno puniti. Da questo non può che risultare un paese asfittico, senza aria, senza visione, senza speranza e, di fatto, senza futuro, visto che anche l'emigrazione non si è mai fermata e anzi è aumentata negli ultimi anni (ricordo infatti che lo scorso anno 180.000 ragazzi italiani hanno lasciato l'Italia per trovare un lavoro degno di loro). Domina una visione chiusa, gretta, aridamente materialistica, utilitaristica all'eccesso: la guerra di tutti contro tutti, dei poveri contro i poveri».
Oggi il “senso comune” in Italia non è certo aperto nei confronti dell’accoglienza e dei migranti. Non era così, fino a pochi anni fa. Di chi sono le maggiori responsabilità?
«Non era così forse finché a ricevere migranti o stranieri erano principalmente i Paesi che hanno conosciuto la rivoluzione degli Stati nazione, i Paesi ricchi quindi: Francia, Inghilterra, Germania, USA su tutti. Fino a pochissimi anni fa gli emigranti veri eravamo noi italiani, e come ricordavo prima stiamo tornando ad esserlo. In Australia siamo i "wog", in America i "wop", termini più che dispregiativi. Adesso che a ricevere stranieri siamo anche noi, non siamo preparati. Non siamo pronti culturalmente. E non lo siamo nemmeno economicamente. Non abbiamo una visione del futuro per noi, figurarsi per i nuovi arrivati. Questo genera un sentimento presente e vivo nelle fasce meno avvantaggiate della popolazione, ovvero la grande maggioranza. Se questi sentimenti privati, intimi, di insicurezza e invasione vengono poi alimentati ad arte da chi detiene il megafono, ovvero politica e media, che usano slogan per atterrare spettatori o clic, allora accade che un sentimento di vergognoso rancore privato ottenga un riconoscimento pubblico, e questo è molto pericoloso. La vergogna privata facilmente si trasforma in appartenenza, in orgoglio. E da lì in diritti negati, in un nazionalismo negativo, privo di un vero disegno culturale costruttivo. E poi in odio. Odio sociale, collettivo».
Questo “senso comune” impaurito e quindi xenofobo si può ribaltare secondo lei? E come? Quali sono le caratteristiche e i perimetri di questa battaglia culturale?
«È difficilissimo. Se la battaglia è culturale, come lo è, allora è già quasi persa in partenza. Stiamo parlando di un Paese, il nostro, dove pochissimi leggono (1 su 10), e dove molti, moltissimi sono ancora analfabeti o analfabeti funzionali. Le battaglie culturali da noi non funzionano, perché il senso comune italiano è pre-culturale o addirittura anti-culturale. Questo non significa che bisogna arrendersi, certo. Significa solo che è molto difficile. Occorre più di tutto una grande politica indirizzata alla Scuola. Lì si gioca ogni cosa. Copiamo la Francia se non abbiamo idee. Ma quei soldi che ci sono vanno messi nella Scuola e nei libri».
Il suo ultimo romanzo, E tu splendi, affronta il tema della difficile integrazione di un gruppo di africani in Italia, più precisamente in un piccolo paese del Sud. Quali sono oggi gli ostacoli culturali principali per l’integrazione? E quali?
«Lo straniero, ad un popolo come noi italiani, attiva una reazione molto intima e che vogliamo rimuovere: un senso di vergogna. Vergogna perché, data la nostra storia rurale di miseria e di immigrazione, lo straniero ci porta necessariamente a riconoscerci in lui. Di fronte allo straniero penso: questo sono io. Perché se non sono migrati i nostri genitori, i nostri nonni o i nostri bisnonni, magari siamo migrati noi, o i nostri figli. Tutto ciò, unito ad un presente di povertà, genera quel senso di odio collettivo di cui parlavo anche prima. Tutto questo impedisce una risposta razionale al più grande fenomeno del nostro tempo, che è quello delle migrazioni. Che pure conosciamo molto bene perché ha visto e vede protagonisti gli italiani per primi».
Cosa ne pensa del caso del sindaco di Riace, Domenico Lucano, e delle sue politiche di integrazione che hanno fatto parlare tutto il mondo? E' un modello che potrebbe essere applicato anche in altre parti d'Italia e d'Europa?
«Secondo me sì. È naturale che ogni territorio, ogni comune ed ogni regione abbiano proprie caratteristiche geografiche, storiche, economiche e sociali. Ma io credo che quell'esempio sia non solo illuminato ma anche, in un certo senso, avanguardia. Se uno smette di guardare soltanto nel breve raggio delle prossime elezioni politiche, o al breve o lungo destino dell'azienda privata in cui lavora, e inizia a guardare con una gittata più lunga a quello che sarà di necessità il "tessuto" del mondo dentro e dopo questa enorme era di spostamenti globali, quello che vede è giocoforza un genoma sempre più misto, un arricchimento della complessità culturale e sociale. I movimenti, le migrazioni, i Viaggi non si possono fermare. Non è mai stato possibile, e mai lo sarà. Chi dice il contrario è un truffatore oppure un cattivo osservatore della complessità della nostra epoca. Mantenendo fermo il dato della necessità delle migrazioni, occorre un disegno per strutturarle. Quello di Riace mi pare un disegno coraggioso e pionieristico: occorre studiarlo e capirne per bene le ragioni del successo, perché è un disegno non soltanto bello, ma necessario».
In uno dei suoi ultimi post sulla tua pagina Facebook commenta l'omicidio di Soumayla Sacko scrivendo che in E tu splendi non hai inventato nulla. Puoi spiegare questo parallelo tra realtà e fiction, anche a chi non ha ancora letto il tuo libro?
«In "E tu splendi" racconto, attraverso la voce di un bambino alla storia di un gruppo di bambini, cosa succede in una piccola comunità (in un paesino di 50 case di pietra arroccato sulle montagne del profondo sud), un posto da cui tutti sono sempre emigrati, se proprio lì arriva una piccola famiglia di sette stranieri, compreso un bambino. La comunità si spacca in due, il prepotente proprietario terriero usa gli stranieri per abbassare le paghe a tutti, si genera una vera e propria guerra tra poveri e miserabili e quelli ancora più poveri. Fino a un punto di non ritorno. Questo è esattamente quello che è successo a Rosarno, dove per altro recentemente sono stato proprio a presentare questo romanzo in Comune, alla presenza delle istituzioni e di molti professori. Mi ci ha portato uno dei migliori librai d'Italia, un uomo coraggioso: Nunzio Belcaro della libreria Ubik di Catanzaro. In questi giorni, la domanda che mi viene fatta più spesso, come del resto anche quando scrissi Non dirmi che hai paura e anche Il grande futuro, è: "Come hai fatto in un romanzo ad anticipare gli eventi?". Rispondo che è proprio questo il ruolo di uno scrittore nel 2018, se ancora ne ha uno, a mio modo di vedere: "sentire" lo Spirito del mondo, come si diceva nell'Ottocento, e trasformarlo in una storia».
L’ultimo ministro degli interni del Pd, Marco Minniti, ha messo in pratica politiche molto dure verso i migranti, di fatto facendo rinchiudere migliaia di loro nei lager libici. Come giudica queste politiche? Un necessario adeguamento della sinistra alla "real politik" o un cedimento valoriale che snatura la sinistra stessa?
«Sono politiche sconsiderate, innanzitutto da un punto di vista umano. Di fronte al più grande fenomeno del nostro tempo, decine di milioni di persone che si spostano contemporaneamente in un anno (l'anno scorso si sono spostate 65 milioni di persone), non dobbiamo mai dimenticarci che nessuno lascia il proprio paese, i propri familiari, i propri amici, i propri amori se non è costretto, e che spostarsi verso condizioni di vita migliori è un diritto universale alla nascita, fino a prova contraria. Chi scappa dal proprio paese è innanzitutto un uomo, un essere umano, che ha diritto alla vita. Non può essere punito perché cerca di migliorarla, sarebbe inumano. Ogni decisione e azione, politica e non, che non considera ognuna delle persone che si spostano (compresi i ragazzi e le ragazze che vanno a studiare o lavorare negli USA o nel Regno Unito) come esseri umani dotati di diritti universali alla nascita è inumana e aberrante. Quando la sinistra decide di fare la destra per guadagnare voti li perde drasticamente, e tutti, se continua. Ogni originale, anche il peggiore, è meglio di una copia, lo scrivono anche i ragazzini sui social. Come fanno i cosiddetti capi politici a non saperlo? Quanto ciechi devono essere per aver dimenticato la propria identità, il proprio passato e quindi il proprio futuro?»
Infatti alle elezioni l’originale è stato preferito all’imitazione. E Matteo Salvini è oggi tra i leader più popolari del Paese. Cosa pensa di lui? Come spieghi la sua popolarità? Le fa paura la sua ascesa al Viminale? Con quali argomentazioni e con quali forme la sinistra può contrapporsi a lui?
«Salvini è un uomo nato con la tv (anche di Berlusconi), ed è un uomo molto ambizioso. E' un uomo disposto a vendere la propria dignità di pensiero per i voti. È personaggio da slogan, sa che la coerenza e la dignità ormai non portano nulla e la loro assenza viene perdonata dai risultati. Fa leva su un partito che è nato come protesta, perfetto per i tempi di oggi. Un partito che ha rubato molto, dimostrandosi il perfetto partito di Palazzo, ma per ricordarselo ci vorrebbe memoria collettiva, che è stata smagnetizzata in qualche hard disk esterno. Non credo però che lui, che a pochi giorni dall'insediamento al Viminale continua a spararle grosse per i suoi elettori, possa fare molti danni. In Italia il Palazzo vince sempre. Ti schiaccia. E se non lo fa il Palazzo italiano lo farà quello Europeo. Il fatto di non poter tradurre in realtà mere promesse elettorali, se da un lato è un bene, lo porterà però a una esasperazione di slogan, persino da ministro di governo: temo che l'odio crescerà ancora».
E cosa pensa dell’atteggiamento del M5s sui migranti? Al Parlamento europeo hanno spesso votato con la sinistra per l’accoglienza, però poi Di Maio ha attaccato i “taxi del mare” e ha firmato il contratto con la Lega che prevede espulsioni di massa...
«Credo che occorra separare, per il M5S come per ogni partito, quello che si dice da quello che si fa. La politica non è il territorio dell'accordo tra il dire e il fare. Le persone dignitose (e per dignità intendo la sua base materiale: fare quello che si dice e dire quello che si fa) le troviamo casomai in altri settori. Però riguardo il M5s credo che, come su altri punti, anche su questo da un lato ha intelligentemente cercato mediazioni (soprattutto elettorali) alle opposte ideologie cristallizzate di destra e sinistra; dall'altro, bisognerà vedere come si incarnerà questa strategia elettorale da "terza via" in un governo con la Lega. Come dicevo prima, credo però alla fine che il Palazzo schiaccerà tutto, come ha sempre fatto. Da noi per battere il Leviatano ci vogliono ancora molte generazioni».
M5s e Lega hanno parlato molto del “business dell'immigrazione”. Lei ritiene che l'accoglienza in questo Paese venga gestita adeguatamente? Quali sono gli errori, quali i margini di miglioramento non solo per i migranti, ma anche per una maggiore accettazione da parte degli italiani?
«Io posso parlare di quello che ho visto con i miei occhi, occupandomi del più grande fenomeno dei nostri tempi ormai da più di 10 anni. E ho visto una grande quantità di organizzazioni, di strutture, una grande rete sul mare e a terra, che non dimentica che chi scappa dal proprio paese è innanzitutto un uomo che ha diritto alla vita. Tutta la campagna politica e mediatica volta a sdoganare un pensiero ostile nei confronti dei migranti e di chi si sposta per me è aberrante. Chi ha in mano il megafono vince. Ormai ci siamo abituati all'idea che dietro le migrazioni ci sia del marcio. E che quindi tutto vada gettato a mare, persone incluse. No. Non è così. Questo è malato. Nessuno può morire in mare così come in terra, se scappa da casa sua, o anche se decide di spostarsi per povertà. È stata anche inventata una categoria ridicola come quella dei "migranti economici", che non avrebbero diritto di spostarsi come chi invece scappa dalla guerra. E perché mai? Avete conosciuto le carestie dell'Africa orientale? Io sì, e posso assicurare che lì non ci puoi rimanere. E hai diritto a non morire, se sei forzato ad andartene. Poi, di certo ci saranno mele marce e persone o qualche organizzazione che non fa il proprio lavoro come dovrebbe: punire, rimuovere, agire in questi casi, allora».
Che cosa dovrebbe e potrebbe fare l’Europa? Cosa pensi del trattato di Dublino, che di fatto delega ai soli paesi affacciati sul mediterraneo tutta la questione?
«Va cambiato. Le migrazioni sono, come ho già più volte detto, il più grande fenomeno del nostro tempo. Per questo tutta l'Unione Europea deve farsene carico, è suo dovere costitutivo non lasciare tutto nelle mani di uno, due o tre paesi, quelli che hanno lo sbocco sul mare e i confini più permeabili. Come ho già più volte detto la responsabilità di queste decine di migliaia di morti dentro e fuori il mare Mediterraneo è dal mio punto di vista tutto a carico di chi non vuole facilitare questi Viaggi epici, e quindi anche a carico dell'Unione Europea che ancora oggi nel 2018 non riesce a organizzare corridoi umanitari per lasciare viaggiare in tranquillità e raggiungere la propria destinazione queste persone. Si vuole lanciare il messaggio che è meglio non partire. Ma di fronte alla guerra, alle carestie e a una schiacciante povertà non c'è scelta. Più volte ho parlato con ragazzi che hanno fatto il viaggio e mi hanno detto che preferivano una morte possibile durante il viaggio a una morte certa in casa loro».
Si parla spesso, sia a destra sia nel Pd, di “aiutarli a casa loro”, in particolare con riferimento ai migranti economici. Cosa ne pensa? Gli investimenti nei Paesi interessati possono aiutare a far decollare le economie? La cooperazione internazionale può giocare veramente un ruolo? E quale? E comunque, questo può bastare o le migrazioni sono un fenomeno globale irreversibile?
«Prima di tutto questo, occorre smettere di alimentare le guerre nei loro paesi che li costringono a fuggire. L'Occidente è disposto a rinunciare a molti soldi per far cessare le guerre in Africa e Medio Oriente? Si prenda un caso recente, e quindi più comodo per la memoria: la Siria. Abbiamo forse ancora in mente gli aerei Usa che bombardano. Bene, in 7 anni quella guerra, che anche l'Occidente non ha mai smesso di alimentare, ha prodotto milioni di migranti. Vogliamo che non partano? Prima di pensare alle loro economie pensiamo a smettere di fare la guerra a casa loro.»
Così il Roma Pride diventa una manifestazione contro il nuovo governo. Nel cuore della Capitale va in scena il Roma Pride 2018. Nel mirino di attivisti Lgbtqi e partigiani ci sono Fontana e Salvini. Fa discutere anche l'assenza della sindaca grillina Virginia Raggi, scrive Elena Barlozzari, Sabato 09/06/2018, su "Il Giornale". Migliaia di persone, 18 carri, maschere e musica qualche decibel in più della soglia di tolleranza. Il corteo arcobaleno del Roma Pride, come ogni anno, attraversa la Città Eterna. Ma per questa edizione cambia formazione. É una “brigata” che procede nel segno della “Liberazione continua” e nel solco della Resistenza. La missione quindi è “resistere”. La richiesta, invece, “che lo Stato riconosca i matrimoni gay”. Oggi più che mai. Nel mirino del Coordinamento Roma Pride c’è uno dei due azionisti di maggioranza del nuovo governo: il Carroccio. Ma per osmosi, oramai, guardano con sospetto e diffidenza anche le Cinque Stelle. Sono lontani i tempi in cui la sindaca di Roma Virginia Raggi si presentava a sorpresa alla gay croisette all’ombra del Colosseo. Stavolta neanche c’è. Eppure il vero bersaglio mobile è il ministro della Famiglia e della Disabilità, Lorenzo Fontana che, dopo le recenti dichiarazioni, ha messo in allarme lo stato maggiore Lgbtqi. “L’unica Fontana che vogliamo è quella di Trevi” e “Dai Fontana vieni a ballare con noi”, recitano alcuni dei cartelli dedicati al neo ministro. Sulle barricate anche i partigiani. Perché il “leghismo”, dicono, è una minaccia seria per la democrazia di questo Paese. Allora spetta proprio all’intramontabile Tina Costa, presidente vicaria dell’Anpi Roma, il compito di scagliare la prima pietra. “La lotta di libertà iniziata sui monti deve continuare oggi per i diritti”, scandisce l’ex partigiana dall’alto di un carro in processione. E ancora: “L’articolo 3 della Costituzione deve essere applicato per tutti, bisogna dirlo ai nuovi governanti che vogliono chiuderci nei ghetti e nei forni crematori”. Ma chi sarebbero questi governanti? “I ministri Fontana e Salvini – prosegue la Costa – vengano a dare un’occhiata a questa manifestazione che non lascia a casa nessuno, la libertà non si cancella”. Tra i personaggi politici s’intravedono già dalla partenza il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, la leader radicale Emma Bonino e la segretaria della Cgil Susanna Camusso. C’è anche il vicesindaco di Roma Luca Bergamo. Spetta a quest’ultimo, coi tempi che corrono, spezzare una lancia in favore degli alleati leghisti. Sul rischio di un possibile arretramento dei diritti civili dopo le parole del ministro Fontana, il numero due del Campidoglio replica deciso: “Non mi pare”. E spetta ancora a lui difendere la grande assente: Virginia Raggi. “La sindaca – spiega – è fuori Roma, quindi in questo momento rappresento io il Campidoglio”. Poi si cimenta nel tentativo di raccogliere qualche applauso dalla folla del Pride: “Che esista ancora in Europa e nel nostro Paese una sacca di omofobia è un fatto e allora ci mettiamo la faccia per difendere i diritti. Questo è il luogo in cui si difendono i diritti e le istituzioni devono stare in tutti i luoghi dove si difendono i diritti”.
Sinistra e immigrati in piazza: "Lega e Salvini, siete assassini". Il corteo a Milano dopo la morte di Soumaila Sacko. Sui manifesti le minacce a Salvini: "La pacchia è finita ma per voi", scrive Sergio Rame, Sabato 9/06/2018, su "Il Giornale". Cartelli di odio. Slogan violentissimi. A Milano, dopo la morte di Soumaila Sacko, il migrante maliano ucciso in provincia di Vibo Valentia il 2 giugno scorso, sinistra e immigrati sono scesi in piazza contro il razzismo. I manifestanti hanno bruciato una bandiera del Carroccio e impugnato cartelloni con scritte violentissime. "Lega e Salvini assassini", si legge su un manifesto che accusa il ministro dell'Interno di essere dietro la morte dell'africano. E su un altro la minaccia: "Salvini, la pacchia è finita, ci vediamo a Pontida". Al corteo "Basta razzismo", partito da via Palestro e diretto in Stazione Centrale, hanno preso parte non più di un migliaio di persone. Decine le associazioni che hanno partecipato alla manifestazione, fra cui Libera, I Sentinelli, Naga, Coordinamento Arcobaleno, Usb, collettivi studenteschi e il centro sociale Cantiere. "Hanno ammazzato ancora, uno sparo contro un nero - si legge in un comunicato diffuso dagli organizzatori - vorrebbero che ci abituassimo a questo macabro tiro a segno che fa da sfondo alla retorica razzista e ci ricorda che non si tratta solo di parole ma di fatti che fanno male: di ingiustizie". E ancora: "Le ingiustizie che si attorcigliano assieme nella storia di Soumalia Sacko e nella storia della Piana di Gioia Tauro. Una terra i cui abitanti subiscono da tempo immemore l'infamia delle 'ndrine e la fatica di coltivare la terra come braccianti sfruttati. Una terra in cui il colore della pelle è diventato un elemento della gerarchia del lavoro e dove i braccianti africani hanno combattuto molte volte in questi anni contro il caporalato". La morte di Soumaila Sacko è stata subito strumentalizzata a scopi politici. Tra i manifestanti i collettivi hanno fatto girare volantini contro il governo Conte: "Basta morti per mano razzista. Solidarietà proletaria con i nostri fratelli di classe. Fermare la mano del governo fascio-razzista Salvini-Di Maio". È in particolar modo contro Matteo Salvini che se la sono presa la sinistra e i migranti che oggi pomeriggio hanno sfilato per il centro di Milano. "Salvini, la pacchia è finita ma per voi", si legge su un manifesto. E ancora: "Ucciso prima dalla mafia e poi dal vostro razzismo", "Nessuna persona è illegale" e "Lavoro, dignità è pari diritti". Infine, il più violento di tutti: "Lega e Salvini assassini". Quest'ultimo è il solito refrain della sinistra che addossa al Carroccio e al suo leader tutte le colpe per fomentare l'odio contro il governo.
Ecco il razzismo della sinistra: bruciata la bandiera della Lega. In piazza a Milano il corteo pro migranti: sfilano centri sociali e stranieri, cartelloni di minaccia contro Salvini: "La pacchia è finita, ci vediamo a Pontida", scrive Andrea Indini, Sabato 9/06/2018, su "Il Giornale". A Milano sfila il corteo dell'intolleranza. Altro che manifestazione contro il razzismo, la cavalcata della sinistra in piazza a Milano dopo la morte di Soumaila Sacko, il migrante maliano ucciso in provincia di Vibo Valentia il 2 giugno scorso, si trasforma in una crociata (razzista) contro Matteo Salvini e la Lega. Il sodalizio tra collettivi, associazioni rosse e immigrati ha mostrato il volto più cupo e violento della sinistra. Intonando minacciosi "Salvini, la pacchia è finita, ci vediamo a Pontida"(guarda il video), ha bruciato una bandiera del Carroccio inaugurando così una nuova stagione di odio. Niente di nuovo a Milano. Quando sfilano insieme collettivi e immigrati, l'obiettivo è sempre lo stesso. E se nel mentre l'obiettivo è anche diventato ministro degli Interni, ovvero l'uomo al governo che deve gestire l'emergenza sbarchi, i toni si fanno molto più violenti del solito. Salvini è abituato a non aver vita facile con i centri sociali. "La Lega ha sempre espresso le proprie idee democraticamente e sempre pacificamente - fa notare Roberto Calderoli - noi leghisti, invece, da tre decenni subiamo continue aggressioni dai democratici e pacifisti ragazzi dei centri sociali". In più di un'occasione gli antagonisti hanno, infatti, provato a mettergli il bavaglio attaccando i palchi dove il leader del Carroccio avrebbe dovuto tenere il proprio comizio. "Mi danno solo più forza", ha sempre risposto Salvini. Ma le minacce che oggi sono stati lanciati dalle vie del centro storico di Milano sono a dir poco inquietanti. I collettivi hanno fatto girare tra le mani dei manifestanti un volantino contro il governo Conte che recitava più o meno così: "Basta morti per mano razzista. Solidarietà proletaria con i nostri fratelli di classe. Fermare la mano del governo fascio-razzista Salvini-Di Maio". In mezzo al corteo di oggi era quello di Salvini il nome più pronunciato dai manifestanti (guarda la gallery). Un immigrato africano, sventolando un quotidiano in faccia a un fotografo, puntava il dito indice contro il volto del leader leghista immortalato in prima pagina. Come a dire che l'obiettivo ora è lui. "Salvini, la pacchia è finita, ci vediamo a Pontida", si leggeva invece sullo striscione portato in piazza dai centri sociali. Un altro ancora, invece, inveiva: "Lega e Salvini assassini". "Per i cretini senza idee - ribatte Paolo Grimoldi - l'unica via per avere risalto sono gli insulti e le violenze". Al termine del corteo non rimane altro se non la bandiera della Lega fatta a brandelli. È l'immagine dell'odio rosso che adesso ha individuato il suo nuovo nemico da contrastare con ogni mezzo. "E io gli rispondo con un bacione - scrive Salvini su Facebook - siate sereni, siate tranquilli, abbiate una vita, non state tutto il giorno a rosicare a pensare alla Lega, a Salvini xenofobo, razzista, fascista. Giudicheranno gli italiani dai fatti".
Stranieri e sinistra in corteo contro Salvini Centri Sociali e immigrati uniti per gridare il loro odio, scrive il 10 giugno 2018 "Milanopost.info". C’è un odio inesauribile, un odio che prende energia da se stesso, nella sinistra. Da sempre. Un odio viscerale che vuole annientare, distruggere chi ritiene indegno della sua logica, del suo sentire. E’ sufficiente individuare il nemico, poi vomitargli addosso insulti e maledizioni, sempre nella convinzione di possedere la verità. E le motivazioni sfruttano un buonismo peloso che le nobilita, le rende accettabili senza se e senza ma. E’ così che si alimentano soprattutto i Centri sociali, ieri contro i neofascisti oggi contro i razzisti lombardi di Salvini. E la violenza del dire celermente può diventare violenza del fare. L’abbiamo già visto e sperimentato. Racconta la cronaca di Repubblica “Sono partiti in un migliaio alle 16 da via Palestro, diretti verso la stazione Centrale i manifestanti antirazzisti chiamati in piazza da una rete di associazioni e sindacati a ricordare Soumaila Sacko, il maliano di 29 anni ucciso il 2 giugno in provincia di Vibo Valentia. Sugli striscioni di apertura tenuti dai migranti dei vari centri d’accoglienza milanesi, si legge: “Ucciso prima dalla mafia e poi dal vostro razzismo”. Numerosi gli striscioni e i cartelli contro il razzismo e a favore dei diritti degli immigrati” Nessuno vuole negare i diritti delle persone, siano straniere, extracomunitarie o italiane, ma proprio per questo l’accoglienza dovrebbe essere praticata salvaguardando la dignità dei singoli, commisurando ciò che si può fare, nei numeri compatibili con gli altrettanti diritti dei nostri cittadini. Si chiama accoglienza lasciarli dormire in strada, ammassarli come animali nei centri? Sackò non è morto per un atto razzista, ma di delinquenza comune. I centri sociali ritengono di farne una vittima del razzismo? Ritengono che gli emarginati, gli ultimi, le vittime di ingiustizia sociale abbiano sempre la pelle nera? Una visione molto riduttiva e ideologica. L’altro, l’italiano, diventa il diverso, il privilegiato da combattere anche se vive di povertà, si adegua a lavori pochissimo retribuiti, ha la figlia stuprata da qualcuno venuto da lontano che se ne frega delle regole di buona convivenza. “Non smetteremo mai di lottare affinché non accada mai più e per sconfiggere il razzismo lo sfruttamento, la mafia e tutte le ingiustizie che sempre sono intrecciate tra loro. Non possiamo rimanere indifferenti.” Spiega una ragazza. E i migranti bruciano una bandiera della Lega, fomentano l’odio, gridano “Assassini! Assassini!”, minacciano Salvini “Salvini, la pacchia è finita, ci vediamo a Pontida”. E’ questo il razzismo di sinistra che trova sempre nuovi spazi, affianca una polveriera pronta ad esplodere. E in una logica elementare giustifica i soprusi e la violenza degli immigrati. “La Lega ha sempre espresso le proprie idee democraticamente e sempre pacificamente – fa notare Roberto Calderoli – noi leghisti, invece, da tre decenni subiamo continue aggressioni dai democratici e pacifisti ragazzi dei centri sociali”.
Boldrini ora attacca Fico: "Stai con gli xenofobi?". Laura Boldrini mette nuovamente nel mirino il governo. Dopo le polemiche per l'emergenza immigrazione critica Fico per colpire l'esecutivo, scrive Luca Romano, Sabato 9/06/2018, su "Il Giornale". Laura Boldrini mette nuovamente nel mirino il governo. Dopo le polemiche per l'emergenza immigrazione e il ruolo delle Ong, l'ex presidente della Camera si schiera dalla parte del presidente della Camera, Roberto Fico ma lo accusa: "Chi fa solidarietà ha tutto il supporto dello Stato". Condivido le parole di Roberto Fico sulle Ong. Solo una domanda: capisco che sei stato eletto coi loro voti, ma che ci fai insieme a Salvini e agli xenofobi della vostra coalizione? #AddioCoerenza". Poi sposta il mirino e cambiando campo attacca il nuovo esecutivo parlando del Roma Pride: "Oggi assume un significato speciale visto che sui diritti civili questo governo sta manifestando tutto il suo carattere oscurantista e retrogrado. Un saluto a tutte e a tutti quelli che stanno manifestando per le strade di Roma". Insomma l'ex presidente della Camera martella sui social il governo. Ma soprattutto sul fronte dell'immigrazione deve incassare il colpo da Salvini che affrontando le emergenze di questi giorni ha affermato: "Da soli sette giorni al governo, sto lavorando per recuperare quasi sette anni di ritardi e di buonismo: il nostro obiettivo è ridurre gli sbarchi e aumentare le espulsioni, tagliare i costi per il mantenimento dei presunti profughi e i tempi della loro permanenza in Italia, coinvolgendo istituzioni europee e internazionali che fino a oggi hanno lasciato gli italiani da soli. Sapremo farci ascoltare". Un messaggio chiaro anche per la Boldrini.
Il razzismo degli antirazzisti, scrive il 30 Maggio 2013 Johm Reds su "Libero Quotidiano". Gradirei commenti dai lettori a questa mia opinione. Il razzismo degli antirazzisti. Una volta si chiamava schiavismo. Abolito lo schiavismo, parecchi non accettarono mai che i neri avessero gli stessi diritti dei bianchi. Nacque così il razzismo. Cosa voleva dire a quei tempi razzismo? Voleva dire disprezzare, considerare inferiore e non accettare come proprio simile un essere umano di pelle non bianca. L’Italia è sempre stato un paese poco o per niente razzista. In passato si è dato del razzista ai lombardi che chiamavano terrone l’uomo del sud. Posso dire, da milanese, che il termine terrone è sempre stato in fondo un termine scherzoso; come dare a noi lombardi del polentone o del magnagatti ai vicentini ecc. Ci si rideva sopra e tutto finiva li. Il razzismo ha cominciato però a prendere piede in Italia con l’arrivo dei clandestini dall’Africa. Non avendo i politici (e te pareva) compreso le possibili dimensioni del fenomeno, non fecero nulla di razionale per limitarlo e controllarlo e quel poco che fecero, furono leggi talmente fumose, tortuose o complicate da risultare inutili. L’arrivo incontrollato di milioni di extracomunitari, molti dei quali senza mezzi di sostentamento, causò nella cittadinanza, come era prevedibile, un sensibile senso di rigetto specialmente a causa dell’aumentata delinquenza. Non per niente il 40% dei carcerati è costituito da extracomunitari. Il termine ha assunto successivamente una dimensione più ampia includendo, non solo chi ha il colore diverso della pelle, ma zingari, tutti gli extracomunitari in generale e tutto quello che può essere considerato fuori cosiddetta dalla normalità. Si crearono così in Italia solide basi per un sentimento razzista e di conseguenza uno antirazzista. Però mentre il primo è in parte giustificato, (delinquenza, insicurezza nelle città, costi sociali enormi in termini di sanità, scuola, assistenza pensionistica, salvataggi in alto mare, accoglienza ecc. tanto che si valuta attorno ai 50 miliardi di euro questo costo), il secondo cioè l’antirazzista, si basa su l’ipocrito concetto del siamo tutti uguali cioè su una assurdità genetica. Le persone appartenenti a varie razze non sono uguali altrimenti non ci sarebbero le diversità di razza. La diversità di razza non vuol dire razzismo ma rilevare una pura verità della natura. Ho girato in gioventù l’Europa. Ho visto turchi in Germania, arabi in Francia, indiani e molte altre razze in Inghilterra e tutti questi erano integrati, lavoravano, avevano famiglia per cui non ho mai rilevato un vero sentimento razzista dimensionalmente ampio come gli antirazzisti vogliono far credere. Ora, se io veramente considerassi tutte le persone uguali, indipendentemente dalla razza, non avrei bisogno di proclamarlo ai quattro venti o di fare dimostrazioni perché non devo palesare niente a nessuno. Nel momento stesso che manifesto per condannare il razzismo, considero quelli di razza diversa dei non uguali. Di conseguenza il convinto antirazzista è in fondo il vero razzista cioè uno che è ben cosciente che quello che difende non è un uguale ma ha bisogno del suo supporto perchè gli venga riconosciuta la sua eguaglianza. Solo gli antirazzisti e perciò i veri razzisti questo non lo capiscano, arrivando addirittura a giustificare un nero, perciò un diverso, perciò un discriminato dalla società, che accoppa a picconate tre persone innocenti. Ugo Ojetti (1871-1946), scrittore, letterato, commediografo nonché Direttore del Corriere della Sera scriveva: “molte anime nobili si danno da fare per il prossimo quando lo ritengono miserabile, discriminato, ammalato, bisognoso; insomma quando sono sicure della propria superiorità. Di una attualità strabiliante. Johm Reds
Tony Iwobi e il razzismo degli antirazzisti. Le accuse e gli attacchi rivolti nei confronti di Tony Iwobi svelano il vero volto degli autoproclamati antirazzisti, ipocriti quanto l'ideologia che sostengono, scrive Emanuel Pietrobon il 9 marzo 2018 su "L’Intellettuale dissidente" (o Giovanni Luigi Girotto su Linkedin?). Un giovane nigeriano proveniente da una famiglia modesta giugne in Italia nel 1976 con un permesso di soggiorno per motivi di studio. È uno dei primi immigrati provenienti dall’Africa nera a giungere nel Bel paese, all’epoca sull’orlo di una guerra civile, dilaniato da attentati, violenze e manifestazioni squadriste da parte dell’estrema destra e dell’estrema sinistra. Testardaggine, volontà di emancipazione e di riscatto sociale e tanta ambizione, questi i moventi che spingono il giovane Tony Chike Iwobi a svolgere qualsiasi lavoro, muratore, stalliere e idraulico, pur avendo in mano una laurea in Scienze informatiche conseguita negli Stati Uniti. Si trasferisce nel profondo settentrione, nella provincia di Bergamo, dove viene assunto dall’Amsa in qualità di operatore ecologico, ma pochi mesi dopo viene promosso agli uffici divenendo impiegato. Cambia tanti lavori, non più umili, ricoprendo mansioni di responsabilità presso aziende italiane e svizzere, continuando allo stesso tempo ad arricchire il suo profilo lavorativo con corsi di specializzazione seguiti in Italia e all’estero.
Tony Chike Iwobi. Nel 1993 si iscrive alla Lega Nord, all’epoca movimento politico a carattere regionale mirante alla secessione delle regioni settentrionali dal resto d’Italia e ad una rivoluzione fiscale basata sul federalismo. Come nel mondo del lavoro, ugualmente Iwobi colpisce e fa carriera anche nella politica, soprattutto quando il partito inizia a perdere i suoi caratteri originari per tentare di diventare una forza nazionale facendo leva sull’euroscettiscismo, sulla minaccia dell’immigrazione incontrollata e sulla difesa dei valori e dell’identità cristiana del Vecchio Continente dal relativismo culturale del liberalismo e dall’estremismo islamico. Il colore della pelle di Iwobi non è mai stato un problema per quello che viene descritto come il principale partito xenofobo del paese, sia in Italia che all’estero, ma anzi viene visto come un elemento di forza: Iwobi raffigura lo straniero che ce l’ha fatta, partendo dal nulla e aiutato solo dalle sue capacità, che si è integrato e ha accolto positivamente valori, costumi e tradizioni del paese in cui ha scelto di vivere, l’immagine perfetta per un partito che viene periodicamente accusato di propagandare idee razziste ed alimentare tensione sociale tra le comunità etniche e religiose presenti nella nazione.
Dal 1993 al 2014 è ininterrottamente consigliere comunale a Spirano, una piccola città del Bergamasco, un decennio nel quale le sue posizioni politiche, specialmente sull’immigrazione, raccolgono l’attenzione dei leader del partito e nel 2014 viene designato responsabile federale del Dipartimento Immigrazione e Sicurezza della Lega Nord su iniziativa di Matteo Salvini. C’è Iwobi dietro alcuni slogan di successo utilizzati dal partito, diventati dei veri e propri tormentoni elettorali, come “Aiutamoli a casa loro!” e “Stop invasione!” e al programma riguardante la regolamentazione dell’immigrazione dai paesi extraeuropei, basato sull’applicazione di misure per la selezione e la scrematura delle richieste di permessi umanitari e di soggiorno, sul rimpatrio di tutti quegli immigrati clandestini sbarcati in Italia negli ultimi anni le cui domande d’asilo sono state rifiutate, sulla chiusura dell’accesso ai migranti economici.
L’elezione di Iwobi a senatore della Repubblica italiana – il primo di colore in assoluto – alle recenti elezioni ha scatenato l’ira e l’ironia sui social network, tra i politici e tra il panorama dei vari antirazzisti riciclatisi pseudo-intellettuali dell’ultima ora per deridere la sua candidatura con la Lega Nord. Il clamore suscitato dall’evento ha persino attirato l’attenzione di importanti media globali, come The Guardian, El País, Independent e Times, che ne hanno tratteggiato una breve biografia e raccontato le motivazioni della sua affiliazione ad un partito anti-immigrazione. Addirittura il calciatore Mario Balotelli ha provocatoriamente chiesto, via Instagram, a Iwobi se si fosse accorto d’essere nero; l’ex ministro dell’integrazione Cécile Kyenge ha dichiarato, invece, che l’evento non intacca minimamente la natura razzista della Lega, mentre su Facebook impazzano immagini satiriche che comparano l’accoppiata Iwobi-Salvini alla DiCaprio-Jackson del film Django Unchained. Un negro di casa come Stephen, lo schiavo domestico della tenuta di Calvin Candie, così la superiore satira liberal ai tempi di Facebook ha dipinto Iwobi, ossia un fratello che – ripercorrendo il pensiero di Malcolm X – si è svenduto ai bianchi, di cui appoggia lotte e rivendicazioni nella convinzione che ciò lo aiuterà ad essere accettato nella società bianca. È proprio in questi momenti che emerge il vero volto delle nuove sinistre occidentali, affiorate nel dopo-guerra fredda come le più importanti manifestazioni politiche della nuova élite borghese globalista; sinistre che hanno vergognosamente abbandonato ogni riferimento al proletariato e alla difesa della classe operaia. Da anni la propaganda di una certa sinistra martella l’opinione pubblica sulla necessità di una politica fortemente immigrazionista, tuonando slogan come “Faranno i lavori che gli italiani non vogliono più fare!” o “Ci pagheranno le pensioni!”. Flussi migratori costanti e continui nel tempo come un rimedio alla denatalità e alla carenza di manodopera dequalificata a basso costo, anziché politiche incentrate sull’aiuto alle famiglie e su una reale alternanza scuola-lavoro, questo propone la sinistra, accusando poi di razzismo chiunque ritenga che l’afflusso di milioni di persone provenienti da contesti culturali profondamente differenti – senza un adeguato meccanismo di integrazione nella società e nel mondo del lavoro, possa alimentare tensioni sociali, il mercato del lavoro nero e la criminalità. L’assenza di un modello d’integrazione o, meglio, l’assenza di una reale volontà di integrare gli immigrati, ha portato alla proliferazione di ghetti etnici, di no-go zones, all’esplosione della microcriminalità e a sempre più frequenti rivolte razziali. Scenari di disordine ed anarchia che da decenni irrompono nella quotidianità di Francia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania e Svezia, mai apparsi in Italia, ma a cui il paese dovrebbe iniziare ad abituarsi a meno di un cambio di rotta nel modo di pensare l’integrazione e la convivenza tra etnie e culture. La risposta dei partiti e dei centri sociali di sinistra all’omicidio di Pamela Mastropietro ad opera di un gruppo di nigeriani legati al sottobosco malavitoso di Macerata è stata un corteo antifascista ed antirazzista nel quale i manifestanti hanno lanciato invettive contro i partiti di destra, l’intolleranza e le forze dell’ordine. Un episodio che dovrebbe far riflettere sulla totale alienazione della sinistra dalla realtà e che spiega l’emorragia di voti dal Partito Democratico a partiti anti-sistema come Lega Nord e Movimento 5 Stelle. Iwobi è solo uno dei tanti nuovi italiani che ha preso atto dell’insensatezza delle politiche open borders e refugees welcome sostenute dalle nuove sinistre occidentali, che hanno soltanto esacerbato un clima già teso a causa della decennale crisi economica e delle tensioni inter-etniche causate dal fallimento dei progetti multiculturalisti in salsa anglosassone e scandinava.
Confindustria, Tito Boeri, Emma Bonino, Laura Boldrini, Paolo Gentiloni, Alessandro Cecchi Paone, Roberto Saviano, tanti coloro che hanno pubblicamente dichiarato di vedere l’immigrazione come una soluzione ai problemi demografici e lavorativi del paese. Nell’immaginario della sinistra l’immigrato ideale dovrebbe costruire famiglie numerose per ripopolare l’Italia (in pratica una sostituzione etnica, ma guai a dirlo) e fare lavori umili, precari e sottopagati come raccogliere pomodori nelle piantagioni del Sud Italia – citando la Bonino, e ovviamente essere ideologicamente allineato a sinistra. Alla luce di queste cose è facile comprendere perché contro Iwobi sia stata lanciata una campagna denigratoria, oltre che razzista: lo straniero che si integra e non si accontenta dei lavori che gli italiani non vogliono più fare, ma che attraverso le sue capacità si eleva socialmente e vede nell’accoglienza indiscriminata un male per tutti quegli stranieri onesti che a fatica hanno ottenuto dei meriti, è scomodo, non è stato manipolato dal miraggio dell’antirazzismo, quindi è un suffragio perduto. La comunità senegalese è scesa in piazza a Firenze per protestare contro l’omicidio di un connazionale ad opera di un folle. Il gesto è stato strumentalizzato dalla sinistra e ritenuto un atto razzista. No, Iwobi non è un negro di casa, e neanche di cortile, è molto più italiano e fiero di esserlo di tutti quelli che si stanno divertendo a denigrarlo, a ritenerlo un burattino dell’uomo bianco ed un venduto, e il suo “Aiutamoli a casa loro!” non è un’offesa, ma quello che l’Occidente dovrebbe finalmente iniziare a fare dopo anni di politiche neo colonialiste ed imperialistiche nel Sud globale che hanno portato al saccheggio di risorse naturali, al sostegno verso sanguinose dittature militari e a guerre per procura volte all’accaparramento di metalli rari e preziosi che sono alla base dell’odierna crisi migratoria.
Sacko: lettera aperta al Dubbio (rivolta anche a Giuliano Ferrara), scrive Dino Cofrancesco il 6 giugno 2018 su "Il Dubbio". Ormai termini come “populismo” e “sovranismo”, come già fascismo, stanno diventando gli spaventapasseri su cui riversare tutto il marcio che ci circonda. Caro Direttore, ho letto con commossa, profonda, adesione il tuo editoriale “Hanno fucilato un negro in Calabria? Beh, che vuoi: sono cose che succedono”. Qualche perplessità solo sull’insistita ironia sulla frase di Matteo Salvini «è finita la pacchia». Il leader leghista non mi è congeniale, non ho mai votato per lui né prevedo di farlo in futuro, ma credo che la pacchia si riferisse agli scafisti e alle organizzazioni che hanno fatto dell’immigrazione un business. Comunque non è questo il punto e non voglio certo fare il difensore d’ufficio (non ne ha bisogno) del ministro dell’Interno, azzannato ormai da tutti i giornali – dell’establishment e non. Vorrei invece richiamare la tua attenzione su un fatto tanto preoccupante quanto indecente ovvero sul buonismo gratuito e irresponsabile diffuso nel nostro paese – e sicuramente più a sinistra che a destra, più tra i cattolici che tra i vecchi e sopravvissuti laici non laicisti. Siamo il paese dell’accoglienza generosa e disinteressata, della mensa del convento aperta a tutti ma poiché il liberalismo è una pianta che da noi non ha mai allignato ci guardiamo bene dal porci la domanda, fondamentale per un amico della “società aperta”: «chi paga?» (Ricordi il saggio di Milton Friedman, Nessun pasto è gratis?). Da una parte, le dottrine sociali della Chiesa – per definizione diffidenti verso ogni comunità chiusa come, indubbiamente è, e non può non essere, lo – Stato nazionale – dall’altra, il diritto cosmopolitico dei maîtres- à-penser alla Luigi Ferrajoli, hanno diffuso un’etica pubblica che demonizza ogni diritto a tutelare il proprio spazio geografico e culturale, a “chiudere le porte” agli altri. Naturalmente fanno eccezione le porte della nostra abitazione: siamo tutti fratelli ma nella casa comune dello Stato, dove a “pagare” non siamo noi ma la “collettività”; a casa nostra entriamo solo noi. Ai poveri diseredati del continente nero, diciamo, “crescete e moltiplicatevi” e se volete venire da noi, le “ragioni umanitarie” non ci consentiranno di ricacciarvi indietro. Posto ce n’è sempre per tutti: le porcilaie sono ampie e spaziose e tra i rifiuti dell’ “uomo bianco” si trova sempre di che sfamarsi. (Quante volte, sotto casa, non ho visto extracomunitari rovistare nella spazzatura…). Leggerezza, superficialità irresponsabilità sembrano essere divenute le nuove qualità degli Italiani, sempre pronti a indignarsi contro i paesi che regolano i flussi migratori (che fascisti gli Stati Uniti quando limitavano quello proveniente dall’Europa orientale e dall’Italia!) dimenticando che, nel racconto biblico, il buon samaritano soccorreva il derelitto, curandogli le ferite, rifocillandolo, affidandolo a una casa amica. A noi, per metterci il cuore in pace, basta soltanto non impedire lo sbarco. L’inferno che poi accoglierà le migliaia di profughi che fuggono guerre e fame di loro non ci riguarda. In un bellissimo articolo sul Foglio, “Il martire Spoumayla Sacko e noi che, dal nostro tinello, ci prendiamo la colpa e lasciamo a quelli come lui la punizione” Giuliano Ferrara ha parlato giustamente di martirio – un termine spesso abusato ma questa volta più che pertinente. Condivido il lutto per l’episodio e vado oltre: perché in un paese in cui i monumenti ai politici rientrano nella logica del pirandelliano “Vestire gli ignudi”, non si eleva un monumento a Soumaya Sacko come a Jerry Massolo – il sindacalista nero ucciso nel 1989 a Villa Literno e che solo tu hai ricordato? Ferrara, però, chiude il suo articolo con la sua martellante polemica contro le «posizioni populiste di destra e di sinistra» che attribuiscono la tragedia calabrese «all’establishment, al sistema, alle elite». E qui non seguo più né il suo sarcasmo, né il tuo silenzio. E chi dovremmo incolpare della morte di Sacko se non gli apparati pubblici e i governi di oggi, di ieri e dell’altro ieri? Quando mai hanno inviato ispettori del lavoro, forze dell’ordine, funzionari Asl nei recinti calabresi, siciliani, campani dei nuovi schiavi? Cosa hanno fatto per portare davanti ai tribunali i caporali e i loro datori di lavoro? Retate di polizia e processi e condanne esemplari hanno riempito le cronache nere dei quotidiani? Quando su certi giornali si descrivono le condizioni disumane (un eufemismo!) in cui vivono migliaia di africani, c’è sempre il sottinteso: «guardate a cosa portano la logica del profitto, il mercatismo, l’auri sacra fames?» Ci manca poco se i mali del presente non vengono riportati alla Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith e a quel capitalismo selvaggio al quale l’Occidente avrebbe venduto la sua anima. Ai buonisti antimercatisti bisognerebbe consigliare la lettura di una straordinaria pagina delle Lezioni di politica sociale [ 1949] di Luigi Einaudi: «coloro i quali vanno alla fiera, sanno che questa non potrebbe aver luogo se, oltre ai banchi dei venditori i quali vantano a gran voce la bontà della loro merce, ed oltre la folla dei compratori che ammira la bella voce, ma prima vuole prendere in mano le scarpe per vedere se sono di cuoio o di cartone, non ci fosse qualcos’altro: il cappello a due punte della coppia dei carabinieri che si vede passare sulla piazza, la divisa della guardia municipale che fa tacere due che si sono presi a male parole, il palazzo del municipio, col segretario ed il sindaco, la pretura e la conciliatura, il notaio che redige i contratti, l’avvocato a cui si ricorre quando si crede di essere a torto imbrogliati in un contratto, il parroco, il quale ricorda i doveri del buon cristiano, doveri che non bisogna dimenticare nemmeno sulla fiera. E ci sono le piazze e le strade, le une dure e le altre fangose che conducono dai casolari della campagna al centro, ci sono le scuole dove i ragazzi vanno a studiare. E tante altre cose ci sono, che, se non ci fossero, anche quella fiera non si potrebbe tenere o sarebbe tutta diversa da quel che effettivamente è». Nel meridione d’Italia non ci sono né carabinieri, né guardie municipali, né pretori ovvero ci sono ma le loro mani sono legate da camorra, mafia, ndrangheta. E questa «assenza della legge e dell’ordine» a chi si deve se non «all’establishment, al sistema, alle elite» che, assieme ai sindacati – operai e padronali – hanno sgovernato e massacrato il bel paese? Ormai termini come “populismo” e “sovranismo”, come già fascismo, stanno diventando gli spaventapasseri su cui riversare tutto il marcio che ci circonda. È lo stile ideologico italiano che non riusciremo mai a scrollarci di dosso: invece di chiederci se quanti avversiamo e certo non a torto— dai fascisti di ieri ai populisti di oggi– non abbiano, per caso, qualche buona ragione da far valere, preferiamo criminalizzarli, nel peggiore dei casi, ridicolizzarli, nel migliore, ma sempre relegandoli nella matta bestalitade da cui doverci guardare per non esserne contaminati.
«Sei razzista, non ti servo»: la gelataia gela Salvini…È successo in un negozio di Milano. Polemica sui social, scrive Giulia Merlo il 23 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Di certe si sono solo la dinamica del fatto e la conseguenza pratica. Succede il 20 marzo, un nuvoloso mercoledì milanese, che il leader della Lega Matteo Salvini vada in una gelateria di Piazza Siena con il figlio. Dall’altra parte del bancone c’è Jessica, una ragazza che lavora lì da 10 giorni, e all’ordinazione di un cono risponde che no, lei i razzisti non li serve. Subentra un collega che lavora con lei, prepara il gelato e lo consegna al segretario del Carroccio, che paga e se ne va. L’intemperanza, però, arriva alle orecchie della titolare, che decide per una bella lavata di capo alla giovane, assunta in prova attraverso un’agenzia interinale. Sui toni della conversazione le versioni divergono, ma l’epilogo è lo stesso: Jessica non lavora più alla gelateria. Atto di resistenza politica o scortesia nei confronti di un cliente, la notizia è troppo ghiotta per rimanere confinata dietro il banco frigo. Su Facebook, la madre indignata di Jessica scrive un post di fuoco (poi cancellato) non contro la gelateria, ma contro Salvini: «Signor Matteo Salvini, sono la mamma della ragazza che serviva al banco della gelateria. Desidero informarla che a seguito della telefonata che lei ha fatto alla titolare del negozio in quanto non soddisfatto del servizio da parte di mia figlia, mia figlia ha perso il lavoro». Firmato, Cristina Villani. Ironia della politica, un’ex assessora del comune di Corsico, nell’hinterland milanese, in quota Forza Italia. Il tribunale social si mette in moto e all’accusa rispondono indignati i salviniani che accusano la ragazza di poca dedizione al lavoro, apostrofati poi dagli strenui sostenitori di chi è pronto a perdere il posto per le proprie convinzioni politiche. Il tam tam è tale che ci si mette poco a individuare il nome della gelateria, così il dibattito si sposta sulla pagina Facebook di “Baci sottozero”, subissata di recensioni negative, commenti di accusa e promesse di boicottaggio (con il placet implicito del meteo, con la colonnina al mercurio fissa saldamente a una cifra). A quel punto, arriva la controversione della proprietaria: macchè telefonata di Salvini, in gelateria non ha telefonato proprio nessuno. Il fatto è stato riportato dai colleghi di turno di Jessica, e la direzione ha ripreso la ragazza «come giusto che sia». Durante la discussione, però, la giovane in estremo atto di difesa delle proprie idee si è tolta la divisa e se n’è andata sbattendo la porta, «esclamando cose che poco hanno a che vedere con il nostro lavoro». Nessuna telefonata galeotta, dunque: la madre indignata viene smentita non solo dalla gelateria ma anche dal diretto interessato, lo stesso Salvini. Poi, puntualizza “Baci sottozzero” per amor di precisione, la signorina non è stata «licenziata», ma si è licenziata da sola, «abbandonando il posto di lavoro a metà turno». La spiegazione resa su Facebook, però, non soddisfa la pubblica accusa social, che se la prende a turno coi colleghi spioni e «sbirri»; con gli stessi colleghi costretti a “vendere” al padrone l’anello debole della catena lavorativa a pena di licenziamento anche per loro; con le assunzioni tramite agenzia di lavoro interinale; con la gelateria che è razzista come il suo famoso cliente; con Salvini che ordina i licenziamenti. Alcuni, complottisti, notano con sospetto che la gelateria è decisamente «troppo» preoccupata a dare spiegazioni, quindi sotto dev’esserci per forza qualcosa. Nella massa di commenti, qualcuno ricorda che la campagna elettorale è finita, altri tranquillizzano “Baci sottozero”, «tanto, visto l’esito del voto, avrete la gelateria piena di leghisti». Unica silente parte in causa, per ora, è l’ex gelataia in erba con antipatie leghiste. Intanto, dopo qualche ora di euforia da tribuna popolare, anche Facebook è tornato alla normalità e i commenti sulla pagina Facebook di “Baci sottozero” hanno ricominciato a riguardare la vellutata al mascarpone.
Gelataia vs Salvini: “Non gli ho parlato, né gli ho dato del razzista. Ho chiesto a collega di sostituirmi”, scrive Gisella Ruccia il 23 marzo 2018 su "Il Fatto Quotidiano". “Sto leggendo che io avrei dato del razzista a Salvini. Io non gli ho proprio parlato, perché stavo servendo altre persone. Sono andata nel retro del bar e ho chiesto a una mia collega di sostituirmi”. Inizia così a La Zanzara (Radio24) il racconto di Nadia, la gelataia che non ha voluto servire il leader della Lega, Matteo Salvini, nella gelateria milanese Baci Sottozero. “La mia collega è andata a servire Salvini” – continua – “e io ho continuato con gli altri clienti. La titolare della gelateria cinque minuti dopo mi ha richiamato nel retro della gelateria e mi ha detto di aver ricevuto una bruttissima telefonata di Salvini. E ha aggiunto: “Chiunque entri qui, che sia Mussolini o Salvini o un nero, va servito. Salvini sarà il prossimo premier incaricato, non sai che danno ci hai fatto”. Io non ho proprio parlato con Salvini, non ho proprio aperto bocca. Non sono una persona stupida a tal punto da mettermi in queste situazioni, passando anche per maleducata. Non volevo servirlo assolutamente, perché, secondo me, semina odio tra gli italiani, l’ho sempre pensato. Non lo considero un razzista, ma una persona che semina odio. Del resto, è una cosa nota”. Nadia precisa: “Salvini ha smentito la telefonata alla titolare, ma lei mi ha detto che c’è stata. Non mi ha licenziata, me ne sono andata io, però lei mi ha dato tutti i presupposti per interrompere i nostri rapporti di lavoro. Mi ha inveito contro, io ho cercato di replicare, ma lei mi ha risposto: “Stai zitta, non mi interessa niente di quello che hai da dire”. Io ammetto di aver sbagliato e non lo nego. Però ho chiesto subito alla mia collega di servire Salvini. Lui, cioè, non ha aspettato”. La giovane, che aveva un contratto di lavoro di 3 mesi, di cui uno di prova, prosegue: “La titolare mi ha urlato in faccia e detto determinate cose. Cosa avrei dovuto fare? Abbassare la testa davanti a lei, dopo che mi dice di stare zitta? Stanno scrivendo che non me ne frega niente del posto di lavoro, perché ho la paghetta. Non è assolutamente vero, lavoro da quando ho 17 anni. Se fossi stata sola in quella gelateria, avrei sicuramente servito Salvini senza storcere il naso”.
Vauro, la vergogna comunista contro Matteo Salvini: "La gelataia che non l'ha servito è un esempio", scrive il 23 Marzo 2018 "Libero Quotidiano". Per un comunista come Vauro Senesi vale tutto, pur di fermare Matteo Salvini. Anche "affamarlo", togliergli il gelato dalla bocca. Intervistato da ECG, il programma condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio su Radio Cusano Campus, l'emittente dell'Università degli Studi Niccolò Cusano, il vignettista del Fatto quotidiano ammette di aver votato Potere al popolo ("Chi dice che il Movimento 5 Stelle è la nuova sinistra dice un'enorme cazzata") e interviene a modo suo sul caso della ragazza che è stata licenziata da una gelateria per essersi rifiutata di servire il leader della Lega: "Meravigliosa, voglio l'indirizzo del bar, vado a comprare un camioncino di gelati da lei. Mi fa venire in mente dei ricordi, di quando in questo Paese la società civile era capace di reazioni e di riscatto. Mi ricordo di quando Almirante andò a prendere un caffè in un autogrill e tutto il personale si bloccò, entrò in sciopero istantaneamente e Almirante se andò senza il caffè. Spero se ne vada anche Salvini. Senza gelato e senza il Governo. Questa ragazza dovrebbe essere un esempio. Un esempio di vera democrazia, perché in democrazia non è che vale ogni opinione, ci sono posizioni che una democrazia che si rispetti ripudia. Questa barista nel suo gesto è l'esempio di una sinistra che non c'è più a livello di rappresentanza parlamentare e istituzionale, ma che esiste nella società. È una sinistra sola, disorientata, ma ancora viva, capace di reagire". Per fortuna (e per sfortuna di Vauro) la maggioranza degli italiani sta dalla parte del gelataio.
Quel giorno al Cantagallo, Almirante rimase a digiuno. Il 21 giugno 1973 i camerieri contestarono il leader del Msi, scrive Paolo Delgado il 23 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Con i razzisti non si beve e tanto meno li si serve. Era già successo, nella note dei tempi. Il 21 giugno 1973 quando il leader neofascista Giorgio Almirante si fermò con moglie e scorta sul Mottagrill di Cantagallo a un passo da Bologna. Riconosciuto quello che all’epoca era uso comune definire il fucilatore, in memoria dei tempi non lontani di Salò, i camerieri improvvisarono uno sciopero totale finché Almirante, pur strepitando, non si decise ad alzare i tacchi. L’episodio fu eloquente. L’anno prima, alle elezioni politiche, il Msi aveva preso una barca di voti, raddoppiando le percentuali. La reazione era stata profonda, vasta e sentita. Quel voto era stato avvertito come una minaccia non solo dai già numerosi militanti della sinistra in ogni sfumatura di rosso ma anche dalla stragrande maggioranza degli italiani. Magari non volevano la rivoluzione proletaria. Magari al momento del voto si turavano il naso, come da consiglio di don Indro, e votavano Dc pur di fermare i rossi. Ma di fascismo non volevano sentir parlare comunque. Il “Canzoniere delle lame”, glorioso gruppo bolognese nato nel quartire delle Lame, per l’appunto, da quell’episodio fece nascere anche una canzone: «Era giugno e faceva un gran caldo Almirante affamato sbuffava / a Bologna di mangiare sperava / E al suo autista ordinò di frenar». E poi: «Essi aspettan di essere serviti / Oggi in bianco dovranno restar / Basta un cenno e tutti i compagni / Dal self service ai distributori / Per i fascisti e i fucilatori / Gli gridavan qui posto non c’è». Non è la stessa cosa. I tempi sono cambiati. La campagna elettorale appena trascorsa è stata una ripetizione grottesca di quella del 1972, costellata come fu da manifestazioni antifasciste e scontri. Il gelato mancato di Salvini è un remake mesto della protesta dei camerieri di quel celebre autogrill. Quelli avevano alle spalle un’egemonia culturale e un movimento di massa. Non torse loro un capello nessuno La cameriera appassionata, invece, è stata licenziata sui due piedi.
La procura intima al vescovo: stai alla larga da quel dottore! Scrive Piero Sansonetti il 21 Marzo 2018 su "Il Dubbio". L’interdittiva morale dei magistrati colpisce un vescovo molto importante e un medico incensurato. Un vescovo molto autorevole, il vescovo di Campobasso, personaggio notissimo in Calabria e soprattutto nella Locride, dove è stato molti anni, un bel giorno, la scorsa estate, si è visto recapitare da un ufficio Vaticano una specie di intimazione che più o meno diceva così: Lei, monsignore, non deve più frequentare certi personaggi calabresi che risultano schedati. L’arcivescovo in questione si chiama Gian Carlo Bregantini, e in Calabria tutti lo ricordano per il suo grande impegno, non solo teologico e liturgico, ma anche sociale e intellettuale. L’Ufficio Vaticano che ha inviato l’avviso non sappiamo qual è, ma non è una cosa molto importante ai fini della spiegazione di questa vicenda. Il “malvivente” sche- dato invece si chiama Piero Schirripa, è un medico, ora in pensione, che è stato direttore sanitario dell’azienda ospedaliera di Reggio Calabria. Conosce monsignor Bregantini da molti anni, perché ha collaborato con lui: insieme hanno costruito una cooperativa di ex detenuti e di figli di mafiosi che si chiamava “Valle del Bonamico”. Puntava alla protezione dei ragazzi e al reinserimento dei condannati. Ha operato con grande successo dal 1995 al 2015. Vent’anni. Ora ha chiuso, anche perché ha dovuto affrontare molti problemi giudiziari, interdittive e indagini. Una volta i Cooperatori dovettero cercare, un po’ allibiti, di rispondere a questa accusa: “A noi risulta che voi frequentiate molti ex detenuti e diversi figli di mafiosi…“. Bene, Piero Schirripa io lo conosco da circa mezzo secolo. Abbiamo la stessa età e nei primi anni settanta frequentavamo la sezione universitaria del Pci di Roma. Poi lui ha studiato, ed è diventato medico. Io no, non mi sono laureato e son finito a fare il giornalista. Piero mi ha consegnato nei giorni scorsi alcune lettere, inviate da lui e da lui ricevute, tra le quali una di Bregantini, dalla quale tutta la vicenda risulta chiarissima. Si può riassumere così: la Procura ha intimato a un vescovo di non frequentare un cittadino italiano, libero e innocente. Schirripa ha subito sette o otto procedimenti giudiziari ma da tutti è uscito, lindo, prima ancora del rinvio a giudizio. Ha subito dalla mafia attentati e intimidazioni. Ha pagato di tasca sua l’impegno antimafia, ma quell’impegno antimafia che non è mai piaciuto alla famosa “Compagnia dell’antimafia”: poche parole e molta iniziativa, molte cose concrete. Tra le quali, ovviamente la cooperativa. In una delle lettere che Pietro mi ha consegnato, per difendere i suoi diritti e la sua onorabilità, ci sono le parole che Bregantini ha scritto a lui. In parte sono parole nobili, in parte sono parole di un sacerdote che si è sentito intimidito ed ha deciso di non contrastare l’intimidazione. Almeno, a me è parso così, e se mi sbaglio me ne scuso con il monsignore, che non conosco personalmente ma ho sempre stimato. Scrive, tra l’altro, Bregantini: «L’accusa che ci viene rivolta è quella di frequentazione con persone schedate dalla legge… Si sente il peso di una Giustizia che chiude le porte… Da qui ci è sembrato opportuno interrompere ogni rapporto. Scelte dolorose, ma penso siano temporanee. Di prudenza, vista la segnalazione, autorevole, e della quale bisogna tener conto… Ci hanno sempre mirati e feriti…”. Ora lasciamo stare le reazioni di Bregantini, che oscillano tra indignazione e rassegnazione. Cerchiamo di capire cosa voglia dire “schedato”, e se una autorità giudiziaria può imporre a un prelato di non frequentare alcune persone. Dunque in Italia esistono gli schedati? Io credevo che la categoria degli schedati appartenesse a un precedente regime, che ha guidato il nostro paese dal 1922 al 1945, ma poi è stato rovesciato. E credevo che da quando è stata approvata la Costituzione, la categoria degli “schedati” fosse stata abolita. Al massimo può esistere la categoria dei pregiudicati. Ma a questa categoria non appartiene Piero Schirripa, che è stato condannato in tribunale (con cancellazione dell’iscrizione) soltanto una volta per mancato controllo, in un processo relativo a un errore medico avvenuto in Ospedale (errore non suo). E’ per questa ragione che è considerato schedato? Se è così bisognerà tener conto che circa il 30 per cento dei medici italiani ha subito procedimenti giudiziari per errori medici, e che quello di Piero non era neanche un errore suo, ma semplice responsabilità oggettiva. Vogliamo impedire ai vescovi di incontrare un terzo dei medici italiani? Neanche a Erdogan verrebbe un’idea così fessa. E poi c’è l’altra questione. La libertà religiosa permette di proibire a un prete di incontrare un cristiano? Forse in Cina. La Calabria è più vicina alla Cina che a Roma? Ora può anche darsi che questa specie di “interdittiva morale” della Procura non ci sia mai stata. E che Schirripa e monsignor Bregantini raccontino balle. Si siano inventati tutto. Ma se non è così sarà il caso che la Procura di Reggio dica qualcosa. E magari ritiri l’intimazione (forse è meglio dire l’intimidazione) e torni nel recinto della legalità democratica.
Tony Iwobi e il razzismo degli antirazzisti, scrive Emanuel Pietrobon su "L'Intellettuale Dissidente" il 9/03/2018. Le accuse e gli attacchi rivolti nei confronti di Tony Iwobi svelano il vero volto degli autoproclamati antirazzisti, ipocriti quanto l’ideologia che sostengono. Un giovane nigeriano proveniente da una famiglia modesta giunge in Italia nel 1976 con un permesso di soggiorno per motivi di studio. È uno dei primi immigrati provenienti dall’Africa nera a giungere nel Bel paese, all’epoca sull’orlo di una guerra civile, dilaniato da attentati, violenze e manifestazioni squadriste da parte dell’estrema destra e dell’estrema sinistra. Testardaggine, volontà di emancipazione e di riscatto sociale e tanta ambizione, questi i moventi che spingono il giovane Tony Chike Iwobi a svolgere qualsiasi lavoro, muratore, stalliere e idraulico, pur avendo in mano una laurea in Scienze informatiche conseguita negli Stati Uniti. Si trasferisce nel profondo settentrione, nella provincia di Bergamo, dove viene assunto dall’Amsa in qualità di operatore ecologico, ma pochi mesi dopo viene promosso agli uffici divenendo impiegato. Cambia tanti lavori, non più umili, ricoprendo mansioni di responsabilità presso aziende italiane e svizzere, continuando allo stesso tempo ad arricchire il suo profilo lavorativo con corsi di specializzazione seguiti in Italia e all’estero. Nel 1993 si iscrive alla Lega Nord, all’epoca movimento politico a carattere regionale mirante alla secessione delle regioni settentrionali dal resto d’Italia e ad una rivoluzione fiscale basata sul federalismo. Come nel mondo del lavoro, ugualmente Iwobi colpisce e fa carriera anche nella politica, soprattutto quando il partito inizia a perdere i suoi caratteri originari per tentare di diventare una forza nazionale facendo leva sull’euroscettiscismo, sulla minaccia dell’immigrazione incontrollata e sulla difesa dei valori e dell’identità cristiana del Vecchio Continente dal relativismo culturale del liberalismo e dall’estremismo islamico. Il colore della pelle di Iwobi non è mai stato un problema per quello che viene descritto come il principale partito xenofobo del paese, sia in Italia che all’estero, ma anzi viene visto come un elemento di forza: Iwobi raffigura lo straniero che ce l’ha fatta, partendo dal nulla e aiutato solo dalle sue capacità, che si è integrato e ha accolto positivamente valori, costumi e tradizioni del paese in cui ha scelto di vivere, l’immagine perfetta per un partito che viene periodicamente accusato di propagandare idee razziste ed alimentare tensione sociale tra le comunità etniche e religiose presenti nella nazione. Dal 1993 al 2014 è ininterrottamente consigliere comunale a Spirano, una piccola città del Bergamasco, un decennio nel quale le sue posizioni politiche, specialmente sull’immigrazione, raccolgono l’attenzione dei leader del partito e nel 2014 viene designato responsabile federale del Dipartimento Immigrazione e Sicurezza della Lega Nord su iniziativa di Matteo Salvini. C’è Iwobi dietro alcuni slogan di successo utilizzati dal partito, diventati dei veri e propri tormentoni elettorali, come “Aiutiamoli a casa loro!” e “Stop invasione!” e al programma riguardante la regolamentazione dell’immigrazione dai paesi extraeuropei, basato sull’applicazione di misure per la selezione e la scrematura delle richieste di permessi umanitari e di soggiorno, sul rimpatrio di tutti quegli immigrati clandestini sbarcati in Italia negli ultimi anni le cui domande d’asilo sono state rifiutate, sulla chiusura dell’accesso ai migranti economici. L’elezione di Iwobi a senatore della Repubblica italiana – il primo di colore in assoluto – alle recenti elezioni ha scatenato l’ira e l’ironia sui social network, tra i politici e tra il panorama dei vari antirazzisti riciclatisi pseudo-intellettuali dell’ultima ora per deridere la sua candidatura con la Lega Nord. Il clamore suscitato dall’evento ha persino attirato l’attenzione di importanti media globali, come The Guardian, El País, Independent e Times, che ne hanno tratteggiato una breve biografia e raccontato le motivazioni della sua affiliazione ad un partito anti-immigrazione. Addirittura il calciatore Mario Balotelli ha provocatoriamente chiesto, via Instagram, a Iwobi se si fosse accorto d’essere nero; l’ex ministro dell’integrazione Cécile Kyenge ha dichiarato, invece, che l’evento non intacca minimamente la natura razzista della Lega, mentre su Facebook impazzano immagini satiriche che comparano l’accoppiata Iwobi-Salvini alla DiCaprio-Jackson del film Django Unchained. Un negro di casa come Stephen, lo schiavo domestico della tenuta di Calvin Candie, così la superiore satira liberal ai tempi di Facebook ha dipinto Iwobi, ossia un fratello che – ripercorrendo il pensiero di Malcolm X – si è svenduto ai bianchi, di cui appoggia lotte e rivendicazioni nella convinzione che ciò lo aiuterà ad essere accettato nella società bianca. È proprio in questi momenti che emerge il vero volto delle nuove sinistre occidentali, affiorate nel dopo-guerra fredda come le più importanti manifestazioni politiche della nuova élite borghese globalista; sinistre che hanno vergognosamente abbandonato ogni riferimento al proletariato e alla difesa della classe operaia. Da anni la propaganda di una certa sinistra martella l’opinione pubblica sulla necessità di una politica fortemente immigrazionista, tuonando slogan come “Faranno i lavori che gli italiani non vogliono più fare!” o “Ci pagheranno le pensioni!”. Flussi migratori costanti e continui nel tempo come un rimedio alla denatalità e alla carenza di manodopera dequalificata a basso costo, anziché politiche incentrate sull’aiuto alle famiglie e su una reale alternanza scuola-lavoro, questo propone la sinistra, accusando poi di razzismo chiunque ritenga che l’afflusso di milioni di persone provenienti da contesti culturali profondamente differenti – senza un adeguato meccanismo di integrazione nella società e nel mondo del lavoro, possa alimentare tensioni sociali, il mercato del lavoro nero e la criminalità. L’assenza di un modello d’integrazione o, meglio, l’assenza di una reale volontà di integrare gli immigrati, ha portato alla proliferazione di ghetti etnici, di no-go zones, all’esplosione della microcriminalità e a sempre più frequenti rivolte razziali. Scenari di disordine ed anarchia che da decenni irrompono nella quotidianità di Francia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania e Svezia, mai apparsi in Italia, ma a cui il paese dovrebbe iniziare ad abituarsi a meno di un cambio di rotta nel modo di pensare l’integrazione e la convivenza tra etnie e culture. La risposta dei partiti e dei centri sociali di sinistra all’omicidio di Pamela Mastropietro ad opera di un gruppo di nigeriani legati al sottobosco malavitoso di Macerata è stata un corteo antifascista ed antirazzista nel quale i manifestanti hanno lanciato invettive contro i partiti di destra, l’intolleranza e le forze dell’ordine. Un episodio che dovrebbe far riflettere sulla totale alienazione della sinistra dalla realtà e che spiega l’emorragia di voti dal Partito Democratico a partiti anti-sistema come Lega Nord e Movimento 5 Stelle. Iwobi è solo uno dei tanti nuovi italiani che ha preso atto dell’insensatezza delle politiche open borders e refugees welcome sostenute dalle nuove sinistre occidentali, che hanno soltanto esacerbato un clima già teso a causa della decennale crisi economica e delle tensioni inter-etniche causate dal fallimento dei progetti multiculturalisti in salsa anglosassone e scandinava. Una delle proteste organizzate in tutta Italia in reazione alla sparatoria di Macerata. Massima condanna per Luca Traini, nessun accenno a Pamela Mastropietro. Confindustria, Tito Boeri, Emma Bonino, Laura Boldrini, Paolo Gentiloni, Alessandro Cecchi Paone, Roberto Saviano, tanti coloro che hanno pubblicamente dichiarato di vedere l’immigrazione come una soluzione ai problemi demografici e lavorativi del paese. Nell’immaginario della sinistra l’immigrato ideale dovrebbe costruire famiglie numerose per ripopolare l’Italia (in pratica una sostituzione etnica, ma guai a dirlo) e fare lavori umili, precari e sottopagati come raccogliere pomodori nelle piantagioni del Sud Italia – citando la Bonino, e ovviamente essere ideologicamente allineato a sinistra. Alla luce di queste cose è facile comprendere perché contro Iwobi sia stata lanciata una campagna denigratoria, oltre che razzista: lo straniero che si integra e non si accontenta dei lavori che gli italiani non vogliono più fare, ma che attraverso le sue capacità si eleva socialmente e vede nell’accoglienza indiscriminata un male per tutti quegli stranieri onesti che a fatica hanno ottenuto dei meriti, è scomodo, non è stato manipolato dal miraggio dell’antirazzismo, quindi è un suffragio perduto. La comunità senegalese è scesa in piazza a Firenze per protestare contro l’omicidio di un connazionale ad opera di un folle. Il gesto è stato strumentalizzato dalla sinistra e ritenuto un atto razzista. No, Iwobi non è un negro di casa, e neanche di cortile, è molto più italiano e fiero di esserlo di tutti quelli che si stanno divertendo a denigrarlo, a ritenerlo un burattino dell’uomo bianco ed un venduto, e il suo “Aiutiamoli a casa loro!” non è un’offesa, ma quello che l’Occidente dovrebbe finalmente iniziare a fare dopo anni di politiche neo colonialiste ed imperialistiche nel Sud globale che hanno portato al saccheggio di risorse naturali, al sostegno verso sanguinose dittature militari e a guerre per procura volte all’accaparramento di metalli rari e preziosi che sono alla base dell’odierna crisi migratoria.
Non giochiamo con la parola (anti)razzista. In un contesto in cui dilagano parole come razzista e antirazzista, sembra che a venir meno sia proprio la discussione sul razzismo. I chiacchiericci sostituiscono la riflessione e la sostanza, la retorica prende il sopravvento. Ma sappiamo di cosa stiamo parlando, quando ci definiamo in un modo o nell’altro? Scrive Alessandro Montefameglio il 22 marzo 2018 su "L'Intellettuale Dissidente". Una guerra delle desinenze, una lotta degli -isti e gli -ofobi, uno scontro di preposizioni, di filo- e di anti-, perché non ne risulti altro che un guazzabuglio retorico: questo molto spesso abbiamo sotto gli occhi quando sentiamo parlare di razzisti, di fascisti, di sessisti… Lo abbiamo visto all’opera nel caso dell’omicidio di Macerata e nel dibattito psicotico che ne è derivato, lo vediamo in opera negli azzanni antileghisti contro Tony Iwobi e in quelli anticomunisti di certe frange che si vogliono filofasciste, continuiamo a percepirlo nelle condanne culturali a colpi di etichette (populista! fascista! neoliberista! capitalista! comunista! sessista!), una mentalità culturale il cui cuore è uno, uno soltanto: bollare, stigmatizzare, identificare, nominare, definire, classificare, timbrare con le parole, e non capirci più nulla. Il problema è che le parole non sono affatto innocenti, il problema è che queste talvolta si traducono in fatti, in manifestazioni di pubblico odio o di pubblica ipocrisia, con un fondo comune: la contraddizione e la perdita di contatto con la realtà.
Nelle Ricerche filosofiche Wittgenstein si poneva una domanda importante: Il denominare è simile all’attaccare a una cosa un cartellino con un nome. Si può dire che questa è una preparazione all’uso della parola. Ma a che cosa ci prepara? Rispondere è difficilissimo: è in gioco la questione stessa dell’essenza dell’uso del linguaggio in ogni circostanza umana, anche quella culturale e sociale. Il gesto di un bambino di indicare e nominare le cose, anche con un linguaggio apparentemente privato, è un gesto preliminare, preparatorio. Ma che gesto è? Qual è la sua funzione? Sembrerebbe che il carattere di questo fenomeno che chiamiamo in genere, con una certa innocenza, linguaggio, sia nient’altro che il tentativo umano di avere un’immagine del mondo: alle cose facciamo corrispondere le parole. Quando Wittgenstein scrive queste frasi, negli anni Cinquanta, ha già compreso non solo che alcune tesi soggiacenti a questa visione del linguaggio sono probabilmente fallaci, ma che questa idea, che il linguaggio si limiti a denotare il reale, è troppo semplicistica. No, il linguaggio è una macchina molto più complessa e molto meno infantile, e quella di denotare il mondo è solo una tra le molte funzioni, tra i molti giochi (termine di Wittgenstein) che il linguaggio è in grado di mettere in atto. Da qui, la metafora e il termine gioco, che prendiamo a prestito. I giochi, si sa, possono essere molto pericolosi. Tutt’altro che candidi e ingenui, i bambini quando giocano non stanno facendo nulla di scontato. Anzi, mettono in atto un meccanismo infinitamente articolato che, alcune volte, può avere toni anche molto inquietanti. Uno degli aspetti più interessanti è quello sottolineato a più riprese da molta (filo)pedagogia: il gioco è una parentesi della realtà. Ma lungi dall’essere una semplice simulazione, questo mettere da parte la realtà mentre si è mosca cieca o lupo affamato non solo sospende il reale (con le sue regole) ma ne produce un altro (con altre regole). È solo un gioco d’altra parte, ma è anche una realtà dove nessuna giurisprudenza ci vieta di uccidere, dove si diventa animali e fate, dove la moralità può vacillare, dove la cultura muta, talvolta con effetti psicologici piacevoli e terapeutici, talvolta con conseguenze non da poco sulla realtà alla quale si fa ritorno. La filosofia ci mostra come linguaggio e gioco siano profondamente accomunati, come, anche banalmente, anche il giocare con la parola può nascondere problematiche.
La stigmatizzazione sociale, l’etichettatura culturale, tutto questo è anche un fenomeno linguistico. Quando giochiamo in questo modo non ci limitiamo a esprimere un contenuto soggettivo sulla realtà, la oggettiviamo, la creiamo. Quando si etichetta qualcuno, ad esempio, come razzista non ci si limita a identificare con una parola un (probabile) esempio in vivo di razzismo. Frantz Fanon, uno dei filosofi francesi più importanti in questo contesto, diceva che è proprio il razzista a creare il nero come era il colonialista a creare il selvaggio: in questo l’operazione linguistica ha un valore fondamentale. Diciamo razzismo (ma potremmo parlare di altri -ismi), perché la questione razziale in Italia ha forse assunto, in questo senso, i connotati più marcati. È l’esempio lampante che su suolo italiano – virtuale e non – sembra che non abbiamo tanto un problema con il razzismo e l’antirazzismo, ma con i razzisti e gli antirazzisti, con gli esempi di questo o quel razzismo: è ovunque pieno di razzisti e di antirazzisti, di uomini e donne che passeggiano con un cartello addosso con su scritta la parola o che, di prepotenza, scrivono il termine (talvolta indelebilmente) sulla fronte di qualcun altro. Dall’essere figurata, la questione diventa più concreta che mai: io sono antirazzista, io sono antifascista, io sono…, con tanto di marchio sul proprio profilo Facebook. Mi etichetto, quindi sono, ti etichetto, dunque sei, versione scheletrica di un cogito linguistico in grado di fare molti più danni rispetto a quelli che si propone di evitare: inscatolare semplicisticamente l’altro con poche sillabe, sentirsi la coscienza pulita, magari umiliando, odiando, evitando, fare una cernita tra i propri compagni in questa guerriglia di carta e di hashtag, essere attivi in un gioco di ruolo in cui si gareggia con le parole, le urla e i gesti. Qualche bottiglia viene spaccata, poi, per rendere tutto meno discorsivo e inattuale, e talvolta si perde il lavoro e la faccia… Ma d’altra parte, se si gioca bisogna farlo bene.
Se solo ci fosse un po’ più di coscienza non emergerebbero affatto le incrinature che rendono questo creepy show nient’altro che una pericolosa caciara. I rischi di un gioco preso troppo seriamente sono chiari anche solo dalla definizione che abbiamo dato: il ritorno alla realtà diventa sempre più difficile e si vedono pedine di gioco dappertutto. Si rischia di dare del razzista al proprio vicino di casa, a chiunque sembri proferire qualsiasi parola che assomigli, anche vagamente, a un canto di difesa razzista. Non sono razzista, ma… e si è già razzisti. Io sono favorevole all’immigrazione, ma… e già si è degli xenofobi e fascisti convinti. In altri termini, è molto difficile non essere bollati come razzisti: per farlo non bisogna ragionare, bisogna etichettarsi con molta delicatezza, bisogna affermare refugees welcome, bisogna essere per le frontiere aperte, bisogna essere anti-Trump, bisogna magari avere una copia del 18 brumaio di Marx in tasca, magari votare a sinistra (ma non la sinistra renzusconiana) e non inneggiare a Grillo, Salvini o alla Le Pen, bisogna cancellare la parola “populismo” dalla Treccani di casa, bisogna insomma essere tutto quello che (alcuni de)gli antirazzisti etichettano come tale. Ciò è a maggior ragione confermato dalla sua controprova, dal suo negativo, quando si dimentica il colore della pelle e il primo senatore nero italiano, che non è la Kyenge, è automaticamente oggetto di battute a sfondo razzista dai sedicenti antirazzisti (come già ben sottolineato), in quanto gli è mancata l’etichetta politica adeguata: allora il razzismo, con una paradossalità a dir poco maligna, è accettabile, allora l’antirazzista in questione può permettersi una sana dose di razzismo. Ora, qui non si tratta di fare una riflessione astratta sul linguaggio o sui mezzi di comunicazione di massa (che fanno funzionare ad libitum questo meccanismo) né di discutere di una problematica socio-culturale visibilmente attiva nel nostro paese né tantomeno di fare lo stesso gioco degli etichettatori e bollare alcuni di coloro che si professano antirazzisti come dei ciarlatani. Si tratta di affermare che è pericoloso giocare con le parole. Che ipostatizzare il razzismo etichettando compulsivamente il razzista (a volte finendo con l’indicare dei semplici fantasmi), secondo i propri requisiti, viene meno allo stesso scopo di chi compie questo gesto, cioè dimostrare l’esistenza del fenomeno, individuarlo, definirlo, magari risolverlo. Ciò di cui si parla poco è, davvero, del razzismo, della natura del fenomeno così come appare nei nostri contesti, di che cosa sia, di come si mostri, di come venga concepito e attuato, quale sia la contestura del soggetto razzista e del soggetto che subisce atteggiamenti razzistici (che sia il soggetto migrante o ancora il soggetto colonizzato o il soggetto “di colore”). Non basta indicare un presunto razzista e lanciare qualche hashtag per parlare di razzismo, come non basta indicare un ente per parlare dell’essere. Anzi, così facendo, si rischia di confondere il fenomeno, di mescolarlo con tutte le sue componenti interne senza comprendere più nulla, addirittura si rischia di sbagliare clamorosamente, nel caso il nostro dito finisca sul soggetto sbagliato. Se lo scopo è annullare il fenomeno, poi, così si è distanti anni, quando i problemi in questione sembrano tutt’altro che inattuali.
I VERI RAZZISTI STANNO A SINISTRA, NON AL NORD ITALIA.
All'Esselunga volantino interno contro i truffatori "napoletani". Consigliere dei Verdi campano annuncia una denuncia per istigazione all'odio razziale contro i responsabili del punto vendita di via Feltre a Milano. Il trucco sarebbe quello di far passare sul rullo una bottiglia di scarsa qualità e poi dei colli chiusi con etichette più pregiate e care. La direzione della catena annuncia che il dipendente è stato subito sospeso, scrive Davide Banfo il 10 marzo 2017 su "La Repubblica". Il volantino apparso alle casse di un punto vendita Esselunga (Foto da NapoliToday) E' stato subito sospeso dalla direzione di Esselunga il dipendente del punto vendita di via Feltre che aveva appeso in una zona interna riservata ai dipendenti un volantino per mettere in guardia dai truffatori "napoletani". A sollevare il caso il consigliere regionale dei Verdi campani, Francesco Emilio Borrelli, che ha annunciato l'intenzione di "denunciare per istigazione all'odio razziale e discriminazione i responsabili dell'Esselunga di Milano dove è stato affisso un cartello offensivo nei confronti dei napoletani perché è arrivato il momento di porre un freno al dilagare delle violenze verbali alimentate da politici razzisti come Salvini e i leghisti". All'origine del volantino, come raccontato per primo dal sito NapoliToday, la pratica di alcuni clienti che farebbero passare sul rullo della cassa una bottiglia di vino per controllarne il prezzo e poi far passare alcuni colli già chiusi con etichette molto più costose ingannando in questo modo l'addetto. Nel comunicato, l'azienda si dice "sinceramente rammaricata per quanto accaduto e si dissocia completamente dall'iniziativa, avvenuta - viene sottolineato - su iniziativa di un singolo dipendente". "Non siamo di fronte a sfottò o cose del genere, ma a vere e proprie offese che alimentano i pregiudizi e gli stereotipi di cui siamo vittime da anni e siamo stanchi di continuare a subire e di essere anche presi in giro da gente come Salvini che dopo aver cantato che puzziamo viene a Napoli per prendere qualche voto, approfittando della disponibilità di qualche politicante della peggiore destra" ha aggiunto il consigliere Borrelli per il quale "chi scrive cartelli del genere compie reati e dovrà pagarne le conseguenze penali e civili e il risarcimento economico che riusciremo a ottenere lo utilizzeremo per aiutare le associazioni impegnate contro le discriminazioni". "Questo cartello rafforza ancor di più la nostra convinzione a stare in piazza contro Salvini e tutti i razzisti come lui che ogni giorno infangano i napoletani e i meridionali che sono stati depredati dalle politiche dei leghisti" ha concluso Borrelli per il quale "le precisazioni dell'ufficio stampa di Esselunga che attribuiscono a un singolo dipendente la decisione di affiggere quel cartello appaiono prive di fondamento perché ci pare strano che sia opera di una sola persona e se anche lo fosse perché nessuno, a cominciare dal direttore del supermercato, non l'ha tolto immediatamente?".
Lega, Senaldi a Salvini: "Vuoi fare il terrone a Napoli, meglio pensare al referendum per Veneto e Lombardia", scrive di Pietro Senaldi il 10 marzo 2017 su “Libero Quotidiano”. «Senti che puzza, scappano anche i cani, stanno arrivando i napoletani». Se c’è un’immagine che Matteo Salvini vorrebbe rimuovere della sua brillante carriera politica è quel coro da stadio intonato la sera della vigilia del raduno di Pontida del 2009 con un gruppo di militanti leghisti dopo un paio di birrette. Un peccato di gioventù padana che, ora che Matteo è diventato grande, rischia di costargli carissimo, perché il video è impresso per sempre nell' incancellabile memoria di internet. Nel tentativo di riconciliarsi con la città, il leader leghista domani sarà a Napoli per una manifestazione in grande stile del suo movimento sudista «Noi con Salvini». Già nel 2014 tentò lo sbarco in città ma fu violentemente contestato. Ora ci riprova e i no global, forse addirittura capeggiati dal sindaco De Magistris, (ex pm!), gli stanno preparando un’altra dura accoglienza malgrado in un’intervista al Mattino, il quotidiano della città, Salvini abbia ribadito ancora una volta le proprie scuse, cercando di sdrammatizzare («Che devo fare di più, mettermi in ginocchio?»). Detto tra noi, non so se basterebbe, anche se la cabala è propizia: domani è l’11, i «suricilli» nella smorfia napoletana, che possono anche significare il cambiamento. Intendiamoci, Salvini fa bene ad andare a Napoli in segno di amicizia. Rientra nel suo progetto di leader nazionale che, dopo aver portato la Lega ai massimi livelli, si è reso conto da tempo di essere più popolare e di avere su scala nazionale più consenso dello stesso Carroccio, che in un certo senso oggi è quasi un limite alle possibilità di crescita di Salvini. Ecco dunque il tentativo di allargare oltre il Nord e il Centro i confini della Lega, puntando tutto sulla propria persona e sui nuovi messaggi leghisti, travasati in «Noi con Salvini»: no euro, no Europa, no immigrati, basta Fornero, giù le tasse per tutti. Come Libero, condividiamo molte idee di Salvini ma non ci illudiamo per questo che lo facciano anche i napoletani. Per 25 anni almeno la storia della Lega è stata tutt' uno con l’antimeridionalismo, che non significa razzismo verso il Sud, come dimostrano i molti leghisti del Nord con i natali nel Mezzogiorno, ma che è stato comunque ferma denuncia e presa di distanza da tutto quello che «giù» non funziona, sia esso vero o anche solo luogo comune. Se «Roma ladrona» era un grido contro la casta più che contro la città, la secessione leghista era uno slogan tirato come un pugno in faccia contro il Mezzogiorno, vissuto come un peso sulle spalle del Paese, che drena soldi senza riuscire a metterli a frutto. Di tutto questo, dagli eserciti di dipendenti pubblici, ai morti ammazzati di camorra, agli sprechi, ai finti invalidi, all' illegalità diffusa, Napoli, la più importante città del Sud, è stata sempre dipinta come la sintesi. Da qui l’espressione «Piagnisteo napoletano» che nei giorni scorsi anche Libero ha utilizzato, non con intenti offensivi ma sommariamente descrittivi dello scontro tra Nord leghista e Sud meridionalista. Auguriamo a Salvini di sbagliarci, ma la sua sfida per conquistare il cuore dei napoletani, benché indispensabile alla sua crescita come leader, ci appare ai limiti del proibitivo. E per giunta anche rischiosa, perché il tentativo potrebbe alienargli le simpatie dell’elettorato leghista storico, in parte rimasto ancora indipendentista. Bossi, da tempo non in buoni rapporti con chi l’ha sostituito, lo sa e provoca di continuo, bocciando ogni apertura al Sud. Come ogni leader che si rispetti, Salvini non teme di prendersi dei rischi per raggiungere l’obiettivo, ma quello di essere contestato domani è davvero molto grosso, anche perché dopo cinque anni di cura De Magistris la città è alle corde, e quindi poco incline alla riconciliazione. Forse il segretario leghista farebbe meglio a desistere e concentrarsi sui referendum per l’autonomia fiscale indetti dal Carroccio in Lombardia e Veneto, molto popolari tra il suo elettorato, anziché lasciarli alla gestione esclusiva dei governatori Maroni e Zaia. Certo sarebbe più semplice. Chi frequenta Salvini rivela che è tutto sotto controllo: i governatori porteranno avanti il piano autonomista al Nord, appuntandosi le eventuali medaglie del referendum, e il segretario si prenderà la parte più difficile, lo sfondamento al Sud, agitando il vessillo anti-europeista e provando a convincere i meridionali che l’autonomia regionale farà bene anche a loro. Tutti insieme appassionatamente. Che il sogno si traduca in realtà però è tutto da vedere. A Napoli dicono «scurdammece 'o passato». Ma ancora più spesso dicono «Accà nisciuno è fesso».
Salvini alla Mostra d'Oltremare, interviene il Viminale: "La prefettura garantisca il diritto a svolgere la manifestazione". I centri sociali occupano la sala della Mostra d'Oltremare a Napoli in cui è prevista la manifestazione con Matteo Salvini. Dopo il blitz dei centri sociali e un vertice in piazza del Plebiscito, i manifestanti liberano la sala congressi occupata. Il leader della Lega: "Vengo lo stesso, non siamo in dittatura". In serata nota del ministro dell'Interno, scrive Antonio Di Costanzo il 10 marzo 2017 su "La Repubblica". Il ministro dell'Interno "ordina" alla prefettura di garantire la convention con Salvini alla Mostra d'Oltremare. Il leader della Lega sarà alle 17 di domani (sabato) nella sala della Fiera occupata oggi in segno di protesta da un centinaio di manifestanti. "Non siamo in dittatura - ha detto Salvini- a Napoli non esiste Stato, comandano i centri sociali. Ma io ci sarò lo stesso, alle 17 alla Mostra d'Oltremare: se non mi faranno parlare dentro, parlerò fuori". Pasticcio istituzionale sulla cinvention del leghista. Gli antagonisti hanno liberato il Palacongressi dopo un vertice in prefettura e la decisione dei vertici della Mostra di annullare la manifestazione con Salvini. Poi il colpo di scena: il ministro dell'Interno Marco Minniti ha dato "precise disposizioni al prefetto di Napoli perché sia assicurato il diritto costituzionalmente garantito dell'onorevole Salvini a tenere la manifestazione programmata domani nel capoluogo campano". Dopo la nota del ministro, il prefetto ha comunicato che la manifestazione “Noi con Salvini” prevista per domani 11 marzo si terrà presso la Mostra d’Oltremare. Gli attivisti della Rete "Mai con Salvini" hanno prima festeggiato la notizia dell'annullamento e poi confermato il corteo contro la manifestazione con la presenza del leader della Lega, Matteo Salvini, in programma al Palacongressi. "Il problema di Napoli sono i leghisti, non clandestini e camorristi? - ha replicato Matteo Salvini - Sindaco, questore, prefetto e governo, non dite niente? Intellettuali, buonisti, democratici e pacifisti, non dite niente? Abbiamo firmato un contratto da 5-6 mila euro con la Fiera di Napoli. C'è stato un comunicato del portavoce dei centri sociali De Vito che la fiera rescinde il contratto con me perchè non ci sono le condizioni. Incredibile. Napoli è nelle mani dei centri sociali, della camorra, dell'illegalità. Io ci vado lo stesso, non siamo a Cuba o in Unione Sovietica". Non basta: "Questi dei centri sociali - ha incalzato il leghista - hanno detto che continueranno a presidiare la fiera ma io ripeto ci vado lo stesso, se non mi fanno parlare dentro parlerò fuori, per rispetto dei tremila napoletani che hanno già mandato la loro prenotazione. Mai capitato in 25 anni di storia che i centri sociali decidano - sottolinea il leader della Lega - Accadesse ad un esponente del Pd o 5Stelle, sarei il primo a dire non esiste. Io vado lo stesso a Napoli. Dov'è il prefetto, il ministro, le istituzioni? Minniti deve intervenire. Non mi è mai accaduto, neanche al Sud". "Le provocazioni le rispediamo al mittente" ha replicato il sindaco Luigi de Magistris su radio Kiss Kiss. Napoli è "contro le politiche discriminatorie dei Mattei di turno, Salvini e Renzi. La storiella di Salvini amico dei napoletani il leader della Lega la vada a raccontare ad altri". Il sindaco ha ricordato di avere "sempre auspicato che la manifestazione popolare dei napoletani contro Salvini fosse pacifica, non violenta, caratterizzata da satira. Invito tutti a sentire gli artisti napoletani che per l'occasione, per il corteo organizzato contro la Salvini, con Gente do Sud". L'annullamento della convention con Salvini alla Mostra d'Oltremare era stato reso noto da Donatella Chiodo e Gennaro Oliviero, presidente e consigliere delegato di Mostra d'Oltremare, che hanno spiegato di aver rescisso il contratto con gli organizzatori della manifestazione: "Restituiremo quanto ci hanno dato, oltre 10mila euro, il costo per un'iniziativa di questo tipo". Poi il colpo di scena con l'intervento del Viminale. "Resteremo qui a oltranza finché la manifestazione non sarà annullata", avevano promesso gli occupanti al mattino. "Ricordiamo che la riunione sull'ordine pubblico in Prefettura ha concesso lo spazio prima citato in opposizione alla volontà della città. A Napoli non c'è spazio per razzisti, sessisti e xenofobi, che vorrebbero utilizzare come palcoscenico la nostra città per meri scopi di campagna elettorale. Il Sud non dimentica le offese razziste ricevute in questi anni, le politiche di austerità votate anche dalla Lega Nord". Ad affiancare la protesta, sono scesi in campo anche alcuni musicisti napoletani: Eugenio Bennato, James Senese, Valerio Jovine, i 99 Posse, M'Barka Ben Taleb e altri artisti, sotto la sigla "Terroni uniti", hanno registrato il brano "Gente do Sud". Enzo Gragnaniello, ospite di una diretta nella redazione napoletana di Repubblica, ha dedicato a Salvini la sua canzone "L'erba cattiva". Ma a protestare contro Salvini non sono soltanto i centri sociali. Anche il Movimento neoborbonico, tutt'altro che schierato a sinistra, scende in campo. E accoglie il leader della Lega citando Eduardo De Filippo e la famosa pernacchia con cui nell'episodio 'Il professore' del film di De Sica "L'oro di Napoli", si accoglieva l'arrivo di un duca. La versione dedicata a Salvini è in un file mp4 rintracciabile su Youtube, che il movimento dei Neoborbonici rende disponibile gratuitamente, sotto il nome di "Suoneria borbonica", a chiunque lo chieda.
Napoli, sindaco e violenti imbavagliano Salvini. Dopo la protesta degli antagonisti, negata la sala al leghista. Lui: «Vado lo stesso». E il Viminale lo difende, scrive Simone Di Meo, Sabato 11/03/2017, su "Il Giornale". Diventa un caso nazionale la visita di quest'oggi di Matteo Salvini a Napoli. Il ministro dell'Interno Marco Minniti ha ordinato al prefetto del capoluogo di assicurare «il diritto costituzionalmente garantito» del leader della Lega a «tenere la manifestazione programmata» presso il PalaCongressi della Mostra d'Oltremare dopo che il management della società comunale ha deciso (e ha comunicato che non farà dietrofront sino a quando non arriverà un ordine ufficiale della prefettura) di revocare l'autorizzazione concessa in un primo momento. Minniti «batte» de Magistris, dunque. Il sindaco di Napoli non aveva mai fatto mistero di voler impedire con tutti i mezzi la convention. «Non abbiamo bisogno di chi sparge odio e violenze - ha detto il primo cittadino - la Lega non è il nuovo, ha governato per anni e vi invito a vedere le leggi che hanno approvato». Infine l'affondo: «Loro vogliono che i soldi vadano in una sola direzione: il Centro Nord. Noi, vogliamo un'Italia e una Europa unita nelle diversità». Immediata la replica dell'europarlamentare: «Pazzesco. A Napoli non comanda lo Stato, ma i centri sociali? Vogliono impedirmi di fare un incontro pubblico, con migliaia di persone già prenotate, costringendo la Fiera a disdire il contratto. Il problema di Napoli sono i leghisti, non clandestini e camorristi?», scrive su Facebook. «Sindaco, questore, prefetto e governo, non dite niente? Intellettuali, buonisti, democratici e pacifisti, non dite niente? Domani (oggi, ndr) a Napoli ci sarò, come previsto, alle 17 alla Mostra d'Oltremare. La Libertà prima di tutto. Vi aspetto, con il sorriso». Le contromisure degli antagonisti e delle reti antirazziste sono già pronte. È previsto infatti un corteo che si snoderà in città in contemporanea con il comizio di Salvini a cui parteciperà lo stesso sindaco. La polemica è scoppiata nel pomeriggio di ieri quando il consigliere delegato della Mostra d'Oltremare Giuseppe Oliviero ha comunicato la decisione dell'ente fieristico di rescindere il contratto siglato con i promotori dell'appuntamento politico. «Alla luce dei fatti emersi oggi - ha detto - e che non potevamo prevedere, e considerato che c'erano le avvisaglie accadesse di peggio, abbiamo preferito rinunciare a 11mila euro che restituiremo piuttosto che averne 300mila di danni». In particolare, Oliviero spiega che «abbiamo voluto tutelare Droni in mostra, manifestazione che si svolgerà regolarmente. Ha prevalso la logica del minor danno». Poi è arrivato il diktat del titolare del Viminale. Gli antagonisti hanno diversificato le operazioni di contestazione. Il Movimento Neoborbonico ha deciso di creare una suoneria per cellulare con pernacchio ispirata a Eduardo de Filippo in una delle scene più famose de L'oro di Napoli, il film tratto dall'omonimo libro di Giuseppe Marotta. Per l'occasione, un gruppo di artisti ha scritto invece il brano Gente do Sud «contro le politiche antimeridionali e antirazziste di Salvini e della Lega». Il leader padano criticato, a sorpresa, anche dall'ex governatore della Campania, Stefano Caldoro: «È bene che continui a fare politica al Nord ha affermato l'esponente di centrodestra, prendendo però le distanze dai violenti continui a prendere consensi al Nord, al Sud non ha proprio ragioni, c'è una contraddizione». Intanto, la città è blindata.
Chi impedisce la libertà di parola non è un democratico meridionalista, ma un bieco comunista reazionario. Proprio quella sinistra che impedisce il revisionismo storico sul Risorgimento e le sue atrocità.
Ricordare i "martiri" del Sud? Il Risorgimento divide ancora. Il M5S vorrebbe una giornata per le vittime della "invasione" sabauda. Ma non c'è accordo tra gli storici, scrive Matteo Sacchi, Sabato, 11/03/2017, su "Il Giornale". Un altro giorno della memoria. Dedicato però ai «martiri del Meridione». È questa la proposta presentata dal Movimento 5 Stelle in diverse regioni del Sud Italia: Abruzzo, Campania, Basilicata, Molise e Puglia. E poi è anche approdata al Senato, dove il senatore M5S Sergio Puglia è intervenuto affermando che: «Il tempo è maturo per fare una riflessione e analizzare cosa accadde alle popolazioni civili meridionali e quanto ancora ci costa nel presente. Nei testi scolastici si fa appena un accenno. Chiediamo la verità». Ma esattamente di cosa si tratta? La data proposta è quella del 13 febbraio. Ovvero quella della fine dell'assedio di Gaeta da parte delle truppe piemontesi nel lontano 1861. Quel giorno la roccaforte borbonica, stretta ormai da terra e dal mare, si arrese dopo 102 giorni (e 75 di bombardamento consecutivo, il fuoco non si arrestò nemmeno mentre veniva trattata la resa). Dopo quel 13 febbraio però non cessò la resistenza al nuovo Stato unitario, soprattutto nelle campagne. Tutti coloro che continuarono a opporsi alle truppe del nuovo esercito italiano vennero semplicemente trattati dal governo di Torino come briganti. I briganti però avrebbero classificato se stessi come patrioti, sebbene nel movimento spesso citato dalla manualistica come «Grande brigantaggio» fossero confluiti anche briganti veri e propri e contadini poveri ben poco politicizzati. Il dibattito sul tema resistenza/banditismo dura tra gli storici ormai da decenni. Ed è un dibattito rovente. È un fatto che la repressione venne portata avanti con metodi militarmente durissimi (si arrivò ad impiegare più di 105mila soldati) e si arrivò ad approvare una legge specifica, la legge Pica, che de facto abrogava le garanzie dello statuto albertino. Ma è altrettanto un fatto che la reazione anti unitaria si trasformò in una guerriglia senza quartiere, in cui gli inviati governativi e i militari venivano uccisi nelle maniere più atroci. Ora l'arrivo della proposta di un giorno della memoria riaccende in pieno il dibattito.
Ne abbiamo parlato con il giornalista Pino Aprile, che con alcuni dei suoi libri (come Terroni e Carnefici, entrambi editi da Piemme) ha contribuito a far partire il dibattito. «È una proposta giusta. Era ora. Cosa è successo durante l'annessione? È successo che un esercito è penetrato in un Paese amico senza nemmeno una dichiarazione di guerra, rubando, stuprando e ammazzando. Per carità, in quegli anni è successo anche altrove... Le unificazioni nazionali hanno prodotto sempre massacri. Solo che noi italiani non ce lo siamo mai detti. Si fa ancora finta che l'annessione del Sud sia stata una parata fiorita attorno a Garibaldi, è stato un genocidio. Uno Stato ricco e prospero è stato spogliato delle sue ricchezze e saccheggiato. Bisogna avere il coraggio di dirlo e un giorno della memoria può essere un buon modo per farlo. Un giorno per piangere le vittime e cercare di unire quello che è ancora un Paese diviso. Ed è un Paese diviso perché una metà è stata brutalmente invasa e saccheggiata e non lo si vuole riconoscere. In altre nazioni i conti con la storia si fanno, la Francia con la Vandea i conti li fa eccome».
Di parere diametralmente opposto lo storico del pensiero politico Dino Cofrancesco: «Cui prodest? Già siamo un Paese disunito e in Europa ci trattano come servi della gleba. Che senso può avere una celebrazione che aumenti le divisioni? Poi mettiamo le cose in chiaro su questo nostalgismo borbonico che sta prendendo piede negli ultimi anni. Rosario Romeo, che è stato il più grande storico della seconda metà del Novecento, diceva che il protezionismo della sinistra storica aveva danneggiato il Sud, ma che senza l'unità il Sud non sarebbe mai diventato Europa, sarebbe rimasto una specie di Libia peninsulare. E Romeo era di Giarre, non di Busto Arsizio. Come del resto erano cultori del risorgimento Adolfo Omodeo (palermitano) o Gioacchino Volpe (abruzzese). Ma non solo loro, tutti gli intellettuali del Sud già in pieno risorgimento erano favorevoli all'unità e allo Stato forte. È questo che i neoborbonici sembrano dimenticare». Ma le violenze dell'esercito piemontese/italiano? «Il generale Cialdini era quel che era, ma non dimentichiamoci le teste dei bersaglieri mozzate e issate sulle picche. Le violenze ci sono state da entrambe le parti, non ci sono stati dei martiri. Delle vittime invece ovviamente sì. E di certo non userei il termine genocidio. Semmai c'è stata dopo un'emigrazione di massa dal Meridione, ma dovuta all'arretratezza economica del Sud, non all'unificazione. L'unificazione l'ha resa possibile modernizzando». E se il dibattito è così forte tra storici, forse per le celebrazioni è presto, a meno di non volere una delle solite celebrazioni italiane: quelle che dividono.
Il Sud visto dal Nord dal 1860 ai primi del 900: I meridionali? Cafoni e razza inferiore, scrive Ignazio Coppola su "Meridionews" il 5 luglio 2012. La questione dei meridionali come razza inferiore e la questione meridionale come questione economica. Terminologie, sinonimi e similitudini che attengono e sono alla base, ancora oggi, di una mai realizzata e metabolizzata unità d’Italia e che, significativamente ed opportunamente, avrebbe dovuto essere al centro del dibattito delle celebrazioni del 150° anniversario dell'Unità d'Italia: ma così purtroppo non è stato. La questione dei meridionali come razza inferiore e la questione meridionale come questione economica. Terminologie, sinonimi e similitudini che attengono e sono alla base, ancora oggi, di una mai realizzata e metabolizzata Unità d’Italia e che, significativamente ed opportunamente, avrebbe dovuto essere al centro del dibattito delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia: ma così purtroppo non è stato. Hanno vinto ancora una volta l’ipocrisia e le verità nascoste di un risorgimento edulcorato da bugie e falsità che si continuano a propinare, senza soluzione di continuità dalle storiografie ufficiali e scolastiche. Si continua ad ignorare che alla base di una mala unità d’Italia vi fu, come del resto continua ad esserci, retaggio di quel passato, una ignobile componente razzistica antimeridionale conclamata e documentata da quei politici e da quei militari che erano venuti a liberare e civilizzare" il Sud e la Sicilia. Infatti che non grande considerazione dei meridionali avevano, all’alba dell’Unità d’Italia, alcuni politici e militari del Nord che tale Unità con arroganza rivendicavano di avere contribuito a compiere, ne esistono incontrovertibili testimonianze. In una lettera inviata il 17 ottobre del 1860 a Diomede Pantaloni e contenuta in un carteggio inedito del 1888, il piemontese marchese Massimo, che fu presidente del consiglio del Regno di Sardegna ed esponente della corrente liberal-moderata tra l’altro così scriveva: In tutti i modi la fusione con i napoletani mi fa paura e come mettersi a letto con un vaioloso. Più o meno quello che, esattamente 150 dopo, canterà in coro con altri leghisti ad una festa del suo partito l’eurodeputato e capogruppo al Comune di Milano, Matteo Salvini: Senti che puzza scappano anche i cani, sono tornati i napoletani, sono colerosi e terremotati, con il sapone non si sono mai lavati. Sembra di risentire il D’Azeglio di 150 anni prima. Da allora niente è cambiato se non in peggio. Nino Bixio, il paranoico massacratore di Bronte, in una lettera inviata alla moglie tra l’altro così scriveva: Un paese che bisognerebbe distruggere e gli abitanti mandarli in Africa a farsi civili. Ma ancora, sulla stessa lunghezza d’onda del colonnello garibaldino, il generale Enrico Cialdini, luogotenente del re Vittorio Emanuele II inviato a Napoli nell’agosto del 1861 con poteri eccezionali per combattere il brigantaggio a proposito dei territori in cui si trovò a operare, in una lettera inviata a Cavour, così si esprimeva: Questa è Africa! Altro che Italia. I beduini a confronto di questi cafoni sono latte e miele. Enrico Cialdini era lo stesso che alcuni mesi prima, nel febbraio del 1861, durante l’assedio di Gaeta, bombardando l’eroica città, non si fece scrupolo di indirizzare il tiro dei suoi cannoni rigati a lunga gittata e di grande precisione deliberatamente sugli ospedali per terrorizzare gli occupanti e fiaccarne la resistenza. E, a chi gli faceva osservare il suo inumano comportamento non rispettoso dei codici d’onore e militari, rispondeva sprezzatamene: Le palle dei miei cannoni non hanno occhi. Cialdini si rese poi protagonista degli eccidi e della distruzione, in provincia di Benevento, dei paesi di Pontelandolfo e Casalduni, esecrabili e orrendi al pari di quelli compiuti dai nazisti molti anni dopo - e con minor numero di vittime - a Marzabotto e a Sant’Angelo di Stazzema, in cui furono massacrati senza pietà uomini, donne e bambini. Negli ordini scritti ai suoi sottoposti, era solito raccomandare di non usare misericordia ad alcuno, uccidere, senza fare prigionieri, tutti quanti se ne avessero tra le mani. E dire che del nome di questo criminale, spacciato per eroe, la toponomastica delle nostre città ne ha fatto incetta. E che dire poi del generale Giuseppe Covone mandato anch’esso a reprimere il brigantaggio in Sicilia che, per snidare i renitenti di leva, non si fece scrupolo, avendone piena facoltà che gli derivava dalle leggi speciali, di porre in stato d’assedio intere città, di fucilare sul posto, di torturare, arrestare e deportare intere famiglie e compiere abusi e crimini inenarrabili? Ebbene, anche il Covone, per non essere da meno dei suoi conterranei predecessori e per difendere e giustificare il suo criminale operato dell’uso di metodi di costrizione di stampo medievale nei confronti dei siciliani, non trovò di meglio, in un rigurgito razzista, di affermare in pieno parlamento che: Nessun metodo poteva aver successo in un paese come la Sicilia che non è sortita dal ciclo che percorrono tutte le nazioni per passare dalla barbarie alla civiltà. Ed infine per completare questo bestiario di aberrante avversione razziale nei confronti dei meridionali val bene ricordare le parole tratte dal diario dell’aiutante in campo di Vittorio Emanuele II, il generale Paolo Solaroli: La popolazione meridionale è la più brutta e selvaggia che io abbia potuto vedere in Europa. E poi quanto scrisse Carlo Nievo, ufficiale dell’armata piemontese in Campania al più celebre fratello Ippolito, ufficiale e amministratore della spedizione garibaldina in Sicilia: Ho bisogno di fermarmi in una città che ne meriti un poco il nome, poiché sinora nel Napoletano non vidi che paesi da far vomitare al solo entrarvi, altro che annessioni e voti popolari dal Tronto a qui ove sono, io farei abbruciare vivi tutti gli abitanti, che razza di briganti, passando i nostri generali ed anche il re ne fecero fucilare qualcheduno, ma ci vuole ben altro. Questi i documentati pregiudizi razziali di quei liberatori che fecero a spese del Sud depredandolo, saccheggiandolo uccidendo e massacrando i suoi abitanti, l’Unità d’Italia. E su questi pregiudizi nati per giustificare la politica coloniale e civilizzatrice piemontese che poi furono elaborate le teorie razziali dell’inferiorità della razza meridionale propugnate da Cesare Lombroso, Alfredo Niceforo, Enrico Ferri, Giuseppe Sergi, Paolo Orano e Raffaele Garofalo. Studiosi che si affrettarono a dare un’impostazione scientifica ai pregiudizi diffusi ad arte dagli invasori per giustificare politiche di rapine, di spoliazioni e di saccheggi a danno del Meridione. Sui fondamenti antropologici e storici della crisi dell’identità italiana e sulla mancanza di comunicazione interculturale tra Nord e Sud ne fa una lucida analisi Antonio Gramsci nei Quaderni, quando sostiene: La miseria del Mezzogiorno era storicamente inspiegabile per le masse popolari del Nord. Queste non capivano- afferma Gramsci- che l’unità non era stata creata su una base di eguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Sud nel rapporto territoriale città-campagna, cioè che il Nord era una piovra che si arricchiva a spese del Sud e che l’incremento industriale era dipendente dall’impoverimento dell’agricoltura meridionale. Parole sante. L’impoverimento del Meridione per arricchire il Nord non fu la conseguenza ma la ragione stessa dell’Unità d’Italia. In buona sostanza, con l’Unità d’Italia ebbe il sopravvento il disegno e la strategia egemonica dell’imprenditoria e della finanza settentrionale che, conquistando e colonizzando il Sud, ostacolandone in ogni modo la crescita, prevaricò ogni ipotesi di sviluppo della nascente economia meridionale. Significativo in questo senso fu quanto ebbe a dire il genovese Carlo Bombrini prima dell’Unità d’Italia direttore della Banca nazionale degli Stati Sardi e amico personale di Cavour e, successivamente, Governatore della Banca Nazionale del Regno d’Italia dal 1861 al 1882: Il Mezzogiorno non deve essere messo più in condizione di intraprendere e produrre. E negli anni in cui fu a capo della Banca Nazionale tenendo fede a questa sua spiccata vocazione antimeridionalista fu artefice di numerose operazioni finanziarie finalizzate allo sviluppo dell’economia del Nord, soprattutto nella costruzione delle reti ferroviarie settentrionali per le quali ottenne numerose concessioni a detrimento di quelle meridionali. Riprendendo l’analisi di Gramsci, si può in buona sostanza affermare che l’origine della questione dei meridionali bollati come razza inferiore nasce dal fatto, a detta dall’illustre intellettuale sardo, che il rapporto Nord-Sud dopo l’Unità d’Italia fu un tipico rapporto di tipo coloniale che vide le popolazioni del Sud defraudate della loro storia, della loro identità culturale e occupate militarmente. Scriveva il filosofo e romanziere ceco Milan Kundera protagonista della primavera di Praga nel suo Il libro del riso e dell’oblio, un pensiero che è assolutamente calzante con quanto avvenne alle popolazioni meridionali e ai siciliani subito dopo l’Unità d’Italia: Per liquidare i popoli si comincia con il privarli della memoria, si distruggono i loro libri, le loro culture e la loro storia. E qualcun altro scrive loro altri libri, li fornisce di altre culture e inventa per loro un'altra storia. Dopo di che il popolo incomincia a dimenticare quello che è stato. Ed è proprio quello che è capitato alle popolazioni del Mezzogiorno d’Italia nel corso di 150 anni di un forzato e mal digerito processo unitario che ha alle sue origini, come abbiamo visto, aberranti radici antropologiche, xenofobe, razziste e coloniali. Una colonizzazione ed una occupazione militare del Mezzogiorno che, al di là delle frasi di aberrante e vomitevole razzismo nei confronti dei meridionali che abbiamo abbondantemente e documentalmente riportato da parte di liberatori quali Bixio, Cialdini, Covone, D’Azeglio, Nievo, Bombrini e tanti altri, doveva trovare per questo una giustificazione ed una sua legittimazione ideologica, culturale ed anche scientifica tendente a dimostrare l’inferiorità della razza meridionale ed alla gratitudine che si doveva ai settentrionali di esserci venuti a liberare, ma soprattutto a civilizzare. E questo fu lo sporco compito assolto con lodevole perizia, in questa direzione, dalla scuola positivista del socialista Cesare Lombroso che, assieme ad altri antropologi e criminologi quali Alfredo Neciforo, Ferri, Sergi, Orano e Garofalo propugnatori del razzismo scientifico e dell’eugenetica, misero a frutto i diffusi pregiudizi antimeridionali teorizzando l’inferiorità della razza meridionale. Cesare Lombroso antropologo e criminologo, fu nel periodo immediatamente successivo all’Unità d’Italia che elaborò le sue teorie sulla inferiorità etnica dei meridionali, effettuando misurazioni sui crani dei briganti uccisi allo scopo di dimostrare e di ottenere la prova scientifica sulla inferiorità genetica dei meridionali. Lombroso, sfatando il mito di una omogenea razza italica, teorizzò l’esistenza di due tipi di italiani: i settentrionali come razza superiore e i meridionali di stirpe negroide africana razza inferiore. Più avanti, un altro antropologo di scuola lombrosiana, Alfredo Niceforo, propugnatore del razzismo scientifico, come il suo maestro, teorizzò l’esistenza in Italia di almeno due razze. Quella eurasiatica (ariana) al Nord e quella euroafricana (negroide) al Sud e di conseguenza la superiorità razziale degli italiani del Nord su quelli del Sud. Con un particolare, di non poco conto, che l’illustre antropologo, tutto preso dalla elaborazione delle sue folli teorie, vittima della sindrome di Stoccolma, si era dimenticato di essere nato nel gennaio del 1876 a Castiglione di Sicilia e quindi di appartenere ad una razza inferiore! Niceforo in un suo libro del 1898 L’Italia barbara contemporanea, descriveva il Sud come una grande colonia, una volta conquistata e sottomessa, da civilizzare. Questa ideologia della superiorità della razza nordica, al fine di giustificare le rapine e le spoliazioni nei confronti del Sud, fu diffusa - sostiene ancora Gramsci - in forma capillare dai propagandisti della borghesia nella masse del Settentrione. Il Mezzogiorno è la palla al piede - si disse allora come si ripete pedissequamente oggi - che impedisce lo sviluppo dell’Italia. I meridionali sono - secondo la teoria del Lombroso e dei suoi seguaci - biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi per destino naturale e se il Mezzogiorno è arretrato la colpa non è del sistema capitalistico o di altra causa storica, ma del fatto che i meridionali sono di per sé incapaci, poltroni, criminali e barbari. Queste teorie portarono poi nel corso degli anni alla discriminazione razziale nei confronti dei meridionali, come quando nelle città del Nord si era soliti leggere cartelli come questi: Vietato l’ingresso ai cani e ai meridionali. E ancora: Non si affittano case ai meridionali. Era questa la conseguenza della campagna xenofoba e razzista avviata con l’unità d’Italia e che dura ancora ai nostri giorni. Come si può alla luce di tutto questo parlare a tutt’oggi di Unità d’Italia o di memoria condivisa tra Nord e Sud quando dalla storiografia ufficiale ai meridionali è stata sempre negata una verità storica che li relega nel ghetto dell’essere cittadini residuali di questo Paese? E certamente ancor più non ci si può indignare da parte di insigni rappresentanti delle istituzioni se oggi i meridionali, in occasioni di recenti manifestazioni sportive, si ritrovano a fischiare l’inno di Mameli. Questi insigni rappresentanti delle istituzioni - e soprattutto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in testa - da buon meridionale, anziché compiacersi di inaugurare a Caprera, come ha fatto in questi giorni, con la solita usata ed abusata retorica, il museo dedicato alle memorie garibaldine, da buon napoletano, avrebbe fatto bene ad indignarsi per il fatto che a Torino il 26 novembre 2009 è stato inaugurato e riaperto al pubblico il nuovo museo Lombroso ricco di reperti, di fotografie di pezzi anatomici, di crani, di teste mozzate, di documenti e di reperti utilizzati dal criminologo ed antropologo veronese e dai suoi seguaci tendenti a teorizzare la inferiorità della razza meridionale ed a sancire che ancora, ai nostri giorni, esistono due Italie: una di serie A ed una di serie B:quella del Nord civile e progredita, quella del Sud barbara e arretrata. Questo in un Paese civile sarebbe il minimo per indignarsi e far chiudere da parte di istituzioni responsabili, anziché inaugurarne altri, questo deprecabile museo delle menzogne e degli orrori. In Italia purtroppo basta perdere quattro a zero con la Spagna per essere, come sostengono Napolitano e Monti, orgogliosi di una nazionale che unisce gli italiani. Contenti loro...
Storia di Nino Bixio, l’eroe più antipatico del Risorgimento, scrive "Il Giornale" Martedì 13/12/2011. Non era un tipo simpatico. Anzi, a dire il vero, quando gli girava storta ce la metteva tutta per rendersi odioso. Anche perché, scontroso e irascibile per natura, quando la «benda sanguigna» gli calava sugli occhi, e cioè non capiva più niente a causa della rabbia sorda che lo prendeva, diventava talmente aggressivo e violento da non esitare a uccidere. Come, appunto, fece. Eppure, nonostante queste sgradevoli spigolosità del carattere, non c'è dubbio alcuno che Nino Bixio, luogotenente di Garibaldi durante la Spedizione dei Mille nel 1860, sia stato uno dei personaggi più illustri del Risorgimento. A raccontarci l'avventurosa esistenza di questo marinaio genovese che divenne uno dei più stimati generali del suo tempo, senatore del Regno e, infine, armatore di una nave che lo condurrà verso il suo ultimo appuntamento con il destino, è lo scrittore pavese Mino Milani che, per i tipi di Mursia, in questi giorni sta riproponendo un suo libro uscito in prima edizione nel 1977, «Vita e morte di Nino Bixio». A 34 anni di distanza, il libro è ancora intatto nella sua freschezza narrativa e si presenta come un prezioso strumento di consultazione per conoscere meglio i fatti d'arme, le prodezze e gli eccessi di una delle più controverse figure dell'Ottocento italiano. C'è da dire subito che Milani, raccontando le gesta del nostro eroe, non segue un ordine cronologico. Tanto per intenderci, non inizia dalla nascita andando mano a mano a sviluppare le varie fasi della vita. Il racconto parte invece da un Bixio ormai maturo che, andando per mare, rievoca non senza dolore e rimpianti, quello che fino ad allora era stato il suo passato. Lasciamo al lettore il piacere di seguire questo percorso. Adesso, però, per amor di sintesi e di chiarezza, vediamo di inquadrare un po' meglio il personaggio, inserendolo in un preciso contesto storico-sociale. Gerolamo Bixio, che fin da piccolissimo venne subito chiamato Nino, nacque a Genova il 2 ottobre 1821, sotto il segno della Bilancia. A dispetto degli astrologi, però, sarebbe stato molto più a suo agio in un segno di fuoco, vista l'irruenza e l'aggressività che mostrò fin da bambino. Era l'ottavo e ultimo figlio di Tomaso e di Colomba Caffarelli. Contrariamente agli altri figli, forse per il disinteresse che il padre mostrò sempre nei suoi confronti, Nino non venne battezzato. La tragedia affettiva avvenne quando aveva otto anni e la madre morì. Questa perdita lo segnò per tutta la vita. E non fu un caso, visto che anche gli altri fratelli, non appena poterono, si allontanarono da casa, tagliando i rapporti con il padre e la sua nuova moglie. In aula Nino era irrequieto ed un osso duro tanto per i maestri, quanto per i compagni. Lo chiamavano «il terrore della scuola» e nel 1834, a 13 anni, lasciò per sempre i banchi. Il padre, che voleva sbarazzarsi di lui, prima lo fece battezzare, poi lo imbarcò come mozzo su una nave. Fu questo evento, con tutte le spiacevoli conseguenze che il bambino dovette affrontare da solo, a forgiare il carattere di ferro che distinse sempre Nino Bixio. Amò il mare da subito, in seguito si arruolò nella Regia Marina Sarda e, crescendo, divenne fervente mazziniano. Partecipò come volontario nel 1848 alla guerra in Lombardia e nel 1849 a Roma, insieme all'amico Goffredo Mameli. Nel 1850, dopo aver speso buona parte del suo tempo sui libri, superò brillantemente l'esame di capitano di prima classe. Dunque, marinaio, soldato e fiero sostenitore dell'unità d'Italia. Quanto bastava per diventare nel 1860 secondo di Garibaldi nella Spedizione dei Mille, dove si distinse per coraggio, capacità di comando e qualche indimenticabile eccesso. Vediamone qualcuno, tanto per avere un'idea di chi fosse Nino Bixio. In Sicilia, durante una sosta della marcia su Palermo, Bixio passando a cavallo, vede dei volontari siciliani che si stanno riposando. Imprecando, comincia a urlare: «Ma chi comanda qui?». Allora si fa avanti il capo dei volontari, uno dei più noti garibaldini della prima ora, e risponde: «Sono io che comando, il generale La Masa». «Macché generale La Masa, lei è il generale la merda», gli grida in faccia. Quello, senza pensarci due volte, sfodera la sciabola e si avventa contro Bixio, cominciando a duellare. Soltanto l'intervento del colonnello Sirtori, con la sua pacatezza lombarda, fece interrompere il duello prima che si arrivasse all'irreparabile. Una decina di giorni dopo, altro increscioso episodio. A Palermo si stavano svolgendo i funerali del volontario ungherese Luigi Tukory e Bixio, passando accanto ad un colonna di garibaldini che stavano trasportando un grosso carico di armi, li ferma e ordina loro di seguire il corteo funebre. Il loro comandante, Carmelo Agnetta, lo guarda e replica che lui prende ordini solo da Garibaldi. E gli chiede: «E lei chi è?». Non l'avesse mai fatto. Bixio scende da cavallo, gli si avvicina e gli assesta un poderoso manrovescio. Agnetta sfodera la sciabola e i due cominciano a scambiarsi fendenti, fino a quando non interviene Garibaldi in persona che mette Bixio agli arresti. «Come potete comandare diecimila uomini - gli dirà severo - voi che non sapete comandare a voi stesso?». Per inciso, Agnetta non volle passare sopra all'incidente e il 17 novembre 1861, a Brissago, in Svizzera, i due si sfidarono a duello. Il colpo di pistola di Agnetta fracassò la mano destra di Bixio, che da quel giorno perse la normale mobilità delle dita. Stranamente, poi i due diventarono grandi amici. Ancora peggio fu quello che accadde a Paola, in Calabria, l'11 settembre 1860. Un vapore, l'Elettrico, doveva trasportare truppe garibaldine a Napoli. Per fare imbarcare tutti, Bixio aveva ordinato che ognuno stesse in piedi. Quando però arrivò sul ponte della nave, vide che alcuni volontari bavaresi, erano seduti per terra. Prese allora una carabina e, urlando e imprecando, cominciò a colpirli selvaggiamente. Un giovane trombettiere ungherese, colpito alla testa, morì con il cranio sfondato. Gli altri si avventarono su quella furia umana e poco ci mancò che Bixio non venisse cacciato in mare. Garibaldi, in seguito, lo fece mettere agli arresti dicendo agli ufficiali che chiedevano la sua testa: «Trovatemi un altro Bixio, e io faccio subito fucilare questo». Alla storia passarono anche i fatti di Bronte. Dal momento che i Borboni avevano regalato la cittadina all'ammiraglio inglese Nelson, i britannici si rivolsero a Garibaldi per mettere fine alla rivolta contadina che aveva insanguinato la zona. Gli insorti, guidati dall'avvocato Lombardo, avevano già ammazzato quindici persone a caso e ora si temeva il peggio. Così Garibaldi inviò Bixio, il quale fece allestire un processo, individuò cinque presunti responsabili, tra i quali Lombardo, e li fece fucilare. La fretta con cui tutto questo avvenne, fu tale che si parlò apertamente di strage di innocenti, in quanto i veri responsabili erano già fuggiti da un pezzo. Comunque sia, Bronte restò per sempre una macchia nella carriera di Bixio. Potrei continuare ancora per un pezzo a citare episodi e avventure, ma toglierei al lettore il piacere della lettura. In sintesi, dopo il 1860 Bixio diventò generale dell'esercito italiano, senatore del Regno e un bel giorno, stanco di ciondolare in Parlamento, gli tornò una gran voglia di riprendere il mare. Indebitandosi fino agli occhi, fece costruire in Inghilterra una grande nave mista motore-vela che guidò verso l'Oriente, per stabilire una linea commerciale con l'Italia. Non tornò mai più. Colpito dal colera, alle 9 del 16 dicembre 1873 morì tra atroci dolori sulla sua nave. Il corpo infetto, chiuso in una cassa metallica, fu sepolto nell'isola di Pulo Tuan, che nella lingua locale significa Isola del Signore. Tre indigeni disseppellirono la cassa, denudarono il cadavere e poi lo riseppellirono alla buona vicino ad un torrente. Due di loro, infettati dal colera, morirono in 48 ore. Pochi resti di Nino Bixio, vennero rintracciati, grazie al terzo indigeno, soltanto nel giugno del 1866. Le ossa vennero cremate il 10 maggio del 1877 nel consolato italiano di Singapore. Il 29 settembre le ceneri giunsero infine a Genova dove una folla immensa si unì alla moglie e ai quattro figli per accompagnare l'urna al cimitero di Staglieno, dove si trova tuttora.
Risorgimento: nel sud Italia sfatato il mito degli eroi dell’Unità, scrive il 14/02/2017, Paolo Signorelli su “L’Ultima Ribattuta". Sfatato il mito del Risorgimento. Almeno nel Sud Italia, dove sono sempre di più i municipi che hanno deciso di rimuovere busti e cancellare le vie dedicate ai protagonisti dell’Unità. L’inchiesta della “Verità” ha svelato questo particolare e significativo retroscena. Qualche esempio? Il generale Enrico Cialdini, che si è visto togliere il proprio monumento dalla Camera di commercio di Napoli, perché considerato un “criminale di guerra”. La “rappresaglia” ha colpito poi anche Giuseppe Garibaldi, definito “un massacratore”, così come Nino Bixio e Camillo Benso conte di Cavour che avrebbe appoggiato proprio Cialdini nel reprimere il brigantaggio nel Sud Italia tra il 1861 e il 1865. Ad avanzare la proposta di rimuovere busti e vie il consigliere di Fratelli d’Italia Andrea Santoro, che, affiancato a sorpresa pure dalla sinistra (una volta tanto destra e sinistra d’accordo), ha dunque dato voce all’ira comune covata verso i modi violenti con i quali il Mezzogiorno è stato aggregato al Piemonte. Cialdini, “sfrattato” da Bari, Lamezia Terme e Catania, non è stato cancellato solo nel Sud Italia, ma anche al Nord, più precisamente a Mestre, da una via della periferia. “Uno dei più ‘benevoli’ criminali di guerra”, è stato definito da Sebastiano Bozio della sinistra unita. Evidentemente ciò che viene propinato e scritto nei libri di scuola non convince del tutto. Per chi volesse farsi una cultura precisa e dettagliata su quegli anni, il consiglio è quello di spostare la propria attenzione su altri volumi di storia.
"La Resistenza è solo un falso mito. La retorica della Liberazione è finita". Parla Arrigo Petacco, giornalista, storico e scrittore. "Sono state dette molte balle", scrive il 24 Aprile 2016 “Il Tempo".
«Il 25 aprile, finché c’è stato il Partito comunista italiano, è stato molto festeggiato. Adesso assai meno perché sulla Liberazione e sulla Resistenza ci hanno costruito sopra un sacco di castelli di carta». A parlare, in questa intervista a Il Tempo è Arrigo Petacco, giornalista, storico, scrittore, autore anni fa della celebre intervista ad Indro Montanelli in cui il giornalista toscano parlò della guerra in Abissinia cui aveva partecipato, dicendo che «era come il West per gli americani: la nuova frontiera, un paese nuovo dove costruirci un’esistenza diversa. Andammo laggiù pure per sfuggire alle liturgie del regime. Ma anche lì arrivarono i gerarchi tronfi e buffoni. Fu il trionfo delle bischerate di Starace. Ci sentimmo traditi».
Petacco, quali sarebbero i castelli di carta?
«Diciamolo chiaramente, se non ci fossero stati gli americani la Resistenza non ci sarebbe mai stata. Si tratta di una retorica enorme e anche di qualche balla. All’epoca al Pci della patria non gliene fregava niente e il gruppo storico dei comunisti "inventò" il mito della Resistenza affinché sembrasse una lotta di popolo».
Non starà esagerando?
«L’hanno fatta in ottantamila partigiani che, poi, non erano neppure comunisti. Io sono stato un partigiano quando avevo 16 anni. Pochi anni dopo la guerra scrissi un libro, senza mitologia, "I ragazzi del 44", la storia di un partigiano un po’ per caso alle prese con problemi più grandi di lui, che mi venne rifiutato. Trenta e passa anni dopo, quando ero divenuto famoso per altre cose, me lo pubblicarono. Mi viene in mente il mito dei garibaldini dopo l’Unità d’Italia».
Che c’entrano i garibaldini con il 25 aprile?
«Ai tempi dell’Unità nazionale i garibaldini erano degli eroi del momento poi, col passare del tempo ne rimase solo uno, ma tutti si dicevano garibaldini. Oggi i partigiani che hanno fatto la Resistenza son tutti morti. O quasi. Ma sul mito della Resistenza, come sull’essere stati partecipi alla spedizione dei Mille ai tempi di Garibaldi, sono state costruite carriere, anche da chi non c’era affatto. Molte persone, io li definisco i partigiani del giorno dopo, ne han fatto una professione, magari con un bel fazzoletto rosso al collo».
Se come lei sostiene la Resistenza è stata un falso mito, perché gli italiani ci credono da così tanto tempo?
«Ci han creduto perché gli italiani son fatti così, come hanno fatto a credere per 20 anni a Benito Mussolini?».
Vuol dire che al popolo italiano piace salire sul carro del vincitore?
«Dopo il Risorgimento i famosi Mille di Garibaldi erano diventati 25mila. È normale salire sul carro del vincitore, lo fanno anche negli altri paesi, solo che in Italia lo facciamo con più entusiasmo».
C’è un libro che avrebbe voluto scrivere e non ha scritto?
«Sulla Resistenza "Il sangue dei vinti", l’ha scritto il giornalista Giampaolo Pansa, sulle esecuzioni e i crimini dei partigiani, un libro che ha avuto successo perché scritto da un giornalista che era visto come un uomo di sinistra».
Che intende dire?
«Che quelle critiche così feroci sulla Resistenza scritte da uno non di sinistra sarebbe state considerate una lesa maestà. Adesso le racconto una confidenza: negli anni Settanta, un editor della Mondadori, mi disse che era arrivato il tempo di scrivere un libro contro la Resistenza, ma io non ho mai avuto il coraggio di scriverlo. Pansa ha scritto la verità, verità che alcuni fascisti avevano già scritto prima di lui ma nessuno ci credeva, penso ad esempio a un fascista come Giorgio Pisanò. Non gli hanno creduto perché era ancora un fascista convinto e lo accusavano di essere un diffamatore».
Sul fascismo ha scritto diversi libri revisionisti. Lo rifarebbe?
«Io ho rotto un tabù, a sinistra mi hanno definito un revisionista, ma io me ne vanto».
Tempo fa sul Blog di Beppe Grillo ha sostenuto che Mussolini non fece uccidere Giacomo Matteotti. Ne è sicuro?
«Mussolini non aveva nulla a che fare con l’omicidio Matteotti, che fu ucciso dai fascisti che volevano impedire a Mussolini di fare un governo coi socialisti. Tenga presente che eravamo nel 1924, prima della svolta autoritaria. Mussolini ripeteva che gli avevano gettato il cadavere di Matteotti tra i piedi. Uno storico serio ha il dovere di spiegare che Mussolini non aveva nessun vantaggio dall’assassinio di Matteotti».
Una previsione: domani per il 25 aprile si riempiranno le piazze?
«In piazza andranno in pochi, la retorica della Liberazione e della Resistenza è finita».
E Foscolo suggerì il politically incorrect, scrive Aldo Bello. Se ne stavano lassù, tutti e quattro, gomito a gomito, sorridenti e benevoli: Cavour, Garibaldi, Mazzini e Vittorio Emanuele vegliavano dall’alto dei cieli e dei salotti buoni sulle sorti dell’Italia unita, dimentichi di tutto ciò che li aveva divisi quando erano vivi. Così, almeno, li dipingeva l’oleografica mitologia risorgimentale. Una bella favola, naturalmente, di quelle che gli italiani amavano sentirsi raccontare. Il punto è: quanto a lungo è lecito credere nelle favole? Non c’è un momento in cui, riflettendo sul passato, lo si deve ripercorrere criticamente, senza nascondersi più nulla, e soprattutto senza cadere nella politicizzazione tipica degli storici italiani? In ultima analisi: è lecito, ed è giusto, sbarazzarsi una volta per tutte dei miti storici nazionali, si chiamino Cavour o Mussolini, Risorgimento o Resistenza? Il nodo gordiano ha un nome: revisionismo. Attaccato dalla storiografia di sinistra (ma difeso a oltranza da Paolo Mieli), l’aborrito revisionismo torna a far parlare di sé. Era già accaduto, tanto per non andar lontano, con la storia italiana raccontata da Montanelli, e più recentemente con quella dei Savoia narrata da Del Boca e dell’identità civile degli italiani, rivisitata da Umberto Cerroni. Da poco, però, è uscito un libro scritto a più mani (Belardelli, Cafagna, Galli della Loggia e Sabbatucci), dal titolo Miti e storia dell’Italia unita, che ha dato un’indicazione precisa: è necessario sgomberare la storiografia dalle falsificazioni dovute all’egemonia della sinistra ideologica. Punto di domanda: tutti cattivi gli eredi di Nenni e di Togliatti? Non si può essere apodittici fino a questo. Si tratta comunque di abbattere le mitologie e di favorire il dibattito, senza più nascondersi, ad esempio, «che il consenso al fascismo fu alto, l’Italia venne liberata dagli angloamericani, la Resistenza fu un fenomeno minoritario». E’ vero che la storia è scritta dai vincitori, ma questo non significa che si debbano accogliere dogmaticamente le ricostruzioni interessate che «divinizzano gli avvenimenti», riordinano le vicende «secondo un percorso rettilineo, dove il bene è presente dall’inizio alla fine», o ancora «spostano nel futuro la bontà di quanto hanno fatto, cercandone insomma una conferma a posteriori». Ed è altrettanto vero, come sostiene Belardelli, che «i miti a volte svolgono una funzione importante ed è certo che in Italia Risorgimento e Resistenza abbiano favorito la coesione nazionale». Il guaio comincia quando «questi miti durano troppo a lungo», irrigidendosi in ideologie totalizzanti: «Allora, invece di far sì che tutti possano riconoscersi in una storia comune, si comincia a chiedere ai cittadini di inchinarsi acriticamente ai miti collettivi». Allora, i miti vanno maneggiati con circospezione, e soprattutto non vanno utilizzati come alibi. Tanto per fare un esempio, «il mito dell’antifascismo italiano di massa, e del popolo in armi, non poteva che prestarsi a un sentimento di autoassoluzione collettiva». Anche se Denis Mack Smith aveva già notato ironicamente che, dopo l’orribile macello di Piazzale Loreto, la popolazione italiana miracolosamente raddoppiò: ai 45 milioni di fascisti della prima ora e delle ore successive si sommarono 45 milioni di antifascisti dell’ultima ora. (E’ appena il caso di ricordare che tre libri editi nel giro di qualche mese hanno messo a nudo l’antifascismo d’accatto di quanti, poi, di antifascismo come rendita hanno vissuto: La cultura a Torino tra le due guerre, di Angelo d’Orsi; La cultura fascista, di Ruth Ben-Ghiat; e Il giuramento rifiutato. I docenti universitari e il regime fascista, di Helmut Goetz, nel quale si documenta che non giurarono solo 12 professori universitari su 1.225). Per completezza d’informazione, riferisco che è persino ovvio che non tutti ci stiano, a demitizzare. Secondo Gaetano Arfé, uno dei padri della storiografia socialista, «anche i miti fanno parte della storia, e hanno avuto la grande funzione di consolidare la coscienza nazionale. Penso, ad esempio, all’interpretazione di Croce: il Risorgimento come epopea sabaudo-garibaldina. E poi dobbiamo considerare i differenti revisionismi storici [...]. Ci fu, ad esempio, quello fascista contro l’Italietta». E un altro storico, il cattolico Giorgio Rumi, allarga il discorso: «Le lenti deformanti sono tante: c’è lo scorrere del tempo, l’interesse, la deformazione professionale, l’ideologia. Certo però che se per mito si intende il progetto politico e l’ascendenza intellettuale, il sentimento e il risentimento, bisogna ammettere che tutto questo pesa». Secondo Rumi, la verità è che «la storia moderna è ormai passata dall’età dei notabili e dei professori a quella dei giornalisti. Il che porta un certo svantaggio, l’anarchia, ma anche un vantaggio: il potere non può più imporre tanto facilmente la propria egemonia, o visione del mondo». Personalmente ringrazio, non in nome della corporazione, che include troppi diplomati in scienze confuse, ma nel ricordo di Federico Chabod, che mi ebbe allievo apprezzato alla “Sapienza”, ahimè, non ricordo più quanti anni fa! Tornando al nostro discorso: allora, avanti col revisionismo? Risponde Montanelli: «Potrei parlar male del revisionismo, io che non ho fatto altro per tutta la vita? Ai nostri storici sono mancate due cose: la capacità di raccontare e quella di demitizzare...». In una recente Storia dell’Italia contemporanea lo storico inglese Martin Clark ha notato che da noi «gli storici cattolici scrivono una storia ossequiente verso la Chiesa; gli storici marxisti scrivono la storia dei sindacati e dei partiti dei lavoratori; gli storici liberali scrivono in lode dell’Italia liberale», e ha attribuito la connotazione politica della storiografia al «corporativismo» della società italiana. Punto di partenza corretto, nelle linee generali, ma conclusioni affrettate. La corporativizzazione, che pure esiste, ha scarsi rapporti con l’esistenza di una forte politicizzazione degli storici. Questa, infatti, ebbe origine nell’800, all’inizio del processo risorgimentale. Quando Ugo Foscolo esortava gli italiani a studiare la storia, compiva già un’operazione politica. Per i patrioti contemporanei era necessario costruire una tradizione che giustificasse la richiesta dell’indipendenza e dell’unità, e questo fu il compito degli storici. Alcuni svolsero anche una diretta e intensa attività politica: ad esempio, Luigi Carlo Farini, autore di una Storia d’Italia, nel 1859-60 ebbe incarichi di rilievo nell’annessione dell’Emilia e dell’Italia meridionale. Scrisse Farini: «Lanci la prima pietra colui il quale, versandosi col consiglio e coll’opera nelle cose degli Stati, può testimoniare che non parteggia». Fino al 1860, gli storici “parteggiarono” soprattutto per l’Italia, ma le divergenze tra monarchici e repubblicani, tra laici e neoguelfi, tra unitari e federalisti, tra rivoluzionari e moderati ebbero comunque sulla loro attività una rilevante influenza, che si accentuò dopo l’unificazione. Ci furono, come ha rilevato uno dei maggiori storici italiani, Walter Maturi, una scuola moderata e una scuola democratica. E ci furono anche storici “reazionari”, che guardavano con nostalgia ai Borbone. Già alle origini della vita unitaria dello Stato italiano, dunque, la storiografia fu di “partito”: per essa, da un lato c’era il Bene e dall’altro il Male, da una parte c’erano «gli eletti e dall’altra i reprobi, i delinquenti, o nel più indulgente dei casi, i matti e gli scervellati». Lo storico di partito, osserva Maturi, si scagliava spesso contro l’avversario politico «con la stessa foga con la quale un pubblico ministero addita ai giudici un accusato come nemico pubblico». Maturi descriveva i caratteri della storiografia risorgimentale, ma con ogni probabilità pensava ai colleghi contemporanei che si scontravano in battaglie scientifiche che avevano molto spesso un forte spessore partitico. Persino durante il fascismo le contrapposizioni non mancarono. Mentre Gioacchino Volpe fondava la scuola fascista, era ancora in piena attività uno dei maggiori rappresentanti della scuola storica monarchica, Alessandro Luzio. Questi voleva lo storico simile a un buon presidente di Corte d’Assise che dirigesse imparzialmente il dibattimento, pur senza mancare di enunciare le proprie convinzioni, per “orientare” la giuria. In realtà, si comportava ora come un pubblico accusatore, ora come un avvocato della difesa. Certo, durante il ventennio, il dibattito era quasi cifrato. Se Luzio, dovendo scegliere tra i Savoia e Cavour, si schierava per i primi, a difesa dello statista piemontese scendevano in campo gli storici liberali. A Mussolini Cavour piacque sempre poco, e celebrarlo, come faceva, per esempio, Adolfo Omodeo, poteva avere in quegli anni, almeno agli occhi degli iniziati, un significato antifascista. Più apertamente polemica era la posizione di un Nello Rosselli, che prima di cadere in Francia per mano di un sicario pagato dall’Ovra, pubblicò studi su Bakunin e sul socialismo italiano. Si capisce allora perché le polemiche storiografiche siano divampate nel dopoguerra, in un’atmosfera fortemente seguita da dure contrapposizioni ideologiche. Questo però non chiarisce il carattere partitico di ampi settori della storiografia italiana e non spiega soprattutto perché, con rare eccezioni, i comunisti abbiano preferito studiare il movimento comunista, i cattolici quello democristiano, e così via. Per capirlo, bisogna riflettere sulla connotazione etica assunta dai partiti italiani dopo il 1945. Essere comunista, democristiano o liberale significava non tanto accettare un programma politico, quanto avere una particolare concezione della vita, in cui in qualche misura rientrava anche un certo modo di considerare i fatti storici. Va detto che talora le contrapposizioni ideologiche, nelle figure ovviamente di maggior caratura, hanno registrato anche influenze non del tutto negative. Se hanno trasformato in parecchi casi gli storici in pubblici ministeri, hanno anche improntato la ricerca ad una passione civile che ha dato una connotazione positiva alla storiografia italiana. E ci sono stati anche i risultati scientifici. I lavori dei “Patrioti dell’800” (Luigi Carlo Farini, Vincenzo Cuoco, Cesare Balbo, Carlo Cattaneo), dei “Fascisti” (Gioacchino Volpe, Luigi Pareti), degli “Antifascisti” (Adolfo Omodeo, Luigi Salvatorelli, Gaetano Salvemini, Nello Rosselli), dei “Cattolici” (Arturo Carlo Jemolo, Gabriele De Rosa, Pietro Scoppola, Giorgio Rumi), dei “Marxisti” (Paolo Spriano, Ernesto Ragionieri, Franco De Felice, Enzo Santarelli) e dei “Liberali” (Renzo De Felice, Federico Chabod, Rosario Romeo, Ernesto Galli Della Loggia) hanno rappresentato complessivamente dei contributi importanti alla conoscenza della società italiana della seconda metà del XX secolo. Una corposa novità fu introdotta da Renzo De Felice, perché il suo interesse per la biografia di Mussolini fu quasi del tutto politicamente disinteressato: non era fascista quando cominciò a studiarla, non lo diventò quando la scrisse. Ma l’argomento bruciava, e diventò subito terreno di scontro fra destra e sinistra. C’è stata anche battaglia su altri argomenti: per esempio, sulla tesi del “Doppio Stato” (democraticamente costruito nella facciata, sostenuto da golpismo e complottismo di forze occulte nella realtà), sostenuta da Franco De Felice e Nicola Tranfaglia, e respinta come mitologia (e falsificazione della storia) da Galli Della Loggia e da Giuseppe Vacca. E c’è stata una rovente discussione sulla storia del comunismo italiano (esplosa dopo la pubblicazione del Libro nero, che è stato un best seller per parecchio tempo), non solo su quel che riguarda Togliatti, difeso dal suo biografo Aldo Agosti e attaccato da altri, come Elena Aga Rossi, ma anche per quel che concerne Gramsci, conteso da più parti, e da più parti ridimensionato.
Revisionista chi? Revisionista è colui che, sulla base di nuovi documenti e di nuovi punti di vista, mette in discussione una versione del passato discutibile ma seria. «Dunque, io non sono un revisionista»: parola di Sergio Romano, saggista, ex ambasciatore, con l’aggravante di essere giornalista che, interessandosi di storia, non è gradito all’accademico Rumi. Bene. Revisionista, in fondo, è chi mette a nudo i conformisti. Ma lui, Romano, fa di più: mette alla gogna i bugiardi: «In Italia vi è una larga area dell’intellighenzia che si attende qualcosa da chi esercita il potere: un posto, un riconoscimento, una carriera. Negli altri Paesi non è così. Negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, è molto più grande il numero di persone, nel mondo accademico e giornalistico, che non dipendono dal potere politico. La stessa Francia, che pure tanto ci somiglia, ha mantenuto un criterio di selezione meritocratica: chi ha frequentato le “Grandi Scuole” ha messo in casa un capitale di autorità e prestigio da cui nessun capo di Stato o di governo può prescindere». In Italia, invece, gli esponenti dell’intellighenzia hanno fatto riferimento soprattutto al Partito comunista e alla sinistra, e nessuno di costoro può sopportare di essere sconfessato nella propria storia passata: «La loro sensibilità è particolarmente acuta non tanto per quel che riguarda lo stalinismo, sul quale una revisione è stata fatta, bensì quando è in gioco il modo in cui è stata raccontata la storia dei dieci anni che vanno dal 1936 al 1945». Una storia in cui sinistra e Pci hanno dato prova di straordinaria coerenza democratica e antifascista: raccontata così, questa storia è una bugia. «Non è vero, infatti, che in quei dieci anni la storia dei comunisti sia stata coerentemente democratica e antifascista. Il loro punto di riferimento era l’Urss, e l’Urss si comportava, legittimamente, da grande potenza, con molta spregiudicatezza, cambiando campo quando riteneva di doverlo fare. Se all’inizio della guerra di Spagna il fronte era fascismo contro antifascismo, dal 1937 in poi i comunisti presero il controllo della situazione, eliminando i socialisti, gli anarchici, i sindacalisti, oltre ai preti e alle suore: si mossero in una prospettiva che non aveva più nulla di democratico. A partire da quel momento la guerra non fu più tra fascismo e democrazia, ma tra due versioni ugualmente totalitarie». Già nell’agosto del ‘39 l’Urss si era messa d’accordo con la Germania per la spartizione dell’Europa centro-orientale. E’ ovvio chiedersi che cosa sarebbe accaduto se, oltre ad impossessarsi di quella parte del Vecchio Continente, in quel momento l’Urss avesse controllato anche la Spagna. La Storia avrebbe sospeso il suo corso, se l’intera Europa fosse diventata un’unica “Repubblica Popolare”, un deserto bulgaro della politica, dell’economia, delle scienze e persino dell’arte? Eppure, nella mitologia ideologica italiana, per decenni quel deserto ci è stato rifilato come il paradiso sul quale vegliava la “Grande Madre Urss”, condizionando l’evoluzione politico-sociale italiana col blocco Dc-Pci. Non solo. Ancora oggi si stenta a leggere in chiaro, e con una visione oggettiva, che cosa fu lo “schema alleato della storia”, vale a dire la lettura del mondo che diede luogo all’Alleanza tra Stati Uniti e Urss nella seconda guerra mondiale. Mezza Europa, come abbiamo appena detto, fu consegnata a Stalin in funzione di quella grande alleanza, di un connubio che travolse l’intero continente. Lo si vide nel momento in cui Francia e Inghilterra furono obbligate a liquidare il proprio impero coloniale, considerato come imperdonabile colpa dell’Europa, nel momento stesso in cui il megaimpero sovietico, coloniale anch’esso, era presentato come bandiera della lotta al colonialismo occidentale. Allo stesso modo, ha prodotto storia non veritiera l’alleanza di una parte dell’ebraismo con una parte della sinistra. Io non so se questo 2000 rappresenti la fine di un secolo-millennio o l’inizio di un altro secolo-millennio. Lascio questi calcoli ai sofistici, perché ritengo il tempo una convenzione tutta umana. Ma credo che, se un’immagine c’è come linea di displuvio fra due epoche, come linea polare dell’una e linea aurorale dell’altra, è quella di Giovanni Paolo II che consegna a quello che noi chiamiamo il Muro del Pianto e che gli israeliani chiamano invece il Muro Occidentale il suo messaggio del “perdono”. Perdono per chi? Si è giocato parecchio sull’equivoco. Si è sostenuto, infatti, che la Cristianità «ha chiesto il perdono», e questo è vero, ma non è tutta la verità. Perché per bocca di Woityla la Cristianità ha simultaneamente «offerto il perdono». La parola profetica del Papa ha minato alla base la tragica equazione memoria storica uguale progetto di vendetta. Quella parte dell’ebraismo aveva deciso di raccontare il genocidio nazista come un avvenimento sottratto alle leggi della storia, affinché non perdesse il suo valore emblematico e risultasse l’espressione concreta di un’ostilità di fondo della società cristiana. Questa intenzione ha coinciso con la tendenza di una parte della sinistra di fare del nazifascismo una categoria storica permanente. Ma ora è più che mai inaccettabile che il mondo cristiano debba quotidianamente discolparsi dall’accusa di antisemitismo, così come è assurdo che le democrazie liberali debbano quotidianamente dimostrare di avere espulso il virus totalitario che avrebbero nel proprio Dna. Qualunque cosa scrivano le anime belle dell’ormai arcaico mondo radical-chic, l’arcipelago lager è altrettanto emblematico dell’arcipelago gulag. Ne hanno preso coscienza in Germania e, sebbene a decenni di distanza, in Russia. E non è un caso se ora gli Stati Uniti non scelgono come punto di riferimento in Europa gli antichi alleati dei conflitti mondiali del Novecento, ma proprio la Germania e la Russia. Non diceva Marx che i fatti hanno la testa dura? Intanto, mentre una parte degli storici nostrani continua a battersi sul confine tra storia e politica, un’altra parte, via via più consistente, formata specialmente da giovani, sta abbandonando questo terreno per spostarsi su quello delle scienze sociali, seguendo l’esempio dei medievisti e dei modernisti. L’abbandono della storia politica (partitica) per una più vasta storia della società in tutti i suoi aspetti (economia, demografia, stratificazioni e comportamenti sociali, mentalità) fa sperare che tra non molto le passioni civili non costituiranno più l’unica, fondamentale motivazione della ricerca. Non so dire se sia un bene o un male, ma è quantomeno una scelta del tutto comprensibile, dato il mediocre livello dell’attuale vita politica e dell’odierna cultura italiana.
Dibattito. Resistenza e revisionismo. "La politica contro la storia". Il libro di Paolo Mieli sul revisionismo. Le opinioni di Salvadori, Campi, Macrì, Perfetti, Rumi, Tranfaglia e Messori. Di Michele Brambilla.
Da una parte i buoni, dall'altra i cattivi: così siamo stati abituati, per molti anni, a leggere la storia. Buoni erano, per esempio, tutti gli artefici del Risorgimento italiano - i Savoia, Cavour, Mazzini, Garibaldi; e cattivi erano Pio IX e i Borbonì. Buono come il popolo italiano che aveva dovuto subire il fascismo, al quale si era poi ribellato con un movimento di massa chiamato Resistenza. Cattivi erano tutti i totalitarismi di destra, mentre quelli di sinistra erano - se non buoni nella realizzazione - perlomeno buoni nelle intenzioni. Una storia dogmatica, indiscussa e indiscutibile. Poi è arrivato Renzo De Felice, che ricordò il consenso popolare di cui il fascismo, a un certo punto, godette. Libri duramente e chiaramente antifascisti, quelli di De Felice; chi li ha letti lo sa. Eppure De Felice, solo per avere rotto lo schema fissato dalla storiografia dominante dopo il '45, è stato considerato un para fascista. Da quelle polemiche su De Felice - anni Settanta - molto tempo è passato, e da allora altri schemi storiografici sono stati ridiscussi, molti altri studiosi hanno cercato di reinterpretare la nostra storia, soprattutto dal Risorgimento in poi. Ma spesso a questi studiosi è stata appiccicata un'etichetta squalificante: l'aggettivo "revisionista" una sorta di marchio d'infamia affibbiato indistintamente sia agli storici seri che tentano di approfondire sia a personaggi inquietanti come i cosiddetti 'negazionisti'. Così siamo arrivati a una paradossale situazione: da un lato, il dibattito sulla storia è molto più vivace di vent'anni fa; dall`altro questo dibattito è viziato da una sorta di scomunica rivolta verso coloro che portano nuove interpretazioni del passato. A questo tema Paolo Mieli ha dedicato il suo nuovo libro, Storia e politica, che appena uscito da Rizzoli ha già provocato un vivace dibattito tra Sergio Romano, Lucio Villari, Luigi La Spina. Dino Cofrancesco e Stenio Solinas, e che venerdì scorso è rimbalzato in un acceso confronto al Salone del libro di Torino tra lo stesso Mieli e Denis Mack Smith. Secondo Mieli, questa scomunica che i custodi della storiografia ortodossa rivolgono ai "non allineati" è originata dal timore che un nuovo punto di vista sul passato possa comportare un nuovo punto di vista sul presente. Insomma: dal timore che la rilettura dei fatti di ieri possa avere una ricaduta politica sull'oggi.
Scrive Mieli che questa paura, questo freno a mano tirato ai danni della libertà di ricerca storica è un fatto solo italiano: "Qui da noi, quel naturale sconfinamento della politica, quando non dalla Sinistra più ortodossa, genera, invece, un clima di sospetto e intolleranza". Aggiunge Mieli: «Qui da noi l'intreccio tra politica e storia ha prodotto qualcosa di esiziale. Perché non si è risolto il fecondo rapporto tra l'ovviante mutevole punto di vista sul' oggi e il riesame delle vicende di ieri, bensì si è imposto come dogma del presente che restringe il campo visuale del passato. Come se ci dovessimo continuamente difendere da un pericolo. Dal rischio che una ricerca sia pure la più stravagante, la più bizzarra potesse mettere a repentaglio qualcosa di prezioso per il nostro vivere civile. Invece niente è più pericoloso di questo atteggiamento merito sanzionatorio». Mieli termina l'introduzione al suo libro con un appello: «Si aprano tutti i libri, si discutano con garbo le tesi più diverse dalle nostre. Si rifugga, come ha opportunamente esortato a fare Barbara Spinelli, dall' uso improprio e calunnioso dell'aggettivo "Revisionista".
Massimo Salvadori, docente di Storia delle dottrine politiche all' Università di Torino, non è d'accordo con Mieli sul fatto che sia la Sinistra a scomunicare come "revisionisti" tutti coloro che portano nuovi punti di vista sulla storia: «lo credo che non abbia molto senso dire che la Sinistra si oppone a nuove interpretazioni storiografiche. Intanto perché oggi non esiste più una Sinistra ideologica che porta avanti una visione del mondo. Non c'è più il Pci che imponeva, con i suoi intellettuali organici, un'interpretazione marxista della storia. E poi ricordiamoci che molte rivisitazioni del passato sono venute, in questi anni, proprio da uomini di sinistra: pensiamo al discorso dì Violante sulla guerra civile del '43-45, e al libro di Pavone sulla Resistenza. «Detto questo» continua Salvadori, «sono d'accordo che sia assurda la connotazione negativa data al termine revisionista: la ricerca storica è per sua natura una continua revisione del passato. Ci mancherebbe che non si potessero mettere in discussione le tesi consolidate. Certo, non tutto è "revisionabile": quando sento dire che partigiani e repubblichini vanno messi sullo stesso piano, oppure che il Risorgimento ha cancellato l'eredità positiva del regionalismo, non posso non oppormi».
Diverso il parere di una delle vittime di "quell' atteggiamento sanzionatorio" di cui parla Mieli: Alessandro Campi, ricercatore di Storia delle dottrine politiche all'Università di Perugia e autore di una biografia di Mussolini pubblicata dal Mulino. Il libro cerca di comprendere il rapporto tra il fondatore del fascismo e la storia italiana; ma siccome è uscito nella collana diretta da Ernesto Galli della Loggia, uno degli storici scomunicati da una certa Sinistra, subito è stato messo all' indice dei testi inaccettabili. Da gente che, magari, il libro non lo ha neppure letto. «Il fatto è», dice Campi, «che c'è una cultura del sospetto. Si ragiona "per cordate": quello lavora con Galli della Loggia, se ha scritto del fascismo, chissà dove vuole andare a parare». Un sospetto, continua Campi, che avvelena il lavoro dello storico: «Se uno va a Mosca a cercare documenti sull'Unione Sovietica, subito c'è qualcuno che dice: ecco, è alla ricerca del colpo grosso per favorire la Destra. Ci si dimentica che uno storico scrive invece per la semplice ragione che sta facendo il suo lavoro. Sono d'accordo con Mieli: c'è una guerra sulla storiografia combattuta per fini di politica interna, attuale. Davvero un brutto clima: pensi che Bocca ha parlato di "pidocchi revisionisti". Sono scoraggiato: non si riesce a dialogare serenamente, vien voglia di ritirarsi, di starsene fuori». «Il risultato di questo clima», dice ancora Campi, «sarà che tra dieci-quindici anni la nostra storiografia sarà così indietro che, per studiare la storia d'Italia, bisognerà leggere i libri degli stranieri. Già oggi gli studi più avanzati sul fascismo vengono dal mondo anglosassone». Rimedi possibili? «Occorre che i personaggi più autorevoli dei due schieramenti, che per semplicità chiamo defeliciani e antidefeliciani, intervengano per dire «basta" e favorire un dialogo sereno». Ma il dialogo non è facile. Proprio in questi giorni il settimanale Diario ha pubblicato un numero speciale intitolato «Libro di storia» e dedicato alle nuove interpretazioni degli avvenimenti italiani dal Risorgimento al fascismo. E un durissimo atto d'accusa proprio contro Mieli, Sergio Romano ed Ernesto Galli della Loggia. Nel sottotitolo, in copertina, si legge: «Esistevano i buoni, esistevano i cattivi. Ma adesso che è passato molto tempo, si rimescolano le carte...». Il seguito, e la risposta ai tentativi di questa rilettura chiamata «rimescolamento di carte», è scritto nell'editoriale del direttore Enrico Deaglio: «A noi sembra che, nella nostra storia, i Buoni e i cattivi si riconoscano abbastanza facilmente». Che bisogno c'è, dunque, di approfondire?
«Il problema sollevato da Mieli é reale», dice Giorgio Rumi, docente di Storia contemporanea alla Statale di Milano. «In Italia c'é stato un pregiudizio favorevole alla Sinistra, evidente - più che nella storiografia in senso tecnico - nella sua vulgata, cioè nei libri di testo delle scuole, nelle enciclopedie, nelle trasmissioni televisive, nelle recensioni...». Troppo coinvolgimento ideologico, secondo Rumi. «Si tende a scrivere la storia del Novecento iscrivendosi idealmente a una certa parte della barricata. Come se fosse un obbligo morale il dover prendere posizione. Invece bisognerebbe avere più serenità, come se si studiasse il Medioevo. Ma è possibile la neutralità, per uno storico? «Non voglio dire che lo storico debba rinunciare ad avere un proprio sistema di valori. Però non deve fare il giudice: lo storico deve capire che cosa accadde e perché, non deve dare un giudizio etico». Rumi dice di essere d'accordo, con Mieli anche sull'eccessiva preoccupazione di una ricaduta sul presente: «Prendiamo il Risorgimento. A lungo è stato considerato come una rivoluzione mancata. Poi, quando è scoppiato il problema Lega, del Risorgimento è stata fatta una difesa rabbiosa. Anche per il periodo 1943-48 si è parlato di rivoluzione mancata, si è discusso per anni di quello che avrebbe potuto essere e non è stato. Ma che senso ha? Lo storico non è un tribunale che giudica gli antenati».
Secondo Paolo Macrì, docente di Storia contemporanea all'Università Federico II di Napoli, è piuttosto «ingenuo» temere che una rilettura della storia possa provocare conseguenze politiche sul presente. «La commistione tra storia e politica c'è sempre stata, pura o impura che fosse. In Italia, non ciò, dubbio che sia esistita per anni un'egemonia marxista che ha determinato un senso comune della storia. Quindi, semmai è stata la Sinistra a fare, a lungo, un uso pubblico, e politico, della storia. Perché dovrebbe ora denunciare come strumentale un nuovo filone storiografico di orientamento liberale?». Anche Macrì, dunque, è d'accordo, con Mieli quando dice che chi cerca di «ripensare la storia» è guardato con sospetto: «è un fatto, che negli ultimi dieci quindici anni una serie di interpretazioni storiografiche siano state messe in discussione, e che a queste novità la mia categoria abbia reagito in modo un po' corporativo».
Francesco Perfetti, docente di Storia contemporanea alla Luiss di Roma e direttore del periodico Nuova Storia Contemporanea, é naturalmente d'accordo con il fatto che lo storico deve, per sua stessa vocazione, compiere sempre una revisione del passato. Ma pensa anche, a differenza di Salvadori, che sia stata proprio la storiografia di sinistra a inventare il termine dispregiativo di «revisionista». «Un termine», dice, «che io mi batto per cancellare dal vocabolario storiografico. La Sinistra, con quell'aggettivo, ha cercato di assimilare concetti molto diversi tra loro: negazionismo, oblio, revisionismo. Ogni nuova interpretazione è stata messa nello stesso pentolone. Ma se è vero che il Pci non c'è più, qual è questa Sinistra intollerante nei confronti del nuovo in campo storiografico? «Non è, stata solo la Sinistra marxista. C'è stata anche la Sinistra azionista. Sono tutte e due posizioni ideologiche che tendono a dare un giudizio moralistico, e non morale, sulla storia. Mentre fare ricerca storica vuol dire solo indagare sui fatti e cercare di interpretarli. Anche Marc Bloch, che morì fucilato dai nazisti, sosteneva che lo storico non deve fare mai il giustiziere, ma semplicemente comprendere».
Libertà di ricerca, dunque. Lo dice anche Nicola Tranfaglia, docente di Storia dell'Europa dell'Università di Torino e uomo di sinistra. Ma Tranfaglia fa una precisazione: «Voglio distinguere tra chi fa nuove ricerche, scoprendo nuovi fatti e nuovi documenti, e chi invece - come molti hanno fatto in questi anni - presentano solo nuove interpretazioni, nuove opinioni. I primi sono i benvenuti, anche se i documenti e i fatti che portano conducono a conclusioni diverse da quelle che io stesso potevo pensare. Dei secondi, invece, non mi voglio neppure occupare». Ma é vero, come dice Mieli, che molta storiografia é bloccata per un eccessivo timore di ricadute politiche sul presente? Tranfaglia taglia corto: «Preoccupazioni per il presente? Non ne ho. Faccio lo storico, non il politico».
Dunque la storia può essere ridiscussa solo con la scoperta di nuovi documenti? Vittorio Messori, autore di best-seller religiosi ma anche di fortunati saggi come Pensare la storia, non è d'accordo con Tranfaglia: «Non c'è affatto bisogno di nuovi documenti per ridiscutere certe interpretazioni storiografiche che avevano la pretesa di essere definitive: basta ricordare fatti evidenti, già noti, ma purtroppo rimossi, cancellati dalla storiografia dominante». Qualche esempio? ce ne sarebbero migliaia. Prendiamo La "lettura" del Risorgimento. E stato addirittura inventato un nuovo aggettivo, "borbonico", per indicare qualcosa di arretrato, di inefficiente. Eppure, con i Borboni il Sud era molto più florido che con lo Stato Unitario: Napoli era la prima città industriale della penisola, e non esisteva emigrazione verso l`estero, emigrazione che è cominciata solo dopo l'Unita. C'è bisogno di nuovi documenti per ricordare queste cose? O per smentire l`iconografia risorgimentale classica, che raffigura sempre Cavour, Mazzini e Garibaldi uno accanto all'altro, come fossero una cosa sola, mentre Cavour aveva condannato a morte Mazzini? E c'è bisogno di nuovi documenti per dire che la legge elettorale proposta da De Gasperi, e demonizzata dai comunisti come "legge truffa", era una legge in vigore in tutte le più moderne democrazie, una legge che avrebbe garantito la governabilità? O per dire che Gramsci, il cui nome é da decenni sulla testata dell'Unita, morì scomunicato dal Pci? E come mai le decine di Istituti storici per la Resistenza hanno impiegato quarant'anni per scoprire il massacro di Porzus, e hanno taciuto su altri crimini commessi dai partigiani e noti a tutti? Insomma, basta ricordare i fatti. Cosa che la vulgata imposta dalla Sinistra nel dopoguerra non ha voluto fare». La storia scritta dai vincitori non è attendibile, vuol forse dire Messori? «Non direi. Perché i comunisti sono stati vinti, non vincitori. Vinti dal voto del 1948, e poi dalla caduta del Muro. Eppure in Italia per decenni la storia l'hanno scritta loro, e oggi c'è ancora una certa Sinistra che demonizza chiunque cerchi di ripensare il passato». (Sette, settimanale del Corriere della Sera, 24 Maggio 2001)
Ma non tutti i “vinti” hanno torto. Ieri Paolo Franchi, sul Corriere della Sera, metteva in guardia dal tentare qualsiasi “revisionismo storico” sul Risorgimento per non cadere nel “ridicolo” e non mettere in pericolo lo stesso Stato nazionale. In pratica Franchi scomunica il cosiddetto «uso pubblico della storia». Gli consiglierei di leggersi qualche libro di (…) (…) Paolo Mieli, storico anticonformista nonché direttore del Corriere della sera su cui lui scrive. Mieli infatti si spinge da anni, con intelligenza, proprio verso quei «lidi fino a qualche tempo fa inimmaginabili» che paventa Franchi. L’attuale direttore del Corriere è arrivato a sottoporre ad analisi critica – per usare le parole di Franchi – proprio i «miti fondativi della storia nazionale». Anche perché è davvero stravagante che chi fa professione di laicità voglia imporre il bigottismo dei miti, che diventano dogmi storiografici intoccabili. Nel volume intitolato “Storia e politica. Risorgimento, fascismo e comunismo”, Mieli inizia proprio così: «Ma perché la Sinistra italiana (diciamo meglio: parte della Sinistra) si accanisce a tal punto contro il cosiddetto uso pubblico della storia spingendosi a dar la caccia agli untori anche nel proprio campo? Davvero pensa che esista qualcuno che abbia ordito una congiura per mandare all’aria lo Stato democratico e repubblicano, rivisitando criticamente il Risorgimento, il fascismo e il comunismo?». Poi dimostra che da 2.500 anni «politica e storia sono sempre andate assieme», aggiunge che da 2.500 anni «il mestiere dello storico» è sempre stato di «revisionare criticamente» ciò che è stato tramandato. E conclude – Mieli – che i problemi di oggi derivano proprio «da quel che è rimasto in ombra nella discussione su come è nata l’Italia». Per esempio: il dibattito storiografico sul Risorgimento fu quasi del tutto sordo alle ragioni dei vinti». Infine Mieli, nel volume “Le Storie. La storia” cita un convinto risorgimentale come Alfonso Scirocco che scriveva: «Gli interrogativi sulle scelte operate nel 1861 e confermate nei decenni successivi sono legittimi. Nascono da un’esigenza attuale, quella di trarre dall’indagine intorno alle radici dell’Italia odierna risposte convincenti sulla debolezza del nesso nazione-società-Stato, che sembra non avere avuto fin dall’inizio la saldezza desiderata». Anzi, il suddetto direttore del Corriere concludeva uno di questi suoi saggi affermando che «le divisioni sono benefiche» e auspicava che, anche sul Risorgimento, «ci si possa sanamente dividere e contrapporre senza avvertire il pericolo che vada a morire l’intera dialettica democratica». Non tutti i vinti hanno torto. Esattamente il contrario dell’editoriale di Franchi che si chiudeva proprio evocando il rischio della “morte” (di che?) a causa del «revisionismo storico». Un’ultima puntura polemica a Franchi. Sia l’editorialista, sia altri storici in questi giorni hanno fatto di tutta l’erba un fascio, accomunando gli sconfitti del 20 settembre 1870 a Porta Pia, agli sconfitti del 1945. Mi sembra ingiusto e assurdo. Non tutti i vinti hanno torto. I nazisti erano un esercito occupante che, fra l’altro, si macchiò di stragi orrende. Mentre lo Stato Pontificio era uno Stato Sovrano, il più antico e anche più italiano di quello piemontese (nel quale i Savoia parlavano addirittura francese). Quindi nel 1870 vinsero gli occupanti e gli aggressori. Nel 1945 vinsero i liberatori. C’è una bella differenza. Non confondiamo storie diverse. E mi pare giusto che dopo 130 anni Il Comune di Roma possa ricordare anche i romani che difesero lo Stato Pontificio (peraltro Pio IX aveva dato ordine di resa per evitare inutili spargimenti di sangue). Personalmente non ho nessuna nostalgia del “Papa Re”. Non solo perchè un certo Socci Ettore combattè a Mentana fra i garibaldini. Ma soprattutto perché ritengo – come disse Paolo VI – che sia stata provvidenziale la fine del potere temporale dei Pai, che già Pio IX sentiva come una zavorra equivoca per la missione spirituale e universale della Chiesa (come si vede Dio scrive diritto anche su righe storte).
Questo però non significa tacere sul fatto che:
questo stato pontificio era del tutto legittimo (come e più degli altri stati italiani: il Regno delle Due Sicilie, quello piemontese e il Granducato di Toscana);
il potere temporale dei papi nascendo fu la salvezza dell’Italia: lo ha dimostrato ino storico anticlericale come Edward Gibbon;
l’invasione dello Stato pontificio da parte dello Stato piemontese, con la confisca di una quantità immensa di beni appartenenti alla Chiesa ( e la persecuzione dei religiosi, cacciati dai conventi) è una clamorosa ingiustizia e non ha alcun fondamento giuridico e morale;
i Patti Laterananensi sono stati solo un parziale risarcimento;
la conquista militare piemontese degli altri stati italiani è stato il peggior modo di fare l’Unità d’Italia. Perché l’hanno fatta contro gli italiani.
Così ci è stato inflitto uno stato centralista e burocratico, che ha defraudato il Meridione (e non si è più ripreso), che si è fondato sul debito pubblico e ha dato inizio ad una industrializzazione assistita che ha viziato sin dalla nascita la nostra economia. E’ infine lo Stato etico ed elitario del Risorgimento (dove votava una piccola minoranza) che ci ha portato all’immane tragedia della Grande Guerra e del fascismo. Tragedie dovute al fatto che la casta risorgimentale al potere in sostanza tenne fuori dallo Stato gran parte della nazione che era contadina e cattolica. “l’Italia”, ha scritto Ernesto Galli della Loggia, “è l’unico paese d’Europa (e non solo dell’area cattolica) la cui unità nazionale (…) sia avvenuta in aperto, feroce contrasto con la propria Chiesa Nazionale”. Antonio Socci su “Libero” 23 settembre
Storiografia del Novecento. Nel dopoguerra italiano abbiamo avuto studi storici molto ideologizzati, scrive Luciano Atticciati (febbraio 2017). La storiografia italiana degli anni del dopoguerra presenta aspetti controversi. Una parte degli storici ha indagato sugli aspetti terribili del Novecento, sull’affermarsi dei regimi totalitari, e delle tragiche conseguenze che hanno determinato, mentre altri (soprattutto storici marxisti) hanno limitato il loro campo di ricerca agli aspetti ideologici e programmatici dei movimenti politici, trascurando sostanzialmente l’azione concreta dei numerosi regimi del secolo appena concluso. Antonio Gramsci riteneva in contrasto con Benedetto Croce che il Risorgimento fosse stato un evento gestito da moderati che non aveva alterato in profondità l’assetto sociale del Paese, e che i Governi liberali (espressione di una «borghesia arretrata», avrebbe aggiunto Giuliano Procacci) fossero responsabili del mancato sviluppo economico del Paese, in particolare riteneva Gramsci che il Risorgimento fosse stato una «rivoluzione agraria mancata». Denis Mack Smith, storico inglese ma da sempre attento alle vicende italiane, esprimeva il suo giudizio negativo su Cavour, ritenuto un freddo politico spregiudicato privo di grandi idealità. Altri storici hanno addirittura considerato lo statista piemontese il Bismark italiano, cioè un uomo che aveva a cuore la grandezza del Paese, l’equilibrio fra le potenze europee, ma con scarso interesse per la libertà e il progresso. Secondo Giacomo Perticone lo stato unitario solo apparentemente poteva definirsi democratico, altri come lo storico Giorgio Rochat negli anni Settanta rincaravano la dose, parlando di una sostanziale continuità fra lo stato liberale postunitario e il regime fascista. Altri storici, sempre delle stesse tendenze, come Mario Tronti, affermavano sia riguardo alla nostra storia passata che a quella recente repubblicana che fosse fallito l’obiettivo di portare le masse all’interno dello stato. Tutti si incentravano sull’idea che lo stato avesse come finalità primaria, più che la libertà e i diritti, il provvedere ai bisogni materiali delle classi subalterne. Tali opinioni non sono state considerate valide dagli storici liberali, in particolare da Rosario Romeo, Luigi Salvatorelli e Giovanni Spadolini. Il primo riteneva che sotto il profilo politico costituzionale l’Italia fosse un Paese avanzato. Sicuramente nell’Ottocento il nostro Paese godeva di un Parlamento con poteri maggiori rispetto a quelli di Germania e Austria, e di una libertà di stampa superiore a quella della Francia di Napoleone III. Per quanto riguarda l’economia, l’Italia soffrì per la mancanza di carbone, un bene allora assolutamente vitale per l’industria, e per la mancanza di banche di grandi dimensioni in grado di gestire i notevoli investimenti necessari per il decollo dell’industria, ma i provvedimenti legislativi andavano comunque a favore dello sviluppo e anche precedentemente al decennio 1890, periodo dal quale si fa partire l’industrializzazione del Paese, la crescita era tutt’altro che assente. Sul collegamento fra Italia liberale e fascismo può essere interessante quanto scritto da Gaetano Salvemini. Lo studioso mise in luce in Le origini del fascismo. Lezioni di Harward che il fascismo rappresentava un movimento dei ceti medi che per un certo periodo si erano spostati su posizioni di Sinistra moderata contraria alla ristretta classe dirigente del Paese, ma che si sentirono successivamente minacciati dall’estremismo socialcomunista del primo dopoguerra. Inoltre un contributo essenziale all’affermarsi del fascismo era dato (opinione condivisa anche da Filippo Turati) dalle violenze dell’estrema Sinistra negli anni del Biennio Rosso. Tali eventi farebbero pensare che il fascismo rappresentasse qualcosa al di fuori della tradizione liberale, del resto il fatto che molti leader del fascismo provenissero da classi sociali molto diverse da quelle da cui provenivano i liberali, e che molti erano stati in precedenza esponenti dell’estrema Sinistra, confermerebbe la non continuità tra il Ventennio e il precedente stato liberale. Dove la comunità degli storici negli anni Settanta ha dato decisamente il peggio di sé è stato sulla questione De Felice, lo storico venne contestato non perché ciò che scriveva non fosse documentato, ma perché «non abbastanza antifascista». Nell’aprile 1975 un editoriale su «Italia Contemporanea» firmato da Ernesto Ragionieri, Claudio Pavone, Guido Quazza, Enzo Collotti parlava del lavoro dello storico contestato come «tendente a spogliare il fascismo dei suoi tratti di reazione di classe... posizioni qualunquistiche che finiscono per diventare oggettivamente filofasciste... in ogni caso esercitano una funzione diseducativa». La vicenda De Felice ha mostrato lo spirito politicizzato e intollerante di una parte degli storici degli anni Settanta, ed insieme le notevoli confusioni sullo studio storico, attività rigorosamente fondata su fonti storiche, che non ha nulla a che vedere con il sostegno di teorie a priori. Il giudizio comune negli anni precedenti all’opera di De Felice voleva che il Governo Mussolini sebbene fosse stato eletto con una vasta maggioranza parlamentare, fosse un regime imposto da una ristretta minoranza di uomini violenti contro la volontà della maggioranza dei cittadini. Il giudizio marxista riteneva che il fascismo fosse stato «il braccio destro del capitalismo» impegnato a contrastare violentemente le richieste dei lavoratori. De Felice e George Mosse misero in luce la mobilitazione delle masse, il ricorso alle organizzazioni a carattere popolare operato dal fascismo, qualcosa che rendeva questo movimento politico in qualche modo più simile ai gruppi della Sinistra che ai conservatori o ai liberali di Destra portati ad intendere la politica in maniera tradizionale come azione di professionisti di alto livello. Nel campo economico, il regime fascista si pose su posizioni diverse da quelle del libero mercato vicino a quelle stataliste, mentre alcuni dei suoi principali esponenti culturali come Giovanni Gentile e Alfredo Rocco, tendevano (come molti a Sinistra) a sacrificare gli interessi e le aspirazioni dell’individuo rispetto a quelli dello Stato. Quello che oggi molti si chiedono, storici e uomini di cultura in genere, è come sia stato possibile che eventi notevoli che hanno determinato la morte di migliaia di Italiani siano stati taciuti. L’occupazione di Trieste, le foibe, le vendette partigiane, la costituzione di gruppi armati da parte del Partito Comunista Italino, sono eventi in grado di cambiare la comprensione del Novecento italiano. Più in generale c’è stato un comportamento fortemente reticente sul comunismo internazionale, per molti i suoi crimini costituivano ben poca cosa rispetto a quelli commessi dai nazisti, sulla base di ragioni non sempre chiare. La guerra fredda, che vedeva da una parte le principali democrazie e dall’altra gli aggressivi regimi totalitari, diveniva una semplice contrapposizione di imperialismi. Nei numerosi scritti di Aldo Agosti o di quelli di Ernesto Ragionieri sul Partito Comunista Italiano, stilisticamente ineccepibili, non si parla mai dell’organizzazione armata espressamente prevista dal programma del 1921. Analogamente si taceva sui comunisti italiani fuggiti a Mosca e uccisi su indicazione dei loro dirigenti alle autorità sovietiche, eppure Paolo Spriano e Miriam Mafai (studiosi ed ex dirigenti del Partito Comunista Italiano) ne avevano parlato anche all’epoca. Lo storico Giorgio Galli mette in luce alcune carenze del Partito Comunista Italiano e dello stesso Antonio Gramsci in fatto di democrazia, ma anch’egli tace del tutto sui crimini commessi da Togliatti contro i compagni «indisciplinati», italiani e non, che si erano rifugiati in Russia. Il cambiamento degli studi storici avvenuto in questi anni costituisce sicuramente un evento notevole, gli studi storici hanno affrontato la questione del totalitarismo e del comunismo nel Novecento non più basandosi su dichiarazioni programmatiche, ma affrontando i comportamenti reali di quei regimi. Tale situazione ha portato molti, spesso esponenti della cultura estranei agli studi storici, ad una assurda polemica sul cosiddetto «revisionismo». Per costoro la storiografia passata sarebbe qualcosa che non poteva essere oggetto di cambiamento e le questioni politiche avrebbero dovuto prevalere sullo studio delle fonti storiche. Quella cultura chiusa e prolissa espressa da intellettuali non privi di atteggiamenti di superiorità, sembra oggi non solo tramontata ma crollata su se stessa con le sue omissioni e forzature. Dopo il revisionismo degli anni Novanta, oggi sembra prevalere comunque un atteggiamento di rimozione, per alcuni nel Novecento il comunismo considerato in precedenza l’evento principale del secolo, è stato solo un piccolo incidente o una ideologia che nella sua esuberanza aveva commesso qualche eccesso.
QUELLI CHE SONO RAZZISTI...A RAGIONE.
Il sindaco chiude Pontida per il raduno «sudista». Scuole, poste, negozi, cimiteri: tutto chiuso per la manifestazione dei centri sociali, scrive Simone Bianco il 14 aprile 2017 su "Il Corriere della sera". Non resterà aperto nemmeno il cimitero a Pontida, il 22 aprile. A due passi dal pratone dei raduni leghisti, quel giorno si celebrerà la giornata dell’Orgoglio meridionale e il sindaco ha deciso di chiudere tutto, ma proprio tutto. L’ordinanza di Luigi Carozzi, primo cittadino leghista del piccolo centro bergamasco, non dimentica nulla: chiuse le scuole di ogni ordine e grado, chiuse le strade del centro storico, chiusi gli uffici comunali (per i dipendenti, giornata di ferie obbligatoria), non si potrà nemmeno andare in posta e, dalle 8 alle 24, serrande abbassate per tutti gli esercizi commerciali. Chiusa, persino, la piazzola ecologica. Misure di massima sicurezza per un concerto cui dovrebbero partecipare diverse centinaia, forse migliaia di persone. Sono 23 le città nelle quali centri sociali e associazioni antirazziste stanno organizzando trasferte in treno e pullman verso Pontida. Il sindaco l’ha presa molto sul serio, nell’ordinanza il rischio di «episodi criminosi» motiva il coprifuoco. «Mi sembra un atto dovuto nei confronti dei miei cittadini - spiega Carozzi -, soprattutto dei più piccoli che magari tornando da scuola si troverebbero nel pieno del caos». Lo spazio di proprietà delle Ferrovie sul quale si terrà l’evento dei centri sociali è in effetti vicino alle scuole. Ma il cimitero? «È lì a pochi metri - dice il sindaco -, qualcuno ci fa ironia ma dobbiamo tutelare anche chi ci ha preceduto». Carozzi teme vandalismi e lancia una sorta di sfida a chi parteciperà al concertone: «Facciano come i giovani della Lega. Al raduno, ogni anno, lasciano l’area del pratone più pulita di come l’hanno trovata. Sono preoccupato perché ho fatto le dovute valutazioni, con la Questura e la Prefettura di Bergamo. Se poi questi ragazzi mi smentissero sarei l’uomo più felice del mondo. A quel punto li inviteremmo anche per l’anno prossimo». Con i negozi, scuole e bar chiusi, i manifestanti dovrebbero incontrare davvero poca gente in giro. Di sicuro, non i leghisti. Matteo Salvini, a Pontida nei giorni scorsi per celebrare con una cena privata gli 850 anni del giuramento della Lega Lombarda, ha ordinato il basso profilo, non lanciare e non raccogliere provocazioni. L’iniziativa dell’orgoglio meridionale nasce proprio dopo il contestato passaggio del leader leghista a Napoli, nel marzo scorso. I centri sociali ricambieranno la visita organizzando un evento cui hanno già confermato la presenza tanti musicisti. Suoneranno Eugenio Bennato, i 99 Posse, il rapper ‘Nto, che ha firmato la sigla di Gomorra. Sotto il palco, annunciata l’adesione di tanti politici e intellettuali, a partire dallo scrittore Maurizio de Giovanni. Gli organizzatori l’hanno ripetuto più volte: «Sarà solo una festa, non vogliamo provocazioni».
Salvini, il Sud alla conquista di Pontida. Il sindaco della Lega: "Città a rischio, chiudiamo tutto". Il 22 decine di sigle dell'antagonismo di Napoli e di altre città si sono date appuntamento nella capitale del Carroccio. Firmata un'ordinanza di chiusura per quel giorno per uffici, scuole, negozi e persino il cimitero, scrive Paolo Berizzi il 14 aprile 2017 su “La Repubblica”. Chiusa per l'arrivo dei centri sociali. Una chiusura preventiva e praticamente totale: chiuso il centro storico, le scuole, gli uffici, i negozi, persino il cimitero. Dopo avere sopportato per oltre un quarto di secolo l'invasione di decine di migliaia di militanti e simpatizzanti leghisti, Pontida, 3mila abitanti, Comune bergamasco che della Lega Nord è sempre stato ed è roccaforte e luogo simbolo, per la prima volta nella sua storia serra i battenti. Non al popolo 'verde', ovviamente. Ma a quelli che nella tradizione del partito (ormai ex) padano erano gli avversari assieme a 'Roma ladrona': i meridionali. Succederà il 22 marzo, giorno dell'annunciata (e temuta) giornata dell'orgoglio antirazzista, migrante e meridionale organizzata dai centri sociali di Napoli per ricambiare la visita del leader leghista Matteo Salvini (era l'11 marzo e ci furono violenti scontri tra manifestanti e forze dell'ordine). L'arrivo a Pontida di oltre un migliaio di militanti dei centri sociali - in prevalenza da Napoli ma non solo: alla manifestazione hanno già aderito realtà di diverse città, anche del Nord - ha spinto il sindaco Luigi Carozzi (Lega Nord) ad adottare il più estremo dei provvedimenti: una sorta di coprifuoco civile. A "tutela di ordine pubblico e sicurezza" il primo cittadino ha emanato un'ordinanza senza precedenti (per Pontida). E certamente destinata a far discutere. La normale attività del paese, il 22 marzo, verrà sospesa: tutto chiuso. Per timore di danni e incidenti. "La situazione - si legge nel testo dell'ordinanza - costituisce motivo di grave pregiudizio per l'incolumità pubblica e per la sicurezza urbana in genere, in quanto favorisce l'insorgere potenziale di episodi criminosi, di vandalismo e di turbativa della quiete pubblica". Che dopo gli incidenti dell'11 marzo a Napoli il clima negli ambienti dei centri sociali partenopei sia rimasto surriscaldato, è fuori di dubbio. Né evidentemente al sindaco di Pontida importa il fatto che il centro sociale Insurgencia abbia lanciato la "giornata meridionale" come una "grande festa. La festa di chi è orgoglioso e fiero di essere meridionale e di chi, in tutta Italia, da sempre crede nelle idee dell'accoglienza e della solidarietà verso chi è costretto a lasciare la propria terra. Il 22 aprile saremo tutti a Pontida". Recita così il post di chiamata a raccolta pubblicato sulla pagina fb di Insurgencia. Ma tant'è, un po' il rilancio di Salvini ("tornerò a Napoli") e le dure polemiche con il sindaco di Napoli Luigi De Magistris (schierato coi centri sociali), un po' che gli antagonisti continuano a considerare provocatorio il blitz acchiappavoti del capo leghista nella capitale del Sud, lui che contro i napoletani "colerosi e terremotati", prima della svolta nazionalista impressa alla Lega, aveva cantato anche un coro. Sta di fatto che la rivalità nelle ultime due settimane si è acuita. E a Pontida adesso hanno paura dell'arrivo dei centri sociali. A temere una trasferta "vendicativa" sul suolo padano non è solo il sindaco Carozzi. Anche le forze dell'ordine sanno che il 22 marzo sarà una giornata potenzialmente a rischio ordine pubblico. In questura a Bergamo sono arrivate segnalazioni da diverse città: al 'blocco' dell'antagonismo napoletano si uniranno manifestanti provenienti da altri capoluoghi: Bergamo, Milano, Torino, Trento, Padova. Da giorni la Digos di Bergamo, diretta da Giovanni Di Biase, è al lavoro per mettere a punto un piano di prevenzione e controllo: a Pontida sono stati effettuati una serie di sopralluoghi. Sia per pianificare il flusso e il deflusso dei manifestanti sia per evitare incidenti e danneggiamenti. Preoccupa, in particolare, il rischio che qualche testa calda possa lasciarsi andare a atti vandalici sul territorio (vicino al luogo del raduno antagonista, per dire, c'è un monastero fresco di restauro). Lo stesso motivo per cui il sindaco leghista - visto lo scenario e il pregresso delle ultime settimane - ha ordinato la chiusura del paese. Nel dettaglio, il primo cittadino ha disposto il blocco del traffico del centro storico nelle vie Lega Lombarda, Legnano, Vittorio Veneto, Dante Alighieri, Papa Giovanni XXIII e Roma (eccezione fatta per i mezzi di soccorso, emergenza e polizia), ma anche del cimitero, della piazzola ecologica, degli uffici postali e comunali. Curiosità: per l'arrivo dei centri sociali napoletani scatterà una giornata obbligatoria di ferie per tutti i dipendenti (esclusa ancora una volta quelli di polizia locale).
Perché il nostro cervello non è razzista con i bambini? Il «pregiudizio» razziale verso i piccoli non esiste. Il nostro cervello è «programmato» per accudirli indipendentemente dall’etnia A dimostrarlo è uno studio realizzato da ricercatori di Psicologia della Bicocca di Milano, scrive Silvia Morosi il 14 aprile 2017 su "Il Corriere della Sera". Africano, asiatico, europeo, non importa. Il razzismo risparmia i bambini. Davanti ai piccoli, indipendentemente dal «colore» della pelle, il cervello non resiste e rifiuta quello che è scientificamente conosciuto come effetto «Other-race effect» (Ore). Lo dimostra uno studio condotto da un gruppo di ricercatori dell’università di Milano-Bicocca, pubblicato su Neuropsychologia e ripreso da Science Daily. Dietro la ricerca due donne: Alice Mado Proverbio e Valeria De Gabriele. Fino ad oggi — spiegano — l’effetto Ore, secondo il quale percepiamo con maggiore rapidità e facilità i volti del nostro gruppo etnico per motivi di familiarità, era considerato valido a prescindere dall’età di chi guardiamo». Ora il team di ricerca ha spiegato che questo fenomeno non si verifica «quando ci si trova di fronte al volto di bambini fra i 6 mesi e i 3 anni». La nostra risposta emotiva è sempre di tenerezza e desiderio di protezione. Il motivo risiede nelle «caratteristiche pedomorfiche che includono testa grande rispetto al corpo, occhioni, guance paffute, boccuccia e nasino piccoli (baby schema)». Ma come è stata condotta la ricerca? Le studiose hanno sottoposto ad alcuni test 17 persone che guardando le immagini di bambini, registravano «una stimolazione della regione orbito-frontale del cervello, dove studi precedenti hanno localizzato il «circuito del piacere», sorgente di stimoli positivi come l’amore materno o parentale, la quale è ricca di recettori per l’ossitocina, neuro-ormone alla base dei processi di attaccamento affettivo». Il nostro cervello, quindi, è programmato per prendersi cura dei piccoli di qualunque etnia. Questa informazione razziale viene ignorata totalmente dal cervello se si tratta di bambini, mentre agisce sulla regolazione del comportamento (pregiudizio), se si tratta di adulti.
Matrix, La Gabbia, Cartabianca e il giornalismo sciacallo, scrive Sara Volandri il 12 Aprile 2017 su "Il Dubbio". Come i talk-show alimentano un clima paranoico da invasioni barbariche in cui ogni straniero diventa un potenziale terrorista. Il caso emblematico del quartiere romano di Torpignattara. Torpignattara, quartiere popolare e multietnico di Roma est, è diventata la logora location del giornalismo sciacallo, un genere molto in voga sulle nostre tv. Il format è semplice: si manda per strada un/una giornalista con un fare da palpitazioni cardiache che non trovi neanche sul fronte guerra a porre domande “scomode” ai tanti migranti che vivono in zona. Loro sono sfuggenti, non hanno voglia di rispondere a quella raffica di interrogativi in malafede, cose del tipo: «È giusto morire come martiri per Allah?», «L’Occidente in fondo se li è cercati gli attentati, vero?». Giustamente tirano dritto e il-/la cronista d’assalto ne evince che questi stranieri islamici allergici allo stalking sono un po’ tutti conniventi con il terrorismo. Il messaggio è in tal senso devastante. In parallelo si montano immagini di degrado urbano con musiche ansiogene che sembrano uscite dal film “Lo Squalo”, si intervistano i nativi “esasperati” dalle invasioni barbariche, gente che ti dice carinerie del tipo: «Qui ormai è Africa, io sono razzista e non mi vergogno di dirlo», «Devono morire tutti, fanno schifo, se non ci pensa la polizia ci pensiamo noi». Magari sono gli stessi che affittano in nero un sottoscala a una famiglia di otto bengalesi. In un servizio andato in onda su LA7 nella trasmissione la Gabbia, l’inviata a Torpignattara Monica Raucci pretende di entrare dentro le abitazioni di alcuni migranti del centro Africa per mostrare in tv lo stato di incuria e malsanità in cui vivono le comunità di stranieri. Al loro comprensibile rifiuto, la cronista scuote la testa, la musica sale d’intensità in un climax drammatico in cui appaiono schiere di uomini in turbante che pregano contro un muretto e di donne velate che strisciano sui muri dei marciapiedi. Uno, dieci, cento servizi-fotocopia che producono lo stesso sgradevole effetto di angoscia e la sensazione che in Italia è in corso un conflitto di civiltà animato dagli immigrati musulmani, ognuno dei quali è un potenziale jihadista. Un’angoscia percepibile anche nel talk-show Matrix dedicato al fuggiasco Igor, ricercato da 800 poliziotti tra le paludi emiliane. Le interviste agli abitanti dei paesi in cui è stato avvistato l’ex militare serbo raccontano un ‘Italia spaventata e rabbiosa, pronta ad armarsi come ne profondo mid-west degli Stati Uniti: «Viviamo barricati in casa, e abbiamo un fucile per difenderci», spiega una signora, sottolineando che il sentimento di insicurezza è una costante della sua vita, molto prima dell’apparizione di Igor. Che in quella zona la percentuale di crimini sia risibile non conta, quel che conta, come dicono i sociologi è “l’insicurezza percepita”. Anche una trasmissione teoricamente “illuminata” come Cartabianca condotta da Bianca Berlinguer si è persa in questa melma. Nell’edizione di ieri è andato in onda il solito servizio di guerra su Torpignattara. Al termine del quale è partito il sondaggio assassino: «Che farei se mia figlia-figlio sposasse un islamico?». Al di là delle risposte (il 41% si opporrebbe, appena il 21% non avrebbe problemi), è proprio il quesito stesso, superficiale e malevolo, a manipolare l’opinione, a evocare, subdolamente, la perdita delle proprie radici culturali e la penetrazione di un’Islam cannibale (da una parte la propria figlia o figlio, dall’altra il bababu “islamico”) fin dentro le nostre case e le nostre famiglie.
Di Maio ha mentito sulla Romania. E non è stato un semplice errore, scrive Mauro Munafò su “L’Espresso” il 12 aprile 2017. Il vicepresidente della Camera del Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio è al centro di una polemica per quanto riguarda una sua dichiarazione su Facebook a proposito dell'Italia che "importa" criminali dalla Romania. Le sue parole sono state le seguenti: "L'Italia ha importato dalla Romania il 40% dei loro criminali. Mentre la Romania sta importando dall'Italia le nostre imprese e i nostri capitali. Che affare questa UE!". La frase di Di Maio è correlata dal video dell'intervento del magistrato Sebastiano Ardita all'incontro di Ivrea organizzato dall'associazione Gianroberto Casaleggio, in cui il procuratore aggiunto parla di giustizia e anche di Romania, usando però parole e toni lontani rispetto a quelli strillati da Di Maio su Facebook e, soprattutto, affermando qualcosa di assai diverso. Ma su questo tornerò dopo. Anticipiamo infatti subito un punto chiaro: Luigi Di Maio ha detto una cosa falsa, la ha privata di un contesto che serva a capire meglio di cosa si parla e, in più, invece di scusarsi ha rincarato la dose facendo finta di aver scritto una cosa ben diversa. E soprattutto ha lanciato un messaggio razzista che molti elettori hanno contestato e tanti altri hanno invece apprezzato. Cercando, immagino, di andare a rosicchiare un po' di voti alla Lega e al centrodestra nel capitolo sicurezza e anti-immigrazione. Cominciamo subito dalla fine. Una volta scoppiata la polemica, Di Maio ha scritto una precisazione su Facebook, evitando di scusarsi e provando a far credere di avere ragione. In realtà smentendosi da solo. Nel messaggio di poche ore fa scrive: "C'è un fatto, che è inopinabile: "il 40% dei ricercati con mandato internazionale emesso da Bucarest si trova in Italia" Non lo dico io, lo disse nel 2009 l’allora ministro romeno della Giustizia Catalin Predoiu, dato confermato l'altro giorno a SUM #01 dal procuratore di Messina Ardita. Motivo per cui non ho nessun motivo oggettivo di mettere in dubbio questa affermazione". Mettiamo a confronto le due frasi: "L'Italia ha importato dalla Romania il 40% dei loro criminali" e "il 40% dei ricercati con mandato internazionale emesso da Bucarest si trova in Italia". Per come la vedo io, non sono la stessa frase. Nella prima, si afferma o si cerca di far capire che il 40% dei criminali che agiscono in Italia sono rumeni o che il 40% dei criminali rumeni esercita in Italia. Nella seconda si afferma qualcosa di molto meno allarmante: cioè che tra i ricercati (quindi non condannati) rumeni al di fuori della Romania, 4 su dieci stanno in Italia. Se un giornalista usasse la prima frase per sintetizzare il concetto espresso nella seconda, commetterebbe un errore grave, molto grave. Cerchiamo di spiegare meglio infatti: i romeni sono la prima comunità di stranieri residente in Italia per numero: secondo gli ultimi dati Istat che trovate online sono circa 1.115.000 (oltre un milione) su 60 milioni di italiani. Sempre i dati Istat ci dicono anche quanti sono i "delinquenti" romeni in Italia, o meglio gli autori di delitti denunciati e identificati dalle forze dell'Ordine: nel 2015 sono stati 58mila. 58mila su un milione e 115mila. Tanti? Pochi? Diciamo che sono circa un sesto degli stranieri identificati per aver commesso un delitto in Italia. I reati commessi da stranieri sono meno di un terzo di quelli totali (scusate le approssimazioni e gli arrotondamenti). Ecco, forse messa così la situazione sembra meno preoccupante. Di più, come nota Luca Sofri sul suo blog (che leggo mentre finisco di completare questo post), i romeni emigrati in altri paesi della Ue sono circa 2 milioni e mezzo in totale: l'Italia ne ospita poco più di un milione. Quindi dire che il 40% dei romeni che commettono reati fuori dalla Romania sta in Italia non ha nulla di allarmante ma si tratta, appunto, di semplice proporzione rispetto a quanti abitano nel nostro paese. In conclusione, quanto affermato da Di Maio in prima battuta è una balla e, dopo la precisazione, un messaggio di inutile allarmismo.
Di Maio sulla graticola per avere detto una banalità, scrive Francesco Maria Del Vigo, Giovedì 13/04/2017 su "Il Giornale". Ci risiamo con le verità indicibili. Con le banalità che tutti pensano ma alle quali nessuno può dare fiato. Questa volta è stato il turno di Luigi Di Maio. Il vicepresidente della Camera - politico dalla non particolare audacia - ha osato dire che il 40 per cento dei criminali romeni vengono in Italia. Apriti cielo. Si sono rotte le cateratte dell'indignazione politicamente corretta e via con uno tsunami di critiche. Si sono mossi gli ambasciatori, le associazioni e i sacerdoti del buonismo accusando l'esponente grillino di fare torbida propaganda xenofoba. Proviamo a mettere le cose al loro posto, sgombrando innanzitutto il campo dall'ombra del razzismo: non esistono popolazioni che delinquono più delle altre per questioni etniche e Di Maio poteva essere un po' più circostanziato nella sua dichiarazione. Ma ha detto una cosa vera, per una volta. La sua colpa è, semmai, averla detta con colpevole ritardo. Almeno rispetto a questo quotidiano e alla percezione di buona parte degli italiani. Nel 2013, proprio su queste pagine, in un articolo firmato da Giuseppe Marino e Fausto Biloslavo, si faceva notare come l'Italia esportasse in Romania aziende e importasse criminali. Dati alla mano. «Nel 2009 - scrivevamo - il ministro della Giustizia romeno, Catalin Preodiu, aveva fatto trapelare un dato allarmante: il 40% dei ricercati con mandato internazionale emesso da Bucarest si trovava in Italia». Dato rilanciato recentemente dal procuratore di Messina Sebastiano Ardita e prontamente raccolto da Di Maio. I numeri più recenti spostano di poco la questione. Nel 2015 - secondo le statistiche Istat - sono stati denunciati 58.555 reati commessi da cittadini romeni. Nel 2008 erano 42.177. Solamente nel 2016 i cittadini di Bucarest hanno perso il primo posto nella classifica dei detenuti stranieri nelle nostre prigioni: secondo i dati del ministero della Giustizia - aggiornati al 31 marzo di quest'anno - i romeni in carcere sono 2.719, il 14,2 per cento del totale, preceduti solamente dai cittadini marocchini. E quindi? Dove sarebbe lo scandalo? Non si può dire che il nostro Paese è un bengodi per criminali stranieri e in particolare romeni? A forza di inseguire le fake news ci si dimentica di dire la verità. Forse i politici dovrebbero perdere meno tempo a mozzar lingue in nome del politicamente corretto e dedicarsi un po' di più ai problemi reali dei cittadini. Come la criminalità.
Linate, banda dell'est chiede pizzo a clochard: "Italiani siete delle m...". Un uomo e tre donne dell'est affittano a 10 euro un posto a terra all'aeroporto di Linate. E vendono coperte a 20 euro a chi le vuole, scrive Claudio Cartaldo, Martedì 24/01/2017, su "Il Giornale". Chiedono il pizzo per dormire all'aeroporto di Linate. Una banda di tre donne e un uomo dell'est, forse nomadi, sono stati scoperti da Striscia la Notizia a lucrare sulla pelle delle persone che non hanno una casa e che in questi giorni di freddo cercano riparo nello scalo milanese. Due complici di Striscia si sono finti senzatetto ed hanno cercato di passare alcune notti a Linate. Non appena hanno disteso i cartoni in terra, si è avvicinato l'uomo della banda e ha chiesto loro 10 euro a testa per avere un posto dove dormire. Tutti i senzatetto devono pagare, altrimenti vengono cacciati dall'aeroporto e sono costretti ad affrontare il gelido inverno. I soldi devono essere consegnati fuori dallo scalo e nessuno è escluso. Per chi vuole, i quattro balordi dell'est vendono anche delle coperte al prezzo di 20 euro. Una vera e propria organizzazione che si arricchisce sulla pelle dei più bisognosi. "Io ho pochi soldi....- dice uno dei complici di Striscia - te li devo dare subito o dopo?" "Subito", risponde senza timore la più giovane componente della banda. La quale dopo aver ricevuto il denaro, indica ai due finti clochard il posto loro assegnato e spiega che "ti devi svegliare alle 6 e andare via, ok?". Per tenere una contabilità precisa, la donna si segna su un taccuino i nomi dei senzatetto cui ha estorto denaro. ""Prendiamo il nome così sappiamo quanti giorni state qua", spiega diligente. Quando l'inviato di Striscia, Max Laudadio avvicina i componenti della banda, questi scappano e negano ogni accusa nonostante l'evidenza delle immagini. La più giovane si rifugia all'interno di una zona cui le sarebbe interdetto entrare, ma l'addetto dello scalo di Linate caccia tutti: cameraman, giornalista e la donna. Allora la nomade urla la sua rabbia: "Italiani sono delle merde - grida afferrando il microfono - Perché mi rompi il cazzo?".
Furti, truffe, rapine, evasioni. Controllo nel campo nomadi sono pregiudicati 67 rom su 83. Blitz dei carabinieri a Baranzate. Si allarga la zona abusiva, scrive Andrea Galli il 25 gennaio 2017 su “Il Corriere della Sera”. La densità criminale è ormai pari alla densità abitativa. Il campo rom di Baranzate in via Monte Bisbino, visitato nelle ultime ore dai carabinieri con risultati sorprendenti (specie nel saldo tra le persone controllate e quelle pregiudicate: 83 le prime e addirittura 67 le seconde) è diviso in due parti. La prima poggia su terreni di proprietà dei nomadi che poi vivono in casette e roulotte; l’altra parte, che si spinge fino al confine con l’autostrada dei Laghi, è una zona completamente abusiva ma in larga e disordinata crescita. Ora, che il campo abbia una popolazione con enormi problemi di giustizia non ne fa un caso unico nel panorama milanese. Ulteriori massicce presenze di residenti noti alle forze dell’ordine capitano al Gratosoglio come al Corvetto, in via Quarti a Baggio come a Quarto Oggiaro, e via elencando. Di specifico però, a Baranzate, ci sono i numeri. Pesanti. Tre rom su quattro sono pregiudicati. Senza alcuna distinzione di reato e nazionalità. Per cominciare, in via Monte Bisbino non ci sono solo stranieri. Negli 83 fermati nell’operazione guidata dalla Compagnia di Porta Magenta con la collaborazione del Terzo Reggimento (è buona abitudine presentarsi in forza per evitare accerchiamenti e agguati), c’erano 29 italiani. Il resto del gruppo era formato da romeni (33), quindi da serbi, croati e bosniaci, e contemplava pure un austriaco e un belga. Il campionario di reati vede soprattutto i furti nei negozi. A seguire quelli nelle case, le truffe e le rapine. L’età, a Baranzate, non è un discrimine. Se esaminiamo i pregiudicati minorenni, ne troviamo 19, dei quali 11 femmine e 8 maschi. Ugualmente abbondante la fascia dai 18 ai 30 anni: di nuovo 11 femmine mentre i maschi erano 30. Nel campo nessuno, bisogna dirlo, ha protestato contro l’arrivo delle pattuglie, ha alzato barricate o si è opposto alle operazioni di identificazione. E allo stesso modo, quantomeno senza andar troppo indietro nel tempo, la comunità rom non sta dando problemi di sorta costringendo le forze dell’ordine a intervenire di continuo. Forse perché l’insediamento, spiega un investigatore dell’Arma, ha bisogno di «pace» e dell’assenza di visite indesiderate in quanto è base delle attività illecite, quali il nascondiglio di armi per il mercato nero di pistole e fucili, e ancora del bottino delle varie razzie. Non è leggenda che in via Monte Bisbino, negli anni, siano state trovate casseforti ammucchiate in un angolo dopo esser state smurate, trasferite, aperte e svuotate. Se qualcuno adesso protesterà contro questa delinquenza smisurata invocando la necessità di cacciare subito i rom, non ci si può dimenticare i percorsi avviati con fatica e impegno da parte di educatori, insegnanti e volontari per far studiare i piccoli. Dopodiché, sono stati 16 i romeni scoperti abitare in tane nella parte abusiva; c’era una Citroen rubata e c’era un altro romeno, 25enne, ricercato per evasione: forse era convinto che non l’avrebbero stanato o che sarebbe riuscito a scappare informato dalle classiche, eterne vedette del campo. Ma le sentinelle sono state anticipate e beffate dai carabinieri.
Il fortino dei rom sinti, armi e rapine, sono tutti pregiudicati, scrive il 30/08/2014 “Il Corriere della Sera”. Aperto dal Comune nel 1999, doveva essere il «campo modello». Nell’area attrezzata alla periferia Sud vivono 250 nomadi italiani. Lasciate ogni speranza, voi che entrate. Anzi, se potete statene alla larga. L’inferno ha questo indirizzo: via della Chiesa Rossa 351. Una stradina asfaltata che corre sulla sinistra del Naviglio, quasi al confine con Valleambrosia e Rozzano. Un recinto di metallo dal quale sbucano poche lussuosissime roulotte e casette prefabbricate negli anni trasformate in ville, con statue da giardino e figure mitologiche. Nei quattro vialetti che dividono questo enorme rettangolo «urbano» circondato dai campi di mais e frumento, ci sono auto parcheggiate ridotte ormai a scheletri e altre, Bmw e Mercedes, con pochi mesi di vita. Nuove e lussuose. E anche le case nascondono tesori e televisori al plasma dalle dimensioni esagerate, mobili pregiati e un infinito campionario di oggettistica dal dubbio gusto ma dal valore consistente. Ecco il campo nomadi comunale di via Chiesa Rossa. Gli abitanti sono poco più di 250. Ma i numeri sono «variabili» in barba ai regolamenti comunali e a quei patti per la legalità voluti dal Comune. Perché le famiglie – quasi tutti si chiamano Hudorovich, Braidich e Deragna – sono imparentate tra loro e hanno legami stretti con quelle del campo di via Negrotto. Così succede che chi finisce agli arresti domiciliari possa indicare di volta in volta la dimora in un insediamento piuttosto che nell’altro. Tanto sempre di terra amica si tratta. Amica per qualcuno e ostile per molti altri. Autotrasportatori, corrieri, rappresentanti di merce preziosa o di alta tecnologia, non importa. Tutti vengono invitati a presentarsi all’anonimo indirizzo di via Chiesa Rossa 351 (indicato da un cartello lungo la strada) e poi finiscono regolarmente minacciati e derubati, se non aggrediti e cacciati a colpi di fucile. Succede spesso, quasi ogni giorno. Tanto che il famigerato «351» è ormai segnalato in tutti gli archivi degli spedizionieri come territorio da evitare, consegna da rifiutare. Il camion resta imprigionato nella via a fondo chiuso che circonda il campo, dalle case escono venti o trenta ragazzini e qualche adulto con i «ferri» in mano: pistole, vecchie doppiette o kalashnikov dell’ex Jugoslavia. L’autista è messo in fuga con le buone, altrimenti sono pistolettate sparate sull’asfalto accanto ai piedi, come nei cartoni animati sul vecchio West. Se tutto va bene il furgone viene riconsegnato dopo una mezz’ora, svuotato ma salvo. «Tutti i residenti del campo di via Chiesa Rossa 351, maggiorenni o minori, purché di età imputabile, hanno precedenti», recita un recente rapporto delle forze dell’ordine. Tutti, donne e uomini, esclusi i minori di 14 anni che per legge non possono essere accusati di reati. Un record fatto di furti (la stragrande maggioranza), rapine, aggressioni e resistenza a pubblico ufficiale. Non mancano però reati ben più seri, dalle bande di rapinatori (25 arresti nel 2008) al tentato omicidio. L’ultimo caso è della scorsa settimana quando due nomadi di via Chiesa Rossa sono stati arrestati (tre sono ancora ricercati) dopo aver cacciato a pistolettate alcuni africani che si erano accampati nei dintorni. Sembrerà assurdo a molti, ma qui anche polizia e carabinieri hanno enormi difficoltà a mettere piede. L’ultimo episodio riguarda una gazzella dei carabinieri presa a sassate. Se arriva una segnalazione la procedura non prevede interventi solitari. Anzi, si entra solo quando si sono radunati almeno quattro equipaggi e solo se strettamente necessario. Spesso il blitz finisce in un nulla di fatto, altre si riesce ad aprire una trattativa con i «leader» del campo: se si è fortunati la refurtiva, il Tir, l’auto o lo scooter, compaiono come per incanto un paio d’ore dopo fuori dalle recinzioni, in un’area comune così da non poter attribuire responsabilità ai singoli. Entrano con un po’ più di facilità quelli del commissariato competente (Scalo Romana) e della stazione dei carabinieri (Gratosoglio) o alcuni, selezionati, agenti della polizia locale, presenze ormai «tollerate». In questo modo, solo la polizia ha recuperato negli ultimi mesi una cinquantina di ruspe Bobcat rubate dai cantieri. La specialità dei nomadi di Chiesa Rossa. Ma per ottenere risultati servono prove di forza massicce. In un caso, ad esempio, i poliziotti avevano avuto la certezza che nell’area si trovassero delle statue rubate in una villa. Blitz con 150 agenti e statue lasciate, il mattino dopo, fuori dal commissariato di via Chopin: trasportate di peso e riconsegnate. Dai «cugini» di via Negrotto, quelli di via Chiesa Rossa hanno appreso il gusto per il design. Lo sanno bene i mobilieri della Brianza truffati e rapinati con maxi ordinazioni di arredi di lusso che puntualmente venivano «svaligiati» dai camion. «Noi siamo operai, ci spacchiamo la schiena nei cantieri. Sono tutte bugie», si giustificano gli abitanti. Nel 2009 ad alcuni nomadi vennero sequestrati beni per 2 milioni di euro: una villa con piscina a Dairago e auto di lusso. Il campo è stato creato nel ‘99 per gli sfollati di via Palizzi, via Fattori e Muggiano. Secondo i piani di Palazzo Marino doveva diventare «l’insediamento modello» per Milano. Chissà se la pensano ancora così.
Mario Giordano: “Gli italiani non sono razzisti. Sono stanchi”, scrive il 18/02/2017 Michel Dessì su Interviste “Il Giornale”. Incontrare Mario Giordano, direttore del TG4, da lui totalmente rinnovato tanto da aver ripreso smalto, leggerezza e credibilità, non è sicuramente cosa da poco. Il Direttore rappresenta la comunicazione a tutto tondo. Carta stampata, libri, televisione, web… Una carriera in costante mutamento che ha sempre tenuto conto della necessità della gente comune di conoscere la verità. Quella che spesso viene rivestita dell’abito chiassosamente variopinto dell’impressione e del giudizio personale.
Direttore, quanti italiani La contattano quotidianamente sperando di trovare tramite Lei la soluzione ai propri problemi?
“Tanti, tantissimi. E questo è un problema serio: quando la Tv o un giornale diventano l’unica speranza per la risoluzione di un dramma vuol dire che le istituzioni hanno fallito”.
Quanto è OFF, oggi, dare voce alla piazza piuttosto che alle tribune abbondantemente popolate di presunti vip televisivi?
“E’ molto off. E proprio per questo mi piace farlo”.
C’è stata mai un’occasione nella quale Mario Giordano sia stato OFF? Se sì, quale?
“Mi sento sempre un po’ off. E anche un po’ off limits. Però se essere on significa partecipare alla Leopolda, beh, preferisco essere off”.
L’Italia sta cambiando volto, divenendo forzatamente multietnica e, di conseguenza, multi culturale. Come cambia l’informazione quando deve soddisfare così tante esigenze?
“L’informazione è nell’occhio del ciclone di mille trasformazioni: tecnologiche, economiche, strategiche, culturali. Però io credo che la questione del multiculturalismo non riguardi tanto il mondo dell’informazione, ma il mondo in sé. Cioè la nostra civiltà. E dobbiamo chiederci se anziché di fronte all’integrazione non siamo di fronte a un’invasione, se anziché costruire una società multietnica stiamo distruggendo le nostre radici…”
Scegliere l’Italia e gli Italiani sembra sia diventato sinonimo di razzismo e xenofobia. Il contrario non sarebbe una resa incondizionata all’invasione?
“Oggi si usa l’espressione “razzista” (ma anche xenofobo, demagogo, populista, etc) quanto mai a sproposito. L’Italia non è un Paese razzista, gli italiani non sono razzisti. Si fanno semplicemente alcune domande che io ritengo legittime. Ogni buon padre di famiglia, del resto, prima di invitare a cena sconosciuti, pensa a sfamare i suoi figli, no? E perché invece lo Stato italiano non lo fa?”
E se un giorno una classe politica a maggioranza non italiana riuscisse a cambiare totalmente la Costituzione, dove andrebbero a finire gli ultimi secoli di indipendenza e lotta per la democrazia?
“Credo che quello che ha raccontato Houellebecq in Sottomissione possa trasformarsi in una tragica realtà”.
Amare l’Italia sta diventando OFF?
“Se ci pensa lo è sempre stato. Non è un caso che i più ferventi sostenitori del multiculturalismo e dell’integrazione vengono dall’esperienza degli anni Settanta in cui la parola “Patria” era bandita e censurata (insieme a Dio e famiglia, altre due radici della nostra civiltà che stiamo progressivamente distruggendo)”.
L’Unione Europea sembra aver deluso i sogni, le aspettative, i progetti di tutti i suoi popoli. C’è chi ne è già uscito, chi lo spera, chi si sta organizzando per farlo. Lei si sente ancora cittadino europeo?
“Non mi sono mai sentito europeo. Sulla costruzione dell’Europa è stato sbagliato tutto in modo ormai, io ritengo, irrimediabile. L’unica soluzione è tornare indietro”.
Il premier e il governo stanno cominciando a prendere le distanze dalla politica europea sull’immigrazione. Si tratta di una manovra politica, prereferendaria, oppure di una presa d’atto del collasso di tutto il sistema d’accoglienza?
“Si cerca di scaricare altrove anche le proprie colpe. Per mesi e mesi a ogni nostra osservazione ci rispondevano: “Ci penserà l’Europa…”. Ma non era difficile immaginare quello che sarebbe successo”.
Da pochissimo tempo è iniziata per Lei una nuova avventura editoriale, la collaborazione con Maurizio Belpietro sul neonato quotidiano La Verità. Cos’è la verità e quanto vale?
“La verità è una ricerca quotidiana. Vale la vita”.
Conclusioni finali…
“Una conclusione ha senso solo se è un inizio”.
L’ITALIA DELL’INVIDIA E DELL’IMBECILLITA’.
L’ITALIA DEGLI INVIDIOSI. (1901 - Luigi Capuana, Il Marchese di Roccaverdina, Vallecchi, Firenze, 1972) - "E se c'era qualcuno che osava di fargli osservare che si era fatto sempre così, da Adamo in poi e che era meglio continuare a fare così, il marchese alzava la voce, lo investiva: - Per questo siete sempre miserabili! per questo la terra non frutta più! Avete paura di rompervi le braccia zappando a fondo il terreno? Gli fate un po' il solletico a fior di pelle, e poi pretendete che i raccolti corrispondano! Eh, sì! Corrispondono al poco lavoro. E sarà ancora peggio!" (p. 45) - "Noi abbiamo quel che ci meritiamo. Non ci curiamo di associarci, di riunire le nostre forze. Io vorrei mettermi avanti, ma mi sento cascare le braccia! Diffidiamo l'uno dell'altro! Non vogliamo scomodarci per affrontare le difficoltà, nel correre i pericoli di una speculazione. Siamo tanti bambini che attendono di essere imboccati col cucchiaino... Vogliamo la pappa bell'e pronta!" (pp. 86-87)
(1913 - Grazia Deledda, Canne al vento, Mondadori, Milano, 1979) - "Che posso fare, che posso io? Tu credi che siamo noi a fare la sorte? ... E tu, sei stato tu, a fare la sorte?" "Vero è! Non possiamo fare la sorte - ammise Efix." (p. 195) - "Sì, - egli disse allora, - siamo proprio come le canne al vento, donna Ester mia. Ecco perché! Siamo canne, e la sorte è il vento." "Sì, va bene: ma perché questa sorte?" "E il vento, perché? Dio solo lo sa." (p. 240)
(1915 - Norman Douglas, Vecchia Calabria, Giunti Martello, Firenze, 1978) - "... qual è il più evidente vizio originario? L'invidia, senza il minimo dubbio." "D'invidia gli uomini patiscono e muoiono, per invidia si uccidono l'un l'altro. Produrre una razza più placida (con l'aggettivo 'placida' io intendo solida e riservata), diluire le invidie e le azioni da esse ispirate, è, in fin dei conti, un problema di nutrizione. Sarebbe interessante scoprire di quanto cupo arrovellarsi e di quanti gesti vendicativi è responsabile quel ditale di caffè nero mattutino." (p. 191)
(1930 - Corrado Alvaro, Gente in Aspromonte, Garzanti, Milano, 1981) - "Glielo aveva detto tante volte di non menar vanto del figlio e di non gloriarsi dell'avvenire, perché l'invidia ha gli occhi e la fortuna è cieca. Signore Iddio, com'è fatta la gente! che non può vedere un po' di bene a nessuno, e anche se non hanno bisogno di nulla, invidiano il pane che si mangia e le speranze che vengono su." (pp. 68-69)
(1959 - Morris L. West, L'avvocato del diavolo, Mondadori, Milano, 1975) - "Eccolo qui, il maledetto guaio di questo paese! La vedi bene anche tu la ragione per cui siamo di cinquant'anni più indietro che tutto il resto d'Europa. Non vogliamo organizzarci, non vogliamo neanche sentire la parola disciplina. Non vogliamo collaborare. Ma è impossibile costruire un mondo migliore con una zuppiera piena di pasta e un secchio d'acqua santa." (p. 111)
(1975 - Giuseppe Fava, Gente di rispetto, Bompiani, Milano, 1975) - "Elena, hai mai pensato... quante volte, dinanzi alle cose che accadono, una sciagura, una malattia... l'essere umano ha un moto di disperazione e si chiede perché... la ragione delle cose voglio dire... nascere, poi soffrire o morire? Solo un attimo di ribellione, perché subito ognuno si rassegna all'idea che è Dio a muovere le cose e deve avere il suo segreto disegno. Così l'essere umano sopporta il suo destino; ma che altro può fare? Pensa che tutto deve necessariamente accadere, anche il dolore e la morte, e di questo fa la sua consolazione..." "E questo cosa c'entra con la miseria? Che c'entra con l'ingiustizia? Sono soltanto due cose umane: perché i poveri dovrebbero subirle?" "Perché quasi sempre il povero pensa che tutte le cose umane siano come la morte: la miseria, l'ignoranza fanno parte di questa fatalità. Altrimenti..." "Altrimenti cosa?" "Altrimenti da migliaia di anni gli uomini avrebbero già dovuto uccidere e sgozzare i potenti e i fortunati ... Di questo paese non ci dovrebbe essere più pietra su pietra." (pp. 163-164)
ITALIA, IL PAESE DOVE L’INVIDIA TRIONFA? Siamo davvero affetti da quella malattia chiamata invidia? Scrive “Plindo”. Perchè la tendenza degli italiani è quella di criticare sempre in negativo l’operato degli altri? Perchè spesso ci limitiamo a guardare solo con estrema superficialità le cose anziché approfondire e cercare di capire? In Italia davvero trionfa l’invidia? Oppure è diffusa in egual modo in tutto il mondo? La difficoltà delle persone ad andare oltre e cercare di capire qualcosa di diverso, è davvero grande. I più purtroppo si soffermano sull’aspetto più esposto dell’argomento senza scendere in profondità, arruolandosi il diritto di criticare e dare suggerimenti senza che nessuno li abbia richiesti. Tutto questo viene spesso si confonde con la libertà di pensiero. La libertà di pensiero non ha niente a che vedere l’invidia. Ed è giustissimo che ognuno di noi abbia la libertà di esprimere ciò che pensa come meglio crede, tuttavia è allo stesso tempo consigliabile informarsi, approfondire e cercare di capire altrimenti si corre il rischio che la nostra libertà di pensiero sia fraintesa per invidia. L’invidia nasce da un confronto tra noi e gli altri ed è sgradevole sia per chi la prova in prima persona che per chi la riceve. L’invidioso è una persona che desidera possedere ciò che altri hanno e che ritiene di non poter avere. Ci sono diverse tipologie di invidia. La prima è quella rabbiosa, la più pericolosa. Spesso chi ne è affetto non prova nemmeno a chiedersi se ha capito bene. Critica impulsivamente a spada tratta qualsiasi cosa, con quella rabbia (e talvolta ignoranza) tipica di colui che ha disperatamente cercato di farcela nella vita senza mai riuscirci realmente. La seconda tipologia di invidia è quella passiva, altrettanto pericolosa. Ne sono affetti quelli che provano un sentimento di invidia forte che però lo dimostrano con l’indifferenza più totale; quest’ultimi non muovono alcuna critica, semplicemente evitano di cooperare per non portare alcun tipo di vantaggio alla persona oggetto di invidia. Il terzo e ultimo tipo di invidia è quella che affligge coloro che inizialmente, per esempio, fanno concretamente parte di un determinato progetto, dopodichè, allontanandosi da questo per le più svariate vicissitudini, lo criticano in maniera feroce, tuttavia, in incognito. Pericolosissimi. E voi in quale tipologia di invidia vi ritrovate?
Se l’eguaglianza trasuda invidia. L’Italia paralizzata e la lezione americana sulla mobilità sociale, scrive Francesco Forte il 6 Maggio 2015 su “Il Foglio”. Wall Street Journal e Nbc News Poll hanno pubblicato un sondaggio dal quale risulta che la preoccupazione più grande per la maggioranza degli americani intervistati non è la diseguaglianza di reddito in sé, ma la mancanza di mobilità sociale, ossia chance uguali per tutti per andare avanti economicamente. Questa preferenza è molto più marcata tra i repubblicani che tra i filodemocratici: ma comunque solo il 37 per cento di questi ultimi si preoccupa della diseguaglianza più che della mobilità. Fra i filorepubblicani quelli che hanno a cuore la riduzione della diseguaglianza più della mobilità scendono al 15 per cento. Ma il dato che più colpisce è che solo il 34 per cento di coloro che stanno in classi di reddito inferiore ai 30 mila dollari (25 mila euro) annui assegna alla diseguaglianza un’importanza maggiore della mobilità. Le donne che si preoccupano più della diseguaglianza che delle opportunità di modificarla sono solo il 25 per cento contro il 32 degli uomini. Temo che i risultati in Italia siano diversi, data la facilità con cui incontrano più consenso quelli che sostengono la patrimoniale, il reddito minimo garantito, il posto fisso, le imposte progressive, rispetto a quelli che vorrebbero l’ascensore sociale più a portata di mano e la meritocrazia. Forse ciò dipende dal fatto che sino agli anni 50 quasi metà della nostra popolazione viveva di agricoltura e che la maggioranza agognava ad avere un pezzo di terra da coltivare, nel proprio paese, con la casa sopra. Erano stanziali, abitudinari. Invece gli americani avevano il carro dei pionieri, erano mobili; allevavano il bestiame, più che coltivare orti e poderi con la coltura intensiva. Ma c’è anche il fatto che da noi la sinistra politica dall’Ottocento in poi si è imbevuta della lotta di classe, della concezione marxista, per cui il ricco è generalmente uno sfruttatore del lavoro altrui. Va invidiato, tartassato o espropriato, non ammirato e imitato. Non credo che ciò abbia a che fare con l’etica cattolica, in confronto alla protestante, secondo la vulgata di Max Weber. Infatti nell’Italia del Rinascimento la ricchezza era oggetto di ammirazione, assieme alla bellezza. E ciò non solo nei vestiti, nelle carrozze e nelle case dei signori, ma anche nelle cattedrali e nelle vesti dei prelati. Del resto, c’è stata un’epoca, negli anni 80 dello scorso secolo, in cui è sembrato che, insieme al trionfo della televisione, ci fosse anche quello della mobilità sociale, con la riduzione delle diseguaglianze nelle opportunità e la dinamica della competizione al primo posto rispetto alla riduzione delle diseguaglianze nei redditi. Ora abbiamo i No Tav, i No Expo, i No all’abrogazione dell’articolo 18, i No al cambiamento di mansione, di sede, di incarico, di turnazione. La richiesta del reddito di cittadinanza, il bonus in rapporto inverso al reddito e non in proporzione alla produttività, la tutela dall’inflazione per le pensioni minime e in proporzione inversa all’aumento del loro livello, non in base ai contributi versati, e via elencando. A ciò consegue un tasso di crescita del paese che è solo dello 0,6 per cento del pil e un’elevata disoccupazione generale e giovanile. Tu l’as voulu, George Dandin.
Briatore: è l’Italia degli invidiosi. "Da questo Paese si deve fuggire". La scelta dell’imprenditore: "All’estero ammirano chi ce la fa", scrive Leo Turrini il 23 luglio 2016 su “Il Quotidiano.net”.
«Giù le mani da Bonolis! E comunque esiste soltanto una soluzione...».
Sarebbe a dire?
«Lasciarsi alle spalle l’Italia, diventata la patria dell’invidia sociale».
Flavio Briatore non capisce più il Paese delle origini. Lui, sette volte campione del mondo di Formula Uno con Michael Schumacher e Fernando Alonso, non si sottrae al ruolo di simbolo. Di una opulenza mai nascosta, per capirci.
«Io ormai ho rinunciato a comprendere i miei connazionali – sbotta il manager piemontese – Non vi capisco più».
Cosa abbiamo fatto di male?
«Vede, io non voglio scomodare Trump, il discorso nemmeno riguarda la politica. Qui parliamo di una cultura negativa impossibile da estirpare. C’è una differenza enorme tra gli italiani e gli americani, gli inglesi, eccetera».
Quale differenza?
«All’estero ammirano chi ce la fa, chi conquista il successo. Chi diventa ricco per meriti suoi si trasforma in un simbolo positivo».
Da noi invece...
«Ma prenda proprio il caso di Bonolis! A parte il fatto che immagino abbia preso un aereo privato per ragioni di famiglia, mica ha sperperato soldi pubblici. Uno sarà libero di usare il suo denaro come meglio crede o no?».
Beh, non fa una piega.
«Le dirò di più. Basta con questi moralismi da strapazzo. Bonolis è un grande professionista della televisione, uno showman che muove un cospicuo giro d’affari. Ogni sua produzione genera centinaia di posti di lavoro! Di cosa stiamo parlando, mi scusi?».
Forse di niente.
«Eh, bisognerebbe spiegare ai ragazzi che la ricchezza non va detestata. In Italia invece l’invidia sociale si trasforma addirittura in odio. Dovremmo augurarci di stare tutti meglio, ma prevale l’idea assurda che tutti dovremmo stare peggio».
Il trionfo del pauperismo.
«E infatti non se ne può più. Quando ho aperto il Billionaire in Sardegna, mi descrivevano come un nemico del popolo. Ma se spendo soldi miei e rispetto le leggi, di cosa dovrei sentirmi colpevole? Di avercela fatta?».
«Anche i ricchi piangano», recitava uno sfortunato slogan elettorale.
«Appunto. Non sono ottimista perché sradicare un sentimento così profondo non è impresa facile. Infatti io ho preso una decisione ormai venti anni fa e non mi sono mai pentito».
È andato a vivere all’estero.
«Sicuro. Potendo, dall’Italia bisogna andarsene».
Magari con l’aereo di Bonolis. Ma Briatore non tornerebbe nemmeno se lo chiamasse la Ferrari?
«Per carità! Io la Formula Uno non la seguo più da tempo. E comunque anche la Ferrari, per tornare a vincere, deve andare all’estero».
Addirittura.
«O Marchionne apre una base tecnica in Inghilterra o le vittorie se le scorda, si fidi».
L’invidia in Italia …il piccolo decalogo dell’invidioso cronico, scrive Beppe Servegnini (da Il Corriere della Sera, giovedì 16 febbraio 2012, pag. 45). Come attaccare chiunque abbia successo in un Paese di simpatici demagoghi. Una settimana senza Internet, terminata ieri a mezzanotte (questa rubrica è stata dettata). Una quaresima 2.0 che mi ha evitato di commentare due sconcertanti esibizioni dell’Intere una di Adriano Celentano: le prime, diciamo, non me le aspettavo. La quarta figuraccia – candidarci per un’Olimpiade che non possiamo permetterci- è. stata evitata. L’Italia ha bisogno di manutenzione, non di un’altra (costosa) inaugurazione. Un altro tema che avrei voluto discutere in settimana è l’assalto scomposto a Silvia Deaglio, giovane professoressa associata dì medicina presso l’Università di Torino, figlia dell’economista Mario Deaglio e del ministro Elsa Fornero. Non la conosco di persona; mentre, se non ricordo male, ho incontrato due volte il papà e una volta la mamma (che mi ha salutato con una domanda tremenda). Ma ho letto l’appunto di Tito Boeri per lavoce.info - arrivato per fax, sempre a causa del digiuno digitale. Leggo: Silvia Deaglio è quattro volte sopra la media per l’indice H (che misura il numero di lavori scientifici in rapporto al numero di citazioni ricevute). In queste valutazioni internazionali – credetemi – mamma e papà non contano. Tutto lascia pensare che la connazionale sia una giovane donna in gamba. L’astio delle reazioni, tuttavia, mi ha fatto pensare, Affinché sia più facile, in questo Paese di simpatici demagoghi, attaccare indiscriminatamente chi ha successo, ho pensato di stilare il piccolo decalogo dell’invidioso cronico.
1. Chi ha successo ha certamente inlbrogIMo.Altr.ib1ehti avresti avuto successo pure tu. O no?
2. In Italia nulla è metodico, salvo il sospetto.
3. A pensar male si fa peccato, ma si indovina. Senza dimenticare che per il peccato, poi, c’è l’assoluzione.
4· Chiunque ottenga apprezzamento pubblico, dimostra che il pubblico non capisce niente.
5· La mediocrità è un esempio di democrazia applicata. lI merito, una forma di arroganza.
6. Se esiste il minimo comune denominatore, scusate, perché insistere nel dare il massimo?
7· Nella conventicola dell’università italiana, è possibile solo il modello Frati (il rettore della Sapienza dov’è accademicamente sistemata tutta la sua famiglia). II resto è ipocrisia applicata.
8. I genitori di successo possono – anzi, devono – produrre soltanto figli infelici e frustrati. In caso contrario, l’onere della prova spetta a questi ultimi: dimostrate di non avere imbrogliato, marrani!
9· Bisogna diffidare del plauso internazionale. Come si permettono americani, inglesi e tedeschi di farci i complimenti? Cosa contano le università di Columbia e Yale, che oltretutto si chiamano come una casa cinematografica e una serratura?
1o, Quando si tratta di concorsi, incarichi, titoli e promozioni l’importante è fare di tutta l’erba un fascio. E se qualcuno vi accusa per questo, urlategli in faccia: «Fascista sarà lei!”.
Invidiosi o gufi, quando la politica non tollera i diversi. L’eterna abitudine a isolare chi ha opinioni diverse, scrive Mattia Feltri il 24/11/2014 su “La Stampa”. C’è una parte di sinistra, dice il sindaco di Firenze, Dario Nardella, che «sembra assecondare l’Italia invidiosa». Dunque chi è perplesso o apertamente contrario alle politiche di governo non è che la pensi in altro modo, semplicemente è invidioso: termine contenuto nel vocabolario renziano fra gufi e rosiconi, come il premier è abituato a definire gli avversari. Se è un peccato, lo è doppio. Primo perché non è un linguaggio nuovo: erano «invidiosi», secondo Silvio Berlusconi, quelli che lo attaccavano nei giorni tumultuosi delle olgettine; erano «invidiosi», secondo Roberto Formigoni, quelli che prevedevano sconfitte del centrodestra in Lombardia; erano «invidiosi», secondo l’allora leader dei giovani di Forza Italia, Simone Baldelli, i coetanei di sinistra che deridevano una loro iniziativa (e da cui erano chiamavano «piazzisti», tanto per sottolineare la profondità dell’analisi). Sui gufi c’è da star qui mezza giornata. Erano «gufi» e pure «cornacchie» appollaiati sulla Quercia, secondo il fondatore di Alleanza nazionale, Gianfranco Fini, quelli che si aspettavano la crisi del primo governo Berlusconi, 1994; erano «gufi» (e di nuovo «cornacchie»), sempre secondo Fini, quelli che nel 2004 davano in discesa il suo partito; erano «gufi», secondo Dario Franceschini, quelli che nel 2009 vedevano il Pd in difficoltà nel posizionamento europeo (coi socialisti o coi popolari?); erano «gufi» e «veterocomunisti», secondo Berlusconi, i contendenti di centrosinistra. I gufi da queste parti svolazzano da molto prima che li avvistasse Renzi, e ora che li ha avvistati parlano tutti di «gufi»: Beatrice Lorenzin, Nunzia De Girolamo, Luigi De Magistris. È un peccato - secondo motivo - perché i rottamatori non hanno rottamato un metodo fastidioso, il metodo di attribuire a chi è in disaccordo secondi fini inconfessabili perché meschini o loschi. Il sostantivo più usato nel ventennio della Seconda repubblica è «malafede». Sono stati dichiarati in malafede Francesco Rutelli da Francesco Storace, l’intero Pds da Maurizio Gasparri, l’intera An da Luigi Manconi, l’intero centrodestra da Luciano Violante, Massimo D’Alema da Pier Ferdinando Casini, Walter Veltroni da Adolfo Urso, Umberto Bossi da Barbara Pollastrini, Giulio Tremonti da Vincenzo Visco, l’intera Forza Italia da tutta la Margherita, l’intero Ulivo da Renato Schifani, Piero Fassino da Giorgio Lainati, i fuoriusciti del M5S dai non fuoriusciti del M5S...Potremmo andare avanti fino all’ultima pagina di questo giornale, ma tocca segnalare che gufi, rosiconi, invidiosi e disonesti sono tutti figli dei coglioni - linguisticamente e psicologicamente parlando - con cui Berlusconi tratteggiò gli elettori di sinistra nella campagna elettorale del 2006. Se qualcuno non è convinto dalle tue ricette, è un coglione. E siccome la vita è un andirivieni da tergicristallo, a loro volta gli elettori di centrodestra erano irrimediabilmente «coglioni» (o, con le attenuanti, «fessi») secondo l’analisi di Dario Fo; Antonio Di Pietro, assecondando le sue attitudini, li iscrisse in un politico registro degli indagati in quanto «complici». Un meraviglioso ribaltamento della logica spinge a escludere di essere un po’ tardo chi non capisce gli altri: sono gli altri a essere tardi. Ci abbiamo messo del nostro anche noi giornalisti, poiché negli anni si sono letti autorevoli commentatori parlare - per esempio - della «dabbenaggine» e della «complicità nella furbizia illegale» degli ostinati sostenitori di Forza Italia, che a sua volta - secondo esempio - prendeva i voti nella «zona grigia dell’illegalità fiscale» (per non parlare delle perpetue e reciproche accuse di servaggio fra star dei quotidiani). Gli evasori votano Berlusconi, in Sicilia chiunque vinca è perché lo ha votato la mafia, in Italia chiunque vada al governo è a ruota dei padroni e della finanza globale. Una così solida indisponibilità a prendere in considerazione le ragioni degli interlocutori non aveva bisogno dell’esplosivo sbarco sul pianeta della politica di Beppe Grillo (annunciato con un benaugurante vaffanculo). Lui ha riunito in una banda planetaria di farabutti, o in alternativa di imbecilli, chiunque non si inebri alle sue sentenze. A proposito, eccone una delle più rilassate: «Il vero gufo è Renzi».
Il secondo vizio capitale degli Italiani: l’invidia. Che si appunta più sui lontani che sui vicini, scrive Nico Valerio. “Essere stati onesti non ci è convenuto”, ragioneranno tra sé e sé i ministri italiani che una volta tanto hanno fatto gli americani dichiarando pubblicamente redditi, proprietà e perfino numero e modello di automobile posseduta. L’invidia generale, il secondo vizio capitale in Italia, dopo l’antipatia, si è appuntata su di loro. Ma è un falso bersaglio. E anche lo stesso tiro con l’arco in questo caso è uno sport sbagliato. E così, ancora una volta l’Italiano medio si rivela. I paesani, si sa (l'Italia è il classico Paese di provincia), sono invidiosi se un loro concittadino, ritenuto a torto o a ragione "uguale a loro", ha più successo o guadagna di più. Ma vista l’ipocrisia sociale del municipalismo e della meschina solidarietà di quartiere o borgo, di solito l’invidia si appunta meno sui vicini di casa, che un giorno potrebbero esserti utili, che sui personaggi lontani e inaccessibili. Come i governanti e i politici, appunto, ma anche gli attori, i presentatori della televisione, i calciatori e qualunque “personaggio pubblico”. Così anziché lodare l’autodenuncia all'anglosassone di redditi e proprietà da parte dei ministri del governo Monti, su internet e sui giornali i concittadini li stanno investendo di ironia, astio, critiche di ogni tipo. Eppure, sono sicuri questi invidiosi che davvero gli piacerebbe la vita che fanno (e hanno fatto, per arrivare a questo punto della loro carriera) quei ricchi ministri “tecnici” (finanzieri, economisti di grido, industriali o avvocatoni)? Conoscendo bene gli Italiani, rispondo di no. Gli Italiani, certo, vorrebbero la pappa già cotta, ma nessun sacrificio per ottenerla. Nessun italiano medio appena benestante resterebbe così a lungo con auto così vecchie come quelle denunciate dai ministri. Dunque è solo pura (in realtà non c’è nulla di più impuro dell’invidia) invidia sociale e personale. Impura, perché anziché impegnarsi a studiare o a fare comunque imprese geniali o cose creative in genere, cioè a misurarsi nella scala del merito individuale, gli Italiani invidiosi invidiano il risultato, fortuito o meno, di quelle altrui imprese: il successo economico. Ovvero, l’ultimo gradino. E’ come se uno scalatore invidiasse un altro soltanto per essere arrivato sul Monte Bianco, senza calcolare tutta la sua preparazione, magari ultradecennale, e comunque l’intera e difficoltosa salita. L’impiegato tipo, in particolare (categoria da cui solitamente vengono le critiche e le invidie maggiori), uomo o donna che sia, che spesso ha scelto o si è accontentato di questo lavoro proprio per la sua manifesta tranquillità, per il minimo potere decisionale e quindi per la quasi nulla responsabilità personale, non può invidiare chi da solo, rischiando e impegnando tutta la propria personalità, coi relativi alti rischi, persegue posizioni elevate in cui proprio le capacità personalissime di giudizio critico e decisionali sono gli elementi che procurano alti guadagni. Un grande errore, perciò, questo genere di invidia lavorativa. E poiché l’invidia ottunde la ragione anche dei pochi intelligenti, gli invidiosi non capiscono che l’autodenuncia dei ministri serve nei Paesi liberali a mettere in luce preventivamente eventuali interessi in conflitto, non a favorire invidie e moralismi da strapazzo. In un sistema liberale è lecito e perfino auspicabile che la gente guadagni e diventi ricca, se lo vuole e può, perché si presume, fino a prova contraria, che c’entri in qualche misura un particolare merito. Ecco perché le raccomandazioni o le cordate di “amici”, e i privilegi in genere sono o malvisti o addirittura puniti severamente. Come atti di “concorrenza sleale” o illecita. Benissimo, quindi, se un concittadino è diventato meritatamente ricco. A patto però che non solo paghi tutte le tasse, ma che abbia (come i liberali ricordano sempre alla borghesia) anche dei doveri, che insomma sia grato alla società per la possibilità insolita che ha avuto, e che quindi sia sempre attento ai bisogni delle classi meno abbienti e povere. E invece alcuni ministri “tecnici” ricchi, non provenendo dalla politica, e non avendo perciò quel minimo di frequentazione diretta dei ceti disagiati o poveri dell’elettorato, sono apparsi insensibili quando hanno scelto di tassare ancor più i ceti medi e bassi, anziché quelli alti (per es., operazioni di finanza, banche, assicurazioni) e di svendere inutili enti o proprietà di Stato. E sono apparsi odiosi quando hanno ironizzato sui “fannulloni” o sugli “impiegati pigri” o sugli “sfigati” che guadagnano 500 o 1000 euro al mese, come se tutti costoro fossero degli incapaci. In realtà la psicologia ci insegna che il vedersi sbarrata ogni strada elevata dal sistema della raccomandazione e delle “amicizie giuste”, spesso ereditate dalla famiglia, può far cadere in depressione e abulia individui anche di valore. Stiano attenti, perciò i neo-politici tecnici o i ministri ricchi a ostinarsi a frequentare solo i pari grado sociale, cioè i ricchi e potenti. Accade invece nei veri Paesi liberali che sono quelli anglosassoni, forse nello spirito antico del calvinismo e luteranesimo (religioni che a differenza del cattolicesimo non vogliono le sfacciate ostentazioni e ritengono successo e soldi una sorta di riconoscimento di Dio), i ricchi, politici o no, per farsi in qualche modo perdonare di aver ricevuto più di quanto hanno dato nella grande partita a poker che è la vita, non solo facciano beneficienza a larghe mani, non solo finanzino premi e fondazioni e istituti di ricerca scientifica, favoriti anche dall’esenzione fiscale, ma svolgano addirittura “lavori socialmente utili”. Come appunto, se ne sono capaci, quello quasi onorifico di aiutare a gestire la cosa pubblica. Ecco, dopo ricchissimi padroni delle ferriere che hanno depredato il Paese pensando egoisticamente solo ai propri interessi economici, fiscali e giudiziari, dopo ministrucoli senza arte né parte che privi di altre occupazioni (tanto meno studi, figuriamoci!) hanno preso la Politica come unica fonte delle loro ricchezze e dei loro privilegi, ci piace immaginare che i super-ricchi del governo Monti stiano svolgendo, pur con gli inevitabili errori e limiti (devono essere votati in Parlamento proprio dai Partiti che hanno combinato o sottovalutato dolosamente il disastro economico) una sorta di anno sabbatico a favore del Paese. E il fatto che qualcuno di loro abbia rinunciato almeno allo stipendio di ministro avvalora questa sensazione del tutto nuova, ma anche un po’ antica, che ci riporta ai tempi dell’800, quando fare politica era quasi un “servizio”, un “dovere civile”. E c’erano deputati ricchi che si impoverivano a causa della politica. “Ma perché i governanti devono per forza essere ricchi?” chiedono i cittadini comuni. E’ vero, ci sono stati parlamentari che al momento di entrare alla Camera o al Senato erano operai o disoccupati, e tuttora non pochi parlamentari italiani hanno come unico reddito lo stipendio. Ma, attenzione, questi sono proprio i famigerati “politici di professione”, quelli più malvisti dal pubblico. Ed anche l’avvocato che smette la professione per fare il deputato, alla lunga diventa un politico di professione. Però lo stipendio in Italia è tale da trasformare un povero in un benestante, e dopo un’intera legislatura, in un ricco. Per i governanti, poi, lo stipendio totale è ancora più alto, anche se di poco. E’ quindi impossibile che chi siede al Governo sia povero. Diversissimo, invece, il caso dei tanti dirigenti o managers di Stato (e anche privati) che dimostrano quotidianamente di non meritare affatto l’alto stipendio guadagnato, e ancor meno la pensione d’oro. In questo caso la critica popolare, pur manifestata con i colori sgradevoli dell’invidia, svolge un ruolo prezioso. Può aiutare a farli vergognare di se stessi.
Commentare le notizie senza leggerle, quando Facebook è lo specchio dell’Italia di oggi. Cosa succede quando un gesto di disperazione (non) è di un lavoratore italiano, scrive Emanuele Capone il 29/07/2016 su "La Stampa". Ripubblichiamo l’articolo comparso su Il Secolo XIX che ricostruisce la vicenda dei commenti all’articolo pubblicato il 28 luglio sull’edizione online. Ieri mattina abbiamo pubblicato sulla pagina Facebook del Secolo XIX la notizia dell’uomo di 38 anni che ha cercato di darsi fuoco a Sarzana (foto) dopo avere perso casa e lavoro, ma senza specificare che si tratta di un cittadino marocchino. Abbiamo scritto semplicemente che «un uomo di 38 anni, sfrattato e senza lavoro, tenta di darsi fuoco davanti alla moglie e ai figli». Il primo commento è arrivato 4 minuti dopo la pubblicazione del post: «Diamo lavoro agli altri...», con tanto di “mi piace” di un’altra persona che evidentemente ha la medesima opinione; poi, un diluvio: «(con gli, ndr) immigrati non lo fanno», «aiutiamo gli italiani come il signore», o anche, in rapida sequenza, «per lui non esistono sussidi, alberghi e pranzi pagati, vero?» e «aiutiamo gli altri, noi carne da macello», «come mai non gli hanno dato un albergo a tre stelle come ai (suoi, ndr) fratelli migratori?», e i vari «ma noi... pensiamo a ‘sti maledetti immagrati (così nel testo, ndr)» e «invece agli immigrati... » o il più articolato «ma perché, perché... basta andare a Brindisi, imbarcarsi per l’Albania e fare ritorno a Brindisi il giorno dopo... vestito male... e il gioco è fatto!». È solo quasi 4 ore dopo la condivisione del post che qualcuno legge la notizia e si accorge che il 38enne è in effetti un cittadino straniero, e lo fa notare agli altri: «24 commenti e nessuno ha letto l’articolo, viste le risposte!». Proprio così: sino a quel punto, evidentemente, moltissimi avevano commentato basandosi solo sul titolo, senza nemmeno sapere su che cosa stavano esprimendo la loro opinione. Da quel momento, il tenore degli interventi cambia, c’è chi fa notare a molti dei primi commentatori che «guardate che è marocchino» e comunque il post perde rapidamente d’interesse: il 38enne non è italiano e quindi, come fa notare qualche irriducibile, «non avremo perso nulla...». Quel che è accaduto ieri dimostra innanzi tutto qual è il rapporto degli italiani (di una parte, almeno) con i cittadini stranieri: nessuna sorpresa qui, purtroppo. E nemmeno sorprende quel che è diventato il rapporto degli (stessi?) italiani con l’informazione: se prima si sfogliava velocemente il giornale al bar, si spiavano i titoli dalla spalla del vicino in autobus, adesso il bancone del bar è diventato il News Feed di Facebook e i titoli si scorrono ancora più velocemente, perché tempo da perdere per leggere non ce n’è. Per commentare quello che non si è letto, invece, sembra essercene in abbondanza. Ed è anche per questo, per la mancanza di attenzione di chi legge, che da tempo il rapporto dei siti d’informazione con commenti e commentatori è parecchio travagliato. E nell’ultimo anno non è migliorato: «Spegniamo i commenti per un po’», aveva annunciato The Verge a luglio 2015, più o meno nello stesso periodo in cui la Bbc si chiedeva se «è iniziata la fine dei commenti online». In realtà, almeno per il momento, i commenti sopravvivono, ma sempre più siti decidono di passare la “patata bollente” (di chi insulta, offende, minaccia di morte, si esprime in modo razzista e così via) a Facebook: sotto gli articoli non si può più commentare e si è “costretti” a farlo sui social network, dove chi scrive è identificabile con un nome e un cognome e soprattutto dove la responsabilità legale diventa personale (perché anche i giornali devono tutelarsi): se offendi, vieni chiamato tu a rispondere , non chi gestisce il sito. Pensateci, se siete fra le oltre 60mila persone che ieri si sono viste passare davanti su Facebook la notizia dell’uomo (sì, un marocchino) che ha cercato di darsi fuoco a Sarzana e avete lasciato un commento basandovi solo sul titolo. Se a scuola vi hanno insegnato a leggere, prima che a scrivere, un motivo ci sarà. Abbiamo scelto di non pubblicare qui i nomi dei commentatori, ma il post è pubblico: se siete curiosi, potete trovare gli autori sulla nostra pagina su Facebook.
Filippo Facci censurato. Vittorio Feltri su “Libero Quotidiano il 31 luglio 2016, la furia e lo sdegno: "Il popolo di fessi e cretini". I social network talvolta possono essere divertenti, ma sono quasi sempre dannosi. Amplificano i luoghi comuni, danno voce a chi di norma non ne ha e ciò ha un valore democratico almeno apparente. Non serve combatterli e chiederne l’abolizione. Chi non ha niente da dire di solito è molto ciarliero e si esprime con veemenza verbale nella speranza - vana - di farsi sentire e di avere udienza. La maggioranza dei fruitori dei social è costituita da gente isterica che si sfoga insultando chiunque abbia un ruolo più o meno importante, politici, uomini e donne sotto i riflettori, insomma i cosiddetti vip. I luoghi di incontro telematico sono la versione moderna e ingigantita del bar commercio, dove ciascuno dice la prima scemata che gli viene in testa, raramente verificando l’attendibilità delle proprie sparate. Su Twitter e su Facebook dominano il turpiloquio, l’invettiva e l’ingiuria. Persone anonime si divertono un mondo ad avere accesso alla piazza web che consente loro di sparacchiare giudizi anche temerari, comunque incauti, di sicuro poco ponderati. I social permettono a tutti di porsi in evidenza, anzi di illudersi di contare qualcosa e di orientare l’opinione pubblica. Però sul piano pratico non so fino a che punto le idee della folla che usa internet per farsi notare incidano sulle decisioni di chi ha in mano le leve del potere. Poco, suppongo. Anche perché l’uso del computer in Italia è ancora limitato alle persone giovani che hanno dimestichezza con le tecnologie avanzate. Osservando quanto avviene sui social si ha poi la sensazione che essi siano un moltiplicatore di banalità atte ad incrementare il conformismo. Chi esce dagli schemi più diffusi del pensiero unico, quello di moda, si trova a dover combattere con una massa di disinformati che però, essendo assai folta, si ritiene forte e invincibile. L’esempio più eclatante lo si è avuto in questi giorni. Il nostro ottimo inviato Filippo Facci, per aver scritto articoli documentati e vigorosi contro le violenze islamiste, è stato confinato all’indice da Facebook, escluso dalla community quale elemento indesiderabile. In altri termini, censurato, bocciato quale disturbatore intollerabile di coloro che sono al servizio della divulgazione convenzionale. Facci, giornalista eminente di Libero, come tutti può piacere o no, ma è indubbio che sia un uomo di rara intelligenza e capace di interpretare i fatti della vita in modo originale. Sull’islam egli ha scritto pagine che è da fessi sottovalutare in quanto offrono spunti di riflessione profonda. Ebbene, poiché le sue tesi non rientrano nel calderone delle insulsaggini correnti, i guardiani di Facebook le hanno disinvoltamente oscurate, quasi si trattasse di bestemmie. Ormai siamo a questo punto. Chi non sta con i musulmani, assassini o no, in Italia è sgradito, considerato un reietto, un fascista, peggio, un essere indegno di ospitalità. Fossi in Facci, mi vanterei di essere respinto dai cretini. Libero è suo e lo sarà sempre. Vittorio Feltri
E poi la pietra tombale...
«I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli», scrive “La Stampa” il 10 giugno 2015. Attacca internet Umberto Eco nel breve incontro con i giornalisti nell’Aula Magna della Cavallerizza Reale a Torino, dopo aver ricevuto dal rettore Gianmaria Ajani la laurea honoris causa in “Comunicazione e Cultura dei media” perché «ha arricchito la cultura italiana e internazionale nei campi della filosofia, dell’analisi della società contemporanea e della letteratura, ha rinnovato profondamente lo studio della comunicazione e della semiotica». È lo stesso ateneo in cui nel 1954 si era laureato in Filosofia: «la seconda volta nella stessa università, pare sia legittimo, anche se avrei preferito una laurea in fisica nucleare o in matematica», scherza Eco. La sua lectio magistralis, dopo la laudatio di Ugo Volli, è dedicata alla sindrome del complotto, uno dei temi a lui più cari, presente anche nel suo ultimo libro `Numero zero´. In platea il sindaco di Torino, Piero Fassino e il rettore dell’Università di Bologna, Ivano Dionigi. Quando finisce di parlare scrosciano gli applausi. Eco sorride: «non c’è più religione, neanche una standing ovation». La risposta è immediata: tutti in piedi studenti, professori, autorità. «La tv aveva promosso lo scemo del villaggio rispetto al quale lo spettatore si sentiva superiore. Il dramma di Internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità», osserva Eco che invita i giornali «a filtrare con un’equipe di specialisti le informazioni di internet perché nessuno è in grado di capire oggi se un sito sia attendibile o meno». «I giornali dovrebbero dedicare almeno due pagine all’analisi critica dei siti, così come i professori dovrebbero insegnare ai ragazzi a utilizzare i siti per fare i temi. Saper copiare è una virtù ma bisogna paragonare le informazioni per capire se sono attendibili o meno».
Il professor Vittorino Andreoli: "L'Italia è un Paese malato di mente. Esibizionisti, individualisti, masochisti, fatalisti", scrive Andrea Purgatori su L'Huffington Post il 06/08/2013. “L’Italia è un paziente malato di mente. Malato grave. Dal punto di vista psichiatrico, direi che è da ricovero. Però non ci sono più i manicomi”. Il professor Vittorino Andreoli, uno dei massimi esponenti della psichiatria contemporanea, ex direttore del Dipartimento di psichiatria di Verona, membro della New York Academy of Sciences e presidente del Section Committee on Psychopathology of Expression della World Psychiatric Association ha messo idealmente sul lettino questo Paese che si dibatte tra crisi economica e caos politico e si è fatto un’idea precisa del malessere del suo popolo. Un’idea drammatica. Con una premessa: “Che io vedo gli italiani da italiano, in questo momento particolare. Quindi, sia chiaro che questa è una visione degli altri e nello stesso tempo di me. Come in uno specchio”.
Quali sono i sintomi della malattia mentale dell’Italia, professor Andreoli?
“Ne ho individuati quattro. Il primo lo definirei “masochismo nascosto”. Il piacere di trattarsi male e quasi goderne. Però, dietro la maschera dell’esibizionismo”.
Mi faccia capire questa storia della maschera.
“Beh, basta ascoltare gli italiani e i racconti meravigliosi delle loro vacanze, della loro famiglia. Ho fatto questo, ho fatto quello. Sono stato in quel ristorante, il più caro naturalmente. Mio figlio è straordinario, quello piccolo poi…”.
Esibizionisti.
“Ma certo, è questa la maschera che nasconde il masochismo. E poi tenga presente che generalmente l’esibizionismo è un disturbo della sessualità. Mostrare il proprio organo, ma non perché sia potente. Per compensare l’impotenza”.
Viene da pensare a certi politici. Anzi, a un politico in particolare.
“Pensi pure quello che vuole. Io faccio lo psichiatra e le parlo di questo sintomo degli italiani, di noi italiani. Del masochismo mascherato dall’esibizionismo. Tipo: non ho una lira ma mostro il portafoglio, anche se dentro non c’è niente. Oppure: sono vecchio, però metto un paio di jeans per sembrare più giovane e una conchiglia nel punto dove lei sa, così sembra che lì ci sia qualcosa e invece non c’è niente”.
Secondo sintomo.
“L’individualismo spietato. E badi che ci tengo a questo aggettivo. Perché un certo individualismo è normale, uno deve avere la sua identità a cui si attacca la stima. Ma quando diventa spietato…”.
Cattivo.
“Sì, ma spietato è ancora di più. Immagini dieci persone su una scialuppa, col mare agitato e il rischio di andare sotto. Ecco, invece di dire “cosa possiamo fare insieme noi dieci per salvarci?”, scatta l’io. Io faccio così, io posso nuotare, io me la cavo in questo modo… individualismo spietato, che al massimo si estende a un piccolissimo clan. Magari alla ragazza che sta insieme a te sulla scialuppa. All’amante più che alla moglie, forse a un amico. Quindi, quando parliamo di gruppo, in realtà parliamo di individualismo allargato”.
Terzo sintomo della malattia mentale degli italiani?
“La recita”.
La recita?
“Aaaahhh, proprio così… noi non esistiamo se non parliamo. Noi esistiamo per quello che diciamo, non per quello che abbiamo fatto. Ecco la patologia della recita: l’italiano indossa la maschera e non sa più qual è il suo volto. Guarda uno spettacolo a teatro o un film, ma non gli basta. No, sta bene solo se recita, se diventa lui l’attore. Guarda il film e parla. Ah, che meraviglia: sto parlando, tutti mi dovete ascoltare. Ma li ha visti gli inglesi?”.
Che fanno gli inglesi?
“Non parlano mai. Invece noi parliamo anche quando ascoltiamo la musica, quando leggiamo il giornale. Mi permetta di ricordare uno che aveva capito benissimo gli italiani, che era Luigi Pirandello. Aveva capito la follia perché aveva una moglie malata di mente. Uno nessuno e centomila è una delle più grandi opere mai scritte ed è perfetta per comprendere la nostra malattia mentale”.
Torniamo ai sintomi, professore.
“No, no. Rimaniamo alla maschera. Pensi a quelli che vanno in vacanza. Dicono che sono stati fuori quindici giorni e invece è una settimana. Oppure raccontano che hanno una terrazza stupenda e invece vivono in un monolocale con un’unica finestra e un vaso di fiori secchi sul davanzale. Non è magnifico? E a forza di raccontarlo, quando vanno a casa si convincono di avere sul serio una terrazza piena di piante. E poi c’è il quarto sintomo, importantissimo. Riguarda la fede…”.
Con la fede non si scherza.
“Mica quella in dio, lasciamo perdere. Io parlo del credere. Pensare che domani, alle otto del mattino ci sarà il miracolo. Poi se li fa dio, San Gennaro o chiunque altro poco importa. Insomma, per capirci, noi viviamo in un disastro, in una cloaca ma crediamo che domattina alle otto ci sarà il miracolo che ci cambia la vita. Aspettiamo Godot, che non c’è. Ma vai a spiegarlo agli italiani. Che cazzo vuoi, ti rispondono. Domattina alle otto arriva Godot. Quindi, non vale la pena di fare niente. E’ una fede incredibile, anche se detta così sembra un paradosso. Chi se ne importa se ci governa uno o l’altro, se viene il padre eterno o Berlusconi, chi se ne importa dei conti e della Corte dei conti, tanto domattina alle otto c’è il miracolo”.
Masochismo nascosto, individualismo spietato, recita, fede nel miracolo. Siamo messi malissimo, professor Andreoli.
“Proprio così. Nessuno psichiatra può salvare questo paziente che è l’Italia. Non posso nemmeno toglierti questi sintomi, perché senza ti sentiresti morto. Se ti togliessi la maschera ti vergogneresti, perché abbiamo perso la faccia dappertutto. Se ti togliessi la fede, ti vedresti meschino. Insomma, se trattassimo questo paziente secondo la ragione, secondo la psichiatria, lo metteremmo in una condizione che lo aggraverebbe. In conclusione, senza questi sintomi il popolo italiano non potrebbe che andare verso un suicidio di massa”.
E allora?
“Allora ci vorrebbe il manicomio. Ma siccome siamo tanti, l’unica considerazione è che il manicomio è l’Italia. E l’unico sano, che potrebbe essere lo psichiatra, visto da tutti questi malati è considerato matto”.
Scherza o dice sul serio?
“Ho cercato di usare un tono realistico facendo dell’ironia, un tono italiano. Però adesso le dico che ogni criterio di buona economia o di buona politica su di noi non funziona, perché in questo momento la nostra malattia è vista come una salvezza. E’ come se dicessi a un credente che dio non esiste e che invece di pregare dovrebbe andare in piazza a fare la rivoluzione. Oppure, da psichiatra, dovrei dire a tutti quelli che stanno facendo le vacanze, ma in realtà non le fanno perché non hanno una lira, tornate a casa e andate in piazza, andate a votare, togliete il potere a quello che dice che bisogna abbattere la magistratura perché non fa quello che vuole lui. Ma non lo farebbero, perché si mettono la maschera e dicono che gli va tutto benissimo”.
Guardi, professore, che non sono tutti malati. Ci sono anche molti sani in circolazione. Secondo lei che fanno?
“Piangono, si lamentano. Ma non sono sani, sono malati anche loro. Sono vicini a una depressione che noi psichiatri chiamiamo anaclitica. Penso agli uomini di cultura, quelli veri. Che ormai leggono solo Ungaretti e magari quel verso stupendo che andrebbe benissimo per il paziente Italia che abbiamo visitato adesso e dice più o meno: l’uomo… attaccato nel vuoto al suo filo di ragno”.
E lei, perché non se ne va?
“Perché faccio lo psichiatra, e vedo persone molto più disperate di me”.
Grazie della seduta, professore.
“Prego”.
Italiani asociali con migliaia di amici su facebook. Psicologia: gli italiani non amano i vicini di casa, scrive il 18 aprile 2016 Grazia Musumeci. Gli italiani razzisti e asociali? In un certo senso sì, soprattutto se hanno a che fare con i vicini di casa. Sarebbe questo l’allarme lanciato da un video-denuncia italiano proposto dalla Nescafé che ha sottoposto alcune persone a un test mettendole a confronto con situazioni sociali diverse, tra cui anche i rapporti condominiali o in generale col vicino di casa. Si è visto che l’italiano medio tende a essere generoso, allegro, socievole e accogliente, ma quando viene messo a confronto con i vicini di casa o di pianerottolo diventa completamente asociale: non saluta, guarda altrove, evita il dialogo, risponde a monosillabi … altro che la torta di benvenuto per i nuovi arrivati, che tanto si vede nei film! E’ la diffidenza che domina nei confronti delle persone o delle famiglie che dovranno condividere una delle nostre pareti. Non ci si fida, se non dopo molti anni e molti tentativi. Il 61% risponde di non avere proprio alcun contatto col vicino di casa, il 57% dichiara di avere contatti solo in ascensore. Sono stati intervistate 1.800 persone di età compresa tra i 18 e i 65 anni e i più asociali in assoluto sono risultati, come sempre, gli abitanti delle grandi città con Milano, Torino, Venezia e Bologna tra le prime in classifica per “asocialità”. A Roma le cose già migliorano mentre al Sud i rapporti sembrano più cordiali, anche se pure qui i vicini si evitano nel 50% dei casi. La diffidenza non ha a che fare con cultura o colore della pelle, la stessa lontananza che si riserva a un immigrato africano la si riserva all’ingegnere italiano del piano di sotto!
Italiani, popolo di «asociali», (ma solo con i vicini di casa). Avvertiti come fastidiosi, persone a cui mostrare distacco senza nemmeno scambiarsi un sorriso e una battuta: sei italiani su dieci li evitano e mostrano caratteristiche asociali nei loro confronti. Un video-esperimento racconta le abitudini sul pianerottolo, scrive Eva Perasso il 14 aprile 2016 su “Il Corriere della Sera”. Si chiama asocialità condominiale ed è un comportamento che in Italia è particolarmente diffuso. Non salutare i dirimpettai del proprio pianerottolo, guardare in basso quando si incrociano i condomini per strada, evitare il dialogo persino nello spazio angusto dell'ascensore, fino ad arrivare a non instaurare alcun rapporto - nemmeno il più banale di gentilezza reciproca - anche nel corso di diversi anni passati a condividere tetto, spese e faticose riunioni di amministrazione: ecco i tratti comuni per riconoscere il tipico “condomino asociale”. Accade in Italia: una curiosa ricerca e un video-esperimento commissionati da Nescafè hanno provato a misurare quanto gli italiani siano asociali nei confronti dei vicini di casa e i risultati sono stati poco gentili nei confronti di chi condivide il tetto con altri condomini. Il 61 per cento degli italiani ammette di non voler avere alcun rapporto con i vicini e anzi la diffidenza è alta in alcuni dei luoghi in cui questa relazione si instaura e si mantiene: l'ascensore (la diffidenza qui è pari al 57 per cento), pianerottolo e scale (66 per cento), fino alla chiacchiera dal balcone (evitata dal 41 per cento degli italiani) sono i luoghi più comuni per un incontro e uno scambio, ma anche i più temuti. Il sondaggio web ha coinvolto 1.800 italiani tra i 18 e i 65 anni e ha anche provato a capire le motivazioni di questa diffidenza, che porta all'asocialità condominiale, all'interno di strutture che invece sono (e sono state nei decenni passati nel nostro Paese) altamente sociali per via della condivisione di spazi comuni. Dalla ricerca emerge però chiaramente come la vicinanza fisica non si trasformi automaticamente in atti di solidarietà o in interazione tra le parti. I più diffidenti sono gli uomini (69 per cento, contro il 53 per cento delle donne) e la città dove si instaurano meno rapporti di buon vicinato è Milano, seguita da Torino, Venezia e Bologna. Al Sud i rapporti sembrano più cordiali, anche se un buon 50 per cento ammette di evitarli. Il professor Marco Costa, del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna, commenta i risultati: «Gli impegni lavorativi possono far vivere la propria abitazione come luogo di rifugio proprio perché l’attività sociale viene già coltivata in altri ambienti. Quando si è a casa, si cerca anzitutto un nido in cui vivere la privacy». Gli intervistati hanno messo in luce la mancanza di tempo per i rapporti sociali condominiali per via dei ritmi di vita frenetici e la paura della microcriminalità, ma anche un po' di timidezza: un italiano su due dichiara di temere di essere ignorato dal vicino, uno su tre non vorrebbe apparire troppo invadente, molti si giustificano mettendo in campo la loro timidezza. Curiose e divertenti le tattiche messe in atto per evitare di avere rapporti coi vicini, anche quando proprio il contatto sembra ormai irrimediabile: frasi di circostanza e di scuse per non fermarsi a chiacchierare vengono usate da oltre il 60 per cento dei vicini, mentre addirittura 8 persone su 10 ammettono di far finta di non vedere il vicino, chinando spesso il capo sul cellulare. Fino al rifiuto totale dell'interazione: aspettare di trovare l'ascensore vuoto o controllare che nessuno passi per le scale prima di uscire dal proprio uscio sono comportamenti confessati da molti.
Italiani asociali? 6 italiani su 10 non parlano coi vicini di casa, specie nei condomìni. Testa bassa o sguardo altrove: gli italiani sono asociali, specie con i vicini di casa. Un’indagine svela che il 61 per cento ammette di non aver alcun tipo di relazione coi propri vicini di casa e di aver difficoltà a relazionarvisi. Esperti sociologi e psicologi spiegano le ragioni di questa «asocialità condominiale», scrive mercoledì 13 aprile 2016 Luigi Mondo. Giornalista esperto in salute. Ha scritto quasi 50 libri tra saggistica, manualistica e narrativa, tradotti in diverse lingue. Altro che buon vicinato o rapporti sociali ricchi e costruttivi, gli italiani quando si tratta di vicini di casa ci fanno una pessima figura. E poi, magari, sono gli stessi che si vantano di avere un sacco di ’’amici’’ su Facebook. Ben 6 italiani su dieci confessano infatti di non avere alcuna intenzione di approfondire alcun rapporto coi propri dirimpettai. Il capro espiatorio della mancanza di riguardo circa i rapporti tra vicinato sarebbero la frenesia della routine quotidiana (73 per cento) e il poco tempo per socializzare (68 per cento). Si è passati così dal cosiddetto ’’condominio famiglia’’ tipico degli anni ‘50, in cui la maggior parte dei vicini di casa si conoscevano e condividevano i momenti della quotidianità, si è passati ai ’’condomini asociali’’, dove si conosce a malapena il nome dei dirimpettai, evitati o salutati a fatica sui pianerottoli. La palma dei più asociali va agli abitanti delle grandi città del Nord, dove la mescolanza di etnie e provenienze regionali, unitamente ai ritmi lavorativi frenetici, hanno accentuato la diffidenza nei condomìni, che si manifesta principalmente sul pianerottolo di casa e le scale (66 per cento), in ascensore (57 per cento) e sul balcone (41 per cento). Lo sconsolante quadro è emerso da uno studio promosso da NESCAFÉ, che porta alla luce una problematica raccontata dal video-esperimento sociale ’’The Nextdoor Hello’’. L’indagine da cui si è preso spunto per l’esperimento è stata condotto con metodologia WOA (Web Opinion Analysis) su circa 1.800 italiani, uomini e donne di età compresa tra i 18 e i 65 anni. Il monitoraggio è avvenuto online sui principali social network, blog e forum per capire come sono cambiati nel tempo i rapporti nei condomìni italiani tra vicini di casa. «L’esperimento sociale The Nextdoor Hello è nato grazie all’individuazione di un fenomeno sempre più forte nelle città italiane, ovvero la crescente difficoltà delle persone di comunicare con i propri vicini di casa – afferma Matteo Cattaneo, Marketing Manager NESCAFÉ – L’obiettivo che abbiamo raggiunto è stato quello di dimostrare empiricamente, attraverso un concreto esperimento ’’sul campo’’ raccontato da un video, che è possibile ridurre le distanze venutesi a creare tra dirimpettai anche con un semplice gesto, come offrire una tazza di caffè». Ma perché questa diffidenza per i vicini di casa è sempre più marcata? Secondo il campione di italiani, il motivo principale sta nella frenesia della routine quotidiana che impedisce di approfondire qualsiasi rapporto che non riguardi il nucleo famigliare, le amicizie più strette o l’ambito lavorativo. Di conseguenza si ha a disposizione poco tempo per la socializzazione, scoraggiata ancora di più dall’aumentata percezione di microcriminalità e terrorismo attraverso i media (39 per cento). Quasi un italiano su 2 (49 per cento) teme di essere ignorato dal vicino, mentre il 32 per cento dei monitorati ha paura di risultare invadente e il 29 per cento sostiene di essere troppo timido. «Gli impegni lavorativi possono far vivere la propria abitazione soprattutto come luogo di riposo e rifugio proprio perché l’attività sociale viene già coltivata in altri ambienti, come il luogo di lavoro ad esempio – spiega il dott. Marco Costa, professore del Dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi di Bologna – Di conseguenza quando si è a casa, si cerca anzitutto un nido in cui vivere la privacy, la riservatezza e il riposo. In secondo luogo, nella società sta aumentando la mobilità e diminuisce il senso di attaccamento al luogo e anche al vicinato». Il problema è che spesso però il contatto con i vicini di casa è inevitabile fuori dalla porta di casa. Quando questo accade, come cercano di divincolarsi gli italiani che non amano il contatto coi condòmini? Ben 8 su 10 fanno proprio finta di niente (79 per cento), abbassando lo sguardo o facendo finta di scrivere un messaggio con lo smartphone. La seconda ’’via di fuga’’ cui si ricorre di più è la frase ’’Scusa ma sono di fretta’’ (68 per cento), seguita dalla variante ’’Sono in ritardo’’ (64 per cento). Il 45 per cento addirittura evita di utilizzare l’ascensore se già occupato da altri vicini, mentre il 39 per cento si assicura che sulle scale non ci sia nessuno quando esce di casa. «La prossimità spaziale tra vicini di casa è una potenzialità che non porta automaticamente all’interazione e alla solidarietà – spiega il dott. Giandomenico Amendola, professore di Sociologia Urbana nella Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze – Essa non determina una spinta all’interazione e, men che meno, alla costituzione di solidi rapporti interpersonali. A maggior ragione, in un palazzo abitato da lavoratori, le occasioni di incontro sono inevitabilmente sporadiche e in genere molto rapide e formali. Andando ad analizzare i fattori che agiscono sui rapporti di vicinato, i principali sono l’omogeneità sociale-culturale e il tempo di residenza». Qual è l’identikit del ’’coinquilino asociale’’? Da quanto emerso dall’indagine sono soprattutto gli uomini a essere diffidenti nei confronti dei vicini di casa (69 per cento), contro il 53 per cento delle donne. La fascia di età che raccoglie più persone diffidenti con i vicini di casa è quella tra i 31 e i 50 anni (71 per cento), mentre scende al 60 per cento tra gli over 50 e al 51 per cento tra gli under 30. Il fenomeno è molto più forte tra gli abitanti dei grandi centri urbani del Centro-Nord come Milano (69 per cento), Torino (68 per cento), Venezia (66 per cento) e Bologna (64 per cento). Al Centro si verifica con minore intensità, come a Roma (57 per cento), mentre al Sud abbiamo Napoli (55 per cento) e Palermo (52 per cento). Tra le categorie più ’’asociali col vicinato’’ ci sono i manager (68 per cento), i liberi professionisti (65 per cento), gli avvocati (64 per cento), i bancari (63 per cento) e gli impiegati (62 per cento). «Per abbattere questi muri la ricetta è molto semplice – conclude lo psicologo Marco Costa – Basta creare attività comuni come pulizia dei luoghi condivisi o feste di condominio, occorre cioè creare degli obiettivi comuni in cui i condomini possono riconoscersi. Piccoli gesti come l’offrire un caffè od offrire cibo costituiscono anche attività che permettono d’incontrare gli altri senza la preoccupazione di dover interagire in modo personale, mitigando l’ansia di un contatto personale». Il sociologo Giandomenico Amendola afferma invece che «Tra i principali simboli della socializzazione tra vicini, il caffè ne è un esempio e appartiene alla tradizione nordamericana: l’espressione ’’popping into neighbours for a coffee’’ è infatti tipica dei sobborghi statunitensi contrassegnati da una forte omogeneità sociale. Proprio per ridare forza a questa tradizione di vicinato è nato il movimento dei Coffee Parties». Quali dunque gli effetti positivi della socializzazione tra vicini di casa? Al primo posto la scomparsa dell’imbarazzo nei successivi incontri con i condòmini (61 per cento), fatto che rende le persone più serene e meno timorose di incrociare i dirimpettai negli spazi comuni. In seconda posizione la consapevolezza di avere un appoggio in caso di bisogno (53 per cento); questo si può verificare per esempio quando manca un ingrediente in cucina o in caso di lievi incidenti domestici. Infine, al terzo posto, la maggiore intraprendenza nell’invitare i vicini di casa per condividere un momento di relax (44 per cento), per esempio davanti a un buon caffè.
Claudio Martelli: “Giovanni Falcone? Era solo, i magistrati lo avevano isolato”. L’ex Ministro di giustizia che volle Falcone con sè al Ministero così racconta: “Giovanni doveva diventare capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo e invece il Csm gli preferì Antonino Meli. Venne a lavorare con me quando in Sicilia era delegittimato”, scrive Paola Sacchi. Claudio Martelli, già vicepresidente del Consiglio dei ministri e titolare del dicastero di Grazia e Giustizia, racconta a Il Dubbio chi era Giovanni Falcone e perché nel 1991 lo prese a lavorare con sé in Via Arenula. L’ex delfino di Bettino Craxi, l’autore della relazione “Meriti e bisogni”, racconta chi era “il giudice più famoso del mondo, che non usava gli avvisi di garanzia come una pugnalata”.
Onorevole Martelli, quando Falcone arrivò da lei si scatenarono molte polemiche. Perché?
«Le polemiche arrivarono dopo, quando soprattutto emerse il disegno di creare oltre alle Procure distrettuali anche una Procura nazionale Antimafia, che poi venne battezzata la Super-procura. Lì si infiammarono gli animi e in alcuni casi si intossicarono».
Gli animi di chi?
«Di chi dirigeva l’Associazione nazionale magistrati. Era Raffaele Bertoni che arrivò a dire letteralmente: di una Procura nazionale Antimafia, di un’altra cupola mafiosa non c’è alcun bisogno…»
Addirittura?
«Sì. E ci furono esponenti del Csm, in particolare il consigliere Caccia, il quale disse che Falcone non dava più garanzie di indipendenza di magistrato da quando lavorava per il ministero della Giustizia. Io dissi che questa era un’infamia. Lui mi querelò, ma alla fine vinsi. Venne indetto anche uno sciopero generale della Anm contro l’istituzione della Procura nazionale Antimafia. Uno sciopero generale, dico!»
Oggi suona come roba dell’altro mondo…
«Sì, ma questo era il clima. La tesi di fondo era che Martelli intendeva ottenere la subordinazione dei Pm al ministro della Giustizia. Questa era la più grande delle accuse. Poi c’erano quelle a Giovanni e al suo lavoro».
Il Pci e poi Pds non fu neppure tanto tenero. O no?
«Erano in prima linea i comunisti. E gli esponenti della magistratura che ho citato erano tutti di area comunista. L’Unità faceva grancassa, dopo aver osannato Falcone in passato, aveva cambiato atteggiamento già prima che Falcone venisse al ministero».
Quando?
«Quando si rompe il fronte anti-mafia e alcuni di quegli esponenti a cominciare dal sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, incominciano ad attaccare Giovanni».
Che successe?
«La polemica tra Orlando e Falcone sorge quando Giovanni indagando sulla base di un rapporto dei Carabinieri in merito a un appalto di Palermo osserva che con Orlando sindaco, Vito Ciancimino era tornato a imperare sugli appalti di Palermo. A quel punto il Sindaco perde la testa e come era nel suo stile temerario e sino ai limiti dell’oltraggio accusa Falcone di tenere nascosti nei cassetti i nomi dei mandanti politici degli assassini eccellenti di Palermo. Cioè quelli di Carlo Alberto Dalla Chiesa di Piersanti Mattarella».
Eravamo arrivati a questo punto?
«Sì, non contento Orlando fa un esposto firmato da lui, dall’avvocato Galasso e da altri, al Csm sostenendo che Falcone aveva spento le indagini sui più importanti delitti di mafia. Il Csm convoca Falcone nell’autunno del ’91 e lo sottopone a un interrogatorio umiliante, contestandogli di non aver mandato avvisi di garanzia a tizio, caio o sempronio. Giovanni pronuncia frasi che secondo me dovrebbero restare scolpite nella memoria di tutti i magistrati italiani».
Le più significative?
«Disse Giovanni: non si usano gli avvisi di garanzia per pugnalare alla schiena qualcuno. Si riferiva in particolare al caso del costruttore siciliano Costanzo. Falcone sostenne che si mandano quando si hanno elementi sufficienti. Ancora: non si rinviano a giudizio le persone se non si ha la ragionevole convinzione e probabilità di ottenere una sentenza di condanna. Le procedure penali per Giovanni non erano un taxi e quindi non vanno a taxametro».
Ritiene che l’insegnamento di Falcone sia stato poi seguito, in passato e nei nostri giorni?
«Sì, ci sono per fortuna magistrati che hanno seguito il suo metodo molto scrupoloso nelle indagini. E quando otteneva la collaborazione dei pentiti era molto attento a verificare le loro dichiarazioni».
Faccia un esempio.
«In un caso palermitano, un pentito, tal Pellegriti, dichiarò che il mandante degli assassini di Piersanti Mattarella era l’on. Salvo Lima. Falcone gli chiese da chi, come e quando l’avesse saputo. Fa i riscontri e scopre che in quella data Pellegriti era in galera. Dopodiché lo denuncia per calunnia. Ma siccome questo pentito era già diventato un eroe dei tromboni dell’anti-mafia, quelli delle tavole rotonde…»
Intende dire gli stessi che celebrano Falcone?
«Sì, dopo ci arriviamo…allora, stavo dicendo che questi si inviperirono contro Falcone perché aveva rovinato loro il giocattolo. E quindi dopo questo episodio e quanto ho raccontato prima, lo denunciano al Csm che “processa” Falcone. Il quale a un certo punto perde la pazienza e dice: se mi delegittimate, io ho le spalle larghe, ma cosa devono pensare tutti i giovani procuratori, ufficiali di polizia giudiziaria? Falcone in quel momento era il giudice più famoso al mondo».
Ci ricordi perché.
«Era quello che aveva fatto condannare in primo grado e in appello la cupola mafiosa dei Riina, Greco e Provenzano. Grazie a lui gli americani avevano condotto l’operazione Pizza connection…. Era così autorevole e famoso che una volta in Canada un giudice di tribunale volle che si sedesse in aula posto suo. Ma poi arrivò la stagione del corvo di Palermo: le lettere anonime nelle quali si infangavano Falcone e De Gennaro».
Un clima ostile, quasi da brivido con il senno di poi…
«Ora se a questo si aggiunge che Giovanni doveva diventare capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo e invece il Csm gli preferì Antonino Meli, e che poi si candidò al Csm e venne bocciato, e infine a procuratore capo di Palermo gli preferirono Pietro Giammanco, si può ben capire il clima attorno a lui. Che giustifica una frase di Paolo Borsellino dopo la strage di Capaci: lo Stato e la magistratura che forse ha più responsabilità di tutti ha cominciato a far morire Falcone quando gli preferirono altri candidati. Venne a lavorare con me quando a Palermo era ormai isolato, delegittimato, messo sotto stato di accusa».
È vera la leggenda che per sdrammatizzare quando arrivava in ufficio dopo pranzo alle segretarie chiedesse scherzoso: neppure oggi Kim Basinger ha chiamato per me?
«Sì, l’ho sentito anche io. Lui aveva anche una grande ironia e la faceva anche su stesso, amava molto la vita. Credo che Giovanni a Roma visse uno dei periodo fu sereni della sua esistenza, perché era messo in condizioni di lavorare».
Come vede le polemiche di oggi tra magistratura e politica?
«Certe cose con Falcone non c’entrano niente. Lui sosteneva la necessità di separare le carriere dei magistrati tra Pm e giudici. Perché il giudice deve essere terzo, imparziale, come dice la Costituzione».
Cosa pensa delle accuse indiscriminate di Piercamillo Navigo, presidente della Anm, ai politici?
«Davigo veniva definito da Antonio Di Pietro il nostro “ragioniere”. Ma io gli riconosco il merito di aver sbaragliato nel congresso dell’Anm tutte le correnti. E poi non è vero che lui accusa indiscriminatamente i politici. Dice che i politici di oggi sono peggio di quelli di ieri». Intervista rilasciata al quotidiano Il Dubbio.
Siamo tutti mafiosi, ma additiamo gli altri di esserlo. La mafia che c’è in noi. Quando i delinquenti dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i politici dicono: “qua è cosa nostra!”; quando le istituzioni ed i magistrati dicono: “qua è cosa nostra!”; quando caste, lobbies e massonerie dicono: “qua è cosa nostra!”; quando gli imprenditori dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i sindacati dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i professionisti dicono: “qua è cosa nostra!”; quando le associazioni antimafia dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i cittadini, singoli od associati, dicono: “qua è cosa nostra!”. Quando quella “cosa nostra”, spesso, è il diritto degli altri, allora quella è mafia. L’art. 416 bis c.p. vale per tutti: “L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri”.
Se la religione è l’oppio dei popoli, il comunismo è il più grande spacciatore. Lo spaccio si svolge, sovente, presso i più poveri ed ignoranti con dazione di beni non dovuti e lavoro immeritato. Le loro non sono battaglie di civiltà, ma guerre ideologiche, demagogiche ed utopistiche. Quando il nemico non è alle porte, lo cercano nell’ambito intestino. Brandiscono l’arma della democrazia per asservire le masse e soggiogarle alle voglie di potere dei loro ipocriti leader. Lo Stato è asservito a loro e di loro sono i privilegi ed il sostentamento parassitario fiscale e contributivo. Come tutte quelle religioni con un dio cattivo, chi non è come loro è un’infedele da sgozzare. Odiano il progresso e la ricchezza degli altri. Ci vogliono tutti poveri ed al lume di candela. Non capiscono che la gente non va a votare perché questa politica ti distrugge la speranza.
Quando il più importante sindaco di Roma, Ernesto Nathan, ai primi del ‘900 scoprì che tra le voci di spesa era stata inserita in bilancio, la TRIPPA, necessaria secondo alcuni addetti agli archivi del comune, per nutrire i gatti che dovevano provvedere a tenere lontani i topi dai documenti cartacei, prese una penna e barrò la voce di spesa, tuonando la celeberrima frase: NON C'È PIÙ TRIPPA PER GATTI, il che mise fine alla colonia felina del Comune di Roma.
I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)
Come funziona l'invidia (e perché in fondo è utile), scrive Giovanni Camardo il 26 dicembre 2015 su Focus. Tutti la provano, nessuno la confessa. Perché è dolorosa per sé e pericolosa per gli altri. Ma è anche utile: ci avverte che abbiamo perso un confronto, dandoci la spinta a migliorare. Perché lei sì e io no? Si prova astio per chi possiede qualità che si vorrebbero avere: come bellezza e gioventù, in questa foto. L’invidia nasce da un confronto sociale perdente, spesso con una persona simile a sé, in un settore che è rilevante per la persona: per esempio, tra donne, sul campo dell’avvenenza. L'invidia è un moto dell’anima tanto velenoso quanto inconfessabile: è la stretta che si prova quando si esce perdenti da un confronto sociale. Si sperimenta quando un altro ha qualcosa che noi vorremmo: oggetti, posizione sociale, o qualità come la bellezza o il successo in amore. È la sofferenza dovuta a un confronto perdente con qualcuno, in un campo che è importante per la persona. Può essere un’emozione, cioè la “stretta” provata quando si viene a sapere che un altro ci ha superato, o diventare un sentimento duraturo: uno stato di malessere e inadeguatezza, con malevolenza verso la persona invidiata. Tutti la provano, per ciò che sta loro a cuore. «Dai ragazzi, verso il compagno che prende voti migliori o è fidanzato, agli anziani: in una ricerca condotta nelle case di riposo vari ospiti hanno confessato di invidiare chi riceve più visite da figli e nipoti» spiegava Valentina D’Urso, già docente di psicologia generale all’Università di Padova e autrice di Psicologia della gelosia e dell’invidia. Se tutti la provano, quasi nessuno la confessa. Si può ammettere di farsi prendere dall’ira, di crogiolarsi nella pigrizia o di soffrire per gelosia, ma di essere rosi dall’invidia no. «È l’emozione negativa più rifiutata. Perché ha in sé due elementi disonorevoli: l’ammissione diessere inferiore e il tentativo di danneggiare l’altro senza gareggiare a viso aperto ma in modo subdolo, considerato meschino» scriveva D’Urso sul suo libro. Sophia Loren non aveva davvero nulla da invidiare… ma ha comunque lanciato un’occhiata “valutativa” al décolleté di Jayne Mansfield, in un ristorante di Beverly Hills (Usa) nel 1958. L’invidia infatti spesso è caratterizzata dall’ostilità nascosta verso l’altro, dal desiderio di danneggiarlo – magari dietro le spalle con commenti denigratori – e di privarlo di ciò che lo rende... invidiabile. Tradizionalmente si teme proprio lo sguardo malevolo dell’invidioso: non a caso la parola latina invidia, rimasta uguale, ha la stessa radice di videre, vedere. Dante, nella Divina Commedia, mette gli invidiosi in purgatorio, con le palpebre cucite da fil di ferro: così sono chiusi gli occhi che invidiarono e gioirono dalla vista dei mali altrui. Anche un’altra caratteristica dell’invidia la rende difficile da ammettere, persino a se stessi. Si prova soprattutto per chi è simile, per le persone che si considerano paragonabili come condizioni di partenza. Per una donna è bruciante il confronto con la conoscente bella e corteggiata, più che quello astratto e “sproporzionato” con una top model; si invidia il collega che è stato promosso, non il direttore generale. Così bersaglio d’invidia spesso diventano persone che ci sono vicine e a cui vogliamo bene, come compagni di classe, colleghi, ma anche amici o fratelli: l’uguaglianza di opportunità rende doloroso l’essere inferiori rispetto ai successi di un fratello o una sorella, in un campo importante per sé. In più, l’invidia per le preferenze fatte dai genitori – come nel racconto biblico di Giuseppe, prediletto dal padre e venduto dai fratelli – si può mescolare alla gelosia per l’affetto dei genitori, che si teme di perdere. Lui ha la coppa, e io? È doloroso sentirsi inferiori rispetto ai successi di un fratello. Chi è invidioso, quindi, lancia tre messaggi: sono inferiore, ti sono ostile per il tuo successo e potrei anche farti del male. Così come Caino uccise Abele, i cui sacrifici erano più graditi da Dio. Basti pensare a un esperimento condotto da Andrew Oswald, della University of Warwick (Gb), e Daniel Zizzo, della University of East Anglia (Gb): i partecipanti, con un gioco al computer, ottenevano differenti somme di denaro e bonus casuali. Poi avevano la possibilità di bruciare i guadagni degli altri, visibili sullo schermo, restando anonimi ma sacrificando parte delle loro vincite. E il 62% dei giocatori lo hanno fatto, pagando fino a 25 centesimi per ogni euro bruciato, cioè perdendo soldi pur di annichilire la ricchezza altrui. Per invidia e risentimento verso guadagni ingiusti. Non solo gli svantaggiati colpivano i più ricchi e avvantaggiati dai bonus: i ricchi, sapendo che sarebbero stati bruciati, colpivano tutti per rappresaglia... Dal test è emerso, dicono gli autori, “il lato oscuro della natura umana”. «Ecco perché l’invidia è messa al bando e condannata dalla società: implica ostilità ed è socialmente distruttiva, perché la persona invidiosa è potenzialmente pericolosa. Non solo: minaccia lo status quo e mette in dubbio la legittimità della distribuzione delle risorse, stabilita dal Creatore. Non stupisce che nella cultura cristiana sia uno dei 7 vizi capitali» aggiunge Richard Smith, psicologo della University of Kentucky (Usa) che studia i meccanismi dell’invidia. L’invidia è velenosa anche per chi la vive. «È spiacevole. Si provano senso di inadeguatezza e inferiorità. Si ha la sensazione che il vantaggio dell’altro non sia meritato, con frustrazione, perché si pensa di non riuscire a ottenere la stessa cosa. Inoltre chi tende a essere invidioso rischia, invece di apprezzare le proprie abilità in senso assoluto, di valutarle solo se confrontate con quelle di altri che appaiono migliori: questo diminuisce l’auto-valutazione» dice Smith. L’invidia è dolorosa, insomma, come ha mostrato uno studio condotto da un team di scienziati giapponesi. Che hanno analizzato con la risonanza magnetica funzionale cosa accadeva nel cervello dei partecipanti, a cui veniva chiesto di immedesimarsi in situazioni con diversi personaggi. Di fronte a quelli simili a loro, ma più brillanti su aspetti per loro rilevanti, scattava l’invidia. E nel loro cervello aumentava l’attivazione della corteccia cingolata anteriore dorsale: tanto maggiore quanto più intensa era l’invidia che il partecipante diceva di provare. «La corteccia cingolata anteriore dorsale è legata all’elaborazione del dolore fisico o sociale» spiega Hidehiko Takahashi del giapponese National institute of radiological sciences, che ha guidato la ricerca. L’attivazione in questa regione cerebrale si ha per esempio in risposta a un dolore sociale, come il senso di esclusione. E può quindi riflettere la caratteristica dolorosa di un’emozione legata al confronto sociale come l’invidia, con la sensazione di essere esclusi da un campo per sé rilevante. Dolorosa per sé, potenzialmente pericolosa per gli altri. Perché allora proviamo questa emozione? Perché l’invidia è come la paura, che è sgradevole ma ci prepara a reagire a un pericolo. È un campanello d’allarme: ci avverte velocemente che siamo perdenti nel confronto sociale. «Essere in una posizione inferiore è svantaggioso, quindi un’emozione che segnala questo stato e ci dovrebbe spingere a uscirne deve essere spiacevole» puntualizza Smith. Secondo David Buss della University of Texas (Usa) e Sarah Hill della Texas Christian University, è un’emozione sviluppata come “sostegno” nella competizione per le risorse (cibo, partner ecc.). Secondo gli studiosi, conta la posizione all’interno del gruppo riguardo a quantità di risorse e capacità di ottenerle: per questo gli esseri umani hanno sviluppato un’attenzione particolare a giudicare tutto in termini di confronto sociale. Per la soddisfazione non conta solo quanto si ha, ma se questo è più o meno di quanto hanno gli altri con cui ci si rapporta. Anche nel mondo animale non fa piacere vedere che i vicini gustano l’uva e noi no… Lo hanno mostrato esperimenti condotti sulle scimmie. Un gruppo di cebi dai cornetti sono stati addestrati a svolgere un compito – mettere pietre nelle mani del ricercatore – ricevendo in premio pezzi di cetriolo. Le scimmie, a coppie, potevano vedersi. Quando a una i ricercatori cominciavano a offrire uva, un cibo preferito, l’altra svolgeva meno velocemente il compito, si agitava, a volte scagliava via pietre e cetrioli: mostrando un’emozione simile all’invidia. Le scimmie, ricevendo una ricompensa minore per lo stesso compito, hanno reagito negativamente alla mancanza di equità. Questa reazione è stata rilevata anche nei cani che mostravano segni di tensione e non davano la zampa al ricercatore senza ricevere nulla in cambio, se vedevano che il compagno era invece premiato con una salsiccia per la stessa azione. E l’invidia è il meccanismo psicologico che avverte che qualcun altro ha guadagnato un vantaggio e dà la spinta per ottenere lo stesso. Nel corso dell’evoluzione si sarebbe rivelata un beneficio: gli individui invidiosi che giudicavano il loro successo sulla base della posizione rispetto ai rivali avrebbero investito più sforzi per raggiungere status e risorse; i meno attenti sarebbero rimasti indietro, sfavoriti nella selezione naturale. Per Buss e Hill è normale che si invidino le persone vicine, amici o fratelli: confronto e competizione avvenivano nei piccoli gruppi in cui un tempo vivevano gli uomini. Anche alcuni comportamenti hanno una funzione precisa. Come il non ammettere l’invidia: non si rende evidente al gruppo la propria posizione inferiore e si è più credibili nelle strategie nascoste di attacco mirate a diminuire lo status del rivale. Una di queste è parlarne male: chi ascolterebbe qualcuno che “parla solo per invidia”? «Questa emozione è una chiamata all’azione. O si cercano modi per “abbassare” una persona (è il caso dell’invidia “maligna”) o si lavora duro per alzarsi al suo livello (ed è quello che accade con una seconda forma di invidia, quella benigna, priva di sentimenti ostili)» dice Smith. «L’invidia può essere benigna quando porta all’emulazione: in questo caso canalizza le energie per cercare di avere un bene o il riconoscimento che è stato dato agli altri. Insomma, è una spinta a metterci in moto: così facciamo appello alle nostre capacità per raggiungere un traguardo. Possono spingere all’emulazione i modelli di persone “invidiabili” (per esempio quelli proposti dalla società, come sportivi o personaggi dello spettacolo) per cui si prova ammirazione, desiderando di essere come loro. E ci sono in fondo casi in cui la competizione è legittima, come nello sport: chi arriva secondo potrà invidiare chi l’ha superato, ma si allenerà per superarlo alla gara successiva» dice D’Urso. Se l’invidia segnala uno svantaggio, impegnarsi per recuperare è la migliore strategia per non rodersi (vedi anche come superare l'invidia). Non solo. Questa spinta all’emulazione fa sì che l’invidia sia una delle basi… della società dei consumi: porta a desiderare i beni degli altri e a comprarli. Susan Matt, storica della Weber State University (Usa), sostiene che ai primi del ’900, nella società americana, l’invidia per i consumi che si potevano permettere i ricchi è stata “sdoganata”: prima condannata, poi incoraggiata come legittima aspirazione della classe media e popolare, a cui erano ormai a disposizione i beni della produzione di massa. Nell’“invidia del consumatore” non si arriva alla malevolenza verso l’altro, ma all’acquisto di una borsa firmata o di uno smartphone. E il marketing alimenta l’invidia. I beni di consumo d’élite si basano sul fatto che sono esclusivi e chi li possiede è invidiato: e questa, contrariamente all’essere invidioso, è una caratteristica ambita. In fondo dire “Ti invidio per…” è un’espressione di ammirazione: ammessa, perché non si prova davvero questa emozione. La brillante carriera di un invidiato rivale si è interrotta? Si prova “schadenfreude”, il piacere maligno davanti alle disgrazie altrui. Ma all’invidia è collegato anche un piacere. Maligno, certo: è chiamato schadenfreude, ovvero la soddisfazione davanti alle disgrazie altrui. Se la crisi stronca un brillante rivale, se l’affascinante conoscente ha un problema... si può provare schadenfreude. Richard Smith ha condotto diversi esperimenti in cui agli studenti partecipanti erano presentate storie di ragazzi normali oppure brillanti e vincenti: all’invidia scatenata verso questi ultimi si accompagnava poi la soddisfazione nel sapere che avevano avuto problemi. «Il legame era già stato evidenziato da pensatori come Aristotele (384-322 a. C.) o Spinoza (1632-1677)» sottolinea Smith. «L’invidia non è divertente, a meno che la sfortuna (dell’altro) giochi a nostro favore: se la persona che ci ha superato nel confronto sociale ha un problema, ora deve scendere un gradino. E questo ci dà soddisfazione». Anche questo maligno piacere è stato analizzato a livello cerebrale dallo studio giapponese guidato da Hidehiko Takahashi. Di fronte alle sfortune capitate ai personaggi invidiati, i partecipanti provavano schadenfreude: a questo corrispondeva una maggiore attivazione dello striato ventrale, area legata al “circuito della ricompensa” del cervello. Si prova, cioè, un autentico piacere. Come mai? La sfortuna della persona vincente la “abbassa” e c’è quindi un riequilibrio delle posizioni. «Lo svantaggio dell’altro è vantaggio per sé nel terreno della competizione sociale; l’inferiorità e la sua sgradevolezza possono così trasformarsi in superiorità e soddisfazione. Il dolore dell’invidia si riduce e si ha una sensazione piacevole. Infine si placa il senso di ingiustizia che spesso è parte dell’invidia: la sfortuna sembra meritata» spiega Smith. Scatenano schadenfreude anche l’antipatia o il fatto che l’altro abbia meritato il castigo, per esempio finendo nei guai per un comportamento che condannava ipocritamente. E anche situazioni di rivalità tra gruppi, dove una perdita per gli altri è un guadagno per sé: le ricerche hanno evidenziato questa soddisfazione nei tifosi di calcio, per sconfitte della squadra rivale. Uno degli studi di Richard Smith l’ha messa in luce nella politica: «Si prova schadenfreude per i problemi in cui inciampano i politici dei partiti rivali, dagli scandali sessuali alle gaffe. Tuttavia, soprattutto nelle campagne elettorali, si sperimenta soddisfazione anche per eventi che possono avere un peso per la sconfitta dell’avversario, benché si tratti di notizie negative per tutti: per esempio, cattivi risultati economici. Abbiamo rilevato schadenfreude soprattutto nei più coinvolti sostenitori di un partito, pur mescolato alla consapevolezza che i fatti fossero in sé negativi».
I sintomi dell’invidia, scrive Cristiana Milla il 27 dicembre 2015. Quali sono i sintomi dell’invidia? E come si esprimono? Proviamo ad individuarne alcuni aspetti. Chi non è stato invidioso nella sua vita almeno una volta? In certi momenti di più, in altri di meno, noi tutti siamo stati invidiosi o magari lo siamo ancora oggi. A volte l’invidia non è soltanto verso una persona in particolare, ma diventa una invidia diffusa, verso tutti coloro a cui le cose vanno particolarmente bene, che sia in ambito lavorativo o affettivo o altro. Cos’è l’invidia? L’invidia è un meccanismo che mettiamo in atto quando ci sentiamo sminuiti dal confronto con qualcuno, con quanto ha, con quanto è riuscito a fare. Diciamo che è un tentativo alquanto maldestro di recuperare la fiducia, la stima in noi stessi svalutando l’altro. Si tratta quindi di un processo: c’è il confronto, l’impressione devastante di impoverimento, di impotenza e poi la reazione aggressiva. Per cercare di proteggere il nostro valore, svalutiamo il modello abbassandolo al nostro piano, invece che rinunciare alle nostre mete diventando indifferenti. L’invidia è quindi un tentativo di scacciare lo stimolo svalutando l’oggetto, la meta, il modello. Desiderare e giudicare diventano allora le fonti dell’invidia. Dal punto di vista psicologico l’invidia è anche un modo di guardare gli altri, possiamo definirlo un tratto di personalità. Infatti l’invidioso non si limita ad osservare con occhio ostile il suo collega di lavoro, guarda con la stessa modalità anche il vicino di casa, il compagno di sport, l’amico con cui va in vacanza, il fortunato che ha vinto la lotteria, etc. Potremmo addirittura tracciare un profilo di personalità del soggetto invidioso, facendola rientrare nelle tipologie psicologiche. I sintomi dell’invidia. Proviamo allora ad evidenziare alcuni sintomi della presenza dell’invidia quando padroneggia in qualche modo la personalità di un individuo e conferisce un carattere distintivo al suo modo di essere, di pensare, di comportarsi, etc. Proviamo a riconoscere questi sintomi dell’invidia negli altri, e perché no, anche in noi stessi. La malignità. L’invidioso cerca di svalutare l’altro agli occhi del maggior numero possibile di persone, soprattutto di quelle che contano. Appena conoscono qualcuno gli trovano da subito dei difetti: il loro sguardo corre a cercare i limiti, le debolezze e sentono l’esigenza di metterli subito in evidenza, di renderli noti e di provocare il commento negativo degli altri. Solitamente gli invidiosi entrano in azione quando il personaggio da svalutare non è presente, mettendo in moto le “chiacchere da cortile”, partendo talvolta da una semplice battuta o un gesto. Naturalmente una volta avviato il pettegolezzo, c’è sempre qualcuno che si associa, che vuole aggiungere la sua critica, producendo una reazione a catena fin a che la persona in oggetto non viene fatta letteralmente “a pezzi”, derisa, svalutata. Il giudizio. L’invidioso, per opporsi all’ingiustizia universale attacca e svaluta chi è più fortunato, chi è più felice, chi è più forte, chi è più dotato. Nel nome della giustizia si tramuta in un demolitore di tutto ciò che emerge dalle infinite differenze individuali e dalle infinite circostanze della vita. In questo modo l’invidioso troverà sempre una zona buia dell’essere su cui scagliarsi, travestito da giudice e bramoso di vendetta. La critica. Le persone invidiose solitamente non si prodigano, non si impegnano, anzi spesso restano ad osservare chi si dà da fare come meri osservatori. La loro attenzione è rivolta piuttosto a trovare il difetto, il punto debole di chi stanno osservando e a individuare un suo eventuale errore. Poi, nel momento meno appropriato, scagliano le loro critiche, svalutando la loro vittima. Quest’ultima, invece di reagire, rimane basita, turbata, perché non se l’aspettava. Anzi tenta di giustificarsi, di far comprendere le sue intenzione, ma l’altro, l’invidioso, risponde con altri dubbi e critiche, senza nessuna intenzione di volerlo capire, perché il suo obiettivo è invece quello di dimostrargli che non vale, di insinuargli il dubbio e di apparire ai suoi occhi come persona forte e autorevole. Chi sono quindi solitamente le vittime preferite di questi soggetti invidiosi? Tutte quelle persone attive, che si spendono, che si prodigano per gli altri e le persone che hanno progetti da realizzare. Il pessimismo. Ottimismo e pessimismo non sono soltanto due atteggiamenti verso le difficoltà della vita, possono anche essere due modalità diverse di mettersi in relazione con se stessi e con gli altri esseri umani. Il pessimista ha una visione negativa del futuro. Dagli uomini si aspetta di solito il peggio, e delle gente in generale non ci si deve fidare e non merita il suo aiuto. Se per esempio raccontate un vostro progetto ad un pessimista, lui in brevissimo tempo vi mostrerà tutti gli ostacoli e tutte le difficoltà a cui andrete sicuramente incontro e che, una volta raggiunto l’obiettivo, non avrete che delusioni e frustrazioni. Vi farà alla fine sentire negativi e svuotati. Il pessimista ha infatti uno straordinario potere di contagio. Il vittimismo. L’invidia non si esprime solo attraverso l’aggressività, la svalutazione degli altri, ma anche in maniera opposta attraverso l’autocommiserazione, il lamento, il vittimismo. Solitamente infatti quando ascoltiamo una persona lamentarsi, descrivere i soprusi che ha subito, gli ostacoli che ha incontrato, tutte le disgrazie che le hanno impedito di raggiungere i suoi obiettivi, non pensiamo all’invidia. Anzi, partecipiamo alla sua sofferenza e la compatiamo per non aver potuto realizzare ciò che la vita le aveva promesso. Chi si autocommisera in questo modo è convinto di essere trattato ingiustamente dal mondo che, invece, è stato molto generoso con tutti gli altri. Se le ascoltiamo con attenzione queste persone lamentose sono in realtà profondamente passive, stanno a guardare, non agiscono. Non affrontano la vita, non si buttano, non rischiano. Spesso vorrebbero che fossero gli altri a darsi da fare al posto loro, a risolvergli i problemi. Cristiana Milla, psicologa e psicoterapeuta.
Le «due scuole italiane» e la forbice del divario che si allarga. Il Sud trabocca di 100 e lode ma i dati internazionali dipingono un panorama del tutto diverso: che i prof meridionali siano di manica più larga? Afferma Gian Antonio Stella l'11 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera”. Gian Antonio Stella (Asolo, 15 marzo 1953) è un giornalista e scrittore italiano. È nato ad Asolo (TV), dove il padre insegnava, da una famiglia originaria di Asiago. Ha vissuto a Vicenza dove ha frequentato il Liceo ginnasio Antonio Pigafetta. «Questa è una scuola particolare: non c’è né voti, né pagelle, né rischio di bocciare o di ripetere. Con le molte ore e i molti giorni di scuola che facciamo, gli esami ci restano piuttosto facili per cui possiamo permetterci di passare quasi tutto l’anno senza pensarci...». Basterebbero queste poche righe scritte dagli alunni di Don Milani a spiegare quanto i voti possano essere, in una scuola ideale che formi davvero giovani preparati, colti e consapevoli, quasi secondari. Purché, appunto, i ragazzi così la vedano: una scuola «senza paure, più profonda e più ricca». Al punto che «dopo pochi giorni ha appassionato ognuno di noi». Ma è così la scuola italiana che esce dagli ultimi dossier? Mah... I numeri pubblicati ieri raccontano di un Mezzogiorno che trabocca di giovani diplomati con 100 e lode, con la Puglia che gode di una quota di geni proporzionalmente tripla rispetto al Piemonte o al Veneto, quadrupla rispetto al Trentino, quintupla rispetto alla Lombardia. Bastonata pure dalla Calabria: solo un fuoriclasse ogni quattro sfornati da Catanzaro, Cosenza o Crotone. Evviva. Ma come la mettiamo, se i dati del P.i.s.a. (Programme for International Student Assessment) dell’Ocse o i test Invalsi (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo) dipingono un panorama del tutto diverso? Prendiamo la Sicilia, che oggi vanta proporzionalmente il doppio abbondante di «100 e lode» della Lombardia. Dieci anni fa il P.i.s.a. diceva che nessuno arrancava quanto i quindicenni siciliani. La più sconfortante era la tabella sulle fasce di preparazione. Fatta una scala da sei (i più bravi) a uno (i più scarsi) i ragazzi isolani sul gradino più basso o addirittura sotto erano il doppio della media Ocse. Il quadruplo dei coetanei dell’Azerbaigian. Poteva essere lo sprone per una rimonta. Non c’è stata. Lo certifica il rapporto Invalsi 2015: «Il quadro generale delineato dai risultati delle rilevazioni, che non è particolarmente preoccupante a livello di scuola primaria, cambia in III secondaria di primo grado, assumendo le caratteristiche ben note anche dalle indagini internazionali (...): il Nordovest e il Nordest conseguono risultati significativamente superiori alla media nazionale, il Centro risultati intorno alla media e il Sud e le Isole risultati al di sotto di essa». Peggio: «Lo scarto rispetto alla media nazionale del punteggio delle due macro-aree meridionali e insulari, piccolo in II primaria, va progressivamente aumentando via via che si procede nell’itinerario scolastico». Cioè alle superiori. La tabella Invalsi che pubblichiamo in questa pagina dice tutto: dal 2010 al 2015 tutto il Centronord stava sopra la media, tutto il Sud (Isole comprese) stava sotto. Molto sotto. E l’ultimo rapporto Invalsi 2016 non segnala progressi. Allora, come la mettiamo? Come possono i monitoraggi nazionali e internazionali sui ragazzi fino a quindici anni segnalare nel Mezzogiorno una scuola in grave affanno e i voti alla maturità una scuola ricca di spropositate eccellenze? È plausibile che nei due anni finali i giovani meridionali diano tutti una portentosa sgommata alla Valentino Rossi? Mah... Nel 2013 Tuttoscuola di Giovanni Vinciguerra mise a confronto la classifica delle province con più diplomati col massimo dei voti e quella uscita dal capillare monitoraggio Invalsi. I risultati, come forse i lettori ricorderanno, furono clamorosi: Crotone, primissima per il boom di studenti «centosucento», era 101ª nella Hit Parade che più contava e cioè quella della preparazione accertata con i test internazionali. Agrigento, seconda per «geni», era 99ª, Vibo Valentia quinta e centesima. A parti rovesciate, stessa cosa: Sondrio che era prima nella classifica Invalsi era solo 88ª per studenti premiati col voto più alto, Udine seconda e 100ª, Lecco terza e 89ª, Pordenone quarta e 59ª…Assurdo. E le classifiche regionali? Uguali. Un caso per tutti: la Calabria, ultima nei test Invalsi, prima per fuoriclasse. Sinceramente: è possibile un ribaltamento del genere? O è più probabile la tesi che i professori del Sud, per una sorta di solidarietà meridionale basata sul comune sentimento di emarginazione e di abbandono, abbiano verso gli studenti la manica un po’ più larga? Un punto, comunque, appare fuori discussione. Non solo esistono due Italie e due scuole italiane, due universi di studenti e due di professori. Ma il divario, anziché ridursi, si va sempre più allargando. E ciò meriterebbe da parte di tutti, non solo del governo, un po’ di allarmata attenzione in più.
Povera scuola italiana, ormai è un diplomificio. Maturità, passa il 99,5% degli studenti. Non esiste più selezione. Un danno per i giovani, scrive Mario Margiocco su "Lettera 43" l'11 Agosto 2016. Nato a Genova nel 1945, giornalista dal ’71 («Il Secolo XIX», «Panorama», «Italia Oggi»), dal 1992 al 2010 ha lavorato al «Sole 24 Ore». Corrispondente da Bruxelles e dalla Germania, ha seguito dagli Stati Uniti il crac finanziario e le elezioni presidenziali. Puntuali come le stelle di S.Lorenzo, arrivano tutti gli anni i risultati degli esami di Stato di fine ciclo della scuola media superiore di ogni tipo. E come sempre anche quest’anno in Italia è un trionfo. Anzi, nel 2016 un record: promosso il 99,5% degli ammessi agli esami. In Francia i promossi all’equivalente Bac, compresi quelli che hanno superato l’immediata prova orale di recupero dopo aver fallito la prova principale, sono stati nel 2016 l’88,5% dei candidati, una cifra simile a quella che era una volta la percentuale totale dei promossi anche in Italia. Poiché occorre tenere conto anche dell’ammissione all’esame, quest’anno rifiutata in Italia al 4% degli studenti che non si capisce come siano arrivati all’ultimo anno se ritenuti alla fine incapaci di potersi presentare all’esame, siamo a un soffio dalla promozione totale. La logica è chiara: si nega l’ammissione a quelli che sarebbero proprio un’onta per il corpo docente, e si promuovono tutti gli altri, salvo qualcuno rarissimo che ha proprio sbagliato tutto, magari perché in giornate “no”. Ma perché allora non si risparmiano i soldi necessari per gli esami e non si dichiara la promozione di tutti gli idonei al titolo secondo i docenti dell’istituto di origine? Perché la legge prevede un esame di Stato. Ma che credibilità ha un esame di Stato che promuove tutti? Il confronto con la Francia è micidiale. O la loro è una scuola di aguzzini, o la nostra un inattendibile diplomificio. In certe aree ben più che altrove. In genere chi ha fatto, e i più giovani sono oltre i 60, gli esami di una volta sia ai Licei che agli Istituti se nel sonno sogna ancora un esame scolastico, ed è un incubo, non è in genere un esame universitario, ma quello di maturità. Era, nella calura di luglio e agosto, un tormento, una prova di nervi. E restava sul terreno tra rimandati e bocciati un terzo circa degli studenti. Di questi, un 30% recuperava a ottobre, dopo essersi rovinata l’estate. Poi gradatamente tutto è diventato meno impegnativo e ora lo è assai meno. Bene, non è successo solo in Italia. Da noi però si è andati oltre il lecito e comprensibile, perché solo in Italia l’idea di una selezione che sarebbe in sé “antidemocratica”, quindi da rifiutare in blocco come concetto pedagogico classista, ha fatto breccia anche fra molti insegnanti. Che non a caso si sono formati, i più anziani ormai in pensione ma che hanno in tutti i sensi “fatto scuola”, in un periodo ben preciso della scuola e delle università italiane. L'inizio del declino con i movimenti studenteschi del 1968. Chi ha frequentato l’università, grossomodo, nel decennio 65-75 ricorderà benissimo la forte pressione di gruppi studenteschi organizzati contro la selezione e per la sostituzione di esami difficili con esami facili, per l’abolizione degli scritti, degli esami di lingua straniera dove non si poteva non tradurre decentemente alcune frasette, per iscritto, e via andare. Il danno, nelle facoltà umanistiche in genere perché in quelle tecnico-scientifiche era meno facile declassare il curriculum, è stato enorme. C’era molto da svecchiare, ma in nome della qualità, non della banalità. Vari dubbi sulla serietà del cosiddetto movimento studentesco del 68 – e dei suoi alleati e facilitatori sul fronte politico e sociale - sono incominciati così, osservando la voluta banalizzazione dei corsi di studio. Poi l’ondata ha raggiunto Licei e Istituti di vario genere. E ormai è endemica, e da anni. Tutto questo, si fa finta di ignorare da più parti, arreca grave danno agli alunni di origini modeste, tenuti agli studi con sacrificio personale e della famiglia, che hanno più di altri bisogno di un diploma valido e credibile, non solo perché è di Stato. Investono molto, è irresponsabile consegnargli alla fine un pezzo di carta svalutato. Un discorso particolare, anche quest’anno, meritano i 100 e lode in alcune regioni meridionali. Le prime regioni per numero assoluto di 100 e lode sono del Sud, anche se il Sud non brilla nelle prove internazionali, tipo Ocse e altre, di abilità scolastica degli studenti nelle varie materie. Le lodi sono 934 e in forte aumento sul 2015 in Puglia, (in aumento quasi ovunque, soprattutto al Sud, ma non sempre, è giusto rilevare), che ha meno degli abitanti del Piemonte ma cinque volte più lodati. Va detto che si distinguono, per serietà a parere di chi scrive, Abruzzo, Molise, Basilicata e Sardegna, che se avessero in rapporto alla popolazione gli stessi lodati della Calabria dovrebbero triplicare e oltre i propri. Se la Puglia avesse sulla popolazione gli stessi 100 e lode della Basilicata, ne avrebbe un terzo. Basilicata e la provincia autonoma di Trento, che ha un ottavo degli abitanti della Puglia ma solo un 45mo dei suoi 110 e lode, sono le uniche due realtà dove il massimo voto è meno frequente che nel 2015. Sulla scuola nel Sud Italia scrisse pagine memorabili un secolo fa e oltre Gaetano Salvemini, da Molfetta, uno degli uomini migliori, più onesti, generosi e brillanti, del 900 italiano. La pletora di voti massimi lascia il sospetto che l’analisi di Salvemini non sia del tutto superata, nonostante il molto tempo trascorso. L'intellettuale amava e difendeva la piccola gente del Meridione, allora braccianti per lo più analfabeti, e fece molto per loro. Non amava la media e piccola borghesia meridionale, a caccia di diplomi per assicurarsi il “posto” e continuare a primeggiare sulla piccola gente. E, ancora nel 1955, rieditando vecchi scritti sulla scuola, ripeteva una tesi a lui cara, avendo osservato la ricchezza che gli insegnanti estranei alla mentalità compromissoria locale avevano sempre seminato: inviare nel Sud per cinque anni, a stipendio maggiorato, i vincitori dei concorsi a cattedre del Nord, per spezzare il peso di quella piccola borghesia sul sistema scolastico meridionale. Non è successo proprio così. I più danneggiati da questa fiera diplomistica sono i bravi studenti di quelle regioni troppo generose messi alla pari di loro compagni, bravini forse, ma promossi generali sul campo con rito sommario. Un preside di Brindisi sembra non rendersene conto e, come altri in passato, taglia corto: «I nostri studenti sono davvero bravi». Anzi bravissimi, eccezionali. Tutti 100 e lode strameritati? Troppa grazia.
Tra premi dimezzati ed eccellenze al Sud: ecco quanto vale davvero il 100 e lode, scrive TGCom 24 il 3 giugno 2016. In nove anni il bonus del Ministero dell’Istruzione per chi supera col massimo la Maturità si è praticamente dimezzato. Ma è polemica per la maggiore diffusione dei super diplomati al Sud. Essere un’eccellenza appaga mente, cuore e portafoglio. Ma senza esagerare. Perché se da un lato sono tante le università che, per esempio, prevedono alcune agevolazioni per chi si diploma con 100 e lode, dall’altro nel corso degli anni il premio previsto per gli stessi dal Ministero dell’Istruzione ha subito sforbiciate evidenti. Troppe lodi? Dati alla mano non si direbbe, anche se la polemica sulla generosità delle commissioni al Sud si ripete costantemente. Lo scrive Skuola.net. Siamo nell’ormai lontano 2007 quando l’ex ministro dell’Istruzione, Giuseppe Fioroni, pensa che i super diplomati meritino un premio, un incentivo a continuare così, e la legge che lo stabilisce è la n.1 dell’11 gennaio di quell’anno. I diplomati con 100 e lode del 2007 sono quindi i primi a beneficiare di un premio che di ben 1000 euro, ma che con gli anni è stato non poco ridimensionato. Chi ha ottenuto il massimo dei voti nel 2010, solo tre anni dopo ha visto ridurre l’assegno a poco più della metà, 600 euro per la precisione. L’anno successivo nasce Io Merito, il programma nazionale di valorizzazione delle eccellenze del Ministero, grazie al quale gli studenti che hanno conseguito la votazione di 100 e lode all'esame di Stato sono inseriti nell'Albo Nazionale delle Eccellenze, insieme a tutti gli altri che si sono distinti in competizioni e progetti internazionali. Ogni anno, in base ai fondi disponibili e al numero di beneficiari acclarato, il Miur stabilisce quanto denaro erogare ai ragazzi iscritti a questo registro. Quindi la torta va spartita in un numero di parti maggiore. Nel 2011, come l’anno precedente, il bonus corrisponde a 500 euro. Un po’ meglio va ai super diplomati 2012 che ricevano un bonus di 650 euro per il sudore versato sui libri, ma nel 2013 si torna ai più morigerati 500 euro. Il minimo storico si tocca nell’ultimo biennio, dove ai genietti vanno 450 euro. Una riduzione del premio che negli ultimi anni è stata accompagnata da un giro di vite sulla concessione del 100 e lode. Alla Maturità 2012 per ottenere la lode bisognava raggiungere 100 punti senza l’aiutino dei crediti bonus (fino a 5) e una media voti superiore a 9 dal terzo in poi. Tuttavia in termini percentuali i super diplomati non sono cambiati drammaticamente: se nel 2007 erano lo 0,7%, nel 2009 erano lo 0,9%, nel 2012 lo 0,6% per poi ritornare lo 0,9 % nel 2015, ovvero 3896 persone per dare una idea delle cifre in ballo. Non sono nemmeno cessate le polemiche, che vedevano le regioni del Sud, mediamente più prodighe nell’elargire il massimo della votazione rispetto alle altre. Alla maturità 2015, Puglia, Campania e Sicilia sono state le tre Regioni con il più alto numero di 100 e lode in termini assoluti: 788 solo nella prima. I detrattori del 100 lode facevano notare che si trattava degli stessi studenti (in termini di campione statistico) che all’epoca della prova Invalsi di seconda superiore del 2011/2012 hanno contribuito a far ottenere risultati sotto la media alle regioni del Meridione. In ogni caso i genietti del 2016 possono consolarsi con le agevolazioni che troveranno se, caso mai, volessero frequentare l’università. Sono diverse, infatti, quelle che prevedono qualche bonus per chi si diploma con il massimo dei voti. A Bologna e alla Statale di Milano l’anno prossimo l’esonero dalle tasse è totale. Alla Sapienza di Roma, i super diplomati sono esentati dal pagamento della prima rata universitaria, mentre all’Università di Padova hanno un esonero parziale dalle tasse. Un po’ peggio va a chi vuole immatricolarsi all’Università di Palermo dove al massimo si ottiene un rimborso della quota versata per sostenere il test d’ingresso del corso di studi scelti. Ma quali sono questi corsi di studio in cui si riversano poi i 100 e lode? Stando ai dati riportati dal Focus sugli immatricolati 2015/2016 del Ministero dell’Istruzione, il 25% circa dei diplomati con il punteggio massimo all’università sceglie l’area di Ingegneria, seguito poi dal 15% di chi opta per quella Medica. Al terzo posto, ex aequo, ci sono poi l’area Scientifica e quella Economico – statistica scelta, in entrambi i casi, dall11% circa di 100 e lode 2015.
Il Nord Italia e la scuola: Quando l’invidia la fa da padrona.
Prove Invalsi – Ocse ed Esame di Maturità con lode: c’è chi fa, volutamente, confusione per instillare, ancora una volta, malsane stille di razzismo. Si fa confondere l’oggettivo con il soggettivo.
Quando il nord vuol sempre primeggiare e quando i dati vengono analizzati dalle opinioni risibili e partigiane degli opinionisti settentrionali.
Inchiesta del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
Il presidente della Regione Veneto Luca Zaia, alla luce dei risultati scolastici degli studenti italiani diffusi l’11 agosto 2016 dal ministero dell'Istruzione, solleva il problema delle modalità di valutazione degli studenti nelle scuole italiane, scrive “L’Ansa" il 12 agosto 2016. «E' evidente che c'è qualcosa che non funziona nella scuola italiana e nei suoi sistemi di valutazione - accusa - se i ragazzi del Nordest, in testa alle classifiche Ocse e Invalsi per preparazione, poi risultano all'ottavo posto nelle statistiche dei "cento e lode" alla maturità». Da qui l'appello al ministro: «convochi al più presto una commissione ministeriale di esperti, riattivi sistemi di verifica su campioni omogenei di scuole e di studenti». E' un leghista e per tale va trattato.
Il problema dell’umanità è che gli stupidi sono strasicuri, mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi (Bertrand Russell)
L’ignorante parla a vanvera. L’intelligente parla poco. ‘O fesso parla sempre (Totò)
Maturità: 100 e lode al Sud, governatori del Nord in rivolta, scrive Tiziana De Giorgio nel suo articolo pubblicato il 13 agosto “La Repubblica”. Exploit di diplomi col massimo dei voti in Puglia e Campania, che da sole superano Lombardia, Veneto e Piemonte messe insieme. Ma i risultati di rilevazioni nazionali come l’Invalsi vedono gli studenti del Nord di gran lunga più bravi. Si riaccende così il dibattito sulle divergenze nei parametri di valutazione. Solo Toti si smarca: “Complimenti ai ragazzi di un Sud che vuole ripartire da merito e impegno”.
In Veneto è stata bollata come “un’emergenza”. Con la Regione guidata dalla Lega che parla di giovani del Nord-Est ingiustamente penalizzati. E che lancia un appello al ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini: si invocano controlli a campione sugli alunni, ispezioni a sorpresa negli istituti di tutta Italia, commissioni ministeriali formate da esperti che possano in qualche modo garantire uniformità, quando vengono assegnanti i voti in classe. In Piemonte, è l’assessore all’Istruzione del Pd, Gianna Pentenero, a chiedere un cambio di rotta: “Non ne faccio una questione Nord e Sud – precisa -, ma non si può non ammettere che c’è una divergenza evidente tra i parametri di valutazione”. I risultati della maturità pubblicati nei giorni scorsi dal ministero – che mostrano un profondo squilibrio fra le regioni del Nord e quelle del Sud nella distribuzione dei voti più alti – entrano nel dibattito politico. E sono in tanti, dal Piemonte all’Emilia Romagna, dal Veneto alla Lombardia, a chiedere in maniera trasversale una riflessione. “Servirebbe, per esempio, che i test Invalsi diventassero un elemento comune da cui partire per rivedere i criteri di valutazione su base comune – prosegue Pentenero – così da non svantaggiare gli studenti che devono far valere quei voti per l’accesso nelle università”. Perché è questo uno degli aspetti che ha riacceso il grande dibattito sulla valutazione. E sull’Italia a diverse velocità in tema di scuola: da un lato, l’exploit di diplomi da 100 e lode in regioni come Puglia e Campania, che da sole superano quelli di Lombardia, Veneto e Piemonte messe insieme. Dall’altro i risultati di rilevazioni nazionali come l’Invalsi, sugli studenti di seconda superiore, che capovolgono la piramide e vedono gli studenti del Nord di gran lunga più bravi rispetto a quelli del Sud. In Emilia Romagna, l’assessore alla Scuola, Patrizio Bianchi, parla di un esame di maturità “poco affidabile” rispetto a meccanismi di valutazione più standardizzati come l’Ocse. E invita tutti a non prendere il punteggio dell’esame finale come metro di valutazione del livello delle strutture scolastiche o della preparazione degli studenti. “Questi dati non sono certo una novità – commenta invece il governatore della Lombardia, Roberto Maroni – ma sorprendono sempre. E rispetto a quelli rilasciati dall’Invalsi stridono”. Fuori dal coro, invece, il forzista Giovanni Toti, presidente della Liguria: “È sempre difficile fare questo genere di classifiche – spiega – perché cambiano le sensibilità e i contesti da regione a regione”. Quindi, sui voti dei neodiplomati, preferisce guardare il bicchiere mezzo pieno: “Faccio i complimenti ai ragazzi del Sud. Spero siano il simbolo di un Sud che ha voglia di ripartire sul merito e l’impegno”.
L'invidia è un moto dell’anima tanto velenoso quanto inconfessabile: è la stretta che si prova quando si esce perdenti da un confronto sociale. L’invidia è un meccanismo che mettiamo in atto quando ci sentiamo sminuiti dal confronto con qualcuno, con quanto ha, con quanto è riuscito a fare. Diciamo che è un tentativo alquanto maldestro di recuperare la fiducia, la stima in noi stessi svalutando l’altro. Si tratta quindi di un processo: c’è il confronto, l’impressione devastante di impoverimento, di impotenza e poi la reazione aggressiva.
Essere un’eccellenza appaga mente, cuore e portafoglio. Ma senza esagerare, scrive TGCom 24. Perché se da un lato sono tante le università che, per esempio, prevedono alcune agevolazioni per chi si diploma con 100 e lode, dall’altro nel corso degli anni il premio previsto per gli stessi dal Ministero dell’Istruzione ha subito sforbiciate evidenti. Troppe lodi? Dati alla mano non si direbbe, anche se la polemica sulla generosità delle commissioni al Sud si ripete costantemente.
Il Corriere anche quest'anno rilancia la polemica sui "diplomifici", sostenendo che le scuole del sud Italia sgancino più facilmente votoni agli studenti, con la conseguenza che i maturandi meridionali ad aver preso 100 sono stati il doppio di quelli del Nord. Verità o bugia?
Gli opinionisti “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto equivalente a “Terrone” da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla solita tiritera: ogni qualvolta che il meridione d'Italia eccelle, lì c'è la truffa.
"Il Sud trabocca di 100 e lode ma i dati internazionali dipingono un panorama del tutto diverso: che i prof meridionali siano di manica più larga?", asserisce Gian Antonio Stella, opinionista del nordico “Il Corriere della Sera”. Lui, il buon veneto Gian Antonio Stella, spiega che: «Allora, come la mettiamo? Come possono i monitoraggi nazionali e internazionali sui ragazzi fino a quindici anni segnalare nel Mezzogiorno una scuola in grave affanno e i voti alla maturità una scuola ricca di spropositate eccellenze? Assurdo. Un caso per tutti: la Calabria, ultima nei test Invalsi, prima per fuoriclasse. Sinceramente: è possibile un ribaltamento del genere? O è più probabile la tesi che i professori del Sud, per una sorta di solidarietà meridionale basata sul comune sentimento di emarginazione e di abbandono, abbiano verso gli studenti la manica un po’ più larga? Un punto, comunque, appare fuori discussione. Non solo esistono due Italie e due scuole italiane, due universi di studenti e due di professori. Ma il divario, anziché ridursi, si va sempre più allargando. E ciò meriterebbe da parte di tutti, non solo del governo, un po’ di allarmata attenzione in più.»
Come si fa da un dato (i monitoraggi nazionali ed internazionali sui ragazzi fino a quindici anni) estrapolare l’assunto del broglio riguardanti i voti della maturità data ai ragazzi di tre o quattro anni più vecchi? E cosa ancora più grave, in considerazione della stima che si ha per un bravo giornalista, come si può mettere sullo stesso piano il dato oggettivo dei monitoraggi nazionali ed internazionali riguardanti il totale del corpo studenti di una data zona rispetto al voto soggettivo di eccellenza profuso in capo al singolo studente meritevole? E se fossero stati premiati apposta per il fatto che si siano elevati rispetto alla massa di mediocrità?
«I più danneggiati da questa fiera diplomistica sono i bravi studenti di quelle regioni troppo generose messi alla pari di loro compagni, bravini forse, ma promossi generali sul campo con rito sommario - rincara Mario Margiocco nato a Genova nel 1945, giornalista dal ’71.- Un preside di Brindisi sembra non rendersene conto e, come altri in passato, taglia corto: “I nostri studenti sono davvero bravi”. Anzi bravissimi, eccezionali. Tutti 100 e lode strameritati? Troppa grazia.». Chiosa in chiusura con evidente sarcasmo il ligure.
Cari signori dal giudizio (razzista) facile. Vi rammento una cosa.
Io, Antonio Giangrande, uno che si è laureato a 36 anni, sì, ma come?
A 31 anni avevo ancora la terza media. Capita a chi non ha la fortuna di nascere nella famiglia giusta.
A 32 anni mi diplomo ragioniere e perito commerciale presso una scuola pubblica, 5 anni in uno (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità), presentandomi da deriso privatista alla maturità statale (non privata) assieme ai giovincelli.
A Milano mi iscrivo all’Università Statale alla Facoltà di Giurisprudenza. Da quelle parti son convinti che al Sud Italia i diplomi si comprano. E nel mio caso appariva a loro ancora più evidente. Bene!
A Milano presso l’Università Statale, lavorando di notte perché padre di due bimbi, affronto tutti gli esami in meno di 2 anni (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità), laureandomi in Giurisprudenza, dopo sosta forzata per attendere il termine legale previsto per gli studenti ordinari.
Un genio, no, uno sfigato, sì, perché ho fatto sacrifici per nulla: fuori dall’università ti scontri con una cultura socio mafiosa che ti impedisce di lavorare.
Mio figlio Mirko a 25 anni ha due lauree ed è l’avvocato più giovane d’Italia (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità).
Primina a 5 anni; maturità commerciale pubblica al 4° anno e non al 5°, perché aveva in tutte le materie 10; 2 lauree nei termini; praticantato; abilitazione al primo anno di esame forense con compiti corretti in altra sede. Così come volle il leghista Roberto Castelli. Perché anche lui convinto degli esami farsa al sud.
Un genio, no, uno sfigato, sì, perché ha fatto sacrifici per nulla: fuori dall’università, o dalle sedi di esame di abilitazione o nei concorsi pubblici ti scontri con una cultura socio mafiosa che ti impedisce di lavorare. Una cultura socio mafiosa agevolata anche da quel tipo di stampa omologata e partigiana che guarda sempre la pagliuzza e mai la trave. Che guarda il dito che indica la luna e non guarda mai la luna.
Alla fine si è sfigati comunque e sempre, a prescindere se hai talento o dote, se sei predisposto o con intelligenza superiore alla media. Essere del nord o del sud di questa Italia. Sfigati sempre, perché basta essere italiani nati in famiglie sbagliate, e forse, anche perché in Italia nessuno può dirsi immacolato. Per una volta, però, cari giornalisti abilitati (ergo: omologati) guardiamo la luna e non sto cazzo di dito.
PARLIAMO DELL'ITALIA RAZZISTA.
«No straccione», «Sì radical chic». E torna lo stereotipo antropologico. Se il popolaccio vota i populisti, allora, per ritorsione polemica, l’establishment, i privilegiati, gli snob, i radical-chic votano per la minoranza che si considera la serie A, scrive Pierluigi Battista il 6 dicembre 2016 su "Il Corriere della Sera". È tornato. Dopo qualche anno di oblio è tornato il formidabile argomento antropologico come chiave per decifrare i fenomeni elettorali e soprattutto per ribadire l’inferiorità appunto antropologica di chi vota in una direzione che non ti aggrada. Laura Puppato, una neo-pasdaran del Sì un tempo molto di sinistra nel Pd ma che per la sua conversione filo-renziana ha dovuto addirittura subire l’anatema e poi l’espulsione dell’Anpi, nota che il Sì vince all’estero: testimonianza che la «fuga dei cervelli», l’espressione è sua, c’è stata veramente e dunque che i più intelligenti, e non i buzzurri, gli incolti, i rozzi, hanno capito le ragioni della riforma costituzionale clamorosamente bocciata nelle urne. Poi c’è il pasticcio geo-antropologico di Chicco Testa che su Twitter si è, per così dire, espresso male: «Il Sì fa il risultato migliore a Milano, Bologna e Firenze e il peggiore a Napoli, Bari, Cagliari. C’è altro da aggiungere?». C’è da aggiungere che Chicco Testa è stato interpretato molto malignamente e travolto da un’ondata di insulti dove «razzista» era uno dei più benevoli. Lui poi si è spiegato, ha detto che non aveva niente contro i meridionali ma voleva suggerire l’idea che il No avesse vinto nei capoluoghi dove massimo è il voto di scambio. Precisazione anche questa problematica, perché qualcuno ha fatto notare che due città su tre, Bari e Cagliari, sono rette da giunte di centrosinistra con sindaci che si sono apertamente schierati per il Sì. Ma insomma la frittata era stata fatta. Solo che la frittata aveva messo in moto una replica di tipo altrettanto socio-antropologico perché un interlocutore ha chiesto: «A Capalbio chi ha vinto?». Ecco il contro-argomento antropologico: se il popolaccio vota i populisti, allora, per ritorsione polemica, l’establishment, i privilegiati, gli snob, i radical-chic votano per la minoranza che si considera la serie A. E dunque Capalbio, ovvio, secondo lo stereotipo più vieto la capitale dello chicchismo benpensante, benestante, aperto (tranne con le quote di profughi), illuminato, progressista. E dunque anche sarcasmi «in Rete» (si dice così) per il fatto che le uniche zone di Roma dove è prevalso il Sì, molto di misura peraltro, siano il centro storico, quello delle terrazze e degli ambienti cool e soprattutto i Parioli, antropologicamente un tempo territorio della destra e dei «fasci» e da un po’ di anni a questa parte tempio dei benestanti benpensanti che votano la sinistra blasonata. Ed ecco l’immediata e velenosa risposta antropologica a chi ha fatto notare che il Sì a Renzi ha la maggioranza nelle zone più avvantaggiate di Milano (mentre l’hinterland ha premiato il No «straccione»): «Consolatevi con un sano happy hour». Ecco non più sezioni, ma apericena: la mutazione antropologica della sinistra bene è tutta in questa dicotomia. Per la verità l’argomento antropologico ha vissuto il suo momento di gloria attorno al ’94, quando la sinistra «chic» rimase traumatizzata dal massiccio voto popolare a favore della Lega ma soprattutto a favore di Berlusconi, il venditore, il tycoon, la maschera che incarnava l’antitesi antropologica del mondo delle buone letture, come quello di Umberto Eco, che diceva di leggere Kant mentre i suoi connazionali guardavano la tv. Ed è singolare e paradossale che il protagonista della scomunica antropologica nei confronti dell’elettorato credulone e populista che si era fatto abbindolare da Berlusconi rispondesse al nome di Gustavo Zagrebelsky, uno dei pesi massimi del No accusato a sua volta di essere espressione di una inferiorità antropologica. Zagrebelsky scrisse infatti un denso libro, Il «Crucifige» e la democrazia in cui si dimostrava che il popolo lasciato a se stesso («il paradigma della massa manovrabile», si espresse dottamente) non avrebbe fatto altro che scegliere Barabba e condannare Gesù. Da qui l’allarme verso quelle che chiamava «le concezioni trionfalistiche e acritiche del potere al popolo». Un’analisi molto più raffinata del rude argomento antropologico adoperato allora da Dario Fo verso l’elettorato leghista: «gente imbecille». E anche dell’invettiva contro la «porca Italia» che Umberto Saba scagliò contro il popolo che alle elezioni del ’48 si era permesso di optare per lo Scudo crociato anziché per il Fronte popolare. Popolare, non «populista», perché allora il termine aveva tutto un altro significato. L’antropologia come arma per screditare chi vota all’opposto dei suoi desideri. Già sentita. Meglio l’happy hour.
Renzi perde e Zucconi se la prende con i meridionali: “Non votano bene”, scrive il 6 dicembre 2016 Salvatore Russo su "Vesuvio Live". Triste scivolone dello scrittore e giornalista Vittorio Zucconi negli studi di La7 nel corso della trasmissione Piazza Pulita andata in onda ieri sera. Seduto al tavolo in compagnia del vice direttore de L’Espresso Marco Damiano e condotta dal napoletano Corrado Formigli commenta il voto al referendum costituzionale espresso dalle regioni meridionali. Il giornalista di La Repubblica si spinge in un’analisi piuttosto azzardata e avvilente per il popolo del Sud: “Piccola nota non allegra. Il Sud con alcune eccezioni, non ha una grande tradizione di votare bene per i propri interessi, ricordiamoci come il Sud abbracciò Berlusconi, il trionfo di Berlusconi in Sicilia quali benefici ha portato. I trionfi della Democrazia Cristiana in certe regioni del Sud. Mi spaventa che il Sud abbia votato con tanta fretta per lasciare le cose come sono. Il Sud purtroppo ha una tradizione elettorale e politica di autolesionismo che non è proprio incoraggiante”. Presupposto necessario alla discussione rimane un dato di fatto: il Sì è prevalso solamente in tre regioni. Nel meridione la forbice tra le due scelte è stata più ampia rispetto al resto del Paese e quindi determinante solamente ai fini del distacco complessivo, decretando non la sconfitta di Renzi ma la sepoltura definitiva della sua proposta politica. E’ piuttosto incomprensibile, visti i numeri schiaccianti della vittoria del NO, quali siano le ragioni di un attacco nei confronti del popolo meridionale, reo secondo Zucconi, di votare male e di conseguenza far un torto al Paese e a se stessi. Si spinge oltre riferendosi al passato citando Berlusconi e la DC sui quali fa emergere un giudizio negativo ed oscuro. Tralasciando giudizi di merito sui due riferimenti passati, appare fuori luogo e figlia del pregiudizio l’idea di Zucconi secondo la quale i meridionali non sono stupidi e quindi votano male, ma semplicemente sono quelli che eleggono il marcio, stanno dalla parte del potere dimenticandosi che le regioni del Sud sono tutte in mano al Pd, marciando pesantemente attaccati come una palla al piede per l’intero Paese. Una riflessione applaudita in studio e non argomentata ulteriormente. Lo stesso presentatore non ha battuto ciglio al delirio dell’anziano Zucconi.
Giornalisti grandi firme: la grande Zucca di Zucconi…, scrive "I Nuovi Vespri" il 6 dicembre 2016. Il commento di Raffaele Vescera, giornalista e scrittore pugliese, sulle penne illuminate che si ostinano a distorcere le analisi sul voto espresso al Sud pur di consolare Renzi. Ieri, ad esempio, a Piazza Pulita, Vittorio Zucconi le ha sparate grosse. Ma è in buona compagnia. Si salverebbero le firme del Fatto, ma “di Sud non capiscono un ‘azzo”…di Raffaele Vescera. “Vittorio Zucconi, grande firma di Repubblica e Radio Capital, e grande elettore di Renzi, ieri sera a Piazza Pulita ha dichiarato che il Sud ha votato No “perché è autolesionista e vota sempre male”, ricordando i voti dati a Berlusconi e alla vecchia Democrazia Cristiana. Mancava poco che attribuisse alla mafia la vittoria del No al Sud, quando sappiamo che tutti i giudici e le associazioni antimafia hanno sostenuto il No. E’ evidente che nella sua grande zucca il Sud non riesce ad entrare, allora gli diamo una mano. Se il Sud ha sempre votato male, come lui sostiene, ci spieghi come mai tutte le regioni meridionali sono governate dal Pd, il partito di Renzi e Zucconi. I casi sono due, o ha detto una sciocchezza, oppure il suo Pd fa parte della genia di partiti mal votati. In entrambi i casi, Zucconi ha fatto un’affermazione razzista per scaricare sul popolo meridionale le colpe del governo da lui sostenuto. Ahinoi, costui non è l’unico, tutte le “grandi firme” si sperticano nel consolare il Renzi perduto, parlano del suo “caratterino” che l’ha portato a perdere e mai della sua politica antipopolare e antimeridionale. In quanto al Sud ne parlano solo per denigrarlo, anche quando fa cose buone. Quel pupazzo televisivo di Giletti fa scuola. Che devono fare per campare se grandi giornali e Tv sono nelle mani del potere? I più dicono che quello del Sud è un voto “di pancia”, quando la pancia Renzi l’ha ben riempita con il miliardino di euro regalato con il patto alla sua Firenze a fronte dei 300 milioni dati alla tre volte più grande Napoli, e gli 11 miliardi del patto per Milano, stipulato pochi giorni prima del referendum, mentre al Sud concedeva fritture di pesce. Ci restano solo i giornalisti del Fatto, che a dire il vero non leccano il potere costituito. Peccato solo che anche loro di quanto sta accadendo al Sud non ci capiscano un ‘azzo. Dopotutto, è più facile spezzare un atomo, che un pregiudizio, capiranno quando il Sud esploderà per davvero”?
Zucconi perché non Twitta questa foto di Milano? Scrive Paolo il 2 agosto 2016 su "WEb-news 24". Dolori articolari scompare immediatamente e in modo permanente se...Il dolore articolare scomparirà in un’ora e non tornerà mai più! Dolori articolari scompare immediatamente e in modo permanente se...Nessuno paga più l’energia elettrica! Scoprite perché...Tecnica della vecchia scuola per rivitalizzare le articolazioni! Se prendi...Mi sentivo una VECCHIA a 27 anni! Mia nonna mi ha detto come curare le giunture! Montagne di immondizia in Ripa di Porta Ticinese, intorno alla Darsena, in via Vigevano e dintorni. La situazione è la stessa anche a Musocco, e al quartiere Garegnano e in molte altre zone della città. Spazzatura per le strade a macchia di leopardo, dunque. Ironia e battute, citazioni e il pensiero fisso alla Napoli sommersa dai rifiuti si sprecano sui social network, mischiati a indignazione e rabbia di chi uscendo dal portone è andato a sbattere contro i sacchi trasparenti. «È una vergogna – tuona Ana Brala, portavoce del Comitato Ripa di porta Ticinese – non si capisce cosa sia successo, alcune strade nel quartiere sono state pulite e altre sono sommerse di spazzatura da giorni. Qual è la logica? È uno spettacolo indecente, è da questa mattina che proviamo a telefonare al centralino ma è sempre occupato. Non sappiamo cosa succede e non riusciamo a parlare con nessuno. Non facciamo come a Napoli». Allo sconcerto e allo stupore di vedere Milano in queste condizioni si aggiunge la rabbia per quelle cartelle esattoriali e bollettini della Tares, la nuova salatissima imposta sui rifiuti, che i milanesi hanno trovato ad attenderli nella buca delle lettere. Oltre al danno, la beffa verrebbe da dire. «Ci hanno aumentato la tassa sulla raccolta rifiuti e ci ritroviamo sommersi dalla spazzatura» il commento. Da sud a nord, scenario e commenti sono gli stessi. «Tra poco arriveranno i maiali come a Roma» ironizza un residente su facebook. «Guardate qui… – scrive un cittadino a commento delle foto – e poi non mi devo arrabbiare». Un altro racconta di una telefonata surreale con il centralino di Amsa.
CAPITALE MORALE: PER LADY DENTIERA DIRE “TERRONI” NON È REATO. MA LA SECONDINA..., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016. «Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Ormai, le retate delle forze dell'ordine portano in galera i moralisti meneghini a lotti di decine. E anche questa volta, è finito dentro il potente leghista Fabio Rizzi, “braccio destro” di Roberto Maroni, presidente della Regione. Regione Lombardia: il che spiega perché è ancora al suo posto e non si e dimesso, come i boati a mezzo stampa avrebbero preteso se presidente e Regione fossero stati da Roma in giù (mica si tratta di due chili di cozze pelose!). Già nell'altra retata di moralisti a mazzetta incorporata, appena qualche mese fa, finì in galera un altro “braccio destro” di Maroni, il suo vice alla Regione, e sempre per appalti nella Sanità. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita». Il che mostra che lady Dentiera cercava già una scusa per darsi latitante all'estero. Ci ha pensato troppo e ora ha tempo per continuare a pensarci in galera. Toc, toc...! Milady... Indovini di dov'è la secondina? Non lo sa, glielo ha detto e non lo capisce? Ha detto qualcosa, tipo: «Chini cazzu sugnu eu?». Glielo traduco, è calabrese, significa: «Chi cazzo sono io?». Quindi lei adesso le risponde, educatamente e civilmente: «Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia». Vedrà che lei avvia un dialogo sull'etimo del termine, che favorirà la crescita culturale di entrambi. Toc, toc...! Milady... Indovini di dov'è la cuoca? Non lo sa, glielo ha detto e non lo capisce? Ha detto qualcosa, tipo: «Chi cazz song'ije?». Glielo traduco, non è proprio napoletano, ma siamo sempre in Campania, significa: «Chi cazzo sono io?». Quindi lei adesso le risponde, educatamente e civilmente: «Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia». E poi, buon appetito. Tanto, i denti o la dentiera, non le mancano.
Accuse di razzismo e xenofobia alla Lega Nord. Da Anarcopedia. Le accuse di razzismo e xenofobia alla Lega Nord accompagnano la storia della Lega Nord fin dagli esordi sulla scena politica italiana.
Le prime accuse di razzismo anti-meridionale. Fino al 1990 la Lega Nord ha ricevuto principalmente accuse di razzismo anti-meridionale. Una dichiarazione precisa in questo senso fu rilasciata da Gianfranco Fini, all'epoca segretario dell'MSI, dopo le elezioni amministrative del 1988. Solo dopo si parla di razzismo contro l'immigrato extracomunitario, anche se ancora il 27 novembre 2003 Bossi sosteneva che nel Nord c'è una maggioranza etnica, quella del Centro-Sud, messa insieme dal centralismo romano, che ha occupato tutti i posti chiave dello Stato, anche da noi al Nord. Siamo colonizzati». Alla fine del 1990 Mario Pirani, in un editoriale su la Repubblica, si interrogava sulle ragioni del successo della novità leghista sostenendo che il «razzismo, di cui il movimento è accusato e che spiegherebbe anche, secondo una critica facile quanto scontata, il successo incontrato, attribuibile ai demagogici slogan anti-terroni e anti-vu' cumprà. Ora, non che questi slogan non siano diffusi con disinibita improntitudine e non corrispondano a reattività emotive determinate dall'afflusso crescente di immigrati di ogni provenienza, ma, pur tuttavia, non ci sembra questa la radice prima di un così ampio consenso. Se mai ne costituisce il collante che salda gli umori popolari immediati alle paure e alle insofferenze più articolate dei ceti d'impresa. Un po' come il combattentismo degli anni 20 in rapporto al fascismo».
Le prime accuse di razzismo xenofobo (1992-1993). Al suo vero debutto in Parlamento nel 1992, la Lega Nord fu accostata da Marcelle Padovani sul settimanale francese di sinistra Le Nouvel Observateur, in un numero dedicato alle estreme destre europee, alla demagogia di Jean Marie Le Pen, all'estremismo nero di Jörg Haider, al secessionismo del Vlaams Blok, alla xenofobia di Franz Schoenhuber, al populismo di Gerhard Frey. Nell'articolo si affermava «la Lega rifiuta ogni assimilazione ai neofascisti, gioca su temi regionalisti venati di xenofobia». Negli stessi giorni il socialista Rino Formica sostenne che la Lega è uguale al fascismo. Bisogna dire alto e forte che il professor Miglio propone tesi fasciste e rispolvera studi che gli furono commissionati dal signor Cefis negli anni Settanta.» Nel 1993 in Razzismi. Un vocabolario di Laura Balbo e Luigi Manconi, alla voce «leghismo» si afferma, fra l'altro, che «l'ostilità contro gli immigrati extracomunitari (così come l'ostilità contro gli immigrati meridionali fino al 1990) costituisce un tratto qualificante dell'identità della Lega e del suo discorso pubblico; il rifiuto della diversità è elemento costitutivo della subcultura leghista».
Il discorso di Bossi al III Congresso federale (1997). In occasione del III Congresso federale, il 15 febbraio 1997, Umberto Bossi si scaglia contro l'Italia che «tratta i popoli della Padania come colonie interne da sfruttare economicamente e da assoggettare etnicamente, magari spingendovi le masse di immigrati extracomunitari che dovrebbero secondo le analisi degli illuminati di Santa Romana Chiesa raggiungere i 13 milioni di individui in pochi decenni. Evidentemente per Roma e per gli Italiani il più grave problema della Padania è che ci sono troppi Padani. La razza pura ed eletta dei romanofili pensa di poter dirigere dall'alto le terre incognite padane ridotte a colonie penali celtiche-congolesi nel nome sacro ed eterno di Roma». Tali affermazioni saranno commentate dall'allora cardinale Joseph Ratzinger come «cose che fanno male. Questa ideologia di una razza pura che non deve essere inquinata da altre è una malattia del cuore. La razza pura non esiste. La convivenza di diverse provenienze umane è ricchezza culturale. Questa idea di una razza che si deve difendere mi fa pensare troppo al passato».
L'opuscolo degli Enti Locali Padani Federali (1998). Nel dicembre 1998 viene pubblicato e divulgato dal movimento l'opuscolo degli Enti Locali Padani Federali a cura di Giorgio Mussa - allora funzionario del dipartimento esteri del Carroccio -, Padania, Identità e Società Multirazziale. Secondo alcuni le idee in esso espresse, che ricalcherebbero i 70 punti antimmigrazione del Vlaams Blok, diverranno la prova di quanto la Lega Nord sia un partito xenofobo e razzista. Allo stesso opuscolo si richiamerà la storica Marcella Filippa, già autrice nel 1998 per la Società Editrice Internazionale di Torino del volume Dis-crimini. Profili dell'intolleranza e del razzismo, quando sarà udita nel 2004 come consulente del Pubblico Ministero dal Tribunale di Verona nel processo, già citato nei rapporti dell'ECRI, che giudicherà colpevoli di incitamento allodio razziale sei esponenti locali della Lega Nord.
Il comizio di Bossi a Crema (1999). In discorsi pubblici contro la globalizzazione come quello di Bossi a Crema del 20 febbraio 1999, secondo Pietro Citati vi si «avvertono gli echi di un libro, Mein Kampf di Adolf Hitler». In quell'occasione Bossi invitava i cittadini a firmare per l'abrogazione della legge Turco-Napolitano avvertendo che «il progetto mondialista americano è chiaro: vogliono importare in Europa 20 milioni di extracomunitari, vogliono distruggere l'idea stessa di Europa garantendo i propri interessi attraverso l'economia mondialista dei banchieri ebrei e attraverso la società multirazziale. Ma noi non lo consentiremo. (...) Il disegno dei 20 potenti americani non passerà, anche se usano armi potenti come droga e televisione».
Il dibattito in UE (2000-2001). Il 21 settembre 2000 viene approvata la proposta di risoluzione del Parlamento europeo sulla posizione dell'Unione Europea nella Conferenza mondiale contro il razzismo del 2001. Per l'occasione l'eurogruppo dei Verdi europei aveva presentato un emendamento che stilava un elenco delle forze politiche razziste e xenofobe europee, includendo la Lega Nord. L'emendamento sarà respinto con 394 voti contro, 85 a favore, 12 astenuti su suggerimento del relatore della proposta di risoluzione la quale si rammaricò che fosse «stata scelta questa occasione per indicare taluni paesi e partiti attribuendo loro un ruolo particolarmente negativo. (...). Scegliere alcuni paesi, escludendone altri, implica che non è stata effettuata una valutazione complessiva della questione». Alla fine del febbraio 2001 nuove accuse di fascismo alla Lega arrivano dal ministro degli Esteri belga Louis Michel, per il quale «Bossi è un fascista». Bossi reagì liquidando Michel come «un nazista, un nazista rosso... Uno di quelli della sinistra che ha capito che sta perdendo tutto e passa agli insulti». Nel 2002 uno speciale di Corriere.it su estrema destra e xenofobia in Europa affermava che «Bossi e altri principali esponenti leghisti hanno espresso posizioni xenofobe, omofobe e talvolta razziste (come ha sottolineato anche il secondo rapporto della Commissione europea contro l'intolleranza e il razzismo, mai smentito dal governo italiano). La Lega Nord non può comunque essere considerata un partito di estrema destra, non avendo mai assunto posizioni antisemite e nemmeno neofasciste. L'unico tratto comune con i partiti dell'estrema destra europea, a parte la xenofobia, è l'avversione all'attuale politica di integrazione dell'Unione europea».
I rapporti dell'ECRI (2002-2006). La Commissione europea contro il razzismo e l'intolleranza (ECRI), organo di esperti indipendenti del Consiglio d'Europa, in due rapporti consecutivi sulla situazione italiana, nel 2002 e nel 2006, ha denunciato come «gli esponenti della Lega Nord hanno fatto un uso particolarmente intenso della propaganda razzista e xenofoba, quantunque si debba notare che anche dei membri di altri partiti hanno usato un linguaggio politico xenofobo od in altra maniera intollerante». Quattro anni dopo l'ECRI ha notato «con rammarico che, da allora, alcuni membri della Lega Nord hanno intensificato l'uso di discorsi razzisti e xenofobi in ambito politico. Pur rilevando che si sono espressi in tal senso soprattutto dei rappresentanti eletti locali di questo partito, anche certi importanti leader politici a livello nazionale hanno rilasciato dichiarazioni razziste e xenofobe. Tali discorsi hanno continuato a prendere di mira essenzialmente gli immigrati extracomunitari, ma anche altri membri di gruppi minoritari, ad esempio i Rom e i Sinti». Di seguito si ricorda «che nel dicembre del 2004, Il tribunale di prima istanza di Verona ha giudicato colpevoli di incitamento all'odio razziale sei esponenti locali della Lega Nord, in relazione a una campagna organizzata per cacciare un gruppo di Sinti da un campo temporaneo sul territorio locale. Le sei persone furono condannate a sei mesi di prigione, e al pagamento di 45.000 Euro per danni morali, con divieto di partecipare a qualsiasi attività di propaganda elettorale per tre anni e di presentarsi alle elezioni nazionali e locali».
L'opposizione leghista al mandato d'arresto europeo per razzismo e xenofobia (2001). Alla fine del 2001 la Lega, tramite il suo ministro della Giustizia Roberto Castelli, è stata in prima fila per impedire all'Unione Europea di adottare un mandato di cattura europeo (volto a sostituire nel tempo le estradizioni all'interno della UE) meno estensivo. Parlando da Radio Padania Libera l'8 dicembre 2001 Castelli spiegherà che «tra i trentadue reati proposti (che l'Italia vuole ridurre a sei, ndr) c'è quello di razzismo e xenofobia: chi decide a livello europeo chi è razzista e chi no? Chi garantisce, ad esempio, i cittadini che scenderanno in piazza domani?». E il giorno dopo alla manifestazione leghista No immigrati, sanatoria, terrorismo a Milano Castelli avverte i suoi compagni di partito che «se non mi fossi opposto al mandato di cattura europeo, avremmo corso il rischio di avere un vero e proprio reato di opinione su razzismo e xenofobia. Tutti voi avreste rischiato di essere arrestati da un qualsiasi magistrato europeo di sinistra, e vi assicuro che ce ne sono molti, solo perchè siete qui a manifestare contro l'immigrazione clandestina». Poche ore dopo il governo italiano ritira ogni pretesa, con grande disappunto della Lega. La decisione quadro in Italia è stata attuata con la Legge 22 aprile 2005 n. 69.
L'opposizione leghista alle tesi europee sul reato di razzismo e xenofobia (2002-2008). Il 25 aprile 2002 Castelli dichiara la sua contrarietà alla dichiarazione approvata all'unanimità dal Consiglio dei ministri dell'Unione Europea contro il razzismo e la xenofobia. Castelli contesta che quella dichiarazione ponga anche la necessità di «armonizzare le legislazioni nazionali contro il razzismo e la xenofobia» sulla base della proposta quadro presentata dalla Commissione il 29 novembre 2001 ove «per "razzismo e xenofobia" si intende il convincimento che la razza, il colore, la discendenza, la religione o i convincimenti, l'origine nazionale ed etnica siano fattori determinanti per nutrire avversione nei confronti di singoli individui o di gruppi». Così, secondo il ministro leghista, si «rischia di sconfinare in una limitazione della libertà di pensiero. Per esempio, il reato fa riferimento anche al convincimento che un individuo si ritenga superiore a un altro. Io mi chiedo: come può un magistrato entrare nel convincimento personale di un individuo? Il punto è che stiamo viaggiando su una linea di confine molto delicata: un conto è essere razzista, e noi condanniamo il razzismo e la xenofobia, un conto è esprimere liberamente le proprie opinioni e fare lotta politica». Ma per la Commissione europea «il convincimento in sè non è considerato reato: sono solo le azioni criminose motivate da questo convincimento che vengono punite, e per le quali la motivazione razzista è considerata un'aggravante». Sempre in nome della «libertà di opinione», nel marzo 2003 Castelli porrà il veto dell'Italia al Consiglio dei ministri della Giustizia della UE sull'approvazione della decisione-quadro sul razzismo e la xenofobia. Ancora il 2 giugno 2005 Castelli torna a porre il veto motivandolo stavolta per il «rinvio a giudizio di Oriana Fallaci per xenofobia» avvenuto una settimana prima, e perchè «il Parlamento italiano intende riprendere in mano i reati d'opinione». Come in effetti accadrà con la promulgazione della Legge 24 febbraio 2006, n. 85 che ha alleggerito notevolmente anche le pene contro l'odio razziale o etnico. L'UE arriverà a un accordo su razzismo e xenofobia solo nel novembre 2008.
Il caso Salvini (2009). Nel 2009 la Lega subirà nuove accuse di razzismo per i comportamenti di Matteo Salvini, deputato e capogruppo leghista in Consiglio comunale a Milano, prima (7 maggio) a causa della sua proposta (che lui stesso definisce provocatoria) di «pensare a posti, o vagoni, riservati ai milanesi» o alla «possibilità di riservare le prime due vetture di ogni convoglio alle donne che non possono sentirsi sicure per l'invadenza e la maleducazioni di molti extracomunitari», e poi il (7 luglio) quando è ripreso in un video pubblicato da Repubblica Tv mentre con altri leghisti intona cori contro i napoletani alla festa di Pontida del 13 giugno precedente. In entrambi i casi anche gli alleati spesso prenderanno le distanze.
La condanna di Gentilini, Tosi e altri (2009). Il 14 settembre 2008 dal palco della Festa dei popoli padani, il vicesindaco di Treviso Giancarlo Gentilini, inveisce contro gli immigrati con modi e tesi giudicate razziste prima dal quotidiano CEI Avvenire, poi da Thomas Hammarberg, commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa e infine dal Tribunale di Venezia che nell'ottobre 2009 condannerà Gentilini a 4.000 euro di multa e alla sospensione per tre anni dai pubblici comizi per istigazione al razzismo. Analogo provvedimento prenderà in quei giorni la Cassazione contro il sindaco leghista Flavio Tosi per i già citati episodi razzisti del 2001.
Il dibattito in ambiente accademico. Nel 2001 Anna Cento Bull e Mark Gilbert in The Lega Nord and the Northern Question in Italian Politics (Basingstoke, Palgrave) analizzando la Lega hanno sostenuto che fino al 1995 «è sostanzialmente corretto identificare la Lega con una subcultura politica contrassegnata da forti accenti populistici», ma dal 1996, cioè «dalla fondazione della Padania, in ogni caso, questa distinzione è venuta meno e oggi la Lega dovrebbe essere considerata parte della famiglia di estrema destra dei partiti politici» per via della sua maggiore ostilità al multiculturalismo, all'integrazione europea e alla globalizzazione (p. 106). A tal proposito Duncan McDonnell ha commentato che pur apprezzando «lo sguardo obiettivo e imparziale con cui Cento Bull e Gilbert esaminano l'argomento» ha sostenuto in modo più conciliante che «ormai si dovrebbe capire che le affermazioni della Lega non dovrebbero sempre essere prese alla lettera: le posizioni del partito, per quanto discutibili e a volte espresse grossolanamente, spesso mirano a provocare il dibattito pubblico e politico, attirando l'attenzione su questioni che sono fonte di inquietudine nelle roccaforti leghiste (e non solo)».
La difesa della Lega Nord. La Lega Nord ha sempre respinto le accuse di razzismo e xenofobia definendole come «pretesti» per «demonizzare e isolare la Lega». E il 12 aprile 1996 Bossi riteneva che «il razzismo non è quello che dicono gli altri per farci passare da razzisti. Razzismo è un'altra cosa, è il controllo dell'economia dei popoli da parte di una etnia, è il controllo dell'economia degli altri». Più in là, sempre Bossi il 23 dicembre 1996 dichiarava: «Io non parlo di valore etnico, chiunque, da qualunque parte venga, può partecipare alla nascita della nazione padana. Tutti quelli che vivono in Padania, siano essi bianchi o neri o gialli, da qualsiasi parte vengano, nel '97 devono trovare la forza per fare la Padania». Al momento della pubblicazione del rapporto ECRI del 2002, Bossi aveva difeso sè e la Lega affermando che «La Lega non è razzista e non è xenofoba. Noi siamo democratici. (...) Io sono tranquillo, queste accuse le respingo al mittente. Razzista e xenofoba è la sinistra. Noi siamo in regola, non siamo Le Pen. (...) Noi siamo il contrario di Le Pen e chi ci accosta a un farabutto. Altro che razzisti e xenofobi». Dal giugno 2009 la Lega Nord vanta nel Comune di Viggiù il primo sindaco nero italiano, Sandra Maria detta Sandy Cane, per la quale «la Lega non è affatto razzista chiede solo che sia messo un freno all'illegalità perchè ci sono troppi clandestini».
Ma i 180 milioni di euro che la Lega ha preso (e speso indebitamente) da Roma ladrona? Scrive il 25 dicembre 2015 Giulio Cavalli. (Un pezzo di Francesco Giurato e Antonio Pitoni per Il Fatto Quotidiano). Dalla Lega Lombarda alla Lega Nord, transitando dalla prima alla seconda repubblica a suon di miliardi (di lire) prima e milioni (di euro) poi generosamente elargiti dallo Stato. Dal 1988 al 2013sono finiti nelle casse del partito fondato da Umberto Bossi e oggi guidato da Matteo Salvini, dopo la parentesi di Roberto Maroni, 179 milioni 961 mila. L’equivalente di 348 miliardi 453 milioni 826 mila lire. Una cuccagna, sotto forma di finanziamento pubblico e rimborsi elettorali, durata oltre un quarto di secolo. Ma nonostante l’ingente flusso di denaro versato nei conti della Lega oggi il piatto piange. Ne sanno qualcosa i 71 dipendenti messi solo qualche mese fa gentilmente alla porta dal Carroccio. Sorte condivisa anche dai giornalisti de “La Padania”, storico organo ufficiale del partito, che ha chiuso i battenti a novembre dell’anno scorso non prima, però, di aver incassato oltre 60 milioni di euro in 17 anni. Insomma, almeno per ora, la crisi la pagano soprattutto i dipendenti. In attesa che la magistratura faccia piena luce anche su altre responsabilità. A cominciare da quelle relative allo scandalo della distrazione dei rimborsi elettorali, che l’ex amministratore della Lega Francesco Belsito avrebbe utilizzato in parte per acquistare diamanti, finanziare investimenti tra Cipro e la Tanzania e per comprare, secondo l’accusa, perfino una laurea in Albania al figlio prediletto del Senatùr, Renzo Bossi, detto il Trota. Vicenda sulla quale pendono due procedimenti penali, uno a Milano e l’altro a Genova. Fondata nel 1982 da Umberto Bossi, è alle politiche del 1987 che la Lega Lombarda, precursore della Lega Nord, conquista i primi due seggi in Parlamento. E nel 1988, anno per altro di elezioni amministrative, inizia a beneficiare del finanziamento pubblico: 128 milioni di lire (66 mila euro). Un inizio soft prima del balzo oltre la soglia del miliardo già nel 1989, quando riesce a spedire anche due eurodeputati a Strasburgo: 1,03 miliardi del vecchio conio (536 mila euro) di cui 906 milioni proprio come rimborso per le spese elettorali sostenute per le elezioni europee. Somma che sale a 1,8 miliardi lire (962 mila euro) nel 1990, per poi scendere a 162 milioni (83 mila euro) nel 1991 alla vigilia di Mani Pulite. Nel 1992 la Lega Lombarda, diventata proprio in quell’anno Lega Nord, piazza in Parlamento una pattuglia di 55 deputati e 25 senatori. E il finanziamento pubblico lievita a 2,7 miliardi di lire (1,4 milioni di euro) prima di schizzare, l’anno successivo, a 7,1 miliardi (3,7 milioni di euro). Siamo nel 1993: sulla scia degli scandali di tangentopoli, con un referendum plebiscitario (il 90,3% dei consensi) gli italiani abrogano il finanziamento pubblico ai partiti. Che si adoperano immediatamente per aggirare il verdetto popolare, introducendo il nuovo meccanismo del fondo per le spese elettorale (1.600 lire per ogni cittadino italiano) da spartirsi in base ai voti ottenuti. Un sistema che resterà in vigore fino al 1997 e che consentirà alla Lega di incassare 11,8 miliardi di lire (6,1 milioni di euro) nel 1994, anno di elezioni politiche che fruttano al Carroccio, grazie all’alleanza con Forza Italia, una pattuglia parlamentare di 117 deputati e 60 senatori. Nel 1995 entrano in cassa 3,7 miliardi (1,9 milioni di euro) e altri 10 miliardi (5,2 milioni di euro) nel 1996. L’anno successivo, nuovo maquillage per il sistema di calcolo dei finanziamenti elettorali. Arriva «la contribuzione volontaria ai movimenti o partiti politici», che lascia ai contribuenti la possibilità di destinare il 4 per mille dell’Irpef (Imposta sul reddito delle persone fisiche) al finanziamento di partiti e movimenti politici fino ad un massimo di 110 miliardi di lire (56,8 milioni di euro). Non solo, per il 1997, una norma transitoria ingrossa forfetariamente a 160 miliardi di lire (82,6 milioni di euro) la torta per l’anno in corso. E, proprio per il ’97, per la Lega arrivano 14,8 miliardi di lire (7,6 milioni di euro) che scendono però a 10,6 (5,5 milioni di euro) iscritti a bilancio nel 1998. Un campanello d’allarme che suggerisce ai partiti l’ennesimo blitz normativo che, puntualmente, arriva nel 1999: via il 4 per mille, arrivano i rimborsi elettorali (che entreranno in vigore dal 2001). In pratica, il totale ripristino del vecchio finanziamento pubblico abolito dal referendum del 1993 sotto mentite spoglie: contributo fisso di 4.000 lire per abitante e ben 5 diversi fondi (per le elezioni della Camera, del Senato, del Parlamento Europeo, dei Consigli regionali, e per i referendum) ai quali i partiti potranno attingere. Con un paletto: l’erogazione si interrompe in caso di fine anticipata della legislatura. Intanto, sempre nel 1999, per la Lega arriva un assegno da 7,6 miliardi di lire (3,9 milioni di euro), cui se ne aggiungono altri due da 8,7 miliardi (4,5 milioni di euro) nel 2000 e nel 2001. E’ l’ultimo anno della lira che, dal 2002, lascia il posto all’euro. E, come per effetto dell’inflazione, il contributo pubblico si adegua alla nuova valuta: da 4.000 lire a 5 euro, un euro per ogni voto ottenuto per ogni anno di legislatura, da corrispondere in 5 rate annuali. E per la Lega, tornata di nuovo al governo nel 2001, è un’escalation senza sosta: 3,6 milioni di euro nel 2002, 4,2 nel 2003, 6,5 nel 2004 e 8,9 nel 2005. Una corsa che non si arresta nemmeno nel 2006, quando il centrodestra viene battuto alle politiche per la seconda volta dal centrosinistra guidato da Romano Prodi: nonostante la sconfitta, il Carroccio incassa 9,5 milioni e altri 9,6 nel 2007. Niente a confronto della cuccagna che inizierà nel 2008, quando nelle casse delle camicie verdi finiscono la bellezza di 17,1 milioni di euro. E’ l’effetto moltiplicatore di un decreto voluto dal governo Berlusconi in base al quale l’erogazione dei rimborsi elettorali è dovuta per tutti i 5 anni di legislatura, anche in caso discioglimento anticipato delle Camere. Proprio a partire dal 2008, quindi, i partiti iniziano a percepire un doppio rimborso, incassando contemporaneamente i ratei annuali della XV e della XVI legislatura. Nel 2009 il partito di Bossi sale così a 18,4 milioni per toccare il record storico con i 22,5 milioni del 2010. Anno in cui, sempre il governo Berlusconi, abrogherà il precedente decreto ponendo fine allo scandalo del doppio rimborso. E anche i conti della Lega ne risentiranno: 17,6 milioni nel 2011. La cuccagna finisce nel 2012 quando il governo Monti taglia il fondo per i rimborsi elettorali del 50%. Poi la spallata finale inferta dall’esecutivo di Enrico Letta che fissa al 2017 l’ultimo anno di erogazione dei rimborsi elettorali prima della definitiva scomparsa. Per il Carroccio c’è ancora tempo per incassare 8,8 milioni nel 2012 e 6,5 nel 2013. Mentre “La Padania” chiude i battenti e i dipendenti finiscono in cassa integrazione.
FINANZIAMENTI E RIMBORSI ELETTORALI ALLA LEGA NORD (1988-2013)
1988 € 66.249,25 (128.276.429 lire)
1989 € 536.646,25 (1.039.092.041 lire)
1990 € 962.919,55 (1.864.472.246 lire)
1991 € 83.903,87 (162.460.547 lire)
1992 € 1.416.991,83 (2.743.678.776 lire)
1993 € 3.707.939,87 (7.179.572.723 lire)
1994 € 6.125.180,49 (11.860.003.225 lire)
1995 € 1.915.697,39 (3.709.307.393 lire)
1996 € 5.207.659,00 (10.083.433.932 lire)
1997 € 7.648.834,36 (14.810.208.519 lire)
1998 € 5.518.448,11 (10.685.205.533 lire)
1999 € 3.947.619,62 (7.643.657.442 lire)
2000 € 4.539.118,41 (8.788.958.807 lire)
2001 € 4.511.422,19 (8.735.332.610)
2002 € 3.693.849,60
2003 € 4.284.061,62
2004 € 6.515.891,41
2005 € 8.918.628,37
2006 € 9.533.054,95
2007 € 9.605.470,43
2008 € 17.184.833,91
2009 € 18.498.092,86
2010 € 22.506.486.93
2011 € 17.613.520,09
2012 € 8.884.218,85
2013 € 6.534.643,57
TOTALE 179.961.382,78
Lega Ladrona, per non dimenticare, scrive Claudio Rossi su "L'Uomo Qualunque". Umberto Bossi e i suoi figli Renzo e Riccardo devono rispondere all’accusa di appropriazione indebita di oltre mezzo milione di euro di soldi pubblici (ottenuti con rimborsi elettorali) che sarebbero stati usati per pagare le spese personali più varie, di tutto e di più, ben elencato qui sotto. Una somma che gli imputati si sarebbero accaparrati insieme all’ex tesoriere dalle casse leghiste, a scopo personale, detto da Uomo Qualunque per farsi i cazzi loro. Lo ha disposto il gip di Milano Carlo Ottone De Marchi nell’ottobre scorso. Niente udienza preliminare e iter accelerato, quindi, per un processo diviso in tre “filoni”. Due di questi resteranno a Milano (compreso quello sul presunto riciclaggio contestato all’ex tesoriere Francesco Belsito, ndr), mentre un’altra parte è stata trasferita a Genova per competenza territoriale. Ovvero, quella relativa alla truffa sui rimborsi elettorali ai danni dello Stato, per circa 40 milioni di euro. Da quanto si è saputo, Riccardo Bossi, figlio di primo letto di Umberto, punta a patteggiare la pena. Ecco come spendeva i nostri soldi la Lega Nord, per non dimenticare:
– RENZO BOSSI: 145.524,88 EURO
MULTE: 7.821 EURO. Nel solo 2011, tra Bergamo, Brescia e Piacenza, a bordo di vetture diverse (Alfa 159, Audi A5, Volvo S80), prende multe per quasi ottomila euro.
LAUREA A TIRANA: 71.131 EURO. La storia è nota. Di là dell’Adriatico, il figlio del Senatùr, acquistò il titolo di studio.
– RICCARDO BOSSI: 157.933,13 EURO
MULTE: 2.110 EURO. Ne prende circa quattro al mese a bordo di una Bmw X5. Per la maggior parte a Milano.
LEASING MERCEDES ML: 21.350 EURO. È tra i soldi spesi dalla Lega nel 2011.
LEASING CLIO: 6.974 EURO. Anche per questa seconda vettura paga il Carroccio.
LAUREA: 3.413 EURO. È il costo dell’Università dell’Insubria.
ABBONAMENTO SKY: 454 EURO. Pacchetti Sky per la Lega.
EX MOGLIE MARUSKA: 8.050 EURO. Anche l’ex moglie di Riccardo riceve bonifici da via Bellerio.
VETERINARIO: 439 EURO. A tanto ammonta la parcella presentata alla Lega.
– UMBERTO BOSSI: 208.565 EURO
VESTIARIO: 26.786 EURO. Cravatte, camicie e completi del presidente passano sui conti della Lega. Ci sono anche scarpe da ginnastica, pigiama e calzettoni.
GIOIELLI: 220 EURO. È il conto dal gioielliere.
DENTISTA: 1.500 EURO. La Lega come la mutua.
CLINICA PRIVATA 9.901,62. Il Carroccio prende a carico anche le cure in una clinica privata per Sirio, figlio minore del Senatùr.
– FRANCESCO BELSITO: 2.400.000 EURO
ARMI: 2.375 EURO. Il Tesoriere spende in armeria.
UNIVERSITÀ: 5.436. È un po’ una passione, quella dell’istruzione, per la Lega del 2001.
BORSA DI VUITTON: 960 EURO. Non doveva nemmeno essere un modello costosissimo.
CESTO DI FIORI: 290 EURO. Anche il conto del fioraio tra gli scontrini pagati con il finanziamento pubblico dei partiti.
P.S. Ora la Lega queste cose non le fa più, vero Salvini?
Da Garavaglia a Rizzi, la Lega lascia a casa le scope, oggi il nemico è la magistratura, scrive Andrea Carugati, Giornalista, su "L'huffingtonpost.it" il 16/02/2016. Sono passati quattro anni da quella serata alla Fiera di Bergamo, quando Bobo Maroni guidò la rivolta delle scope contro gli scandali che avevano travolto il cerchio magico di Umberto Bossi e i suoi figli. Una serata all'insegna della rottamazione giudiziaria, con il vecchio Senatur sul palco a chiedere scusa per il Trota, e i "barbari sognanti" di Maroni in platea a gridare cori da stadio contro Rosy Mauro, la vestale del cerchio, che subì una sorta di rogo medievale come una "strega". Una strega "terrona", visti i suoi natali pugliesi. "Rosy pu....a l'hai fatto per la grana", gridavano. Maroni dal palco fu categorico: "Se non si dimette lei, la dimetterà la Lega". "Dobbiamo fare pulizia, chi sbaglia paga". In quella notte di rottamazione ante litteram, con gli scandali e i diamanti che sembravano travolgere il Carroccio, c'era anche l'allora sindaco di Besozzo Fabio Rizzi, senatore maroniano, uno dei protagonisti della faida varesina che vide di colpo su barricate opposte sindaci, quadri, dirigenti e militanti leghisti fino a quel momento uniti contro "Roma ladrona". Tra i barbari che lavoravano per mettere Bobo sul trono di Umberto c'erano Matteo Salvini, Flavio Tosi, l'attuale assessore lombardo Gianni Fava, l'attuale presidente del Copasir Giacomo Stucchi e molti parlamentari. La parola d'ordine era salvare la Lega nel segno della moralità. Fare pulizia. Dopo quattro anni la carriera politica della Mauro è finita. Un ricordo i bei tempi da numero due del Senato, con l'amico bodyguard e aspirante cantante Pier Moscagiuro, agente di polizia dirottato a palazzo Madama, e autore del brano "Kooly Noody", divenuto in quelle settimane una sorta di "inno" dei maroniani contro la vecchia guardia. "Mi sono francamente rotto di Cerchi magici e Kooly Noody", scriveva Maroni su Facebook per dare la carica ai suoi. Dopo quattro anni, però, ironie della storia, Rosy Mauro è uscita pulita dalle inchieste che pure l'hanno riguardata. Nel 2014 l'archiviazione per l'inchiesta in cui era coinvolta insieme all'ex tesoriere Belsito, espulso come lei nel 2012 a furor di popolo. Nello stesso anno archiviazione anche in riferimento alle spese sostenute quando era consigliere regionale in Lombardia. Belsito, Bossi e i figli Renzo e Riccardo, invece, sono ancora sotto processo a Milano con l'accusa di appropriazione indebita di circa 500mila euro di rimborsi elettorali della Lega. E ora che la breve stagione di Maroni alla guida del Carroccio si è conclusa da un pezzo, agli arresti è finito uno dei barbari sognanti, Fabio Rizzi, presidente della commissione Sanità al Pirellone e tra i principali artefici della riforma sanitaria lombarda. L'accusa parla di una presunta tangente di 50mila euro e altri benefit a lui e a un suo stretto collaboratore per aver favorito una società che si occupa di ambulatori odontoiatrici. Due giorni fa, Matteo Salvini, altro beneficiario della rottamazione giudiziaria contro i bossiani, ha tuonato contro la magistratura italiana, definita "una schifezza", in riferimento al rinvio a giudizio del suo fedelissimo Edoardo Rixi (che è anche il vicesegretario della Lega) nell'inchiesta sulla rimborsopoli del consiglio regionale ligure. Frasi che sono costate un'indagine a carico di Salvini, indagato dalla procura di Torino per "vilipendio dell'ordine giudiziario". La squadra di Maroni al Pirellone era già stata colpita ad ottobre 2015 dall'arresto del vicepresidente Mario Mantovani (Forza Italia), poi trasferito ai domiciliari, accusato di corruzione e altri reati. A fine gennaio 2016, il pm Giovanni Polizzi ha chiesto il rinvio a giudizio per Mantovani e, nell'ambito dello stesso filone d'inchiesta, anche per il potente e autorevole assessore al Bilancio della Regione Lombardia Massimo Garavaglia, per il quale l'ipotesi di reato è turbativa d'asta. Leghista, molto legato al governatore, Garavaglia è stato difeso a spada tratta da Salvini. "La sua colpa sarebbe di aver aiutato una associazione di volontariato del suo territorio, che trasporta malati e dializzati", ha scritto Salvini sul suo profilo Facebook: "Avrebbe quindi truccato un appalto, poi vinto da altri! Se aiutare (senza peraltro riuscirci) una associazione di volontariato è un reato, mi auto-denuncio anch'io: arrestatemi!". Le scope, in casa leghista, sembrano un lontano ricordo. Spazzati via Belsito, la Mauro e i figli di Bossi, l'epoca del "giustizialismo padano" sembra finita. Ora il nemico è la magistratura. Come negli anni Novanta, quando Bossi tuonava contro i pm, e avvertiva che "dalle nostri parti i proiettili costano solo 300 lire...".
Lega Nord: la politica "idiota". Intervista a Lynda Dematteo del 19 Aprile 2012 su “L’Inkiesta”. Non passa giorno in cui i giornali e le televisioni non amplifichino l’ultima dichiarazione di Bossi, l’ultimo suo grugnito sulla Roma Ladrona, l’ultimo suo avvertimento. Il problema è che lo prendono sul serio. Il problema è che prendono la Lega Nord sul serio, con le proposte razziste, con le affermazioni razziste che contraddistinguono i suoi esponenti. La difesa poi della Padania, resta un capitolo a parte. Questa terra celtica da difendere, come ai tempi di Asterix e Obelix, dai romani di Caio Giulio Cesare. Tutti questi intenti, poi - come si è visto ultimamente - sono miseramente caduti uno dopo l'altro, schiacciati dalle inchieste giudiziarie che hanno travolto mezzo establishment del Carroccio. Oggi però tralasciamo l'attualità e le polemiche che continuano a riempire le prime pagine dei giornali, ed andiamo ad analizzare il fenomeno Lega Nord, dal punto di vista culturale, sociale, cercando di capire come è riuscito ad incidere sulla vita politica italiana. Per farlo, abbiamo contattato tramite mail Lynda Dematteo, antropologa francese, autrice de L’idiota in politica. Questo è ciò che ci ha raccontato.
Come nasce l'idea del suo libro?
<<L’idea de L’idiota in politica, scaturisce dal lavoro etnografico. Quando ho cominciato ad indagare nella provincia di Bergamo, mi sono resa conto che i bergamaschi (non leghisti) chiamavano 'idioti' i seguaci della Lega Nord. Intanto, questo partito di 'idioti' che veniva deriso un pò da tutti per i suoi aspetti 'folkloristici' era al potere nella provincia senza che nessuno si preoccupasse realmente dei danni che poteva fare nelle istituzioni. I leghisti stessi hanno avuto l’intelligenza di giocare con questa immagine di bravi 'idioti' della politica per distinguersi dai politici di professione che disgustavano la gente, dopo le rivelazioni del Pool Mani Pulite. Credo che una tale situazione sia stata resa possibile dalla delusione e dal progressivo distacco dalla politica della maggioranza dei bergamaschi, più interessati al lavoro e al guadagno che ad altre considerazioni collettive>>.
Come nasce la Lega Nord? In quale contesto socio-economico?
<<L’ideologia leghista venne elaborata negli anni ’50 in ambiti democristiani quando Umberto Bossi era troppo giovane per preoccuparsi di politica. All’inizio si trattava di ottenere la messa in pratica degli articoli relativi all’autonomia delle comunità già contenuti nella Costituzione Italiana. Dopo diversi tentativi falliti, il leader varesotto riuscirà nel 1992 a coalizzare i piccoli movimenti autonomisti del Nord Italia e porterà avanti le rivendicazioni federaliste del Nord. Questo salto di qualità fu reso possibile dal sostegno finanziario delle piccole e medie imprese che, in quegli anni, hanno identificato la Lega Nord come il soggetto politico in grado di sostenere la loro attività e di difendere i loro interessi localistici. In quegli anni, molti imprenditori si sono impegnati in prima persona raggiungendo i ranghi leghisti>>.
Dopo la loro entrata nella scena politica, nel '92/'94, quali cambiamenti hanno portato nella società italiana in termini di linguaggio politico?
<<Da questo punto di vista, il leghismo fu una vera rivoluzione. Umberto Bossi ha polverizzato il politichese della vecchia classe politica con le sue provocazioni e le sue violenze di linguaggio. Ha creato un lessico tutto suo, pieno di metafore inattese, a volte umoristiche, che associava cucina politica e volgarità popolana. Le sue performances pubbliche hanno fatto scalpore e sedotto un elettorato stanco dei discorsi dei politici. È lui ad avere segnato il passaggio tra Prima e Seconda Repubblica, aprendo la strada al berlusconismo, anticipando addirittura il porno-pop di questi ultimi anni>>.
Cosa rappresenta, per la Lega Nord, la Padania e come sono riusciti a far passare il messaggio di una difesa di questo 'pseudo-territorio'? Si può inventare, come diceva anche Hobsbawm, la tradizione?
<<La tradizione è sempre un’invenzione. Questa invenzione può attecchire come il kilt scozzese oppure fare un flop. Nel caso leghista, non ha attecchito, perché c’era un vizio originale nell’elaborazione simbolica: come possono i leghisti inventare una nuova tradizione nazionale padana accontentandosi di rovesciare i miti italiani? Ai nazionalisti bretoni non verrebbe in mente di riprendere dei miti repubblicani francesi per spostarne il senso. È un modo piuttosto strano di operare, non trova? Credo che alla fine i leghisti ottengano un risultato opposto a quello che auspicano. La loro Padania avrà rinforzato al contrario il sentimento nazionale italiano>>.
Ho notato, rileggendo gli atti costitutivi del 1989, che si fa più volte menzione di un'ideale etnonazionalista, di un'unione di popoli e movimenti del Nord e di una spiccata lotta al fondamentalismo islamico. Sembrano più ideali medioevali che di un partito politico. Sbaglio?
<<Mi sorprende che la lotta al fondamentalismo islamico sia già presente nei testi della Lega Lombarda. In quegli anni era prevalente il discorso antimeridionalista. L’etno-federalismo, invece, è da sempre stato l’obiettivo politico della Lega Nord. Il leghismo si inserisce in un filone specifico dell’estrema destra europea che trova corrispondenze in altri partiti come il Vlaams Belang fiammingo, la FPO austriaca o il Partito del Popolo danese. La Lega Nord concepisce l’Europa come un insieme di popoli regionali diversi tra di loro per storia, lingua, tradizioni e antiche ascendenze. Questi gruppi, ai quali non corrispondono necessariamente i confini nazionali esistenti, vengono essenzializzati come se fossero sempre esistiti sotto la stessa maschera nel passare dei secoli. Questo può sembrare totalmente retrogrado rispetto ai modelli politici vigenti, ma non deve essere sottovalutato, perché la globalizzazione scardina i confini stabiliti e favorisce l’emergere di nuovi etno-nazionalismi>>.
Stona ancora di più, e denota quanto possano essere strumentali le loro battaglie, questa lotta al centralismo dello Stato e a 'Roma ladrona' quando poi nelle amministrazioni locali, già dagli anni '90, si comportano come gli stessi partiti che criticano. Non le sembra un controsenso? Un'ideale che hanno trasmesso al loro elettorato ma che è palesemente paradossale?
<<Credo che i leghisti si sono fatti propugnatori di una 'doppia morale' italiota. A parole difendono le virtù pubbliche, ma in realtà fanno i loro interessi. Direi che i loro discorsi sulla purezza padana hanno avuto una funzione auto-assolvente. Qui si tocca la dimensione profondamente carnevalesca del movimento leghista. Penso che la Lega finirà per essere scardinata dalle sue contraddizioni>>.
Umberto Bossi è volutamente o involutamente un' "idiota in politica"?
<<Direi che facendo l’idiota, Umberto Bossi, oltrepassa i suoi limiti reali. È riuscito a fare della sua idiozia iniziale una vera forza politica. In questo, sta il suo genio>>. MATTEO MARINI per Wilditaly.net
Lega Nord a Pontida, Bossi: "Obiettivo resta secessione Padania". Il senatur ha rispolverato la vecchia parola d'ordine ma non ha suscitato gli applausi corali, scrive il 18 settembre 2016 “Il Giorno”. Pontida, 18 settembre 2016 - "La Lega è stata fatta per la libertà del nord dall'oppressione del centralismo italiano, non per altri motivi". Lo ha ricordato Umberto Bossi dal palco di Pontida, affermando che la Lega "non potrà mai essere un partito nazionale". L'obiettivo quindi deve rimanere la "secessione" della Padania. Il presidente-fondatore della Lega ha ricevuto un'accoglienza affettuosa, ma le sue parole sulla Padania non hanno suscitato l'applauso corale del pratone. In molti però hanno inneggiato alla Padania e alla secessione, rispondendo all'appello del vecchio capo. "Io ho ascoltato in questi tempi con molta attenzione la Lega - ha detto tra l'altro Bossi -. La Lega è in un momento di grande confusione, è stata né carne né pesce, ma la Padania resta nel cuore e nella testa". Bossi ha osservato che "troppo spesso si sente parlare di uscire dall'euro, ma i fatti dicono che l'Italia si porta via 100 miliardi di euro e l'Europa due: chi è dunque il nemico? State attenti a tirare le conclusioni così». Bossi, senza fare nomi, si è infine rivolto ai leghisti radunati a Pontida nel ventennale della dichiarazione di indipendenza della Padania affermando che "a volte i dirigenti devono essere richiamati dai veri proprietari, i militanti". "Se qualcuno pensa che il futuro della Lega sia quello di un piccolo partito servo di qualcun altro, di Berlusconi o di Forza Italia, ha sbagliato". Lo ha detto Matteo Salvini dal palco di Pontida, rispondendo indirettamente all'intervento di Umberto Bossi. "Voglio cambiare il paese ma come voglio io, voglio accordi scritti con il sangue", ha aggiunto. "L'Italia di oggi è un'Italia di cui ci si vergogna perché dà 300 euro agli invalidi e 1000 euro alle cooperative che garantiscono gli immigrati". Lo ha detto il leader del Carroccio Matteo Salvini, rispondendo a un cronista che gli ha chiesto se il messaggio di uno degli striscioni che sono comparsi questa mattina sul 'sacro prato' di Pontida, che recita "Italia di m… secessione", sia ancora attuale. "L'Italia o sta insieme riconoscendo le diversità, come Miglio ha insegnato, oppure il Paese di oggi è un Paese di cui vergognarsi", ha aggiunto Salvini. Poi, ancora: "Noi cambieremo la Costituzione" e ha proposto un "presidente della Repubblica eletto dai cittadini, che abbia potere di governare e di scegliere i ministri". Questa riforma, ha aggiunto Salvini, sarebbe in senso federale con "una sola camera con il proporzionale, i referendum sui trattati internazionali, il vincolo di mandato e i giudici eletti dal popolo". Questa riforma costituzionale, federalista e presidenzialista, è stata indicata da Salvini come una discriminante per nuove alleanze in vista delle elezioni politiche, insieme alla posizione critica verso l'Ue. Nell'elenco delle proposte c'è l'eliminazione del vincolo di mandato per i parlamentari, ma anche un forte intervento sull'ordinamento giudiziario. "Vogliamo giudici eletti dal popolo - ha detto il segretario della Lega - se i magistrati fanno bene vengono rieletti, altrimenti vanno a casa. Cancelliamo anche l'obbligatorietà dell'azione penale. E dico ai magistrati: uscite dalla logica delle correnti, non fatevi giudicare da chi va a lavorare poche ore alla settimana e ha sentenze già scritte. Su la testa, magistrati liberi". Per la Pontida del ventennale dalla 'dichiarazione di indipendenza' pronunciata a Venezia da Umberto Bossi, Roberto Calderoli ha portato sul palco una torta di compleanno con venti candeline, "visto che non ci ha pensato nessuno". Il vicepresidente del Senato ha detto "tanti auguri Padania" suscitando un coro "secessione, secessione" dalla folla sul prato. "Siccome dicono che ci siamo dimenticati della Padania - ha aggiunto Calderoli -, rispondo che nell'articolo 1 dello statuto della Lega, che ho scritto io, c'è l'indipendenza della Padania. E fintanto che ci sono io quell'articolo rimane. La Padania non può negarla nessuno. La secessione dobbiamo farla domani mattina dall'Europa e dall'euro, poi vedremo il resto". «Lombardia e Veneto sono le due regioni più avanzate e tartassate da Roma ladrona»: Roberto Maroni ha rispolverato dal palco di Pontida un antico slogan della Lega per sostenere, accanto a Luca Zaia, che c'è «una grande azione comune del lombardo-veneto, perché la nostra missione è di difendere i nostri cittadini, i nostri territori e il nord». «Quale è il nostro programma? Ascoltare il popolo - ha aggiunto poco dopo Zaia -. Oggi esistono due correnti di pensiero. Quella centralista di Renzi e il suo referendum, poi c'è la nostra che dice se c'è un posto di lavoro vicino a casa deve andare prima alla nostra gente». Maroni e Zaia sono saliti sul palco prima dell'intervento finale di Matteo Salvini, attorniati da consiglieri e assessori regionali di Lombardia e Veneto.
Pontida, Salvini attacca Forza Italia: "Mai più schiavi di Berlusconi". Il leader del Carroccio: "Se volete Alfano o Verdini cercatevi un altro". Riferendosi alla convention di Parisi: "Congressi mummificati". Poi attacca Bergoglio: "Chi apre la chiesa all'imam non mi piace", scrive Matteo Pucciarelli il 18 settembre 2016 su "La Repubblica". "Se qualcuno pensa che il futuro della Lega sia ancora quello di un partitino servo di qualcun altro, di Berlusconi o di Forza Italia, ha sbagliato a capire. Noi non saremo più schiavi di nessuno. Noi accordi al ribasso non ne faremo con nessuno". Matteo Salvini mette i paletti per il futuro del centrodestra nel suo intervento conclusivo a Pontida. Dove si raduna una Lega Nord una e trina: quella delle origini di Umberto Bossi che non vuole abbandonare il sogno secessionista; quella dei governatori Roberto Maroni e Luca Zaia, populista ma moderata e pragmatica; infine quella nazionalista e antisistema di Salvini. La tre giorni del Carroccio, a vent'anni esatti dalla dichiarazione di indipendenza della Padania (che poi si chiuse con un nulla di fatto, a parte il gesto simbolico), conferma il lento mutamento in corso all'interno del partito. Il segretario federale deve ricordare la necessità di restare uniti "come un corpo solo", perché poco prima di lui il Senatùr era stato durissimo nei confronti del nuovo corso. Poi ci sono anche le magliette pro Ratzinger dei Giovani Padani e critiche nei confronti di Papa Bergoglio, con la scritta 'Il mio Papa è Benedetto": "Lui aveva le idee chiare sull'Islam - spiega Salvini - chi fa entrare l'imam in chiesa non mi piace". Bossi critico quindi, ma anche Roberto Calderoli, arrivato sul palco con torta e venti candeline. Appunto l'anniversario della Padania. "L'articolo 1 l'ho scritto io e finché sarò in vita rimane com'è", spiega il vicepresidente del Senato, con riferimento al primo capoverso dello Statuto leghista che cita l'indipendenza della Padania come obiettivo fondativo. Per Bossi il primo nemico rimane Roma: "Siamo nati per la libertà del Nord, la Lega non sarà mai un partito nazionale". Parole che hanno un peso perché, seppur acciaccato, il fondatore rimane una voce rispettata e amata dalla base. La Lega di mezzo è quella degli amministratori, e in mezzo alla contesa preferisce mettersi da parte. Zaia e Maroni salgono sul palco con consiglieri e assessori: "Il programma del centrodestra è ascoltare il popolo", dice generico il presidente veneto. Salvini ammette di non aver dormito la notte per preparare l'intervento. "Come gli allenatori del giorno dopo, anche qui ci sono dei segretari federali che hanno la bacchetta magica. Il potere centralista è stato forte, ma possiamo dire che anche noi ci siamo complicati la vita e fatti male da soli?", è la prima risposta a Bossi. Poi: "Se qualcuno pensa di far tornare la Lega un partito del 4 per cento servo di altri non mi interessa, di eleggere venti parlamentari non me ne faccio un cazzo. Se ti chiami Scajola - prosegue Salvini - se stai con Alfano, Fini e Verdini non stai con me. Se voi volete fare patti con questa gente, scegliete un altro segretario federale". La proposta di Stefano Parisi resta inascoltata dal leader della Lega che ieri aveva definito "mummie" gli esponenti politici ospiti della convention dell'ex candidato sindaco di Milano. "Non vogliamo recuperare qualcuno che è solo a caccia di poltrone". Contro l'Europa e contro l'euro, unificando nella battaglia tutto il territorio nazionale: il piano di Salvini non cambia. Che allo stesso tempo chiama anche gli elettori dei Cinque Stelle: "L'onestà va di moda anche qui e lo stesso dovrà essere per i nostri alleati". Oltre alla proposta da presentare al prossimo congresso di mettere il limite di due mandati per gli eletti. La divisione tra destra e sinistra non esiste più - continua Salvini - ma è tra globalisti e sovranisti. Ci scappa anche un elogio a Enrico Berlinguer ("Lui stava con gli operai in fabbrica, non con le banche come la sinistra di oggi") accolto con gli applausi dai militanti, anche se non troppo convinti. Dopo, le proposte per il futuro: il presidente della Repubblica eletto dai cittadini, una sola camera eletta con sistema proporzionale, il vincolo di mandato per i parlamentari, l'Italia suddivisa in tre macro-aree, magistrati anche loro "eletti dal popolo". Quanto a Forza Italia, infine: "Deve scegliere se stare con noi o con la Merkel in Europa. O con noi sempre, oppure mai". Ma è un monito che Salvini ha lanciato decine di volte nei suoi quasi tre anni da leader della Lega. Finora senza mai vere conseguenze.
La Lega feroce sola contro tutti, scrive Ilvo Diamanti il 19 settembre 2016 su "La Repubblica". Vent'anni dopo la marcia lungo il fiume "sacro", trent'anni dopo il primo "raduno" a Pontida, la Lega di Salvini cerca di presidiare ancora il Po. Anche se oggi si tratta di un riferimento simbolico. Non è più il muro del Nord. Semmai, una barriera contro il Mondo. E anzitutto contro l'Europa. Salvini, d'altronde, si rivolge all'Italia e agli italiani. La sua, è la Lega dei tempi feroci, che evoca i muri. Per difendersi dalla burocrazia europea, dalla finanza globale. Dall'invasione dei migranti, che risalgono dall'Africa. E, spesso, finiscono il loro viaggio in fondo al mare. La Lega di Salvini è la Ligue Nationale, evocata da Salvini a Pontida, richiamandosi a Marine Le Pen. (Oltre che a Putin. Anch'egli baluardo anti-europeo.) Il rischio di questa Lega è di "perdere" il legame con il territorio. Riducendolo a un sentimento. Come ha rammentato Umberto Bossi, riapparso, accanto a Salvini, dopo le tensioni dell'ultimo periodo. Per riaffermare il suo sostegno al segretario. In nome dell'unità del movimento. E per ribadire che "la Padania vive nel cuore e nella testa della gente". A Pontida Salvini ha cambiato registro e strategia. Immagine e linguaggio. Perché oggi la politica è anzitutto immagine e linguaggio. Salvini, d'altronde, si muove bene in questo territorio mediale. In TV e sui giornali, compresi i rotocalchi di gossip, lui c'è ogni giorno. È un professionista della comunicazione. Fa ascolti. E sa come sottolineare i cambi d'epoca e di strategia (politica). Così è impossibile che i suoi interventi degli ultimi giorni, da ultrà politico, gli siano sfuggiti. Perché io penso che il leader della Lega non lasci nulla al caso. E la manifestazione che si è svolta ieri a Pontida è, per questo, significativa. Perché "segna" l'avvio di una Lega diversa, anche se coerente con le sue radici. La Lega proposta da Salvini a Pontida è la "Lega dei tempi feroci". Una Lega feroce, nel linguaggio e nell'immagine. Una Lega Nazionale, ma anti-nazionale, per progetto e identità. Come evidenziano, anzitutto, i "nemici" dichiarati "dal" leader. Prima e durante la manifestazione di Pontida. Per questo ha commentato la scomparsa del presidente Carlo Azeglio Ciampi con parole "impietose". Prive della pìetas che, perfino in "guerra", si riserva ai nemici. "Un traditore", l'ha definito Salvini. In modo meditato e consapevole. Perché si attendeva e si attende esattamente le reazioni sollevate. Cioè, sdegno e, per chi come me ha conosciuto il Presidente, disagio. Per le parole pronunciate, ma anche per chi le ha pronunciate. Per Salvini, più che per il suo bersaglio. Tuttavia, si tratta di parole pesate - proprio perché pesanti. Pesantissime. Salvini ha ben chiaro chi fosse Ciampi. Il Presidente che ha sfidato il clima popolare antipolitico, diffuso negli anni dopo Tangentopoli. Ricordo bene quando, nel 1999, venne in Veneto e tutti pensavano che sarebbe stato travolto dalla contestazione. Mentre, al contrario, riscosse grandi consensi popolari. A Vicenza, Treviso. Nel cuore del Nordest padano. A conferma che la rivendicazione di indipendenza significava domanda di autonomia, non secessione. Salvini, dunque, attacca Ciampi perché era ed è il simbolo di uno Stato che suscita rispetto. Rappresentato dal Tricolore e dalla Festa della Repubblica. Simboli ed eventi rilanciati da Ciampi, dopo essere stati quasi dimenticati. Anche per questo Ciampi è la figura istituzionale che ha riscosso il maggior grado di fiducia presso gli italiani, negli ultimi vent'anni. L'80%, nel 2005. L'anno precedente alla scadenza del suo mandato. Nessun'altra figura pubblica, negli ultimi vent'anni, ne ha eguagliato i consensi. Ad eccezione, di recente, di Papa Francesco. Anch'egli, non per caso (di nuovo) marchiato da Salvini con un pollice verso: "Non mi piace". Perché il leader leghista preferiva Papa Ratzinger. Benedetto XVI. Anche se mi riesce difficile immaginare che Salvini conosca davvero il pensiero e la riflessione dell'allievo di Romano Guardini. Tuttavia, il messaggio del leader della Lega è chiaro. Esplicito. Apertamente in contrasto con i principali riferimenti della fiducia nello Stato repubblicano e nell'apertura solidale agli altri. La Lega di Salvini, invece, cerca consenso fra le pieghe della sfiducia e dell'insoddisfazione. Delle paure e della paura. Dei muri. In modo aperto ed estremo. Perfino estremista. Salvini intende marciare da solo contro tutti. Contro Renzi, ma soprattutto contro Grillo. Che gli sta sottraendo i voti del ri-sentimento popolare. Antipolitico. Per questo "lotta" contro Roma, Bruxelles e l'Europa. Ma anche contro Milano. Amministrata da Sala. Cioè, da Renzi. Milano, la città di Parisi. Leader di un Centrodestra "normale". Troppo normale. Troppo simile e compatibile rispetto a Sala. Perché vent'anni dopo la marcia lungo il Po, il problema e l'obiettivo della Lega resta lo stesso. Anche se ridefinito. Perché Salvini ha nazionalizzato la Lega per "padanizzare" l'Italia. Ma, per questo, ha bisogno di alleati. Da solo non ce la può fare. Impossibile governare il Paese senza l'appoggio di Forza Italia. E, soprattutto, di Berlusconi. Perché Stefano Parisi è il clone di Beppe Sala. Tutto meno che un'alternativa a Renzi. Per "forzare" gli equilibri politici in Italia e, prima, dentro Forza Italia, Salvini cerca, dunque, di conquistare la leadership del Centrodestra post-berlusconiano. Senza "mediazioni" e mediatori. Per "non diventare schiavo di Berlusconi", come ha sostenuto apertamente a Pontida. Mira, così, a spostare il Centrodestra e la Destra più a destra. Non solo nel Nord, ma in Italia. Una svolta possibile, ma rischiosa. Perché Marine Le Pen, ha fatto diventare il Front National primo partito in Francia cercando di interpretare un populismo dal volto "più" normale. Meno aggressivo, comunque, rispetto al Fn di Jean Marie. Con il quale ha rotto ogni rapporto. Ma la Lega di Salvini rammenta, piuttosto, il Fn di Jean Marie. Per linguaggio e immagine: evoca gli ultrà. Rischia di spingere la Lega in curva. Nord.
Lega, la marcia del Po 20 anni dopo: il partito anti-Stato ora nazionalizza le paure. Nel ‘96 il primo rito dell’ampolla e il rischio secessione. Poi, da Bossi a Salvini, a tutta forza contro Ue e migranti, scrive Ilvo Diamanti il 16 settembre 2016 su "La Repubblica". Sono passati vent'anni da quando, proprio in questi giorni, il popolo della Lega discese lungo il Po, al seguito di Umberto Bossi. Il leader e padre della Lega, al Monviso, riempì un'ampolla d'acqua di sorgente. Fino ad arrivare a Venezia. Un rito, ripetuto ancora, per segnare i confini padani. Da allora, pare trascorso un secolo. E anche più. Tanto che se ne sono dimenticati tutti. Perfino i leghisti. Eppure, vent'anni fa, quella marcia apparve una sfida eversiva. Alle istituzioni e all'identità nazionale. Vent'anni fa. Tutti gli occhi e gli occhi di tutti erano puntati sul Po. Presentato, dalla Lega, come un muro. Tra due Nazioni distanti. La Padania e l'Italia. La Padania opposta all'Italia. Due società che esprimevano valori e modelli alternativi. Il Nord padano contro Roma ladrona. La società produttiva contro lo Stato assistenziale e il Sud assistito. La marcia padana veniva dopo oltre dieci anni di leghismo. Dal 1983, quando la Liga Veneta aveva fatto la sua comparsa, appariscente, nel Nordest. In particolare, nel Veneto Centrale. A Vicenza, Padova, Treviso, Verona. La Lega delle Leghe: si allargò presto ovunque, nel Nord. In Lombardia e in Piemonte. Soprattutto nelle aree del lavoro autonomo. Così, nel 1993, a Milano, alle prime comunali con elezione diretta del sindaco, la Lega riuscì a imporre il proprio candidato, Formentini. E il "suo" Nord divenne Nazione. La Padania, dove cresceva l'insoddisfazione fiscale e l'insofferenza verso lo Stato assistenziale e il Sud assistito... Alle elezioni politiche dell'aprile 1996, agitando la bandiera dell'indipendenza, la Lega ottenne oltre il 10% dei voti validi. Quasi quattro milioni. Il 23% nel Nord "padano". Ma oltre il 25% in Lombardia e quasi il 30% in Veneto. La Lega, allora marciava da sola contro tutti. Ma soprattutto contro il Polo di Centrodestra. La coalizione costruita da Silvio Berlusconi, intorno a Forza Italia, nel 1994 aveva vinto le elezioni. Sulle macerie dei partiti della Prima Repubblica, aggregò la Lega e i post-fascisti di Alleanza Nazionale. Ma governò pochi mesi. Troppe differenze e troppe ambizioni divergenti, allora. Di partito e personali. Fra Berlusconi, Fini e lo stesso Bossi: chi poteva comandare sugli altri? Così, la Lega riprese la strada dell'indipendenza. Non solo dall'Italia, ma anche dal Polo e, ovviamente, dai partiti nazionali di sinistra. Insomma: da tutti. Alle elezioni politiche del 1996, dunque, la Lega padana e indipendentista corse da sola. Sconfisse il Centrodestra, nel Nord. E, di conseguenza, in Italia, favorì la vittoria dell'Ulivo, guidato da Romano Prodi. Così, per ri-affermare la missione politica e sociale leghista, Bossi decise di mobilitare la protesta dei ceti produttivi del Nord contro lo Stato Centrale. Contro Roma. E si mise in marcia. Non su Roma, ma lungo il Po. La marcia sul Po: nell'estate di vent'anni fa monopolizzò l'attenzione dei media e dell'opinione pubblica. Riprodusse e amplificò tensioni e paure. Perché si trattava di tensioni e paure reali. La "frattura" tra società, politica e istituzioni era forte, allora. Come il distacco fra i ceti produttivi del Nord e il sistema politico romano. Mentre l'identità nazionale, in vista dell'avvio del sistema monetario europeo, appariva incerta. Tanto da rendere realista la questione, evocata da Gian Enrico Rusconi: cosa può avvenire "se cessiamo di essere una nazione? ". Il sostegno alla secessione fra i cittadini, però, era limitato. Canalizzava, piuttosto, altre domande: il federalismo, l'autonomia fiscale, l'efficienza della macchina pubblica. E intercettava l'insoddisfazione verso i partiti, vecchi e nuovi. Tuttavia, la debolezza delle istituzioni e del sistema politico, dopo la dissoluzione della prima Repubblica, era tale da far temere che le crepe aperte dalla Lega potessero produrre fratture profonde. Facendo diventare la Padania ben altro che una provocazione folclorica. Da ciò la preoccupazione, diffusa. Fino al 15 settembre 1996. Quando a Venezia, destinazione della marcia, arrivarono qualche decina di migliaia di militanti. Mentre lungo il Po marciavano non più di 100 -150 mila persone. Meno di quanto avrebbe potuto attirare una festa popolare di fine estate. Allora finì la "grande paura". Della secessione. Della fine della nazione. Ma non è finita la Lega. Che, però, vent'anni dopo, è cambiata profondamente. Anche se, dal punto di vista geo-politico, conserva il profilo tradizionale. Infatti, nel Nord: governa le Regioni del Lombardo-Veneto. Fino ad alcuni anni fa: anche il Piemonte. In ambito nazionale, ha conosciuto una lunga esperienza di governo, insieme al centrodestra. Accanto a Berlusconi. Ma, nel frattempo, ha cambiato strategia e identità. La secessione ha, progressivamente, lasciato il posto all'in-dipendenza, cioè, all'autonomia. Perché la secessione non la vuole quasi nessuno, neppure fra gli elettori della Lega. Ma tutti vogliono più federalismo. Vent'anni dopo. La Lega non è più il "partito di Bossi". Ma resta un "partito personale". La Lega di Salvini. Che ha trasformato profondamente l'identità leghista. Da partito secessionista a partito di protesta. Agita la politica dell'anti-politica. Intercetta e amplifica l'inquietudine del mondo che ci assedia. La Lega di Salvini: imprenditore politico della paura. Anzitutto: degli immigrati. E poi: portabandiera dell'euro-scetticismo. Interlocutore e alleato di Marine Le Pen, leader del Front National. Così oggi Salvini guida la Ligue Nationale. Nella quale (sondaggio Demos, sett. 2016) prevalgono gli elettori di Destra (36%) e di Centro-destra (26%). Un partito anti-partito. Alternativo a tutti i partiti. Per questo, il suo maggiore avversario, il soggetto politico che più degli altri ne condiziona l'espansione, è il Non-partito per (auto) definizione. Il M5s. La Lega, invece, condivide lo spazio politico con Forza Italia e Berlusconi. Che Salvini tratta da concorrenti. Anche per questo, però, è messo in discussione dai precedenti "capi" della Lega. Bossi e Maroni. Che continuano a considerare Berlusconi un alleato. Obbligato, se non privilegiato. Vedremo domenica, a Pontida, le reazioni del "popolo leghista" a queste scelte. A queste tensioni interne. Politiche e personali. Vent'anni dopo, coerente con la nuova identità, la Ligue Nationale ha cambiato geografia. Si è nazionalizzata. Secondo i sondaggi più recenti, oggi avrebbe superato il 10%, in Italia. E il 15% nel Nord (il 25% nel Nord Est). E sarebbe intorno al 9-11% al Centro, e al 6-7% nel Sud e nelle Isole. Perché la paura non ha confini. E non ha bisogno di marce per venire coltivata. Al contrario. La "Lega degli uomini spaventati" dissemina il Paese di confini. Fra noi e gli altri.
Bossi contro Salvini: “Al Sud vogliono solo soldi da rubare al Nord”, scrive Emanuela Mastrocinque il 21 giugno 2015 su “Vesuvio Live”. Come recita un vecchio detto popolare “tutti i nodi vengono al pettine” basta solo saper aspettare! In questo caso bastava invece aspettare il congresso leghista tenutosi ieri a Milano, tra aspettative nazionaliste e vecchie idee antimeridionali, per vedere emergere il pensiero forse più genuino e reale che animava (e probabilmente anima ancora) la Lega Nord. Come ribadito in un articolo de il FattoQuotidiano più che uno scontro generazionale, a sentir parlare vecchi e nuovi esponenti del Carroccio, sembra assistere ad un vero e proprio scontro politico: perché quel Salvini pronto ad “arraffare” voti un po’ ovunque compreso al Sud, sembra non piacere a nessuno, soprattutto alle vecchie leve leghiste come Bossi che, dalle nuove aspirazioni nazionaliste, sembra prendere ampiamente le distanze. Umberto Bossi, l’uomo del “ce l’ho duro” e del dito medio sempre in vista, torna a parlare del Sud e dei meridionali adottando il solito tono sprezzante e discriminatorio. Una cosa del tutto normale a metà degli anni ’90 quando il motto separatista era praticamente all’ordine del giorno, cosa che oggi, grazie al sentimento populista abbracciato dai nuovi leghisti (sempre meno separatisti e più nazionalisti) sembra essersi dimenticata, così come si sono dimenticati gli insulti che i dirigenti della Lega hanno riservato per anni ai “parassiti” del Sud. Ma bastava attendere, appunto, la giusta occasione per veder emergere nuovamente dal partito il cui motto è sempre stato “Prima il Nord” i veri sentimenti che lo hanno animato. “Sono venuto qui per vedere che partito sta venendo fuori” ha detto l’ex storico segretario ai giornalisti“Se esce un partito nazionale, Salvini resta da solo a farlo” affermando poi che i meridionali i voti “non glieli danno, perché quelli vogliono i soldi e non vogliono cambiare il Paese” aggiungendo che (i meridionali) “hanno sempre compartecipato con Roma nei banchetti con i soldi rubati al Nord”. A queste dichiarazioni Salvini risponde:” “Io ho imparato tutto e devo tutto a chi mi ha preceduto, ma se c’è qualcosa di diverso rispetto al passato sono i voti e i voti contano in politica”. E forse proprio in questa risposta si annida il vero senso di questa nuova virata nazionalista che sembra preoccuparsi anche dei pescatori della Sicilia o dei disoccupati Campani: i voti! Perché rinunciare a quella seppur esigua manciata di voti provenienti dal Sud? Che importa se noi siamo ancora quelli del passato, ciò che conta è farci votare anche da chi, fino a ieri, abbiamo definito parassita e ladrone!
“I meridionali? Altro che cultura, hanno esportato solo mafia e pidocchi”, scrive Francesco Pipitone su "Vesuvio Live” il 9 dicembre 2014. In occasione delle elezioni europee dello scorso maggio Matteo Salvini e la sua Lega Nord hanno trovato il conquistato qualche decina di migliaia di voti al Sud: 43.180 nella circoscrizione meridionale, equivalente allo 0,75% dei voti; 15.235 voti in Campania, lo 0,66% del totale. Numeri piccoli, ma da non trascurare a causa dell’astensionismo e della capacità dei leghisti di far leva sugli istinti bassi delle persone, sull’intolleranza, sull’ignoranza, fattori che potrebbero determinare un aumento dei consensi per Salvini, specialmente se costui sarà messo a capo di una coalizione di “destra” sostenuta, tra gli altri, da Silvio Berlusconi, il quale ha già fatto sapere che intende elevare il segretario della Lega al rango di goleador. Grazie al potere mediatico di Berlusconi, prima che politico ed economico, ci dobbiamo insomma aspettare una rilevante presenza di Matteo Salvini in Televisione e sui giornali, dove avrà l’occasione di riferire le proprie sciocchezze atte a raggirare i poveri cristi che, pur avendo la memoria corta e capendo poco dei fatti della politica, intendono esercitare lo stesso il proprio diritto di voto: la Lega Nord incrementerà il proprio consenso al Sud, e troppo se non stiamo attenti e non creiamo un’alternativa a questi individui che da 154 anni stanno succhiando il sangue del Mezzogiorno. Non dobbiamo dimenticare i decenni di razzismo praticati dal Nord a discapito del Sud, non dobbiamo dimenticare che ci hanno chiamato e continuano a chiamarci scimmie, marocchini (in senso dispregiativo), terroni, colerosi, mafiosi, pidocchiosi, ladri, assassini, scansafatiche e tutto il resto. Milioni di persone hanno abbandonato la propria casa, la moglie e i figli per andare a produrre al Nord, il quale ha guadagnato con il lavoro degli emigrati del Sud, che vivevano peggio delle bestie in stanze piccolissime e affollate, tenuti alla larga dai signori “perbene” come fossero appestati. “Non si affitta ai meridionali”, questa è l’accoglienza dei nostri fratelli italiani. Su questi sentimenti la Lega Nord ha edificato la propria forza, per poi vedere un crollo dei consensi dopo due decenni in cui non ha fatto niente a parte rubare, e lo dimostrano gli scandali che hanno coinvolto gli uomini di punta del partito del Nord, compreso il fondatore Umberto Bossi che usava i soldi pubblici per pagare il proprio lusso. Nel video seguente potete ascoltare la registrazione di qualche telefonata degli ascoltatori all’emittente Radio Padania Libera, dove emergono il razzismo e il ribrezzo verso i “terroni”, ignoranti e nullafacenti, che hanno rubato il lavoro e esportato solamente la mafia e i pidocchi. Questa è la Lega Nord, votatela.
Pino Daniele: “C’è il razzismo verso i meridionali. Lo vivo e l’ho vissuto”, scrive Francesco Pipitone su “Vesuvio Live” il 12 gennaio 2015. È il 1979 e in un’intervista a cura della Rai si parla del blues napoletano, il cui simbolo più conosciuto era diventato Pino Daniele. Il blues è la musica del dolore, della ribellione, del disagio sociale: “Il blues è la ribellione a questi continui soprusi da parte della gente che ora i “negri”, odia la gente di colore, e possiamo dire che c’è una relazione una relazione tra i “negri” e noi. C’è ancora questo, diciamo, razzismo nei confronti dei meridionali. C’è perché lo vivo, l’ho vissuto, e sono convinto che c’è”. Pino Daniele, dunque, afferma esplicitamente di essere stato vittima di razzismo, ma d’altra parte era sufficiente ascoltare bene una delle sue canzoni più famose per accorgersene, ‘O Scarrafone: “io son stato marocchino, me l’han detto da bambino”. Con la parola “marocchino”, al Nord Italia, si indicano i meridionali, i terroni, in senso dispregiativo. Il marocchino è nero, è uno scarafaggio, viene dall’Africa: quante volte ci hanno chiamati “africani”? Quante volte ci hanno detto “Benvenuti in Italia”? Ovviamente essere etichettati quali marocchini o africani non è insulto, tuttavia il fatto che i termini siano usati in quel modo è la dimostrazione di quanto l’Italia sia una nazione ignorante e razzista. Pino Daniele, circa la città di Napoli, dichiara di amarla e odiarla allo stesso tempo, però a quel punto nel video vi è uno stacco che fa saltare tutta la parte in cui spiega il rapporto di amore-odio e le sue motivazioni. Possiamo ascoltare, invece, perché Napule è na carta sporca: “È una carta sporca perché è sporca e non ci sta niente (da fare, ndr). Ma è sporca non perché noi siamo sporchi, questa è la verità. Ti ripeto, è il discorso di strutture che non vanno, certe cose non vanno e bisogna cambiarle”. Il giornalista poi chiede a quali napoletani faccia comodo la Napoli oleografica, ossia quella irreale, stereotipata, fatta sì di pizza, Sole e mandolino, ma pure di chiasso, furberia, pigrizia: [Fa comodo] “a quelli che ci mangiano su questa cosa. Il napoletano che si fa gioco di questa città, della sua gente, delle sue cose per me non è napoletano”. L’intervista sembra proprio una risposta a quanti oggi, con la morte del cantante, affermano che era andato via da Napoli perché l’aveva ripudiata, ne aveva preso le distanze. Qui si può vedere invece come egli conosca bene la città e i suoi concittadini, come sappia discernere il bene e il male, il quale consiste “nel strutture che non vanno bene”, ossia nel modo di gestirla, nel potere. Non a caso parla di blues e ribellione, di Masaniello, anche se fa un errore associandolo alla cosiddetta Rivoluzione Partenopea del 1799: Masaniello, infatti, fu protagonista della rivoluzione del 1647, mentre nel 1799, al contrario, i francesi profanarono la sua tomba all’interno della Chiesa del Carmine a Piazza Mercato, gettando via le sue ossa, come racconta la lapide commemorativa che si trova nella stessa chiesa. Pino Daniele aveva affermato recentemente di essere tornato, negli ultimi tempi, a scrivere una musica simile a quella dei primi tempi. Egli portava con sé tutto il bagaglio della musica napoletana e a esso attingeva per esprimere la sua arte, continuava a cantare in Napoletano, il Napoletano era la lingua che parlava abitualmente, come riportato da Jovanotti pochi giorni fa, nel momento in cui quest’ultimo ha ricordato l’amico appena scomparso. A Courmayeur ha cantato in napoletano, ha cantato ‘O Scarrafone, introducendo il pezzo con “speriamo che non ci siano più scarrafoni”: cosa poteva intendere se non l’auspicio che il razzismo verso i terroni non esistesse più? L’ultimo tour, Nero a Metà, lo aveva condotto con la band degli anni ’80, quella del grande successo, quella degli amici napoletano tra i quali troviamo Tullio De Piscopo e il nero napoletano, James Senese. Era un ritorno al passato, una riscoperta di se stesso, la riconciliazione con la propria Terra: Pino Daniele era (ancora) napoletano, era ancora un uomo del Sud, che si mettano l’anima in pace.
Pino Daniele e la Lega Nord di Matteo Salvini, la tristezza delle polemiche nel giorno della morte. Dichiarazioni, rettifiche e smentite: i sostenitori della Lega Nord fanno discutere anche nel giorno della morte di Pino Daniele, scrive il 6 gennaio 2015 Claudia Gagliardi. “Questa Lega è una vergogna, noi crediamo alla cicogna e corriamo da mammà” cantava Pino Daniele nel 1991: il brano è il calebre ‘O Scarrafone, pietra miliare del repertorio del bluesman napoletano, che all’epoca fa molto rumore per quella frase riferita al partito di Umberto Bossi. Quando la Lega Nord secessionista e antimeridionale vive il suo periodo d’oro, Pino Daniele non si nasconde e si fa portavoce dello sdegno dei suoi conterranei, così come farà negli anni successivi, quando definirà “una schifezza” lo show di Bossi a Napoli che intona Maruzzella (frasi per cui ha risarcito la bellezza di 500mila euro all’ex leader del Carroccio). Con la sua morte improvvisa, in una giornata di messaggi di cordoglio giunti da tutto il mondo, non sono mancate nuove polemiche intorno al rapporto controverso tra Pino Daniele e la Lega. Se l’ex segretario e musicista per diletto Roberto Maroni aveva commentato “sgomento” il lutto, il nuovo, rampante leader del partito Matteo Salvini si è detto dispiaciuto della morte di Pino Daniele, “perchè era un grande artista e avrebbe potuto fare molto altro ancora”, aggiungendo: “Non voglio però dire ipocrisie. Mi spiace perché era un grande artista ma ascolto altra musica”.
Razzismo, ignoranza, interessi personali: ecco la vera Lega Nord, scrive il 25 novembre 2014 Francesco Pipitone su "Vesuvio Live". Il video che potete guardare è una piccola raccolta delle perle di alcuni esponenti di spicco della Lega Nord: abbiamo Salvini fannullone e razzista, Umberto Bossi che associa Berlusconi a Cosa Nostra per poi allearsi con lui e governare per anni, l’ignoranza e la violenza di Calderoli, Borghezio e Gentilini. Una Lega Nord razzista e incompetente, ma furba, che facendo leva sugli istinti più bassi della popolazione ha saputo occupare i posti più alti della politica che non ha mai cambiato, anzi, dimostrando di essere perfettamente italiana: non ha mai fatto qualcosa di importante per la “Padania” né per l’Italia, bensì soltanto per le proprie tasche. Se adesso, dopo il processo scandaloso per truffa aggravata ai danni dello Stato, la famiglia Bossi si è data all’agricoltura e quindi al più nobile dei mestieri, quello che permette il sostentamento alimentare, non altrettanto fanno gli altri: Maroni è ancora il presidente della Regione Lombardia nonostante le magnacce dell’Expo di Milano, e Salvini sta recuperando consensi facendo anche affidamento su quei meridionali indifferenti al quarto di secolo di insulti e fango che i leghisti gli hanno buttato addosso: tuttavia si sapeva già, la gente peggiore è quella che si schiera contro la propria Terra, come il sindaco di Salerno che accoglie con soddisfazione ed onore il segretario del partito del Nord. Più di 150 anni dopo il principio dell’operazione di colonizzazione psicologica, oltre che economica, del Mezzogiorno, il bilancio è pesante e triste: l’orgoglio della gente del Sud viene fuori solo davanti a una bella cartolina se si è fortunati, mentre si continua a ignorare la storia e la cultura plurimillenaria della Terra dove si è nati. Il complesso di inferiorità è bene affermato nell’animo e nelle convinzioni delle persone, tant’è vero che molti si sono sentiti onorati e gratificati quando Matteo Salvini è giunto dal civilissimo Nord a chiedere i loro voti, si sono sentiti in dovere di dimostrare di essere diversi da quei terroni malavitosi e nullafacenti e dagli immigrati, non rendendosi conto di essere soltanto dei numeri utili al mantenimento delle poltrone e alla permanenza dello stato di colonia interna del Sud. I peggiori sono questi qua, non a caso Dante fa masticare a Lucifero tre traditori: Giuda, Bruto, Cassio.
L’Italia di Matteo Salvini: egoista e rabbiosa. E pericolosa, scrive il 13/08/2015 Marco Esposito su “Giornalettismo”. Nel Partito Democratico, storicamente, uno dei passatempi più frequentati è il litigio. Dal 2007, anno in cui il Pd è nato, ad oggi sotto questo punto di vista poco è cambiato. Nel 2007 era Walter Veltroni ad essere sotto attacco concentrico della sinistra del partito. Un attacco teso a “consumarlo”, a logorarlo, giorno dopo giorno. Per l’allora ala dalemiana del PD, anche se i democratici dopo le elezioni perse nel 2008 erano all’opposizione, il vero obiettivo da abbattere era il segretario, non Silvio Berlusconi. Più o meno gli stessi che attaccano oggi Renzi, accusandolo di voler fare le riforme con Verdini, all’epoca, piuttosto che attaccare Berlusconi e il suo governo, avevano come unico riflesso culturale quello di bombardare la ditta per riprendersi il partito. Cosa che avvenne, prima con le dimissioni di Veltroni a febbraio del 2009, e poi con la vittoria di Bersani alle successive primarie. Anche oggi, lo schema si ripete. Quella parte del Pd che fa le barricate contro il Pd stesso, cercando di mettere in ogni modo il bastone tra le ruote del proprio segretario e premier, sembra piuttosto disinteressata a quello che accade nel resto della politica italiana. Ossessionati da Berlusconi (e da Renzi) costoro sembrano ignorare il pericolo che la crescita della Lega Nord e di una destra radicale comporta per il nostro paese. Nell’escalation del vilipendio leghista ora sono entrate anche la Chiesa e Papa Francesco. Oggetto del contendere, ovviamente, l’accoglienza agli immigrati. Nulla di sorprendente se si considera che questo è il vero cavallo di battaglia di Matteo Salvini, sul quale ha costruito la rimonta della Lega nei sondaggi in questo ultimo anno. Una crescita evidente, impetuosa, e anche inattesa nelle dimensioni. Ma cosa sta costruendo Matteo Salvini? Il leader della lega, messa da parte la retorica antimeridionale dell’era di Umberto Bossi, punta tutto sulla paura del diverso, mettendo nel proprio mirino soprattutto gli immigrati. Non una novità nella storia della Lega, ma questa volta si è fatto un passo “avanti”, anche rispetto ai tempi dei Governi Berlusconi-Bossi. Salvini non attacca solo l’arrivo degli immigrati clandestini, il segretario della Lega Nord è contro l’accoglienza tout court. Salvini attua una strategia pericolosa e cinica. Si appella a quella che potremmo definire l’Italia egoista. Composta da chi, dopo anni di crisi economica, vede nell’immigrato colui che gli porta via la casa, un ipotetico sussidio di disoccupazione, il lavoro. Ma tra questi cittadini attratti dal flauto magico salviniano c’è anche chi è semplicemente razzista. Salvini, con l’aiuto di Casapound, come abbiamo potuto vedere a Roma, sia a Tor Sapienza sia a Casal di San Nicola, sta creando una saldatura potenzialmente esplosiva tra lega nord ed estrema destra. Una saldatura che – sondaggi alla mano – rischia già oggi di proiettarsi al 20% delle intenzioni di voto. Un’espansione senza precedenti. Salvini, davanti all’assalto verso il centro del Pd Renziano, che alle Europee ha conquistato un pezzo di elettorato una volta vicino al centrodestra Berlusconiano, ha spostato sempre più a destra l’asse della Lega e della sua alleanza, riuscendo ad aggiungere allo zoccolo duro leghista le fasce di cittadinanza più conservatrice e reazionaria del nostro paese. Se Berlusconi e la sua coalizione di governo strizzavano l’occhio a chi non amava pagare le tasse, lasciando intendere che le regole erano spesso più un problema che il presupposto necessario in ogni organizzazione civile, Matteo Salvini e questa nuova destra di regole neanche vogliono sentir parlare. E’ l’Italia che vuole fare quello che dice lei, come dice lei a prescindere dalle regole stesse. Se le regole non lo permettono, non vanno cambiate, ci si passa sopra con la “ruspa”. E’ il leader politico che ha azzerato i concetti, tagliandoli con l’accetta, semplificando al massimo ogni complessità, ogni problema. Il problema dei Rom? Ruspa. Lo sbarco degli immigrati dalla Libia? A casa loro. Dove sistemare i rifugiati politici? Prima gli italiani. Salvini ha messo in piedi un’abile operazione di comunicazione politica: ha preso un problema molto sentito dagli italiani, e ci ha messo una bandierina, agitando una soluzione – il “tutti gli immigrati a casa loro” – che lui per primo sa essere inattuabile. Lo sa lui e lo sa ancora meglio il presidente della Regione Lombari da Roberto Maroni che, da uomo di stato, sa bene come questo problema, con il quale dal Viminale anche lui ha dovuto fare i conti, sia irrisolvibile. Nessuna regola, per quanto ferrea, potrà mai porre un argine invalicabile alla disperazione delle migliaia di persone che scappano dalla guerra. Ma per il leader della Lega, questo è un problema secondario, che almeno nell’immediato poco gli importa. Il suo obiettivo è continuare a drenare consensi da quell’Italia disillusa, impaurita e che la crisi ha reso più debole e più indifesa. Ma, attenzione, anche più incattivita e aggressiva. A questo pezzo di Italia, pronta ad abbracciare – lei sì – un uomo forte –, Salvini offre una ricetta semplice e irrealizzabile. Una ricetta che poggia su due pilastri: no all’Europa (dei banchieri, dell’Euro, della Merkel e della Germania) e agli immigrati. Il leader del carroccio offre un passaggio verso il passato, verso un’impossibile Italia senza rifugiati e senza euro. Un’Italia che soddisfa sia i nostalgici, sia gli egoisti che non vogliono guardare al di là del proprio confine, sia chi non ce la fa e preferisce trovare nel “negro” che serve ai tavoli, la causa dei suoi problemi. Ecco, il crescere dei consensi di questa saldatura tra destra estrema e lega, ci sembra possa mettere in difficoltà la nostra democrazia molto più del Senato delle regioni. Alla “narrazione” di Salvini, e alla sua Italia che, lo confessiamo, ci fa un po’ paura, è necessario contrapporre un’idea di paese, si fiducioso e non rabbioso, ma anche regole certe per un’accoglienza dignitosa, onesta e che non scarichi i problemi che questo comporta sulle fasce più deboli delle nostre città, come avvenuto in passato.
Benzinaio di Varese denuncia Riccardo Bossi: «Non paga benzina». Sulla vicenda stanno indagando i carabinieri di Varese. Il primogenito del Senatur già condannato per lo scandalo sui fondi di partito, scrive "Il Corriere della Sera” il 28 giugno 2016. Un benzinaio di Buguggiate (Varese) ha denunciato ai carabinieri Riccardo Bossi, sostenendo che il primogenito di Umberto Bossi, fondatore della Lega Nord, non avrebbe pagato carburante per un valore di 1.300 euro. Sono in corso accertamenti dei carabinieri sulla vicenda. Secondo il racconto del titolare della stazione di servizio, tra ottobre 2015 e lo scorso febbraio Riccardo Bossi più volte si sarebbe recato da lui per fare il pieno, promettendo che sarebbe passato a saldare il conto in un secondo momento, offrendo come garanzia la notorietà della sua famiglia. Non avendo ricevuto il denaro, il benzinaio nei giorni scorsi ha deciso di presentarsi dai carabinieri e sporgere denuncia per truffa. Riccardo Bossi, in passato, è già stato denunciato da commercianti per episodi analoghi. Rischia di finire a processo a Varese per aver acquistato, secondo l’accusa, gioielli e anche pneumatici per le sue auto senza pagare il conto (il 15 novembre comparirà davanti al gup). Il primogenito del fondatore del Carroccio, inoltre, lo scorso 16 ottobre era stato rinviato a giudizio a Busto Arsizio (Varese) sempre con l’accusa di truffa. Anche in questo caso è accusato di aver comprato gioielli e un orologio di lusso in un negozio senza saldare un conto di quasi 27 mila euro, nonostante i continui solleciti e le promesse di pagamento. Lo scorso 14 marzo, infine, è stato condannato a Milano a un anno e otto mesi di carcere per appropriazione indebita aggravata nel processo con rito abbreviato con al centro le presunte spese personali con i fondi del Carroccio.
“Passerò a pagare”, benzinaio denuncia Riccardo Bossi, scrive, mercoledì 29 giugno 2016, “Diretta News”. Nuovi guai per Riccardo Bossi, figlio primogenito del fondatore della Lega Nord, che è stato accusato da un benzinaio di Buguggiate, nel varesotto, di non aver pagato carburante per un valore di 1.300 euro. Sono in corso accertamenti sul racconto del rivenditore, il quale sostiene che per mesi Riccardo Bossi si sarebbe recato da lui per fare il pieno, promettendo che sarebbe passato a saldare il conto, ma non l’avrebbe mai fatto poi. Così il benzinaio ha sporto denuncia ai carabinieri per truffa. Non è la prima volta che il figlio del Senatùr si trova coinvolto in vicende simili: Riccardo Bossi è stato infatti rinviato a giudizio dopo la denuncia del titolare di una catena di gioiellerie che lo accusa di non aver pagato un orologio e alcuni preziosi acquistati in uno dei suoi negozi a Varese. Secondo l’accusa, il conto da pagare sarebbe di alcune decine di migliaia di euro. Aveva spiegato Bruno Ceccuzzi, titolare della gioielleria Dino Ceccuzzi, con negozi a Busto Arsizio, Como e Varese, che Bossi jr. – già sotto accusa per truffa e appropriazione indebita insieme al padre e al fratello Renzo – “ha acquistato orologio e gioielli dopo Natale e glieli abbiamo consegnati sulla fiducia, anche se non è un nostro cliente abituale, convinti che un personaggio così noto li avrebbe pagati in tempi brevi”. Il gioielliere aveva aggiunto che “è trascorso del tempo e i soldi non sono arrivati”.
Lega corrotta, sanità infetta. Tangenti, società occulte, appalti pilotati, consulenze d’oro: ecco i verbali dei leghisti lombardi arrestati per corruzione, che imbarazzano anche il governatore Roberto Maroni, scrive Paolo Biondani il 30 giugno 2016 su "L'Espresso". Roberto Maroni e, sullo sfondo, Fabio Rizzi «La fattura che mi mostrate è quella pagata dall’imprenditrice Canegrati per supportare la mia campagna elettorale... perché mi ha individuato come un paladino dell’odontoiatria». E' il passaggio cruciale di un lungo interrogatorio di Fabio Rizzi, già senatore leghista e poi braccio destro di Roberto Maroni in Regione Lombardia: con quelle parole il politico, arrestato nel febbraio scorso per corruzione e altri reati, ha ammesso di aver ricevuto una tangente di 20 mila euro dall'imprenditrice Maria Paola Canegrati, la regina lombarda dell'odontoiatria. Soldi utilizzati per pagare «i gadget elettorali con il logo della Lega Nord per le regionali del 2013». A rivelarlo è L'Espresso, che nel numero in edicola da venerdì 1 luglio e già online su Espresso+ pubblica i verbali degli interrogatori in carcere, finora inediti, di tutti i principali imputati nell'inchiesta della procura di Monza sulla corruzione nella sanità lombarda. Il politico varesotto e il capo del suo staff, Mario Longo, hanno anche ammesso che erano «soci occulti» dell’imprenditrice Canegrati, in due aziende sanitarie chiamate Spectre e Sytcenter, cioè i veri titolari delle azioni intestate sulla carta alle loro conviventi. Oltre agli utili, scrive sempre il settimanale, i due esponenti leghisti hanno così incassato anche consulenze di comodo, sempre dietro lo schermo delle compagne: almeno 63 mila euro per Rizzi, altri 147 mila per Longo. La Procura di Monza ha contestato a Longo e Rizzi anche altre presunte tangenti. Nei verbali dell'imprenditrice Canegrati, inoltre, compaiono i nomi di vari direttori e funzionari delle strutture sanitarie lombarde, accusati di aver intascato soldi e regali in cambio di appalti o per omettere i controlli. Dopo questi interrogatori, scrive ancora l'Espresso, tutti gli imputati principali hanno chiesto il patteggiamento. Maria Paola Canegrati ha fatto istanza per una condanna a quattro anni e due mesi, con risarcimento immediato di 300 mila euro; Rizzi, dopo essersi dimesso, ha concordato una pena di due anni e mezzo rimborsando 71.500 euro; Longo ne restituirà altri 182 mila con una condanna a due anni e otto mesi. Ma il conto finale dei danni lo farà la Corte dei conti, che ha già chiesto agli indagati altri quattro milioni. Roberto Maroni non è coinvolto nell’inchiesta di Monza, ma i verbali dei leghisti arrestati contengono passaggi imbarazzanti anche per il governatore lombardo. Rizzi, in particolare, ha ammesso di aver raccomandato Longo e un altro amico leghista per farli assumere nella società regionale Eupolis. «Gli incarichi in Eupolis sono stati dati a Longo e Caronno – ha dichiarato Rizzi, incalzato dalle intercettazioni dei carabinieri – grazie al fatto che io li ho segnalati a Gibelli, che a sua volta ha interceduto con Eupolis». Il governatore Maroni è imputato a Milano, in un diverso processo, di aver fatto assumere proprio a Eupolis una protetta, Mara Carluccio, attraverso lo stesso Andrea Gibelli, allora segretario generale della Regione. Un’eventuale condanna obbligherebbe Maroni a dimettersi in forza delle legge Severino.
Le ruberie della Lega nella sanità lombarda. Chiusa l’inchiesta sugli scandali negli ospedali della regione. Ecco le ammissioni dei fedelissimi che imbarazzano Maroni, non indagato ma sotto assedio, che mettono in luce un vero e proprio sistema criminale, scrive Paolo Biondiani il 29 giugno 2016 su "L'Espresso". Lega corrotta, sanità infetta. La Procura di Monza ha chiuso in appena quattro mesi l’inchiesta sulle ruberie padane negli ospedali della Lombardia. Mentre Roberto Maroni rimane aggrappato alla poltrona di governatore di una regione che non è mai stata così rossa, con dodici città su dodici passate dal centrodestra al centrosinistra, compresa la natia Varese dove la Lega fu fondata, i suoi fedelissimi abbandonano la politica e si arrendono alla giustizia. Tra gli arrestati nella retata per corruzione del 16 febbraio scorso, ora l’unico slogan è limitare i danni: tutti i principali imputati hanno chiesto il patteggiamento. A cominciare dal medico-politico varesotto Fabio Rizzi, che prima di entrare in carcere era il braccio destro di Maroni: il regista di una riforma della sanità che lo stesso governatore ha dovuto controriformare di corsa, dopo l’ennesimo scandalo. Che questa volta non si può liquidare con la storiella delle presunte mele marce in un mercato sano: le nuove accuse dei pm brianzoli e le ammissioni degli stessi indagati (finora inedite) fotografano il fallimento del cosiddetto modello di sanità lombarda. Al di là dei reati specifici, di per sé gravi, l’esito dell’inchiesta dimostra che la decantata alleanza pubblico-privato, inventata dai big ciellini nell’era Formigoni e riciclata dalla Lega, è una favola che illude i malati, imbavaglia i medici, impoverisce la sanità di tutti e arricchisce le aziende di pochi. Sono le sei di pomeriggio del 4 marzo 2016 quando Fabio Rizzi, 50 anni, ex anestesista, già senatore e poi consigliere regionale della Lega, firma la capitolazione dopo una giornata d’interrogatorio: «La fattura che mi mostrate è quella pagata dall’imprenditrice Canegrati per supportare la mia campagna elettorale... perché mi ha individuato come un paladino dell’odontoiatria». Maria Paola Canegrati è la grande corruttrice: una manager di ferro che in pochi anni è diventata la regina lombarda dell’odontoiatria. Con quella tangente di 20 mila euro è lei che ha pagato sottobanco «i gadget elettorali del 2013 con il logo della Lega Nord». Quindi il pm Manuela Massenz chiede al politico se veniva dalla stessa imprenditrice anche il pacco di banconote sequestratogli dai carabinieri quando lo hanno arrestato. Rizzi risponde così: «Il capo del mio staff, Mario Longo, mi ha dato 20 mila euro in contanti, diecimila alla volta: sono i soldi che avete trovato in cassaforte, tranne cinquemila euro che ho speso. Ma io non gli ho chiesto da dove provenissero... Ero totalmente inconsapevole che la Canegrati versasse soldi a Longo, in parte oggettivamente arrivati a me». Questa tesi del politico comprato a sua insaputa non convince nessun giudice di Monza, anche per un problema ben documentato: Rizzi e Longo risultano addirittura soci occulti dell’imprenditrice Canegrati, in due aziende sanitarie chiamate Spectre e Sytcenter, con quote intestate alle loro conviventi. E così, oltre agli utili, dal 2013 al 2015 hanno intascato pure consulenze di comodo, sempre dietro lo schermo delle compagne: «almeno 63 mila euro» per Rizzi, altri 147 mila per Longo. Visti gli atti, l’ex capo della commissione sanità non nega di aver preso anche quei soldi. Però sostiene che, in cambio, non avrebbe usato il suo potere pubblico per favorire la manager che lo pagava: «Fu Longo a propormi di entrare in società con la Canegrati... Ma erano progetti privati. Da portare avanti solo nelle cliniche italiane o all’estero». Insomma, soldi sì, ma senza vere corruzioni né conflitti d’interessi. Il problema è che il leghista arrestato non conosce le ammissioni degli altri, anch’esse parziali, ma diverse. Il primo a metterlo in crisi è proprio il suo segretario politico Mario Longo, 51 anni, ex odontoiatra, già socio di Rizzi nella Lorimed (altra impresa privata, che ha nel nome le iniziali dei due leghisti). L’otto marzo l’uomo che si autodefinisce «il factotum di Rizzi» mette a verbale un bel pasticcio di conflitti tra ruoli pubblici, aziende private e conviventi-prestanome. «Io e la Canegrati eravamo già soci nella Sytcenter», dichiara Longo: «Nel 2013 o 2014 l’ho incontrata all’ospedale pubblico Icp, dove io lavoravo per la Lega e lei aveva già cinque centri odontoiatrici. In quel momento avevo gravi difficoltà economiche. Quindi convenimmo che la mia convivente collaborasse con la Canegrati... Pur essendo socio di fatto, ho ritenuto inopportuno figurare in quelle società commerciali, visto il mio ruolo politico in Regione». Longo aggiunge che «probabilmente» anche Rizzi ha intestato la sua quota alla convivente «perché riteneva inopportuno politicamente figurare nella società». I verbali dei leghisti mostrano che i proclami per la chiusura delle frontiere valgono per gli esseri umani, ma non per i soldi: Rizzi ammette di avere una società-cassaforte in Lussemburgo, mentre Longo giustifica con «consulenze per progetti in Cina» altri 50 mila euro, sborsati dalla solita Canegrati grazie a due fatture false emesse da un loro complice, Stefano Lorusso, arrestato a Miami. A demolire l’alibi cinese è però la stessa Canegrati, il 21 aprile: «Ho sempre detto a Longo che il suo progetto in Cina non mi interessava... Lui mi mandò una lettera di Rizzi che lo incaricava di essere portavoce della Regione Lombardia per la sanità all’estero... Gli dissi chiaramente che consideravo quei viaggi una perdita di tempo». Il vero motivo dei pagamenti, per l’imprenditrice, è ovvio: «Ho finanziato la campagna elettorale di Rizzi, su richiesta di Longo, perché uno dei punti del suo programma era promuovere l’odontoiatria». Semplice impiegata fino a dieci anni fa, Canegrati ha creato dal nulla, con vari appoggi politici, prima nel Pdl e poi nel Carroccio, il primo gruppo odontoiatrico lombardo: una dozzina di società che ha in parte venduto nel 2015 per 13,5 milioni, premurandosi di girare altri 50 mila euro ai due leghisti «grazie ai cui favori aveva potuto incrementato il valore delle sue aziende». Tutti questi incroci pericolosi di tante mezze confessioni hanno convinto perfino l’avvocato berlusconiano Michele Saponara, difensore di Rizzi, a trattare la resa. E alla fine Maria Paola Canegrati ha chiesto di patteggiare una condanna a quattro anni e due mesi, con risarcimento immediato di 300 mila euro; Rizzi, dopo essersi dimesso, ha concordato due anni e mezzo rimborsando 71.500 euro; Longo ne restituirà altri 182 mila per farsi infliggere due anni e otto mesi. E il conto finale dei danni lo farà la Corte dei conti, che ha già chiesto agli indagati altri quattro milioni. Maroni non è coinvolto nell’inchiesta, ma è politicamente assediato dalle rivelazioni sull’«associazione per delinquere» creata dai suoi luogotenenti con decine di corruzioni, appalti truccati, soldi e regali ai direttori leghisti degli ospedali, poltrone d’oro per amici e parenti. Per fermare lo scandalo, il governatore ha creato un’autorità lombarda anti-corruzione. Ma qui non si tratta di tangenti isolate: l’inchiesta investe il cuore del sistema che caratterizza la Lombardia. Da vent’anni i politici di Cl, Forza Italia e Lega raccontano ai cittadini che “il modello pubblico-privato” rende tutti felici: i pazienti trovano le cliniche private dentro gli ospedali, a prezzi controllati; le aziende si arricchiscono con questi “service”; e le strutture pubbliche partecipano agli utili. Ora l’inchiesta di Monza ha messo a nudo il trucco: la spesa pubblica ha un limite. L’imprenditrice Canegrati non può curare i denti a troppi poveri, altrimenti fallisce; quindi deve tagliare le cure, gonfiare le liste d’attesa pubbliche e dirottare i pazienti nel privato a pagamento, come dimostrano le intercettazioni. Ma il peggio è che con questo sistema l’ospedale diventa complice perfino delle truffe: se il pubblico è un socio che si divide gli utili, non ha nessun interesse a controllare il privato. Come prova la nuova accusa sui rimborsi gonfiati: i medici eseguono un impianto chirurgico, ma Canegrati se ne fa rimborsare due, in centinaia di casi. E quando arriva un controllo, i funzionari pubblici non solo preavvisano, ma aiutano i privati a falsificare le carte. Un reato che la manager confessa così: «Confermo che quei tre funzionari ci hanno aiutato a sistemare le cartelle per il controllo: ovviamente l’interesse a far vedere tutto a posto era sia nostro sia dell’ospedale pubblico».
La Calabria piace solo se è ‘ndranghetista, scrive Michel Dessi il 20 settembre 2016 su "Il Giornale". Vola alto, la Calabria. Addirittura in elicottero. E che elicottero! Quello nero, firmato Casamonica. O giù di lì. E’ stato lo stesso pilota, infatti, a spargere petali di rosa sul feretro del boss degli zingari romani e a far atterrare sul sagrato della chiesa di Nicotera lo sposo in odore di ‘ndrangheta e non autorizzato a raggiungere la sposa per via aerea. Fatto gravissimo, sicuramente, per altro già capitato dalle Alpi fino a Lampedusa, ma esageratamente gonfiato a danno di altri fatti di cronaca ben più gravi di una bravata da bullo di paese. Il guaio è che la Calabria piace solo se è ‘ndranghetista. Dalle fiction televisive fino ai post sui social network, questa Terra fa notizia solo quando è mafiosa. Dei siti archeologici più importanti della storia magnogreca, dei musei stracarichi di ritrovamenti unici al mondo, delle testimonianze di antiche identità e civiltà assolutamente inimitabili e non rare in queste contrade, dei geni, dei filosofi, dei letterati, degli scienziati, degli artisti nati dal Pollino fino a Bova Marina, non gliene frega niente a nessuno. La Calabria e i calabresi devono crepare di ‘ndrangheta. Devono essere brutti, sporchi, pelosi, armati e cattivi. Magari con la catena d’oro al collo grossa quanto un giogo da bue e con un Cristo più grande e pesante dell’originale. Vergogna per gli italiani che vorrebbero essere un popolo, ma, di fatto, non lo sono. I due pesi e le relative due misure, prima che sugli stranieri, pesano sugli italiani stessi. Per cui, i liguri sono tirchi, i siciliani gelosi, i piemontesi falsi e cortesi, i romani fanfaroni, i napoletani ladri, i sardi ottusi, i pugliesi levantini, e i calabresi ‘ndranghetisti. Detto questo degli elicotteri che atterrano senza autorizzazione se ne dovrebbero occupare giusto le autorità competenti, mentre dell’Unità dei Popoli italiani se ne dovrebbe occupare ogni italiano. Magari smettendola di vivere secondo gli stereotipi che non solo non avvicinano, ma, non accomunando, rendono nemici.
MELITO PORTO SALVO – AVETRANA. IL FILO CONTINUO DEL LINCIAGGIO DI UNA COMUNITA’.
“Giornalisti, mafiosi ed omertosi siete voi!”. Quando il rigurgito del brodo primordiale dell’ignoranza produce conati di vomito di razzismo. Un fatto di cronaca diventa lo stimolo per condannare una comunità. Il commento del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che ha scritto “Reggio e La Calabria, quello che non si osa dire” e “Sarah Scazzi. Il Delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese”. Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Il giornalista per essere tale deve essere abilitato: ossia deve essere conforme ed omologato ad una stessa linea di pensiero. E’ successo ad Avetrana dove i pennivendoli a frotte si son presentati per dare giudizi sommari e gratuiti, anziché raccontare i fatti con continenza, pertinenza (attinenza) e verità. Hanno estirpato dichiarazioni a gente spesso non del posto e comunque con una bassa scolarizzazione, o infastidita dalla loro presenza, cestinando le testimonianze scomode per il loro intento. Certo è che a Brembate di Sopra, per il caso di Yara Gambirasio, hanno trovato impedimento alle loro scorribande per la meritoria presa di posizione del sindaco del luogo. E’ successo a Melito Porto Salvo dove il fatto di cronaca è divenuto secondario rispetto all’intento denigratorio dei pseudo giornalisti, sobillato dai soliti istinti razzisti di genere o di corporazione o di interesse politico. E certo, che come a Mesagne per la vicenda di Melissa Bassi, dove la mafia era estranea, non poteva mancare l’intervento di “Libera” per dare una parvenza di omertà e ‘ndranghetismo sulla vicenda. Non c’è migliore visibilità se non quella di tacciare di mafiosità una intera comunità. Nel render conto della vicenda nei miei libri sociologici ho avuto enorme difficoltà, fino all’impossibilità, a trovare un pezzo che riportasse la testimonianza di tutte quelle persone per bene di Melito, assunte tutto ad un tratto, dalle penne malefiche e conformi, a carnefici di una ragazzina. Il tarlo che pervade i pennivendoli è sempre quello: MAFIA ED OMERTA’. Eppure il sindaco di Melito ha espresso totale solidarietà alla 13enne abusata e ciononostante non poteva non difendere il suo paese e la sua comunità, cosa che a Mesagne ed ad Avetrana non è successo. “Nel paese c’è una parte di omertà e una parte di ‘ndrangheta ma il paese non è tutto ‘ndrangheta e non è tutto omertà, nel paese c’è una parte sana che è la stragrande maggioranza”. Così il sindaco di Melito Porto Salvo, Giuseppe Salvatore Meduri, commenta le polemiche che si sono scatenate intorno alla vicenda della ragazza vittima di violenza sessuale di gruppo. Libera, nei giorni scorsi, ha organizzato per la ragazza una fiaccolata a cui però hanno partecipato poche persone. “Alla fiaccolata, è vero, ha partecipato solo il 10% della popolazione, io avrei gradito una presa di posizione forte ma non posso condannare chi non se l’è sentita di venire, devo rispettare la volontà di ognuno”, ha detto il sindaco. Quello che è successo, ha sottolineato il primo cittadino, “è la cosa peggiore accaduta nella storia melitese in assoluto, da parte mia c’è una ferma e piena condanna e totale solidarietà alla ragazzina. La cosa principale adesso è salvaguardare il suo interesse con ogni forza e ogni mezzo. Come sindaco e come genitore mi sento corresponsabile per quello che è accaduto e in questa vicenda ci sono responsabilità di tutti, la scuola, la chiesa, la società civile – ha aggiunto – Tutti ci dobbiamo interrogare”. “Adesso quello che posso fare è spendermi per vedere cosa si può fare per la ragazza – ha detto il sindaco – ho già fatto la delibera di indirizzo per la costituzione di parte civile quando si farà il processo. Ci siamo impegnati per sostenere le spese legali. L’indirizzo è quello di aiutare la famiglia. I ragazzi che hanno causato questa situazione vanno condannati a prescindere, quello che è stato fatto è inimmaginabile ma auguro loro un futuro migliore e apro loro la porta del perdono”. Questa presa di posizione ai pennivendoli è di intralcio. Su “Stretto web” del 13 settembre 2016 si legge. “Il Comitato di redazione della Tgr Calabria, in una nota a firma dei suoi componenti, Livia Blasi, Gabriella d’Atri e Maria Vittoria Morano, “respinge con forza – è detto in un comunicato – gli ingiustificati e reiterati attacchi da parte del primo cittadino di Melito Porto Salvo, Giuseppe Salvatore Meduri, al servizio pubblico, colpevole, a suo dire, di sciacallaggio mediatico. Il riferimento è al modo in cui il nostro giornale avrebbe trattato la vicenda di abusi e violenze di gruppo ai danni di una ragazzina”. “In particolare, in occasione della marcia silenziosa organizzata da Libera – aggiunge il Cdr – dal palco, il sindaco ha fortemente criticato i servizi realizzati sul caso dalla Tgr Calabria sostenendo: “Certe ricostruzioni uscite sul servizio pubblico ci hanno offesi”, come riportato anche dall’inviato de “La Stampa”, Niccolò Zancan, autore di un reportage pubblicato in data 11 settembre sul quotidiano torinese. Testimone degli attacchi, il service per le riprese “Bluemotion”, nella persona della nostra collaboratrice Giusy Utano, presente alla fiaccolata per conto della Tgr Calabria e alla quale va tutta la nostra solidarietà”. “La posizione assunta dal primo cittadino di Melito – è detto ancora nella nota – ci colpisce e ci sorprende. La Tgr Calabria, infatti, come testimoniano i servizi andati in onda e visionabili sul sito on-line della testata, ha trattato sin dal primo momento il caso con tutte le cautele possibili, nel rispetto sia della vittima che dei suoi presunti carnefici. Nostra volontà, inoltre, è stata quella di raccontare di una comunità ferita e darle voce e questo abbiamo fatto. Ne è emerso un contesto assai complesso in cui non sono mancati atteggiamenti di chiusura, di condanna, di riflessione ma anche di vicinanza e solidarietà ai ragazzi del branco. Fedeli al dovere di cronaca, abbiamo “fatto parlare” le immagini e dato spazio alle diverse testimonianze raccolte. Pertanto, non crediamo che questo corrisponda a denigrare la comunità di Melito. D’altronde, lo stesso Sindaco, ai nostri microfoni, ha sottolineato come nella vicenda tutti abbiano la loro parte di responsabilità. “Sono mancate – ha detto – la famiglia, la scuola, la chiesa, la società civile, la politica, le associazioni sportive. Nessuno può dirsi esente da responsabilità. Tutti dobbiamo recitare un mea culpa’”. “A questo punto – conclude il Cdr della Tgr Calabria – ci chiediamo, qual è l’offesa da noi arrecata alla comunità di Melito? E’ evidente che non ne abbiamo alcuna in una vicenda di per sè talmente dolorosa da essere capace, da sola, di scuotere l’opinione pubblica e sollecitare non poche riflessioni”. L’offesa più grande arrecata alla comunità non è quello che si è voluto far vedere, anche artatamente, istigando i commenti più crudeli e sprezzanti su di essa, ma quello che si è taciuto per poter meglio screditarla. L’omertà è in voi, non nei Militesi. Avete omesso di raccontare quel paese pulito con una comunità onesta, coinvolta inconsapevolmente in una cruda vicenda. Ecco perché non ci dobbiamo meravigliare di trovare e leggere solo articoli fotocopia con un fattore comune: ’Ndrangheta ed omertà. Lo stesso atteggiamento avete avuto con Avetrana. Sembra un film già visto. E nessuno che si smarchi. Cari giornalisti, parlare di un semplice fatto di cronaca come quello contemporaneo di Tiziana Cantone, suicida per il video hot nel napoletano, senza coinvolgere la Comunità locale? Non ce la potete proprio fare? Godete ad infangare le comunità del sud? E che soddisfazione si trae se a scrivere nefandezze è proprio quella gente del sud che condivide territorio, lingua, cultura, tradizioni, usi di quella stessa gente che denigra? Un’ultima cosa. In queste stravaganti e bizzarre liturgie delle fiaccolate che servono per far sfilare chi è in cerca di notorietà io non ci sono mai andato: a Mesagne ed a maggior ragione ad Avetrana, perché cari giornalisti: mafiosi ed omertosi siete voi ed io dai mafiosi mi tengo lontano!”
Nella civile Emilia Romagna non si denigra una comunità, pur succedendo le stesse cose.
Rimini, 17enne stuprata e filmata: ora dalle amiche anche offese online. Sui profili Facebook di alcune delle giovanissime coinvolte nella vicenda sono apparsi insulti contro la vittima, scrive il 17 settembre 2016 “La Repubblica”. La sua vita era già stata distrutta, ora per la giovane vittima di uno stupro si apre ulteriormente il baratro sotto i piedi. Stuprata questa primavera, a 17 anni, nei bagni di una discoteca (c'è un 22enne indagato per questo reato) e filmata dalle amiche, che hanno poi diffuso il video su Whatsapp, recapitato anche alla stessa vittima, ora arrivano le offese e gli insulti via Facebook dai profili delle stesse compagne. Due volte vittima, anzi tre: del suo aggressore, dell'atteggiamento delle amiche, degli insulti che alcune di queste le avrebbero riservato online. La giovane avrebbe paura di essere etichettata, come accaduto a Tiziana, ragazza di Napoli morta suicida dopo che i suoi video hard erano diventati virali. Gli insulti contro la 17enne sui social media sarebbero prima apparsi poi spariti, forse cancellati per evitare conseguenze penali. Gli avvocati Carlotta Angelini e Piergiorgio Tiraferri, che assistono la ragazzina, sono categorici: "Ha già sofferto troppo, la sua vita è stata rovinata. Quegli insulti sono gratuiti. Presenteremo denuncia contro gli autori di quei post".
Invece per il sud si adotta un atteggiamento diverso. La cultura mafiosa al Sud non morirà mai: Il brodo primordiale di Melito Porto Salvo, scrive il 5 settembre 2016 Roberto Galullo su "Il Sole 24ore". Tra le macerie che questa estate 2016 lascerà, oltre a quelle del terremoto per le quali c’è almeno la speranza della rimozione, ci sono quelle, credo perenni, della continua disgregazione morale del Sud. Sud che, per chi se ne fosse dimenticato, è Italia ma, ancor più purtroppo, è quella parte d’Italia dalla quale la linea della palma di sciasciana memoria continua a salire. Alcuni episodi accaduti in questa brutta estate ce lo ricordano. Alcuni sono stati ben raccontati – dal puto di vista della mera e nuda cronaca – dai media. Altri meno. Altri per nulla o quasi. Soprattutto, ciò che è mancata, è stata proprio l’analisi complessiva dei fenomeni che dovrebbe allarmare forse più di un rischio terremoto. Un’analisi che serve per sensibilizzare un’opinione pubblica che si strazia ed è straziata da veline, tronisti, tette e culi in tv e sui giornali ma che poco o nulla sa di quanto accade davvero oltre quelle veline, tronisti, culi e tette sbattute su uno schermo o su un giornale. Insomma: poco o nulla sanno della realtà profonda. Da oggi propongo una “catena” di riflessioni sulla deriva “mafiosotalebana” del Sud che parte dall’ultimo, inquietante episodio accaduto a Melito Porto Salvo (Rc) dove ormai anche le mura spero sappiano che una ragazzina, dall’età di 13 anni, è stata per almeno due anni stuprata anche dal giovane rampollo di un casato di ‘ndrangheta e dai suoi amici. Scrivo “anche” perché costui, figlio ma soprattutto nipote di un boss indiscusso e conosciuto fin da bambino dalla ragazzina, entrerà in questo gioco mortale in un secondo tempo, quando cioè gli verrà “donata” da chi fino a quel momento l’aveva facilmente soggiogata e ricattata. Vi invito a non sottovalutare questo aspetto: il “dono” della giovane, la presentazione da parte del maggiorenne che fino a quel momento l’aveva abusata mentalmente ancor prima che fisicamente al nipote del boss Natale Iamonte, può infatti essere letto anche come il segno di una sottomissione e di un “accredito” nei confronti di chi è destinato a proseguire la dinastia di violenza e prevaricazione mafiosa sul territorio. Il giovane del casato di ‘ndrangheta, intanto, sembra respingere le accuse e vedrete che in giudizio sarà battaglia durissima tra una linea di difesa degli indagati che punterà al “consenso” e una pubblica accusa che cavalcherà la linea della sottomissione nuda e cruda. Lo scontro tra la cultura del “così fan tutte” e le semplici regole della vita democratica. Vi invito a soffermarvi, al di là del drammatico episodio, dunque sulle parole del capo della Procura della Repubblica di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho: «Questi abusi hanno trovato terreno fertile in un territorio in cui l’omertà regna sovrana e la sopraffazione è l’unico metodo conosciuto». Un regime contro cui la tredicenne ha provato inizialmente a ribellarsi, per conquistare una vita normale, ma si è scontrata contro la reale dimensione di quella zona: una cultura e una omertà mafiosa che travalica ogni valore, ogni principio e ogni regola di buonsenso. Solo la famiglia – in questo caso, si badi bene, perché in quello che racconterò invece domani è accaduto l’esatto contrario – ad un certo punto si è resa conto che qualcosa non andava e, seppur con ritrosia, ha collaborato con le Forze dell’ordine e con la magistratura. Ora sarà facile per la parte sana di Melito Porto Salvo – è chi nega che ci sia! – gridare alla stampa meretrice e assassina che tutto omologa e che in una stanza buia fa diventare neri anche i gattini bianchi. Nossignori, la stampa non c’entra un tubo ed è giusto che la parte sana del Sud prenda coscienza del fatto che la sua voce non si leva alta e non riesce, di conseguenza, a invertire la tendenza di morte per mano dei “mafiosotalebani”. Il Sud è drammaticamente sempre più mafiosotalebano e la Calabria, ancor più della Sicilia, rappresenta l’area più integralista e retriva ad affacciarsi alla cultura democratica di un Paese che già di suo sta perdendo la stessa via della democrazia. «Quando lui la guardava – ha detto il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Gaetano Paci, che ha seguito personalmente l’indagine – era totalmente espropriata della sua volontà». Di grazia: qualcuno sa spiegarmi la differenza tra un capo tribù della più sperduta località mediorientale che con un’occhiata indica la vergine da sottomettere ed il giovane e intoccabile rampollo di un casato di ‘ndrangheta che con un’occhiata fulmina la sua vittima? Non c’è differenza: entrambe possono impunemente avvenire perché la legge riconosciuta – nelle tribù ferme alle origini della propria storia come in ampie parti della Calabria ferme al predominio delle regole imposte dalla cultura mafiosa – è quella. Inutile girarci intorno. E’ così. Punto. Anche il giovane del quale la tredicenne si era innamorata e con il quale aveva cominciato ad un certo punto a frequentarsi è stato costretto a subire la legge della mafia talebana: colpito a calci e pugni ha fatto un passo indietro da quella cotta adolescenziale e non ha trovato ovviamente – in un mare così inquinato dalle regole mafiosotalebane – il coraggio di denunciare liberando, al tempo stesso, se stesso e quella giovane con la quale avrebbe voluto flirtare. Ad un certo punto il Gip Barbara Bennato nell’ordinanza di custodia cautelare scriverà che uno dei balordi che stava distruggendo il fisico e la personalità della ragazzina «aveva fatto di tutto per riappropiarsene, quasi si trattasse di un oggetto di sua proprietà. In tale prospettiva l’aveva circuita, insistendo per avere un incontro chiarificatore, ottenuto il quale l’aveva sedotta ed indotta ad avere un rapporto sessuale, così riaffermando la propria cancerogena presenza». Proprio così scrive il gip: «cancerogena presenza». E di cancro si tratta. Un cancro mafiosotalebano che avvelena Melito Porto Salvo, il Sud e che sta infestando l’Italia intera grazie a quella risalita della linea della palma. Ora, la domanda è: c’è una speranza di rinascita in tutto questo? Ne dubito fortemente e sono ampiamente generoso con me stesso in questa considerazione ma, se proprio vogliamo vedere una luce, ebbene una fiammella c’è. Gli investigatori, infatti, hanno trovato, tra i tanti riscontri, anche quelli di alcune persone con la quale la ragazzina si era confidata. Ecco, la speranza è che loro e le famiglie alle quali appartengono sappiano partire da qui per contribuire a cambiare il profilo di un’impunità che soggioga il loro futuro in un consesso democratico quale, anche la Calabria, dovrebbe essere. Un’altra luce – questa sì – a dire il vero c’è. E’ l’opera incessante delle Forze dell’Ordine e dei professionisti chiamati in causa. Se leggeste, come ho potuto fare io, l’ordinanza, vi rendereste conto dello straordinario lavoro compiuto dalla magistratura, dai Carabinieri del posto e dagli psicologi chiamati in causa per assistere la famiglia della ragazzina, conscia non solo del trauma profondissimo inferto alla figlia ma anche delle ripercussioni alle quali andrà incontro per avere osato chiamare in causa il nipote del boss Natale Iamonte, che a Melito Porto Salvo detta ancora la sua legge. Ecco: l’unica luce è la cultura della legalità ma a Melito Porto Salvo e su per li rami in tutta l’Italia è merce sempre più rara. A domani. Roberto Galullo
'Ndrangheta, violenza e omertà a Melito Porto Salvo: l'imbarazzo di essere calabrese, scrive Francesca Lagatta il 16 settembre 2016 su "Blastingnews.com". La cittadina della ragazza violentata dal branco simbolo di una regione che non vuole cambiare. Essere calabrese non è stato mai facile, ma alla luce della squallida vicenda emersa nei giorni scorsi, l'imbarazzo è tale che quasi ci si vergogna di appartenere alla #Calabria. Pertanto, non mi unirò al coro di chi tenta invano di difendere questa terra bella e altrettanto maledetta descrivendola per quello che non è, non mi unirò al coro di chi oggi urla che i calabresi non sono tutti uguali, mentre la complicità e la connivenza accrescono il cancro mafioso a dismisura. Questa regione è forse anche peggio di come la si vuole fare apparire. Laddove maghi, preti e malavitosi possono sulle menti della gente più dei medici e delle istituzioni, la 'ndrangheta ha vita facile e di casi come questi saremo costretti a sentirne ancora tanti. Perché, precisiamo una cosa, se in questa storia di violenza non fossimo costretti a scrivere la parola 'ndrangheta, probabilmente l'avremmo potuta raccontare prima e magari con un finale diverso. Ma nel profondo sud, a Melito Porto Salvo, nel punto in cui la Calabria è più vicina all'Africa, se una ragazzina di 13 anni viene ripetutamente violentata sotto gli occhi di tutti, nessuno parla per rispetto o per paura del clan Iamonte, attualmente retto da Remingo, figlio dell'ormai defunto Natale Iamonte, mammasantissima della Locride negli anni di fuoco. Giovanni Iamonte, secondogenito del capo cosca Remingo, è infatti l'antagonista di questa triste vicenda. Giovanni rappresenta il volto sporco della Calabria, quella ossequiosa e prepotente, che detta regole e leggi a masse incapaci di reagire, ottenendo la copertura di un'intera cittadina e la complicità di altri otto ragazzi, che stuprano la sua "fidanzata" a turno o in gruppo. Anche i preti, se interpellati, sono costretti a difendere gli stupratori e le famiglie, invocando silenzio e perdono. Ancora silenzio, dopo quello mantenuto nella cittadina per due anni. Le indagini rivelano che a Melito tutti sapevano, anche la madre, che, in linea con la politica omertosa del luogo, le aveva consigliato di smettere di dire quelle cose. Forse perché aveva ritenuto che il giudizio della gente fosse più importante della salute e della serenità di sua figlia o forse perché temeva di perdere il posto di lavoro nella ditta riconducibile proprio a Giovanni Iamonte. Perché qui la 'ndrangheta spesso si sostituisce allo Stato e ribellarsi significherebbe, tra le altre cose, anche morire di fame. Neanche il padre, informato dalla moglie, si era deciso a denunciare. Provò invece a chiedere l'intercessione del boss, peraltro suo parente. Potremmo finirla qui e dire semplicemente che sono cose esistite da sempre, a cui forse saremo costretti ad assistere ancora tante e tante volte, e che alla fine qualche coraggioso è rimasto e ci ha pure messo la faccia partecipando alla fiaccolata. Ma per un calabrese onesto, uno di quelli che paga tutti i giorni le conseguenze della prepotenza mafiosa, è davvero difficile leggere certi commenti dei melitesi sulla vicenda senza doversi vergognare almeno un po'.
Melito di Porto Salvo: un paese a forma di buco. Con una bambina dentro, scrive Giulio Cavalli il 14 settembre 2016 su "Left". Hanno cominciato a violentarla che aveva tredici anni e oggi ne ha sedici. L’hanno resa il loro passatempo andando a prendere a scuola per portarla dove gli veniva più comodo abusare di lei. Loro, il branco di vigliacchi schiavi di un cervello a forma di glande, sono “gente bene” di Melito Porto Salvo, il paese che ora si offende e, come spesso succede, cerca di difendersi attaccando la stampa senza capire che quello che è successo sarebbe feccia anche se Melito fosse in provincia di Aosta. Ma non è questo il punto. Centinaia di articoli morbosi usciti nei giorni scorsi per aiutarci a immaginare la vittima. Ogni volta che c’è uno stupro la stuprata diventa prelibatissima per fantasiosi safari del prurito e così si sprecano le descrizioni, il peso, l’altezza e tutto il resto. Dopo lo stupro qui ti tocca il patibolo: nome, cognome, ricerca ossessiva di foto e profili social per la vittima mentre gli abusatori godono di un certo nascondimento approfittando di essere bestie e poco altro. Invece qui le bestie hanno storie, nomi e cognomi. E vanno spiattellate dappertutto, spalmate nei nostri discorsi al bar e se possibile ripetute nella piazza del paese per i prossimi cent’anni perché lì dentro, tra quella banda di vermi, c’è il cancro di questo Paese. C’è Giovanni Iamonte, dell’omonimo clan di ‘ndrangheta, che gioca a fare il boss con il cazzetto piccolo. C’è un figlio di un maresciallo dell’esercito, che dovrebbe occuparsi dei figli oltre che delle reclute e c’è il fratello di un poliziotto che piuttosto che far rispettare la legge s’impegna a impartire al fratellino lezioni di omertà. Sono da ricordarsi tutti. I nomi e le facce. Giovanni Iamonte (30 anni), Daniele Benedetto (21), Pasquale Principato (22), Michele Nucera (22), Davide Schimizzi (22), Lorenzo Tripodi (21), Antonio Verduci (22). E poi c’è il paese. Diecimila anime che non riescono a mettere insieme uno sputo di fiaccolata decente. Gente che non parla, che bisbiglia sottovoce che “quella se l’è andata a cercare” e preti che minimizzano. È una colata di vomito. Tutto uno scrivere e domandare di lei, la ragazzina, che forse meriterebbe silenzio e protezione. Mentre sono queste facce da appiccicare su tutti muri. E costringere i compaesani a guardarli negli occhi piuttosto che limitarsi ad amorevoli discorsi tra compagni di taverna. Una comunità deve fare i conti con se stessa. Che sia paese, regione e nazione. Ce la facciamo questa volta?
Abusi sessuali, ricatti e omertà a Melito Porto Salvo. Schiava di un branco per due anni. Le foto delle violenze usate per soggiogarla. Un nuovo amore che le volta le spalle. Due anni da incubo per una ragazza a Melito Porto Salvo. Tra gli otto arrestati anche il figlio di un boss, scrive Alessia Candito Venerdì 2 Settembre 2016 "Il Corriere della Calabria". Per lei, quel ragazzo era il sogno di trovare l'amore che in famiglia non trovava più. Ma sono bastati pochi mesi perché il principe azzurro si trasformasse in un orco, capace di offrirla "in regalo" a tutti i suoi amici, che per quasi due anni ne hanno abusato in ogni modo. È questo l'inferno vissuto da una ragazzina di Melito Porto Salvo, violentata, ricattata e costretta al silenzio da un branco capeggiato dal Giovanni Iamonte, il figlio del boss Remingo. A lui, come ad altre sette persone i carabinieri del Comando provinciale e della compagnia di Melito Porto Salvo, hanno stretto le manette ai polsi questa mattina per ordine del gip, che ha disposto il carcere per Daniele Benedetto (21 anni), Pasquale Principato (22 anni), Michele Nucera (22 anni), Davide Schimizzi (22 anni), Lorenzo Tripodi (21 anni), Antonio Verduci (22 anni). Insieme a loro è finito dietro le sbarre per ordine del gip presso il Tribunale dei Minori anche il più giovane del branco, G. G., oggi diciottenne, ma minorenne all'epoca dei fatti. Sono loro – concordano gli inquirenti – i responsabili dell'inferno in cui la tredicenne è precipitata alla fine del 2013, quando il suo sogno d'amore si è trasformato in un incubo di violenze seriali, minacce, lesioni e stupri. Per quasi due anni il copione è stato sempre lo stesso. Almeno due volte la settimana, alcuni di loro si presentavano davanti a scuola, obbligavano la ragazzina a salire in macchina e la portavano a casa di Iamonte, dove era costretta ad avere rapporti con tutti quelli del gruppo che ne avessero voglia, anche contemporaneamente. A volte le violenze avvenivano addirittura prima, durante il tragitto in macchina. E tutte venivano fotografate. Quelle immagini sono diventate un'arma micidiale nelle mani del branco. Quando la tredicenne tentava di reagire, quando neanche la violenza con cui le strappavano i vestiti di dosso riusciva a placarla, iniziavano le minacce. Se quelle foto fossero state rese pubbliche, lei sarebbe stata una "disonorata", una reietta, per il paese come per la sua famiglia, che neanche allontanandola sarebbe riuscita a cancellare l'onta. Disperata, terrorizzata, la ragazzina chinava la testa e subiva. Del resto, chi parlava lo faceva in nome e per conto di Giovanni Iamonte, il figlio del boss. «Quando lui la guardava – dice il procuratore aggiunto Gaetano Paci, che si è occupato in prima persona dell'indagine – era totalmente espropriata della sua volontà». A Melito, Iamonte vuol dire un regno che da quarant'anni si fonda su sangue e sopraffazione, denaro e violenza. E lei, che la famiglia la conosceva da vicino, fin da quando la mamma lavorava a servizio del boss Remingo, non riusciva a ignorarlo. Per questo terrorizzata, soggiogata da un branco numeroso, tutto di ragazzi molto più grandi di lei, sopportava. O almeno tentava di farlo. «Questi abusi – dice serio il procuratore capo di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho – hanno trovato terreno fertile in un territorio in cui l'omertà regna sovrana e la sopraffazione è l'unico metodo conosciuto». Un regime contro cui la ragazzina ha provato a ribellarsi, per conquistare una vita normale, uguale a quella di tutte le sue coetanee. Nonostante le violenze subite, ha trovato la forza di iniziare una nuova storia d'amore con un altro ragazzo, ma il branco non glielo ha permesso. Quando i sette componenti del gruppo sono venuti a saperlo, lo hanno picchiato selvaggiamente, costringendolo a non vedere più la tredicenne e imponendogli il silenzio. E lui si è piegato. Non ha denunciato e ha voltato le spalle alla ragazzina, abbandonandola ai propri aguzzini. Un comportamento che per l'ormai quattordicenne si è trasformato in nuove violenze. Un incubo fatto emergere in un tema a scuola o confessato – solo a grandi linee – a poche persone e intuito forse troppo tardi dai genitori, che hanno aspettato fino all'estate 2015 per chiedere aiuto. Prima, il padre della ragazza, lontano parente di Iamonte, ha preferito affrontare direttamente il branco, per chiedere loro di lasciare in pace la figlia. Ma con il passare dei mesi, anche lui probabilmente si è reso conto che quella tregua non era abbastanza. Nell'estate del 2015 si sono presentati al comando accennando in maniera vaga alla vicenda, ma solo dopo diversi mesi hanno chiesto ad un avvocato di fiducia di recarsi in Procura. Da allora, i carabinieri del comando provinciale diretto dal colonnello Lorenzo Falferi e della compagnia di Melito, si sono messi all'opera e la macchina delle indagini è partita. Nonostante il muro di omertà e l'intimidazione seriale di ogni possibile testimone da parte del branco, gli investigatori sono riusciti a identificare tutti gli aguzzini della tredicenne ed a trovare riscontri alla vicenda che la ragazzina ha progressivamente raccontato in dettaglio. Un successo investigativo che non riesce a cancellare l'amaro in bocca per l'ennesima storia di violenza che si consuma, senza che nessuno si azzardi a denunciare. «Tutto questo - tuona Cafiero de Raho - è successo senza che nessuno facesse niente. Questa è una rappresentazione plastica della schiavitù cui è sottoposta la gente. Quando si sveglieranno i cittadini? Quando capiranno che il nemico non è lo Stato, ma la 'ndrangheta?». Alessia Candito
“Se l’è andata a cercare”. Il paese volta le spalle alla ragazzina violentata. Calabria, in poche centinaia alla fiaccolata per la 16enne stuprata da tre anni. Il padre: “Me lo aspettavo, se potessi prenderei mia figlia e la porterei lontano”. A Melito, in Calabria, è stata organizzata una fiaccolata in piazza davanti alla stazione. Soltanto quattrocento le persone presenti su 14 mila residenti, molte arrivate da altri paesi, scrive Niccolò Zancan l'11/09/2016 su "La Stampa". La bambina. «Un metro e 55 per 40 chili», c’è scritto nelle carte dell’inchiesta. È della bambina che stanno parlando. «Se l’è cercata!». «Ci dispiace per la famiglia, ma non doveva mettersi in quella situazione». «Sapevamo che era una ragazza un po’ movimentata». Movimentata? «Una che non sa stare al posto suo». Arriva in piazza il parroco Benvenuto Malara, va davanti alle telecamere: «Purtroppo corre voce che questo non sia un caso isolato. C’è molta prostituzione in paese». Hanno violentato la bambina per tre anni di seguito. La prostituzione non c’entra niente. L’hanno violentata in nove, a turno e insieme. Tenendola ferma per i polsi, e poi obbligandola a rifare il letto. «C’era la coperta rosa», ha ricordato la bambina nelle audizioni con la psicologa. «E non avevo più stima in me stessa. Certe volte li lasciavo fare. Se mi opponevo, dicevano che non ero capace. Mi veniva da piangere. Mi sentivo una merda». Andavano a prenderla all’uscita della scuola media Corrado Alvaro, con la lettera V dell’insegna crollata. È sulla via principale, proprio di fronte alla caserma dei carabinieri. Caricavano la bambina in auto e andavano al cimitero vecchio, oppure al belvedere o sotto il ponte della fiumara. Più spesso in una casa sulla montagna a Pentidattilo, dove c’era il letto. Quando questa tragedia italiana è incominciata, la bambina aveva 13 anni. Ora ne ha compiuti sedici. Una settimana fa, annunciando l’arresto degli stupratori, il procuratore capo di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho, ha detto: «Questo territorio sconta un ritardo costante. C’è una mancanza di sensibilità. Anche i genitori sono stati omertosi. Tutti sapevano». Adesso c’è una fiaccolata in piazza davanti alla stazione. Quattrocento persone presenti, molte arrivate da altri paesi. L’associazione Libera di don Ciotti, gli scout, i gonfaloni. Quattrocento persone su 14 mila residenti. L’altro parroco si chiama Domenico De Biase: «Sono tutte vittime - dice - anche i ragazzi. E poi, io credo che certe volte il silenzio sia la risposta più eloquente». Ce n’è già stato troppo di silenzio, a Melito di Porto Salvo. Le parole qui sono sempre colpevoli, come uno specchio che rimanda indietro l’immagine che non si deve vedere. Il sindaco Giuseppe Meduri sale sul palco ed attacca la giornalista Giusy Utano del TgR Calabria: «Certe ricostruzioni uscite sul servizio pubblico ci hanno offesi». Ma che colpa ne ha la giornalista, se una delle voci raccolte nel servizio mandato in onda era quella di una signora che diceva così? «Sono vicina alle famiglie dei figli maschi. Per come si vestono, certe ragazze se la vanno a cercare». Melito di Porto Salvo è un paese in discesa, tagliato in due dalla statale 106 e dalla ferrovia. Ci sono rifiuti accatastati, case senza intonaco, balconi crollati. Il commissariato di polizia è davanti allo scheletro di una costruzione abusiva. E adesso, alla fiaccolata in solidarietà, in mezzo alle poche persone presenti, c’è anche il padre della bambina. «Purtroppo mi aspettavo questo tipo di partecipazione», dice camminando con un piccolo lumino in mano. «Tante volte avrei voluto andarmene da questa situazione. Non mi piace usare la parola schifo, perché a Melito ci sono cresciuto. Ma se potessi, certo, se non avessi il lavoro, prenderei mia figlia e la porterei lontana. Abbiamo cercato solo di difenderci». In realtà ci sono stati molti tentennamenti, anche da parte della madre della bambina. Ma adesso è facile fare delle considerazioni per noi che ogni volta possiamo andarcene da qui. Uno stupratore si chiama Giovanni Iamonte, «rampollo di un esponente di spicco della locale cosca della ’ndrangheta, soggetto notoriamente violento e spregiudicato». Un altro stupratore si chiama Antonio Verduci, ed è figlio di un maresciallo dell’esercito. Un altro stupratore è Davide Schimizzi, fratello di un poliziotto. Intercettato durante le indagini, chiede consigli proprio a lui. E li ottiene: «Quando ti chiamano, tu vai e dici: non ricordo nulla! Non devi dire niente! Nooooo. Davide, non fare lo “stortu”. Non devi parlare. Dici: guardate, la verità, non mi ricordo. E come fai a non ricordare? Devi dire: sono stato con tante ragazze, non mi ricordo!». Lo storto. La verità. E la bambina. All’inizio pensava che Schimizzi fosse il suo fidanzato, ma poi ha spiegato in cosa consistesse lo stare con le ragazze: «Questo suo amico si mette dove era prima Davide, cioè sopra di me. Però io faccio di tutto per andarmene perché non volevo e mi ero già rivestita. Così Davide ha aiutato questo suo amico a riscendermi i pantaloni. E con questo Lorenzo abbiamo avuto un rapporto, ma proprio un attimo, perché non stavo ferma, dopo di che hanno iniziato ad insultarmi…». La bambina non mangiava più. Spesso mancava da scuola. Il vecchio preside Anastasi: «Una situazione squallida, ma all’omertà non ci credo». Il nuovo preside Sclapari: «La scuola non c’entra, ognuno deve pensare alla sua famiglia». In realtà la scuola c’entra eccome, malgrado se stessa. Mentre frequentava un istituto di Reggio Calabria, la bambina ha scritto un tema sui suoi genitori. La brutta copia di quel tema è arrivata a casa. E’ stata lei stessa a spiegare alla psicologa cosa ci fosse scritto: «I miei genitori si stavano separando. E nonostante io non abbia detto niente per proteggere anche loro, ero un po’ arrabbiata perché loro comunque non si sono mai accorti…». Quel tema è l’inizio della consapevolezza. Nessuno potrà mai considerarsi salvo in Italia se in Calabria non verranno liberate le parole e salvata la bambina di Melito. Su Facebook ha cancellato tutti gli amici. Nella fotografia è accanto al padre. Ha scelto una frase del filosofo nichilista Friedrich Nietzsche: «La migliore saggezza è tacere ed andare oltre».
MELITO PORTO SALVO: DIECI ANNI FA LA STESSA OMERTÀ. Scrive "Ciavula". Antonino Laganà aveva 3 anni, partecipava a un saggio scolastico sul lungomare di Melito Portosalvo, doveva cantare una canzoncina. Sono le 18.40 del 6 GIUGNO 2008. La mamma è con il figlio più grande, ci sono tutti i genitori, persone che assistono al saggio, 1000 persone. La mamma sente gli spari, corre e prende in braccio il piccolo Antonino, che è minuto, e si trova le braccia piene del sangue del bambino. TUTTI SCAPPANO, ad aiutarla resta un‛unica persona, il papà di un altro bambino che la porta di corsa in ospedale. Le forze dell‛ordine lanciano un appello affinché chi ha visto parli, anche un dettaglio può essere utile a capire cosa sia accaduto e chi abbia sparato. Nessuno si presenta. Al processo si presenta solo una persona: i due accusati, Leonardo e Antonino Foti, dicono che al momento della sparatoria erano in un‛autofficina, solo il proprietario dell‛autofficina si presenta in tribunale per dire che non è vero. Si disse: “Antonino si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato”, la mamma non può sopportare questa frase che paragona al “se l‛è andata a cercare” sussurrato nei confronti della ragazzina violentata a Melito. “Mi sono opposta con tutte le forze a questa frase, ho gridato. Anche quando l‛avvocato dei mandanti in cassazione ha pronunciato quella frase mi sono alzata e gli ho detto che per quelle parole dovevano radiarlo dall‛albo”.
Abusi sessuali a Melito, per politico bolognese il paese “andrebbe bruciato”: divampa la polemica. Abusi sessuali a Melito: caos tra Bologna e la Calabria, polemiche accese dopo le frasi, postate nei giorni scorsi su facebook dal presidente del quartiere Porto Saragozza del capoluogo emiliano, Lorenzo Cipriani, scrive il 14 settembre 2016 Danilo Loria su "Stretto web". Abusi sessuali a Melito- Polemiche accese dopo le frasi, postate nei giorni scorsi su facebook dal presidente del quartiere Porto Saragozza del capoluogo emiliano, Lorenzo Cipriani, il quale commentando sul suo profilo personale quanto accaduto a Melito Porto Salvo aveva scritto: “questo paese andrebbe bruciato e sulla cenere bisognerebbe poi spargere il sale”. Parole subito criticate dagli stessi amici di Cipriani tanto che prima il post viene modificato e poi cancellato. Un passo indietro che non ha fermato le polemiche: subito, il Pd Ernesto Carbone, ha chiesto le sue dimissioni. Poi il sindaco di Reggio Calabria ha parlato di un “leone da tastiera” e ha invitato il suo partito a riflettere sull’episodio. Nel frattempo, Cipriani, dopo il passo indietro sul social, ha chiesto scusa dicendosi “sinceramente dispiaciuto”.
I Fatti di Melito Porto Salvo: Tra la Mafia e la vergogna, la violenza sottile e feroce, scrive Martina Cecco il 13 settembre 2016 su "Il Secolo Trentino". Nella società del controllo e del possesso anche una ragazzina di 13 anni diventa “il pegno” di una intera città. Parliamo di abuso su minore, a Melito Porto Salvo, dove un uomo discendente da una famiglia esposta nell’ndrangheta ha organizzato un sistema di controllo violento attraverso un raccapricciante percorso di “vendetta” ai danni di una bambina. La stampa parla di alcuni fatti che esponiamo brevemente, noti ai più: una giovanissima tredicenne incontra il figlio del Boss e inizia una relazione molto presto, la relazione dovrebbe terminare per sua volontà, perché si innamora di un altro ragazzo. Il figlio del Boss manda a prendere e picchia brutalmente il nuovo rivale (come attestano le segnalazioni alle forze di Polizia), in seguito – considerando la piccola un bene di sua proprietà – la conduce in un brutto sistema di appropriazione di diritti su base sessuale con i suoi coetanei. Per stabilizzare il controllo sulla situazione invita al suo macabro banchetto anche persone ritenute “affidabili” e così segna il suo territorio. Una storia di mafia, omertà e mancanza di controllo sociale legale che colpisce una famiglia adattata alla violenza generalizzata (della città calabrese) dove perfino durante la marcia di solidarietà la cittadinanza “copre”, “giustifica” il fatto, senza pensare che – seppure fosse stata consenziente – l’età del rapporto legittimo è comunque 14 e non 13 anni. Figuriamoci l’età del rapporto promiscuo, che arriva – se arriva – dopo i 18 anni. La giustificazione sociale, l’accettazione di una situazione di arretramento culturale – rispetto alla media della percezione del reato in Italia – sono espresse nelle parole del padre: “Se potessi la porterei via da qui” ma per andare dove? Il cambiamento c’è stato: tutta Italia sta parlando di questo fatto e le famiglie di Melito, ma anche delle altre città, sanno che c’è stato un caso in cui la reazione della vittima ha portato a una indagine, al momento, nonostante le minacce fatte, senza ritorsioni, ma specialmente ha fatto emergere un contesto e una situazione. Certo non dovrebbero essere necessari casi estremi come questo, per aumentare l’importanza dell’educazione agli affetti nella società civile. La donna come oggetto di cui il Pater Familia, il Marito ha pieno possesso, un retaggio culturale di matrice prevalentemente “rurale” o tuttavia tipicamente “Mediterraneo” e pure in certi contesti “Tribale” nelle società patriarcali, che tocca anche le realtà islamiche meno progredite, non per legge ma per cultura. La donna del Boss è per il Boss e per la società intorno ad esso un membro importante, che non ha capacità decisionale nel decidere di finire un rapporto d’amore. Ma non è solo la mafia: i nostri giovani (lo testimoniano gli omicidi delle ex brutali e terrificanti) mancano di capacità di “perdere” l’affetto, la donna, la ragazza, un evento che diventa un fallimento così grande da essere insormontabile. Ma la gravità non è solo la violenza fisica: la pornografia, il ricatto sul posto di lavoro, le parole violente e le violenze domestiche, l’omertà, la vergogna sessuale sono tutte forme di violenza che accettiamo senza nemmeno percepirle. La percezione della violenza – infatti – non è uguale per tutti. Da una parte la legge, che espone con chiarezza i termini per i quali un’azione è reato; dall’altra le persone, che sono immerse in un determinato contesto sociale che parimenti alla sensibilità e alla cultura relative a se stesse, legittimano, senza rendersene conto, comportamenti assolutamente violenti percepiti come “normalizzati”. Ora – una persona di buon senso, genitore o giovane – non può non percepire il sesso con una tredicenne come effetto di assoluto degrado e assoluta violenza, eppure dalle poche parole espresse a Melito sembra che questo evidente atto osceno non sia percepito così. Siamo tuttavia concretamente in uno Stato che non mette in risalto la violenza, seppure attualmente con un Governo di Sinistra che fa di queste sensibilità la sua bandiera: la violenza delle guerre, la violenza del terrorismo, la violenza degli incidenti sul lavoro, della povertà, dell’esclusione sociale; si tratta di forme di violenza non percepita, che però “lavorano” sul piano emotivo, aumentando la tolleranza alla violenza stessa. Il giustificazionismo: di Stato, politico, sociale, economico, morale, etico, religioso, sono alcuni dei palliativi per cui si normalizzano le violenze, fisiche, materiali, verbali, visive, anche artistiche e così facendo si alza sempre più il livello di tolleranza alla violenza, arrivando, a Melito a sentire frasi senza raziocinio del tipo “Se l’è cercata” diciamo pure che se anche fosse stata disponibile, tuttavia, a 13 anni, fare sesso con un ragazzo molto più grande resta un grave reato, tale reato non può essere percepito come legittimo, altrimenti davvero parliamo lingue profondamente diverse. Martina Cecco
Melito, il muro intorno agli arrestati per stupro: "Su Facebook solo moralisti del ca...". Sul social network gli amici dei sette accusati di violenza di gruppo su una ragazzina di tredici anni raccolgono commenti di sostegno. Uno spaccato della comunità che li difende. Nonostante gli orrori raccontati dalle indagini, scrive Francesca Sironi il 14 settembre 2016 su “L’Espresso”. I commenti di un amico di uno degli arrestati: «La gente si deve fare i cazzi suoi». «Che si guardassero nella loro famiglia prima di giudicare e scrivere cazzate su fb. Moralisti del cazzo». Antonio è un amico di Lorenzo Tripodi, uno dei sette ventenni di Melito di Porto Salvo, in provincia di Reggio Calabria, accusati di violenza sessuale di gruppo su un'adolescente. Antonio li commenta così i fatti. I fatti: ovvero l'incubo di una bambina - quando gli abusi iniziano ha solo 13 anni - violentata dal 2013 al 2015 da un gruppo di ragazzi del paese, fra cui appunto, secondo i pm, il suo amico Lorenzo. Il due settembre, grazie alle indagini dei carabinieri, gli arresti. Fra gli imputati c'è anche Giovanni Iamonte, figlio di un uomo ora al 41 bis. Anche Giovanni avrebbe violentato la ragazza, come i suoi amici. Mentre il cognome, “Iamonte”, faceva il resto: il silenzio – anche la madre della vittima sa, e non denuncia. Le foto degli aguzzini sono sui giornali adesso. Hanno i capelli scuri, le gote rosse, si conoscono tutti fra loro. Vengono definiti “mostri”, ma questo li fa apparire speciali. Mentre i sette imputati di Melito sono giovani terribilmente normali. Di una normalità ripetitiva quanto gli abusi che hanno imposto in silenzio alla vittima. Sulle loro pagine Facebook, nelle loro reti da centinaia di amici, pubblicano foto di serate e matrimoni, di bambini in braccio davanti al camino, di partite a calcio, di nuove pettinature, di cani, di fidanzate e belle macchine; come tutti, pubblicano “pillole di saggezza” - «le persone stupide sono le più pericolose, perché sono ineducabili ed uniscono la stupidità alla cattiveria» - «il tradito può essere un ingenuo, ma il traditore è sempre e comunque un infame». Sono tanto normali, i sette arrestati dalla procura di Reggio Calabria per violenza sessuale di gruppo, quanto è stretta la difesa nei loro confronti di chi hanno vicino. Su decine e decine di pagine di amici degli indagati non c'è un commento sulla vittima. Non c'è un messaggio di indignazione. O un dubbio. No. La rabbia è piuttosto contro i giornalisti «ignoranti», oppure quei «moralisti» che osano parlare, come scrive un familiare di Tripodi: «La partita non finisce finché l'arbitro non fischia», dice in un messaggio del quattro settembre: «Chi ti conosce sa benissimo che sei difficile da superare, da saltare e hanno tutti fiducia in te. Poi a fine partita andremo ad esultare in faccia a TUTTE quelle persone moraliste che accusano senza sapere realmente i fatti!». Saranno i giudici - è vero - a stabilire la fondatezza delle indagini. Ma le prime prove, la testimonianza della vittima, le intercettazioni in cui il "fidanzatino" che ha portato gli altri su di lei chiede consiglio al fratello poliziotto, i ricordi del padre, sembrano delineare un tracciato chiaro. Di stupri. Ripetuti nel tempo. Nei giorni immediatamente successivi agli arresti gli amici reagiscono con il silenzio. Oppure pubblicando foto che li ritraggono con alcuni degli indagati: c'è Giovanni, ad esempio, che pubblica un'immagine di lui con Davide Schimizzi, le birre in mano. C'è Salvatore che condivide un'immagine in abito elegante con Michele Nucera al suo fianco. Ci sono Letizia e Francesca che pubblicano un selfie con l'amico. Un solo insulto, sotto l'ultimo post di Principato. Su tutto il resto si trovano soprattutto silenzio e solidarietà. «Io ti conosco e non so come sei finito in mezzo a questa storia, spero che la giustizia faccia il suo corso e che ti giudichi per la persona speciale che sei», scrive ad esempio Giuseppe. «Lasciateli parlare a questa gente che non vale niente», aggiunge un altro. «Solo Dio può giudicare». «Arriverà la gioia di chi saprà prevalere con le proprie forze e l'onestà in una partita iniziata non bene per un falso arbitraggio ben camuffato!», scrivono. Niente "haters". Solo rispetto, qui. E qualche commento di solidarietà. Agli indagati.
Melito Porto Salvo, per l’arcivescovo di Reggio non è solo ‘ndrangheta e omertà. “C’è un problema di educazione sessuale”. Monsignor Fiorini Morosini critica il clamore mediatico suscitato dalla vicenda della tredicenne abusata per due anni dal branco guidato dal figlio del boss Iamonte, e punta il dito contro una concezione della sessualità troppo edonistica. "Bisogna affrontare il problema dal punto di vista educativo, questo impegno deve coinvolgere tutti: Chiesa, istituzioni e la società civile", scrive "IL Fatto Quotidiano" il 13 settembre 2016. Non solo omertà, non solo ‘ndrangheta. Il problema è piuttosto connesso ad una visione distorta, troppo edonistica, della sessualità. Questa, in estrema sintesi, l’opinione di monsignor Giuseppe Fiorini Morosini, arcivescovo di Reggio Calabria-Bova, sulla vicenda di Melito di Porto Salvo, il comune dell’estremo sud ionico dove il 2 settembre scorso gli investigatori guidati dal procuratore Federico Cafiero De Raho hanno arrestato sette giovani per violenza sessuale di gruppo aggravata: l’accusa è quella di aver continuativamente abusato, tra la fine del 2013 e gli inizi del 2015, di una ragazzina di 13 anni. Una storia che vede, secondo l’inchiesta della Procura di Reggio Calabria, un’adolescente seviziata da un branco, ma aggravata da un ulteriore elemento: a organizzare quelle violenze, era infatti Giovanni Iamonte, esponente di spicco della ‘ndrina locale e figlio secondogenito di Remingo, il boss di Melito. “L’altro giorno sono andato a casa della giovane – ha detto monsignor Fiorini Morosini – per incoraggiarla ad andare avanti. Ho trovato una famiglia distrutta ma con la volontà di riprendere il cammino nonostante le difficoltà che dovranno affrontare”. Una famiglia che, però, sapeva e ha taciuto. Dalle indagini in corso emerge infatti come sia il padre, sia la madre dell’adolescente avessero contezza delle violenze subite dalla loro figlia, ma avessero evitato di sporgere denuncia: preferendo, in un caso, parlare direttamente col capobastone Iamonte anziché rivolgersi alle forze dell’ordine, e nell’altro ignorare del tutto i sospetti circa gli abusi subiti dalla giovane. Una storia di omertà, dunque? Non per monsignor Fiorini Morosini, che ha commentato i fatti di Melito in un’intervista alTg2000, il notiziario della Tv dei vescovi. “Parlare di omertà – ha detto il prelato – è solo una lettura parziale dell’episodio e forse è anche troppo comodo. Ridurre tutta la vicenda solo ad un fatto di ‘ndrangheta e di gente che non parla perché ha paura mi sembra troppo riduttivo. In questo paese è esplosa una realtà che vive nel sottobosco: cioè il modo con cui questi ragazzi vengono educati allasessualità che viene vista come gioco e divertimento”. L’arcivescovo ha poi suggerito un metodo per aiutare la ragazza, puntando il dito contro il clamore mediatico suscitato dalla notizia: “Bisognerebbe chiudere luci e microfoni perché non sono le indagini giornalistiche ripetute che educheranno la realtà. Bisogna affrontare il problema dal punto di vista educativo, questo impegno deve coinvolgere tutti: Chiesa, istituzioni e la società civile”. Parole, quelle di monsignor Fiorini Morosini, che in parte riprendono le esternazioni dei sacerdoti della parrocchia di Melito, che nei giorni scorsi avevano invitato a riflettere sulla tragedia altre “vittime”, e cioè ai membri del presunto branco. Anche l’arcivescovo ha rivolto a questi ultimi un pensiero: “Ho mandato a dire attraverso il cappellano delle carceri – ha spiegato – che devono ripensare non solo a ciò che hanno fatto, ma globalmente alle loro vite perché non so fino a che punto hanno percepito il male fatto. Anche loro appartengono a questa società che ha una visione ‘consuma e divertiti’ della sessualità. Avranno il tempo e il modo di ripensare se questo è il modello che domani vorranno proporre ai propri figli”.
Melito di Porto Salvo, la Melito civile, non vuole il silenzio. Vuole dire forte il proprio NO alla violenza. Scrive Doriana Goracci il 12 settembre 2016. Melito di Porto Salvo, la Melito civile, non vuole il silenzio. Vuole dire forte il proprio NO alla violenza. Oggi comincia la scuola e fai conto che vieni a sapere che tua figlia di 13 anni, 1.55 x 40 chili, all’uscita viene caricata da uno, che poi sono 8 o 9, e portata in una casa o al cimitero, o sotto un ponte… o dovunque ci sia un giaciglio; che le tengano fermi i polsi e la violentino: per 3 anni. Ora si sa, chi sono quei “ragazzi” e lei che se l’è cercata…La notizia è dei primi di settembre in Calabria, con l’Operazione Ricatto: “Arrestati 9 ragazzi, tra i 18 e i 30 anni per violenza sessuale di gruppo aggravata, atti sessuali con minorenne, detenzione di materiale pedopornografico, violenza privata, atti persecutori, lesioni personali aggravate e di favoreggiamento personale”. E sappiamo anche chi sono gli 11.416 che risiedono a Melito di Porto Salvo, tranne 400 venuti anche da fuori per la solita fiaccolata di solidarietà per le strade di Melito, per la famiglia della ragazzina vittima di abusi sessuali: erano stati tutti invitati dalla stampa e dalla Chiesa. Il parroco, Domenico De Biase, riesce a tirare fuori queste parole: «Sono tutte vittime anche i ragazzi. E poi, io credo che certe volte il silenzio sia la risposta più eloquente». Ma poi ci sarebbe stato poche ore dopo “Sua Eccellenza Mons. Giuseppe Fiorini Morosini, arcivescovo di Reggio Calabria-Bova, ha dedicato anche la sua omelia di oggi a questo tema, durante la Santa Messa nella Basilica Cattedrale davanti alla Madonna della Consolazione”. Il sindaco Giuseppe Meduri attacca la giornalista Giusy Utano del TgR Calabria e sentenzia: «Certe ricostruzioni uscite sul servizio pubblico ci hanno offesi». Aveva riportato una certa “signora” dire: «Sono vicina alle famiglie dei figli maschi. Per come si vestono, certe ragazze se la vanno a cercare». Il procuratore capo di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho, ha detto: «Questo territorio sconta un ritardo costante. C’è una mancanza di sensibilità. Anche i genitori sono stati omertosi. Tutti sapevano». Mi viene in mente la storia della ragazzina di Montalto di Castro violentata dal branco e le parole del sindaco, oltre i fatti, Salvatore Carai, zio di uno dei violentatori che dichiarò: “Quei ragazzi ingiustamente accusati sono dei bravi ragazzi. Dalle nostre parti le uniche bestie sono gli immigrati romeni. Loro sì che lo stupro l’hanno nel sangue”. Verrebbe voglia di andare lontano, dove non mancheranno i matti ma dove manca tanta spaventosa folla di donne che hanno subito ed educato così i loro figli, alla violenza, e le figlie a subire. Dei padri è meglio tacere, che se si limitano all’indifferenza è già tanto. «C’era la coperta rosa… e non avevo più stima in me stessa. Certe volte li lasciavo fare. Se mi opponevo, dicevano che non ero capace. Mi veniva da piangere. Mi sentivo una merda». Parole sommesse e ripetute alla psicologa, da questa nostra piccola figlia, strazianti, in questo deserto umano. La coperta rosa non è riuscita a coprire niente, se non il silenzio di tutto un paese intorno, stretto nel miserevole ipocrita silenzio.
Violentata e chiamata "prostituta", il caso Melito e l'ipocrisia dell'Italia peggiore. «Se l’è andata a cercare», «È una prostituta», «Sono tutti vittime, anche i ragazzi». Questi alcuni commenti dei cittadini di Melito Porto di Salvo, anche dei pochi che hanno partecipato alla fiaccolata in difesa della ragazzina violentata dal branco. Una storia che racconta il nostro lato oscuro, scrive Flavia Perina il 12 Settembre 2016 su “L’Inkiesta”. In apparenza è solo una piccola storia ignobile, come dice la canzone, ma la vogliamo raccontare in prima pagina in difesa di Chiara, nome di fantasia della ragazza residente a Melito Porto di Salvo stuprata per due anni (dai 13 ai 15) da nove compaesani ventenni, in una serie di ripetute violenze di cui solo ieri – grazie a una fiaccolata e a un articolo su La Stampa dell'inviato Niccolò Zancan – si sono conosciuti bene i dettagli. Perché nel branco non c'era solo il figlio del boss locale ma anche il figlio di un maresciallo dell'esercito e il fratello minore di un poliziotto, e insomma: ora che sappiamo con chi aveva a che fare Chiara è più facile immaginare perché abbia taciuto tanto tempo, non solo era piccola ma davanti a lei c'erano figure che a un adolescente appaiono enormemente forti, protette, invincibili, avvolte dalla contrapposta suggestione del potere illegale e di quello legale. Si scriverà di Chiara soprattutto perché di lei, finora, hanno parlato solo uomini, con parole da uomini. Alla manifestazione indetta in suo favore che si è svolta a Melito c‘era il sindaco Giuseppe Meduri: secondo i resoconti se l'è presa con un servizio del Tgr Calabria sui melitesi che dicono “Quella se l'è andata a cercare”, in quanto offensivo della reputazione del Comune (sciolto tre volte per mafia). C'era il parroco Benvenuto Malara che ha detto «purtroppo non è caso isolato, c'è molta prostituzione in paese». C'era l'altro parroco Domenico De Biase che ha compatito tutti i protagonisti della storia perché «sono tutti vittime, anche i ragazzi». E nessuno si è accorto che dietro queste parole da uomini, a questa solidarietà condizionata da uomini, a questa incapacità tutta degli uomini di distinguere con nettezza la vittima dai colpevoli, c'era una nuova e insopportabile offesa. Ma come «prostituzione in paese», che cosa c'entra con Chiara? Ma come «tutti vittime», che cosa state dicendo? Ma come «offesi» dai giornalisti che mostrano in tv la solidarietà di molti verso gli stupratori di una tredicenne? «Offesi» si dovrebbe essere semmai con chi accusa la ragazzina invece dei suoi persecutori. Il caso della ragazzina di Melito dovrebbe diventare caso nazionale non per lo stupro, che purtroppo ce ne sono tanti, ma per quelle parole. Lì c'è tutta la regressione italiana, e la cartina al tornasole dell'ipocrisia in materia di violenza e di uomini violenti: la stessa Italia che ha fatto un putiferio sui fatti di Colonia, scoprendosi improvvisamente femminista e amica delle libertà delle donne, opina, distingue, lavora di perifrasi, quando lo stupratore è il vicino di casa. Il caso della ragazzina di Melito dovrebbe diventare caso nazionale non per lo stupro, che purtroppo ce ne sono tanti, ma per quelle parole. Lì c'è tutta la regressione italiana, e la cartina al tornasole dell'ipocrisia in materia di violenza e di uomini violenti: la stessa Italia che ha fatto un putiferio sui fatti di Colonia, scoprendosi improvvisamente femminista e amica delle libertà delle donne, opina, distingue, lavora di perifrasi, quando lo stupratore è il vicino di casa, magari parente di grande elettore, e lo fa persino se la vittima è una bambina delle medie, caricata in auto un giorno sì e uno no davanti a scuola, sotto gli occhi di tutti, a tre passi dalla caserma dei Carabinieri, da un clan di ventenni notoriamente violenti e facinorosi. Chiara come Annamaria Scarfò di San Martino di Taurianova, storia quasi identica di quindici anni fa, pure lei violentata dai tredici ai sedici anni e poi finita in un programma di protezione perché in paese non poteva più vivere, aveva denunciato “bravi lavoratori, sposati o fidanzati” ed era diventata “la malanova”, “la puttana”, le avevano ucciso il cane e insanguinato i panni stesi, e c'era persino un Comitato regolarmente costituito per insinuare che avesse agito allo scopo di ricattare gli imputati. Chiara come Fiorella, nome di fantasia, la diciottenne che nei Settanta fu sequestrata e violentata per due giorni a Latina da quattro uomini sulla quarantina che l'avevano attirata in trappola proponendole un posto di lavoro, e poi in tribunale dovette difendersi – in un processo rimasto celebre – dalle obiezioni sul perchè non avesse interrotto la violenza visto che «una violenza carnale con fellatio, signori miei, può essere fermata con un morsetto». Solo che la vicenda di Annamaria diventò caso di prima pagina e alla fine intervenne il Viminale. E quella di Fiorella si trasformò in una delle più importanti produzioni Rai, “Processo per stupro”, documentario mandato in onda per la prima volta nell'aprile 1979 su Rai Due, seguito da tre milioni di telespettatori, ritrasmesso in prima serata nell'ottobre successivo e visto da altri nove milioni, finito nei festival più prestigiosi del mondo e persino al Moma di New York dove tuttora se ne conserva una copia. Nessuno, a quell'epoca, poteva immaginare che trentacinque anni dopo, parlando di nove adulti che obbligano a rapporti sessuali una tredicenne, le figure di riferimento di un Comune italiano, le istituzioni insomma, avrebbero potuto dire «sono tutti vittime», o tirare in ballo la prostituzione, o difendere quelli che giustificano i violentatori con l'eterno “la ragazza se l'è cercata”. Per questo oggi parliamo di Chiara, anche se per tutti è una piccola storia secondaria. Perché a noi sembra invece grandissima, colossale, orribilmente preoccupante per le nostre figlie e le nostre nipoti.
Su Melito abbiamo tutti torto, scrive Paolo Pollichieni Mercoledì, 14 Settembre 2016 su "Il Corriere della Calabria". Detto con brutale franchezza, ancorché con estrema mitezza, imparino i nostri concittadini di Melito Porto Salvo che mai come in circostanze come quella che oggi vivono, gli assenti hanno sempre torto. E assenti eravamo un po' tutti solo che adesso qualcuno vorrebbe continuare nella sua assenza e provare a giustificarla pure. Ironicamente Paolo Sorrentino, che non è solo un regista da premio oscar ma anche un sensibile e raffinato scrittore, intitola il suo miglior volume «Hanno tutti ragione». Qui oggi è l'esatto contrario, abbiamo tutti torto. Iniziamo da noi stessi: dov'ero io – che per giunta faccio il direttore nel maggior quotidiano on-line di questa regione – mentre un'intera comunità pur dotata di scuole e istituzioni, persino chiese, pur capace di consumi sofisticati e pienamente collocata in quell'Occidente immaginario che gli agitatori dello scontro di civiltà ci dicono davvero diverso dai mondi cupi dei veli, dei burkini, della misoginia di Stato e di Chiesa, regrediva o forse nemmeno si evolveva – solo ingannevolmente rivestita di modernità – restando posata sul bordo di quel medioevo perenne, invincibile, di cui ha dato prova? Perché non ho capito? Quanto buio infiltra questi nostri paesini pacifici, queste contrade laboriose, questi pii circondari? Dove eravamo tutti noi che pensiamo di assolvere al nostro dovere civico limitandoci a cliccare un "mi piace" sugli eroismi degli altri? Dove era, e dove è, il sindacato, la politica, l'informazione, la scuola, la chiesa quando le nostre contrade vengono deturpate dalla 'ndrangheta? Altro mostro medievale che si nasconde in piena luce, negata da tutti, taciuta da tutti, intenta a farsi i fatti suoi in mezzo a tutti. Alla fiaccolata si va. Gli assenti hanno torto. Inutile prendersela con i cronisti. Mai come in quelle circostanze sono gli assenti ad avere torto. Il Pd e la giunta regionale scendono in campo a Melito. Fanno bene, a patto che non finisca come un'altra Platì. Maria Elena Boschi viene a Reggio Calabria per partecipare al Comitato per l'ordine e la sicurezza convocato dal Prefetto. Fa bene. Lancia un messaggio preciso, perché lei è anche ministro delle Pari opportunità ed è bene che si sappia che la sicurezza si costruisce anche attorno alla parità tra cittadini. Sorgerà a Melito un centro per il contrasto della violenza alle donne, anche questo è un segnale da accogliere con trasversale adesione. A patto che tutto abbia poi un seguito e un radicamento nel territorio. A condizione che larga parte della comunità di Melito non sia soggetto passivo di queste attenzioni mediatiche e istituzionali ma ne diventi protagonista. Ecco perché altre assenze non potranno essere perdonate. Il che non assolve lo Stato dalla sua colpa più grave: il genocidio bianco che sradica dalla Calabria le sue forze migliori e isola quelle sane che vi rimangono. Negli ultimi dieci anni trecentomila ragazzi e ragazze calabresi hanno fatto la valigia, davvero non potevano impegnare qui le loro intelligenze e la loro caparbietà? I mafiosi sono gli unici a restare saldamente attaccati al territorio. Vuol dire che chi è rimasto a Melito o altrove è mafioso? Assolutamente no, ma altrettanto certamente le difese immunitarie di un corpo sociale piagato, deturpato, stuprato da decenni di giogo mafioso si sono allentate. E chi resta si divide. C'è chi si illude di poter convivere con il "convitato di pietra" seduto a fianco e chi reagisce ma non trova la dovuta solidarietà. Così il cronista che chiama mafiosi i mafiosi deve andar via, quello che definisce "presunto boss" un ergastolano alla quarta condanna definitiva, può restare a casa sua e dire che il problema è il cranio del "brigante" Villella rimasto in mano ai "piemontesi". Ma di quale dei due generi di cronista hanno veramente bisogno Melito e la Calabria? C'è il medico che cura i latitanti invocando Ippocrate, ma apprezzando anche il voto di scambio, e quello che rifiuta il certificato "amicale". Il primo resta e fa eleggere i rampolli, l'altro emigra... e fa carriera. È così dentro ogni categoria: preti e vescovi, magistrati e ingegneri, imprenditori e commercianti. E' così per i nostri ragazzi: c'è la figlia del boss Aquino che va a dare esami su appuntamento, consegna il libretto prende il massimo e non apre bocca. C'è lo sgobbone che studia di giorno e lavora di notte e nessuno lo prende a bordo. La prima male che vada entrerà alla Regione o in qualche ufficio tecnico comunale. Il secondo partirà ancor prima di laurearsi. C'è il primario che elargisce voti e mazzette e c'è la ricercatrice che cura il parkinson, scopre la Nicastrina ed a stento riesce ad avere un laboratorio negli scantinati. In mezzo un esercito di ignavi che si indignano solo quando la loro ignavia finisce sui giornali e nelle televisioni nazionali. Lì smettono di essere assenti e diventano protagonisti, invocando visibilità e rispetto.
Io Andrea Pasini, censurato perché dalla parte degli italiani, scrive l’11 agosto 2016 su “Il Giornale”. “E’ evidente stanno avendo la meglio i populismi, i nazionalismi. Stanno avendo la meglio quelli che dicono che per risolvere il problema bisogna creare muri, mettere fili spinati, chiuderci. Ecco questo sta succedendo. Noi è da questo pericolo che dobbiamo guardarci, non da altri. E questo pericolo noi ce lo abbiamo a casa. Ecco allora vedete è molto triste quando in Europa sento dire che non è tempo di occuparci di chi ci abita vicino, no no no, non è questo il momento, perché siamo a corto di risorse, noi dobbiamo pensare ai nostri concittadini, non alla sorte di chi ci abita vicino. MAI RICETTA FU PIÙ SBAGLIATA, MAI, MAI, MAI”. Le parole arrivano dalla bocca di Laura Boldrini, presidente della Camera in viaggio di Stato in Marocco lo scorso giugno. Questo discorso, delirante quanto traditore di questa nazione, è la giusta premessa per farvi capire cosa mi è successo. Sui miei canali social ho deciso, fedele alle mie idee, di schierarmi dalla parte del popolo italiano, di cui faccio fieramente parte. Ho un blog sul sito de Il Giornale chiamato “Avanti senza paura” perché in un momento come questo fatto di crisi, di umiliazioni, di privazioni e di sputi sul tricolore bisogna scendere in campo e non tirare indietro la gamba. Per questo le mie parole sono state censurate. In un post su Facebook, in allegato con una foto dell’Italia che riportava la dicitura “Primo Stato al mondo ad essere razzista con i propri cittadini”, ho ripreso le parole del direttore Alessandro Sallusti, in merito alla questione dell’assenza degli alti vertici nazionali ai funerali delle vittime di Dacca, affermando, senza pentirmi, che la vera discriminazione è perorata nei confronti degli italiani. Gli unici a pagare veramente, gli unici a rimetterci, gli unici a trovarsi senza nulla tra le mani, mentre la nave affonda. All’estrema funzione per i nostri concittadini barbaramente assassinati in Bangladesh, per mano degli islamici, dov’erano la Boldrini, Renzi e la Boschi? Perché non hanno dichiarato lutto nazionale? Il governo ha assassinato queste persone una seconda volta. Ed allora segnalazione su segnalazione, fatte probabilmente da un gruppo di islamisti, capaci solo di mettere al bando i propri contestatori, mentre dalla parte opposta persona dopo persona cliccava mi piace e commentava supportando le mie teorie, sono stato bloccato. Bloccato per 30 giorni da Facebook. Vi rendete conto è l’ennesima volta che mi succede un fatto del genere, ma perché Mark Zuckerberg e i suoi adepti ostracizzano la mia voce senza nemmeno controllare i post che mi vengono cancellati. Vi sembra giusto? Il tanto sbandierato articolo 21 della Costituzione, quello che recita “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”, che fine ha fatto? Quando si buca l’ulcera del marcio di questa nazione, evidenziando il cancro che ci sta affossando, veniamo messi a tacere. Cercano di mettermi un bavaglio perché la mia macchina fotografia rappresenta la realtà, la loro un mondo terzomondista visto solo nelle vignette di Zerocalcare. A questo punto, ognuno di noi, deve avere il coraggio di dire ciò che pensa, con ogni strumento, sempre nel rispetto altrui, ma senza farsi intimidire e schiacciare dalla repressione. Repressione che si paventa bollando con il termine razzista chiunque non la pensi come lo status quo a capo di questo paese. La Boldrini, dal suo scranno d’oro fatto di menzogne e d’odio per la nostra patria, ci ammonisce dicendoci che è aberrante pensare prima a quelli che ci stanno vicino, che abbiamo bisogno di un nuovo piano Marshall, che abbiamo bisogno, in buona sostanza, di perdere la nostra storia pur di farci invadere. Fandonie buone solo a tappare la bocca di chi vuole ridestare questo paese. Chi ha l’interesse di mettere a tacere le mie parole, quelle di libero cittadino? Tagliare i ponti, nascondere i concetti, cercare di privare di potenza i messaggi non servirà a nulla, certi richiami non passeranno inascoltati. Mentre i media hanno crocefisso Amedeo Mancini, dandogli del fascista per essersi difeso da un aggressione, la Magistratura ci dirà la verità sui fatti non le prime pagine dell’intellighenzia di sinistra, stiamo assistendo allo sterminio di nostri concittadini per mano del terrorismo islamico. “Sono buoni, ma si sono radicalizzati” è il nuovo slogan, il nuovo mantra da recitare all’infinito, il nuovo Pokemon Go di chi gioca con le vite degli italiani. Nizza segna la fine della pace, l’inizio di una guerra che sta mettendo a dura prova l’Europa e vuole sventrarla. Ma il problema, per il sistema, sono i miei concetti, gli stessi del popolo che è stanco di subire un’immigrazione clandestina senza fine come una condanna da scontare all’infinito, che ci rende carcerieri e vittime. Il pavimento sotto i nostri piedi crolla ed avvenimenti come Mafia Capitale ce lo hanno insegnato, il business dell’importazione di schiavi in Italia rende più dello spaccio e del traffico d’armi. Ma gridare queste verità ti porta ad essere bollato, trasformandoti in un nemico del politicamente corretto. “L’antirazzismo come terrore letterario” è l’ultima fatica di Richard Millet, ed è lo specchio di questo mondo, retorico quanto finto. Politici inginocchiati fanno il volere della tolleranza, dell’accoglienza e dei farlocchi diritti umani che ci privano della nostra identità. L’Europa “sta morendo per incapacità di restare se stessa di fronte a un’immigrazione incalcolabile, incompatibile, generalmente ostile e infine distruttiva”, dunque denunciarlo diventa marchio d’infamia. Italiani tutto questo è una vergogna. Siamo, ci tengo a ribadirlo, l’unico paese al mondo capace di essere razzista con i propri cittadini. Ora basta con il razzismo anti-italiano, questa è casa nostra. Abitazioni, alberghi ed una pioggia di soldi dati ai clandestini, i rom non pagano le tasse delinquono e hanno la possibilità, pur non tirando fuori un centesimo, di usufruire gratuitamente del sistema sanitario ed il tutto grava sulle nostre spalle. Dopo gli attentati di Dacca, di Nizza e di Monaco ci vogliono mettere a tacere senza poter dire e pensare che gli islamici ci fanno paura e che dobbiamo trovare un modo per arginare le loro derive terroristiche capaci di mettere in crisi l’Europa intera. A questo punto vogliamo sapere chi finanzia la costruzione di moschee e vogliamo evitare al nostro paese di essere colpito, direttamente, da una guerra santa che si sta trasformando in un pericolo mortale per l’Occidente. Lo Stato carogna spreme il nostro sudore, i nostri sacrifici vessandoci senza darci nulla in cambio. Paghiamo e siamo costretti a restare muti, non permettetevi di fare nessuna richiesta o l’oblio e l’abbandono saranno il vostro unico futuro. Se esprimiamo il nostro parere, come nel mio caso, ci danno dei razzisti, dei discriminatori, degli ingiusti e per questo veniamo repressi come il peggiore dei criminali. Alla gogna tramite processo sommario, con modalità che ricordano quelle tanto care ai partigiani. Vogliamo parlare di casa popolari? Costruite con i soldi dei contribuenti di questo paese vengono occupate illegalmente dagli immigrati, spesso senza regolare permesso di soggiorno, mentre moltissimi nostri concittadini rimangono a dormire in auto o peggio su di una panchina perché il governo si gira dall’altra parte. Seguire l’iter burocratico non porta a nulla, le liste d’attesa parlano straniero ed essere nati da Bolzano a Palermo diventa un requisito negativo per l’assegnazione di alloggi popolari. Dobbiamo tacere perché gli immigrati sono poveri, arrivano da una guerra, sono scappati dal lato oscuro del globo. Non importa nemmeno se quando li aiutiamo ci sputano in faccia dicendo che il nostro cibo è spazzatura, quando si lamentano delle sistemazioni ricevute, quando chiedono più soldi, quando vogliono internet e Wi-Fi oppure quando arrivano a scontrasi, anche fisicamente, con le forze dell’ordine che cercano di riportare la calma a fronte delle loro proteste. Noi dobbiamo fare silenzio. Per non parlare dei rom, definiti una comunità disagiata che va aiutata ad integrarsi a fronte della volontà di voler continuare con le loro abitudini, sbeffeggiandoci, tanto i conti li paga Pantalone. L’Agenzia delle Entrate sempre ligia a controllare i nostri conti in banca e le nostre attività commerciali ha mai fatto un controllo fiscale a queste persone? Sono intollerante anche se chiedo un accertamento a chi vive come un parassita? E’ ora di finirla. Mi sono stancato di tutto questo e siccome ho sempre regolarmente pagato le tasse e rispettato la legge, mi prendo la libertà di dire che mi sono rotto le palle davanti a tutto questo schifo. Questa, lo grido con tutto il fiato che ho, è ancora la nostra terra e se difendere gli italiani, che ogni giorno subiscono le peggiori angherie, vuol dire essere razzista chiamatemi pure razzista. Per me sarà solamente un grande onore.
"I brianzoli? Dei foruncolosi m...": la vergogna di Roberto Vecchioni, scrive Tommaso Labranca il 7 agosto 2016 su “Libero Quotidiano”. Il mondo della creatività è pieno di coppie: Gilbert & George, Cochi & Renato, Dolce & Gabbana. Roberto & Vecchioni. Quello che per anni ci è apparso come un solo individuo con sigaro e chitarra è invece un semplice guscio che contiene due personalità. L’artista degli arazzi alfabetico-geografici era ben conscio di ciò che faceva quando si scisse in Alighiero & Boetti. Roberto & Vecchioni invece fingono di ignorarsi come fanno gli inquilini di un qualunque condominio milanese. Roberto ha fatto per molti anni il professore di italiano nei licei. Con molto laissez faire, dice qualche ex allievo. Pare aspettasse sempre l’ultimo momento prima di entrare in classe, staccando a fatica gli occhi dalla Gazzetta dello Sport. Vecchioni, che fa il cantautore, racconta che la Gazzetta la leggeva il padre, uomo «non propriamente di sinistra», mentre lui, giunto all’età della ragione, iniziò a comperare l'Unità su cui, ammette con una certa autoironia, per un certo periodo scrisse di corse di cavalli. Il professore Roberto, ancora prima dei danni dell’algoritmo ministeriale, era stato trasferito in diversi istituti sparsi tra la provincia di Milano e di Brescia. Pare si fosse trovato particolarmente bene a Desenzano sul Garda al punto che pochi anni fa scese in campo per difendere attivamente la locale spiaggia Feltrinelli dall’ennesima cementificazione. Il cantautore Vecchioni della spiaggia Feltrinelli francamente se ne infischia, anche perché lui ha sempre pubblicato per Einaudi. Compreso l’ultimo libro scritto in collaborazione con il professore Roberto, La Vita che si ama - Storie di felicità. Accolto all’uscita nell’aprile del 2016 con un interesse inferiore a quello per le Pagine Bianche, il libro balza ora ai disonori delle cronache locali per una frase poco lusinghiera riservata all’esperienza vissuta dal professore a Cesano Maderno, località della Brianza profonda a poca distanza da quel Carate Brianza dove sia Roberto sia Vecchioni sono nati nel 1943. Una signora che abita sempre in zona, a Triuggio, attratta dal nome dell’autore, prende in prestito il libro dalla biblioteca. A un certo punto ecco il passaggio che le fa sgranare gli occhi: «Io venivo da Cesano Maderno, dalla diossina, da una classe di figli di operai e mobilieri che vestivano male, parlavano male, si muovevano da far schifo, non si abbronzavano mai e collezionavano foruncoli». Sarà un errore di stampa? Sarà un foglio dell’ennesimo zibaldone giovanile del supersnob Arbasino finito per sbaglio nel mémoire del compagno Roberto? No. È proprio farina del sacco del professore-cantautore che fa rotolare per strada la falce e il martello e segue il Grande Fascista Lucio Battisti deciso a «fuggire via da te Brianza velenosa». E brufolosa. Scoppia la polemica, la lettrice rende il libro alla biblioteca senza finirlo, i giornali locali tentano di contattare il cantautore Vecchioni per avere chiarimenti, ma non ricevono risposta. Ci credo. È il professor Roberto che avrebbero dovuto cercare. Lui avrebbe spiegato tutto. Avrebbe detto che quelle parole le ha scritte Vecchioni per far capire quanto odiasse la provincia italiota. Lui ha la testa piena di viaggi esotici e nei suoi dischi è partito da Samarcanda per arrivare a Malindi, con tappe a Calabuig e a Hollywood, incontrando solo vip come Velasquez e Robinson Crusoe. Tutto ciò che è locale, lombardo gli fa un po’ senso. Di San Siro ha più volte ricordato d’aver visto solo le luci dal di fuori. In una sua canzone degli esordi precisava sdegnato che Io non devo andare in via Ferrante Aporti. A dire il vero cercava di evitare anche il resto d’Italia, in particolare aveva il terrore di risvegliarsi a Messina «città che è degna d’ogni stima, ma che ci faccio io a Messina?». Già, meglio svegliarsi a Palermo per raccontare a un pubblico di studenti che la Sicilia è «un’isola di merda» come fece nel 2015. Come oggi i brianzoli, anche l’anno scorso i siciliani non la presero bene. Suvvia, amici della Trinacria. Voi che avete dato alla nazione una grande coppia come Franco & Ciccio, chiudete un occhio. E voi, sudditi monzesi che ci avete regalato Morgan & Andy dei Bluvertigo, siate pazienti. Immaginate la fatica che deve fare il professor Roberto per mettere una pezza alle mattane del cantautore Vecchioni. Come quella volta che il docente volle a tutti i costi guidare e fu fermato dalla Polizia Stradale di Desenzano che gli rilevò un tasso alcolico superiore a quello ammesso. Al suo fianco il professore continuava a giustificarlo: «Non è alcol! È che ha preso uno sciroppo per la tosse!». Risultato: patente sospesa per 15 giorni. A tutti e due. Tommaso Labranca
I giovani italiani ed i profughi: «Tolleranti, ma spaventati». L’indagine dell’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo. Il curatore Rosina: «Il nostro Paese mostra le sue fragilità», scrive Riccardo Bruno il 4 agosto 2016 su “Il Corriere della Sera”. I giovani italiani sono i primi in Europa a definirsi tolleranti e a riconoscere le diversità degli altri. Ma quando si abbandonano i principi e si diventa più concreti, ecco che spuntano timori e paure. Alla domanda — gli immigrati migliorano la vita culturale del Paese nel quale vanno a vivere? — solo 4 su dieci dicono di sì. La percentuale più bassa in Europa, per intenderci i coetanei spagnoli superano il 70%. È questa l’immagine, con chiari e molti scuri, che viene fuori dall’indagine sul «Rapporto tra immigrazione e insicurezza nei giovani europei» promossa dall’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo (con il sostegno di Banca Intesa, Fondazione Cariplo e Università Cattolica di Milano). Seimila giovani tra i 18 e i 32 anni, un campione sondato da Ipsos in sei nazioni (Italia, Francia, Spagna, Regno Unito, Germania e Polonia) dopo il 14 luglio. Nelle risposte, dunque, anche le preoccupazioni crescenti dopo i fatti di Nizza. Le cifre, ovunque (un po’ meno in Germania), segnalano una sensibilità di fondo delle nuove generazioni a considerare le ragioni degli altri. Valori minori, ma significativi, anche nel riconoscere che l’Unione Europea ha promosso l’integrazione tra diverse culture (i giovani italiani sono i più convinti con il 64,9%). Quando le domande si fanno più stringenti — gli immigrati rendono il Paese più insicuro? — ecco che affiorano le perplessità, e il campione si spacca. Più della metà di italiani, tedeschi e francesi ritiene che la situazione è peggiorata, i polacchi arrivano quasi all’80%. «I Paesi con un alto impatto di arrivi, difficoltà politica a offrire soluzioni all’emergenza, basso livello del dibattito pubblico, sono quelli in cui prevalgono gli aspetti negativi» osserva Alessandro Rosina, docente di Demografia alla Cattolica di Milano e curatore dell’indagine. La percezione dei ragazzi italiani non si discosta dai pari età europei anche quando si affronta l’apporto degli immigrati all’economia. Si allontana invece sensibilmente quando si considera la dimensione culturale. «Differenze che evidenziano la nostra fragilità — aggiunge il professor Rosina —. Da noi più che altrove mancano gli strumenti per comprendere che il mondo sta cambiando, che le nazioni che si aprono all’esterno sono quelle che cresceranno di più, creando un benessere condiviso. E le cause sono molteplici, a partire dall’inadeguatezza della scuola a promuovere le competenze interculturali, a far sentire il valore della propria identità e nello stesso tempo favorire l’interazione con gli altri». Nelle risposte dei nostri giovani pesano sicuramente anche l’esposizione diretta ai flussi migratori e una situazione economica in cui si fatica a trovare lavoro. «Non a caso i laureati hanno un atteggiamento molto più positivo rispetto a chi ha un titolo di studio più basso — prosegue Rosina —. Non solo perché si trovano in condizioni oggettive migliori e temono così meno la concorrenza degli immigrati, ma anche perché posseggono gli strumenti per capire che, al di là della congiuntura, il nostro Paese si impoverirebbe senza il contributo di tutti». L’indagine dell’Istituto Toniolo così finisce per raccontare l’apparente paradosso degli italiani, popolo accogliente eppure spaventato. Conclude Rosina: «Apprezziamo le diversità eppure aumentano le insicurezze, accogliamo i profughi per una questione umanitaria, non perché pensiamo che rappresentino una risorsa. Esattamente il contrario dei tedeschi».
Il Turista fai da te. Il Salento e l’orda dei profughi. I nostri turisti? Profughi e lamentosi. Il Salento risponde con: “Vaffanculo”. Arrivano in massa, senza soldi e con la litania lamentosa e diffamatoria: perché qua è diverso? La meta del turista fai da te che arriva in Salento è il mare, il sole, il vento ma è stantio a metter mano nel portafogli e nell’intelletto. C’è tanta quantità, ma poca qualità. Il turista fai da te che arriva nel Salento è come un profugo in cerca spasmodica di benessere gratuito. Crede nei luoghi comuni e nei pregiudizi, nelle false promesse e nelle rappresentazioni menzognere mediatiche. Con prenotazione diretta last minute, al netto dell’agenzia, prende un appartamento con locazione al ribasso e con pretesa di accesso al mare. Si aggrega in gruppo per pagare ancora meno. Ma a lui sembra ancora tanto. Poi si meraviglia della sguaiatezza di ciò che ha trovato. Tutto l’anno fa la spesa nei centri commerciali e pretende di trovarli a ridosso del mare. Non vuol fare qualche kilometro per andare al centro commerciale più vicino, di cui i paesi limitrofi son pieni, e si lamenta dei prezzi del negozietto stagionale sotto casa. Durante l’anno non ha mai mangiato una pizza al tavolo e quando lo fa in vacanza se ne lamenta del costo. Vero è che il furbetto salentino lo trovi sempre, ma anche in Puglia c’è la legge del mercato: cambia pizzeria per il prezzo giusto. Il turista fai da te tutto l’anno vive in palazzoni anonimi, arriva in Salento e si chiude nel tugurio che ha affittato con poco e poi si lamenta del fatto che in loco non c’è niente, nonostante sia arrivato nel Salento, dove ogni dì è festa di sagre e rappresentazioni storiche e di visite culturali, che lui non ha mai frequentato perché non si sposta da casa sua. Comunque una tintarella a piè di battigia del mare cristallino salentino è già una soddisfazione che non ha prezzo. Il turista fai da te si lamenta del fatto che sta meglio a casa sua (dove si sta peggio per cognizione di causa) e che qui non vuol più tornare, ma, nonostante il piagnisteo, ogni anno te lo ritrovi nella spiaggia libera vicino al tuo ombrellone. Si lamenta della mancanza di infrastrutture. Accuse proferite in riferimento a zone ambientali protette dove è vietato urbanizzare e di cui egli ne gode la bellezza. A casa sua ha lasciato sporcizia e disservizi, ma si lamenta della sporcizia e della mancanza di servizi stagionali sulle spiagge. Intanto, però, tra una battuta e l’altra, butta cicche di sigaretta e cartacce sulla spiaggia e viola ogni norma giuridica e morale. La raccolta differenziata dei rifiuti, poi, non sa cosa sia. Ogni discorso aperto per socializzare si chiude con l’accusa ai meridionali di sperperare i soldi pagati da lui. Lui, ignorante, brutto e cafone, che risulta essere, anche, evasore fiscale. Il turista fai da te lamentoso è come il profugo: viene in Salento e si aspetta osanna, vitto e alloggio gratis di Boldriniana fattura. Ma nel Salento accogliente, rispettoso e tollerante allora sì che trova un bel: Vaffanculo…
Quando il turista malcapitato viene a San Pietro in Bevagna, a Specchiarica o a Torre Colimena dice: “qua non c’è niente e quel poco è abbandonato e pieno di disservizi. Non ci torno più!”. Al turista deluso e disincantato gli dico: «Campomarino di Maruggio, Porto Cesareo, Gallipoli, Castro, Otranto, perché sono famosi?» “Per il mare, per le coste, per i servizi e per le strutture ricettive” risponde lui. «Questo perché sono paesi marinari a vocazione turistica. Ci sono pescatori ed imprenditori e gli amministratori sono la loro illuminata espressione» chiarisco io. «E Manduria perché è famosa?» Gli chiedo ancora io. “Per il vino Primitivo!” risponde prontamente lui. Allora gli spiego che, appunto, Manduria è un paesone agricolo a vocazione contadina e da buoni agricoltori, i manduriani, da sempre, i 17 km della loro costa non la considerano come una risorsa turistica da sfruttare, (né saprebbero come fare, perché non è nelle loro capacità), ma bensì, semplicemente, come dei terreni agricoli non coltivati a vigna ed edificati abusivamente, perciò da trascurare.
Turismo e risorse ambientali.
“Ci vogliono brutti, sporchi e cattivi”
19 settembre 2016. Dibattito pubblico a Otranto, in Puglia, sul tema: "Prospettive a Mezzogiorno".
Il resoconto del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
Nel Salento: sole, mare e vento. Terra di emigrazione e di sotto sviluppo economico e sociale dei giovani locali. Salentini che emigrano per mancanza di lavoro…spesso con un diploma dell’istituto alberghiero. Salentini che perennemente si lamentano della mancanza di infrastrutture per uno sviluppo economico e che reiteratamente protestano per i consueti disservizi sulle coste e sui luoghi di cultura. Salentini con lo stipendio pubblico che si improvvisano ambientalisti affinchè si ritorni all’Era della pietra. Salentini con la sindrome di Nimby: sempre no ad ogni proposta di sviluppo sociale ed economico, sia mai che i giovani alzino la testa a danno delle strutture politiche padronali. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. Salentini che dalla nascita fin alla morte si accompagnano con le stesse facce di amministratori pubblici retrogradi che causano il sottosviluppo e che usano ancora il metro di misura dei loro albori politici: per decenni sempre gli stessi senza soluzione di continuità e di aggiornamento.
Presente al convegno Flavio Briatore, fine conoscitore del tema, boccia il modello turistico italiano, partendo proprio dalla Sardegna del suo Billionaire. Intanto per il caro trasporti: «Hanno un'isola e non lo sanno - dice Briatore alla platea del convegno - pensano che la gente arrivi per caso. La gente arriva o via mare o via aerea: sono due monopoli, per cui fanno i prezzi (che vogliono). Se tu vai da Barcellona a Maiorca, quattro persone sul traghetto spendono 600 euro. Da Genova ad Alghero ne spendono 1600. L'80 per cento degli amministratori - aggiunge ancora Briatore - non ha mai preso un aereo. Come si fa a parlare di turismo senza averlo mai visto?».
Briatore è poi passato alla Puglia, dove nell’estate 2017 aprirà il Twiga Beach di Otranto grazie a una cordata di imprenditori locali ed ha criticato l'offerta turistica del territorio, sottolineando in particolare la mancanza di servizi adeguati alle esigenze dei turisti più facoltosi, sorvolando sulla mancanza di infrastrutture primarie: «Se volete il turismo servono i grandi marchi e non la pensione Mariuccia, non bastano prati, né musei, il turismo di cultura prende una fascia bassa di ospiti, mentre il turismo degli yacht è quello che porta i soldi, perché una barca da 70 metri può spendere fino a 25mila euro al giorno. Masserie e casette, villaggi turistici, hotel a due e tre stelle, tutta roba che va bene per chi vuole spendere poco - ha affermato Briatore - ma non porterà qui chi ha molto denaro. Ci sono persone che spendono 10-20mila euro al giorno quando sono in vacanza, ma a questi turisti non bastano cascine e musei, prati e scogliere - ha continuato l'imprenditore - io so bene come ragiona chi ha molti soldi: vogliono hotel extralusso, porti per i loro yacht e tanto divertimento». Non poteva essere altrimenti: Briatore ha puntato il dito sulle mancanze di infrastrutture a sostegno di quelle strutture turistiche mancanti ad uso e consumo di un’utenza diversificata e non solo mirata ad un turismo di massa che non guarda alla qualità dei servizi ed alla mancanza di infrastrutture. Una semplice analisi di un esperto. Una banalità. Invece...
Sulle affermazioni di Briatore si è scatenato un acceso dibattito, in particolare sui social: centinaia i commenti, quasi tutti contro.
I contro, come prevedibile, sono coloro che sono stati punti nel nerbo, ossia gli amministratori incapaci di dare sviluppo economico e risposte ai ragazzi che emigrano e quei piccoli imprenditori che con dilettantismo muovono un giro di affari di turismo di massa a basso consumo con scarsa qualità di servizio.
L’assessore regionale Sardo Maninchedda: «A parole stupide preferisco non rispondere».
Francesco Caizzi, presidente di Federalberghi Puglia replica alle parole dell’imprenditore: «La Puglia non è Montecarlo, Briatore si rassegni. La Puglia ha hotel che vanno dai 2 stelle ai 5 stelle, dai bed & breakfast agli affittacamere. Sono strutture per tutte le tasche e le esigenze, ma con un unico denominatore comune: rispettano l’identità del luogo. Questo significa che non ci si può aspettare un’autostrada a 4 corsie per raggiungere una masseria. È probabile che si dovrà percorrere un tratto di sterrato, ma nessuno ha mai avuto da ridire su questo. Anzi, fa parte del fascino del luogo».
Loredana Capone, assessore imperituri (governo Vendola per 10 anni e con il Governo Emiliano), che ha concluso da poco un lavoro di diversi mesi sul piano strategico del turismo, ha illustrato il punto di vista di un eterno amministratore pubblico: «Dobbiamo partire da quello che abbiamo per puntare ai mercati internazionali. Come stiamo nei mercati? Prima di tutto evitando qualsiasi rischio di speculazione e abusivismo. È puntando sulla valorizzazione del patrimonio, residenze storiche, masserie, borghi, che saremo in grado di offrire un turismo di qualità, capace di portare ricchezza. Non i grandi alberghi uguali dappertutto, modelli omologati e omologanti. Anche gli investimenti internazionali puntano al recupero più che alla nuove costruzioni».
La visione di Briatore proprio non piace a Sergio Blasi, altro esponente eterno del Pd che si è detto disponibile a concorrere alla primarie del centrosinistra a Lecce: «Briatore punta alla creazione di non-luoghi riservati all’accesso esclusivo di una élite economica ad altissima qualità di spesa, nei quali conta chi sei prima di entrare e non quello che sarai diventato alla fine del tuo viaggio o della tua vacanza. Io la ritengo una prospettiva poco interessante per il Salento. E lo dico da persona che ha criticato fortemente la svolta “di massa” di alcune attrazioni, che a furia di sbandierare numeri sempre più alti finiscono per rovinare più che per valorizzare le opportunità di crescita. Ma esiste un mezzo – ha proseguito nel suo post l’ex segretario regionale del Pd - nel quale collocare un’offerta turistica che sia in grado di valorizzare le potenzialità inespresse, e sono tante, garantendo al contempo una “selezione” non in base al ceto sociale quanto agli interessi e alle aspettative del turista. Noi dobbiamo guardare ad un turismo che apprezza la cultura, anche quella popolare, la natura e il paesaggio. Che apprezza i musei e i centri storici tanto quanto il buon vino e il buon cibo. Che sia in grado di apprezzare e rispettare la terra che visita e di non farci perdere il rispetto per noi stessi».
Per Albano Carrisi: “La Puglia piace così!”
Naturalmente l’Italia degli invidiosi, che odiano la ricchezza, quella ricchezza che forma le opportunità di lavoro per chi poi, senza quell’occasione è costretto ad emigrare, non ha notato la luna, ma ha guardato il dito. Il discorso di Briatore non è passato inosservato sul web dove alcuni utenti classisti, stupidi ed ignoranti hanno manifestato subito il loro disappunto. "Tranquillo Briatore, i parassiti milionari che viaggiano e non pagano non ce li vogliamo in Puglia", ha commentato un internauta, "Noi vogliamo musei e prati perché vogliamo gente che ami cultura e natura. Gli alberghi di lusso fateli a Dubai", ha ribattuto un altro.
Ci vogliono brutti, sporchi e cattivi. E’ chiaro che il Salento quello ha come risorsa: sole, mare e vento. E quelle risorse deve sfruttare: in termini di agricoltura, ma anche in termini di turismo, essendo l’approdo del mediterraneo. E’ lapalissiano che le piccole e le grandi realtà turistiche possono coesistere e la Puglia e il Salento possono essere benissimo l’alcova di tutti i ceti sociali e di tutte le esigenze. E se poi le grandi strutture turistiche incentivano opere pubbliche eternamente mancanti a vantaggio del territorio, ben vengano: il doppio binario, strade decenti al posto delle mulattiere, aeroporti, collegamenti ferro-gommati pubblici accettabili per i pendolari ed i turisti, ecc.. Ma il sunto del discorso è questo. Salento: sole, mare e vento. Ossia un luogo di paesini e paesoni agricoli a vocazione contadina con il mito tradizionale della “taranta” e della “pizzica”. E da buoni agricoltori, i salentini, da sempre, la loro costa non la considerano come una risorsa turistica da sfruttare, (né saprebbero come fare, perché non è nelle loro capacità), ma bensì semplicemente come dei terreni agricoli non coltivati a vigna od ulivi ed edificati abusivamente, perciò da trascurare. Ed i contadini poveri ed ignoranti, si sa, son sottomessi al potere dei politicanti masso-mafiosi locali.
Stesso discorso va ampliato in tutto il Sud Italia. Gente meridionale: Terroni e mafiosi agli occhi dei settentrionali, che invidiano chi ha sole, mare e vento, e non si fa niente per smentirli, proprio per mancanza di cultura e prospettive di sviluppo autonomo della gente del sud: frignona, contestataria e nel frattempo refrattaria ad ogni cambiamento e ad una autonoma e propria iniziativa, politica, economica e sociale.
Allora chi è causa del suo mal, pianga se stesso.
Cari razzisti, siete più stupidi che cattivi, scrive "Il Dubbio" il 2 ago 2016. Odiano immigrati, islamici e zingari considerati causa di ogni male. Contro ogni logica l’accoglienza dei rifugiati è solo «un’invasione capitanata dalla Boldrini e dai buonisti». Ormai è da tempo che seguendo il dibattito sui social, mi trovo quasi sempre, per le mie opinioni, assimilato alla definizione di “buonista” o anche “finto buonista”. Che a rigor di semantica fà di me un buonista finto, quindi un non-buonista, ma lasciamo perdere visto che la logica non è la loro caratteristica. Chi sono loro? Sono i cattivisti. I destinatari degli ineffabili editoriali di Libero e della propaganda xenofoba del segretario della Lega. Una pletora di persone si erge a baluardo della civiltà occidentale scagliandosi contro l’immigrazione, l’islam, la diversità, la povertà (non intesa come problema da combattere, ma come fastidio verso chi suo malgrado ne ha a che fare) e i loro complici un po’ minchioni e inconcludenti: i buonisti. Loro i cattivisti invece, da buoni analfabeti funzionali, hanno una soluzione, per ogni male che affligge la nostra società: il carcere, la pena di morte, la ruspa, le deportaz... ehm i rimpatri, fare la guerra agli islamici giacché «non tutti i musulmani sono terroristi, ma tutti i terroristi sono musulmani», che poi è un po’ come dire che «non tutti quelli che si masturbano sono stupratori, ma tutti gli stupratori si masturbano». Non comprenderanno mai che il 98% delle vittime dell’Isis e del terrorismo islamico sono persone di fede islamica, che se abbiamo la vicissitudine di vivere in un epoca in cui c’è una porzione di territorio tra i confini della Siria e dell’Iraq governato da un sedicente Califfo forse non è esente da colpe la singolare idea di esportare un po’ di sana democrazia, bombardando a dritta e a manca. Subito ti incalzeranno con un: «E allora l’undici settembre?» A nulla varrà ricordare che nessuno degli attentatori era di nazionalità irachena. E poi: «Quindi era meglio lasciare Saddam?» questo punto li esalta, poi però sono sempre i primi a magnificare l’accordo di Berlusconi con Gheddafi che «aveva fermato gli sbarchi di immigrati». A loro non interessa sapere che in Europa, secondo stime Onu, è presente solo il 10% dei sessanta milioni di rifugiati, protagonisti di quella che è la più grande emergenza in tal senso della storia dell’umanità. Contro ogni evidenza si tratterà sempre di «un’invasione capitanata dalla Boldrini alla testa degli squadroni buonisti». Non vacilleranno neanche se gli fai notare che probabilmente i loro figli a scuola hanno compagni, o figli di genitori, che non sono nati in Italia e che non hanno nessuna simpatia per i terroristi, giacché ora hanno imparato su qualche sito che riporta aforismi (pochi di loro hanno la capacità di concentrazione che superi le quattro righe) una nuova parola: la taquiyya, ovvero la possibilità nella tradizione islamica di venire meno ali obblighi religiosi, o addirittura di rinnegare esteriormente la fede. Sono troppo intelligenti per credere che la taquiyya, che per altro è una tradizione valida soprattutto tra gli sciiti che nella comunità islamica in Italia sono una sparuta minoranza, è autorizzata solo quando si trovino in pericolo o per sfuggire ad una persecuzione (cosa per altro prevista anche da più evoluti ordinamenti giuridici). Loro risponderanno che è in corso un’invasione con l’avallo del Vaticano di Papa Francesco e dei poteri forti, perché si sa: i poteri forti sono responsabili di ogni malefatta. E gli zingari? Beh, è semplicissimo: basta usare la ruspa e cacciarli al loro paese. Il fatto che molti siano Italiani? Lo risolvono facilmente: «Non esistono zingari Italiani, sono tutti delinquenti». Non avranno il minimo tentennamento neanche una volta edotti che sono, o erano, “zingari”: Antonio Banderas (origini kalé), Yul Brinner (rom da parte del nonno paterno, acquistò il titolo di presidente onorario dei rom), Michael Caine (rom romanichael), Charlie Chaplin (romanichael da parte di madre), Joaquin Cortes (kalé Spagnolo), Rita Hayworth (kalé), Elvis Presley (di padre sinto e di madre romanichael), lo scienziato e premio Nobel per la medicina August Krogh (rom). In fondo è un popolo dedito solamente all’accattonaggio, ai furti ed allo spaccio. E di certo non saranno così ingenui da credere che nel corso della storia i popoli si sono mossi, che probabilmente neanche i sanniti o i volsci saranno stati entusiasti quando furono (loro sì) invasi dai romani. Che comunque i primi a muoversi, siamo stati noi verso i loro paesi. Che i trentacinque Euro spesi al giorno per mantenere ogni migrante, loro dicono in alberghi a quattro stelle (che poi ce li vorrei vedere questi cattivisti a vivere in uno di questi “alberghi”), rappresenta un esborso infinitesimale rispetto all’evasione fiscale di questo paese. Alla fine del 2014, Il Giornale ha valutato in 55 milioni al mese il costo della «invasione degli immigrati», definizione che la dice lunga sul fatto che anche questa testata non sia buonista. Anzi, per andare sul sicuro, diciamo pure che il costo ora sia di 60 milioni al mese, con un aumento del 10% rispetto a quanto ipotizzato dallo stesso quotidiano. Un osservatore esterno come Richard Murphy, fondatore del Tax Justice Network, ha calcolato il valore dell’evasione fiscale in 145 Paesi. Per l’Italia, anno 2011, siamo a 183 miliardi di euro che, divisi in rate mensili come quelle del Giornale, fanno 15 miliardi e 250 milioni al mese. Loro sono troppo scaltri per cadere in questo ragionamento. Ricordo quando ero giovane che l’odio sociale era del tutto riservato al mondo della droga nella sue varie declinazioni. C’era chi voleva la pena di morte, ma solo per i grandi spacciatori, chi voleva invece arrestare tutti i drogati e via dicendo. Prima ancora, io non posso ricordarlo ma è comunque un dato storico, la causa di tutti i mali erano i meridionali. Ora le statistiche tendono a confermare che l’uso di droga sia rimasto più o meno stabile negli anni, e pare anche che i meridionali siano addirittura aumentati, ma loro se ne sono dimenticati perché è diminuita “l’emergenza sociale” (la visibilità), soppiantata dalle “trame delinquenziali” di tutte queste persone generalmente con la pelle colorata. Ora, cari cattivisti, lasciate che vi dica una cosa senza rancore e spinto dalla possibilità che possiate migliorarvi attraverso un sano spirito di ricerca: il mondo è più complicato di quanto crediate. Non siamo noi ad essere buonisti ed inconcludenti, siete voi ad essere ignoranti e stupidi. Più stupidi che cattivi.
DIRE “SCIMMIA” E’ PEGGIO DI DIRE “TERRONE”? Gli islamici meglio dei meridionali?
Teo Teocoli «Io litigioso? È vero, ma sono migliorato. Mio padre mi picchiava e non lavorava mai». A 71 anni («e rotti...») ammette che uscire dalla televisione l’ha fatto «incavolare». Ora si sente più libero e sincero. «Non ho mai saputo confrontarmi serenamente con gli altri», scrive Gian Luigi Paracchini il 22 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Strano destino quello di saper far ridere, dunque ispirare simpatia, irradiare socievolezza e contemporaneamente avere nervi (e freni) talmente fragili da rischiare l’incidente al primo intoppo. Problemi che non si risolvono con un tagliando. Questa ingombrante coesistenza di un’anima burlesca e di un’altra conflittuale, accompagna da sempre Teo Teocoli, poliedrico showman, inventore di personaggi e imitazioni già nell’enciclopedia dell’umorismo nostrano. A 71 («e rotti...») anni d’una vita esagerata dove poco è stato risparmiato, Teo tenta di ridimensionare questo duello interiore: pare che il suo dottor Jekyll abbia mandato (quasi) in pensione mister Hyde. «Grazie a quattro donne speciali, mia moglie Elena e le mie figlie Anna, Chiara e Paola che m’hanno cosparso di zucchero. Poi per il gusto del teatro in giro per l’Italia. Uscire dalla televisione all’inizio m’ha fatto incavolare ma ora sono felice: canto, racconto storie, mi chiedono di fare Peo Pericoli e Caccamo e io zac glieli faccio. Dopo i bis con i ragazzi dell’orchestra si prende la macchina, un panino al formaggio, minerale e via a casa alle 5 del mattino. Mi sento di nuovo giovane». Donne (di famiglia) e teatro come terapia naturale. E le sfuriate, i litigi con mezzo mondo? Non saranno mica invenzioni... «La facilità allo scontro mi arriva da un’infanzia difficile. Mamma veniva da una famiglia di giostrai, papà era andato in Marina sotto le bombe inglesi. Dopo la guerra siamo sbarcati a Milano, zona Niguarda-Fulvio Testi a quei tempi quasi campagna. Mamma cuciva in sartoria, papà non lavorava e non si vedeva mai, meglio perché quando arrivava mi picchiava di brutto: il classico padre-padrone. Ero un disadattato: di fronte al bidello in divisa ho pianto per ore, facevo fatica a scrivere e leggere, non capivo nemmeno il concetto di proprietà. Mi chiamavano terun, africa, baluba, altro che non incazzarsi…! È un miracolo che sia arrivato a ragioneria perché non ho mai studiato niente, giuro. M’intortavo le prof, facevo ridere anche loro». Lo spartiacque di Teocoli, un 25 aprile personale che lui infatti chiama liberazione, arriva a fine anni 60 con il primo cospicuo guadagno, un milione di lire nella pubblicità L’uomo in Lebole: l’uomo era l’attore Armando Francioli, lui il ragazzo. Poi i primi show e la popolarità. «Papà veniva spesso in teatro, soprattutto in camerino, a chiedermi soldi. E io pronti, l’accontentavo: era pur sempre mio padre. Mamma ha vissuto di più e m’ha visto ai massimi. Contenta? Sì, a parte quando ho sposato la ventenne Elena: ha pianto ma non di gioia: si sentiva tradita e sì che avevo 40 anni!». Concesse le attenuanti, il carattere irascibile resta fuori discussione. «Ho sempre agito d’istinto e anche per ignoranza non ho mai saputo confrontarmi serenamente con gli altri. Comunque in 17 anni di Derby, grande scuola con gente tipo Jannacci, Toffolo, Andreasi, Valdi, non ho mai litigato. Ho fatto la spalla a tanti colleghi come Lopez, Albanese, Gnocchi, Boldi. Di certo sono sempre stato me stesso: con i balordi del Giambellino, con gli alto-borghesi di Milano o in costa azzurra a casa di Brigitte Bardot, Salvador Dalì, Gilbert Becaud». Per ogni contrasto Teocoli ha correzioni o giustificazioni. Quella volta che ha rimbrottato il pubblico all’anteprima di Restyling Faccio Tutto? «Avevo ragione, alle anteprime venite gratis ma state zitti, mica si cazzeggia con i vicini!». Il bisticcio con Berlusconi? «Ero uscito da Antenna 3 con un bel successo, mi aveva fatto promesse mai mantenute». Con Fatma Ruffini, potente produttrice di Mediaset? «Pretendeva di fare la regista, tagliava gli sketch. Con me non va bene. Ho rinunciato a un miliardo e mezzo di lire a Paperissima perché il copione faceva schifo». Con Albanese che l’accusava d’improvvisare troppo? «Ma và, con Antonio la verità è che gli ho dato una sberla non prevista e lui l’ha presa male ma è finita lì. M’è successo anche con Elio delle Storie Tese». Con Celentano che pretendeva 35 milioni per una canzone da mettere in un film? «Siamo amici da 57 anni, anzi con un cappellaccio e gli occhiali io sono Adriano, come potrei litigare? Il guaio è che di quelle cose lì si occupa Claudia...». Con Paola Ferrari alla Domenica sportiva? «Stavo parlando di Ronaldo e sul più bello lei m’interrompe! Feeling zero, ho lasciato subito lo studio». Un po’ deluso da Fazio che non l’ha richiamato a Sanremo («ma con Fazio non puoi litigare, è di gomma»), deliziato da Pietro Garinei («Te stavo ad aspettà da 35 anni!») che l’ha riportato al Sistina, ancora furente pensando a Ballando con le stelle («un incubo, 4 ore di prove al giorno e poi votazioni a capocchia»). Qualche suo amico sostiene che per le conquiste femminili ci vorrebbero un paio di calcolatrici. Fra l’altro ha vissuto per un periodo a Roma con Franco Califano: cosa non sarà mai successo in quelle notti romane? «In realtà Franco era più romantico di quello che sembrava: s’innamorava. A Roma nel ‘69 recitavo in Hair con Loredana Bertè e Renato Zero, stavo in scena anche completamente nudo e non faccio per dire ma... Beh insomma nel dopo spettacolo si uniscono Veruschka e Marisa Mell, una più bella dell’altra e entrambe assai interessate: la serata l’ho poi...finita con Veruschka. Mi ricordo invece proprio agli inizi due filarini semiplatonici con Wilma Goich e Orietta Berti. Orietta dormiva dalle suore!». Ma anche nelle notti milanesi Teo non ha scherzato. «D’altra parte gli anni ‘70 erano sesso, droga e rock and roll, atmosfera pazzesca, libertà, niente senso del peccato». Neanche per la droga? «Va bè, gli spinelli non li contiamo, uno dei più belli con Califano l’abbiamo fumato dopo Italia-Germania 4-3. Ho provato la metedrina, usata ai tempi da molti studenti sotto esami per studiare di notte. C’era talmente tanto da fare, come si poteva dormire? Risultato, occhi spalancati tre giorni di fila e da lì mai più. Cocaina? La prima pista ci ho starnutito su come Woody Allen in Io e Annie e m’hanno guardato storto. Poi ho imparato a non starnutire ma dire che m’abbia preso seriamente sarebbe una bugia. Fra l’altro la roba che circolava era meno pericolosa di quella di oggi. Comunque non ne vado fiero e alle mie figlie ho parlato chiaro». Che voto si darebbe come padre? «Forse avrei dovevo avere più polso ma m’è sempre piaciuto far ridere le ragazze. Il guaio è che quando fai la faccia severa faticano a riconoscerti».
Al Bano: “Negli anni ’70 sono stato messo in disparte, così sono emigrato”. Al Bano è stato ospite de "Le Invasioni Barbariche" di Daria Bignardi con la quale ha parlato della sua vita privata, dell'incontro con Romina Power e del suo rapporto idilliaco con la Russia, scrive Fabio Giuffrida il 26 marzo 2014. Dopo 10 anni di attesa, Al Bano ha accettato l'invito di Daria Bignardi ad intervenire nella trasmissione tv "Le Invasioni Barbariche" che anche stasera ha avuto grandi ospiti. "Hai venduto milioni di dischi, hai compiuto 70 anni…", così è iniziata l'intervista al cantautore di Cellino San Marco. Subito la Bignardi ha mostrato le immagini del concerto che ha tenuto in Russia con Romina Power e che è stato trasmesso, in esclusiva in Italia, da Rai 1. Queste le sue parole: Da 19 anni non cantavamo assieme. Più che emozionato, non sapevo cosa sarebbe successo. Questo perché mi è stato chiesto di abbassare due toni visto che lei diceva di essere fuori esercizio […] Noi c'eravamo visti in questi anni 2-3 volte soltanto. Finché c'è stato, è stato un grande amore, quando è finito, invece, è stato un grande dolore.
Ha pure difeso la Russia: Amo la Russia, che bella gente! Mi dispiace che Putin sia stato escluso dal G8, non la vedo una cosa giusta. Ha seminato una buona dose di democrazia, viveva in un paese schiacciato da un altro tipo di politica […] Ha tirato fuori la Russia da un periodo di gravi incertezze sociali. Ti pare logico che le Pussy Riot devono andare proprio nella Chiesa, nella cattedrale, per andare a ballare, a spogliarsi? Non è un luogo per fare quello che hanno fatto.
Al Bano però non crede affatto nella politica: Non mi ha mai dato fiducia la politica. Speriamo che le cose cambino. Io aspetto il miracolo… […] Alcuni partiti mi hanno chiesto pure di candidarmi, dalla destra alla sinistra al centro. Renzi? L'ho incontrato una volta, mi auguro che mantenga tutto quello che dice […] Licio Gelli mi chiese di entrare nella P2. Gli ho risposto: "Poi vedremo". Io sono nato libero.
Ha ammesso di essere stato snobbato negli anni '70, forse perché non faceva parte di una certa fazione politica (il partito comunista). Lui, però, ha deciso di emigrare e in giro per il mondo ha ottenuto il successo che meritava: I miei brani non venivano passati dalle radio. Luciano Salce aveva fatto una rubrica, la "Schif Parade", e lì c'ero sempre […] Ero stato messo in disparte negli anni '70 in Italia.
Poi ha ripercorso tutti i lavori svolti a Milano: Facevo l'imbianchino e dormivo nella casa vuota che stavo imbiancando con una coperta. Non mi pagavano nemmeno. Poi lavorai in un bar in piazza del Duomo, come cameriere. Solo che la ragazza che piaceva al titolare si innamorò di me, e lui si infuriò dicendo: "Voi terroni arrivate qui e vi prendete tutto, pure le donne!". E io gli risposi: "Un giorno tornerò e mi dovrai servire tu!". Poi lavorai alla Innocenti fino a quando mi misero in cassa integrazione. Successivamente vidi su un giornale che il clan Celentano cercava nuove voci.
Quella fu la svolta della sua vita: Mi presentai ai provini e venni preso. Avevo un contratto discografico. Mi fecero incidere una canzone in inglese ma io non conoscevo la lingua, così in un mese la imparai. L'incontro con Romina avvenne sul set nel 1967 a Roma in occasione di un film tratto dal successo discografico del momento, il brano "Nel sole": La trovavo strana. Era sempre solitaria e poi la vedevo troppo americana, con la minigonna.
L’antirazzismo ipocrita. Il paradosso antirazzista. Per la Cassazione l’espressione “sporco negro” è razzista, l’ingiuria “italiano di m…” no, scrive Silvia Cirocchi, il 9 agosto 2013 su “Quelsi”. Secondo la Corte di Cassazione, al contrario dell’espressione “sporco negro”, l’ingiuria “italiano di merda” non ha una connotazione razzista, in quanto se fosse connotata in termini razzisti implicherebbe “una esteriorizzazione immediatamente percepibile, nel contesto in cui è maturata, avendo riguardo al comune sentire, di un sentimento di avversione o di discriminazione fondato sulla razza, l’origine etnica o il colore” (Cassazione, sez. V, 11 luglio 2006, n. 37609), che dunque “veicoli l’espressione di un pregiudizio di inferiorità e di negazione dell’uguaglianza”. Se, dunque, l’espressione “sporco negro” integra l’aggravante della connotazione razzista dell’ingiuria perché è correlata nel contesto territoriale ad un pregiudizio di inferiorità razziale, come riconosciuto dalla Cassazione con la sentenza n. 9381/2006, lo stesso non può dirsi per la frase ingiuriosa “italiano di merda” in quanto nel comune sentire del nostro Paese il riferimento all’italiano non è connaturato ad una situazione di inferiorità, essendo la comunità etnica italiana maggioritaria e politicamente egemone nel nostro Paese. Così ha deciso la Corte di Cassazione, nella sentenza della sez. V., n. 11590 dd. 25 marzo 2010, respingendo il ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica di Trieste avverso la sentenza del Giudice di pace di Pordenone. In parole povere, se uno straniero insulta un italiano esclamando “italiano di merda”, in Italia, non è punibile in alcun modo per istigazione all’odio razziale. Così ha deciso la Cassazione nel 2010.
Razzismo. Un'origine illuminista. Marco Marsilio, Vallecchi, pagg.191. In questo studio, l'Autore ricostruisce la storia del mito della razza, individuando nei filosofi che fondano il pensiero moderno le radici di un nuovo atteggiamento di fronte al genere umano. Si è spesso notato come la cultura occidentale, non volendo più essere razzista, abbia cercato di non esserlo mai stata, scaricando ogni "responsabilità" sul Nazionalsocialismo in particolare, come se fosse un accidente della storia. Indagando a ritroso sui presupposti filosofici del razzismo biologico, troviamo al contrario robuste origini nel pensiero illuministico: l’inserimento dell’uomo nell’ambito della storia naturale, la classificazione della specie, la critica della dottrina biblica della comune origine dell’umanità. Su questo terreno si sono poi sviluppati il positivismo, le misurazioni antropometriche e la nascita di nuove discipline che daranno dignità scientifica al razzismo. La riduzione dell’uomo alla sua sola dimensione materiale e quantificabile, la deificazione della ragione, il paradigma tecnologico assunto a criterio di verità, sullo sfondo di una costante polemica anticristiana, sono il filo conduttore della cultura razzista, che con la scoperta delle leggi della genetica associate all’evoluzionismo toccherà gli esiti estremi dell’eugenetica. “Questo à un libro sgradevole. E scomodo. Sgradevole perché non è simpatico che qualcuno ricordi che Kant pensava che i negri puzzassero…mentre Voltaire era convinto che le negre si accoppiassero con gli scimpanzé. Non ci sono solo i soliti Gobineau e Rosenberg in questa galleria degli orrori prodotti dal pensiero umano. Da Linneo a Darwin a Spencer – passando per Lombroso, Marx e Carrell – la galleria costruita da Marco Marsilio comprende il meglio della filosofia e della scienza moderne.”
Il razzismo? Figlio dei Lumi. Un pamphlet tratta con coraggio un tema sgradevole come la superiorità dell’uomo bianco sin dall’Illuminismo, scrive Andrea Galli «Avvenire» del 2 settembre 2006. Il libro: Marco Marsilio, Razzismo, un'origine illuminata, Vallecchi, pp. 188. Da Kant a Voltaire fino a Montesquieu, «negri» e «primitivi» sono equiparati agli animali. Storia di un pensiero atroce che ha fatto proseliti. Non è simpatico che qualcuno ricordi che Kant pensava che «i negri puzzassero» e che la nazione è tale «per comune discendenza di stirpe», mentre Voltaire era convinto che le africane si accoppiassero con gli scimpanzé dando vita a mostri sterili, o che «ancora oggi in Calabria si uccide qualche mostro generato dalle donne. Non è improbabile che, nei paesi caldi, delle scimmie abbiano soggiogato delle fanciulle». Del resto, sempre Voltaire notava «che i negri e le negre, trasportati nei paesi più freddi, continuano a produrvi animali della stessa specie» e che «i mulatti sono semplicemente una razza bastarda». Mentre il suo collega britannico David Hume era sicuro che sempre «i negri, e in generale tutte le altre specie di uomini siano per natura inferiori ai bianchi». E per Montesquieu «non ci si può convincere che Dio, il quale è un essere molto saggio, abbia posto un'anima, e soprattutto un'anima buona, in un corpo tanto nero». Così si legge nella prefazione a Razzismo, un'origine illuminista di Marco Marsilio, un libro effettivamente sgradevole e impertinente, quanto salutare e meritevole di una segnalazione. Si tratta di un volo radente lungo la storia delle teorie razziali, dalla loro genesi alla loro maturazione - dall'Histoire Naturelle del Buffon, al lavoro degli enciclopedisti francesi, alle Idee per una filosofia della storia dell'umanità di Herder, alla frenologia, al darwinismo e ai suoi derivati sociologici, all'eugenetica svedese, all'antisemitismo nazista, al superomismo sovietico - il cui passaggio più significativo rimane quello sul lato oscuro del cuore della modernità, cioè l'illuminismo. I dati e le fonti citate sono noti da tempo, ma la loro raccolta in una sintesi di 190 pagine torna più che utile per scardinare certi luoghi comuni duri a morire, per esibire fatti ampiamente documentati ma che continuano ad essere relegati in un angolino polveroso della divulgazione culturale. Ancora non molto tempo fa, per citare un esempio banale, un insospettabile Giuliano Ferrara (insospettabile di filo-voltairismo) invitava a Otto e Mezzo un focoso interlocutore (Antonio Socci) a non scadere in esagerazioni come il sostenere che Voltaire coltivasse e diffondesse idee pesantemente razziste e antisemite. Il libro di Marsilio avrebbe apportato qualche elemento di chiarezza al dibattito. Ricordando per esempio, oltre ai passi di cui sopra, pagine del Trattato di Metafisica o dei Dialoghi tra A, B, C tradotto dall'inglese dal signor Huet. Qui François Marie Arouet sostiene che la possibilità di evolversi verso la perfezione dei popoli civili è presente nei selvaggi nella misura in cui ciò è permesso dalla predisposizione dei loro organi, predestinati a ciò da un Dio «razionale». Il brasiliano «è un animale la cui specie non è ancora giunta al suo compimento», «anche lui avrà forse un giorno dei Newton e dei Locke», una prospettiva tuttavia possibile solo «nell'ipotesi che i suoi organi siano abbastanza duttili e vigorosi da giungere a quel termine: perché tutto dipende dagli organi». Nella loro condizione attuale, al di fuori della prospettiva evolutiva, i popoli primitivi non meritano quindi alcun apprezzamento, «gli uomini non socievoli corrompono l'istinto della natura umana», tanto che Voltaire si chiede: «Il selvaggio isolato e bruto (ammesso che sulla terra esistano simili animali, cosa di cui dubito), che cosa fa se non pervertire da mane a sera la legge naturale, col vivere inutile a sé e a tutti gli uomini?». Con queste premesse, scrive Marsilio, si giunge fatalmente a sposare e teorizzare un ideale colonialista di «civilizzazione» a sfondo razziale. Marsilio non cita nella sua panoramica il libro di Eric Voegelin Razza, storia di un'idea, da poco pubblicato in italiano, ma ne condivide in buona misura la tesi di fondo. Ovvero, che la perdita di una visione antropologica classica - segnata dall'idea rivoluzionaria di dignità dell'uomo, di ogni uomo, introdotta dal cristianesimo - abbia aperto le porte, assi eme alla nascita delle scienze empiriche, ad un riduzionismo biologico dell'umano. Il sogno di liberare l'uomo dai vincoli e dalle rigidità di una gerarchia metafisica, ha finito per sottoporre quest'ultimo a metri di valutazione e classificazione degradanti. Emblematico di tale scivolamento il caso di John Locke. Descrivendo come si può spiegare ad un bambino inglese cosa sia l'idea di uomo, e notando che «il bianco o il colore carne fa parte di questa idea», Locke poteva concludere che «il bambino può dimostrarvi che il negro non è un uomo». Colui che è tutt'oggi considerato un maestro del pensiero liberale, un campione della tolleranza, era allo stesso tempo il sostenitore di un pregiudizio tanto brutale da negare l'appartenenza al genere umano in virtù del colore della pelle. Oltre che beneficiario diretto dei proventi della tratta degli schiavi, con i suoi oculati investimenti azionari nella Royal African Company, monopolista del settore.
Le radici del razzismo del ‘900? Marx ed Engels, scrive Riccardo Ghezzi, l'11 settembre 2011 su “Quelsi”. C’è qualcosa di strano negli “anti-razzisti” in bandiera rossa con falce e martello dei giorni nostri. Qualcosa che non torna. Come al solito, quel qualcosa che non torna è la scarsa conoscenza della storia dei compagni. Già, perché gli “anti-razzisti” di oggi, che ideologicamente si rifanno al comunismo e ai teorici Marx ed Engels, ignorano che il razzismo del ‘900 ha dei padri che sono vissuti un secolo prima: Marx ed Engels, per l’appunto. Due pensatori razzisti, neppure troppo velatamente. Basterebbe studiarli per saperlo, ma certo non si può pretendere che marxisti o engelsiani leggano opere e aforismi dei loro beniamini. Lo studio dei testi di Marx ed Engels ci mostra che il genocidio, razziale o di classe, è una teoria propria al socialismo. L’ha scritto il filosofo e politico francese Jean-François Revel nella sua prefazione al libro «La littérature oubliée du socialisme» di George Watson. Aveva ragione. Engels, nel 1849, invocava lo sterminio degli ungheresi che si erano ribellati all’Austria. Lo scriveva in un articolo pubblicato sulla rivista diretta proprio dal suo amico Karl Marx, la «Neue Rheinische Zeitung». Lo stesso articolo sarà riportato da Stalin, nel 1924, in «Fondamenti del Leninismo», in realtà spudoratamente copiato da un saggio del segretario Ksenofontov, al quale è stata vietata la pubblicazione della sua opera (troppo simile a quella che Stalin aveva spacciato per farina del proprio sacco) prima di essere fatto fucilare negli anni ’30. Ma non andiamo fuori tema. Engels desiderava candidamente l’estinzione di ungheresi, serbi e altri popoli slavi, e poi ancora baschi, bretoni e scozzesi. In «Rivoluzione e controrivoluzione in Germania», pubblicato nel 1852 sulla stessa rivista, era Marx in persona a chiedersi come fare per sbarazzarsi di “queste tribù moribonde, i boemi, i corinzi, i dalmati, ecc…”. Il concetto di autodeterminazione dei popoli non era proprio ben visto da Marx ed Engels, per usare un eufemismo. Ma Engels ha rincarato la dose nel 1894. In una lettera ad uno dei suoi corrispondenti, W. Borgius, l’intellettuale comunista tedesco scriveva: Per noi, le condizioni economiche determinano tutti i fenomeni storici, ma la razza è anch’essa un dato economico. La “razza”. Chi l’avrebbe detto. Cosa Engels volesse intendere, l’ha chiarito meglio nel suo Anti-Duhring: Se, per esempio, nel nostro paese gli assiomi matematici sono perfettamente evidenti per un bambino di otto anni, senza nessun bisogno di ricorrere alla sperimentazione, non è che la conseguenza dell’eredità accumulata. Sarà al contrario molto difficile insegnarli a un boscimane o a un negro d’Australia. Parole che farebbero impallidire persino il tanto vituperato (dai compagni) Mario Borghezio. La superiorità razziale dei bianchi era una verità scientifica per i fondatori del socialismo, ed anche per i loro adepti. H. G. Wells e Bernard Shaw, intellettuali socialisti del ‘900 e grandi ammiratori dell’Unione Sovietica, per esempio rivendicavano il diritto di liquidare fisicamente le classi sociali che ostacolavano o ritardavano la Rivoluzione socialista. Stupiscono soprattutto le parole di Bernard Shaw riportate sul periodico The listener nel 1933, con le quali invitava scienziati e chimici a “scoprire un gas umanitario che causa la morte istantanea e senza dolore, insomma un gas «civile» mortale ma umano, sprovvisto di crudeltà”. Anche il nazista Adolf Eichmann, durante il processo a Gerusalemme nel 1962, ha invocato in sua difesa il carattere umanitario dello zyklon B, usato per uccidere le vittime della Shoah. Torniamo a Marx. Egli, ebreo auto-rinnegato, definiva il suo rivale e critico Ferdinand Lassalle con queste parole: Vedo ora chiaramente che egli discende, come mostrano la forma della sua testa e la sua capigliatura, dai Negri che si sono congiunti agli Ebrei al tempo della fuga dall’Egitto, a meno che non siano sua madre o sua nonna paterna che si sono incrociate con un negro. L’importunità di quell’uomo è altresì negroide. E poi ancora: Il negro ebreo, un ebreo untuoso che si dissimula impomatandosi e agghindandosi di paccottiglia dozzinale. Ora questa mescolanza di giudaismo e germanesimo con un fondo negro debbono dare un bizzarro prodotto. Léon Poliakov, storico e filosofo francese di origine russa vissuto nel ‘900, così ha definito Marx: Marx restava influenzato dalle gerarchie germanomani, si rifaceva all’idea dell’influenza del suolo di Trémaux, un determinismo geo-razziale che fondava agli occhi di Marx l’inferiorità dei negri. Lo stesso si potrebbe dire per Engels. Impossibile pretendere che gli scalmanati dei centri sociali, armati di spranghe e bandiera rossa, sappiano queste cose. Ma che almeno coloro che si rifanno alle idee di Marx ed Engels abbiano il buon gusto di non definirsi “anti-razzisti”.
Il gravissimo incidente ferroviario in Puglia del 12 luglio 2016, alle ore 11.05, dove hanno perso la vita almeno 23 persone e 52 feriti, irrompe su tutti i siti dei media internazionali, diventano l'apertura della Cnn international, di Le Figaro, di El Pais e della Suddeutsche Zeitung. In primo piano anche su Bbc, sul New York Times, il Washington Post e i britannici Guardian, Telegraph e Mirror. In evidenza anche sul sito di Al Jazeera. Invece in Italia?
Anzaldi: "Vergogna Rai, diretta dalla Puglia solo tre ore dopo lo scontro". Sky prima col collegamento telefonico già a mezz'ora dallo scontro. Poi in diretta con un inviato e addirittura due telecamere. La Rai tre ore dopo. E' la denuncia che il deputato Pd e membro della vigilanza Rai, Michele Anzaldi, ha fatto via Twitter a proposito del tremendo schianto tra due treni in Puglia che ha provocato almeno venti morti e decine di feriti. "Vergogna Rai: incidente Puglia h 11.30, prime immagini h 14.30! Sky con 2 telecamere. 30 dipendenti Tgr Puglia + Rainews: Tg3 al tel con sito locale" è la denuncia di Anzaldi.
L'accusa di Minoli che demolisce la Rai: "Vi dico la verità sulla strage in Puglia". E poi sul canone...scrive Libero Quotidiano il 18 luglio 2016. Per ora, in attesa del suo programma, Giovanni Minoli "debutta" a La7 come ospite a Omnibus. E l'ex volto noto della Rai (che con la Rai ha chiuso con grande polemica tempo fa) non perde l'occasione per cannoneggiare contro Viale Mazzini. La critica riguarda la copertura del disastro ferroviario in Puglia della scorsa settimana. In conclusione della trasmissione condotta da Gaia Tortora, Minoli ha azzannato: "La notizia dell’incidente testimonia l’importanza delle televisioni locali. Montrone con TeleNorba ha preso 10 e lode, ha fatto dal primo istante una copertura straordinariamente approfondita. Seconda SkyTg24, ultima la Rai, che ha pure la sede lì vicino, è arrivata per l'ultima. Poi ti chiedi pure che 'sto canone tutto alla Rai perché fa servizio pubblico, ti viene un dubbio, forse è inutile, magari gliene andrebbe dato mezzo".
L’informazione di TeleNorba, un esempio di professionalità. Le immagini dello scontro dei treni tra Andria e Corato al centro della diretta televisiva di TeleNorba: gli inviati dimostrano grande dedizione e professionalità, scrive Aldo Grasso il 13 luglio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Mentre si cercano di capire le cause dell’incidente ferroviario accaduto tra Andria e Corato, è difficile cancellare dalla mente le immagini dello scontro, i vagoni letteralmente sbriciolati, i pezzi di lamiera volati per decine di metri nella campagna pugliese, ai lati dei binari. È difficile dimenticare le lunghe dirette televisive, costrette tristemente a far la conta di morti e feriti, a raccogliere i disperati singhiozzi dei parenti. Ho passato quasi tutto il pomeriggio e la sera di martedì 12 luglio a seguire la lunga edizione straordinaria prontamente allestita da TgNorba24, il canale informativo di TeleNorba (canale 510 di Sky). Ho seguito la testimonianza di un agente di polizia che quasi non riusciva a parlare: «Ho visto persone morte, altre che chiedevano aiuto, persone che piangevano. La scena più brutta della mia vita». Ho visto la scena del bambino estratto vivo dalle lamiere del «treno bianco» o del «treno giallo» (così i cronisti cercavano di distinguere i due convogli). Ho sentito ripetere all’infinito il nome degli ospedali della zona: Andria, Corato, Barletta, Bisceglie, Bari. A sera inoltrata, un carrello ferroviario ha cercato di spostare una motrice per aprire un varco ai soccorritori, così da verificare l’eventuale presenza di altre vittime nei vagoni accartocciati. Noi abbiamo sempre parlato di TeleNorba, il network fondato da Luca Montrone e ora retto dal figlio Marco, perché è stato una fucina di comici e di artisti (Emilio Solfrizzi, Antonio Stornaiolo, Gennaro Nunziante, Pio e Amedeo, Checco Zalone…), ma anche l’informazione, sotto la direzione di Enzo Magistà, ha svolto un ruolo importante per le Puglie e, più in generale, per il Sud. In simili tragedie non ha molto senso sottilizzare sulla copertura delle reti televisive, tutte fanno quello che possono. Ma mi sembrava giusto sottolineare il lavoro di TgNorba24, i cui inviati hanno dimostrato una dedizione e una professionalità non comune.
Eppure c’è chi parla male del suo direttore.
Magistà definitivamente condannato. Altro che candidato alle regionali, scrive “Polignano web” il 22 Dicembre 2014. Articolo pubblicato su "La Voce del Paese - ediz. Polignano", nelle edicole polignanesi dal 19 dicembre. Magistà, il giornalista condannato e moralizzatore. Spesso adotta il metodo Boffo: vedi il caso del vicesindaco di Polignano, Parco dei Trulli e altro ancora. Il direttore di Fax e TgNorba… altro che candidato alla Regione. Parla Judice, l'ex sindaco vittima del metodo-Magistà: “Quand’ero sindaco valicò i limiti della decenza. Fu umiliato per la sospensione dall’Ordine sul caso omicidio di Meredith”. Sua Magistà Vincenzo, direttore di Fax e TgNorba è stato definitivamente condannato per diffamazione. Ma non è l’unico guaio giudiziario in cui è inciampato colui che, ogni settimana, moralizza dalle pagine di Fax, contro il vicesindaco di Polignano (che non è ancora comparso nemmeno in udienza). Insomma, un condannato che fa la morale a un imputato. Magistà ci sta abituando al peggio: a volte ritorna, senza un chiaro motivo, con editoriali dedicati nei vari comuni (come nel caso del vicesindaco e del megapiano di lottizzazione Parto dei Trulli), altre volte inspiegabilmente scompare. È stato l’ex sindaco di Conversano, avvocato Ciccio Judice a trascinarlo in tribunale e a vincere la battaglia legale, consegnando Magistà alla condanna definitiva. In questi giorni è stato lo stesso Judice a dare notizia della condanna definitiva del direttore, postando un commento sul profilo facebook dell’eurodeputato Raffaele Fitto (vedi foto in basso). Lo ha fatto, perché si è parlato di una ipotetica candidatura di Magistà alle primarie del centrodestra per la scelta del candidato presidente alle regionali di Puglia del 2015, del dopo Vendola. “Sarei il candidato della società civile” – ha fatto sapere Magistà in una intervista. “È una candidatura autoreferenziale, che non potrebbe avere alcun proselito” – replica invece Judice, in una intervista esclusiva rilasciata qui, a La Voce del Paese, nel corso della quale Judice spiega in che modo indecente sarebbe stato “aggredito” da Fax e da Magistà quando era sindaco a Conversano. Nell’intervista che segue, Judice fa apparire altri “scheletri” nell’armadio del direttore.
Avvocato, con quel commento da lei rilasciato sulla pagina di Raffaele Fitto, ha riaperto il passato. Vuole raccontarci cosa è accaduto con il direttore Magistà, con precisione e dettagli? La sua è una vendetta?
“Egregio Direttore, volentieri rispondo alle Sue domande nella speranza di dare un contributo per un costruttivo rapporto tra “informazione” e lettore, di fondamentale importanza per una crescita sociale moderna e democratica. Il mio rapporto con la stampa locale, nella mia lunga esperienza politico-amministrativa, specie l’ultima da Sindaco, è sempre stata di rispetto ed equilibrato confronto. Ciò sino a quando il settimanale “Fax”, diretto dal sig. Magistà Vincenzo, per ragioni legate ad interessi politici locali e di egemonia personalistica, si è trasformata in una agguerrita aggressione a “colpi bassi” e senza soluzione di continuità dal 2006 in poi. I toni giornalistici, specie nello spazio riservato al “redazionale” di prima pagina, sottoscritto dallo stesso direttore, sono andati sempre più in crescendo, senza limiti alla correttezza, per lo specifico scopo di farmi “cadere” dalla mia carica di Sindaco della mia Città. Ma ciò senza successo, in quanto il Magistà ha dimostrato di essere privo di credibilità, tanto che io ho completato indisturbato il mio pieno mandato. Pur tuttavia, avendo le sue peripezie disinformative valicato i limiti della decenza e del lecito è stato da me querelato per il reato di diffamazione a mezzo stampa, avendo offeso gravemente la mia dignità ed onorabilità di uomo, di professionista e di allora rappresentante di Conversano. La Corte di Cassazione penale con sentenza del 26.9.2014, confermando la precedente sentenza di II grado emessa dalla Corte di Appello di Bari, ha, quindi, definitivamente condannato il Magistà per il grave reato a lui da me contestato. Così aprendo la strada alla procedura disciplinare da parte dell’Ordine dei Giornalisti, oltre all’azione di risarcimento danni. Con tale epilogo ho ottenuto una giusta giustizia. Tale mia iniziativa è stata del tutto doverosa, anche al fine di riscattare gli anni di indecoroso attacco personale, attraverso una efficace lezione di vita a carico del mio scorretto “antagonista”, non solo professionale, così da farlo riflettere nelle sue periodiche pontificazioni mediatiche. La mia non ha avuto assolutamente il sapore della vendetta”.
Chi potrebbe a suo avviso candidarsi nel centrodestra alle regionali?
“Di certo nessuno del centrodestra avrebbe interesse a farsi rappresentare, quale candidato alla massima rappresentanza regionale dal Magistà, la cui candidatura, del tutto autoreferenziale, non potrebbe avere alcun proselito, anche per le sue ulteriori trascorse vicissitudini professionali (umiliante sospensione per sei mesi dall’Albo dei giornalistici per la vicenda “Meredith”, sottoposizione a giudizio civile dinanzi al Tribunale di Bari per risarcimento danni da parte della curatela “Treemme srl”, della quale società era stato il rappresentante in consiglio d’amministrazione, nominato dal Consiglio comunale di Conversano, durante il suo unico mandato di consigliere comunale, ecc…). Intrigante, sul piano del confronto politico, sarebbe, invece, lo scontro tra i vertici dei due maggiori schieramenti: Emiliano – Fitto, ambedue di collaudata esperienza, ed in questo momento…non è poco”.
Vorrebbe rientrare in politica? Le piacerebbe tornare a fare il sindaco?
“Quando l’esperienza politico - amministrativa è frutto di volontariato e di amore per la propria gente, privo di ambizioni personali e di “carrierismo”, deve essere ciclico. L’alternanza, anche generazionale, è una garanzia di democrazia e di difesa dei valori della collettività. Pertanto, ho ritenuto giusto, dopo quasi venti anni di contributo alla mia Città in seno al Consiglio comunale ed alla Giunta municipale, ritornare al lavoro che mi appassiona e che mi gratifica quotidianamente. Il ricordo della “politica” rimane perenne, essendo un momento importantissimo della propria vita, specie per le tantissime esperienze di alta umanità e, perché no, anche di …bassa umanità, della quale ho fatto tesoro. Un rientro in “politica” sarebbe un tradimento alla propria scelta di coerenza, anche se continuerò ad interessarmi ed impegnarmi, dal di fuori, ai problemi del mio territorio”.
Come valuta l'operato amministrativo di Lovascio e dei sindaci dei comuni limitrofi (es. Polignano)?
“La carica di Sindaco è particolarmente difficile ed impegnativa, specie per la perenne mancanza di risorse economiche; se poi a questa si associano le emerse carenze di capacità personali dei nostri attuali rappresentanti sindacali, i problemi per i cittadini si complicano. La mia Città né è testimone, vivendo, specie negli ultimi anni, momenti di evidente declino, in particolar modo se rapportata agli ottimi risultati di alcuni comuni limitrofi, in primis Polignano e Monopoli, che hanno sopraffatto, con i loro attuali validissimi rappresentanti politici, le sorti di Conversano, con abilità e meritevole rappresentatività”.
Ciononostante, a dispetto da quanto su detto: “Laurea honoris causa” in marketing a Enzo Magistà (TgNorba). La consegna avverrà lunedì 27 giugno alle ore 17 nell'Aula Magna "Aldo Cossu" del Palazzo Ateneo, scrive "Borderline24” il 21 giugno 2016. Il rettore dell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro, Antonio Uricchio, lunedì 27 giugno alle ore 17 nell’Aula Magna “Aldo Cossu” del Palazzo Ateneo conferirà la Laurea Honoris causa in Marketing al Direttore del TgNorba, Enzo Magistà. L’Ateneo barese ha deciso di riconoscergli il merito di aver promosso la Puglia e il mezzogiorno su scala nazionale, favorendo lo sviluppo sociale ed economico del territorio. Magistà è stato tra i fondatori di Telenorba, nel 1976, e da allora ne dirige l’informazione. La cerimonia si aprirà con la lettura del dispositivo di conferimento della laurea honoris causa da parte del direttore del dipartimento di Economia, Management e Diritto d’impresa, professor Vittorio Dell’Atti. La laudatio sarà tenuta dal professor Ernesto Somma, ordinario di Economia Applicata nella stessa Università. Il direttore Enzo Magistà terrà la lectio su “Comunicare la Puglia”.
Laurea honoris causa a Enzo Magistà, l’inventore del Tg locale. Il riconoscimento dell’Ateneo barese al direttore del Tg Norba “per aver promosso la Puglia e il Mezzogiorno, favorendolo sviluppo sociale ed economico del territorio”, scrive Maurizio Angelillo su "Radio Norba". La buona informazione migliora il territorio e se il territorio migliora cresce anche la sua economia. Il mondo accademico condivide da tempo questa relazione tra mezzi di informazione locali e crescita dell’economia, ma da oggi questa tesi ha un testimonial: Enzo Magistà, da sempre direttore del Tg Norba. Lunedì, il rettore dell’Università degli studi di Bari, Antonio Uricchio, conferirà a Magistà la Laurea honoris causa in Marketing, riconoscendogli “il merito di aver promosso la Puglia e il Mezzogiorno su scala nazionale, favorendo lo sviluppo sociale ed economico del territorio”. La cerimonia si aprirà con la lettura del dispositivo di conferimento della Laurea honoris causa da parte del Direttore del Dipartimento di Economia, Management e Diritto d’impresa, Vittorio Dell’Atti. La laudatio sarà tenuta da Ernesto Somma, ordinario di Economia Applicata. Enzo Magistà terrà invece la lectio su “Comunicare la Puglia”. Sarà l’occasione per celebrare quarant’anni di informazione televisiva locale di Telenorba, un modello a cui tutte le tv locali italiane si sono ispirate. Un modello giornalisticamente creato da Magistà (quando nessuna tv locale aveva inserito organicamente nei palinsesti veri Tg strutturati), in piena sintonia con la missione del Gruppo Norba e del suo fondatore, ing Luca Montrone. Un modello elaborato sulla scuola italiana di giornalismo televisivo, rappresentata dalla Rai, e dalla scuola americana della Cnn, che Magistà ebbe modo con il suo editore e i suoi collaboratori di studiare ad Atlanta. Un modello, quello del Tg Norba, molto imitato, che ha portato Telenorba ad essere la prima tv locale italiana per ascolti. L’alto riconoscimento accademico giunge nel bel mezzo della rivoluzione digitale (inaugurata con la nascita del canale Tg Norba 24, la prima all news locale italiana a diffusione nazionale) e dell’era del web, che vede Magistà in prima linea con il suo bagaglio di studi ed esperienze non solo nella tv ma anche nella carta stampata (è direttore e fondatore del settimanale Fax, fenomeno editoriale di giornale intercomunale) e nella radio, perché Magistà, prima della tv, è stato direttore della primogenita del gruppo, Radionorba, di cui ha diretto per anni l’informazione.
IL BINARIO UNICO E LO STATO RAZZISTA.
Il disastro ferroviario in Puglia sulla tratta Corato-Andria ed il Binario unico del giornalismo italiano. Che fine hanno fatto la mamma e la figlia trovate morte avvinghiate?
La puntualizzazione del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. "Sono 23 le vittime del disastro ferroviario avvenuto in Puglia il 12 luglio 2016 alle ore 11.05 sulla tratta Corato-Andria; 52 i feriti transitati dai pronto soccorsi degli ospedali; 24 le persone attualmente ricoverate, otto dei quali in prognosi riservata, tra cui il piccolo Samuele che 7 anni appena compiuti e che era con la nonna, morta nell'incidente ferroviario. Non ci sono dispersi. I dati sono stati ufficializzati in una conferenza stampa che si è tenuta dal presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano e dal professor Franco Introna, primario di Medicina Legale del Policlinico di Bari il 13 luglio 2016 alle ore 14.30. Otto cadaveri individuati da dettagli: anelli, fotografie o carte che gli infermieri hanno mostrato ai familiari. Per quasi tutti i giornali Giuseppe Acquaviva è lo sfortunato contadino morto sul suo campo. Per “Andria Live”, invece, Giuseppe Acquaviva, 59 anni, di Andria, era disoccupato e viaggiava con la sorella Serafina Acquaviva, detta Lella, 62 anni, anche lei morta nell'impatto. Per “La Repubblica”, invece, era un ragioniere. E poi la chicca. Da più fonti e con più interviste si è parlato che i soccorritori si sono ritrovati anche davanti ad una scena di due corpi esanimi abbracciati: una madre e sua figlia. I loro nomi, però, non risultano tra quelli comunicati dalle autorità come vittime riconosciute o non riconosciute. Sono state ritrovate senza vita una madre e sua figlia, avvinghiate l'una all'altra in quell'ultimo abbraccio istintivo e protettivo. Una scena drammatica che i soccorritori si sono trovati dinanzi agli occhi, non appena giunti sul luogo del disastro, su quel tratto ferroviario a binario unico che collega Bari a Barletta, in Puglia. A raccontarlo sono gli stessi soccorritori all'emittente locale Telenorba ed ad altre emittenti private. Testimonianze su cui hanno ricamato i loro commenti centinaia di giornalisti. "Erano contro un ulivo, la mamma con il suo corpo proteggeva la bimba piccola ed erano in posizione fetale. Sono le prime che ho trovato, in mezzo a teste, braccia, mezzi busti sparsi ovunque sotto gli ulivi", ha raccontato Marianna Tarantini, una volontaria del Ser di Corato, una delle prime ad arrivare sul luogo dell'incidente. Che sia una bufala a cui tutti ci sono cascati? Scrivevano i giornali: Giuseppe Acquaviva, il contadino proprietario del fondo, 51 anni, nato ad Andria il 15.02.1957, faceva il contadino. La mattina dell'incidente lavorava nel suo campo agricolo, che confinava con la ferrovia. Era impegnato nella potatura degli alberi, quando alcuni pezzi dei treni lo hanno colpito in pieno. L'uomo è morto in ospedale. Stava lavorando nel suo campo di fianco al luogo dell'incidente. Poi è arrivato lo schianto, i finestrini che esplodono, i pezzi di ferro lanciati a velocità folle in tutte le direzioni. Uno di questi lo ha colpito in testa. Era arrampicato su un albero, lì vicino alle rotaie, Giuseppe Acquaviva. La sua campagna sfiora la ferrovia, al rumore dei treni che passano non ci faceva più caso. Perché la sua morte è pura follia, un maledetto sbaglio. Ieri mattina stava tagliando i rami, non ha fatto in tempo a voltarsi al boato dei due convogli che si schiantavano. Le lamiere lo hanno investito, i pezzi dei convogli gli sono arrivati addosso come schegge impazzite. Il contadino è morto, la stessa fine dei pendolari e dei passeggeri, lui che sul treno non c’era e non stava andando da nessuna parte. Era lì, a tagliare i rami. L’unica vittima del disastro ferroviario che non è stata recuperata tra i rottami dei convogli. L’hanno trovato sotto il suo albero. «Non aveva alcun segno sul corpo - raccontano i medici del Bonomo - solo un buco impressionante in testa. Non c’era nulla da fare». Adesso quella campagna è un cimitero, solo sangue e lamiere sparse ovunque. Tranne che inserire il nome di Giuseppe nella lista dei morti del treno.
E poi ci sono i commenti degli idioti italici.
“20 terroni deceduti, grande notizia!”, il post razzista fa infuriare Facebook. A poche ore dalla tragedia ferroviaria, compare su Facebook un post razzista di tal Giorgio Cutrera: " 20 terroni deceduti...Grande notizia... - si legge - 20 non sono tanti, ma è pur sempre meglio di niente”. Il web si indigna e lo segnala alla Polizia Postale, scrive il 12 luglio 2016 “Trnews”. Mentre il Salento, come il resto d’Italia resta senza parole davanti alla tragedia che questa mattina ha macchiato di sangue i binari tra Andria e Barletta, qualcun altro sembra che sia riuscito persino a prendersi cinque minuti per ironizzare su questo catastrofico episodio: “20 terroni deceduti…Grande notizia…non sono tanti, ma è pur sempre meglio di niente”. Questo è quanto si legge nel post che ha mandato in furie tutto il popolo di Facebook. “Che dio benedica i malfunzionamenti e i disagi”, si continua a leggere nello status su cui è pubblicata anche la foto dell’incidente ferroviario. Inutile dire che il post sta facendo il giro del web, accompagnato da una valanga di commenti e offese contro l’autore di questo gesto inaccettabile. Il profilo risulta privato, ma è già stato segnalato alla Polizia Postale. Ed ancora...
Tragedia ferroviaria in Puglia, riecco i razzisti social: lazzi e battute sui “terroni morti”, scrive il 12 luglio 2016 Gianmaria Roberti su “Il Desk”. Non sono isolati gli episodi di chi esulta per la strage dei treni. Su Facebook è stato aperto un gruppo per denunciare gli account discriminatori. E’ il corollario permanente di ogni sciagura. L’idiota del web colpisce anche per la strage ferroviaria nel Barese. C’è il razzista da tastiera che scippa il cantautore pugliese Caparezza, trasformando il brano “Vieni a ballare in Puglia” nel macabro “Vieni a scontrarti in Puglia”, didascalia dell’immagine con i treni accartocciati che ha fatto il giro del mondo. Ma sui social sono tutt’altro che isolati i commenti entusiastici. C’è chi esulta per i “20 terroni deceduti”, che “non sono tanti ma è sempre meglio di niente”. Qualcuno si lascia andare al sarcasmo ottuso: “Volevo rassicurare tutti coloro che si sono preoccupati, l’incidente è avvenuto a Bari, non in Italia, potete stare tranquilli!”. Un altro commenta sodisfatto: “Enniente dormo due orette e scopro che in Puglia è avvenuto un incidente, Dovrei dormire più spesso”. E un giovane veneto tal Nicola Destro osserva: “La cosa che più mi stupisce dell’incidente dei treni in Puglia è il fatto che ci siano i treni in Puglia”. Su Facebook è stato aperto un gruppo per segnalare gli account dei razzisti.
Bisogna segnalare che la Puglia, così come tutto il sud Italia, è frequentata da tanti turisti stranieri. Per questi motivi moltissime ambasciate straniere hanno telefonato alle Asl ed alle Prefetture, per avere notizia di eventuali coinvolgimenti di loro connazionali nella tragedia avvenuta sui treni della tratta tra Corato ed Andria. Tratta che collega anche l'aeroporto di Bari, scrive "La Gazzetta del Mezzogiorno".
Strage dei treni: non basta cercare solo i colpevoli, scrive Antonio Tedesco il 12 luglio 2016. Mentre leggiamo i giornali ci coglie una tristezza infinita. Un bilancio drammatico, ancora parziale ma funesto: 23 morti e decine di feriti, uno dei peggiori incidenti ferroviari degli ultimi cinquant’anni in Italia. È difficile trovare le parole e analizzare lucidamente una tragedia di queste dimensioni, l’ennesima per il nostro Paese. Ha ragione Pino Aprile (l’autore di “Terroni”), quando dice che mentre al Nord si costruisce la costosissima, e forse poco utile, TAV Torino-Lione, il Sud viaggia a binario unico. Da anni la Puglia è la meta estiva preferita dagli italiani e da milioni di stranieri ma sconta gravi problemi infrastrutturali, come del resto tutte le regioni del Sud Italia. Scarsi sono gli interventi pubblici e poca è l’attenzione della classe dirigente e della politica locale, spesso di scarsa qualità, sempre meno efficace ed efficiente. Una tragedia, quella di Corato, che ha spezzato la vita a tanti, troppi, studenti e lavoratori pendolari che deve accendere i riflettori sullo stato di arretratezza delle infrastrutture del Sud, perchè negli ultimi anni ha prevalso la cultura che non bisogna fare investimenti nelle regioni meridionali, perchè “c’è la mafia e i politici che rubano” (mentre nel Nord Italia vige la trasparenza e la legalità). Questa perversa “cultura” dominante ha prodotto uno scenario da area sottosviluppata; nel nostro Mezzogiorno ci sono ancora alcune tratte ferroviarie non elettrificate e delle aree completamente isolate (a Matera non arriva il treno ad esempio). Nei prossimi giorni sicuramente ci sarà la caccia al colpevole: errore umano, oppure colpa dell’azienda che gestisce la tratta ferroviaria. Si apriranno commissioni e si accerteranno responsabilità e carenze. Un copione già visto. L’auspicio è che si apra una seria discussione sulla condizione di arretratezza del Sud, costantemente penalizzato da politiche “nordcentriche”. Ci aspettiamo un cambio di rotta, un attenzione maggiore alle difficoltà delle Regioni meridionali, anche nel trasporto ferroviario e aereo. Secondo alcuni dati (citati da Pino Aprile e da altri giornalisti) su 4.560 milioni per le ferrovie negli ultimi anni i governi ne hanno destinati solo 60 per il Sud. Povera Puglia, povero Mezzogiorno d’Italia.
Un fatto è certo. Il Governo centrale usa i fondi europei come finanziamento sostitutivo a quello statale per lo sviluppo del mezzogiorno considerato area svantaggiata, anziché considerarlo aggiuntivo. Essendo appunto fonti europei essi riguardano mini progetti e non un programma ad ampio raggio. Ecco perché quasi tutte le risorse statali vanno spalmate sul centro-nord Italia e per il Sud manca una programmazione. I Fondi Europei sono tre: il FESR (Fondo Europeo di Sviluppo Regionale), il FSE (Fondo Sociale Europeo), il FEASR (Fondo Europeo Agricolo di Sviluppo Rurale). I tre fondi cofinanziano i Programmi Operativi Regionali (POR) e i Programmi Operativi Nazionali (PON). Se si pensa che per le lungaggini burocratiche create ad arte per fomentare la corruzione questi fondi spesso non vengono spesi, ecco come tali finanziamenti per evitarne la scadenza dei termini di spesa, vengano dirottati al centro nord in aggiunta a quelli statali già previsti per opere finanziate di ampio respiro. Insomma il sud: cornuto e mazziato.
Scontro fra treni in Puglia, una tragedia annunciata. Non si investe nelle ferrovie del sud, scrive Giacomo Pellini il 12 luglio 2016 su “Left”. È di almeno 20 vittime e decine di feriti, il bilancio provvisorio dello scontro frontale avvenuto tra due treni delle Ferrovie del Nord Barese. L’incidente si è verificato oggi verso le 11 sul binario unico tra Ruvo di Puglia e Corato, in aperta campagna. «C’è stato uno scontro frontale su un binario unico, alcune carrozze sono completamente accartocciate e i soccorritori stanno estraendo dalle lamiere le persone» ha detto il comandante dei vigili urbani di Andria, Riccardo Zingaro. Subito i soccorsi hanno estratto dalle lamiere un bimbo di pochi anni, che, fortunatamente ancora in vita, è stato trasportato via con l’elicottero. Secondo il presidente della Provincia di Barletta-Andria-Trani, Giuseppe Corrado, il numero dei morti è sicuramente destinato ad aumentare. Il sindaco di Corato, Massimo Mazzilli, ha scritto su facebook che «il disastro è paragonabile alla caduta di un aereo», visto le conseguenze che ha comportato il grave incidente: uno dei treni ha due vagoni rimasti intatti, l’altro solo l’ultimo, e pezzi di lamiera sono sparsi praticamente ovunque. «Faremo chiarezza» ha affermato il premier, Matteo Renzi, esprimendo il proprio cordoglio per le famiglie. Il Ministro dei trasporti, Graziano Delrio, giunto sul posto, ha chiamato immediatamente la società della Rete ferroviaria italiana (Rfi) – che gestisce l’infrastruttura ferroviaria, ed è partecipata al 100% dalle Ferrovie dello stato (Fs) – per chiedere un «supporto alle indagini e supportare le società coinvolte» (che non appartengono a Fs, ma fanno parte della società Ferrotramviaria Spa). E annuncia una Commissione d’inchiesta per chiarire le cause dell’incidente, ancora sconosciute. «Cerchiamo di recuperare il ritardo di decenni per le infrastrutture del sud» diceva sempre Delrio nel 2015, rispondendo dopo un articolo del Mattino, a firma di Marco Esposito, dove si denunciava la sproporzione degli investimenti tra nord e sud del paese nell’aggiornamento 2015 del Contratto di programma con la Rfi. Su 4859 milioni di euro previsti dallo Sblocca Italia e dalla Legge di stabilità 2015, denunciava Esposito, solo 60 sono destinati alla rete ferroviaria del sud, contro i 4799 per il nord. «Per l’esattezza, al Mezzogiorno è destinato il 19 per cento dei nuovi finanziamenti complessivi e l’1,2 per cento se si considerano soltanto quelli ferroviari. Contro il 98,8% di quelli destinati al nord del Paese» conclude poi Esposito. Secondo il rapporto di Legambiente, Pendolaria, 2015, sullo status del trasporto ferroviario pendolare nel nostro paese, l’Italia viaggerebbe a due velocità diverse: da una parte treni ad Alta velocità sempre più moderni e veloci, in costante aumento a causa dell’aumento progressivo degli investimenti (+7% nel 2015), dall’altra una diminuzione degli Intercity e dei collegamenti a lunga percorrenza (-22,7% dal 2010 al 2014). Dal rapporto emerge come vi sia un grande divario tra il nord e sud Italia, dove i treni regionali sono vecchi, lenti e dove, ogni giorno, tra Campania, Molise, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna ne transitino meno rispetto alla sola Lombardia. Legambiente denuncia anche come la maggior parte delle linee non sono elettrificate e a binario unico, cosa che – come abbiamo appreso, purtroppo, dall’episodio di oggi – rende i viaggi nelle regioni del sud insicuri e pericolosi. C’è poi il caso di Matera, capitale europea della cultura nel 2019, patrimonio dell’Unesco, che è l’unico capoluogo di provincia italiano non coperto dalla rete ferroviaria. Anzi, Matera una stazione ce l’ha, ma non è attiva: i lavori per la sua costruzione cominciarono nel 1986, ma non furono mai terminati. Una città che non esiste, per Fs. Per riparare al danno, le Ferrovie hanno lanciato la formula «Freccia link», collegando la stazione di Salerno – coperta dalle Tav – con dei pullman diretti nella città lucana. Forse Trenitalia – partecipata al 100% da Fs – è troppo impegnata nell’acquisto della società ferroviaria greca Trainose, per la quale ha investito ben 100 milioni di euro, come ha recentemente denunciato il deputato di Sinistra Italiana, Franco Bordo, «Il nuovo management di Trenitalia, invece di fare operazioni estere, pensi alle decine di migliaia di pendolari che ogni giorno vivono sulla loro pelle la drammatica situazione in cui versa il nostro sistema ferroviario», ha sostenuto il parlamentare, che ha poi concluso: «Il trasporto pendolare dovrebbe rappresentare una priorità per l’azienda, non le acquisizioni all’estero». Ma intanto in Puglia è già successo l’irreparabile.
I corpi fra gli ulivi della mia Puglia dimenticata dall'Alta velocità, scrive Tony Damascelli, Mercoledì 13/07/2016, su “Il Giornale”. Furgoni funebri tra gli ulivi. Polvere rossa sollevata dagli elicotteri. L'aria è afosa, pesante, soffocante. Sembra aggiungere ansia alla tragedia. Si cercano vite, si contano i morti. Non è possibile. Sì, qui è possibile. Tredici chilometri e un solo binario dividono Andria da Corato. Un binario, unico, solo, per una terra, il Sud, la Puglia, le Puglie, come ci insegnavano a scuola, per quanto lunga è questa terra piena di contraddizioni e di luce e di solitudine, dimenticata da chi discute, parla, scrive e decide sull'alta velocità, privilegio e premio di un'altra e alta Italia. Ulivi secolari, come guardiani, lungo i fianchi di questi due convogli. Stavolta non sono loro a piangere, prosciugati dalla xylella cattiva e malvagia, stavolta osservano la morte degli uomini, la fine tragica di un viaggio, improvvisamente interrotto, lungo una curva che ha negato la possibilità di scorgere, di vedere, di salvarsi. Piange la Puglia di Banfi e dei Negramaro, piange la Puglia di Arbore e di Mimmo Modugno, piange come sa fare da sempre, amara terra mia ma senza l'elemosina delle proprie lacrime, abituata a soffrire e a offrire, le pepite della sua natura, del suo mare, del suo sole. Ma questo, oggi dodici di luglio, non conta nulla, i turisti restano attoniti, disarmati, in disparte, rispettosi del dolore altrui. Niente sagre, spente le luminarie. È l'ora del silenzio. La Ferrotramviaria ha ottant'anni di storia, fondata da Ugo Pasquini, conte di Costafiorita. Il servizio fa il suo lavoro quotidiano, pendolari, studenti, viaggiatori qualunque. Ha pronti i grandi progetti per raddoppiare i binari, per interrare le linee proprio nella zona di Andria. Ma la burocrazia sconfigge l'intelligenza, tutto bloccato. La scena del disastro sembra una beffa. Due treni si sono sfidati su quella striscia nera, correndo uno contro l'altro, per errore umano. Non si sa di chi. Si sa quando. Uno dei due non doveva essere lì, non doveva lasciare la stazione di partenza, non doveva. Lo ha fatto. L'Et 1016 che avrebbe dovuto lasciare la stazione di Corato alle 10.48 e arrivare ad Andria alle 10.59, forse viaggiava in ritardo. Secondi fatali. L'altro, l'Et 1021, partito da Andria alle 10.58, avrebbe raggiunto Corato alle 11.09. Alle undici, l'incontro. Lo scontro. Le voci dei politici disturbano il dolore, il silenzio, il cordoglio. Ronzano i loro commenti, come zanzare maledette, parole inutili, un repertorio di sempre, annunciano indagini, promettono la verità, preannunciano commissioni di inchiesta. Il sole di Puglia non concede luce a questa storia improvvisa. Una madre abbracciata alla figlia. Giacciono, morte. Sembrano addormentate. L'ultimo sonno, ultima atroce immagine di una fine improvvisa, il tentativo di proteggere la vita, accucciandosi davanti all'arrivo della morte, il gesto eroico di una genitrice verso la propria speranza, la coscienza che ormai non c'è più, nulla oltre le lamiere stracciate, gli schizzi di sangue, le urla di strazio. Il silenzio della morte nella carrozza dove si parlava della vita, scherzando, ascoltando la musica, sognando come in un qualunque giorno. Adesso un giorno diverso. Mille figure continuano ad agitarsi negli uliveti: ministri, governatori, prefetti, sindaci, infermieri, medici, e poi parenti, amici, volti di cera, disperati, angosciati, alla ricerca di una voce, di una semplice parola, una promessa, un'illusione, i due convogli sono come mostri giurassici accartocciati, cambia la luce del giorno, il frinire delle cicale rompe il silenzio tra gli ulivi, il palazzetto dello sport di Andria raccoglie le bare di zinco e di noce. La sera, come sempre, porta il dolore della speranza ormai inutile. Quella madre e la sua bambina non dormono più abbracciate.
La solidarietà dei vip pugliesi. Uno dei primi è stato Giuliano Sangiorgi, il cantante dei Negramaro. E poi Lino Banfi, e Flavia Pennetta: dal mondo dello spettacolo a quello dello sporti, il dolore di volti e nomi noti per la tragedia ferroviaria nel Barese.
Sangiorgi, su Facebook, pubblica l’immagine di un binario e scrive: “Sono su un treno qualunque che mi porterà verso giorni di musica e bellezza. Ma oggi il cuore è sospeso. Come se non lo sentissi più battere. Sento solo il suono delle rotaie che mi porta altrove...nella mia terra. Oggi l’oro perlato degli ulivi si è tinto di rosso. Ogni pensiero è rivolto a quelle persone che hanno perso la vita su un binario che taglia in due la Puglia e da oggi... anche l’anima di tutti noi”.
E su Twitter il dolore di Lino Banfi, originario proprio di Andria.
E su Facebook anche il messaggio di Al Bano, che parla di immane incredibile disgrazia.
Raf, che dedica un pensiero alla sua terra ferita.
Un cuore e le mani giunte in segno di preghiera, questo il messaggio affidato ai social network da Emma Marrone, che seppur nata a Firenze si è trasferita da piccola ad Aradeo, in Puglia, terra d’origine dei genitori.
E su Twitter anche il messaggio dei Sud Sound System.
Su Facebook l’appello di Mietta, nata a Taranto.
E affidano a Twitter il loro messaggio anche due tenniste azzurre di origini pugliesi: Roberta Vinci, tarantina, e la brindisina Flavia Pennetta.
LA MORTE CI RENDE UGUALI.
Serafina Acquaviva, nata ad Andria il 14 maggio 1954, 62 anni. Viveva ad Andria insieme al fratello Giuseppe e faceva la casalinga. Nessuno dei due si era mai sposato. Martedì erano andati insieme all'ospedale di Bari perché lei era andata a fare alcuni controlli neurologici
Giuseppe Acquaviva, nato ad Andria il 15 febbraio 1957, 59 anni. Viveva ad Andria insieme alla sorella Serafina. Nessuno dei due si era mai sposato. Inizialmente è stato scambiato per un contadino perché il suo corpo è stato ritrovato nei campi, invece era anche lui sul treno, a fianco di sua sorella. La sorte ha deciso che, oltre a vivere insieme, morissero nell'abbraccio mortale delle lamiere. Giuseppe e Lella Acquaviva, fratello e sorella uniti in un destino inesorabile, scrive “Andria Live” il 14 luglio 2016. «Erano persone affettuose, amavano camminare insieme. Stavano andando in Policlinico perché mia zia doveva effettuare un esame e una visita specialistica». Giuseppe e Lella (all'anagrafe Serafina) Acquaviva, fratello e sorella, 59 e 62 anni, erano su quel treno: la sorte ha deciso che, oltre a vivere insieme, morissero nell'abbraccio mortale delle lamiere. Una vita «umile, riservata, fatta di affetti semplici, di passeggiate insieme», ci racconta una nipote. Il sig. Giuseppe non era un contadino: diplomato aveva conseguito il diploma di maturità commerciale, ma ultimamente svolgeva lavoretti occasionali: aiutava tante persone e accudiva la sorella, di salute precaria e invalida. Entrambi mai sposati, vivevano da sempre insieme, per accudirsi vicendevolmente. Una storia semplice ma terribile, di una famiglia che nel disastro ha perso ben 2 membri: «Erano persone affettuose, amavano camminare insieme. Stavano andando in Policlinico perché mia zia doveva effettuare un esame e una visita specialistica». Non un contadino raggiunto dalla morte mentre lavorava nei campi, dunque, ma un passeggero come gli altri che è andato, accanto alla sorella, incontro a un destino inesorabile.
I macchinisti, capotreno e capostazione: Pasquale Abbasciano, di Andria, nato ad Andria il 17.04.1955, era uno dei due macchinisti. A fine anno sarebbe andato in pensione. Amava il suo lavoro e la campagna, coltivava ciliegie. Dopo il lavoro doveva andare ad Andria per raggiungere la figlia che era in Comune per le pratiche preliminari del matrimonio. A quanto si apprende, inoltre, qualche anno fa Abbasciano sarebbe rimasto coinvolto in un deragliamento leggero dello stesso treno ma senza conseguenze. Luciano Caterino, 37 anni, nato a Ruvo di Puglia il 29.04.1979, originario di Corato (Bari), era invece il macchinista del convoglio giallo proveniente da Bari. L'uomo nell'impatto è rimasto dilaniato. Si sarebbe sposato a breve. Il suo corpo è stato dilaniato dal tremendo impatto e recuperato a brandelli. La sua è una perdita che colpisce tutta la comunità di Corato". Così Massimo Mazzilli, sindaco del comune pugliese, ricorda Caterino. "Luciano - prosegue il sindaco - viene da una famiglia apprezzata in paese e so che il papà, un lavoratore autonomo, era rimasto vedovo da poco. Era uno che si dava da fare per vivere e so che stava preparando il suo matrimonio che era imminente. Alla notizia della sua perdita la famiglia si è chiusa in se stessa. In serata conto di incontrare i suoi cari per porgere a nome di tutta Corato il senso del nostro cordoglio". «Un grande lavoratore, un grande collega, un grande amico» dicono i colleghi della Ferrotramviaria. Tutti preferiscono il silenzio, almeno per ora: «è difficile riprendere a lavorare o anche solo a pensare». Albino De Nicolo, 53 anni di Terlizzi, nato a Terlizzi il 23.01.1959, capotreno, finora dato per disperso nella strage ferroviaria avvenuta ieri mattina sulla Andria-Corato, è ufficialmente tra le vittime accertate. Il capotreno terlizzese, 53 anni, è stato identificato già ieri presso il Policlinico di Bari. Nicola Gaeta, nato a Bari il 16.01.1960, capostazione.
Michele Corsini, 61 anni, nato a Milano il 20.02.1955, originario di Barletta, si muoveva tra la città natale, dove gestiva un bar, e Bergamo. La mattina dell’incidente aveva preso il treno per arrivare a Barletta dall’aeroporto di Bari Karol Wojtyla.
Maurizio Pisani, nato a Pavia il 26,08,1966, 49 anni, originario di Pavia, laurea alla Sda Bocconi, era il fondatore della Pisani Foor Marketing. Stava andando a prendere l'aereo per tornare a Milano, lascia una bimba di pochi anni. Viveva a Milano e proprio nel capoluogo lombardo stava tornando dopo aver passato del tempo con la figlia e la moglie (che non si trovavano sul treno) in Puglia. Cristina Chiabotto in lacrime. Nell'incidente ferroviario in Puglia che è costato la vita a un suo amico vip, un volto dell'imprenditoria e anche del piccolo schermo. Si tratta di Maurizio Pisani, 49 anni. Esperto di marketing, era uno dei giudici de La ricetta perfetta, il talent culinario condotto dall'ex Miss Italia. "Svegliarsi questa mattina e sapere che sul quel maledetto treno c'eri anche tu, Maurizio", scrive l'ex Miss Italia, "è stato un onore lavorare con te, porterò sempre nel cuore il ricordo di una tua battuta, la tua calma, la tua ironia, la tua grande professionalità e l'amore immenso per tua figlia, proprio lei che stavi correndo ad abbracciare e che raccontavi con tanta luce negli occhi". Il talent della Chiabotto è andato in onda suLa5, una delle reti digitali del gruppo Mediaset. "E' un duro colpo ed è proprio vero come la vita possa cambiare in un istante", continua la showgirl," in quel brutto gioco del destino, su un treno pronto ad unire tante anime. Il gruppo della Ricetta Perfetta vola nel tuo ricordo e stringe con un abbraccio immenso i tuoi cari. Bello averti incontrato sul mio cammino". Maurizio Pisani è stato il fondatore della Pisani Food, agenzia di consulenza e outsourcing di strategia, marketing, vendite e training legati al mondo del food. Il manager durante la sua carriera aveva lavorato nelle aree marketing di alcune delle aziende più importanti del mercato food & beverage italiano.
Maria Aloysi, 49 anni, nata a Bari il 4.10.1966, viveva a Modugno ma tornava spesso ad Andria per far visita al padre. Lascia il marito Donato e i figli LeoMarco e Andrea. Stava tornando verso Bari dopo aver passato alcuni giorni ad Andria ad assistere il padre. "Ha preso il treno all'ultimo minuto: quella mattina era molto in ritardo ma alla fine ce l'ha fatta". A parlare è Giuseppe Colaleo, cognato di Maria Aloisi, 49 anni, morta nell'incidente ferroviario avvenuto in Puglia. "Su quel treno - racconta l'uomo - avrebbe potuto esserci mio fratello: ogni giorno si davano il cambio" per assistere un loro parente. "Mio fratello l'ha accompagnata al treno - aggiunge - e quando ha visto le immagini in tv si è fatto il segno della croce". Maria Aloisi inizialmente era tra i dispersi: "Abbiamo vagato per tutti gli ospedali, alla fine ci hanno mandati al Policlinico di Bari", dove oggi ci sono stati i riconoscimenti delle vittime. "Mio fratello - precisa - ha spiegato che sua moglie aveva una collana con una lettera 'M' come ciondolo, e che aveva una cicatrice sul labbro superiore. Insomma, segni di riconoscimento". A questo punto, aggiunge, "una infermiera ha detto è probabile sia qui". Maria lascia due figli, di 21 e 28 anni.
Benedetta Merra, nata ad Andria il 18.06.1964, 52 anni di Andria, si stava recando a Bari per alcuni controlli medici.
Rossella Bruni, nata a Trani il 16.03.1994 22enne la cui famiglia è originaria di Martina Franca, una delle vittime dell’incidente ferroviario di Corato. Non c’è la formalizzazione di un elenco delle vittime per ora ma la comunicazione del sacerdote non lascia speranze. Fra l’altro, Michele, papà di Rossella, era catechista in quella parrocchia ed ha comunicato la notizia al prete. Rossella, con la sua famiglia, viveva da anni ad Andria dove il padre è funzionario comunale. Blogger, scrittrice, attivista per i diritti delle donne, la giovane originaria di Andria scriveva su "Il ritorno di Gea" con il nickname Malinii Paroliera.
Julia Favale, nata in Francia il 04.07.1965, nata a Chalon-sur-Saône, era docente di conversazione francese. Aveva lavorato presso al Liceo Classico di Andria, dove viveva, e presso il Liceo Scientifico di Barletta.
Enrico Castellano, nato a Ostuni l’1.1.1942 aveva 72 anni. 74 anni, fratello del giornalista della Gazzetta del Mezzogiorno, Franco. Viveva tra Torino e Cuba. Da tempo viveva a Torino ed era un dirigente del Banco di Napoli. Dopo la pensione tornava più spesso in Puglia. Lunedì era atterrato a Bari per andare a trovare il figlio in occasione del compleanno del figlio di due anni. La festa era stata organizzata per martedì che sarebbe poi coincisa con il giorno del suo onomastico, come ha raccontato il figlio Giuseppe che ha ricordato il padre: "Mi avevi abituato ad attenderti e a farti desiderare…e un po’ mi piaceva… perché rivederti era un segno di conquista e di grande appagamento. C’erano le nostre chiacchierate che parlavano di mesi trascorsi lontani l’uno dall'altro. Mi hai insegnato a vivere in modo spensierato e sfrontato trovando il giusto equilibrio tra la follia e la razionalità. Amavo il tuo stile, la tua infinita classe. Però quest’ultima parte del tuo infinito libro non l’avrei mai voluta leggere".
Donata Pepe, 60 anni, nata a Cerignola il 03.10.1953, originaria di Terlizzi, è la nonna del piccolo Samuele, il bambino trovato ancora vivo tra le macerie e salvato dai soccorritori. Donata ha salvato la vita al nipote Samuele. Il bambino di 6 anni era tra le sue braccia quando c’è stato lo scontro ed è stato salvato dai vigili del fuoco. Stavano andando a Barletta per prendere una coincidenza per Milano e tornare a casa dai genitori. Il piccolo era in Puglia per passare qualche giorno di vacanza con la nonna. “Stavo dormendo sulla nonna, e poi c’è stato quello scoppio fortissimo”, è riuscito a dire Samuele agli zii. Il ragazzino è ricoverato in prognosi riservata, ma non in pericolo di vita. Piangeva, il piccoli Samuele di 6 anni appena, con le lamiere che gli comprimevano il petto e anche il pianto era un dolore in più. Aveva tanto male, tanta paura e cercava la nonna con cui era in vacanza in Puglia. Tornavano da una gita a Bari. Non poteva muoversi incastrato tra i rottami del treno. «Tranquillo, non avere paura. Adesso ti tiriamo fuori noi», i soccorritori gli parlano con calma e con dolcezza anche se non c’è un attimo da perdere e le mani si muovono con ansia tra i sedili accartocciati. Ma Samuele continua a piangere. «Guarda qui», una delle persone che cercano di salvarlo gli mostra i cartoni animati sul telefonino. E mentre il bimbo con gli occhi pieni di lacrime si distrae con il cellulare, i soccorritori muovono le lamiere piano piano. Gli “angeli” sono scesi dal Drago 52, l’elicottero dei vigili del fuoco intervenuto sul luogo dell’incidente. Appena a terra hanno sentito le urla di un bimbo che si trovava dietro un sedile con un pezzo di lamiera che gli comprimeva il petto. Samuele è stato tirato fuori dai rottami, caricato sull’elicottero e portato in ospedale. Samuele è in un lettino del reparto pediatria con schegge di vetro nel corpo. «Gliele stanno ancora togliendo» dicono i medici che cercano in tutti i modi di proteggere questo cucciolo.
Fulvio Schinzari, nato a Galatina il 31.10.1957, era stato commissario a Canosa di Puglia e Trani. Il corpo dell’uomo è stato riconosciuto da un collega poliziotto che stava lavorando ai soccorsi. Stava tornando al lavoro dopo le ferie il vice questore aggiunto della Polizia di Stato Fulvio Schinzari, una delle vittime della tragedia ferroviaria. Da Andria, dove viveva con la moglie e due figlie (in un primo momento si era diffusa la notizia, poi smentita, che anche una di loro si trovasse sul treno), era diretto a Bari: qui, esattamente quattro anni fa, aveva assunto l'incarico di dirigente dell'ufficio del Personale della Questura. 59 anni, nato a Galatina (Lecce), Schinzari ha svolto tutta la sua carriera di poliziotto in Puglia. Ma nei ranghi della Polizia di Stato non è entrato subito. Dopo la laurea in Giurisprudenza, nel 1985, per quattro anni ha fatto l'avvocato. Nell'ottobre del 1989 è entrato nei ruoli dei funzionari della Polizia, dove ha ricoperto diversi incarichi. Il primo, per circa un anno, a Bari: funzionario addetto alla Squadra Mobile. A seguire, per un lungo periodo, da fine '91 a inizio 2000, è stato funzionario al Commissariato di Barletta con incarico di responsabile della squadra di polizia giudiziaria e poi, dal 2000 al 2002 ha diretto il Commissariato di Canosa di Puglia. Dal 2002 al 2005 è stato responsabile del settore Sicurezza e Protezione Civile presso il Comune di Andria e a seguire, per due anni, ha diretto il Commissariato di Corato. A Canosa, come dirigente del Commissariato, è tornato nel febbraio 2007: qui è rimasto fino al giugno 2012, quando ha assunto l'incarico di Dirigente dell'Ufficio del Personale della Questura di Bari: stava raggiungendo l’ufficio a Bari da Andria, dove abitava, per prendere servizio alle 14 dopo un periodo di ferie. «Era un poliziotto atipico», dice chi lo conosceva. La musica era la sua grande passione. «Dove sei?», chiede una signora all’amica. Sono le 15 del giorno più lungo ad Andria. «Sono in ospedale, ho accompagnato la moglie di Fulvio. Lo sta cercando, lui prende sempre quel treno. In ufficio non c’è, al cellulare non risponde...» Un urlo senza fine, la telefonata s’interrompe. È la moglie del vice questore aggiunto di polizia Fulvio Schinzari, di 59 anni. Le hanno appena detto che il marito era sul treno maledetto, il suo corpo è lì in ospedale. E lei grida tutto il suo dolore, grida finché non le manca l’aria. Fulvio Schinzari era uno dei tanti pendolari di quella linea. Viveva ad Andria e lavorava alla questura di Bari, tutti i giorni avanti e indietro. Si temeva che con lui ci fosse anche la figlia, spesso viaggiano insieme. Ma la ragazza ieri mattina non era sul convoglio accanto al padre. Lascia due figlie. Era appena tornato dalle ferie e stava andando a Bari dove 4 anni fa aveva assunto l’incarico di dirigente dell’ufficio del personale.
Antonio Summo, nato a Terlizzi il 12.11.2001, aveva 15 anni e stava tornando a casa, a Ruvo di Puglia, dopo aver partecipato a un corso di recupero per gli esami di riparazione nel suo istituto superiore a Andria. Era andato ad Andria per sostenere due esami di riparazione. Il destino lo ha fermato tra un esame e l’altro: la mattina aveva sostenuto la riparazione in una delle materie di cui aveva il debito, il professore lo aveva invitato a tornare a casa a riposarsi e tornare nel pomeriggio. Non doveva neppure andare a scuola Antonio Summo, 15 anni (nella foto sopra), Antonino per chi lo conosceva. Ieri aveva mal di pancia e suo padre gli aveva detto di non andare ad Andria. Ma Antonio ha insistito, “papà devo recuperare due debiti formativi, lo sai”. I genitori lo hanno riconosciuto dalla borsa, dai libri, dai pantaloncini e dalle scarpe da ginnastica. “Un ragazzo eccezionale, suonava la tromba al Conservatorio”, ricorda la zia Pasqua Livorti. Seconda superiore all’industriale di Andria, e una lezione finita fatalmente prima. “Il professore li ha mandati a casa in anticipo”. Alla stazione del suo paese, a Ruvo di Puglia, c’era il nonno ad attenderlo. Purtroppo invano. Il 30 giugno, Antonio aveva superato il test d’ingresso al «Piccinni», il conservatorio di Bari, come trombettista. Era orgoglioso di quel successo, se ne faceva vanto con suo padre, artigiano titolare di una falegnameria nella zona industriale, e sua madre, casalinga. Ma più ancora con suo fratello e con gli amici. Era tanto felice di poter rendere professionale lo studio della tromba che la sbavatura all’industriale era passata in secondo piano. Oggi e domani di sarebbe dovuto esibire in due uscite con la banda di paese. Esibizioni sospese, ovvio, perché Ruvo è in lacrime. Il padre non voleva che sostenesse gli esami, ma lui aveva insistito: «Non ti preoccupare papà. Io vado» gli aveva risposto. I genitori lo hanno cercato invano tra i feriti in tutti gli ospedali della zona. Sul foglietto bianco si legge: «Dal presidente da tutta la società Real football». Poi, un genitore che ha accompagnato i ragazzi, ricorda Antonio come «un giovane tranquillo, sorridente, educato», e con la «passione per il calcio. Un ragazzo che amava giocare a pallone ma a cui piaceva anche molto suonare», precisa mentre i giovani amici ricordano che «l’ultima partita a pallone insieme l’hanno giocata a giugno, per il campionato».
Jolanda Inchingolo, nata ad Andria il 10 12.1991, 25 anni, studente di Lettere e Filosofia (per altre fonti stava andando a Bari per il tirocinio prima di conseguire la laurea in Chimica). Si doveva sposare il prossimo settembre con, il ragazzo che ora urla disperato. Stava andando a Bari anche per incontrarlo. E’ stata riconosciuta da un anello con una pietra nera che portava al dito, non lo toglieva mai. Jolanda stava andando a Bari proprio per incontrare lui. Amava il suo fidanzato e amava Parigi. Sul suo profilo c’è la Torre Eiffel, e il giorno dopo gli attentati terroristici di un anno fa aveva messo la foto di loro due, modificata con i colori della bandiera francese. “Aveva un unico desiderio: fare la mamma. E chissà quanto sarebbe stata bella”.
Patty Carnimeo, 30 anni, nata a Modugno l'1.11.1985, che lascia una figlia di due anni e mezzo. "Era originaria di Bari - racconta sua zia - ma si era trasferita ad Andria dopo il matrimonio. Era un angelo, bellissima e dolcissima". Altre amiche precisano che Patty faceva l'estetista e veniva tutti i giorni a Bari per lavoro: "Prendeva sempre quel treno, non ce lo saremmo mai aspettato". "Come si fa - domanda sua zia - a spiegare a una bimba di due anni e mezzo che tua madre non c'è più? Come crescerà quella bambina senza una mamma?
Gabriele Zingaro, nato ad Andria il 30.10.1999, 23 anni di Andria. Studente di Scienze dei materiali e Perito industriale diplomato all’Istituto Tecnico Industriale Onofrio Jannuzzi e appassionato di musica. Gabriele faceva il metalmeccanico, aveva da poco trovato lavoro in una fabbrica di Modugno. Si era recato al Policlinico di Bari per farsi controllare una ferita a un dito che si era procurato in un infortunio sul lavoro. «Aiuta qualcuno. Nel dubbio. Aiuta Qualcuno» scriveva come motto sul suo profilo Facebook.
Francesco Ludovico Tedone, nato a Terlizzi il 4.01.1999, 17 anni, di Corato, appassionato di videogiochi: Francesco ha trovato la morte sul treno mentre tornava verso casa. Il giovane era uno studente dell’Itis Jannuzzi di Andria: «Era tornato alla nostra scuola dopo aver frequentato il quarto anno di informatica in Giappone con l'organizzazione Intercultura. Era stato in segreteria per l’iscrizione alla quinta classe che avrebbe frequentato da settembre» lo ricorda uno dei suoi professori su Facebook.
Salvatore Di Costanzo, nato a Bergamo il 2 11.1959, 56 anni, del quartiere Colognola di Bergamo. Di Costanzo, di professione agente di commercio, era noto nella Bergamasca per essere allenatore del calcio provinciale. Ieri pomeriggio si sarebbe dovuto recare ad Andria per un appuntamento di lavoro: volato di prima mattina da Orio al Serio, era atterrato all'aeroporto di Bari, ma dopo un sms inviato a un amico, di lui non si era avuta più traccia. Nella serata di ieri il suo nome non era tra quelli delle vittime accertate, ma verso le 22, non avendo avuto comunicazioni di alcun tipo, la moglie e il figlio Marco erano volati direttamente in Puglia per capire la situazione poi la conferma con il riconoscimento della salma da parte del figlio Marco.
Alessandra Bianchino, di Trani, aveva 29 anni, nata a Trani il 5.11.1987, viveva a Andria e, come scriveva sul suo profilo Facebook, lavorava all'Oratorio giovanile salesiano della città. Sempre disponibile per il prossimo, Alessandra Bianchino, 29 anni, natali a Trani, una laurea in Scienza dell’Educazione e un impegno sin da piccola nell'oratorio dei Salesiani di Corso Cavour ad Andria. Nel mondo dell’associazionismo e del volontariato la conoscevano tutti ad Andria. A partire dai volontari dell’Avis, impegnati da ieri in una straordinaria gara di solidarietà per la raccolta di plasma. Una esperienza tante volte condivisa con lei che già da bambina aiutava in Chiesa e frequentava il catechismo prima di proseguire il suo impegno all’insegna della solidarietà all’oratorio. Chi la conosceva - come Giampaolo, un amico d’infanzia - la descrive come «una ragazza dolce, affabile, piena di voglia di vivere». Sembra fosse di ritorno dall'aeroporto di Bari dopo un breve soggiorno a Milano da parenti.
Giovanni Porro, l'ultimo a essere identificato è stato, nato ad Andria l’1.06.1956, 60 anni, di Andria, che lavorava presso la Comunità Montana di Ruvo e si stava recando lì. Giovanni Porro, “ultimo” tra gli sventurati. A casa non c’era nessuno ad aspettarlo e nessuno poteva immaginare il suo triste destino, scrive Sabino Liso su “Andria Live” il 15 luglio 2016. Porro Giovanni, andriese classe 1956. Chi ha avuto modo di conoscerlo lo ricorda come una persona schiva, molto umile; viveva da solo, non aveva né moglie, né figli ad aspettarlo a casa. Un fratello e una sorella con i quali non si sentiva assiduamente. Martedì si stava recando a Ruvo, presumibilmente, sul posto di lavoro: era impiegato presso la Comunità Montana. «Ultimamente – ci racconta suo nipote Francesco– era ossessionato da un fantomatico trasferimento professionale a Bari. Aveva me come punto di riferimento, si era allontanato da tutti. Ha vissuto nell’ultimo periodo una fase difficile della sua esistenza ma cercava di andare avanti nonostante tutto. Schivava l’aiuto degli altri; piuttosto, assisteva le persone in difficoltà. Un modo per reagire alla vita che è stata caratterizzata da innumerevoli delusioni, fino all’ultimo». Martedì non ha detto a nessuno che stava uscendo di casa e nessuno avrebbe potuto immaginare che fosse su quel treno maledetto che alle ore 11.00 si è andato a schiantare. È stato l’ultimo tra le vittime ad essere riconosciuto presso l’ospedale di medicina legale di Bari. Ad effettuare il riconoscimento della salma c’erano Francesco e sua moglie Ketty. Francesco ci racconta che dopo aver appreso della tragedia ha subito chiamato al cellulare suo zio, inviando anche innumerevoli messaggi, ma senza avere risposta. Questo è accaduto fino alle sera di martedì. Conseguentemente si è recato a casa sua ma anche lì non c’era traccia della sua presenza e nemmeno i vicini sapevano dare notizie sul suo conto. Ha pensato di andare a dichiarare la sua scomparsa al palasport dov’era in corso il censimento dei dispersi ma anche lì Giovanni Porro non compariva in nessuna lista né degli infortunati e né dei deceduti. Lì uno spiraglio di luce, che purtroppo svanisce quando viene esortato dalla Polizia a recarsi a Bari. Ci è voluto poco per capire che, forse, tra le 23 vittime c’era anche suo zio. Poi la corsa all’istituto di Medicina Legale e la triste scoperta. È morto a 60 anni Giovanni Porro, ultimo tra gli sventurati. Problemi di socializzazione accelerati da qualche sfortunata circostanza di troppo. L’infinito, ora, potrà dargli tutto ciò che in vita non è riuscito a prendere. A guardare la sua foto, Giovanni aveva in sé una bellezza che solo i “vinti” sanno trasmettere. Una bellezza che ci invita a riflettere sull’importanza di non rimandare a domani le carezze, una pacca sulla spalla, una parola di conforto verso chi è più debole. Verso gli ultimi.
Le testimonianze dei sopravvissuti. Le testimonianze raccolte dal cronista di Tele Sveva subito dopo l'incidente tra Andria e Corato. Una signora ai microfoni di Tg Sveva: "Ho liberato mio marito togliendo le macerie con le mani". Volontario della Protezione civile: "Numerosi bambini si sono messi in salvo da soli scendendo dalle vetture". «L’ho tirato io da sotto le macerie», dice sconvolta una sopravvissuta. «Io scalza», continua. «E sono andata da mio marito che gridava». «Io non mi ricordo niente» dice il marito di lei. Confuso. Incredulo. Una ferita alla testa: «Gambe e piedi delle persone a pezzi». Poi riprende la moglie: «Scavalcare è triste», e si riferisce ai corpi che ha dovuto superare per aiutare il marito ad uscire dalle lamiere. «Ma per gli altri non potevo fare niente. Stavano le loro gambe in un altro posto». “Quel rumore, non lo dimenticherò mai. E poi il buio, i lamenti. Le grida, tante grida. Riesco ad alzarmi, comincio a camminare, mi accorgo che sotto di me ci sono dei cadaveri. Li pesto, vado avanti. Cerco Matteo, mio marito. Urlo il suo nome, ma lui non mi sente. Poi riesco a trovarlo: è incastrato nelle lamiere. Scavo con le mani, cerco di togliergli di dosso quei pezzi di ferro. Alla fine ci riesco, non so neanche io come, e attraverso un buco del treno lo porto fuori. Restiamo lì, abbracciati.” Questa è la storia di Giuseppina Rutigliani, la donna sopravvissuta al disastro ferroviario che ha salvato il marito. Giuseppina e Matteo sono sposati da 40 anni e si sentono miracolati, sono sopravvissuti. Non è stato così per gli altri 27 passeggeri del treno maledetto. Un altro testimone ha aggiunto: “Stavo ascoltando la musica, poi mi sono trovato a terra senza riuscire a muovermi. Ho visto anche il controllore che purtroppo era bloccato e insieme ad altri abbiamo aspettato i soccorsi. Non doveva succedere”. Una studentessa universitaria ci racconta tra le lacrime: «Ho visto le mie amiche morire davanti a me, senza poter fare nulla. É una scena che non dimenticherò mai, abbiamo sentito lo schianto e nessuno si spiegava il perchè». La confusione e lo shock sono stati fortissimi anche in un'altra ragazza, che lavora in un noto pub andriese, che ancora attonita ci ha dichiarato: «Io non so come sia successo. So soltanto che eravamo partiti da Andria e abbiamo sentito la botta fortissima. Non si riusciva a capire nulla, se dovessimo scendere dal treno. Sentivamo le urla, ma fino a che sono arrivati i soccorsi eravamo tutti in stato di shock». "In quel momento mi trovavo in mezzo al campo, a una cinquantina di metri dal luogo dell'incidente, stavo finendo di montare l'impianto di irrigazione dell'orto quando ho sentito un boato. Ho visto tantissimi detriti che volavano verso l'alto. Mi sono subito precipitato perché non è una cosa che si vede tutti i giorni. Mio papà è proprietario di queste terre da venticinque anni e non è mai successa una cosa del genere. Mi sono avvicinato, ho aiutato delle ragazze a scendere dal treno e ho indicato ai soccorsi la posizione in cui ci trovavamo. Erano tutti spaventati, per fortuna i passeggeri di dietro erano illesi, solo un po' doloranti". A parlare è un ragazzo che lavorava nei campi, ieri mattina, al momento dello schianto fra i due treni in Puglia; in queste ore vengono raccolte le dichiarazioni anche dei sopravvissuti. Uno dei primi soccorritori arrivato sul posto, il volontario della Protezione Civile Felice Gammariello, ha detto che numerosi bambini che viaggiavano sui due treni si sono messi in salvo da soli scendendo dalle vetture. Gammariello ha sottolineato che la maggioranza dei feriti, in base a quello che ha potuto notare, aveva diverse fratture. Ha infine lodato la “rapidità dei soccorsi” in quanto pochissimi minuti dopo la collisione sul posto erano a lavoro già molte squadre. Nel primo pomeriggio una donna si è presentata all’ospedale di Barletta cercando disperatamente la figlia. La ragazzina è stata rintracciata qualche ora dopo: è ricoverata e le sue condizioni non sono gravi. Mamma e figlia si sono abbracciate in ospedale tra la commozione di medici, pazienti e soccorritori. Una donna all’ottavo mese di gravidanza invece ha raccontato: “Mi sono sentita spingere avanti, è successo tutto così velocemente e non ho capito granché. Sono stata salvata dai ragazzi che erano sul treno”. La donna è stata intervistata dal Corriere del Mezzogiorno subito dopo l’incidente, nella campagna dove i superstiti si sono raccolti. “Ho visto mia madre a terra, mio padre e mia sorella avvolti nel sangue. I ragazzi che stavano sul treno ci hanno aiutati a scendere e a metterci in salvo. Sono incinta all’ottavo mese, non riesco a credere a quello che è successo”. Anche Marianna Tarantini, volontaria del Ser di Corato, è fra le prime persone a essere giunte ieri sul luogo tragedia. E oggi è ancora qui per continuare a prestare soccorso. Ha ancora gli occhi pieni di lacrime, mentre racconta i momenti dopo il disastro. Ha trovato corpi ammassati l'uno sull'altro, nel migliore dei casi. C'erano "teste, braccia, mezzi busti sparsi ovunque sotto gli ulivi". In mezzo, i corpi ancora intatti di due vittime, rimaste abbracciate anche dopo aver perso la vita. "Erano contro un ulivo - ricorda commossa -, la mamma con il suo corpo proteggeva la bimba piccola ed erano in posizione fetale. Sono le prime che ho trovato". Una scena struggente, ma allo stesso tempo di una dolcezza infinita. "Chi è mamma può capire la dolcezza infinita di questi corpi abbracciati, con la madre che ha tentato fino all'ultimo di proteggere la sua bambina". La morte le ha portate via insieme, l’una nelle braccia dell’altra. I soccorritori le hanno trovati così, strette strette come se fino all’ultimo avessero tentato di proteggersi, di farsi scudo con i corpi. Madre e figlia, immobili nell’abbraccio tra le lamiere accartocciate, tra le urla e il sangue e i corpi feriti. Madre e figlia non si muovevano più, inutile qualsiasi tentativo di salvarle. E tra le tante storie di morte che circolavano ieri ai margini dei binari insanguinati c’era la loro. «Le hanno trovate abbracciate», un dettaglio in più che aggiunge solo strazio a una giornata che non conosce altro che lacrime. Un’immagine che presto avrà anche una storia e si saprà chi era questa mamma che con il suo abbraccio ha tentato di salvare la figlia, l’ultimo gesto disperato. E dove andavano prima che lo schianto le fermasse.
Disastro ferroviario, le drammatiche testimonianze. Le agghiaccianti parole di chi è riuscito a salvarsi, scrive “Norbaonline” il 12 luglio 2016. "Quel rumore, non lo dimenticherò mai. E poi il buio, i lamenti. Le grida, tante grida. Riesco ad alzarmi, comincio a camminare, mi accorgo che sotto di me ci sono dei cadaveri. Li pesto, vado avanti. Cerco Matteo, mio marito. Urlo il suo nome, ma lui non mi sente. Poi riesco a trovarlo: è incastrato nelle lamiere. Scavo con le mani, cerco di togliergli di dosso quei pezzi di ferro. Alla fine ci riesco, non so neanche io come, e attraverso un buco del treno lo porto fuori. Restiamo lì, abbracciati. Poi qualcuno ci separa e ci porta in ospedale. L'ho rivisto ora". Giuseppina Rutigliani accarezza la mano di Matteo Mascoli: stanno insieme da 40 anni e questa mattina stavano andando a Corato all'istituto dove è ricoverato il loro figlio disabile. Dovevano pagare la retta. Ora invece sono ricoverati all'ospedale “Bonomo” di Andria, assieme ad altri 26 sopravvissuti dello scontro. Loro ce l'hanno fatta, possono raccontare l'incubo che hanno vissuto e l'orrore che si porteranno dentro per sempre, dopo aver visto certe immagini. Ad esempio quelle che descrive con le lacrime agli occhi Enza, l'operatrice del 118 di Corato. "Quando siamo arrivati c'erano pezzi di corpi ovunque. Ad un certo punto abbiamo visto una donna che era come rannicchiata su se stessa, con le braccia incrociate sul petto. Ci siamo avvicinati e abbiamo capito: tra le braccia stringeva la sua bambina, ha cercato di proteggerla in tutti i modi. Enza non riesce ad andare oltre, dice solo: "le lamiere, le lamiere l'hanno dilaniate". Al Bonomo i sopravvissuti li riconosci dallo sguardo perso nel vuoto. Dalla labbra che ancora tremano per la paura. Monica Gigantiello sta andando a fare una tac, ha 24 anni. "Ero seduta di spalle, ho sentito soltanto un boato invadere tutto il vagone e poi mi sono ritrovata a terra. Tra noi c'era un signore che lavorava per il 118 e ci ha salvato, è riuscito a farci uscire". Cosa hai visto Monica? "Non voglio ricordare, ma non riesco a mandare via tutte le urla". Sabino, invece, ricorda. Lui è il figlio del vecchio primario del pronto soccorso dell'ospedale di Andria. "Mai avrei pensato di essere testimone di quello che papà mi ha raccontato tante volte, mai avrei creduto di poter vedere così tanto orrore". E invece non è andata così. "Per miracolo, sono vivo per miracolo. Non mi ricordo nulla, sono vivo per miracolo", butta fuori con un filo di voce Michele, 35 anni. A lui gli è andata bene, solo qualche ferita lieve. Si aggira per il pronto soccorso come uno zombie, qualcuno che è tornato da laggiù. Ognuno di quelli che ce l'ha fatta, dicono i medici, è sotto choc. Continuano a ripetere di aver visto decine di cadaveri, di sentire ancora le urla della gente attorno a loro. Oppure stanno in silenzio. E chissà cosa ha visto, cosa ha pensato, Giuseppe Acquaviva. Chissà se ha fatto in tempo a pronunciare qualche parola. Perché la sua morte è pura follia, un maledetto sbaglio. Giuseppe faceva il contadino, era nel suo campo questa mattina. Stava raccogliendo il frutto del suo lavoro. Poi è arrivato lo schianto, le lamiere che si contorcono, i finestrini che esplodono, i pezzi di ferro lanciati a velocità folle in tutte le direzioni. Uno di questi lo colpisce in piena testa. È un attimo. "Non aveva alcun segno sul corpo”, raccontano i medici del Bonomo, “solo un buco impressionante in testa. Non c'era nulla da fare". Tranne che inserire il nome di Giuseppe nella lista dei morti del treno.
La testimonianza di Valentina Achille, sopravvissuta alla sciagura ferroviaria, scrive Serena Ferrara il 13 luglio 2016 su “Bisceglie in diretta”. «Avevo scelto le ferrovie del Nord Barese perché sono più pulite, confortevoli e puntuali». Valentina Achille, 24 anni, studentessa in scienze politiche prossima alla laurea, ce l’ha fatta. È tra i sopravvissuti del più tragico incidente ferroviario della storia della Puglia. Tranese, volontaria del centro di Bisceglie “Tra Naso e Coda”, divide la sua vita tra Trani, Bisceglie ed Andria. Una ragazza dal cuore d’oro, la descrivono gli operatori dell’ASD di via Luchino Visconti, che con lei hanno condiviso tanti momenti di impegno civico. Due costole rotte e alcune ferite sul volto, la diagnosi dei medici dell’ospedale Bomono di Andria, dove la ragazza, ricoverata, trova la forza di scrivere un lungo, commuovente messaggio su Facebook. Valentina era partita alle 7.30 da Trani, in direzione Bari. Ad accompagnarla il fidanzato Pietro Loconte, di Andria, che la stava supportando nel difficile periodo della stesura della tesi di laurea. Aveva scelto Ferrotramviaria e non Trenitalia, anche in questa occasione «per l’igiene, il comfort, la puntualità» Per lei, la mattinata si era conclusa positivamente, con un ok dato sul lavoro svolto da parte del prof. dell’università. Il treno del ritorno l’avrebbe accompagnata dalla sorella prima, dal fidanzato ad Andria poi. «Ieri mi ero svegliata con tanti buoni propositi… appena rientravo da Bari sarei andata da mia sorella e poi a pranzo dal mio ragazzo. Ho sempre preferito la Barinord al Trenitalia…per l’igiene, il confort e soprattutto la puntualità (una volta sono rimasta 3h in treno nelle fs). Ieri ero felice, il capitolo della tesi va bene e potevo andare avanti, J Ax nelle orecchie e il solito viaggio…» racconta. Poi lo scontro, annunciato da “qualcosa che non andava”: più fermate sospette durante il viaggio, diversi inceppamenti del mezzo, di cui ufficialmente nessuno ancora parla. «Un solito viaggio che però stava avendo problemi… troppe volte abbiamo sostato e che qualcosa non andava si sentiva. Un attimo e mi sono ritrovata sotto il tavolino dei sedili… un forte boato “cazzo sta succedendo??” … il tempo di riprendermi e un ragazzo si è accertato delle mie condizioni… ho pensato ad una bomba poi non so forse per pensare ad altro ho iniziato a cercare la borsa per bere acqua che non ho più bevuto… una testa su di un albero … cazzo vale sei viva… ho pensato e subito le lacrime mi hanno attraversato! la mia maglia sporca di sangue e il petto dolorante… grazie al ragazzo della valigia blu e a quello della campagna siamo usciti dal treno...». A soccorrerla, grazie ad un messaggio Whatsapp, il fidanzato, giunto sul posto grazie alle indicazioni inviate tramite tracciamento GPS dalla fidanzata, che solo così si è potuta salvare. «Eravamo salvi… era una tragedia più grossa di quello che pensavo… ho avvisato Pietro, mia sorella e famiglia e un paio di amici nessuno ci credeva …io non ci credo ancora … questa notte ho rivissuto tutto… ma io sono viva… si viva... distrutta ma viva … nel 2016 non si può morire così!!! cosa ho pensato una volta qui? che devo essere grata di poterlo raccontare…piango per il dolore di chi ha perso cari e di chi è ancora a rischio! Sono felice per la ragazza bionda che ho accompagnato… fin quando non ho saputo che stava bene io non avevo dolori … appena rilassata ho pensato che forse proprio così bene non sto ma poco importa sono viva e devo alzarmi!!» Commuoventi le parole di ringraziamento che scrive d’un fiato sul web: «Ringrazio il mio ragazzo, la mia vita, che ha anche aiutato il 118 ad arrivare su quel luogo dimenticato da Dio… gli operatori del pronto soccorso e tutto l’ospedale … i dottori e infermieri che mi hanno rassicurato e confortato... che hanno asciugato le mie lacrime e detto” non è una gara a chi soffre meno, chiedi aiuto e piangi quanto vuoi … ma rilassati!” La mia famiglia, non che quella di Pietro e le mie custodi… mi sono vicine … come tutti voi che mi avete contattato! Siate felici per me… camminerò e riprenderò a pieno la mia vita! certo le ferite fisiche… la cicatrice al mento e le costole fratturate resteranno con me per sempre ... quelle degli occhi che hanno visto e del cuore stremato dalle urla, per cui non potevo fare nulla, le userò per farmi forza! Ora si va avanti, soprattutto per coloro che non ci sono più!! Ringrazio il mio Papà che dal cielo mi ha fatto da scudo, ne sono sicura! Ancora grazie e scusate se non rispondo … ma sono scossa mi fanno male i denti e piango». Anche Pietro è molto scosso, quasi avesse perso alcuni anni della sua ancor giovane vita: «La prima telefonata è arrivata alle ore 11.00 – racconta – ma ero convinto che Valentina fosse arrivata in stazione, ad Andria, e non risposi. Subito dopo arrivarono altre due telefonate: alla terza capì che era il caso di rispondere. La voce era straziante, piangeva, non capivo cosa stesse succedendo. Decisi di affidarmi all’istinto: mi misi subito in sella alla Vespa per cercare una pattuglia e ricevere delle indicazioni. Nessuno sapeva di cosa stessi parlando. Ho seguito la prima ambulanza che ho visto sfrecciare lungo la direzione dell’incidente, ma fummo costretti a fermarci, perché non conoscevamo il luogo esatto dell’incidente. Fu un operatore del 118, frattanto giunto sul posto, a fornirmi la posizione tramite whatsapp, dopo alcuni minuti. Giunto sul posto, mi si parò di fronte una scena orribile: tutti urlavano, c’erano persone piene di sangue, gente che non dava segni di vita. Non sapevo dove andare, cosa fare, correvo da una parte all’altra senza riflettere. Alle 11.40 telefonai nuovamente a Valentina, che si trovava dall’altra parte del binario. La raggiunsi con il cuore spezzato e decisi di portarla via da quell’inferno maledetto. Fornì aiuto a chi potevo e mi misi in macchine insieme ad un’altra ragazza e un ragazzo. Riuscimmo a raggiungere il pronto soccorso di Andria alle 12.00. Prime notizie alle ore 17.00: Valentina era salva, ricoverata al quinto piano per via delle fratture. Grazie a chi si è preso cura della mia Valentina, grazie a chi ha reso possibile il miracolo».
Lo studente, il contadino, l’agente: quelle vite perdute fra gli ulivi in Puglia. Il pellegrinaggio dei familiari nelle camere ardenti degli ospedali. Lo strazio del riconoscimento, solo in cinque avevano i documenti, scrive Francesca Paci il 13/07/2016 su “La Stampa”. Il nonno di Antonio urla come un pazzo. Per ore la famiglia Summo ha girato da un ospedale all’altro, Andria, Barletta, Bisceglie, cercando tra i feriti il quindicenne che non rispondeva più al cellulare. Giungono all’istituto di medicina legale del Policlinico di Bari verso le 18. I genitori non ce la fanno a entrare e tocca a questo omone con la camicia madida di sudore riconoscere il nipote tra i corpi a cui ancora mancano i nomi. Solo cinque avevano i documenti addosso: il resto delle borse, gli zainetti, i portafogli, tutto è sparpagliato tra le macerie nella campagna degli ulivi insanguinati. Antonio è lì dentro, il nonno impreca contro il cielo, mamma e papà, fuori, inebetiti nel caldo torrido, rivivono in trance le ultime immagini del ragazzino, quasi a convincersi che la sorte avrebbe potuto essere diversa: «Gli avevamo detto di non andare. Non serviva che pendolasse ogni giorno tra Andria e Ruvo per recuperare quelle due materie. Ma Antonio ci teneva tanto, gli piaceva l’istituto tecnico, voleva seguire le lezioni e arrivare a settembre prontissimo. Non doveva andare e invece è andato e poi il preside della scuola gli ha detto che avendo lavorato bene poteva tornare a casa prima, poteva prendere il treno in anticipo, poteva arrivare per pranzo e non è arrivato più...». Per tutto il pomeriggio la camera mortuaria del principale ospedale del capoluogo pugliese, dove si trovano 20 delle 27 vittime della tragedia ferroviaria di ieri, accoglie un’umanità sbandata, confusa, disperata ma anche incredula, attonita, aggrappata a speranze già dissolte. Una signora dai capelli argentei indossa ciabatte e una vestaglia a fiori incrociata sul seno, era ai fornelli quando l’hanno chiamata. Due ragazzi barcollano abbracciati, lei ripete singhiozzando «non c’era nessun bisogno che andasse oggi a comprare quel maledetto macchinario ma sembrava sempre che i campi non potessero aspettare». Un uomo sui quaranta s’incammina verso l’obitorio con un bollettino che sbuca fuori dal taschino della camicia, viene direttamente dall’ufficio postale. Lo schianto dei treni dei pendolari ha colto le loro famiglie nella routine di giornate scandite dal bacio del mattino e da quello della sera. Tutti cantilenano il mantra dell’impossibile rassegnazione «Non si può morire così nel 2016». C’erano braccianti, studenti, impiegati, chi andava e chi tornava, c’era il tessuto produttivo della regione a bordo dei vagoni accartocciati come si fossero divorati a vicenda divorando al tempo stesso la campagna circostante e il contadino ucciso dalle lamiere volanti mentre si arrampicava su uno dei suoi ulivi. C’era Fulvio Schinzari, 59 anni, alto funzionario della polizia di Bari, una scomparsa che lascia i colleghi della Questura balbettanti, sotto shock, tutti incollati alle foto di treni in corsa che Fulvio aveva postato online appena qualche giorno fa. C’era il settantatreenne Enrico Castellano, un ex funzionario del Banco di Napoli ormai residente a Torino da quasi mezzo secolo che era rientrato ad Andria lunedì per festeggiare il compleanno del nipotino oggi, 13 luglio, onomastico di San Enrico: data la mattinata oziosamente soleggiata aveva pensato di trascorrere un po’ di tempo con i vecchi amici di Bari, il fratello, la sorella, aveva appuntamento in un ristorante sul mare, qualche ora appena e poi di nuovo in treno per la cena a casa del figlio. E c’era Pasqua, una estetista di trent’anni che come sempre si recava al lavoro da Andria a Bari, poco più di un’oretta di viaggio durante la quale guardare e riguardare sul telefonino gli scatti più recenti della figlioletta di due anni. Pasqua, come diversi altri, non risulta tra i feriti, il cellulare è muto, sua cugina Tamara, studentessa di medicina a Roma, aspetta notizie sugli scalini della camera mortuaria dove un gruppo di giovani psicologhe si è messo a disposizione per l’assistenza ai famigliari. Non piange, Tamara. Parla e, a tratti, tira lunghi sospiri: «Sono a Bari in vacanza, come ogni estate. Sarà deformazione professionale ma dopo aver chiamato tutti gli ospedali ho cercato di mantenere la calma e sono venuta qui, tra poco arriverà anche il padre di Pasqua. Suo marito invece no, si è precipitato sul luogo dell’incidente ed è rimasto là, vorrebbe scavare tra i rottami. Ci vorranno ancora alcune ore per il riconoscimento, dicono che quattro o cinque corpi sono ridotti molto male, a noi che siamo fuori chiedono segni particolari, cicatrici, tatuaggi, il colore e il tipo degli abiti indossati». L’obitorio del Policlinico è una sorta di non luogo. C’è un ragazzo di 25 anni che cerca la fidanzata del fratello e poi la trova e vorrebbe non averla trovata e si accascia e singhiozza come un bambino. C’è una signora bionda che si appoggia a corpo morto a un uomo dai capelli bianchi, il fratello di suo padre che, ripete, gli assomiglia come una goccia d’acqua. Non hanno voglia di raccontare, ma parlano a voce alta, piangono, imprecano: «Gli piaceva sedersi davanti, sempre davanti, anche in aereo. In treno cercava sempre il posto nel primo vagone. Quando ho realizzato che papà era su quel convoglio ho preso la macchina e ho guidato come un automa fino là, mi sono gettata tra quelli dei soccorsi, mi tenevano in dieci, urlavo che dovevo salvare mio padre». Cala la sera e le anime perse sono ancora qui. Qualcuno cita la storia della mamma trovata abbracciata alla figlia, morte entrambe, un unico inscindibile corpo. «Meglio non sopravvivere», mormora una ragazza accasciandosi sugli scalini: è stata qui tutto il giorno e solo alla fine l’hanno fatta entrare a guardare tra le salme.
Quelle due Italie allo specchio, scrive Massimo Gramellini il 13/07/2016 su “La Stampa”. Quale sarà la vera Italia? L’Italia che nel secolo dell’alta velocità boccheggia ancora sopra un binario unico, oppure quella che di slancio si mette in coda nelle corsie d’ospedale per donare il proprio sangue ai feriti? Il guaio è che sono vere tutte e due. Lo sono sempre state, in guerra e in pace, tra le scintille della tragedia e nella prosa della quotidianità. La prima Italia, così ripetitiva e immutabile nei suoi vizi, ogni volta ci sgomenta al punto da farci dimenticare l’esistenza dell’altra, sentimentale o semplicemente viva, che invece sopravvive intatta tra le pieghe del cinismo disseminato a piene mani spesso dai ceti più colti. Ieri in Puglia l’egoismo ha conosciuto la sua giornata nera. Subito dopo che l’incidente ferroviario aveva depositato sul terreno uno strascico di dolore, è bastato che i medici lanciassero la richiesta urgente di sangue del gruppo “0” positivo perché una comunità intera interrompesse qualsiasi attività e si mettesse in movimento. Da Andria a Molfetta, da Trani al Policlinico di Bari, non esiste nosocomio della zona che non sia stato letteralmente travolto dagli aspiranti donatori. Una fiumana di operai, professionisti, ma soprattutto studenti. A Bari i laureandi in medicina sono usciti dall’aula in cui avevano appena sostenuto gli esami per correre in massa al pronto soccorso: erano talmente numerosi che hanno dovuto prendere il numeretto come alle poste. Chi era arrivato a stomaco pieno cedeva il suo e si metteva in fondo alla coda, così da digerire in tempo utile per sottoporsi alla trasfusione. E i «social», che tanto spesso assomigliano a un binario unico che veicola soltanto odio, almeno per un giorno si sono trasformati in un trampolino di appelli e informazioni vitali. Dai giorni lontani dell’alluvione di Firenze e degli «angeli del fango» che accorsero a metterne in salvo i capolavori, il richiamo emotivo dell’emergenza agisce sui giovani come una molla. E ci ricorda sostanzialmente due cose. Che i ragazzi, in mezzo a mille difetti, hanno riserve pressoché inesauribili di entusiasmo ed energia. E che una società capace soltanto di umiliarli e di deprimerli, affogando i loro sogni esistenziali dentro «stage» infiniti e lavori sottopagati, sta commettendo l’unico delitto che potrebbe distruggerla: quello di lesa speranza.
Il giornalista Antonio Loconte: "II selfie notturni col bambino in braccio di chi chiama noi giornalisti sciacalli". E su Facebook insulti alle vittime, scrive su "ilquotidianoitaliano.com" il 13/07/2016. “No, non siamo parenti, siamo solo venuti a vedere la scena per fare qualche foto da avere sul telefonino. Un fatto così quando ricapita più”. A scrivere è Antonio Loconte, un giornalista di Qi-Il Quotidiano italiano Bari, che sta facendo il suo lavoro di cronista dal luogo dell'incidente. Scrive sul suo giornale: La storia è sempre quella: i giornalisti sono sciacalli, ma non si può fare a meno della loro faccia tosta per portare alla luce storie e fatti altrimenti sepolti, in questo caso dalle lamiere accartocciate dei due convogli pieni di pendolari: studenti, pensionati, operai. Gente comune pronta a un’altra levataccia, mentre quelli con la pancia piena un treno come quello non sanno neppure com’è fatto. Dopo dodici ore sul luogo del disastro, al palazzetto dello sport e all’ospedale di Andria, dove altra gente comune prestava soccorso ai feriti, vedendo morire i più gravi, intorno alle 23 ho assistito a una scena altrettanto difficile da dimenticare. Il suo racconto continua. Mentre cercavano la macchina di un collega, ecco che vedono due autovetture. Sono parenti, amici di qualche disperso? È a quel punto che inizia il dialogo di un tempo che non appartiene neppure a noi “sciacalli”. Siete parenti? mi dispiace profondamente per quanto è successo, spero riusciate ad avere presto buone notizie. L’approccio è quello di chi non aveva visto altro che morti e feriti, lacrime e disperazione. L’uomo, con un sorriso beffardo, risponde come se stesse andando a vedere al cinema un film su un incidente ferroviario: “No, non siamo parenti, siamo solo venuti a vedere la scena per fare qualche foto da avere sul telefonino. Un fatto così quando ricapita più”. Avrei voluto dargli un pugno in faccia, invece, non ho avuto neppure la forza di rispondere. Mi sono consolato con l’immagine della mamma trovata abbracciata alla figlia nell’ultimo tentativo di strapparla alla morte. Non ce l’hanno fatta entrambe, insieme ad un’altra trentina di persone. Sarò anche uno sciacallo, ma dopo aver fatto il mio lavoro, dopo aver cercato di raccontare il disastro in maniera rispettosa e appassionata, le foto dal mio telefonino le ho cancellate. Ma su Facebook c'è anche chi insulta le vittime: "Venti terroni deceduti, 35 feriti gravi. E' questa la grande notizia che ho appena sentito Venti non sono tanti ma sono pur sempre meglio di niente". E' il post choc apparso su Facebook sotto l'account di Giorgio Cutrera e contro il quale le volontarie del Ser di Corato, le prime a prestare soccorso sul luogo del disastro ferroviario, si scagliano furibonde mentre prendono parte ai soccorsi. "Non sono morti venti terroni, sono morti venti italiani come te.
Vergognati. Sei tu che non meriti di essere vivo", si indigna Enza, commentando il messaggio arrivato via web.
Lo scontro dei treni: "Sì, ho alzato la paletta, ma sono anch'io vittima di questo dramma". Il capostazione di Andria chiuso nella sua casa insieme alla moglie: “Lo so, adesso tutti ci odieranno”. Ma i colleghi lo difendono, scrive Giuliano Foschini il 14 luglio 2016 su “La Repubblica”. "In questa storia anche noi siamo delle vittime. Siamo disperati ma un solo errore non può aver causato tutto questo". Al primo piano di una palazzina nella zona dello stadio di Corato, il capo stazione di Andria Vito Piccarreta e sua moglie sono barricati nel dolore. Lia è appena tornata da Medjugorje dove era andata con don Vito, il prete della parrocchia del Sacro Cuore che la famiglia frequenta da sempre. Sua figlia non è andata al lavoro, un negozio di telefonini in centro che gestisce nel centro della città. "È gente per bene, saranno distrutti", dicono al panificio di fronte. E hanno ragione. Sono distrutti: "Stiamo soffrendo, quelle immagini sono inaccettabili, tutto quel dolore, quello che è accaduto è incredibile. Ma non è pensabile dare la colpa di quello che è successo soltanto a un errore umano. Non è così", dice la signora. E probabilmente ha ragione: non può essere soltanto un errore umano. Lo ha detto chiaramente il procuratore aggiunto Francesco Giannella: "Non ci fermeremo assolutamente alle prime responsabilità. L'errore umano è soltanto il punto di partenza di questa storia". Spiega un investigatore: "Il problema non è il binario unico perché in Italia la maggior parte dei treni viaggiano sul binario unico. Il problema è il sistema di controllo che ovunque è automatizzato tranne che qui". Qui fanno tutto i capistazione e i macchinisti. E se sbagliano tocca soltanto a loro rimediare. Gli intoppi sono sempre accaduti. Ma prima era molto più facile rimediare perché su questa linea viaggiavano pochi treni. Da qualche anno, da quando le Ferrovie del Nord Barese sono state rilanciate, e ancora di più negli ultimi mesi con l'introduzione del metro per l'aeroporto di Bari, le corse sono aumentate. E c'è stata grandissima attenzione ai ritardi: treni supplementari, corse eccetera. Questo ha portato un carico di lavoro maggiore pur lasciando inalterate però le obsolete tecnologie di sicurezza. Risultato: lo scontro. Piccarreta d'altronde non fa un mistero di quello che ha accaduto: "È vero quel treno non doveva partire. E quella paletta l'ho alzata io: non sapevo che da Corato stesse arrivando un altro treno per questo ho dato il via libera", spiega oggi, così come ha confermato ai funzionari che stanno conducendo l'inchiesta interna. A loro ha provato a spiegare che quella era stata una giornata complicata, i treni che portavano ritardo, c'era stata l'aggiunta di un treno supplementare e dunque in quel lasso di orario era previsto l'arrivo di tre treni e non dei soliti due, i macchinisti che assemblavano nuove vetture per sopperire il ritardo. "È stata una giornata molto particolare", dice. "Ma quello che è successo è troppo". Troppo. "So che ora se la prenderanno tutti quanti con noi", dice la signora Lia, a casa. "Mio marito è il capro espiatorio perfetto. Ma non è giusto: perché è un lavoratore serio, in questi anni ha fatto sempre e soltanto il suo dovere. Questa è una tragedia troppo grande per noi. È un lutto, abbiate rispetto del nostro dolore". Ecco perché questo capostazione di Andria non è Schettino. Non c'era alcuna ragazza che ballava nella sua stanzetta dello scalo di Andria. Non ha abbandonato nessuna nave. Ha commesso un errore, un gravissimo errore ma ha perso un amico. Un caro amico: Pasquale Abbasciano, uno dei macchinisti morti nello scontro era come uno di famiglia. Stessa città, stesso lavoro, tutti i giorni l'incrocio su quel binario. Uno a bordo del treno, l'altro alla guida delle vetture. "Era uno di noi", racconta fuori dalla chiesa Cataldo Angione, uno dei colleghi. "Vito è persona seria e scrupolosa. Grandissima esperienza. Ma sotto pressione, come sono i nostri colleghi negli ultimi tempi, è più facile sbagliare". Dicono gli amici e colleghi alla stazione di Andria, dove l'azienda ha dato loro la consegna del silenzio: "Non dovete chiedere a Vito perché ha alzato quella paletta ma a qualcun altro perché non è in grado di controllare il nostro lavoro. Noi guidiamo treni. Non siamo piloti di aereo". Nel pomeriggio le finestre di casa Piccarreta sono chiuse. In serata un lungo fiume di persone è per strada. Sono qualche centinaio, portano candele in mano e hanno la faccia rigata dal pianto. Corato è una città segnata dal dolore, molte delle vittime, a partire proprio dai colleghi di Vito, vivevano in questo paese. La città è a lutto, le saracinesche sono abbassate, questa marea di ragazzi è partita da piazza Cesare Battisti e si dirige in silenzio verso la stazione. In testa c'è un prete e un fascio di fiori bianchi. Lia dice: "Ci odieranno" e invece qui in mezzo in molti conoscono Vito, ne parlano con calore misto anche ad affetto. "Uno come lui, seppur con la sua fede, non potrà reggere un dolore così grande" dice Luca Fiore, un ragazzo che frequentava la stessa parrocchia. Il corteo si spinge fino alla stazione, le candele si poggiano per terra. Qualcuno abbozza un applauso, si piange, i ferrovieri si abbracciano. Da poche ore è arrivata la notizia che Vito è stato sospeso. Una ragazza inserisce i soldi in una biglietteria automatica. In lontananza, nessun rumore di rotaie.
Non abbandoniamo quell'uomo schiacciato dal suo sbaglio. Il capostazione che ha dato il via libera è distrutto: va aiutato a sopravvivere al rimorso. Che può durare per tutta la vita, scrive Alessandro Meluzzi, Venerdì 15/07/2016, su "Il Giornale". La tragica vicenda del tratto ferroviario tra Andria e Corato, in cui hanno perso la vita 27 persone, ripropone nuovi drammi e vecchi quesiti. I drammi sono quelli di sempre. Il quesito è se vi sia una colpa in cui hanno contribuito il taglio della spesa pubblica, il declino civico o l'abbandono amministrativo. Insomma, tutti elementi che possono diventare fatali per l'irrompere di un'apocalissi para-tecnologica, perché il treno e la ferrovia non sono sicuramente al livello della modernità di un'astronave, ciò nonostante anche rispetto alla tecnica matura come quella del treno il dibattito avvampa intorno alla presenza di linee che si aprono con una telefonata o scambi meccanici a mano, smentendo l'idea dell'onnipresenza rassicurante che l'unione tra scienza e tecnica sembravano dover garantire. È in questo mix tra umano e meccanico, tra tecnico e civile, che il dibattito si posa su una questione umanissima. Quanta colpa ha il ferroviere, quel capostazione archetipo del tempo passato, rispetto ad una tragedia in cui viene chiamato in causa? Il procuratore di Trani, Francesco Giannella, non vuole considerare la tragedia come un puro errore umano, lo considera riduttivo. Persino, Cantone ha attribuito al Molok della corruzione attraverso le tangenti la colpa ultima di ciò che è avvenuto. È vero che molti si dibattono sul perché quella linea non fosse stata raddoppiata con i fondi europei disponibili. Per ora si sa che nel registro degli indagati per disastro ferroviario e per omicidio colposo plurimo sono stati inseriti i due capistazione Vito Piccarreta e Alessio Porcelli. Ma nonostante queste attenuanti di natura ambientale la causa ultima è quella paletta che viene alzata dalla mano di un uomo, gettando la persona in un dramma tragico. È vero che i colleghi hanno detto che non lo lasceranno solo ma quando il capostazione non si è reso conto che i treni erano tre e non due e che il treno a cui dava il via era il secondo e non il terzo rappresentava l'interruttore di un evento tragico. Le foto circolano sui media come il dibattito. Quanto più la tecnologia cresce tanto più la responsabilità umana si attenua e definire la causa principale di un errore umano è una scorciatoia. Tutto ciò contribuirà a razionalizzare la colpa dell'uomo. Probabilmente nessuno ha parlato di lui come ha fatto con Schettino. Ma sapere che dopo quel fischio e quell'alzata di paletta un treno si proiettava contro la morte non potrà non turbare i sogni di quest'umo pacifico nella Murgia pugliese. Questo pensiero, però, riflette su di noi una morale al di là della consolazione e del rimorso che agita il cuore di quest'uomo ed è una lezione controcorrente e non inutile. Pensare che anche nell'epoca delle tecnologie mirabolanti, della robotica dei sistemi esperti che si auto-governano da soli, tutto torni all'uomo non è una lezione inutile. Una macchina intelligente può decidere di suicidare il proprio padrone dopo un calcolo utilitaristico ma quanti di noi si affiderebbero ad una tecnologia così? Gli accertamenti svolti fino a questo punto non hanno ancora consentito di ricostruire con esattezza la dinamica dell'incidente ma esistono, secondo gli inquirenti e la procura, alcuni punti fermi: il convoglio si è messo in movimento quando non doveva spostarsi con l'assenso del capostazione e con il semaforo verde del semaforo. A questo proposito il capostazione di Andria, Vito Piccarreta, si assume la colpa di aver dato il via libera, anche se non sapeva che da Corato stesse arrivando un altro treno. Quanto detto prima sulla difficoltà del ipotetico responsabile di prendere sonno si avvera nelle sue parole. Piccarreta dice di considerarsi anche lui una vittima, dice di essere disperato ed è convinto che un solo errore, il suo, non può aver causato tutti quei morti. Che cosa avrebbe dovuto fare il capostazione di Andria? Avrebbe dovuto consentire la partenza del treno solo nel momento in cui gli altri due treni, provenienti da Corato, fossero arrivati in stazione. L'uomo diventa importante quando il caso incontra la necessità, quando non si deve trovare un capro espiatorio ma un passaggio di un evento.
"Il botto mi ha scagliato sui sedili poi ho visto l'orrore di quei corpi". Roberta Saudella, sopravvissuta alla strage in Puglia, ha preso il treno per caso per finire nell'incubo, scrive Massimo Malpica, Venerdì 15/07/2016, su "Il Giornale". «Quell'uomo, il capotreno, era per terra, insanguinato, rantolava. Un attimo prima mi aveva controllato il biglietto e poi eccolo lì, gli occhi fissi, incapace di parlare». Chi può farlo, chi può parlare, invece, per raccontare che cosa è successo martedì mattina a bordo di quel treno partito dalla stazione di Andria sul binario unico già occupato da un convoglio in direzione opposta, correndo verso una tragedia a quel punto inevitabile è lei, Roberta Saudella. Barese, madre di due bimbi, Roberta insegna in una scuola di Andria, e le ferrovie del Nord Barese sono il suo consueto mezzo di trasporto.
Come mai a scuole chiuse si è trovata su quel treno?
«Ero ad Andria per il recupero del debito formativo di un alunno. Ho finito presto e sono arrivata in stazione. Quel treno era il primo utile. Era un po' in ritardo, sono salita a bordo sulla terza carrozza, semivuota, e mi sono seduta. Eravamo partiti da pochissimo, ho preso il cellulare dalla borsa e ho sentito un gran botto. Un secondo dopo sono stata scaraventata sui sedili di fronte a me, per fortuna vuoti: ricordo solo un gran dolore e lo stridio dell'acciaio finché ci siamo fermati».
Come è scesa dal treno?
«Sono riuscita a rialzarmi, acciaccata, con la nuca dolorante per la botta alla testa, ma viva. Ho visto subito il capotreno per terra, era ridotto male, privo di sensi, l'ho riconosciuto dai baffi. Era in piedi nel momento dello schianto ed è finito sulla porta che separa i vagoni. Ho subito chiamato il 118, erano le 11.08, poi ho avvisato mio marito. Qualcuno ha aperto la porta con la leva di emergenza e siamo scesi saltando sulla massicciata. Io, come gli altri che sono riusciti a scendere sulle nostre gambe, ci siamo trovati di fronte uno spettacolo irreale. Dai vagoni squarciati arrivavano urla e lamenti, c'era gente con gravi ferite che si affacciava dai finestrini rotti e dalle porte ma non era in grado di tenersi in piedi. Ho cominciato a camminare verso il punto dell'impatto, ma...».
Che cosa è successo?
«Ho visto un uomo per terra, inanimato, penso non ce l'abbia fatta. Poi un ragazzo steso vicino ai rottami, sbalzato fuori nell'impatto, con terribili ferite. Mi sono paralizzata, non ho avuto il coraggio di proseguire, sono tornata verso la mia carrozza. Lì con due ragazze praticamente incolumi abbiamo cercato di aiutare il capotreno, che aveva ripreso conoscenza ma era sotto choc. Si era messo seduto, ma era confuso, rantolava, gli parlavamo per tenerlo vigile ma non ci rispondeva. E il 118 per telefono ci diceva di non fare nulla prima dell'arrivo dei soccorsi».
Sono arrivati subito?
«Penso di sì, ma io continuavo a chiamarli anche perché i telefoni non prendevano bene ed era difficile per i soccorsi trovare la strada per raggiungere il luogo dell'incidente».
Lei è una passeggera abituale, ha mai temuto qualcosa del genere?
«Sono ottimi treni, la questione del binario unico era nota, ma pensavo ci fossero sistemi di sicurezza tecnologici. Non sapevo, e non avrei mai pensato, che nel 2016 fosse tutto affidato a telefonate tra capistazione».
La figlia vigila sul capotreno sopravvissuto. (Articolo di Vincenzo Chiumarulo, ANSA, pubblicato su “La Gazzetta del Mezzogiorno del 14 luglio 2016). Lo sguardo pieno d’amore della sua giovane figlia, che lo osserva con gli occhi di chi è consapevole che ha rischiato di non vederlo mai più, vigila sul capotreno Nicola Lorizzo, sopravvissuto all’incidente ferroviario in cui hanno perso la vita 23 persone. Nicola è ricoverato nel reparto di Neurochirurgia del Policlinico di Bari. E’ in prognosi riservata e il suo volto tradisce i segni di chi è scampato a una tragedia: provato sì, ma non in pericolo di vita. Nel pomeriggio è uno dei feriti che il capo dello Stato, Sergio Mattarella, saluta e conforta. Una vita, quella di Lorizzo che ora sembra quasi più preziosa di quanto già fosse prima di scampare all’impatto tremendo sulla curva di quel binario unico che taglia le campagne tra Andria e Corato, e su cui due convogli si sono scontrati frontalmente. Nicola, che era sul treno con il macchinista Pasquale Abbasciano, morto a un anno dalla pensione, potrebbe essere uno dei testimoni chiave per capire le cause della tragedia. Infatti il capotreno, che su quei convogli svolgerebbe anche la funzione di aiuto macchinista, è una delle persone che ha dialogato con il capostazione ora sotto inchiesta e che forse ha dato il segnale sbagliato per la partenza del treno proveniente da Barletta. Sarà anche per questo motivo, oltre che per ovvie ragioni di riservatezza, che l’accesso ai cronisti nell’ala del reparto in cui è ricoverato, è severamente vietato. C'è però chi riesce ad avvicinarsi alla sua stanza: sua figlia sembra serena, sorride, si raccoglie i capelli e con una infermiera aiuta Nicola a cambiare posizione nel letto. Lorizzo si copre con una coperta: fuori fa molto caldo, ma a Neurochirurgia l’aria condizionata è forte. Con discrezione un giornalista si avvicina, prova a chiedere all’infermiera che subito lo raggiunge se la figlia di Nicola abbia voglia di parlare delle condizioni del padre. L'infermiera però chiude la porta, sbattendola, e urla al cronista di allontanarsi. Al primo giornalista se ne aggiunge un altro. E’ a questo punto che l’infermiera chiude a chiave l'ingresso dell’intero reparto, annunciando di aver chiamato la polizia.
Scontro fra treni, il cielo in una stanza nella cabina. "L'eterna solitudine di noi macchinisti". Ore alla guida, stipendi bassi, e un'aspettativa di vita di 64 anni. "Ma la Fornero ci manda in pensione a 67...", scrive Francesco Merlo il 14 luglio 2016 su “La Repubblica”. "Lei mi chiede cosa ha visto, cosa ha capito e cosa ha fatto il mio amico Albino in quella cabina che per noi macchinisti, mi creda, è il cielo in una stanza ".
Glielo chiedo perché, per me, la locomotiva che "corre, sempre più forte / e corre verso la morte" è ancora quella di Guccini, "il mostro strano / che l'uomo dominava con il pensiero e con la mano". Dunque, ingenuamente, immagino che il suo amico sia morto come aveva vissuto. "Lei se lo immagina che, nel suo ultimo momento, cerca il freno, preme bottoni, inventa soluzioni ". E invece ha gridato e si è messo le mani nei capelli?
"Quello sicuramente no, perché Albino i capelli non li aveva".
E però Albino ha visto il treno che gli volava addosso.
"Sì, ma mentre capiva non era più tra i vivi".
Com'era Albino De Nicolo?
"Era piccolo e calvo ma aveva gli occhi sporgenti, occhi di ferroviere, occhi che non si spaventano mai. E poi Albino rideva sempre. Quando gli altri gridano, lui rideva".
Come Mangiafuoco che invece di piangere starnutiva?
"Forse perché era di Terlizzi, un paese allegro".
Il paese di Vendola. Albino aveva figli?
"Sì. Uno è stato assunto in azienda: capotreno pure lui".
Vi frequentavate solo sul treno?
"No. Andavamo con le famiglie a mangiare in campagna. Lui era più vecchio di me".
Angelo Cirone, che ora di Albino di sente orfano, si presenta così: "Macchinista, figlio di macchinista. Purtroppo però da un po' di tempo mi hanno trasferito in ufficio perché mi sono ammalato. Ma il treno mi manca. Io sono orgoglioso di essere nato e di essere diventato grande sotto lo sguardo di quegli occhi di ferroviere ". Cirone racconta il ferroviere come l'eroe di Vittorini, come il duro di Piero Germi. E lavora appunto per la Ferrotramviaria, l'azienda del crash dell'altro ieri, quella della contessa Pasquini: "Un'impresa magnifica, e una signora simpatica, una dirigente attenta, mi creda ".
Però il sistema di sicurezza era antiquato.
"Ma legale. E stavano per appaltare l'ammodernamento anche di quel maledetto tratto".
Conosce i due capistazione che si sono telefonati?
"Certo che li conosco. Ma preferirei non parlare di loro. Sono stati sospesi, c'è l'inchiesta giudiziaria".
Non si sono capiti?
"Evidentemente no".
Pivelli?
"Ma no. Hanno trenta, trentacinque anni di servizio sulle spalle. Di sicuro, la telefonata, breve, è stata fatta per avvisare che un treno era partito e che bisognava fermare l'altro treno nella stazione".
E invece...: sarà facile scoprire chi dei due ha sbagliato?
"Non lo so. Sono inchieste complicate. Mi auguro che tutto avvenga con rigore e prudenza. In metafora anche le indagini sono potenti e delicate come un treno".
La responsabilità è tremenda: con il sistema delle Ferrovie dello Stato l'incidente non sarebbe accaduto.
"No. Perché i treni si sarebbero entrambi bloccati. E i via libera non arrivano con una telefonata da una stazione all'altra".
Lo stereotipo dice che la stazione non è mai troppo amata dai macchinisti, dai ferrovieri, forse perché il treno è futurista (De Pero) e metafisico (De Chirico) mentre la stazione è un mito romantico, quella di Claude Monet, la gare inspiratrice dove Proust andava "a cercare il treno di Balbec" e gli parevano "immensi cieli del Mantegna o del Veronese" quelle volte di vetro, quei tetti dove, passo dopo passo, costruisce il suo sentiero di bambino mitologico l'Hugo Cabret di Scorsese nella straordinaria scenografia del nostro Dante Ferretti. Dunque mi sposto. E di stazione vado a parlare adesso con un altro macchinista, questa volta delle Ferrovie dello Stato. Anche lui pugliese. La stazione "per noi macchinisti", spiega Antonino Vito che conduce treni merci in partenza da Bari, "è perdita di tempo, la parte più sgradevole del nostro lavoro. Io ci mangio, piuttosto male, alla mensa. Dormo nei ferro-hotel che sono i vecchi dormitori, con il nome cambiato, modernizzato. Personalmente non amo tanto neppure i passeggeri che considero, mi passi il termine, scassacz ...". A Vito piace solo il treno, "non ho mai messo piede in un dopolavoro ".
I dopolavoro sono le associazioni che gestiscono i lidi balneari per voi ferrovieri?
"Ne ho visto uno in provincia di Foggia, a Marina di Chieuti".
Bello?
"Immagino di sì, ma non mi interessa ".
Perché le piace guidare il treno?
"Perché decido tutto io. Mi piace entrare nei paesaggi, amo il buio delle gallerie, ogni tanto scendo e vado a controllare il sistema di frenata, porto macchine di 1500 tonnellate. E stasera per esempio partirò per Ancona".
Quanto guadagna?
"Dipende, perché c'è il notturno. Diciamo 2.400 euro al mese".
Figli?
"Due. Devono ancora completare gli studi".
È vero che voi macchinisti siete tutti di sinistra?
"Storicamente sì. Non la prenda solo come una battuta: io penso che il treno, la macchina-treno, sia di sinistra".
Beh, di sicuro ha fatto la storia della sinistra italiana.
"Appunto: il treno che accorcia le distanze e arriva nei luoghi di produzione, trasporta le merci, scarica la gente nelle città sottraendola al mondo angusto del paesello e del villaggio".
Per esempio il treno che porta a Milano Rocco e i suoi fratelli?
"Pensi al ferro, all'industria pesante, al treno che portava lo zolfo dalla Sicilia sino a Marsiglia, alle miniere e all'industria tessile. Mi piace sentirmi figlio di quei macchinisti, silenziosi e sporchi che portavano il treno in stazione nonostante il governo fosse ladro, la borghesia feroce o ridicola, la tecnologia inesistente, il rischio personale enorme e la paga bassissima".
Lei per chi ha votato?
"Il mio primo voto l'ho dato a Mario Capanna. Poi ho preso la tessera del Pci. Quindi sono a passato a Rifondazione comunista. Non mi piacevano i Ds, mi pareva l'abbreviazione di Destra-Sinistra".
E oggi?
"Sto con il Pd, nonostante tutti i suoi difetti".
Renzi?
"È un macchinista come noi. Bisogna lasciarlo guidare".
Sul binario unico?
"Guardi che il binario per il macchinista è sempre unico".
Il regno del binario unico è la Sicilia dove l'89 per cento della linea ferroviaria ha appunto un solo binario. Giuseppe Terranova è capotreno a Palermo: "Capotreno e macchinista sono sempre fratelli, la cabina è la nostra casa-famiglia: oltre che uno spazio reale è un luogo etico, come le cabine degli aerei, come il timone delle navi". Terranova sorride amaro: "In Italia c'è stato il periodo degli esperti di Islam, quello dei rifiuti termovalorizzati, quello dei costituzionalisti..., e ora tutti sono diventati esperti di treni, scambi, binari, elettrificazione, infrastrutture. Ebbene, la magistratura accerterà cosa è accaduto, ma il binario unico c'entra poco. Il binario unico infatti fa perdere moltissimo tempo, rallenta tutto, assimila i treni alla vecchie corriere, ma non diminuisce la sicurezza. Se i sistemi sono adeguati da quel punto di vista non cambia nulla". Terranova ha lavorato ad Aosta, poi ha fatto il manovratore a Messina. Adesso parte da Palermo: "Nella vita del macchinista italiano non accade nulla di pericoloso sul treno. Ogni tanto cade un albero, io ricordo di aver dovuto fermare il convoglio perché c'era una mucca. Una volta ho salvato un ragazzo che per evitare il sottopassaggio aveva attraversato i binari ed era scivolato. Il momento peggiore per noi è quando mettiamo sotto i suicidi. Ma se sul lavoro il ferroviere ha per divinità l'orario, il tic tac dell'orologio è il nostro respiro, il miracolo della puntualità è la nostra forza, nella vita invece trionfa il disordine, i nostri turni ordinari sono di dieci ore al giorno (per un massimo sindacale di 38 la settimana). E noi mangiamo quando gli altrui digeriscono, dormiamo quando le nostre mogli si alzano. Il ferroviere italiano, che una volta si adattava a tutto per senso del dovere, adesso si è stufato: è finita l'epoca dei giuramenti, dei treni carichi di bandiere...".
Anche lei è di sinistra?
"Guardi che negli anni venti persino i monarchici organizzarono l'antifascismo sui treni creando il movimento del "soldino" dal nome della piccola moneta che i ferrovieri portavano stampata sui fazzoletti perché aveva come effige la faccia del re".
E oggi?
"Io mi taglierei la mano prima di votare a destra. Ma è diventato tutto così difficile".
Tuttavia anche Terranova crede ancora "all'Italia delle piccole vittorie e dei grandi sentimenti: l'Italia dei treni che per essere normali dovevano sempre diventare un po' speciali. Ma è una vita di sacrificio che lo Stato non ci riconosce. Pensi che l'Istat ci assegna un'aspettativa di vita di 64 anni ma, con la legge Fornero, ci manda in pensione a 67. Andrò in pensione tre anni dopo la mia morte".
“Macchinista, figlio di macchinisti”. Come si diventa Macchinista di treni? Requisiti e lavoro. Tra i lavori più richiesti da chi è in cerca di lavoro c’è sicuramente il macchinista dei treni. Si tratta di un lavoro di responsabilità e di capacità che può offrire guadagni molti interessanti, nonostante ritmi di lavoro non sempre leggeri. Come si diventa quindi macchinista ferroviario? Per intraprendere la carriera di macchinista ferroviario sono richiesti alcuni requisiti fondamentali:
18 anni d’età (20 anni per legge della comunità europea per la circolazione in UE);
Diploma Scuola Media Superiore;
Idoneità psico-fisica accertata da medici competenti;
Superamento test attitudinali, motivazionali e tecnico professionali;
Formazione professionale acquisita tramite corsi di specializzazione.
Lavorare come Macchinista nelle Ferrovie dello Stato. Un tempo per lavorare come macchinista ferroviario venivano indetti appositi concorsi, da anni ormai invece le selezioni sono simili alle assunzioni nelle grandi aziende. E’ il caso ad esempio di Trenitalia che tramite la sezione “lavora con noi” del sito aziendale valuta i curriculum ricevuti e si occupa della formazione del propri macchinisti.
Per il ruolo di Macchinista di treni le Ferrovie dello Stato richiedono i seguenti requisiti:
Altezza di almeno 1.55 m;
Acutezza visiva: 10/10 complessivi con non meno di 5/10 nell’occhio peggiore raggiungibile con lenti di valore diottrico +5/-8;
Campo visivo completo: visione binoculare efficace, sensibilità al contrasto buona, resistenza all’abbagliamento buona;
Senso cromatico nella norma;
Senso stereoscopico nella norma;
Udito nella norma per tenere una conversazione telefonica. I valori di eventuale deficit uditivo non devono essere superiori a 40 dB a 500 e 1000 Hz ed a 45 dB a 2000 Hz per l’orecchio peggiore.
Come candidarsi ad un posto da macchinista in Trenitalia. Gli interessati che ritengono di possiede i requisiti fisici richiesti dall’azienda per il ruolo di macchinista possono inviare il proprio curriculum vitae tramite l’apposita sezione “Invia il tuo Cv”: se l’azienda vi contatterà dovrete affrontare i test attitudinali, motivazioni e tecnico professionali; se supererete questa fase sarete inizialmente assunti come apprendisti (150 ore annue retribuite) dopo apposito percorso di formazione erogato dall’azienda stessa. Il lavoro inizierà in affiancamento a personale esperto per poi continuare in base ai turni definiti dall’azienda.
Comunque, o a concorso pubblico italiano (truccato) o a chiamata diretta, il destino del macchinista è segnato.
“Macchinista, figlio di macchinista”. Che bello essere comunisti e sindacalizzati per poter entrare nelle aziende ferrotranviarie. Un esempio per tutti.
Parentopoli FAL: ecco i parenti e gli amici piazzati nelle “Ferrovie di famiglia”, scrive Antonio Loconte il 4 Aprile 2015 su “Il Quotidiano Italiano”. Vogliamo subito precisare che la nostra non è una caccia alle streghe. Stiamo cercando di dare il nostro contributo affinché spariscano certe brutte abitudini, come quella assai diffusa di trasformare le aziende pubbliche in giganteschi uffici di collocamento per pochi eletti, come nel caso delle FAL. Nei prossimi capitoli della nostra inchiesta vi racconteremo anche gli escamotage utilizzati per dare una parvenza di regolarità soprattutto alle assunzioni, con stage di dubbia fattura e riqualificazioni interne tenute sotto banco fino all’ultimo istante. In un momento così delicato per molte famiglie pugliesi, in cui il lavoro manca e non si sa come arrivare a fine mese, è necessario che ognuno si prenda le proprie responsabilità. Magari non succederà niente, anche se riteniamo che le autorità competenti dovrebbero approfondire quello che denunciamo da giorni. I tanti messaggi e le email che continuiamo a ricevere da alcuni dipendenti su certe dinamiche aziendali confermano molti dei nostri dubbi. Il pesce, si sa, puzza dalla testa. Nelle Fal lavora Michele Corvino (ufficio paghe), figlio dell’ex dirigente poi diventato capo del personale Aldo Corvino (per moltissimo tempo CGIL). Ce n’è per tutti. Sempre nell’ufficio paghe e sempre sotto il controllo di Corvino sr. lavora Giovanna, la figlia di Antongiulio Velon (UIL) che, a 67 anni, coordina i turni degli autisti. Di Giuseppe De Manna abbiamo già parlato. Ex CGIL, ora CONFAIL, molto amico di Corvino sr., è riuscito a piazzare il figlio Raffaele, che ha recentemente superato la riqualificazione da operaio, piazzandosi primo in graduatoria. Ex UGL ora CONFAIL è Marco Veneziani. Non Siamo riusciti a sapere molto della sua mansione. Suo figlio Francesco è impiegato. Uomo della CGIL è Nicola Liso. Suo figlio Pasquale è entrato in azienda come manovratore, poi è diventato autista. Adesso è capotreno. Della UIL è il capotreno Antonio Ciliberti. Il figlio Giuseppe è entrato con uno di quegli stage di cui vi diremo in seguito. È diventando un operaio. Il macchinista (ORSA) Ferrante Domenico ha sistemato suo figlio Leonardo, anche lui come il rampollo di De Manna è diventato manovratore con una recente riqualificazione interna. Appartiene alla CGIL Michele Patano, impiegato. Il figlio Maurizio è entrato come guarda barriera e ora fa l’operaio. Particolarmente interessante è proprio il concorso da guarda barriere. Entrambi operai sono Vincenzo De Benedictis (UIL) e sua figlia Valentina. Il macchinista Vincenzo Gimigliano (CGIL) ha sistemato suo figlio Vittorio, che adesso fa l’operaio. Sergio Pinto (UIL) è un macchinista. Il figlio Paolo è capotreno. Come sanno anche le pietre Cosimo Andrulli (CGIL), grande amico di Corvino, ha tramandato il suo sapere da macchinista e non solo quello al figlio Giuseppe. Avevamo già parlato di Pasquale Malatesta, l’ex sindacalista FAISA-CISNAL ha lavorato per tanto tempo insieme alla figlia Annamaria e anche il nipote Rocco, un avvocato che non è riuscito a scalare le posizioni aziendali. Ci sono delle altre situazioni sulle quali i disoccupati pugliesi e i giovani costretti a emigrare per avere la possibilità di fare quello per cui hanno studiato, vorrebbero dei chiarimenti. Uno dei capitoli è quello dei compagni di vita e lavoro. Pietro Passaquindici, responsabile unità amministrativa complessa, è marito di Clorinda Drago, la segretaria del presidente Colamussi. A Potenza, Francesco Costa, uomo di Corvino sr. e responsabile dell’Ufficio paghe, è sposato con Graziella Cersosimo, responsabile della disciplina. Ricoprono entrambi ruoli apicali. Gianni Vincenzo, stando ad alcune indiscrezioni creditore dalle FAL dei fitti dei locali baresi in corso Italia, è unito a Maria Portoghese (sono nello stesso ufficio e tutti e due CGIL), ricoprendo ruoli apicali. Della CGIL e ben vista da Corvino sr., è Annamaria Caradonna, moglie di Giuseppe Luongo, assunto a Potenza e poi trasferito alla corte dello Corvino. Lavorano nello stesso ufficio. Ci sono, poi, alcune figure il cui ingresso in azienda ha suscitato non pochi mal di pancia, tutt’altro che guariti. Leonardo De Bellis, autista personale del presidente, per esempio. Massimiliano Natile, uomo di Colamussi (come il presidente è di Forza Italia) è il responsabile degli investimenti. Un’assurdità se si considera che a Potenza – per fare un esempio – ci sono due ingegneri che guidano i treni e per i quali nessun sindacato si è mai speso, nonostante vorrebbero fare ciò per cui hanno studiato. A quanto pare, il capo del personale non permetterebbe loro di scendere dai treni tirando in causa il un assurdo regolamento interno, approvato da lui e sindacati anni fa. Un regolamento che non premia il merito. In sostanza, se appartieni al personale viaggiante, con parametro basso, non hai diritto nemmeno a fare concorsi interni per parametri più alti anche se hai sei lauree. Uno dei casi più discussi, però, è quello legato all’assunzione di Viviana Fox, nelle elezioni del 2008 segretaria di Antonio Distaso (Forza Italia). Sul suo conto se ne dicono tante, ma non le riferiamo per non cadere nel gossip. Sarebbe stata assunta senza un concorso subito dopo le elezioni e, dopo solo tre anni in azienda, è al massimo del livello apicale. È responsabile di tutti gli affidamenti agli studi legali, consulenze e transazioni. Un’altra anomalia è proprio quella dell’affidamento di incarichi esterni, nonostante l’azienda abbia all’interno un nutrito gruppi di professionisti validi, ma sistemati in posti sbagliati, frustrati e richiamati costantemente al minimo dissenso, alla minima contestazione. Non si tratta solo di beghe interne. Ciò che spesso si dimentica è che le Ferrovie Apulo Lucane sono un’azienda pubblica, non un feudo Medievale. Il danno – indipendentemente da quello che dicono i bilanci – è fatto a tutta la comunità, non solo ai poveri disgraziati che non fanno parte del cerchio magico. L’elenco è lunghissimo e include, per esempio, anche le aziende esterne alle quali vengono affidati incarichi diretti. Aziende nelle quali lavora gente imparentata con pezzi più o meno grossi delle Ferrovie Apulo Lucane. Iniziamo dalla Mafer, fornitore esclusivo per le FAL da 30 anni di materiale ferroviario (ricambi di vario genere). In regime di assoluto monopoli, può permettersi di applicare i prezzi che vuole. Le FAL azienda pubblica, lo ricordiamo – non hanno mai sentito la necessità di chiedere preventivi alla concorrenza. Nando Bucarella è il titolare. È cresciuto proprio nelle FAL (essendo stato anche fornitore delle Ferrovie Sud Est mediante il padre che ci lavorava). Nando Bucarella è intimo amico di Pietro Passaquandici. Pierpaolo, il figlio di Passaquindici, lavora da anni per la Mafer. La ditta Bellizzi, da 30 anni fornitrice esclusiva di materiale e lavorazioni sul materiale ferroviario, di riparazione di pompe diesel, negli ultimi anni si è specializzata anche sul parco automobilistico. Pure Bellizzi è tra le ditte storiche che hanno per moltissimi anni operato senza gare. Il titolare, Alberto Bellizzi, e prima di lui Italo, sono amici personali di Passaquindici. Da Bellizzi lavora da molti anni ormai la figlia di Passaquindici, Valentina eil figlio del capo tecnico dell’Officina motori, Guseppe Maiullari. La cosa che fa riflettere è il fatto che sono proprio Maiullari e Passaquindici a richiedere le lavorazioni o gli acquisti di materiale. Attraverso loro, poi, vengono decise le congruità dei prezzi, si stabiliscono le quantità degli acquisti e si procede al pagamento. Le Ferrovie Apulo Lucane sono un carrozzone che premia qualcuno e danneggia la maggior parte dei lavoratori. Una situazione emblematica di come funziona il mondo del lavoro in Italia. Nel corso degli anni qualcuno di questi nomi era già venuto fuori, per la verità erano emersi anche altri che non abbiamo scritto. Ci sono state denunce e interrogazioni argomentatissime. Adesso, però, la misura è colma e bisognerebbe ripristinare la regolarità più volte sacrificata sull’altare della raccomandazione. Abbiamo deciso di non tirarci indietro. Qualcuno potrebbe essere passato da un sindacato a un altro o qualche nome di battesimo potrebbe essere inesatto. Qualcun altro potrebbe aver lasciato l’azienda e i rapporti di amicizia – documentabili in mille modi – saranno certamente contestati. Facciamo un appello ai politici che in questi giorni ci stanno chiedendo carte e testimonianze. Dimostrate di tenere al vostro territorio e a tutti i cittadini in egual misura. Al netto di qualche imprecisione, resta assolutamente in piedi tutto l’impianto di una gestione familiare e clientelare.
Parentopoli sui binari, il virus FAL colpisce la CIRCUMETNEA: ecco i nomi dei parenti, continua ancora Antonio Loconte il 5 Maggio 2015. Il virus delle Ferrovie Appulo Lucane, che ha portato parenti e amici della politica a entrare in azienda in maniera a dir poco sospetta, purtroppo, ha colpito anche la città di Catania e la provincia. La cosa più preoccupante è che nella FCE, la Circumetnea, l’epidemia è più diffusa. In Puglia come in Sicilia sono in corso battaglie legali e indagini della Procura. Il virus, però, appartiene al ceppo italico della consuetudine. Per molti ricercatori il più difficile da estirpare, avendo radici solidissime ancorate alla tutela di figli, mogli, generi e persino figliocci (categoria molto diffusa al Sud). Ieri – dopo aver chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato – la FCE ha permesso l’avanzamento di carriera a 10 dei 13 vincitori di altrettanti concorsi interni. Per gli altri 3 di area tecnica – essendo stato presentato un tribolato ricorso specifico al Tar – il verdetto dovrebbe arrivare il 13 maggio. Quesa situazione particolarmente controversa ci ha spinto a fare un approfondimento sulle decine e decine di concorsi banditi dalla FCE per la ricerca del personale. Graduatorie dalle quali si continua ad attingere nonostante i concorsi (anche del 2012), prevedessero un determinato numero di assunzioni. I 5 autisti sono diventati per esempio 25; i 2 operatori di manovra sono diventati 9 e così via. Sugli amici della politica e gli ammanicati non possiamo esprimerci perché i loro rapporti, pur essendo noti anche alle pietre, non hanno una validità scientifica. Ciò che è stato più facile individuare in queste graduatorie è stato il grado di parentela o comparizio (testimoni di nozze, padrini e madrine di battesime e cresime). Tradizione, quest’ultima, particolarmente diffusa tanto in Puglia quanto in Sicilia. Date, graduatorie e protocolli sono facilmente reperibili sul sito internet dell’azienda circumetnea.it (sezione concorsi). Mettetevi comodi perché l’elenco è lungo e articolato. Partiamo dal concorso probabilmente più controverso, secondo alcuni costruito ad arte per far entrare in azienda persone alle quali è stato già preparato un altro posto: due posizioni per operatore di manovra. Per partecipare non servono requisiti specifici, basta la licenza media. Secondo i malpensanti un modo per far entrare i figli di sindacalisti e dipendenti rimasti fuori dagli altri concorsi. Luca Mortellaro, Giulio Antonio Bonaccorsi, primo e secondo, si dimettono per andare a fare gli operatori di esercizio, altro concorso a cui hanno partecipato. Curioso il caso del terzo: Ignazio Biuso. Lavorava come geometra nella FCE prima di fare il concorso per operatore di manovra, ma nonostante tutto – non avendo più la qualifica – continua a frequentare l’Ufficio tecnico, entrando e uscendo a piacimento con un proprio badge. Luigi Maugeri, il quarto, è fratello di Fulvio, RSA della CGIL. Aldo Ronsivalle, il quinto, a detta dei bookmakers andrà presto a fare il capotreno, liberando un altro posto. Ronsivalle è figlio del capotreno Vincenzo e uomo fidato di Lorena (UIL). C’è, poi, appunto Lorena Federica, un bravo avvocato. Tanto bravo che, sempre secondo i bookmakers, potrebbe accomodarsi presto come collaboratrice nell’ufficio legale della FCE. Una figura professionale finora non prevista, aggiunta recentemente in pianta organica, rimodulata tre volte in un anno. La Lorena non è solo molto brava. È anche figlia di Alberto Lorena, ex capo ufficio, neo funzionario alla direzione amministrativa nell’Ufficio paghe, ex RSA UIL, ora dirigente UIL. Riccardo Calì e Alfio Ferri, invece, avrebbero lasciato le Ferrovie dello Stato, piazzandosi settimo e ottavo tra i manovratori FCE. Massimo Spina, è il figlio di Giovanni, ormai in pensione. Massimo, dicono i bookmakers, sarebbe destinato a indossare i panni del capotreno come Ronsivalle. La graduatoria è quasi tutta un inno alla parentela fino al 22mo posto di Luigi Pezzillo, marito di Federica Lorena. I più arditi stanno scommettendo sul fatto che si possa scorrere la graduatoria fino a queste latitudini. Noi, però, non siamo così spregiudicati perché prima di arrivare al 22mo posto di Pezzillo ci sono da sistemare Costantino Coppola, figlio di Raffaele, capo ufficio movimento e dirigente CISL; Giovanni Riciputo, figlio del macchinista e dirigente FAISA Antonio; Furnari Carmelo, figlio dell’ex dipendente Salvatore; Gianluca Galati, figlio dell’ex dipendente Salvatore. Un’altra cosa curiosa di questo concorso sono le domande fatte durante la selezione, non sul regolamento della Ferrovia Circumetnea, ma su quello delle Ferrovie dello Stato. Perché se i segnali, per esempio, non sono gli stessi? Perché se quello che in un regolamento vuol dire una cosa, nell’altro ha un significato diverso? Un’idea ce la siamo fatta, ma siamo nel campo delle ipotesi e avrete capito che noi non azzardiamo. Noi. Nei corridoi delle FCE qualcuno scherza sul fatto che l’azienda sia diventata una succursale dell’Ikea, in considerazione dell’alto numero di falegnami di cui c’è bisogno pur non essendo più nel 1800. Un posto utile, ma alla fine ne sono entrati quattro. Al concorso interno – come spesso succede alla CIRCUMETNEA – non partecipa nessuno e per questo si procede con una selezione pubblica. I vecchi falegnami intanto sono diventati capiufficio o capo operatori. Al quarto posto si piazza Damiano Caruso. Il padre Angelo è un RSA della UGL. Capitolo operatore di manutenzione. Primo arriva Giuseppe Merlo, figlio di un caposquadra di una ditta di armamento ferroviario. A seguire Vito Mario Farina, figlio di Mario, operatore di esercizio e nipote di Antonio, ex capotreno neo promosso coordinatore di movimento. Damiano Catania è figlio di Maurizio, neo capo operatore dello stesso settore in cui è stato assunto. Ai tempi Maurizio era operatore qualificato. Non solo. Damiano è anche nipote di Giancarlo, transitato dal personale stazione al personale uffici, grazie a un provvedimento giudicato ad personam. Giovanni Vinci, il quarto, è figlio di Antonio, operatore d’esercizio, e autista personale di Virginio Di Giambattista, il gestore della FCE e direttore generale del Trasporto Pubblico Locale (TPL) del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (Su Di Giambattista torneremo a parlare in maniera specifica). Il quinto, Strano Salvatore, è figlio di Alfio, ex dipendente, ma ai tempi della selezione operatore tecnico di manutenzione. Settimo posto per Francesco Lo Schiavo, figlio di Giovanni, segretario provinciale della Fast Confsal e macchinista, il quale ha attraversato tutte le sigle politiche e sindacali di Catania, pare uno molto influente per le dinamiche aziendali. Nono è Calì Gioacchino Andrea, figlio del macchinista Salvatore e cugino del macchinista Alfredo e del capotreno Giovanni. Marco Mario Mannino, piazzatosi subito dietro, figlio di Giovanni, ex dipendente, della FAISA-CISAL. Giuseppe Zingali è undicesimo. È figlio e nipote dell’operatore di esercizio Alfio e dell’operatore di stazione Carmelo, pure loro UIL. Tra chi sta per entrare, scorrendo la graduatoria, ci sono anche Aldo Ronsivalle, che abbiamo trovato nell’enco dei manovratori. Alessio Azzara (quindicesimo), invece, è il figlioccio del capo operatore manutenzione Nunzio Pecorino, il cui figlio è arrivato, purtroppo, solo ventiquattresimo. Grazie alle nomine sbloccate ieri, a giorni entrerà nella Ferrovia Circumetnea anche Scarpignato, figlio di Franco, assistente coordinatore movimento, secondo quanto ci viene riferito particolarmente vicino al direttore d’esercizio Sebastiano Gentile. Uno dei due verniciatori è Cardullo, Santo come suo cugino, neo funzionario FCE al movimento. Antonino Scavuzzo, è figlio di Santo, ex operatore di esercizio ora in pensione. I quattro posti per elettromeccanici impianti tecnologici sono diventati sette. Tra questi ci sono Salvatore Rosario Alberti, nipote di Concetto Fortunato, già segretario RSA UGL e operatore generico FCE; ma anche, Marco Agatino Sciuto e Giuseppe Rosta figli di dipendenti o ex dipendenti della FCE. Un manipolo di figli della politica e dipendenti è riuscito a piazzarsi come operatore di esercizio, in altre parole autisti. I cinque posti sono diventati 25. Su tutti, il caso del secondo in graduatoria, Andrea Fiore, figlio dell’ex dipendente Salvatore (RSA UIL) e cugino di primo grado di Salvatore Fiore, il dirigente tecnico della FCE (Anche nel caso di Fiore ci sarà molto da dire nelle prossime settimane). Fiore non è l’unico tra i 25 ad avere rapporti di parentela con dipendenti ed ex dipendenti: Rizzeri Giuseppe, Fichera Angelo, Privitera rosario, Puglisi Severino, Persiano Alfio. Quest’ultimo, poi, era già operatore di esercizio a tempo determinato della FCE, autista personale del direttore generale Vincenzo Garozzo, poi assunto a tempo indeterminato dall’azienda Municipale del trasporto di Catania, da cui si licenzia per partecipare, risultando idoneo, al concorso di autista alla FCE. Tra i tre fabbri segnaliamo il secondo, Carmelo Santoro, figlio del capo squadra manutenzione Matteo. In poco tempo Carmelo s’è guadagnato un posto da capotreno. Al quarto posto, invece, con la possibilità di rientrare in gioco s’è piazzato Francesco Mario Sciacca, genero di Michelangelo Puglisi, capo del settore falegnameria delle FCE. Nella graduatoria degli otto motoristi spiccano il primo e l’ultimo, i fratelli Ottavio e Alfio Salamone. Il primo è consigliere comunale a Santa Maria di Licodia. In mezzo ci sono i figli dei dipendenti ed ex dipendenti: Alfio Privitera, Pasquale Spina, Giovanni Di Perna, Rosario Di Bella, Santo Giglio. Chiusura dedicata gli elettromeccanici. Cinque posti utili. Il primo della lista è Daniele Murgana, cognato (marito della sorella) dell’ex segretario RSA CGIL Antonio Gulisano (dimessosi dal sindacato appena in tempo), capo operatore impianti tecnologici della FCE. Secondo è Antonio Pafumi, figlio di Isidoro, ex dipendente. Il testimone di nozze di Antonio è il dirigente tecnico delle FCE Salvatore Fiore. Antonio Pafumi è uno dei tre di area tecnica il cui avanzamento di carriera è stato temporaneamente sospeso dal Tar e ratificato dal CGA. Pafumi sarebbe dovuto finire nello staff personale del compare di nozze. Ignazio Palumbo è figlio di Rosario, operatore qualificato (tornitore). Riccardo Gino Vasta, quarto, è figlio di Antonino, ex capo dell’Ufficio acquisti, oggi in pensione. Riccardo, entrato con parametro 140, in un anno, proprio ieri, è volato al parametro 193, a dispetto delle indicazioni del Tribunale Amministrativo Regionale della Sicilia che, per analogia rispetto ai tre bloccati dal Tar. Il quinto in graduatoria, Salvatore Finocchiaro, è figlio di Gaetano, ex RSA CISL. Il papà di Salvatore Puliafito è il macchinista Paolo. C’è poi una storia di dignità, assurda per molti versi in questo assurdo contesto, quella di Leonardo Privitera, ottavo, nella stessa graduatoria per elettromeccanici. Privitera – all’oscuro di questo articolo, ma siamo certi conscio della stima di una parte dei colleghi – è fratello di un dipendente delle FCE e figlio di un ex dipendente. Nonostante tutto, insieme allo zoccolo duro dei 106 precari fatti fuori pur avendo lavorato per almeno 4 anni in azienda, non solo ha sostenuto il concorso – arrivando ottavo – ma pur avendo diritto di rientrare è stato tenuto fuori per un lungo periodo. Senza ragioni, per il gusto di non far lavorare uno che ha deciso di non allinearsi. La graduatoria da elettromeccanico di impianti tecnologici, infatti, a differenza delle altre, è stata tenuta immobilizzata per due anni almeno pur essendoci posti liberi da riempire. La storia di Privitera è la prova di come le cose possano andare in un certo modo, pur essendo parenti o amici di politici, dipendenti o sindacalisti. A nessuno deve essere negato il lavoro, purché non si sbarri la strada a chi partecipa a gare e concorsi pubblici, certo dell’imparzialità.
Ovviamente ci scusiamo per aver dimenticato di citare altre persone o nel caso avessimo sbagliato i nomi di battesimo o le esatte qualifiche dei menzionati. Come dicevamo, l’elenco è lungo e siamo solo all’inizio di questa storia. Dal 2002 almeno il 60% delle persone vincitrici dei concorsi pubblici a tempo indeterminato a cui fa riferimento questo articolo, hanno un lungo trascorso aziendale. Sono transitati nella Ferrovia Circumetnea prima come lavoratori interinali, poi, grazie ai commissari che si sono succeduti negli anni, sono passati nel 2006 a tempo determinato direttamente con l’azienda attraverso altre selezioni pubbliche, per arrivare al 2008-2009 al rinnovo dei contratti a tempo determinato anche a seguito dell’applicazione del diritto di precedenza previsto dal Regio Decreto 148/31 e dalla legge numero 368/2001. In conclusione – La vicenda delle Ferrovie Appulo Lucane e delle Ferrovia Circumetnea hanno molto in comune e dovrebbero far riflettere su certe dinamiche. Storie, presunti abusi e raccomandazioni che contribuiscono a fare dell’Italia ciò che è, con la complicità di chi dovrebbe intervenire, ma per non infastidire nessuno, resta a guardare decomporsi il cadavere.
Strage Puglia, il pm: "Parlare di errore umano è corretto ma riduttivo". Strage Puglia, il procuratore facente funzioni di Trani, Francesco Giannella, osserva che "parlare di errore umano è corretto ma assolutamente riduttivo", scrive Raffaello Binelli, Giovedì 14/07/2016, su "Il Giornale". "Parlare di errore umano è corretto ma è assolutamente riduttivo. Per ora è un work in progress, noi ci impegneremo per fare sì che tutti coloro che hanno avuto un ruolo in questo terribile disastro, se lo hanno avuto, siano perseguiti dalla giustizia". Così il procuratore facente funzioni di Trani, Francesco Giannella, ha risposto ai cronisti facendo un punto sulle indagini per la tragedia ferroviaria tra Andria e Corato. "Tutti vogliono i veri colpevoli - ha aggiunto - e la richiesta di giustizia dei familiari delle vittime è legittima". Giannella non conferma il numero degli indagati - secondo alcune fonti giudiziarie sarebbero soltanto due i nomi iscritti nel registro, i due capostazione di Andria e Corato, ma non ci sono conferme. Ma rivela che per gli investigatori la dinamica di quel che è accaduto è chiara: "In linea di massima la dinamica è stata ricostruita ma dobbiamo avere certezze". Colpa di un cambio di treno? Moglie e figlia di una delle 23 vittime (Enrico Castellano) riferiscono la versione data da alcuni sopravvissuti: i passeggeri del treno partito da Andria sarebbero stati fatti scendere dal primo treno, fermo sul binario 1, per salire su un secondo convoglio, fermo sul binario 2, che sarebbe partito in ritardo. La causa dell'incidente potrebbe essere legata proprio al cambio di treno. "La comunicazione tra i capistazione per il via libera - si ipotizza - si sarebbe basata sul primo treno e sull'orario di partenza di questo, che però non è più partito. E non sul secondo convoglio che invece è partito in ritardo rispetto al primo". Dalla procura di Trani, però, al momento non ci sono conferme.
"La verità la sappiamo ma non la diciamo". La parola d’ordine dell’azienda è non parlare con i giornalisti. Il personale: «Basterà ascoltare le registrazioni», scrive Michele De Feudis il 24 luglio 2016 su “Il Tempo”. «Ferrovia sgarrupata, sistemi di comunicazione antiquati, vagoni arcaici? Tutte falsità. Questa azienda è un gioiello. La versione dell’incidente? Abbiamo una idea, ma la teniamo per noi». Nelle stazioni della Ferrotranviaria di Corato e Andria, dopo lo scontro tra treni che ha causato la morte di ventitré tra passeggeri, macchinisti e un capotreno (una cinquantina i feriti, di cui quattro gravi), l’ordine dell’azienda è «non parlare con i giornalisti». Le dichiarazioni del personale però sgorgano come un fiume in piena quando è messa in discussione la professionalità dei lavoratori (i due capistazione sono indagati e sospesi dal servizio). «Seguiamo duri corsi di formazione - spiega un capotreno che vuole rimanere anonimo - e abbiamo connaturato al nostro ruolo un forte senso di responsabilità. Le cause dello scontro? Verranno appurate con le registrazioni telefoniche e i fonogrammi».
Binario Unico? Una “Balla”! In Puglia sono morti per questo, scrive Franco Bechis il 14 luglio 2016 su "Libero Quotidiano". Un approfondimento giornalistico sul tragico incidente ferroviario pugliese. Una “lezione” di giornalismo esemplare, di Franco Bechis vicedirettore del quotidiano LIBERO. Era un giorno da segnare in agenda per tutti, quel 19 luglio 2013. Lo si è ben visto all’aeroporto di Bari, dove sono apparsi all’improvviso i big della politica pugliese. Davanti a tutti, con bel paio di forbicione in mano per la cerimonia del taglio del nastro l’allora presidente della Regione, Nichi Vendola. Alle sue spalle, un po’ ingrugnito per la scena rubata dall’altro, Michele Emiliano che in quel momento era sindaco di Bari. E poi primi cittadini di tutti i capoluoghi e i comuni, tra cui Pasquale Cascella, allora sindaco di Barletta ed ex portavoce al Quirinale di Giorgio Napolitano. C’era perfino un monsignore, Alberto D’Urso a rappresentare l’arcidiocesi di Bari-Bitonto con in mano l’aspersorio per la benedizione di rito. E poi una sfilza di manager e dirigenti pubblici e privati. Davanti a tutti naturalmente il presidente e amministratore delegato di Ferrotramviaria, Enrico Maria Pasquini, perché ad essere inaugurata e benedetta quel giorno era l’ultimo tratto della linea ferroviaria che oggi si direbbe maledetta: quella in cui si sono scontrati e accartocciati due treni, portando via 23 vite e ferendo decine di passeggeri. L’ultimo tratto di quella linea era quello che la portava all’aeroporto Karol Wojtyla di Bari, la ragione per cui sulle carrozze maledette qualcuno viaggiava l’altro ieri. Grande evento dunque, e parolone sparse con generosità da Vendola ed Emiliano: grazie a quella ferrovia – dissero- la Puglia era entrata definitivamente in Europa, e altre amenità simili con la roboante retorica del presidente della Regione Puglia. Fu l’occasione anche di un piccolo incontro pubblico, con i saluti ufficiali dei vari relatori che precedettero il taglio del nastro davanti ai gongolanti amministratori della Ferrotramviaria. Il direttore generale della compagnia, Massimo Nitti, strabordò, definendo quel prolungamento con passante nella città di Bari “un qualcosa che colpisce i sensi”. Ma si spinse oltre il rappresentante del ministero dei Trasporti, Alessandro De Paola, direttore dell’Ufficio speciali trasporti impianti fissi (Ustif) della Puglia, che lodò preso dall’entusiasmo “l’alto livello tecnologico della realizzazione innovativa soprattutto per la parte di segnalamento e sicurezza, che la pone fra le infrastrutture di alto livello tecnologico in Italia”. Mai complimenti furono concessi così frettolosamente e fuori posto, come tragicamente si è visto in queste ore. Quell’intervento dell’ingegnere però ci dice una cosa: l’Ustif Puglia, e quindi il ministero dei Trasporti, era il controllore di quella linea ferroviaria. E avrebbe dovuto conoscere perfettamente quel che è emerso in queste ore ed è la causa principale del terribile incidente ferroviario: l’assenza proprio di quel sistema di segnalamento e sicurezza di cui è dotata tutta la rete ferroviaria italiana su cui passano treni veloci e meno veloci di Ferrovie dello Stato. I dispositivi Sctm– sistemi di sicurezza per controllare la marcia dei treni non c’erano e non erano in funzione sull’intera tratta Bari-Ruvo di Puglia, e se ci fossero stati come nel resto di Italia quei due treni non si sarebbero scontrati perché sarebbero stati automaticamente fermati prima di trovarsi uno di fronte all’altro. Quell’assenza avrebbe dovuto essere nota al Ministero dei Trasporti che ancora oggi se ne lava le mani, e conosciuta pure da tutte le autorità istituzionali della Puglia. Che invece si spellavano le mani raccontando frottole e facendo pure i complimenti a chi non li meritava proprio. Tutta la stampa ieri se l’è presa con il binario unico, che c’entra poco o nulla con quel che è accaduto. La maggiore parte della rete ferroviaria italiana corre su binari unici, e così è anche negli altri paesi di Europa. Ma su quei binari ci sono sistemi automatici di sicurezza che fermerebbero i treni in caso di errore umano. Perché non c’è solo l’errore colposo fra le eventualità possibili: un macchinista potrebbe sentirsi male, magari essere colpito da infarto, e così chi da una stazione dovrebbe dare il via libera o meno al passaggio dei treni. I Scmt servono anche a a supplire ad eventualità simili. Poi certo, il doppio binario per cui era in corso una gara avrebbe ridotto i rischi, ed è vero che l’apertura delle buste è stata rinviata dal 6 al prossimo 26 di luglio. Ma sarebbe stata solo il primo passo di un lungo lavoro: si sarebbe aggiudicata la gara, e poi il secondo binario ci avrebbe messo mesi e forse anni prima di essere costruito, collaudato ed entrare in funzione. Sarebbe bastato assai meno invece acquistando i sistemi di segnalamento e sicurezza che su quella linea non esistevano. Lo sapevano tutti che quello era il rischio di Ferrotramviaria. Tanto è che la Regione Puglia nell’aprile 2014 ha finanziato l’acquisto con fondi europei tratti dal Po Fesr 2007-2013. Mica un investimento da restare in mutande: 4,8 milioni di euro per la tratta Bari-Bitonto e altri 8,78 milioni di euro per la tratta Bitonto-Ruvo di Puglia. Per la prima il contratto è stato firmato dopo una procedura negoziata con Alstom Ferroviaria spa nel gennaio 2015. Nell’ultimo bilancio approvato nel maggio scorso Ferrotramviaria spa scrive che “le attività sono ancora in corso, essendo state interferite da diverse altre attività e dall’intenso esercizio ferroviario”. Parole misteriose, perché che i treni corrano è evidente, ma quali diverse altre attività erano più urgenti di quella della sicurezza della linea, che tale non era? Per la tratta Bitonto-Ruvo sempre Alstom Ferroviaria aveva firmato un contratto nel marzo 2015 “e i lavori sono in corso di esecuzione. Si ritiene che detti sistemi Scmt sia sulla tratta Bari-Bitonto sia quelli sulla Bitonto-Ruvo potranno essere attivati entro settembre 2016”. Troppo tardi, purtroppo per i 23 che non ci sono più.
Perché hanno dimenticato il Sud. Questa tragedia ci parla di investimenti non fatti, di una totale assenza di visione e prospettiva che riguarda questo governo e i suoi precedenti, scrive Roberto Saviano il 14 luglio 2016 su “La Repubblica”. Piove, governo ladro. Se piove e tracimano le fogne, se piove e si sciolgono le strade come fossero di sale, se piove e rovinano i palazzi come castelli di sabbia, se piove e tutto questo accade, allora sì: piove, governo ladro. La tragedia ferroviaria sulla tratta Corato-Andria non è una tragedia casuale, parlare di responsabilità umane è una risposta parziale che alleggerisce le istituzioni. Istituzioni che in questo paese, e nel nostro Sud, sono terribilmente, drammaticamente inadeguate. Ci sono responsabilità tecniche, responsabilità politiche locali e responsabilità nazionali: non è sciacallaggio evidenziarle, ma irresponsabilità tacerle. Sciacallo è il silenzio che si appropria di un concetto semplice: è stata una sventura. Proprio per rispetto delle vittime è un dovere puntare il dito su un sistema inefficiente che spera - spera! - che la tragedia non avvenga, senza fare nulla per evitarla. Le parole che oggi si pronunciano saranno le sole a essere ascoltate: domani, sepolti i corpi delle povere vittime, la tragedia sarà presto dimenticata, fino a quando non ne arriverà un 'altra. Chi sa parli: racconti dell'esodo di ogni pendolare, dell'impossibilità di raggiungere località meravigliose, di ritardi infiniti, di treni vecchissimi che si fermano d'improvviso su binari sperduti di campagna. Racconti dei treni a gasolio che ancora girano per il Sud. Questa tragedia ci racconta il sud Italia esattamente come chi ci abita lo vive. Questa tragedia ci parla di investimenti non fatti, di una totale assenza di visione e prospettiva che riguarda questo governo e i suoi precedenti. Al Sud non si investe sui trasporti perché non porta vantaggio politico, perché si tratta di aree da cui l'emorragia di giovani è tale che lavorare sulle infrastrutture significherebbe fare una scommessa senza un immediato riscontro di consenso. Si è scelto di dare impulso al Nord, dove un tessuto imprenditoriale esiste, in sofferenza certo, ma esiste. Il Sud si deve accontentare di qualche comunicato a effetto, due parole sulle organizzazioni criminali, mali da debellare sì, ma di cui sarebbe meglio non parlare troppo per non creare un clima di sfiducia, null'altro. Al Sud si resta in superficie, si annunciano in pompa magna corsi di formazione che sono solo realtà virtuali, esistono solo sui siti internet. Ho vissuto a Napoli tanto a lungo da riconoscere un teatrino quando lo vedo. Ho vissuto altrove tanto a lungo da indignarmi quando il teatrino è orchestrato ai danni di terre che meritano investimenti veri e non elemosine. In Campania, in Calabria, in Puglia, in Basilicata, in Molise, in Sicilia investire su trasporti e infrastrutture significherebbe dare inizio allo sviluppo di quei territori. Non impulso, non una spintarella, no: sarebbe un vero e proprio inizio. La tragedia ferroviaria in Puglia ci racconta una parte di Paese che se ancora esiste è solo per la strenua volontà di chi ci vive. Se e dove le cose funzionano al Sud è perché ci sono persone che non ci stanno a lasciare andare in malora la terra in cui sono nati, cresciuti e dove, da eroi, hanno deciso di vivere. Ciò che va bene al Sud lo si deve alle individualità. Ma lo sforzo che si richiede a queste persone è sovrumano. "Ho visto il collega piangere, ma è troppo facile dire che la colpa è sua: l'unica responsabilità è di chi non doveva permettere che uno sbaglio, uno solo, potesse portare a questa tragedia". Ecco le parole di un macchinista di Andria. Parole come pietre. L'uomo che ha commesso l'errore umano pagherà a vita responsabilità che non sono sue, non soltanto sue. Omicidio colposo plurimo e disastro ferroviario, una mattinata di ritardi e confusione nel gestire quei 17 chilometri che collegano Andria a Corato, in cui il binario è unico. Non è il solo caso in Italia di tratta a binario unico, ma è uno dei pochissimi in tutta Italia in cui non è attivo il sistema automatico di controllo e dove si richiedono ai macchinisti tempi di reazione da supereroe per evitare tragedie. Il sistema automatico di controllo è un servizio fondamentale che consente di ricevere la segnalazione che il binario è occupato da un'altra vettura ed evitare lo scontro. Sistema che sulle vetture era stato montato, ma che non poteva funzionare perché il binario è vecchio. Doveva essere messo a norma quel tratto di ferrovia, il binario raddoppiato, ma il termine del primo luglio fissato per le offerte relative alla gara d'appalto è stato da poco prorogato al 19 luglio. E così tra Corato e Andria, per gestire quel tratto a binario unico, la comunicazione avviene oggi come avveniva 50 anni fa: attraverso fonogrammi e una macchina che, come riferiscono testimoni, sembra obsoleta ed è collegata a una vecchia stampante. Allora non cerchiamo capri espiatori, ma capiamo soprattutto perché sulla Bari-Nord, una tratta che i pugliesi considerano il fiore all'occhiello dei trasporti regionali, la sicurezza di migliaia di viaggiatori, ogni giorno, era nelle mani di due macchinisti e due capistazione. Questo governo, come i precedenti, è in ritardo al Sud, non ha una visione né ha saputo provare a modificare la classe dirigente. Al Sud avrebbe potuto cambiare e non l'ha fatto, e proprio al Sud rischia di collassare. Ma il Mezzogiorno ha ormai da tempo smesso di mantenersi dentro i suoi confini meridionali (come non considerare Roma Mezzogiorno italiano?) e, come la linea della palma, si sta alzando. Ricordate la metafora di Sciascia? "A me è venuta una fantasia, leggendo sui giornali gli scandali di quel governo regionale: gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il Nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno... La linea della palma... E sale come l'ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma... degli scandali: su su per l'Italia, ed è già oltre Roma...".
La tragedia in Puglia e il disastro dei commentatori. Gramellini usa i luoghi comuni su vizi e virtù degli italiani, Annunziata parla di buchi neri, Saviano usa tutti gli stereotipi sul sud e Lagioia parla di treni che non esistono, scrive Luciano Capone il 13 Luglio 2016 su "Il Foglio". E’ inevitabile e anche naturale che quando accade una tragedia come un disastro ferroviario di queste dimensioni e con un così alto tributo di vite, si faccia in una certa misura ricorso alle armi della retorica. Ma nel caso dello scontro tra i due treni in Puglia, tra Andria e Corato, i commentatori si sono lanciati in esercizi di stile tra il manierista e il rococò, completamente sconnessi dai fatti. Sulla Stampa Massimo Gramellini parte con la stereotipata disamina di vizi e virtù degli italiani: “Quale sarà la vera Italia? L’Italia che nel secolo dell’alta velocità boccheggia ancora sopra un binario unico, oppure quella che di slancio si mette in coda nelle corsie d’ospedale per donare il proprio sangue ai feriti? Il guaio è che sono vere tutte e due. La prima Italia, così ripetitiva e immutabile nei suoi vizi, ogni volta ci sgomenta al punto da farci dimenticare l’esistenza dell’altra, sentimentale o semplicemente viva, che invece sopravvive intatta tra le pieghe del cinismo disseminato a piene mani spesso dai ceti più colti”. Il binario unico prende così il posto del Suv parcheggiato sul marciapiede o in doppia fila e diventa il simbolo dei mali del paese. E chissenefrega se il binario unico non c’entra, se la maggior parte delle ferrovie d’Europa sono a binario unico, dalla Germania alla Svizzera, e basta avere dei sistemi di sicurezza efficienti per evitare incidenti. Sembrerà strano, ma il doppio binario serve là dove c’è un elevato traffico, serve per fa viaggiare merci e persone e non per evitare collisioni. Perché gli incidenti ferroviari avvengono anche dove c’è il doppio binario se si verificano falle nei sistemi di sicurezza. Ma il discorso su vizi e virtù dell’Italia viene così bene che Gramellini raddoppierebbe seduta stante tutti i binari del paese per far viaggiare i buoni su uno e i cattivi sull’altro. Sull’Huffington post Lucia Annunziata invece dice che “Tutti siamo pendolari”: “C'è sempre, in Italia, il buco nero di un pozzo che ci si para davanti e su cui ci affacciamo per scoprire quanto fragile, incerta, non garantita sia la vita quotidiana di tutti noi in questo paese. Uno di quei pozzi si è aperto oggi in mezzo agli ulivi sulla linea ferroviaria fra Andria e Corato”. Non ci sono viziosi e virtuosi, siamo tutti nel pozzo nero. Roberto Saviano invece fa il meridionalista e denuncia lo stato di abbandono delle ferrovie al sud: “A Renzi spetterebbe il compito di rendere il servizio ferroviario dignitoso, un servizio che è abbandonato, trascurato, sottodimensionato. Muoversi in Puglia, in Calabria, in Campania, in Basilicata, in Sicilia è un’impresa da avventurieri”. Stessi commenti sul Sud dimenticato su Avvenire e sul Meridione abbandonato sul Manifesto. Non conta che i treni delle Ferrovie del Nord Barese che si sono scontrati, probabilmente per un errore umano, siano nuovi e moderni e a detta dei pendolari pugliesi abbiano sempre garantito un servizio puntuale ed efficiente, accessibile anche ai non avventurieri. L’immagine dell’arretratezza del sud e dei treni a carbone è talmente forte ed evocativa che non possiamo rinunciarci solo perché la realtà è diversa. Su Repubblica invece il premio Strega Nicola Lagioia scrive un commento che come stile, per il giusto mix di ars retorica e pathos, sta tra Marco Fabio Quintiliano e Concita De Gregorio: “I treni coinvolti nel terrificante impatto verificatosi tra Andria e Corato non erano convogli ad alta velocità. Erano i mezzi di trasporto su cui ogni giorno si muove il Paese reale. Pendolari. Studenti. Migranti”. Sui regionali non viaggiano quindi gli immigrati o gli stranieri, magari arrivati chissà quanti anni fa, che non hanno ancora diritto ad essere pendolari come gli altri. Viaggiano i migranti, che appunto migrano da Barletta a Corato o da Andria a Ruvo. Ma oltre ai migranti su quei treni viaggiano “camerieri, precari, professori di scuola media, disoccupati, baby sitter, anziani senza mezzi, imbianchini, badanti, interinali, domestici a ore, muratori” e così via. “E’ sufficiente scendere da un Frecciarossa, da un Frecciargento, da un Italo e salire su un regionale” per ritrovarsi “in un mondo molto distante da quello che viene fuori dal racconto ufficiale del paese”. Lagioia svela quindi al Paese immaginario che il Paese reale viaggia “a bassa velocità”: “Sono spesso i corpi e i volti di chi è stato lasciato indietro, di chi lotta con i denti per non essere sbattuto fuori dal consesso sociale”, dice lo scrittore, concludendo che “sono la testimonianza che Pier Paolo Pasolini aveva torto” perché “la pialla dello sviluppo, che avrebbe dovuto rendere tutti uguali, ha avuto il più imprevedibile (e per certi sensi disastroso) degli arresti. Se volete un bagno di realtà, veniteli a incontrare sui treni che viaggiano lenti”. Ma Lagioia l’ha mai preso un Frecciarossa, un Italo o un Frecciargento, magari non in prima classe? Perché in quei vagoni si vedono proprio le stesse “facce” dei regionali, quelle di persone comuni (al netto della affettata descrizione da diseredati e miserabili). Su Italo e sul Frecciarossa, che con le offerte garantiscono prezzi molto accessibili, viaggiano studenti, imbianchini, immigrati, pendolari, anziani, precari, magari quando devono andare da Torino a Milano, da Roma a Firenze, da Napoli a Bologna. Quando invece devono spostarsi da Corato a Barletta non prendono il Frecciarossa, non perché “sono i nuovi poveri” e con quelle “facce” non li fanno salire, ma perché la distanza è di 20 chilometri. L’alta velocità per la tratta Barletta-Bitonto non c’è perché non serve. Pasolini avrà pure torto, ma Lagioia da quanto tempo non prende un regionale?
Il binario unico del giornalismo italiano. A Bari la strage è originata da un errore umano e da un ritardo tecnologico figlio della burocrazia appaltante locale e nazionale, scrive Mario Sechi il 13 Luglio 2016 su "Il Foglio". I giornali hanno scoperto il binario unico. I titoli di oggi sulla tragedia di Bari sono in ciclostile. Corriere della Sera: “Morire sul binario unico”. La Stampa: “Apocalisse sul binario unico”. Repubblica: “La strage del binario unico”. Il Messaggero: “La strage del binario unico”. La Gazzetta del Mezzogiorno: “Il binario unico scatena l’inferno”. Poi c’è il classico “Binario morto” (il Giornale) e non può mancare “L’inferno fra gli ulivi” (l’Unità) e “L’inferno sui treni dei pendolari (Il Secolo XIX). A giudicare da questo colpo di fantasia collettivo, i 27 morti e 50 feriti sono stati causati dalla presenza aliena del binario unico. Non è così. Gran parte della rete ferroviaria italiana viaggia sul binario unico e il raddoppio della linea avviene in presenza di alti volumi di traffico. Chi fa binari unici senza passeggeri da trasportare, spreca il denaro del contribuente. A Bari la strage è originata non dalla presenza del binario unico, ma da un errore umano e da un ritardo tecnologico figlio della burocrazia appaltante locale e nazionale. Pare ci sia stato un “buco” nella telefonata tra capostazione, macchinista e capotreno. La tecnologia avrebbe ridotto drasticamente le possibilità di errore. I treni si scontrano quando non funzionano i controlli. I treni si scontrano anche su un binario doppio. I treni si scontrano se c’è un errore umano o un guasto tecnico. La situazione della rete italiana, questo straordinario “binario unico” pugliese che domina le prime pagine dei giornali, non è un’eccezione, è la regola della rete ferroviaria in Italia e in Europa. L’incidente, secondo tradizione italica viene commentato con un'altra serie di errori, frasi fatte e analfabetismo di andata e di ritorno. Dunque, a ruota libera, c’era il binario unico, siamo un paese del terzo mondo, il Sud è abbandonato, è colpa di Berlusconi, è colpa di Prodi, è colpa di Monti, è colpa del neoliberismo, è colpa di Renzi ma anche della Boschi e piove governo ladro. Sul binario tedesco (unico o doppio) muoiono più persone e così pure in quello francese. L’Italia deve fare investimenti sulla sicurezza, levare agli enti locali qualsiasi diritto di veto e competenza. Stazione d'arrivo: la realtà. Buona giornata.
Gli errori da non fare nel commentare il disastro dei treni in Puglia. Più di venti morti nello scontro di questa mattina tra Andria e Corato. “Ma prima di accusare la rete ferroviaria privata italiana è bene guardare i dati oggettivi”. Parla Andrea Giuricin, docente di Turismo e Trasporti all’Università di Milano Bicocca, scrive Enrico Cicchetti il 12 Luglio 2016 su "Il Foglio". Le prime carrozze si sono sbriciolate, accartocciate in un groviglio di rottami e vetri a pezzi. Sarebbero – al momento – venti i morti e più di trenta i feriti nel disastro ferroviario di questa mattina nella campagna pugliese, tra Andria e Corato. Lo scontro frontale, violentissimo, è avvenuto tra due treni di linea della Bari Nord, sul tratto ferroviario a binario unico gestita da Ferrotramviaria spa. La società privata, costituita nel 1937 dal conte Ugo Pasquini, è proprietaria dei treni e dell’infrastruttura ferroviaria. Convogli nuovi e un sistema computerizzato a dare il via libera. Ma qualcosa è andato storto. La brutalità dell’incidente scatena subito il bisogno di cercare cause, trovare spiegazioni, affibbiare responsabilità. Viene da chiedersi se il disastro sia stato provocato dal fatto che i treni viaggiavano su binario unico, se la causa sia che i treni erano di una società privata, se la colpa sia della Tav o delle datate infrastrutture del Mezzogiorno - errore umano o meno. “Dopo ogni incidente di questa gravità”, spiega al Foglio Andrea Giuricin, docente di Turismo e Trasporti della Facoltà di Economia all’Università di Milano Bicocca, “è normale e umano rimanere scioccati, ma bisogna riportare i dati per avere una panoramica oggettiva”. Il primo capro espiatorio è la rete ferroviaria privata: “La più grande balla che possa esistere”, assicura Giuricin. “Se si guardano le statistiche il settore ferroviario britannico, che è totalmente privato, da dieci anni a questa parte è il più sicuro in Europa. Molto più delle ferrovie francesi e italiane, ad esempio. Si può anche notare che dal 1987 ad oggi l’alta velocità giapponese, un altro sistema privato, non ha mai avuto un incidente”. I dati Eurostat sono chiarificatori: nel 2014 gli incidenti ferroviari in Gran Bretagna hanno provocato in totale 34 morti su 65miliardi di passeggeri per chilometro. In Italia i decessi salgono a 113 per 50miliardi di utenti, mentre in Germania i morti sono 300 per 89 miliardi di passeggeri per chilometro. “Solo il 12 per cento delle morti sulla rete ferroviaria”, spiega poi Giuricin “avviene per veri e propri incidenti, come quello di oggi. Significa che l’88 per cento dei casi sono persone o macchine che attraversano passaggi a livello o binari laddove non si può. E non bisogna neppure guardare solamente ai dati del singolo anno”, continua “perché un grave incidente come quello di Bari può far saltare il tavolo. Guardando ai dati di medio e lungo periodo, l’andamento è evidente. Il settore privato è scagionato”. Per quello che riguarda l’alta velocità poi, i dati sono ancora più stringenti: “L’unico incidente è avvenuto in Cina, dove l’infrastruttura è gestita dal settore pubblico”. La seconda accusa è stata rivolta al binario unico su cui viaggiavano i convogli. “Non è così: è solo questione di gestione, anche sul binario unico esistono i sistemi di sicurezza. Ancora non si sono chiarite le cause dell’incidente, capiremo cosa non ha funzionato. Nell’alta velocità esiste un impianto chiamato Ermts (European Rail Traffic Management System, Ndr). Si tratta di un sistema di gestione, controllo e protezione del traffico ferroviario e relativo segnalamento a bordo, progettato proprio per sostituire i diversi e, tra loro incompatibili, sistemi di circolazione e sicurezza europei. Sui treni di Ferrotramvia immagino ci fossero sistemi di altro tipo”. Allora hanno ragione quanti sostengono che la colpa è tutta della Tav, che come un’idrovora ha risucchiato tutti i fondi necessari a rimettere in sicurezza le linee secondarie? “Assolutamente no, ribatte Giuricin “perché l’Emts è molto costoso: impossibile da sostenere su 16mila chilometri di linea. Ma le ferrovie italiane hanno comunque sistemi di sicurezza elevatissimi: guardando ai dati il nostro sistema ferroviario è uno dei più sicuri d’Europa”. L’ultimo luogo comune prevede che la colpa sia del divario nord-sud. Non è un caso che il disastro sia avvenuto in Puglia. “Al sud c’è meno domanda. Questo implica che le linee siano meno potenziate. Non avrebbe senso fare l’alta velocità tra Palermo e Messina, ma ad esempio esiste tra Napoli e Roma e non tra Milano e Venezia”. Ma “il movente meridionalista” non funziona: “gli incidenti accadono anche in altri paesi: nella ricca Baviera, nel febbraio scorso, un tremendo incidente ha provocato 10 morti e decine di feriti. A Crevalcore, in Emilia, nel 2005 morirono 17 persone nello scontro fra un treno merci e un interregionale. Le statistiche non evidenziano questa differenza”.
Una tragedia che si poteva evitare, ma non per i motivi che vi hanno detto. Sul disastro ferroviario di martedì tra Andria e Corato sulla linea delle Ferrovie Nord Barese negli ultimi due giorni si sono sentite svariate analisi che hanno portato avanti posizioni alquanto assurde sulle cause di questo scontro tra i due treni. Breve guida ai luoghi comuni da non ripetere, scrive Andrea Giuricin il 13 Luglio 2016 su "Il Foglio". Il disastro ferroviario dello scorso martedì tra Andria e Corato sulla linea delle Ferrovie Nord Barese è stata una tragedia evitabile. Negli ultimi due giorni su diversi mezzi stampa e sui social network si sono sentite svariate analisi che hanno portato avanti posizioni alquanto assurde sulle cause di questo scontro tra i due treni. In primo luogo si è data la colpa del fatto che nella tratta dello scontro ci fosse il binario unico. E’ giusto precisare che la maggioranza delle ferrovie è ancora a binario unico, non solamente in Italia e tale scelta non riguarda questioni di sicurezza ma solo di economicità. Il ragionamento sbagliato che è stato sviluppato in diverse sedi è stato questo: siamo nel sud Italia, c’è sotto investimento, quindi c’era il binario unico. Conseguenza di tutto questo, l’incidente. Il binario unico invece è la norma, come dicevamo, e con adeguati sistemi di sicurezza, è sicuro tanto quanto il binario doppio. Il binario unico è stato utilizzato anche nella linea tra Madrid e la Galizia, nella nuovissima infrastruttura ad alta velocità spagnola per il semplice motivo che la domanda non era abbastanza alta per sostenere i costi. L’Italia è uno dei paesi più sicuri in Europa per il settore ferroviario, più della Germania ad esempio, come mostrano chiaramente le statistiche Eurostat. E il settore ferroviario è di gran lunga più sicuro del trasporto stradale. Un altro dato importante da ricordare è che l’88 per cento degli incidenti non avviene sui treni, ma per gli attraversamenti incauti delle persone. Per quanto riguarda la sicurezza è da ricordare che il settore alta velocità non ha mai avuto incidenti a livello globale dalla sua nascita, in oltre cinquanta anni di storia, ad eccezione di un caso tragico in Cina. Un altro punto di critica deriva dal fatto che la società che gestisce la linea è Ferrotramviaria S.p.A., una compagnia privata. Anche in questo caso, guardando i freddi numeri, non si può che notare che laddove il sistema è privato, il numero di incidenti è meno elevato. Le statistiche dimostrano come il paese più sicuro nell’ultimo decennio sia proprio la Gran Bretagna, che vede operare compagnie private sui binari. Perché allora la tragedia era evitabile? Il punto chiave è dunque un altro: il sistema di segnalamento. Il sistema di controllo della marcia dei treni è ormai generalizzato sulla rete nazionale RFI, da nord a sud. Il livello di sicurezza è molto elevato perché permette il blocco automatico del treno in caso di non rispetto del segnale. Non tutte le ferrovie regionali hanno invece questo livello di sicurezza, con il blocco automatico del treno e questa sembra essere la causa di quanto successo. Proprio l’ERA, l’Agenzia Ferroviaria Europea, aveva avvertito che diverse ferrovie regionali italiane non avevano questo sistema di sicurezza. Dalla dinamica dell’incidente, sembrerebbe che ci sia stato un non rispetto di un segnale (per errore umano o malfunzionamento del segnale stesso). Quel che sorprende nel dibattito italiano è che ci sia soffermati sul fatto che la burocrazia abbia bloccato l’investimento per il raddoppio della linea. In Italia questo non deve sorprendere, ma prima di pensare al raddoppio della linea, si poteva pensare di fare un investimento certamente inferiore in termini di denaro per migliorare il sistema di segnalamento. C’è un’ultima domanda che è lecito porsi: di chi era la responsabilità a vigilare? Nel contratto di servizio tra Regione Puglia e la Ferrotramviaria è così scritto: “Alla Regione Puglia compete per legge la funzione di programmare e amministrare il servizio di Trasporto Pubblico Locale e inoltre, quella di vigilare sulla regolarità, qualità e sicurezza dello stesso”. Essendo un servizio con un contratto di pubblico servizio, la responsabilità ricade proprio sull’Ente regionale. Ancora una volta in Italia il rumore di fondo serve a coprire le responsabilità e la caduta nella rete (di internet) del qualunquismo è ormai diventato il nuovo sport nazionale, purtroppo anche nelle tragedie.
In Puglia ha fallito la demagogia del regionalismo all'italiana, scrive Umberto Minopoli il 13 Luglio 2016 su "Il Foglio". Inutile girarci intorno imbarazzati: sul binario unico Bari-Barletta si è schiantato il modello demagogico italiano del federalismo e del regionalismo senza innovazione. Le reti ferroviarie minori in concessione sono un tributo della storia italiana, un retaggio della nostra particolare costruzione unitaria e dell'eredità del localismo pre-unitario? Vero. Ma solo in parte. L'eredità pre-unitaria riguardava 1.326 Km di rete affidate a imprese ferroviarie locali e private. Oggi si apprende che le reti locali assommano a 9.000 km di rete (su 16.000 km): più della metà della rete ferroviaria. Ma la gestione di questa rete "minore" non è affatto privata. Attenti ad agitare la nenia del liberismo e della privatizzazione. La rete ferroviaria italiana è, nei fatti, tutta pubblica. E' solo splittata tra due soggetti pubblici di proprietà e regolazione: Rete Ferroviaria Italiana, di proprietà delle Fs (che gestisce poco più che 7.000 Km di rete) e società che gestiscono la "rete minore" (ben 9.000 Km di rete) in base a contratti di servizio con le Regioni. Si apprende, inoltre, che solo la rete in gestione diretta Fs è realmente sottoposta ai vincoli e agli standard (europei e internazionali) dell'Agenzia nazionale per la sicurezza ferroviaria, nata nel 2007. La giurisdizione di questa Agenzia, infatti, si esercita solo sulla rete di proprietà di RFI. Sul resto delle linee, la maggioranza della rete, la politica di sicurezza è articolata tra Regioni, Ministero dei Trasporti, concessionari locali. Un'evidente distorsione. Che non ha niente a che vedere con la liberalizzazione. E ha molto a che vedere con una malintesa interpretazione del decentramento e del federalismo: in cui lo Stato, in nome del regionalismo, rinuncia ad esercitare la sua giurisdizione diretta, specie in termini di scelte per la sicurezza, sulla parte maggioritaria della rete ferroviaria italiana. La seconda ragione del disastro pugliese è tecnologica. L'assenza di un regolatore nazionale e unico, il localismo e il federalismo imperfetto, la limitatezza della risorse regionali hanno portato a una frammentazione dei piani di ammodernamento e di investimento delle reti locali. Con scelte discutibili. Ad esempio: apprendiamo che è stata data priorità al raddoppio delle linee locali e al superamento del binario unico (ne abbiamo ancora 9.161 Km). Non pare che questo sia il vero problema. Altri paesi europei hanno reti a binario unico anche più estese. Il vero problema non è il raddoppio. E' la tecnologia elettronica di separazione e controllo di sicurezza tra i treni. Questa è la chiave che minimizza gli incidenti: annulla l'errore umano (il vero obiettivo della sicurezza) e affida il mancato impatto tra i treni, esclusivamente, agli automatismi del fattore tecnologico. E' la vera frontiera della politica di sicurezza nei sistemi complessi in ogni campo: l'operatore deve limitarsi, sempre più, a controllare la macchina dotato del massimo di informazioni possibili; i sistemi di sicurezza (blocco del treno, gestione degli allarmi ecc.) devono attivarsi automaticamente ben prima della materializzazione del rischio. Se si annulla il fattore umano la probabilità incidentale si abbatte esponenzialmente. Le più importanti tecnologie si chiamano Ertms/Etcs per le linee ad Alta velocità e Scmt (Sistema controllo marcia treno) per le linee convenzionali. In pratica, se un macchinista non si adegua ai segnali che dalle rotaie vengono rimbalzati in cabina, il treno si ferma. Ad esse, ormai, si aggiunge l'uso esteso delle tecnologie satellitari (Ersat) per il distanziamento dei treni. Essa però ha ancora un'applicazione molto limitata. Ora il problema è che la scelta tecnologica, per ragioni di risorse limitate e di modello gestionale (decentramento localistico) è stata sacrificata. E solo meno della metà della rete italiana può dirsi oggi sicura e sottoposta a standard moderni. Su oltre metà della rete italiana, quella regionalizzata e data in concessione, si viaggia senza tecnologia e con soluzioni di sicurezza ancorate a metodologie dell'800. E' frutto della demagogia federalista. Qualche imbecille ambientalista se la prenderà con l'alta velocità. Dove l'applicazione delle tecnologie della sicurezza è al massimo. Per costoro nel medioevo doveva restare, invece, tutta la rete ferroviaria italiana. Invece è il contrario: nelle tecnologie di sicurezza e controllo tipici dell'alta velocità, sarebbe dovuta entrare l'intera rete ferroviaria italiana. Invece ha prevalso la demagogia del decentramento e del federalismo: affidare a regioni senza soldi e competenze (che gestiscono attraverso concessioni a società senza soldi e competenze) la sicurezza ferroviaria. E' l'aberrazione del regionalismo cretino italiano che ha sostituito moderne politiche di privatizzazione e liberalizzazione. Un modello che va superato. Pochi sanno ancora che questa aberrazione potrebbe essere superata se passa il Si al referendum di ottobre. Che tra i suoi quesiti contiene la riscrittura e della aree di competenza distinta di Stato e Regioni. Dico la verità: basterebbe questa revisione del regionalismo per votare, convintamente, si.
Altro che Governo ladro o minchiate alla pari…la verità è un’altra. La colpa, da qualunque verso la si prende, è sempre della Burocrazia che frena lo sviluppo. Burocrazia sindacalizzata, quindi politicizzata, ergo, intoccabile.
Il manager di Ferrotramviaria: "Tutta colpa della burocrazia". Il direttore generale di Ferrotramviaria sulla tragedia della Puglia: "Non è un problema di soldi. Quelli ci sono ma le gare restano ferme per anni", scrive Raffaello Binelli, Mercoledì 13/07/2016, su “Il Giornale”. È ancora forte il dolore per la morte di decine di persone, in Puglia, a seguito dello scontro frontale tra due treni. Massimo Nitti, direttore generale di Ferrotramviaria, l'azienda proprietaria dei due treni coinvolti nel tragico incidente, in un'intervista a Sky Tg24 assicura che verrà accertato chi ha sbagliato e che quei due treni lì non dovevano stare. "Ora bisogna capire le cause di quanto è successo", e difende l'azienda accusata per l'utilizzo del "blocco telefonico" per regolare la circolazione. "È un regime di circolazione previsto e riconosciuto, dipende dalla capacità di linea, che è a unico binario". Il manager spiega che il sistema del blocco telefonico "riguarda 300 km di linee regionali in Italia", è "una delle modalità di esercizio che viene regolarmente utilizzata nelle ferrovie", anche se "è in via di eliminazione. Ieri qualche cosa nella catena di controllo non ha funzionato, ma la circolazione con il consenso telefonico ha tutti i crismi della sicurezza". Polemica sui lavori. Secondo Nitti la situazione della linea in cui è avvenuto l'incidente non è così disastrata: "In dieci anni è stato fatto non poco, direi tantissimo. Ma questa è l'Italia. Ci sono parecchi intoppi burocratici e tempi lunghi rispetto agli altri paesi europei. Dieci anni fa abbiamo cominciato con la regione Puglia un lavoro di ammodernamento infrastrutturale che ha portato a raddoppiare 37 km di linea, ha portato alla costruzione di altri 8 km e con i finanziamenti 2015-2020 è stata avviata la gara d'appalto per il raddoppio per la Corato-Andria. Entro il 2018 concluderemo i lavori di raddoppio, poi cominceranno i lavori di interramento". L'Huffington Post riporta anche una dichiarazione che Nitti ha fatto a TgNorba: "Non è assolutamente vero che non ci sono soldi. Non è assolutamente vero che ci sono i soldi e non si spendono. Abbiamo il problema che conosciamo noi italiani: i processi autorizzativi in questa nazionale sono il 60-80% più lunghi di qualunque altra nazione in Europa, per non parlare poi delle gare che si appaltano e che restano ferme per qualche anno in attesa di valutazioni del Tar e del Consiglio di Stato. Se ce ne dobbiamo ricordare soltanto quando succedono le tragedie, va bene, fa parte delle regole del gioco, ma non si dica che i soldi ci sono e non si spendono, almeno per quanto riguarda Ferrotramviaria". Tra pochi giorni scade il termine per presentare le offerte per la gara d'appalto per il raddoppio della linea Corato-Andria. Le buste saranno aperte il 26 luglio.
Massimo Nitti (Ferrotramviaria): "Soldi ci sono, ma gare ferme da anni. Questa è l'Italia". "Blocco telefonico ancora molto usato", scrive "L'Huffington Post" il 13/07/2016. "Accerteremo chi ha sbagliato e perché, ma quei due treni lì non ci dovevano stare". Lo afferma in un'intervista a Sky Tg24 Massimo Nitti, direttore generale di Ferrotramviaria, l'azienda proprietaria dei due treni coinvolti nel disastro ferroviario lungo la linea fra Andria e Corato. "Ora bisogna capire le cause di quanto è successo" ha dichiarato il manager, difendendo l'azienda dalle accuse per l'utilizzo del "blocco telefonico" per regolare la circolazione. "È un regime di circolazione previsto e riconosciuto, dipende dalla capacità di linea, che è a unico binario". Nitti ha spiegato che il blocco telefonico "riguarda 300 km di linee regionali in Italia", è "una delle modalità di esercizio che viene regolarmente utilizzata nelle ferrovie", anche se "è in via di eliminazione. Ieri qualche cosa nella catena di controllo non ha funzionato, ma il regime di circolazione con consenso telefonico ha tutti i crismi della sicurezza". Nitti esclude particolari ritardi nei lavori di ammodernamento: "In dieci anni su questa linea è stato fatto non poco, direi tantissimo. Ma questa è l'Italia. Ci sono parecchi intoppi burocratici e tempi lunghi rispetto agli altri paesi europei. Dieci anni fa abbiamo cominciato con la regione Puglia un lavoro di ammodernamento infrastrutturale che ha portato a raddoppiare 37 km di linea, ha portato alla costruzione di altri 8 km e con i finanziamenti 2015-2020 è stata avviata la gara d'appalto per il raddoppio per la Corato-Andria. Entro il 2018 concluderemo i lavori di raddoppio, poi cominceranno i lavori di interramento". Nitti ha spiegato al TgNorba, infatti che "non è assolutamente vero che non ci sono soldi. Non è assolutamente vero che ci sono i soldi e non si spendono. Abbiamo il problema che conosciamo noi italiani: i processi autorizzativi in questa nazionale sono il 60-80% più lunghi di qualunque altra nazione in Europa, per non parlare poi delle gare che si appaltano e che restano ferme per qualche anno in attesa di valutazioni del Tar e del Consiglio di Stato. Se ce ne dobbiamo ricordare soltanto quando succedono le tragedie, va bene, fa parte delle regole del gioco, ma non si dica che i soldi ci sono e non si spendono, almeno per quanto riguarda Ferrotramviaria". A giorni scade il termine per la presentazione delle offerte per la gara d'appalto per la progettazione esecutiva e la realizzazione del raddoppio della Corato-Andria e che "per il 26 luglio è fissata l'apertura delle buste". I registratori degli eventi e delle comunicazione delle stazioni ferroviarie di Corato ed Andria sono stati prelevati da Ferrotramviaria e messi a disposizione della magistratura. "Ora vanno analizzate, esaminate con serenità e determinazione. Arriveremmo alle conclusioni" ha assicurato Nitti.
L'eredità di Vendola e quel piano ferroviario mai messo in pratica. Ferrotramviaria aveva ottenuto i fondi Ue che sono rimasti nel cassetto. Emiliano tace, scrive Gian Maria De Francesco, Giovedì 14/07/2016, su "Il Giornale”. «È urgente ricostruire una trama di comunità che sappia guardare il mondo senza le lenti deformanti dell'ideologia dominanti». Quante frasi come queste ha lasciato in eredità Nichi Vendola dopo aver abbandonato (almeno ufficialmente) la politica. Trascorsi dieci anni nell'incarico di governatore della Puglia, oggi si gode la famiglia in quel di Montreal e il vitalizio di 5.618 euro mensili della Regione. L'eredità politica di Vendola dovrebbe comprendere anche un Piano dei trasporti, ma il disastro ferroviario di martedì scorso fa capire che nessuno ha voglia di intestarsela. A partire dall'attuale governatore, l'ex sindaco di Bari, Michele Emiliano. Eppure, in linea teorica i finanziamenti europei per il raddoppio della linea tra Andria e Corato avrebbero dovuto essere disponibili sin dal lontano 2007. Il piano operativo regionale Fesr 2007-2013, infatti, conteneva diversi «Grandi Progetti», (non è megalomania, in ambito Ue si chiamano così) uno dei quali riguardava proprio le Ferrovie del Nord Barese e il suo gestore Ferrotramviaria. Nell'ultima stesura del piano effettuata a inizio 2015 per salvare il salvabile, invece, di «Grandi Progetti» non c'era più traccia anche se Ferrotramviaria risultava tra i beneficiari dei fondi, ad esempio per il raddoppio dei binari tra Ruvo e Corato (circa 12 milioni ricevuti). Che cosa non ha funzionato nella narrazione vendoliana? Perché la poesia non si è tradotta in fatti, come recitava un suo fortunato slogan? Perché Michele Emiliano oggi si vanta di aver inserito nel piano dei fondi europei 2014-2020 i 153 milioni per le Ferrovie Bari Nord? In primo luogo, a far difetto è stata la programmazione. Per quanto la Regione Puglia non sia certo la peggiore tra quelle meridionali, è abbastanza in ritardo nella definizione dei programmi. A fine 2015 (anno gestito per metà da Vendola) meno di un terzo dei piani di rafforzamento amministrativo, che definiscono gli interventi da realizzare, era stato completato. A questo problema gestionale si aggiunge quello finanziario. I Fondi europei si spendono solo c'è la compartecipazione al 50% dello Stato e della Regione. E proprio Vendola, due anni fa, bloccò l'erogazione dei contributi regionali avendo la necessità di destinare risorse al capitolo sanità. In una Regione ad alta spesa corrente come la Puglia (che non differisce molto dallo Stato) le risorse per gli investimenti finiscono presto. Che cosa si fa allora per non perdere i fondi europei? Li si indirizza verso progetti già finanziati oppure verso opere a basso costo. Non a caso l'ex governatore si è beccato la reprimenda della Corte dei Conti Ue e Bruxelles ha sospeso erogazioni per oltre 500 milioni di euro a causa della scarsa trasparenza. Con quei soldi si sarebbero potuti realizzare più di tre raddoppi dell'Andria-Corato, ma tant'è. La burocrazia italiana, con la sua lentezza, fa il resto. Eppure Vendola, come il suo ex compagno di partito Walter Veltroni, ha spesso raccontato di una politica capace di «spegnere i rancori e accendere le passioni». I rancori non si sono sopiti, ma in compenso l'inventore di Sel e i suoi sodali politici hanno «spento» la Puglia trasformandola in un deserto. Niente più acciaio a Taranto, British Gas costretta ad abbandonare il progetto di rigassificatore a Brindisi, i fondi per il potenziamento del trasporto ferroviario dispersi nei corridoi del palazzo della Regione così il potenziamento dei sistemi di segnalazione. Su cui da Bari Vendola avrebbe anche potuto spendere qualche parola.
Scontro fra treni, Nichi Vendola all'HuffPost rifiuta accusa di immobilismo: "L'odore della morte attira gli sciacalli", scrive Alessandro De Angelis il 13/07/2016 su "L'Huffington Post".
Nichi Vendola, certamente lei non è colpevole di quanto accaduto, ma si sente in qualche modo responsabile della tragedia, ovvero dei ritardi istituzionali che hanno impedito che si realizzasse il raddoppio del binario?
«Lo so: la cosa più semplice, la più scontata dinanzi alla tragedia pugliese è tornare a sgranare il rosario di luoghi comuni sul Sud che non funziona, che si avvita nella propria indolenza, nei propri ritardi, nelle proprie mafie. La morte, tutte quelle povere vite tranciate dallo schianto di due treni, diviene occasione per far rivivere un repertorio di banalità, di analisi surreali, persino di speculazioni indecenti: perché sempre l’odore della morte attira gli sciacalli. Per fortuna dinanzi alla strage vi è stata una grande prova della nostra protezione civile e una straordinaria gara di solidarietà dei pugliesi».
Quando parla di sciacallaggio si riferisce anche alle dichiarazioni del sottosegretario Luca Lotti che ha parlato di una tragedia “frutto dell’immobilismo della politica”?
«Molti, troppi, in questi giorni, hanno parlato a sproposito. Per me invece è difficile parlarne e doloroso, perché conoscevo alcune di quelle vittime, perché quello è stato il treno su cui ho viaggiato per anni, perché questa sciagura incide con violenza inaudita nella carne viva della mia comunità».
Avverto, nella sua voce una tensione autentica che da cronista mi pare giusto registrare. Vorrei però approfondire il punto più delicato e più discusso in queste ore. Nell’epoca in cui lei era presidente i soldi furono stanziati, ma i cantieri non partirono.
«La verità è ben documentata. Come lei sa, noi il binario unico lo combattiamo da sempre, sia quando si tratti di ferrovie dello Stato - basti ricordare la battaglia per il raddoppio della Termoli-Lesina, 30 km che strozzano la linea adriatica - sia quando si tratti di ferrovie concesse di carattere regionale. L’ammodernamento della Bari Nord con i suoi 83 km di rete, con il raddoppio del binario, al servizio di 700 mila abitanti, la mia amministrazione l’ha progettato come "opera strategica" nella programmazione dei fondi comunitari del settennio 2007-2013. Con un investimento di circa 180 milioni di euro».
I famosi fondi europei.
«Ecco, noi abbiamo usato le risorse comunitarie per supplire anche alla assoluta scarsità di finanziamenti dei governi nazionali. Durante gli anni del mio mandato abbiamo investito risorse ingenti proprio nel trasporto ferroviario. Ricordo ancora la sorpresa dei miei assessori ai trasporti quando i tecnici relazionavano sullo stato disastroso dei binari nel Salento o sui troppi attraversamenti dei binari con le croci di Sant'Andrea senza nemmeno i passaggi a livello. Per rimettere in sesto quello che altrove ha fatto lo Stato, noi impegnammo risorse europee. Noi, cioè la Regione Puglia: che, lo ricordo agli smemorati, è un ente di programmazione, non una stazione appaltante».
Però in altre tratte partono lavori di raddoppio e di potenziamento delle stazioni, come tra Ruvo e Corato.
«Appunto. La Commissione europea ha validato quell'intervento, garantendo le risorse, nel 2012. Solo i marziani o gli ipocriti possono stupirsi del fatto che in Italia un'opera finanziata nel 2012 nel luglio 2016 non sia stata completata del tutto».
Però nel programma di questa "opera strategica" si indicava la conclusione dei lavori entro il 2015. E lo stesso dichiarava la Ferrotranviaria Spa, la società che avrebbe dovuto realizzare l’opera. I ritardi sono imputabili alla regione o alla società ferrotranviaria Spa?
«Ripeto, la Regione non è il soggetto attuatore. Forse occorre ricordare che un'opera come questa, che collega grandi centri urbani, richiede progetti ingegneristici complessi, una serie infinita di autorizzazioni e pareri, di varianti urbanistiche, e si realizza grazie a centinaia di espropri. E la stragrande parte di queste procedure non dipende dall'ente finanziatore ma da Comuni, Province, Sovrintendenze, e da tante disparate articolazioni pubbliche».
Sta dicendo: colpa della burocrazia?
«L’ho denunciato mille volte l’appesantimento burocratico, consegnando il problema dello snellimento procedurale all'unico in grado di regolarlo: lo Stato. Ricordo poi che il soggetto attuatore dell’opera è Ferrotramviaria, che è la concessionaria della ferrovia. E Se Ferrotramviaria scrive all’ente di programmazione che è in ritardo per incompletezza delle autorizzazioni, la Regione ha l’obbligo di rimodulare gli interventi per evitare di perdere i soldi europei».
Insomma, se su quella tratta i lavori non sono partiti, non è responsabilità della Regione.
«Guardi, la Regione non è stata con le mani in mano. Abbiamo finanziato il rinnovamento di tanta parte del parco treni, facendo viaggiare vagoni tra i più moderni d’Europa, abbiamo portato il treno fin dentro l'aeroporto di Bari Palese, fornendo un servizio tra i più efficienti ed evoluti d’Italia. E in queste azioni di ammodernamento tutti sapevano che la Bari-Nord era considerate un fiore all’occhiello della Puglia. Tutt’altro dal degrado di quelle ferrovie Sud-Est, che sono proprietà del Ministero dei trasporti e che rappresentano uno scandalo infinito, dalla Regione Puglia denunciato molte volte, ma nella disattenzione generale».
Lei rivendica che la sua esperienza di governo è stata un’esperienza di innovazione sul tema dei trasporti e delle infrastrutture?
«È vero: l’Italia è un paese che ha puntato sulla gomma piuttosto che sulle rotaie, sul trasporto privato piuttosto che sul trasporto pubblico. È fu proprio questa filosofia che io e la mia amministrazione abbiamo cercato di capovolgere. A coloro che ricordano che a due passi dalla tragedia c’è un’azienda leader al mondo nelle tecnologie della sicurezza ferroviaria ricordo che quell’azienda e stata costantemente sorretta anche dai finanziamenti della Regione Puglia».
Se ho capito il senso del suo ragionamento, lei dice: io quando sono arrivato ho trovato una situazione drammatica. E ho innovato: guardate come ho trovato la Puglia e guardate come l’ho lasciata. Per questo rifiuto le accuse generiche che sanno di sciacallaggio. Però dice che c’è una burocrazia indomabile. Le chiedo: sulla tratta Andria Corato, il Sistema è stato più forte di lei?
«Metà dell'opera è stata realizzata, l'altra metà è in corso di appalto. Dobbiamo intenderci quando parliamo di burocrazia: ci sono gli eccessi barocchi, ma c'è dentro anche la tutela ambientale e le complessità tecniche. Non siamo a "uno contro tutti". Siamo dentro processi di cambiamento che chiamano in causa una folla di attori istituzionali e sociali. Per il resto vale l'opera, speriamo rapida e puntuale, della magistratura: che dovrà dirci come è potuta accadere questa immane sciagura e chi ne porta la responsabilità».
Soldi, espropri e ritardi della giunta Vendola: tre motivi per una strage. Dal 2008 la Regione convoglia 180 milioni per le Ferrovie Bari Nord. I lavori? Mai iniziati, scrive Gian Maria De Francesco, Venerdì 15/07/2016, su “Il Giornale”. L’obiettivo ora è spostato al 2020. La tratta tra Corato e Andria potrebbe finalmente avere il doppio binario tra quattro anni. Decisamente troppi se si considera, come riportato dal Giornale, che già dal 2008 la Regione Puglia aveva convogliato ben 180 milioni di euro del Fondo europeo di sviluppo regionale sul «Grande Progetto» relativo all’ammodernamento delle Ferrovie Bari Nord. Se non vi fosse stata la sciagura, si potrebbe anche dire che i pugliesi sono solleciti. Un’infrastruttura come la Variante di Valico, seppur maggiormente complessa, ha richiesto una trentina d’anni sebbene la lunghezza sia comparabile. Cerchiamo, allora, di tracciare una linea di confine tra la questione finanziaria e quella burocratico- amministrativa in modo tale da profilare quelle che potrebbero essere le responsabilità, politiche. Denaro e scartoffie sono due facce di una stessa medaglia. Il «Grande progetto» da 180 milioni, di cui 110 erano fondi regionali europei (dunque i restanti 70 milioni erano a carico dello Stato e della Regione), parte nel 2008 sulla carta, ma verso la fine del 2010 era stata solo decisa l’assoggettabilità a Valutazione di impatto ambientale (la temibile Via) il raddoppio della Corato-Andria, mentre erano nel frattempo partiti altri interventi come la linea da 7,7 chilometri per collegare l’aeroporto di Palese alla Ferrovia Bari Nord. Il progetto definitivo poteva essere approvato dall’Unione Europea solo dopo un quadro chiaro degli espropri che, però, nel 2012 non c’era. Solo nel 2013 (e dunque ben 6 anni dopo l’avvio) l’iter avrebbe potuto dirsi avviato alla conclusione. Ma il 2013 era anche l’ultimo anno di vigenza della programmazione dei fondi europei. Per utilizzarli immediatamente la Regione Puglia avrebbe dovuto cofinanziare subito i lavori ed è altamente improbabile che l’ente locale disponesse immediatamente dello stanziamento vista l’inderogabilità di alcune spese correnti come quella sanitaria. Ma la telenovela non finisce qui. Il 10 luglio 2014 la giunta Vendola riprogramma l’intervento Corato-Andria suddividendolo in due lotti perché il gestore Ferrotramviaria ha denunciato «un allungamento imprevisto della fase istruttoria». Insomma, amministrazioni locali ed espropri vanno per le lunghe: il ciclo dei fondi sta per finire e dunque, come fanno quasi tutte le Regioni in questi frangenti, si riprogramma. Ecco perché la gara si chiuderà il 19 luglio prossimo. «I lavori non sono stati completati a causa dei ritardi sul terreno, per le difficoltà a ottenere i permessi legati agli espropri dei terreni», hanno spiegato ieri a Bruxelles e così nel dicembre dell’anno scorso la Commissione Ue ha approvato la riprogrammazione pugliese. «La gestione del finanziamento spetta alle autorità nazionali», ha spiegato la portavoce della Commissione Ue per i Trasporti. Allo stesso modo, si sarebbe potuto ammodernare il sistema di segnalamento automatizzandolo e dotando i treni del sistema automatico di blocco in caso di pericolo. Nello scorso dicembre è stata recepita una direttiva europea che impone la modernizzazione degli standard sulle reti ferroviarie interconnesse come la Bari Nord, anche se manca ancora il decreto attuativo. Ferrotramviaria ha già avviato gli adeguamenti tecnologici, forte anche del servizio in concessione. Ieri la Commissione Ue ha spiegato che gli adeguamenti sono obbligatori sulle nuove reti o su quelle che vengono ammodernate. E Andria-Corato è una vecchia tratta. Il risultato? L’ex governatore Vendola può dire di aver fatto tutto il possibile, il nuovo governatore Emiliano sottolineare di aver fatto partire i lavori e i ministri delle Infrastrutture degli ultimi quattro anni dire di aver vigilato. In Italia, purtroppo, funziona così.
"Il Piano anticorruzione? E' rimasto un pezzo di carta". La denuncia di Raffaele Cantone. Sconfortante la relazione del presidente Anac: le anomalie gravi negli appalti su sanità e rifiuti, le grandi opere arenate o mai cominciate. Anche nel disastro in Puglia c'entra la corruzione: "Problema atavico nel fare infrastrutture", scrive Susanna Turco il 14 luglio 2016 su “L’Espresso”. Piani anticorruzione rimasti sostanzialmente dei "pezzi di carta”, "anomalie” e "disfunzioni” anche gravi negli appalti dei servizi – in particolare sanità e rifiuti – criticità nella progettazione delle grandi opere, che spesso sono "arenate”, soprattutto al Sud. E’ dolente e a tratti drammatica la relazione del presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone: e non risparmia nulla. Fa esercizio di ottimismo spiegando che "si iniziano a intravvedere le prime tracce degli anticorpi” per la lotta alla corruzione, visto che le segnalazioni all’Anac sono più che raddoppiate quest’anno. Ma non fa sconti: chiarisce peraltro Cantone, che a suo avviso c’è un "oggettivo collegamento” tra il disastro ferroviario in Puglia e la "corruzione” nel nostro Paese: "Scontiamo un problema atavico nel fare le infrastrutture”. Il quadro, del resto, è coerente. E’ rimasto sostanzialmente sulle carta, per esempio, il piano anticorruzione. L’Anac ha esaminato 1.900 piani e aperto 929 procedimenti istruttori. Risultato: "La qualità appare modesta”. Una "attuazione insoddisfacente” che, secondo Cantone, è da ricondurre a varie motivazioni (difficoltà organizzative, pochi soldi) tra cui una da brivido: viene considerato una formalità, non importa a nessuno. "Vi è un diffuso atteggiamento di mero adempimento formale, limitato ad evitare le responsabilità in caso di mancata adozione del Piano”, spiega Cantone. Chi se ne deve occupare, cioè per legge il "Responsabile della prevenzione della corruzione, resta "isolato”, cioè da solo, "nel sostanziale disinteresse degli organi di indirizzo politico”. Che ratificano, ma non sostengono. Non va certo meglio per quel che riguarda le grandi Opere. Per le quali Cantone rileva "carenze nella progettazione”, "numerose varianti e riserve”, "lunghi e complessi contenziosi” a causa dei quali non hanno visto la luce. Ecco alcuni esempi: l’anello ferroviario di Palermo, di cui a nove anni dal bando è stato realizzato il 3 per cento dell’importo dei lavori; il caso della metro C a Roma, il cui "progetto posto a base di gara era carente di adeguate indagini preventive per una parte molto estesa del tracciato”, al punto da rendere opportuno riconsiderare il prosieguo dell’opera; la vicenda della diga sul Fiume Melito, che inserita nei programmi della ex Cassa del Mezzogiorno, con progetto approvato nel 1982, ad oggi "non solo non ha ancora visto la luce, ma è addirittura in fase di rivisitazione lo stesso intervento”. Per quel che riguarda gli appalti per servizi e forniture, dove si riscontrano "criticità anche gravi” , è da rilevare la sindrome della proroga, riscontrata soprattutto nel settore della sanità. Si proroga l’appalto per il doppio, il triplo, del tempo originario, a volte ancor prima che sia cominciato l’affidamento del servizio: "Un'indagine su un campione di stazioni appaltanti ha rivelato un utilizzo eccessivo e illegittimo delle proroghe, in molti casi attivate senza che la procedura per l'affidamento del servizio avesse avuto alcun inizio, con opzioni giunte anche a tre volte la durata contrattuale originaria (e in un caso pari addirittura a 13 volte), evidenziando complessivamente 5.694 mesi di proroga, ben il 203% delle durate originarie”, spiega la relazione.
Sui siti di tutto il mondo civile, dove i treni arrivano in orario, rimbalzano le foto della "tragedia immane", come l'ha definita il ministro dell'Infrastrutture Graziano Delrio. Aggiungiamone un'altra, di foto, per spiegare la solita Italia, in cui dietro "l'immane tragedia" c'è sempre una responsabilità anche della politica, con i suoi immani ritardi sull'ammodernamento delle infrastrutture. È la foto in bianco e nero dell'allora presidente del Consiglio Aldo Moro che il 30 settembre del 1965, oltre 50 anni fa, inaugura le ferrovie del Nord barese, momento storico per la Puglia del miracolo economico. «Da allora la tratta della tragedia odierna, da Corato ad Andria, non è mai stata raddoppiata. Ed è evidente che, al netto di un errore tecnico o di un errore umano nell'incidente, la prima anomalia - anzi: si può usare il termine "scandalo" senza essere accusati di scandalismo? - è che quella tratta che unisce zone ricche e popolose del Mezzogiorno sia a su un unico binario, come nell'Italia degli anni Sessanta, e non doppio. Fondi stanziati, gare in ritardo, lavori non iniziati. La politica meridionale celebra freneticamente i suoi riti per acchiappare i voti col vizio atavico, una volta presi, di custodire l'immobilismo infrastrutturale. Addirittura sul grande progetto del raddoppio la Regione Puglia ha dovuto riprogrammare i finanziamenti europei già stanziati e mai utilizzati. Nella delibera di Giunta numero 1450 del 2014 l'opera viene "spostata" dalla Programmazione dei Fondi Europei 2007-2013 alla nuova programmazione 2014-2020. Per capire meglio, occorre andare indietro nel tempo a circa un decennio fa, quando vengono stanziati i fondi per il raddoppio della tratta Corato Andria: 25 milioni per quella tratta, mai spesi per ritardi di gare e progettazioni, nell'ambito di un progetto ambizioso di Adeguamento ferroviario dell'Area Metropolitana Nord Barese, presentato dalla Ferrotramviaria SpA. L'obiettivo è creare una sorta di metropolitana di superficie di 70 km da Bari ai centri ricchi e popolosi del nord barese: Corato, Andria, Barletta, centri ricchi a nord di bari direttamente fino all'aeroporto. Città da 80 centomila abitanti. Il progetto prevede una serie di interventi - parcheggi, riorganizzazione della viabilità - tra cui il "raddoppio per uno sviluppo complessivo di 11 km" e "interramento della linea ad Andria". Alcuni lavori sono iniziati, quelli della tratta della tragedia non sono mai partiti. Un anno fa i parlamentari dell'M5S di Andria avevano messo nero su bianco la loro denuncia: "La nostra grande opera approvata con Decisione (CE) n. C/2007/5726 del 20 novembre 2007, dovrebbe essere ormai al taglio del nastro rosso ed invece è ancora sul binario morto. Il grande progetto di ammodernamento delle ferrovie del nord barese, denominato Adeguamento ferroviario dell'Area Metropolitana Nord Barese, non verrà realizzato nei tempi previsti". Ora il ministro Graziano Delrio chiede una "commissione di indagine". E un'intera classe politica, che ha avuto nella regione le leve del governo evita di spiegare come mai i due treni si sono scontrati sulla tratta inaugurata da Moro 50 anni fa.
Scontro treni, M5S aveva presentato interrogazione su binario unico: “Governo non rispose”. Spunta un'interrogazione parlamentare alla quale nessuno dei ministri, Lupi prima, Delrio poi, ha mai risposto. I soldi per ammodernare il tratto, fondi europei, non sono mai stati utilizzati, scrive Gaia Bozza il 12 luglio 2016 su “Fan Page”. Atto Camera Interrogazione a risposta scritta 4-00836 presentato da D'AMBROSIO Giuseppe testo di Mercoledì 12 giugno 2013, seduta n. 32. D'AMBROSIO. — Al Ministro per gli affari europei, al Ministro delle infrastrutture e dei trasporti. — Per sapere – premesso che: il grande progetto delle Ferrovie del nord barese è una infrastruttura che permetterà la prima interconnessione delle reti ferroviarie e che inciderà in modo strategico sul sistema della mobilità della regione Puglia. L'importo del finanziamento è di 180 milioni di euro del programma operativo F.E. S.R. Puglia 2007-2013, il soggetto attuatore è la Ferrotramviaria spa; oggetto dell'intervento sono: il raddoppio per 13 chilometri del binario sulla tratta Corato-Barletta; l'interramento della ferrovia nell'abitato di Andria per 2,9 chilometri, di cui una zona di circa 460 metri in galleria, con tre nuove fermate; la realizzazione di parcheggi di scambio intermodali dislocati in prossimità di 11 stazioni-fermate ferroviarie che offriranno circa 2.000 posti auto; l'eliminazione di 13 passaggi a livello sono l'interconnessione con la Rete ferroviaria italiana nelle stazioni di Bari centrale e Barletta. Sette i comuni interessati direttamente dall'intervento: Barletta, Andria, Corato, Ruvo, Terlizzi, Bitonto e Bari; il nodo di scambio di Barletta fra Ferrotramviaria ed Rfi darà accesso, non solo ai residenti nei, comuni serviti dalle Ferrovie del Nord ma anche a tutta l'area della Capitanata, al collegamento ferroviario con l'aeroporto di Bari. Sono previste ricadute importanti anche sul capoluogo regionale attraverso la realizzazione della prima interoperabilità funzionale nel nodo ferroviario di Bari della linea adriatica con le linee regionali. I treni della Ferrotramviaria provenienti dall'aeroporto arriveranno, infatti, direttamente al quinto binario del piazzale ovest della stazione delle Ferrovie dello Stato; dal punto di vista amministrativo, dopo l'approvazione del Consiglio regionale dei lavori pubblici e degli uffici dell'assessorato all'ambiente per la valutazione di impatto ambientale, e dopo i restanti adempimenti presso la Commissione europea per gli ultimi aspetti di valenza economica, potranno partire le procedure di appalto. La cantierizzazione dei lavori dovrà essere attuata quanto prima, poiché il collaudo, per problematiche connesse al finanziamento, dovrà essere effettuato entro il 2015–: se si intenda verificare che non vi siano motivi ostativi, anche in sede europea, alla cantierizzazione dei lavori; se si intenda porre in essere ogni opportuna iniziativa, per quanto di competenza per agevolare la realizzazione di questa strategica infrastruttura ferroviaria non solo per il nord-barese, ma anche per la regione Puglia. (4-00836)
Mentre l'Italia piange decine di morti per lo scontro tra treni sul binario unico tra Andria e Corato, spunta un'interrogazione parlamentare alla quale nessuno dei ministri – governo Letta e governo Renzi – ha mai risposto. Argomento? Proprio il binario unico e i lavori di ammodernamento della ferrovia. "Ormai nel 2013, in un'interrogazione parlamentare, chiedevamo all'allora ministro Lupi, quali fossero le sorti di 180 milioni di euro di fondi europei stanziati per ammodernare la tratta del nord Barese che va da Bari a Barletta, passando proprio per il tratto interessato dalla tragedia di oggi". A spiegarlo a Fanpage.it è Giuseppe D'Ambrosio, deputato del Movimento 5 Stelle, che con rabbia ricorda quell'interrogazione seguita da un silenzio di tre anni e da un terribile schianto sui binari. Le prime ipotesi intorno all'incidente vertono sull'errore umano, ma "intanto io lì ci ho vissuto e conosco benissimo i pericoli della Bari Nord, per questo avevo presentato questa interrogazione parlamentare – continua – Intanto, quei soldi sono stati già persi una volta e rischiamo di perderli di nuovo". Non usa mezzi termini il deputato Cinquestelle che nel 2013 chiedeva conto di questi fondi e del fatto che quel tratto di ferrovia, a binario unico, dovesse essere interessato da lavori di raddoppio e di messa in sicurezza, con "addirittura l'interramento della parte più pericolosa che passa all'interno della città di Andria. Questo avveniva quando ancora vi erano due anni ancora per cantierizzare i lavori ma tutto è rimasto così" – sbotta – Oggi ci troviamo queste tante vittime inconsapevoli. Gli amministratori hanno delle enormi responsabilità. Si parla da oltre trent'anni di lavori su quel tratto di ferrovia ma non si è mai fatto nulla". E i soldi, che fine hanno fatto? Sono stati già traslati una volta sulla nuova programmazione "perché i lavori non sono mai partiti ed entro questo fine mese i soldi rischiano di essere di nuovo persi – spiega D'Ambrosio – Adesso pubblicheremo degli atti della Regione Puglia che accusano pesantemente gli amministratori locali che non partivano e gli amministratori centrali che non hanno mai fatto nulla, da Lupi a Delrio nessuno ha risposto". Per il Cinquestelle, errore umano o no, le responsabilità politiche dell'incidente sono precise e vanno ricercate nei "politici che sono andati oggi lì" che "devono vergognarsi. Mentre accade questa tragedia in Puglia, ci sono decine di luoghi in quella situazione e noi ci ostiniamo a finanziare porcherie come il TAV".
Insicurezza a bordo, incoscienza al potere, scrive Giuseppe De Tomaso il 13 luglio 2016 su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il problema non è l’errore umano, ammesso che si sia trattato di errore umano. Il problema è che simili disastri e tragedie sono inammissibili, dal momento che la tecnologia ha ridotto assai, anzi ha pressoché annullato, sui binari, il rischio di incidenti causati da una distrazione umana. E questi progressi, la tecnologia, li ha realizzati proprio in Puglia, nella regione della Mermec di Vito Pertosa, azienda leader, a livello mondiale, nel campo della sicurezza ferroviaria. Il meccanismo anti-errore si chiama Sistema Controllo Marcia Treno (funziona su terra e sui convogli): ha il compito di mantenere sotto vigilanza elettronica il comportamento del personale di macchina dei treni in base all’aspetto dei segnali ferroviari, alla velocità massima consentita, al grado di frenatura della linea eccetera. Ecco. Il Sistema Controllo Marcia Treno è in funzione sui binari nazionali da parecchi anni, ma è un illustre sconosciuto su molte linee ferroviarie locali (è attivo, invece, in Lombardia, in parte della Campania e in brevissime tratte pugliesi). Per impedire o ridurre al massimo il pericolo di stragi come quella di ieri tra Andria e Corato, è indispensabile che gli standard di sicurezza della Rete Ferroviaria Italiana (Rfi) siano introdotti anche sulle reti regionali e locali. Perché finora questi standard di sicurezza hanno marciato a due velocità? Perché nessuno ha pensato bene di imporre alle ferrovie in concessione il ricorso agli standard di sicurezza in vigore sui binari della Rete nazionale. Non ci ha pensato il governo centrale, non ci ha pensato la Regione, non lo hanno chiesto i sindacati. Troppi intrecci clientelari, troppe rendite elettorali, troppe mangiatoie pseudo-manageriali, come ha testimoniato, a proposito dello scandalo Ferrovie Sud Est, il libro denuncia dei colleghi della Gazzetta Giovanni Longo e Massimiliano Scagliarini. Eppure una direttiva ministeriale obbliga le aziende del settore e le stesse Regioni a installare il Sistema Controllo Marcia Treno su ogni tratta. Perché non è stato fatto? Perché la stessa Agenzia Nazionale della Sicurezza delle Ferrovie è una scatola vuota che non fa controlli? La magistratura farebbe bene ad approfondire. Se c’era un punto in cui il Sistema Controllo Marcia Treno era fondamentale, questo era proprio il binario unico su cui ieri è successo il finimondo. Invece, sembra che l’apparato di controllo fosse rimasto in lista d’attesa perché un’azienda del ramo aspettava il raddoppio del binario. Do ut des da brivido, con molti colpi di sonno (!) da parte di chi doveva controllare. La sicurezza sulle linee locali è un optional. Il che, paradossalmente, non si traduce in un risparmio economico, ma in un salasso finanziario per Stato e Regione. Sigle di potentati locali che hanno tesaurizzato i vantaggi del capitalismo tariffario privo di rischi. Aziende ferroviarie che si sono trasformate in fabbriche di potere e voti per gli amici degli amici. Insomma, le ferrovie locali sono il bancomat privilegiato per larghi settori della classe politica, una sorta di bicamerale degli affari in cui tutti hanno di che saziarsi. La tragedia di ieri è anche figlia di questo atteggiamento indifferente di politici e tecnocrati sui sistemi di sicurezza delle reti locali. Sistemi che possono essere garantiti o dall’immediata introduzione del Sistema Controllo Marcia Treno fino all’ultima linea ferroviaria locale o, meglio ancora, dal passaggio delle ferrovie locali sotto il controllo della Rete statale, l’unica che può assicurare i meccanismi di sicurezza. Provvederà, successivamente, una gara pubblica tra gli operatori, anche privati, ad affidare in concessione la gestione del servizio per i passeggeri. Finora, i trasporti ferroviari si sono rivelati il festival dello spreco. Fondi europei persi. Fondi pubblici sprecati a go-go per incarichi e consulenze da nababbi. Una Casta trasversale che ha programmato carriere e patrimoni. Ora non ci sono più alibi. Lo Stato centrale non può restare a guardare mentre la condizione dei trasporti ferroviari nel Sud evoca scenari di qualche secolo fa. La Regione Puglia e il suo Presidente si concentrino sui temi clou della Puglia: trasporti, sanità e rifiuti in primis. È inammissibile che il tratto Termoli-Lesina sia ancora a binario unico, nonostante i mille tavoli di questi anni e l’incessante campagna di questo giornale a sostegno della linea ferroviaria adriatica. È assurdo che la stessa sicurezza dei convogli penalizzi la Puglia e il Sud, per non dire delle carrozze antiquate e degli orari incredibili. Ma la tragedia di ieri ha acceso un faro innanzitutto sulle responsabilità, sulle complicità, sui grovigli tra classe politica locale e classe imprenditoriale rapace e parassitaria. Assunzioni e favori. Intrallazzi e mercimoni. Chi se ne importa se l’intero sistema ferroviario locale possa finire sotto il controllo di Trenitalia. Meglio, se serve a ridurre i rischi di gravissime tragedie umane. Meglio, se serve a ridimensionare i costi. Meglio, se serve a fare pulizia nel sottobosco della politica e dell’affarismo più spregiudicato. Meglio se evita arricchimenti stabiliti dalla politica, sempre smaniosa di scegliere i vincenti e premiare i perdenti, in tutti i settori. È la storia di una tragedia annunciata. Sembra una frase fatta, retorica. Ma è la verità. Se una regione è priva, per la sicurezza dei suoi viaggiatori, delle più elementari premesse di sicurezza - che nulla hanno a vedere con l’errore umano - c’è poco da sofisticare o filosofare: prima o poi si verificherà l’inferno. Finiamola con l’orgia di concessioni ad aziende del settore che vivacchiano grazie agli apparati della politica distributiva e acquisitiva. Spesso queste concessioni sono più scandalose di mille camarille tangentizie. Affrontiamo a viso aperto il tema della modernizzazione e della sicurezza dei trasporti. E smettiamola di fare passerella ovunque ci sia una telecamera pronta a riprendere anche la più inutile dichiarazione.
l principale responsabile del disastro sulla Andria-Corato è un Paese che non funziona. Gli investimenti inesistenti al Sud, lo spreco dei fondi europei, la burocrazia che blocca tutto, le eccellenze globali dimenticate dal territorio: ecco quali sono le quattro tragiche lezioni del disastro sulla Andria-Corato, scrive Francesco Cancellato il 13 Luglio 2016 su “L’Inkiesta”. È una tragedia che parla, quella della collisione dei treni sulla linea Andria - Corato, nella campagna pugliese. Che racconta molto, al di là degli errori e del caso, di quel che non funziona in Italia e nel Sud. Ad esempio, non funziona che 8 euro su 10 per l’ammodernamento ferroviario siano spesi da Roma in su, sovente per progetti di dubbia utilità come la Tav Torino - Lione. Non ha senso che una linea pendolare congestionata come la Bari-Barletta - quella che passata Andria e Corato - sia a binario unico e per 33 maledetti chilometri senza controlli automatici. Non ha senso nemmeno che a Matera - capitale europea della cultura - non arrivino treni perché mancano 20 km di binari che dovevano essere pronti nel 1986. E non ha senso che gli investimenti ferroviari al Sud siano scesi del 20% in più rispetto alla media nazionale, già in contrazione del 34%, peraltro, come giustamente scrive Gianfranco Viesti sul Mattino. Tre esempi a caso figli di terre in cui la spesa pubblica è ipertrofica solamente per assunzioni di massa, enti inutili, clientele assortite. Per gli investimenti, citofonare altrove. In Europa, ad esempio. La brutta, cattiva, sovietica matrigna di Bruxelles, l’unica che da qualche decennio a questa parte sgancia quattrini per lo sviluppo del meridione d’Italia. Soldi che troppo spesso vengono sprecati o addirittura rispediti al mittente per assenza di idee, di competenze, di volontà politica. Il caso del raddoppio della linea Corato-Andria - e più in generale il grande progetto di ammodernamento delle ferrovie pugliesi - sono un caso scuola per spiegare agli euroscettici a cosa serva l’Europa. Se quei soldi non fossero finiti congelati per quattro anni, persi negli iter autorizzativi e nella schizofrenia procedurale della nostra bizantina burocrazia oggi la linea Corato-Andria sarebbe stata un caso scuola, non il teatro di una tragedia. La storia più paradossale di tutta questa tragedia è che i più moderni sistemi di controllo per i treni superveloci e per le metropolitane del mondo siano ideati, progettati, prodotti a pochi chilometri dal luogo della tragedia, dagli spin off del Politecnico di Bari, vera e propria eccellenza del territorio. Fulcro, ovunque altrove, dello sviluppo di un territorio sulla frontiera dell’eccellenza. Gigantesco, tragico rimpianto, nella terra delle occasioni sprecate. La burocrazia, per l’appunto. C’è chi, sui giornali, ha scritto che le ventisette vittime della tragedia sono morte di lentezza. La lentezza di un Paese che anche quando ha idee, progetti, soldi si perde nel proceduralismo. Che non è, si badi bene, la rigida applicazione delle regole, bensì la sua aberrazione. Che con la scusa di combattere la discrezionalità, i conflitti d’interesse, la corruzione, la malagestio finisce per castrare ogni velleità d’investimento e ogni decisione, investendo chi presidia tali processi, per contrappasso, di un potere immenso e di un’immensa discrezionalità. In grado di impedire che un opera finanziata venga costruita. Ma non che un operatore privato si doti di sistemi di sicurezza automatica che invece sono regola nelle ferrovie gestite dal pubblico. Qualunque riforma della pubblica amministrazione, del codice degli appalti, degli sblocca-qualcosa, dovrebbe partire da qua. Due righe, infine, sulla storia più paradossale di tutta questa tragedia. Che i più moderni sistemi di controllo per i treni superveloci e per le metropolitane del mondo siano ideati, progettati, prodotti a pochi chilometri dal luogo della tragedia, dagli spin off del Politecnico di Bari, vera e propria eccellenza del territorio. Fulcro, ovunque altrove, dello sviluppo sulla frontiera dell’eccellenza. Gigantesco, tragico rimpianto, nella terra delle occasioni sprecate.
I furbetti nascosti dietro un cartone e il cavillo della tragedia del binario. Le due facce della burocrazia criminale. Le due notizie sono arrivate lo stesso giorno: una è la strage del treno Andria-Corato, l'altra è l’ennesima catena di arresti di "furbetti del cartellino", scrive Giovanni Maria Bellu il 13 luglio 2016 su “Tiscali”. Le due notizie sono arrivate lo stesso giorno, quasi in contemporanea. Una tragica, l’altra tragicomica. Può suonare quasi blasfemo metterle assieme, eppure sono notizie che parlano l’una all’altra. La prima è su tutte le prime pagine dei giornali e nelle aperture di tutti i siti, la strage del treno Andria-Corato, ventisette morti fino a ora accertati, più di cinquanta feriti. Anche l’altra notizia è su tutti i giornali, ma in posizione più defilata, nelle pagine interne. In effetti non è una notizia particolarmente nuova: l’ennesima catena di denunce e di arresti di “furbetti del cartellino”. Questa volta si tratta di una trentina di dipendenti di Boscotrecase, un comune del napoletano. Gli uni timbravano al posto degli altri, chi andava a fare la spesa, chi a lavorare per l’azienda di famiglia. Storie già sentite. La novità è la tecnica: forse memore di precedenti indagini (e del fotogramma ormai diventato un’icona nazionale del vigile in mutande di Imperia) uno di loro timbrava il cartellino con la testa nascosta dentro un cartone. Le cronache della tragedia ferroviaria pugliese ci dicono che i finanziamenti per la costruzione del secondo binario – quello che se ci fosse stato la tragedia non si sarebbe verificata – erano stati stanziati già da tre anni. Finanziamenti certi, provenienti dall’Unione europea. “Ma la burocrazia – come sottolinea Alessandro De Nicola su Repubblica – aveva bloccato tutto”. Le cronache ci dicono che gli espropri dei terreni, indispensabili per l’ampliamento, erano stati effettuati fin dal 2013, ma la gara d’appalto non era stata mai indetta. La scadenza per la presentazione delle domande era stata inizialmente fissata per il primo luglio, ma poi era stata rinviata ancora: al prossimo 19 luglio. La catastrofe è avvenuta una settimana prima. Le cronache ci dicono che su quel tratto di ferrovia – a pochi chilometri di distanza dal punto in cui si è verificato il devastante impatto – c’è una grande azienda che occupa di indagini diagnostiche sui binari ed esporta il suo know how in tutto il mondo (Antonio Dacaro, sindaco di Bari, al Corriere della Sera). Ma che sul binario unico dov’è avvenuto lo scontro si viaggiava ancora col sistema del “blocco telefonico”, quello che era operativo nel 1965, quando l’allora presidente del Consiglio Aldo Moro inaugurò la nuova linea elettrificata da Bari a Barletta. E ci dicono anche che questo sistema (che risale all’Ottocento, con la sola differenza che all’epoca il blocco era “telegrafico” anziché “telefonico”) è ancora legittimo e operativo perché i gestori delle tratte ferroviarie minori, come quella di cui stiamo parlando, non hanno l’obbligo di installare i nuovi (costosi) sistemi di sicurezza. Parliamo di sistemi che danno garanzie pressoché assolute ed escludono la possibilità dell’errore umano. Quello che – stando ai primi elementi – pare essere la causa più probabile della sciagura. Il premier Matteo Renzi ha detto che l’Italia saprà “fare chiarezza” su questa tragedia che il presidente Mattarella ha definito “inammissibile”. Già, ma cosa intendiamo per “chiarezza”? L’individuazione del capo stazione che si è confuso, ha fatto partire uno dei due treni quando invece avrebbe dovuto tenerlo fermo? O la “chiarezza” riguarda questo intricatissimo insieme di ritardi, omissioni, rinvii che ha portato a non realizzare un’opera già finanziata? La prima ipotesi è quella largamente più probabile. In questi casi, infatti, di solito si scopre che ciascuno dei comportamenti dei vari controllori è stato formalmente legittimo. Ognuno ha fatto la sua parte, con scrupolo e pignoleria. Se poi il risultato finale è un disastro, non lo si può attribuire a persone determinate, ma è colpa del “sistema”. Ed ecco perché la notizia della catastrofe “parla” a quella degli ultimi furbetti del cartellino. Quel tale che si è coperto la testa col cartone sapeva perfettamente che le telecamere l’avrebbero individuato come uno dei dipendenti del Comune. O comunque come persona incaricata da uno dei dipendenti. L’occultamento del viso poteva solo nascondere la sua persona, non la truffa. Se, in una partita di calcio, un difensore si mettesse una maschera prima di compiere un fallo da espulsione, sarebbe giudicato come un pazzo irresponsabile da tutta la squadra. Nell’amministrazione pubblica non succede. Il sistema serve a coprire le manchevolezza dei singoli. A volte lo strumento è un cavillo, un codicillo. Altro volte è una scatola di cartone. Un “cartone animato” per adulti irresponsabili.
Invece per le istituzioni c’è altro di molto importate e fondamentale che queste tragedie.
DAGLI ALLO ZINGARO ED AL MERIDIONALE…
Degli zingari non sappiamo niente. Sì, abitano in luoghi sporchi. Lavorano poco. Spesso delinquono. Ma dietro tutto questo, c’è un popolo con dei valori straordinari. Sincretisti, cosmopoliti, umanisti. Un fotografo e uno scrittore ce li raccontano, scrive Aldo Nove il 13 aprile 2016 su "L'Espresso". Foto che valgono un mondo. Un mondo che spesso ci fa paura. Ci fa paura ciò che non conosciamo. Ci fa paura ciò che è diverso. La somma di queste due paure ci mette di fronte a noi stessi. Chiudendo il cerchio, abbiamo paura di noi stessi, di quanto ci nascondiamo o esorcizziamo, deformando lo specchio che ci inchioda a ciò che non vogliamo vedere. Costruiamo case e realtà che sono dispositivi di negazione del mondo che certo non si limita alla protezione delle nostre fragili sicurezze, né può proibirne il crollo costante. Ci attacchiamo a fragili amori e ai relativi contratti che spesso inutilmente li regolano, consegniamo il nostro futuro in forma di soldi sottratti al presente versandoli a istituti delegati a conservarceli, anzi ad incrementarli, salvo poi in molti, troppi casi, perdere proprio grazie a quegli istituti tutto. Il “nostro” mondo, serrato da una globalizzazione che alza muri e barricate ovunque, si rivela nella sua vastità ed è allora che scattano meccanismi di difesa estremi. E come dicevo, non dal mondo ci difendiamo, ma da ciò che non conosciamo, da ciò che è diverso e da noi stessi. Dalla nostra parte oscura o, meglio, dalla parte di noi stessi che crediamo oscura. I Rom ci sbattono in faccia tutto questo. Vivono con noi, tra noi. Ma esprimono altro dal mondo in cui ci siamo asserragliati salvo scoprire, spesso, che la minaccia più grossa è proprio l’asserragliamento, la nostra chiusura. Ma vediamo qualche dato. I rom, o sinti, o zingari, costituiscono lo 0,26 per cento della popolazione italiana. Sono, complessivamente, tra i 150-180 mila. Vivono quasi sempre in luoghi indecenti che si chiamano “campi nomadi”. Pochi sanno che i campi nomadi sono stati progettati da Comuni e Regioni tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. È in questo modo che gruppi differenti per lingua, tradizioni, competenze professionali, religioni e stile di vita, vengono forzatamente accomunati in una marginalità massimalista e indifferenziata su cui, per un discutibile principio amministrativo, abbiamo costruito una marginalità a cui abbiamo poi attribuito lo stigma del negativo. Negli ultimi decenni abbiamo assistito a ricorrenti “emergenze nomadi”, in un lampeggiare di ostilità che riemerge quando chi cerca consensi facili non ha altro a cui appellarsi. Degli zingari non sappiamo niente. Neanche come chiamarli. Non sappiamo delle loro peregrinazioni secolari di terra in terra, e di come la Storia ottusa e inconsapevole di sé si ripeta. Non sappiamo e non vogliamo sapere che sono persone con una cultura meticcia, ricchissima e ibrida perché sempre contaminata (ma non annientata) dai differenti Paesi in cui vengono a trovarsi. Gli zingari non riconoscono l’idea di Stato ed è proprio con la formazione degli Stati nazionali che, in Europa, si è formato l’ostracismo nei loro confronti, perennemente costretti ai margini di società che hanno sempre richiesto la loro totale “integrazione” che significa poi la loro perdita d’identità. Compagni d’orrore, nei lager nazisti, di ebrei e omosessuali, non hanno mai cercato né voluto né ottenuto una “terra promessa” (come nel caso degli ebrei) e non hanno vissuto il progressivo per quanto lento processo d’accettazione di una diversità sessuale che dà fastidio a chi considera legittima solo la propria. Gli zingari sono stati i primi “europeisti”, non percependo i confini tra gli Stati. Così come il forte spirito comunitario che lega le loro famiglie è la negazione del nostro riunirci per progetti di lavoro. Quanto per noi valgono azienda e fatturato, per i Rom valgono l’amicizia, l’incontro, la festa. Ancora, i Rom non concepiscono l’ottica del risparmio. I soldi servono a essere spesi. La vita è vissuta giorno per giorno. E non è vero che non lavorano. Lavorano quanto basta per soddisfare le necessità del presente. Quel presente che noi, noi “gagè” (così ci chiamano “loro”) non viviamo più perché dilaniati da una nostalgia (spesso edulcorata) del passato e da una paura (spesso esasperata) del futuro. Come succede in tutte le realtà marginali, i rom sono in parte “integrati”, in parte delinquono, in parte sono disoccupati o vivono di espedienti. La realtà è quasi sempre molto più semplice di come ce la costruiamo. Sono generalmente animati da un forte sentimento religioso “sincretista” (potremmo dire anche “ecumenico”) in cui antiche tradizioni pagane, cristianesimo e Islam si fondono senza soluzione di continuità, in modo estremamente fluido. È difficile trovare informazioni su di loro. La bibliografia reperibile è minima. Attualmente è in libreria “Tra noi e i rom” di Giuseppe Burgio (Franco Angeli editore) che, pur incentrandosi sulla questione della “pedagogia culturale” tra popoli diversi, è un primo utile viatico per scoprire un mondo sospeso tra mito e realtà, di cui conosciamo e alimentiamo i miti e di fronte a una realtà che c’è ignota. Come esempio di (nostra) mitologia mitica potremmo prendere quello delle zingare che “rubano” i bambini. Bene, non risulta un caso sicuro di questo fatto. Non è mai successo. Come esempio della realtà valgono le bellissime fotografie di Paolo Pellegrin. Secca e potente la descrizione del suo lavoro, che riporto per intero: «Entro in un cortile a pochi passi da ponte Marconi. Ci vivono Sevla, Vejsil, Jordan, Carlos, Leon, Romeo, Romina, Shelly, Erma e gli altri membri di una piccola comunità Rom di origine bosniaca. Una grande famiglia, romana di adozione e per scelta, che mi accoglie con naturalezza e generosità. Riconosco in loro dei valori precisi: l’ospitalità, il rispetto, una grande educazione. E percepisco il loro “senso di casa” anche se vivono in una ex rimessa, con una scassata roulotte per dépendance. Mi sembra di aver trovato un rifugio, lontano da tutto, dalla gente e dalle cose, dentro la città. Incontro Priscilla, l’ultima figlia, la nona, venuta al mondo con la sindrome di Down. Intelligente e sensibile. Antica, come l’etimo del suo nome, come i valori di questa famiglia. Antica come Roma: nata multietnica, accogliente, aperta alle diversità». Le foto di Paolo sono pura poesia. La stessa poesia con cui Fellini ha saputo raccontare la melanconia del popolo povero e orgoglioso del circo. O con cui Pasolini ha descritto certe realtà periferiche sulle quali però incombeva una disfatta identitaria che qua non c’è. Anzi. Diceva Edoardo Sanguineti che «la poesia non è mai poetica». È il caso di queste foto. Spesso crude, essenziali, e proprio per questo profondamente poetiche. Si respira, guardandole, un clima sorprendente e triste. Una tristezza riscattata dalla capacità di inventarsi un mondo con gli scarti (per citare Papa Francesco) di un mondo che non li riconosce e che loro trasformano in cruda fiaba. L’empatia è immediata. L’occhio (e il cuore) di Pellegrin frugano negli anfratti di uno spazio altro. Trapelano storie d’amore, cose misere per lo sguardo di chi si ferma alla superficie. La povertà come cifra di un’altra dignità. Ancestrale. Oserei dire più solida della nostra, sospesa ormai ai capricci di una finanza spietata di cui siamo fantocci, molto più ladra del più ladro degli zingari. Pellegrin ci mostra un popolo orgoglioso di ciò che è e non di ciò che ha. Storie di solidarietà e di smarrimento, di divertimento e melanconia. Una finestra che si apre su un mondo che spesso denigriamo perché “sporco” quando a essere sporchi, sporchissimi, sono i nostri occhiali. Pellegrin guarda a occhio nudo, ci accompagna generosamente nel campo in cui ha vissuto, ci rende ospiti silenti, lascia che qualcosa di simile alla consapevolezza trapeli. Nessuna “emergenza nomadi”. Solo umanità. Solo amore.
"Gli stupri di Colonia come le porcate dei maschi siciliani". Siciliani Liberi, il movimento fondato dal professor Massimo Costa, in una nota, "intima alla Rai, e in particolare al conduttore di Uno Mattina Tiberio Timperi, di scusarsi pubblicamente con tutti i siciliani", scrive Rachele Nenzi, Sabato 16/01/2016, su "Il Giornale". Siciliani Liberi, il movimento fondato dal professor Massimo Costa, in una nota, "intima alla Rai, e in particolare al conduttore di Uno Mattina Tiberio Timperi, di scusarsi pubblicamente con tutti i siciliani per non aver fermato il "delirio razzista" di Carlo Panella che ha affermato che gli stupri di massa di Colonia sarebbero come le "porcate che facevano i maschi siciliani" e che "forse fanno ancora". "Siciliani Liberi- dichiara Massimo Costa- chiede l'allontanamento perpetuo del suddetto Panella dai teleschermi della Rai, e - come si è detto - scuse pubbliche della RAI nella stessa fascia oraria in cui è stato pronunciato l'insulto a milioni di cittadini siciliani non colpevoli di altro se non di essere nati e vivere e lavorare in Sicilia. La Sicilia è già oggetto da tempo di una continua serie di aggressioni verbali e mediatiche che stanno alimentando un clima di odio razziale ormai insostenibile. Queste affermazioni, semplicemente incommentabili, devono cessare immediatamente".
Umberto Bossi, intervista verità a Libero: "Quando ho evitato la secessione violenta. Ora lista col Cav e Zaia premier", scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano” l’1 febbraio 2016. Umberto Bossi dà appuntamento a Libero in un bar a un passo da Montecitorio. Sul tavolino il caffè e un posacenere. In bocca il solito sigaro.
Bossi, iniziamo da Renzi. Che ne pensa?
«Per ora ha il potere in mano, ma deve risolvere due problemi: il primo è che il Nord sta pagando troppe tasse, ci sono 100 miliardi di residuo fiscale di cui 60 solo dalla Lombardia. L'altro problema è il mancato sviluppo industriale del Sud, causato anche dalla sinistra ai tempi del consociativismo».
Dalla sinistra?
«Certo! Ha provato a imporre un modello americano o russo, cioè ha spostato al Sud la grande industria. Ma senza indotto produttivo è stato un fallimento su tutta la linea».
Fatto sta che si parla della questione meridionale da decenni, e anche voi che siete stati al governo non l'avete risolta...
«Ora, per la prima volta, il Nord è favorevole allo sviluppo industriale del Sud perché in questo modo anche il Sud avrebbe i soldi per pagare le tasse, che altrimenti sono tutte a carico del Nord. Ma vanno sviluppate le piccole e medie imprese».
Parla come se avesse archiviato per sempre la secessione. O no?
«Dico che il Nord deve decidere se scappare o se investire nello sviluppo industriale nel Sud. E poi...».
E poi cosa?
«Oggi, per l'ennesima volta, stanno pagando i lavoratori del Nord. La riforma Fornero ha cambiato la previdenza, con l'Inps che ha assorbito l'Inpdap degli ex statali. Peccato che proprio lo Stato non abbia versato i contributi, e ora l'Inps è costretto a pagare quelle pensioni con i soldi degli altri lavoratori. Vergogna, lo Stato è il primo a non applicare le leggi».
Quindi serve la secessione?
«Gliel'ho detto, o si scappa oppure bisogna creare lo sviluppo del Mezzogiorno, incentivando gli artigiani».
Salvini sta battendo la seconda strada. Non parla di secessione e vuole sbarcare a Sud.
«Salvini ha il problema di tutti i leader: quando ci si presenta agli elettori, loro ti chiedono cosa gli dai in cambio. Cosa può offrire al Sud? Mi pare che Salvini non si sia ancora pronunciato. O scappiamo con l'indipendenza, o il Nord si guadagna il paradiso cercando per l'ennesima volta di far sviluppare il Sud. Ma temo sia difficile, soprattutto con la sinistra al governo».
Anche il centrodestra non è riuscito a combinare granché...
«In tanti anni la sinistra non ha mai parlato ai piccoli e medi imprenditori, preferendo le grandi industrie perché gli stabilimenti hanno i lavoratori che sono proletari. Ora il Nord deve respirare, il Sud è una palla al piede. Chieda al povero Maroni: la Lombardia regala a Roma circa 60 miliardi l'anno...».
Maroni ha lanciato il referendum per chiedere l'autonomia della sua Regione.
«Se passa quello, Roma non può più far finta di niente».
Be', ma il referendum non garantirà automaticamente più soldi e federalismo alla Lombardia.
«Non si può governare avendo contro Lombardia, e poi a ruota Veneto e Piemonte. Noi siamo impegnati a ottenere dei risultati democraticamente, ma ci rendiamo conto che non si può dialogare con chi non è democratico o se ne frega della democrazia».
Ripetiamo: anche voi non avete cambiato le cose.
«Eh no, il federalismo fiscale era passato alla Camera e al Senato, ma poi Napolitano e Monti hanno bloccato tutto! Sono stati brutti segnali per il Paese, perché ora fatica a rialzarsi. E il Nord fa bene a pensare alla secessione».
La secessione non è arrivata per gli errori della Lega o per la freddezza dei cittadini del Nord?
«Diciamo che la gente si aspettava un miracolo, senza intervenire direttamente. Ma chi vuole la rivoluzione deve intervenire».
Ora il tema della secessione è scomparso dal dibattito.
«A Bergamo si dice sóta la sènder brasca, sotto la cenere c'è la brace. Il problema dell'oppressione del Nord c'è sempre».
C'è stato un momento in cui ha creduto davvero di poter dividere l'Italia?
«Sì, all'inizio credevo di farcela. Nel 1996, quando andammo sul Po, c'era la volontà di rompere gli indugi e andare subito a bersaglio. Ma poi il sistema è intervenuto, è riuscito a crearci degli indugi».
A cosa si riferisce?
«Per esempio agli attacchi contro di me, che si sono rivelati falsi. Guardi anche la faccenda dei soldi alla mia famiglia. Tutto falso. Hanno fatto un processo senza indagini. Non si spiegano queste cose, se non con la volontà di colpirmi e fermarci».
Nel 1998 ci fu un'altra mobilitazione leghista particolarmente calda, davanti al carcere di Modena per chiedere la liberazione dei Serenissimi che avevano occupato il campanile di San Marco. Ricorda?
«Certo! La gente spingeva ai cancelli, volevano prendere per il collo i guardiani».
Ma lei fermò la folla. Alcuni indipendentisti non gliela perdonano, dicono che lì poteva davvero scattare la rivoluzione.
«Ammetto che mi preoccupai, fermai la folla, pensai: qui dobbiamo cambiare democraticamente. Forse quella sera avremmo cominciato la rivoluzione, ma resto convinto che la via democratica resti la migliore. Anche se...».
Anche se?
«Forse, per svegliarsi, la gente aveva bisogno di un martire. Forse, se mi avessero arrestato perché chiedevo la libertà del Nord, la storia sarebbe cambiata».
Dicevamo dello scandalo dei soldi della Lega. La contabile, Nadia Dagrada, ha detto in tribunale che lei non ne sapeva nulla.
«Sono incazzato nero!».
Spieghi.
«Sapevo quello che avrebbe detto in tribunale, perché affrontai subito Nadia e le dissi: "ma è vero che abbiamo pagato la macchina a mio figlio?". Io ho sempre pagato tutto! Lei mi disse che mi avevano tenuto all' oscuro delle manovre di Belsito perché non volevano farmi soffrire, ovviamente l'ho mandata a quel paese».
Ma è vera 'sta storia dei soldi?
«Fosse stato vero, avrei dato dei calci in culo. Ma è stato tutto montato ad arte. Pure i lavori in casa mia... Ho pagato tutto io!».
Fatto sta che negli ultimi tempi si sta prendendo delle soddisfazioni in tribunale. La Dagrada la scagiona, e nella sua Varese trasferiscono il pm Abate che fu tra i primissimi a farle causa.
«Quella di Abate è una storia vecchia, ormai ho dimenticato».
Non è arrabbiato coi giudici?
«Certo che non tutti i giudici lavorano bene e ci sono processi che non finiscono mai. Però, nonostante la magistratura abbia colpito anche me, penso che di fronte all' evidenza dei fatti si convincono anche i magistrati. Non ci sono solo pecore nere ma anche pecore bianche».
Chi sarà il candidato premier del centrodestra?
«Berlusconi vuole farlo ancora».
Però si dice che Berlusconi apprezzi pure Zaia, e che a Palazzo Chigi vedrebbe meglio il governatore veneto piuttosto che Salvini.
«Zaia è equilibrato, a volte è forse un po' lento ma alla fine riesce a stare in equilibrio. Sarebbe un ottimo premier. Ma Berlusconi...».
Ma Berlusconi non molla. Non dovrebbe dimenticarsi di Palazzo Chigi una volta per tutte?
«Lo dica a lui».
Lei lo sente?
«È da un po' che non lo sento. Posso dirle una cosa? Per certi versi l'uomo è migliorato, è meglio di come l' hanno dipinto i giornali e certa politica. È un generoso, ha una sensibilità rara. Ha raggiunto un equilibrio e in lui ho visto anche cose positive. In quei posti, quando si raggiungono certi ruoli, si fanno avanti molti che vogliono primeggiare.
Non è facile gestire le situazioni. Ne so qualcosa...».
A cosa si riferisce?
«Contro di me non avevano e non hanno prove, ma mi sono dimesso per salvaguardare la Lega. Massacrando me avrebbero massacrato la Lega e un politico deve sapere quando farsi da parte. Tanto il tempo mi darà ragione».
Si è sentito tradito da qualcuno, per esempio da Maroni?
«Non voglio parlare di queste cose, è il sistema che voleva far fuori me. Certo, qualcuno dei nostri mi ha accoltellato. Sa come si dice? Dagli amici mi guardi Iddio che dai nemici mi guardo io».
E che ne dice di Salvini? Può fare il premier?
«Prima, farebbe bene a imparare e a fare esperienza. Lui ha davanti una vita, non deve avere fretta».
Quindi Salvini dovrebbe candidarsi sindaco di Milano?
«So che si sta facendo avanti Sgarbi, un uomo di cultura per una città capitale della cultura».
Sgarbi sarebbe il suo candidato ideale?
«Non mi faccia dire cose che non ho detto. So che si è fatto avanti».
Beppe Grillo, invece, anziché fare un passo in avanti ne vuole fare uno laterale. S' è già stufato?
«Non lo so, quando metti in piedi un movimento così poi non puoi più fare le cose di prima ma non credo voglia uscire di scena».
Che voto dà a Renzi, da 1 a 10?
«6».
Motivo?
«La qualità migliore, e che a un certo punto ha convinto Berlusconi ad appiccicarsi a lui, è che ha svecchiato la sinistra rendendola quasi europea. Ma la sinistra non è capace di sistemare il Paese, ci deve pensare il centrodestra con una riforma per abbassare le tasse e garantire lo sviluppo del Sud».
Voto a Maria Elena Boschi.
«6, ma alle volte merita 5. Vediamo come esce dai problemi di queste settimane: pure lei deve capire quando conviene staccarsi dalla poltrona».
Voto a Berlusconi e Salvini.
«Meritano 7 e anche 8, ma un voto così alto glielo do solo se riescono a fare il programma elettorale con le cose che ho detto. Meno tasse e sviluppo del Sud».
Quindi lei non ha dubbi: l'alleanza va ricostruita.
«È l'unico modo per vincere».
Ma se non cambia l'Italicum, sarà necessario creare un listone unico di centrodestra.
«Subiamo le scelte di Renzi che vuole uccidere gli avversari».
Per i leghisti sarà uno choc non vedere il simbolo sulla scheda.
«Combatteremo con le armi che abbiamo».
Tra quanto si va a votare?
«Ancora un anno, non di più. Renzi sa benissimo che più resta e più si rovina».
I politicanti contro l'economia del Mezzogiorno. Il Mezzogiorno protesta contro il Governo: No alle importazioni agricole. Nelle piazze del Sud Italia, migliaia di persone scese in piazza contro gli accordi euro-mediterranei nel settore agricolo. Agevolano i prodotti extracomunitari e mettono in ginocchio gli agricoltori italiani, scrive Emanuela Carucci, Martedì 15/03/2016, su "Il Giornale". "Se muore l'agricoltura muore la Sicilia, muoiono le nostre città”. Forti le parole del sindaco di Pachino, Roberto Bruno, in occasione della manifestazione per il comparto agricolo in quaranta Comuni del Sud. Il grido forte della terra, come in un racconto di Verga. Migliaia le persone scese in piazza. L’immagine evoca le pagine di della scrittura verista. Il Mezzogiorno d’Italia chiede ancora una volta di lasciar vivere la propria agricoltura. Già, perché molti comuni tra Basilicata, Puglia, Sicilia e Sardegna (le regioni aderenti alla manifestazione) hanno ancora nella terra e nei suoi frutti pezzi importanti della propria economia. Lontano dalla grande industria, lontani dalle frenesie dei mercati che decidono per tutti. La protesta più viva a Ragusa con sei mila persone in piazza. “Non ho mai visto uno schieramento così compatto – ha dichiarato Sandro Gambuzza, presidente di Confagricoltura Ragusa e della federazione nazionale orticola di Confagricoltura – oggi erano unite tutte le associazioni di categoria e i Comuni.” A rendere il fronte così forte e critico verso il governo “il calo delle quotazioni che va dal 30 al 70 per cento.” Ma non solo, a creare i malumori nel Mezzogiorno, secondo Gambuzza, anche “gli accordi euro mediterranei e di libero scambio con il Marocco e la Tunisia e quello dell’olio con le importazioni senza dazi di 70 mila tonnellate”. Una protesta che cade proprio nel giorno in cui al Consiglio d'Europa dei ministri dell'Agricoltura il ministro Maurizio Martina ha chiesto l'attivazione delle clausole di salvaguardia previste nel trattato Euro Mediterraneo (UE-Marocco). Da un capo all’altro d’Europa, si chiedeva aiuto per un Sud Italia sempre più solo a fronteggiare la concorrenza aggressiva dei paesi del Mediterraneo. Perché, come ha specificato ancora Gambuzza “La maggior parte dei comuni del Mezzogiorno ha una vocazione agricola ed oggi soffre un problema sociale”. Dal testo redatto dai sindaci dei comuni che hanno aderito alla protesta si evince una lunga lista di richieste che riguardano: “il riconoscimento dello stato di crisi e la moratoria per i crediti contratti dalle aziende nei confronti di banche o istituzioni, società di riscossione, indebitamenti e passività Inps; l’attivazione di misure anticrisi immediate e di medio termine attraverso una preventiva e forte contrattazione con l’UE; norme di salvaguardia e la revisione degli accordi euro-mediterranei, la perequazione del costo del lavoro e di produzione con adeguamento a quelli dei paesi esteri concorrenti; uniformità degli standard fitosanitari ai parametri europei dei prodotti provenienti dai paesi terzi, controlli lungo la filiera agroalimentare sulla tracciabilità dei prodotti e sull’etichettatura, interventi per un riequilibrio del meccanismo di domanda e offerta nella Gdo; una moratoria dell’importazione dei prodotti agricoli extracomunitari in attesa di una rivisitazione degli attuali accordi con i Paesi extraeuropei per tutelare le nostre coltivazioni e allevamenti in attuale crisi di prezzi di vendita all’ingrosso.” Ora che il Mezzogiorno fa sentire la sua voce, ora che dalla crisi agricola alla crisi sociale il passo è breve e i rischi elevati, l’Unione Europea e il Governo faranno ancora - è il caso di dire - orecchie da mercante?
Pomodori dal Marocco? Cambiamo gli accordi. L’intesa commerciale sui pomodori tra Unione Europea e Marocco crea molti malumori nel settore agricolo, scrive Emanuela Carucci, Lunedì 14/03/2016, su "Il Giornale". “Vanno rivisti gli accordi bilaterali” esordisce con enfasi, Marco Nicastro, presidente nazionale federazione di prodotto pomodoro da industria. L'accordo commerciale tra Unione Europea e Marocco per l’importazione di pomodori dal paese nordafricano ha, infatti, provocato molti malumori tra i produttori italiani. La prima a lanciare l’allarme è stata Coldiretti che ha parlato di "invasione di pomodori": "una crisi senza precedenti della produzione nazionale, che si concentra in Puglia e Sicilia, dove si coltiva il pregiato pomodoro Pachino". "Questa volta Confagricoltura e Coldiretti sono fortemente dalla stessa parte perché ora stanno toccando le mani degli agricoltori italiani e vendere e produrre sottocosto non ha colore sindacale" continua Nicastro. E se da un lato Coldiretti rivendica il simbolo della dieta mediterranea Made in Italy per le "agevolazioni accordate dall’Unione Europea per l’importazione di prodotti che fanno concorrenza sleale a quelle nazionali", Confagricoltura attraverso Nicastro dice: “questi sono accordi risalenti a 50 anni fa, ora lo scenario è cambiato e il Marocco è molto competitivo sui nostri mercati. Pertanto vanno riguardati gli accordi e chiediamo di moderare, secondo le clausole di salvaguardia, questa importazione in questo periodo". Infatti se da un lato in Nord Africa "si produce bene, senza attenersi ai disciplinari dell’Unione Europea e utilizzando manodopera sottocosto", in Italia, “grazie al clima mite, c’è una sovrapproduzione” che, quindi, andrebbe invenduta proprio a causa delle importazioni. "È cresciuto peraltro il rischio di frodi con il pomodoro marocchino venduto come italiano. Il risultato - evidenzia la Coldiretti - è che le quotazioni al produttore agricolo sono praticamente dimezzate rispetto allo scorso anno su valori inferiori ai costi di produzione che sono insostenibili e mettono il futuro della coltivazione in Italia". "L'Italia - conclude la Coldiretti - produce oltre un milione di tonnellate di pomodoro da mensa in pieno campo ed in serra, con la Sicilia leader di settore, ma la superfice coltivata si è ridotta del 13% negli ultimi 15 anni, da oltre 30.000 ettari del 2000 a circa 26.000 nel 2015". Dove sono da ricercare le cause? Intanto l’Unione Europea ed il ministro Mogherini (politiche agricole europee) sembrano essersi dimenticati di una parte di Europa la cui terra fertile ancora pulsa sotto il sole.
Protesta Coldiretti per grano di importazione, solidarietà del Vicepresidente Longo, scrive Pino Oro il 24 febbraio 2016 su “A Modugno”. “Tutta la solidarietà agli agricoltori della Coldiretti che quest’oggi hanno presidiato il porto di Bari per protesta contro l’importazione di ingenti quantitativi di grano arrivato da Canada, Turchia, Argentina, Singapore, Hong Kong, Marocco, Olanda, Antigua, Sierra Leone, Cipro e spesso triangolato da porti inglesi, francesi, da Malta e da Gibilterra. Una beffa per l’agricoltura pugliese e del Sud Italia in generale, cui si aggiunge il danno per i consumatori se troveranno conferma le notizie del ritrovamento di sostanze altamente tossiche. Dopo l’importazione di tonnellate di olio di oliva dal Nord Africa, nel nome di una dubbia azione solidale, continua l’attacco indiscriminato ai nostri prodotti di eccellenza, in sfregio a qualsiasi regola dell’equa e corretta concorrenza e a danno quasi esclusivamente dei Paesi della fascia mediterranea europea. Il problema è l’apertura incondizionata delle barriere dal punto di vista agricolo, senza una valutazione dell’impatto reale sui nostri sistemi, senza una pretesa di reciprocità, sacrificando ancora una volta i territori più poveri dell’Unione europea. In 7 mesi, nel periodo tra luglio 2015 e febbraio 2016, secondo i dati diffusi dall’associazione agricola è stato scaricato nello scalo marittimo barese 1 milione di tonnellate di grano, con il vero granaio d’Italia, la nostra Puglia, messo in ginocchio da una drastica riduzione del 25% del costo, passato in 7 mesi da 34 euro a 25 euro al quintale. Ancora più grave perché ci troviamo di fronte a prodotti sulla cui qualità e tracciabilità ci sono montagne di dubbi, senza contare le gravi ripercussioni tanto in termini economici che occupazionali. Ai colleghi del Consiglio regionale pugliese, ai rappresentanti della Giunta, al presidente Michele Emiliano e a tutti i nostri parlamentari ed europarlamentari, al governo italiano, chiedo un intervento fermo, deciso e preciso”.
OLIO TUNISINO: IL PD VOTA L'INVASIONE, si legge Lunedì 25 Gennaio 2016 sul blog di "Beppe Grillo". Oggi muore il Made in Italy. Con i voti favorevoli di Alessia Mosca (Pd), Goffredo Bettini (Pd) e dei gruppi Ppe, S&D e Alde la Commissione Commercio Internazionale del Parlamento europeo ha approvato l'importazione senza dazi di una quota annua di 35.000 tonnellate di olio d'oliva dalla Tunisia. Questa ulteriore quota si aggiunge alle 56.700 tonnellate annue già previste dall'accordo di associazione UE-Tunisia e sarà in vigore per due anni. Un aumento del 40% di importazione di olio distruggerà la produzione olivicola pugliese, siciliana e non solo. È uno schema suicida per l'economia del Sud Europa, così come dimostrato dai precedenti accordi con il Marocco, che hanno contribuito a distruggere la produzione di arance nel Sud Italia e causato indirettamente tensioni sociali, come quelle vissute a Rosarno. Dietro l'invasione dell'olio tunisino ci sono precisi interessi economici in gioco: l'obiettivo è quello di affossare i piccoli e medi produttori del Sud Italia, mentre ai grandi viene data la possibilità di comprare a prezzo stracciato l'olio extraeuropeo per poi spacciarlo Made in Italy, come in passato già dimostrato dalle inchieste della magistratura. L'agricoltura italiana, ancora una volta, viene usata come merce di scambio per la politica internazionale. La Mogherini, che ha ideato il piano, conosce le conseguenze economico-sociali di questa politica iper-liberista? L'Europa sta già facendo molto per il popolo tunisino. Nel 2011 anni ha stanziato nel programma di macro assistenza finanziaria ben 800 milioni di euro. Nel 2015 sono stati erogati 100 milioni di euro, una prima tranche di un prestito complessivo di 300 milioni. Perché adesso questa ulteriore apertura? Alcuni sospetti nascono dagli interessi economici dell'attuale primo ministro tunisino. Habib Essid è, infatti, uno dei maggiori produttori di olio del Paese e dal 2004 al 2010 è stato persino direttore esecutivo del Consiglio oleicolo internazionale. Con questa importazione senza dazi si vuole aiutare il popolo tunisino o gli affari dei suoi governanti? Il MoVimento 5 Stelle si opporrà e difenderà con tutti i mezzi la produzione e l'eccellenza italiana, già a partire dalla prossima plenaria quando il testo verrà votato per l'approvazione definitiva. Il Pd può dire lo stesso?
Ci sono nomi molto noti tra i 15 europarlamentari italiani che non si sono opposti all’accordo che prevede l’importazione in Europa di una quota annuale aggiuntiva di 35 mila tonnellate di olio tunisino senza alcun dazio. Secondo i dati pubblicati sul sito Vote Watch Europe, l’organizzazione no profit che si occupa della raccolta di dati sulle votazioni del Parlamento europeo, 12 italiani hanno votato favorevolmente mentre 3 hanno deciso di astenersi. Ecco tutti i nomi, scrive Salvatore Frequente il 13 marzo 2016 su “Il Corriere della Sera”.
Mercedes Bresso, Europarlamentare del Partito Democratico, già presidente della Regione Piemonte e presidente della Provincia di Torino.
Sergio Cofferati, eletto nel 2009 al Parlamento Europeo con il Partito Democratico, ha lasciato il partito dopo le primarie in Liguria e oggi è indipendente. È al suo secondo mandato da europarlamentare. È stato sindaco di Bologna dal 2004 al 2009 e precedentemente segretario generale della Cgil dal 1994 al 2002.
Andrea Cozzolino, napoletano, del Partito Democratico, è alla sua seconda legislatura. Nel 2011 vince le primarie del centrosinistra per il candidato a sindaco di Napoli. Ma viene presentato un ricorso e le primarie verranno annullate e come candidato sindaco del Pd viene scelto il prefetto e commissario Mario Morcone.
Roberto Gualtieri, romano, dal 2009 è deputato europeo del Partito Democratico. Nel luglio 2014, è stato eletto Presidente della Commissione per i problemi economici e monetari al Parlamento Europeo.
Cécile Kyenge, già ministro per l’integrazione nel Governo di Enrico Letta. Nel febbraio 2014, si candida alle Elezioni europee con il Partito Democratico e viene eletta nella circoscrizione del Nord-Est.
Antonio Panzeri è all’Europarlamento dal 2004 prima con Uniti nell’Ulivo poi con il Partito Democratico. È stato segretario generale della Camera del Lavoro Metropolitana di Milano (dal 1995 al 2003), responsabile delle politiche per l’Europa (2003-2004) e membro della direzione nazionale dei Democratici di Sinistra.
Massimo Paolucci, napoletano, del Partito democratico. Alle elezioni politiche del 2013 viene eletto alla Camera dei Deputati. L’anno successivo si candida alle Elezioni europee e approda a Bruxelles.
Gianni Pittella, Partito Democratico. È europarlamentare dal 1999 alla sua quarta legislatura (il Pd fece appositamente una deroga per consentirgli la candidatura). Dal 2 luglio 2014 è capogruppo dell’Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici (S&D) al Parlamento Europeo. Dal 1996 al 1999 svolse il ruolo di deputato nazionale.
David Sassoli, Partito Democratico. È stato vice direttore del TG1 dal 2006 al 2009. Eletto parlamentare europeo per il Pd nella legislatura 2009-2014, è stato scelto come capo della delegazione del partito all’interno dell’Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici. Riconfermato alle Europee 2014, è attualmente vicepresidente del Parlamento europeo.
Renato Soru, sardo, Partito democratico. Imprenditore, fondatore di Tiscali, ed ex presidente della Regione Sardegna, carica che ha ricoperto dal 2004 al 2008 quando rassegna le dimissioni. Si ricandida, per la stessa carica, con il centrosinistra il 15 ed il 16 febbraio 2009, ma vincerà Ugo Cappellacci. Viene eletto al Parlamento Europeo nel 2014 nella circoscrizione Italia insulare.
Patrizia Toia è al suo secondo mandato all’Europarlamento. È stata ministro per i rapporti con il Parlamento dall’aprile 2000 al giugno 2001 con il presidente Giuliano Amato e poi ministro per le Politiche comunitarie dal dicembre del 1999 all’aprile del 2000 con il governo di Massimo D’Alema. Tra il 1995 e il 1996 è stata deputato alla Camera per il Partito Popolare Italiano mentre dal 1996 al 2006 ha ricoperto il ruolo di senatore della Repubblica.
Flavio Zanonato, Partito democratico, al suo primo mandato a Bruxelles. È stato Ministro dello Sviluppo Economico nel Governo Letta dal 2013 al 2014. Precedentemente è stato per due mandati sindaco di Padova dal 2004 al 2013.
Curzio Maltese - Astenuto - è un giornalista, scrittore, politico e autore televisivo italiano, dal 2014 europarlamentare per la lista L’Altra Europa con Tsipras.
Elly Schlein - Astenuta - eletta nel 2014 nelle fila del Partito Democratico nella circoscrizione nord-est. Nel maggio del 2015 annuncia l’abbandono del Pd in dissenso con la linea dal Segretario Matteo Renzi. Aderisce a Possibile, il partito fondato da Giuseppe Civati.
Barbara Spinelli - Astenuta - è al suo primo mandato ed è stata eletta nella lista L’Altra Europa con Tsipras, partito che ha abbandonato nel maggio 2015 rimanendo come indipendente all’interno del gruppo Gue/Ngl.
E per la serie come ci prendono per il culo….La memoria corta dell’olio (tunisino), scrive Maicol Engel il 30 Gennaio 2016. I giornali stanno facendo girare moltissimo questa storia. L’Ue ci impone l’olio tunisino: lo schiaffo ai nostri agricoltori. Via libera a 35mila tonnellate di olio d’oliva tunisino a dazio zero. Anche il Pd vota a favore. Salvini: “Che schifo!” E io già leggendo i titoli mi trovo a pensare che la storia possa non essere proprio come ce la raccontano. Non parliamo poi di quando mi fate vedere le immagini che circolano sui social. Vediamo di fare una piccola ricerca insieme. Questo è uno dei comunicati stampa che presentavano la mozione: The European Parliament’s Trade Committee has backed a proposed emergency measure to import 77,160 tons of olive oil from Tunisia duty-free, to help boost the struggling Tunisian economy. Members of the European Parliament (MEPs) supported the European Commission’s proposed exceptional measure by 31 votes to seven, with one abstention. If the full Parliament endorses the measure, a two-year temporary zero-duty tariff quota of 38,580 tons per year for European Union (EU) olive oil imports from Tunisia would be available from January 1, 2016, to December 31, 2017. The committee also called for a mid-term assessment, which would require the Commission to review the impact on the EU olive oil market after one year and take any corrective measures required. There would be no increase in the overall volume of imports from Tunisia, and the EU would discount duties from the olive oil Tunisia is already exporting to the EU. Olive oil is Tunisia’s main agricultural export and the sector accounts for one-fifth of agricultural jobs. Parliamentary rapporteur Marielle de Sarnez said: “At a time when Tunisia is facing very serious problems, our vote gives the right signal: that the EU stands alongside Tunisians and that we intend to exercise solidarity in a tangible way. I know that for some countries, the question of olive oil is a sensitive one. I want to reassure them that the amendment we adopted provides that, if after a year we realize that there is indeed a problem, the Commission may then take steps to rectify the imbalance.“ Non sto a tradurvi tutto, credo di aver già ripetuto più volte come l’inglese sia necessario se si vuole imparare a scavare un po’ più a fondo nelle notizie. In parole povere, l’Unione Europea ha soltanto approvato con un primo voto l’abolizione dei dazi doganali su oli che vengono già importati dalla Tunisia. Quindi non aumenterà il quantitativo d’olio che viene importato nei paesi dell’Unione, costerà solo meno esportarlo ai produttori tunisini. È una misura d’aiuto che dovrebbe durare solo due anni e se causerà problemi, sarà prevista una modifica subito dopo il primo anno. Questo è quanto spiega il rapporto della parlamentare Marielle de Sarnez. I voti con cui è stata votata la proposta il 25 gennaio sono 31 a favore, 7 contrari, un astenuto. Tutto questo oltretutto rientra nell’ottica di aiuti votata già a maggio 2015, anche in Italia. Con una risoluzione che porta le firme dei rappresentanti di tanti schieramenti.
Vediamoli insieme:
Primo firmatario: CICCHITTO FABRIZIO, Gruppo: AREA POPOLARE (NCD-UDC), Data firma: 05/05/2015
Elenco dei co-firmatari dell’atto:
QUARTAPELLE PROCOPIO LIA - PARTITO DEMOCRATICO
AMENDOLA VINCENZO - PARTITO DEMOCRATICO
VALENTINI VALENTINO FORZA ITALIA – IL POPOLO DELLA LIBERTA’ – BERLUSCONI PRESIDENTE
PALAZZOTTO ERASMO - SINISTRA ECOLOGIA LIBERTA’
CIRIELLI EDMONDO - FRATELLI D’ITALIA-ALLEANZA NAZIONALE
LOCATELLI PIA ELDA - MISTO-PARTITO SOCIALISTA ITALIANO (PSI) – LIBERALI PER L’ITALIA (PLI)
MARAZZITI MARIO - PER L’ITALIA – CENTRO DEMOCRATICO
Mancano il Movimento 5 Stelle e la Lega Nord, ma per il resto il parterre politico italiano mi pare ci sia quasi tutto, mi sbaglio? Trasversalmente. Questa parte del testo della risoluzione: l’Italia ha un interesse vitale nella stabilizzazione democratica e nel consolidamento istituzionale della Tunisia, in quanto modello virtuoso di evoluzione pacifica dalla dittatura verso la democrazia e alternativo per le migliaia di giovani di tutti i Paesi della regione nordafricana e mediorientale rispetto all’opzione rappresentata dal fondamentalismo estremista; il sostegno alla giovane democrazia tunisina e alla sua economia rafforzerebbe la posizione dell’Italia in Europa e nel Mediterraneo, in linea con le premesse dettate dal Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, a partire dalla sua visita in Tunisia come primo impegno ufficiale all’estero, e confermate dalle successive missioni del Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale, Paolo Gentiloni, nonché dalle iniziative di diplomazia parlamentare assunte dalla Commissione affari esteri della Camera dei deputati nei mesi di gennaio e marzo 2015, da ultimo a seguito degli attentati perpetrati al Museo del Bardo;
considerato che l’Italia è il secondo partner economico della Tunisia, Tunisi resta un interlocutore privilegiato per gli investitori e le imprese italiane e ciò malgrado le perdite registrate nel settore del turismo dopo gli attentati del Bardo e alla luce dell’iniziativa assunta dal Ministro Gentiloni sul taglio di 25 milioni di euro del debito tunisino, unitamente alla proposta di un «piano Marshall» per la Tunisia derivante dalla destinazione verso Tunisi di una parte significativa dei finanziamenti provenienti dal piano Junker per contribuire ad una crescita sostenibile, in considerazione delle gravi diseguaglianze esistenti tra il nord e il sud del Paese, e alla creazione di opportunità di lavoro soprattutto con riferimento alle fasce giovanili della popolazione;
La risoluzione chiede di: promuovere, di concerto con gli altri Paesi europei, una conferenza internazionale per gli investimenti in Tunisia, con l’obiettivo di rafforzare l’impegno nella lotta contro il terrorismo e per il consolidamento delle istituzioni e dell’economia tunisine; a promuovere l’attribuzione alla Tunisia dello «status avanzato» nel quadro della nuova Politica europea di vicinato, e dello status di Paese partner per la democrazia in sede di Consiglio d’Europa.
Quindi mi sembra di poter dire che sì, è vero, in Italia arriverà olio dalla Tunisia a costo inferiore rispetto a quanto era precedentemente, ma non aumenteranno le importazioni di 35mila tonnellate. Saranno le stesse che costeranno un po’ di meno. Ragionamento dell’uomo della strada: non si venderà meno olio italiano, ma chi già comperava olio tunisino lo pagherà un po’ meno. Forse, perché alla fine può anche essere che chi lo venda se ne infischi dei dazi e tenga il prezzo in linea con l’anno prima, tanto la convenienza non dev’essere sulla vendita finale, ma sull’esportazione. Per aggiungere un tassello al puzzle, l’Italia produce circa 440mila tonnellate d’olio all’anno, non credo che le 35mila che andranno spalmate [ah, non versate? ndr] sui 28 paesi europei possano farle temere alcunché. Una minuscola considerazione. Il Giornale fino a poco tempo fa (che io sappia) teneva alto il nome di Silvio Berlusconi. Oggi, pur essendo Forza Italia tra i firmatari della risoluzione che chiedeva aiuti alla Tunisia, il Giornale decide di seguire la linea di Lega Nord e Cinque Stelle. Buffo, non trovate? La memoria dei giornalisti è davvero di breve durata. Chissà se sono stato sufficientemente chiaro.
RAZZISMO. C’E’ INSULTO ED INSULTO…
L'insulto di De Rossi: altre polemiche, ma niente squalifica. In meno di una settimana la serie A ha dato il peggio di sé con tanti cattivi maestri (incluso Spalletti). Ma la giustizia sportiva continua a glissare..., scrive il 25 gennaio 2016 Giovanni Capuano su "Panorama". In meno di una settimana il calcio italiano ha offerto il peggio di sé. E non i tanto criticati ultras, o nemmeno per le solite questioni di arretratezza strutturale. No. Il calcio italiano ha mostrato la faccia brutta e a finire dietro la lavagna sono stati quelli che dovrebbero avere maggior autocontrollo e senso del limite. Brutti, maleducati, razzisti (almeno un po') e, in larga parte, impuniti: quello siamo oggi ed è difficile sostenere il contrario. Anche se la frase non porterà ad alcuna squalifica perché la procura federale della Figc non ha inviato al giudice sportivo la segnalazione delle immagini perché trattasi di insulto (come tale di competenza dell'arbitro) e non di condotta violenta, il labiale di De Rossi impegnato a dare dello "zingaro di merda" a Mandzukic non è nemmeno commentabile. Ma lo è invece il fatto che in meno di una settimana la Giustizia sportiva si è inventata un cavillo per salvare il tecnico del Napoli e il capitano della Roma (e fino a prova contraria giocatore della nazionale di Conte): una resa totale che impone la preghiera di non riproporre mai più ai media i buoni propositi sull'opera di ripulitura del calcio dai razzisti. Ancora peggio, però, nella scala dei cattivi maestri ha fatto Luciano Spalletti e con lui tutti quelli che per giorni hanno ribadito la necessità di lasciare in campo le schifezze che accadono in campo. Anche l'incredibile giustificazione data dal tecnico davanti alle immagini dell'insulto di De Rossi si iscrivono in questa tipologia di omertà da stadio: "Mandzukic ci ha preso per il culo per dieci minuti, vorrà dire che insegneremo a Daniele a mettersi le mani davanti alla bocca". Come dire a un bullo che il punto non è non menare il compagno di scuola, ma farlo stando ben attento a non lasciare i segni. Detto da un allenatore appena rientrato dall'estero dove - si favoleggia - i nostri non vanno solo a caccia di contratti milionari, ma anche di ambienti più respirabili. Inqualificabile lui, De Rossi e tutti i commentatori che si sono affrettati a sminuire l'evento (si è sentito anche un "se vorrà chiedere scuse lo farà, altrimenti no"). E inqualificabili quelli che giustificavano Sarri e ora si indignano per i soliti cori da vomito anti-napoletani sui quali non si può far altro che ripetere la necessità della tolleranza zero nel senso di svuotamento delle curve e progressiva sostituzione con gente normale. Ma nel miasma del nostro calcio i cattivi maestri sono così numerosi che si fa fatica a capire chi possa cominciare l'opera di moralizzazione. E allora avanti così. O, meglio, indietro tutta con un tuffo nel Medioevo della civiltà.
Gli insulti razzisti ai napoletani, e l'insulto razzista di De Rossi a Mandzukic. Brevi spiegazioni sul calcio di oggi nel Villaggio Globale. Con De Rossi possiamo indignarci, ma se lo si squalifica, il prossimo passo sarà squalificare il pensiero..., scrive Fabrizio Bocca il 25 gennaio 2016 su “la Repubblica”.
Cori razzisti, insulti in campo e i contraccolpi del caso Sarri-Mancini. Due veloci considerazioni su alcuni fatti dell'ultima giornata di campionato, tenendo sullo sfondo la nota vicenda Sarri e gli insulti a Mancini (pubblicizzata dai maestrini moralisti di sinistra e ormai comunque chiusa e archiviata). Voglio solo spiegare la genesi, e anche la strumentalizzazione, di certi meccanismi di giudizio.
1) Gli insulti razzisti ai napoletani a Genova.
Molti chiedono perché non ci si indigni per gli insulti razzisti subiti da Napoli e dai napoletani a Genova. E' giusto l'indignazione per questo tipo di fatti non può essere a intermittenza. Gli insulti dovranno essere puniti giustamente e correttamente secondo regolamento, anche se bisogna ricordare che purtroppo le sanzioni sono state annacquate negli ultimi due anni proprio per non disturbare e danneggiare troppo i club. I quali preferiscono sentire e subire gli insulti, piuttosto che pagare pesanti multe e vedersi chiuse curve e interi settori.
Perché fatti dal genere hanno meno risalto di altri, ugualmente gravi?
Perché quasi mai c'è una constatazione diretta, la tv non sempre li riporta, le tribune stampa non sempre sono in grado di recepire distintamente i cori offensivi. (Logico: se le tv e i giornalisti, spesso, non sono, meridionali e quindi non hanno alcun interesse a constatare, ndr) Insomma bisogna giudicare su cronache e soprattutto su opinioni degli altri. Tutti siamo stati testimoni in diretta invece di quanto è successo tra Sarri e Mancini: prima il litigio, poi l'espulsione, le frasi di Mancini alla tv, la replica subito dopo di Sarri. Insomma avevamo molti più elementi per giudicare e per farci un'opinione nostra. Anche se spesso assai differenti e addirittura contrapposte. Non mi piace e anzi considero misero usare il fatto per metterlo in relazione a quanto avvenuto prima sul noto caso Sarri-Mancini. Per arrivare a una conclusione assurda, falsa e vittimistica: "ce l'avete con Napoli e con i napoletani". Ma quando mai.
2) L'insulto di De Rossi a Mandzukic "Zingaro di m..."
De Rossi: molti ne chiedono la squalifica e trattamento al pari di Sarri. Io non discuto la necessità di una sanzione - al di là dei tecnicismi che potrebbero escluderla nell'immediato ma magari ipotizzarla nelle prossime settimane dopo un procedimento sportivo ad hoc - e già ho detto più volte che giocatori e allenatori devono avere un comportamento responsabile e consono al ruolo che rivestono oggi. Ben sapendo che sono costantemente osservati dalle telecamere del Grande Fratello del pallone. Detto questo, la vicenda mi appare assai diversa da quella di Sarri. Nel caso dell'allenatore napoletano siamo davanti a insulti rabbiosi, gravemente offensivi e spregevoli, diretti in faccia alla persona e in presenza addirittura di tutti quelli che partecipano alla partita. Quarto arbitro compreso. Nel caso di De Rossi, siamo davanti a un labiale di un giocatore che prima dice all'altro, di stare zitto e poi si volta e pronuncia l'insulto. Mi sembra che Mandzukic non se ne sia nemmeno reso conto sul momento, ma immagino che gli abbiano riportato il tutto, dopo.
Detto che la maniera di stare in campo di De Rossi la trovo molto discutibile proprio per questa sua esuberanza fisica e verbale che lo ha portato troppe volte a mal comportarsi, qui si viaggia su un discrimine infido e pericoloso.
Si può squalificare un giocatore per un insulto grave, sia pure a sfondo razzista, colto attraverso un labiale catturato al ralenty in tv?
Qui entriamo in un campo assai rischioso, e dovrebbe essere Marshall McLuhan - il grande sociologo della comunicazione moderna e teorico del Villaggio Globale - a dirci fino a dove ci possiamo spingere. L'insulto di De Rossi per quanto convinto e rivolto chiaramente a Mandzukic era espresso verso il vuoto. Il passo successivo sarebbe quello di squalificare per una lettura del pensiero. La penso lo stesso anche per le bestemmie non plateali, pronunciate tra sé e sé, colte solo dall'intrusione dei potentissimi obbiettivi della tv. Dunque, pur sapendo che così facendo mi prenderò la bordata di chi dice che ce l'ho solo con Sarri (non è vero), io dico che con De Rossi possiamo indignarci, ma non possiamo squalificarlo.
Ho provato a spiegare che – disinnescate squalifiche e multe – l’unica soluzione possibile, oramai, è quella di trascurarli, di non farci più caso: ma dopo ogni cantata offensiva, dopo ogni sinfonia di insulti, migliaia di persone pretendono giustamente che se ne riparli e si sottolinei la volgarità di certi cori, scrive Ivan Zazzaroni il 25 gennaio 2016. Capita a tutti, ovviamente, anche a Beppe Severgnini, interista: “E questi cori allora? Ne scriverete sul Corriere? O vi limitate a condannare le parole di Sarri e a segnalare gli eccessi del San Paolo”, il contenuto dei messaggi che l’editorialista ha ricevuto sui social. I cori offensivi li ho trattati numerose volte, la prima tre anni fa – me lo ha ricordato un lettore. Per questo recupero la risposta molto intelligente che ha dato Severgnini proprio oggi: “Ecco qui, lo scriviamo. Non è solo orribile quel che si urla negli stadi italiani: è tristemente antico. La società si muove, cambia. Intorno a un campo di calcio, invece, tutto rimane uguale. Ogni tifoseria è pronta ad offendersi per quanto subisce, ma giustifica tutto ciò che fa. Lo so: è inutile ragionare di questi temi. Saltano fuori “la fede”, l’elogio astuto dell’irrazionale…”. “Nessuno pretende che gli stadi siano dei concerti, nessuno chiede silenzi attenti e commenti forbiti. Ma quello che accade negli stadi d’Italia – quasi tutti – è strabiliante: s’è fermato il tempo…. Sostenere la propria squadra non significa disprezzare o umiliare gli ospiti. Uno stadio che fischia ogni possesso di palla avversario dimostra insicurezza, non forza”. Severgnini invita tutti a tifare col cuore. Io suggerisco di lasciare a casa il fegato e riattivare il cervello.
Il contentino di Severgnini: "Molti messaggi dei napoletani: non scrivete dei cori razzisti? Ecco qui, lo scriviamo". Ecco quanto si legge sul Corriere della Sera, Si era inserito nella polemica tra Sarri-Mancini sottolineando come il San Paolo osa fischiare sistematicamente gli avversari. Oggi sulle colonne del Corriere della Sera Beppe Severgnini prova ad aggiustare il tiro. Ecco quanto si legge: Ieri a Marassi i soliti cori anti-napoletani: viva il colera, Vesuvio lavali col fuoco e vergogne del genere. Durante e dopo la partita, molti messaggi di tifosi napoletani: e questi allora? Ne scriverete sul Corriere? O vi limitate a condannare le parole di Sarri e a segnalare gli eccessi del San Paolo? Ecco qui, lo scriviamo. Non è solo orribile quel che si urla negli stadi italiani: è tristemente antico. La società si muove, cambia. Intorno a un campo di calcio, invece, tutto rimane uguale. Ogni tifoseria è pronta ad offendersi per quanto subisce, ma giustifica tutto ciò che fa. Lo so: è inutile ragionare di questi temi. Saltano fuori «la fede», «il cuore», l’elogio astuto dell’irrazionale. Ma proviamoci comunque. Nessuno pretende che gli stadi siano sale da concerti. In campo si gioca a calcio, si scontrano ragazzi, sogni e memorie; nessuno chiede silenzi attenti e commenti forbiti. Ma quello che accade negli stadi d’Italia — quasi tutti — è strabiliante: s’è fermato il tempo. Ecco perché Sarri è stato indotto a urlare quelle frasi a Mancini. Credeva che il campo fosse rimasto una zona franca dove nulla si riferisce, tutto si dimentica. Questo abbiamo scritto sul Corriere, giorni fa, parlando del Napoli. Aggiungendo che la squadra migliore del campionato e la tifoseria più appassionata non hanno bisogno di subissare di fischi gli avversari appena toccano palla. Sono arrivate centinaia di commenti: metà giustificano questa pratica, metà ricordano gli insulti che il Napoli riceve sugli altri campi. Ebbene: degli insulti abbiamo detto all’inizio (vergognosi). Ma i fischi sistematici — di cui il San Paolo ha il primato, certo non l’esclusiva — non ci piacciono. Sostenere la propria squadra non significa disprezzare o umiliare gli ospiti. Uno stadio che fischia ogni possesso di palla avversario dimostra insicurezza, non forza. Proviamo a tifare col cuore e a ragionare con la testa, per una volta: si può fare.
Dal Ferraris a San Siro, ancora cori razzisti contro Napoli ed i napoletani. E’ palese quanto negli ultimi anni molti stadi d’Italia abbiano bersagliato gli azzurri con cori discriminanti contro Napoli ed i cittadini partenopei. Non una novità, ma una triste notizia che si ripete: poco fa, sono stati intonati a San Siro cori razzisti, in primis “Napoli colera”. Stesso spettacolo al Ferraris, dove, durante Sampdoria – Napoli, la curva blucerchiata ha iniziato a cantare: “Vesuvio lavali col fuoco”. Si attendono seri provvedimenti nei confronti delle tifoserie.
«Io, tifoso napoletano cacciato dallo stadio a Genova per aver reagito ai cori razzisti. Incredibile come la realtà possa essere distorta», scrive Ilaria Puglia su “Il Napolista” il 25 gennaio 2016. Una cosa tipo “cornuto e mazziato”, come si dice a Napoli. Potrebbe essere questa la migliore definizione per l’avventura vissuta ieri da Armando Rusciano allo stadio Luigi Ferraris. Il tifoso azzurro, invitato da amici a Genova per assistere alla partita contro la Sampdoria, ha dovuto subire (come tanti altri) più di un’ora di cori razzisti e poi, per aver mostrato la sciarpa del Napoli dopo il gol di Mertens, come a volersi pulire di dosso tutta quella bruttura, è stato allontanato dallo stadio come se fosse un delinquente anche se conosciamo quali sono le regole. Ecco, attraverso le sue parole, l’esperienza vissuta ieri.
In quale settore hai visto la partita, ieri?
«Ero in compagnia di amici di Genova in Tribuna Centrale, sotto la Tribuna d’Onore. Un settore che dovrebbe essere molto lontano dagli atteggiamenti beceri che a volte caratterizzano il tifo delle curve e invece, già prima che iniziasse la partita, hanno iniziato ad insultarci. Quindi non si è trattato di un surriscaldamento degli animi così come, per capirci, è successo nella vicenda Sarri-Mancini».
Che atmosfera c’era allo stadio?
«Brutta. I cori razzisti contro i napoletani sono iniziati già da prima della partita e sono continuati fino alla fine. Non erano solo cori: si è trattato di un’intimidazione continua che dalla televisione non si poteva sentire».
In che senso “intimidazione continua”? Che dicevano?
«Cose del tipo: “Non ci dovete venire qua”, “napoletani di m....”. Roba così. Quasi sussurrati all'orecchio, rendo l'idea? Alla fine del primo tempo una persona molto distinta che frequenta la tribuna anche a Napoli ha iniziato ad avere paura perché era con il figlio sedicenne. L’ho rassicurato dicendogli che, trovandosi in Tribuna, era protetto dalla tanta polizia presente. Bastava solo non reagire agli insulti».
E poi cos’è successo?
«Al goal di Mertens non ce l’ho fatta più. Mi sono girato, gli ho fatto il gesto che fa Toni quando segna, quello con le mani dietro le orecchie, e gli ho mostrato la mia sciarpetta. Per tutta risposta, steward, celerini, poliziotti, fra un po’ veniva pure l’esercito, mi hanno prelevato e cacciato dallo stadio. Sembrava che la polizia non aspettasse altro che cacciare qualche napoletano per usarlo come capro espiatorio. Dopo tutto quello che avevamo subito, alla prima reazione, ti giuro, in due secondi mi hanno prelevato e portato via. Tutti i disordini erano diventati all’improvviso colpa mia».
Hai provato a giustificarti spiegando loro cosa avevi dovuto subire fino ad allora?
«C'è poco da giustificarti o difenderti quando sai che la parte che dovrebbe difenderti e tutelarti è in malafede. Tutto è successo esattamente all'ottantesimo minuto, al goal di Mertens. Il mio ero uno sfottò, volevo dire “insultateci pure, tanto non vi sento, siamo troppo forti per voi”. Forse era fuori luogo per la tensione accumulata, ma ti assicuro che era solo uno sfottò rispetto a tutto quello che avevamo subito e invece sono diventato un hooligan. Noi i “cattivi napoletani” e loro i “civili genovesi”. È assurdo quanto la realtà possa essere distorta».
La polizia ti ha accompagnato personalmente fuori dallo stadio?
«Sì, hanno preso le mie generalità e mi hanno portato fuori. Tra l’altro sono rimasto da solo, fuori, perché ero a piedi e dovevo aspettare i miei amici che uscivano. Mi guardavo intorno anche un po’ impaurito. È stato un brutto quarto d’ora».
I tuoi amici come hanno commentato l’accaduto?
«Erano imbarazzati. Fortunatamente non tutti i genovesi sono così. Ho fatto un anno di università a via Balbi, a Genova, e ti assicuro che è una città assolutamente civile, splendida da tutti i punti di vista. Si tratta di una parte della popolazione che è incancrenita da questo odio nei nostri confronti, inspiegabile. È gente frustrata. Ho notato che negli ultimi anni questa cosa è peggiorata, forse per la crisi economica, la gente che già di per sé è cattiva quando è esasperata tira fuori il peggio di sé. Noi comunque alle offese reagiamo sempre con gli sfottò. Sono più divertenti, più civili e ho notato che loro vanno pure più “in freva”...».
Tornerai a Genova per vedere una partita del Napoli?
«Spero di sì, magari in un clima meno esasperato. Per adesso vado a prendere il treno per Napoli. Me ne torno a casa mia…».
L’ISLAM, L’ACCOGLIENZA E L’IPOCRISIA DEI BUONISTI.
Clandestini e islam, la Rai diventa Teleboldrini: paghi per vedere queste robe, scrive di Enrico Paoli il 13 luglio 2016 su “Libero Quotidiano”. Paolo Messa, consigliere di amministrazione della Rai, in una recente intervista a Libero chiedeva esplicitamente alla tv pubblica di aprirsi al mondo dedicando a turisti e residenti stranieri almeno un notiziario, se non addirittura un programma, in lingua inglese. Dalle buone intenzioni ai fatti c’è stato il solito silenzio. In tutte le lingue del mondo. Ma se la sollecitazione arriva dalla presidente della Camera, Laura Boldrini, cambia tutto. Soprattutto se il tema sono l’integrazione e l’Islam. Con una solerzia quanto meno sospetta l’amministratore delegato, Antonio Campo Dall’Orto, accompagnato dalla presidente del consiglio di amministrazione del board di viale Mazzini, Monica Maggioni, ha squadernato una serie di appuntamenti da far invidia alle migliori tv arabe. Le quali, per contrasto, ironizzano su ciò che noi prendiamo maledettamente sul serio. Sul canale Saudita Mbc, per esempio, va in onda una serie tv di humour nero: si intitola «Selfie» e gioca a ironizzare sulle abitudini religiose dei Sauditi. Imam e sapientoni religiosi vengono presi in giro senza difficoltà. Così, tanto per scherzare. Noi, invece, facciamo i seriosi. Citando Pasolini e Calvino il dg Campo Dall’Orto, intervenendo in commissione Jo Cox sull’intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni di odio istituita dalla Camera con il compito di condurre attività di studio e ricerca su tali temi, ha sottolineato la necessità di sconfiggere l’ignoranza. Nel documento che il numero uno di viale Mazzini ha consegnato alla commissione presieduta dalla Boldrini è tracciato il primo percorso della programmazione Rai su questi temi. Rai Uno si concentrerà sul contrasto delle intolleranze, da quella razziale a quella religiosa e sessuale, con finestre nei programmi più importanti. La fiction, però, sarà il punto di forza. A settembre va in onda «Lampedusa», miniserie che racconta la quotidianità degli uomini e delle donne che operano in prima linea, laddove i volontari prestano i primi soccorsi ai clandestini sbarcati dai gommoni degli scafisti. Poi «Chiedilo al mare», miniserie interpretata da Giuseppe Fiorello che affronta il contrastato tema degli sbarchi illegali attraverso la drammatizzazione di un evento che può essere considerato la più grave sciagura navale del Mediterraneo dalla fine della Seconda guerra mondiale. Su Rai3 c’è «Radici «che racconterà l’altra faccia dell’immigrazione, quella degli immigrati regolari. Da segnalare «Fuocoammare» che andrà in onda in prima serata il 3 ottobre (anniversario dell’affondamento al largo di Lampedusa di un barcone con a bordo centinaia di migranti). A seguire la serie «Islam», in onda dal 13 novembre, dedicata al mondo islamico e dove attraverso la chiave narrativa del reportage sul campo si racconterà la vita di donne e uomini musulmani, imam, madri di jihadisti, portavoci delle comunità immigrate e volontari dell’accoglienza. Il punto di forza sarà il nuovo programma di Gad Lerner Islam-Italia. E ancora «Io ci sono», in onda per la giornata mondiale contro la violenza sulle donne a novembre e tratto dal libro autobiografico di Lucia Annibali. Dalla violenza sulle donne all’affido famigliare, dalla donazione degli organi all’emergenza lavoro e all’omofobia. Un bouquet di 16 programmi in cui nessuna declinazione del politicamente corretto non troverà spazio. Buona visione.
E poi c’è l’esempio dell’ipocrisia a sinistra.
Il pupillo di Beppe Sala? Vuole "bruciare i terroni" e insulta le "scimmie", scrive di Marianna Baroli il 14 luglio 2016 su “Libero Quotidiano”. Insulti razzisti, omofobi e chi più ne ha più ne metta. Non ha risparmiato nessuno Daniele Mascolo, il fotografo di Expo 2015 pupillo di Giuseppe Sala e sua ombra durante le lunghe giornate all’interno dell’Esposizione Universale e, poi, della campagna elettorale. Il trentatreenne era una delle punte di diamante del team di Sala, affiancato in Expo dove in quattro anni ha incassato circa 131mila euro. Mascolo era poi diventato il fotografo ufficiale del candidato Pd durante la sua campagna elettorale. Il sindaco, si vocifera da Palazzo Marino, stava pensando a lui come fotografo ufficiale del Comune. Ipotesi tramontata dopo le polemiche di ieri (Sala si avvarrà di due fotografi interni già presenti a Palazzo Marino). Dalla bacheca di Facebook di Daniele Mascolo emerge una fotografia del giovane che delinea un ragazzo non certo affine alla sinistra. Nel 2011, si legge chiaramente sulla sua bacheca: «Avanti Lega, indietro i clandestini». O ancora: «Cacciare gli extracomunitari a calci nel culo! Senza se e senza ma». E che dire dell’ex sindaco Giuliano Pisapia con cui Mascolo si è ritrovato più e più volte a contatto durante la campagna elettorale di Beppe Sala? La vittoria arancione, nel 2011, veniva salutata da Mascolo con un pesante «il vento che cambia puzza sempre più di merda». Nessuna pietà nemmeno per i «froci» e i «finocchi» con cui Mascolo fino a qualche settimana fa sfilava durante il gay pride, o le «scimmie» e i «terroni» che, secondo il giovane fotografo «dovevano essere lavati con il fuoco del Vesuvio». Ora, cliccando sul profilo di Daniele Mascolo sul social network, la pagina che compare riporta un messaggio unico: «Scusateci, il contenuto che cercate non è disponibile». La pagina è stata disattivata ma, per Mascolo, ormai è troppo tardi tanto che, i compagni del Pd, hanno già iniziato a prendere le distanze dal fotografo. Rosaria Iardino, ex consigliera Pd, ha chiesto pubblicamente su Twitter che Sala prenda «le distanze» da Mascolo e «manda a casa questo cretino». «Certe cose - per Iardino - non si dicono nè per gioco o goliardia». Duro anche Daniele Nahum del Pd. «Sono convinto che Sala non sapesse nulla delle dichiarazioni di questo tizio» commenta Nahum «ora che ne siamo venuti tutti a conoscenza, nessuno si azzardi di dargli un incarico comunale. Perché se scrivi quelle cose te ne assumi le responsabilità. Anche se fai il fotografo». A non risparmiarsi anche Riccardo De Corato di Fratelli d’Italia che chiede che «Sala dica qual è la sua posizione in proposito». «Ci manca che adesso i milanesi paghino anche uno stipendio a questo ragazzo» ha dichiarato De Corato «o Sala prende collaboratori seguendo non si sa quale meritocrazia e ignorando tutto delle persone che paga o non ha ritenuto gravi i comportamenti di Mascolo».
Sapete perché esiste la Kyenge? La spietata verità sull'ex ministro, scrive di Marco Gorra il 14 luglio 2016 su “Libero Quotidiano”. Tra gli effetti collaterali meno gradevoli della - già brutta di per sé - storia dell’immigrato ucciso a Fermo va annoverato il ritorno in grande stile dell’ex ministro Cécile Kyenge. La quale Kyenge da qualche giorno si è ripresa il proscenio politico come nemmeno ai tempi del governo. Dichiarazioni appariscenti («Emanuel è morto per l’odio alimentato da politici»), polemiche coi media (per l’esattezza contro questo giornale, reo di avere messo in dubbio la vulgata dell’Italia patria del razzismo), passerelle in favore di telecamera (in prima fila al funerale della vittima con tanto di lettera per la vedova consegnata prima alle agenzie che alla destinataria), iniziative ad effetto («Mi costituirò parte civile nel processo perché è una questione di dignità della persona»). Un fuoco di fila impressionante. Perfettamente prevedibile e perfettamente in linea col personaggio. Che è venuto ad esistenza in quanto incarnazione dell’idea stessa di antirazzismo militante e che continua a tenere ammirevole fede alla propria ragione sociale. Perché se alla vicenda politica della Kyenge va trovato un filo conduttore, ebbene non è possibile non trovarlo nel suo essere quanto di più vicino si possa trovare quaggiù alla figura che gli anglosassoni indicano col termine token black. Di difficile traduzione letterale (si potrebbe azzardare una cosa del tipo “nero simbolico”), l’espressione sta ad indicare quel personaggio di colore (o appartenente ad altra minoranza) che viene incluso in qualcosa - che sia il cast di un telefilm o un governo cambia poco - unicamente in nome del proprio essere minoranza. Il tutto, si capisce, a maggior gloria dell’inclusione e soprattutto dell’allontamento da sé di ogni possibile accusa di discriminazione e di razzismo. E la carriera della Kyenge è un vero e proprio inno al tokenism. Nata in Congo, arriva in Italia con un visto da studente e qui si laurea in Medicina. Parallelamente agli studi, intraprende la via della militanza politica attivandosi nel campo immigrazione e problemi connessi (e dove sennò). La scalata della dottoressa Kyenge inizia a metà anni Zero: eletta in circoscrizione a Modena coi Ds, eletta in consiglio provinciale col Pd, cooptata dal partito onde diventare responsabile regionale delle politiche dell’immigrazione (e di cosa sennò). Con le Politiche del 2013 arriva il grande salto: eletta alla Camera. Nemmeno il tempo di insediarsi e già produce la prima proposta di legge per introdurre nel nostro ordinamento la concessione della cittadinanza ai figli degli immigrati (e a chi sennò). Naufragato Bersani, a formare il governo deve pensarci Enrico Letta. Il quale, vistosi scoperto alla voce rinnovamento e società civile, decide di cooptarla nell’esecutivo, affidandole la delega all’Integrazione (e a cosa sennò) e consentendole di infrangere il tabù del primo ministro nero nella storia repubblicana (e quale sennò). Complici la effimera durata del governo Letta e la natura non esattamente incisiva del dicastero affidatole, quanto a politica spicciola della signora non restano grandi tracce. Poco male, però. Quello che è deficitario in termini amministrativi, però, viene compensato da quello che eccede sul piano mediatico. Dove la nostra è naturalmente diventata figura di primissimo piano e dove si consuma il meglio della sua parabola pubblica. Merito suo, certamente, ma anche dell’entusiastico contributo che arriva dall’opposizione. Segnatamente, dalla Lega Nord. Agli occhi del cui personale la Kyenge rappresenta l’Arcinemico e come tale viene affrontata. Testa d’ariete dell’offensiva padana risulta il vulcanico senatore Roberto Calderoli, che con la signora ingaggia un duello destinato ad entrare nella leggenda. Comincia in tono minore: qualche insulto (memorabile l’«orango» che lui ad un certo punto le scaglierà contro), qualche baruffa, qualche minaccia di carte bollate. Poi, all’improvviso, irrompe il soprannaturale: «Il padre della Kyenge mi ha fatto una macumba», comunica un giorno Calderoli. Il pubblico viene così a conoscenza di Kyenge senior, che di nome fa Clement Kikoko, ha quattro mogli e trentotto figli e - soprattutto - vanta rapporti privilegiati con gli spiriti degli avi incaricati di rendere giustizia alla figlia vilipesa dall’incauto collega. E che efficacia: «Sei volte in sala operatoria, due rianimazione, una in terapia intensiva, è morta mia mamma e nell’ultimo incidente mi sono rotto due vertebre e due dita. E adesso un serpente di due metri in cucina», elenca minuziosamente il senatore. Da cui il «messaggio distensivo» inviato a Kyenge senior unitamente alla richiesta di «revoca del rituale». Il lieto fine è fortunatamente dietro l’angolo: poco tempo dopo, sarà lo stesso Clement Kikoko a dare notizia della avvenuta contromacumba. Che placa sì gli spiriti ma presenta un inatteso effetto collaterale: in forza del nuovo rituale, fanno sapere infatti dal Congo, Calderoli e la Kyenge sono diventati ufficialmente fratelli. Nel frattempo, però, intorno alla signora si è aperto un altro caso: quello del marito Domenico Grispino. Costui - placido ingegnere sessantenne modenese - ha la ventura di concedere un’intervista a Libero nella quale rivela che il Pd ha fatto firmare alla moglie (e si suppone al resto dei candidati) un impegno a versare al partito 34mila euro in caso di elezione a titolo di rimborso elettorale. «Ma la campagna l’avevo pagata tutta io». Il problema è che il Grispino di lavoro fa il direttore del Consorzio attività produttive, aree e servizi della Provincia di Modena. Consorzio il cui presidente è l’assessore comunale competente (casualmente del Pd) e consorzio dal quale il marito del ministro viene fatto fuori senza troppe cerimonie (e nonostante gli ottimi risultati conseguiti) poco dopo l’uscita dell’intervista di cui sopra. Ma sono gli ultimi fuochi. Il ciclone renziano è già arrivato e Letta ha già iniziato a stare sereno. A defenestrazione avvenuta, Renzi non conferma la Kyenge al governo e la dirotta al Parlamento europeo. Trionfalmente eletta, la ormai ex ministra si trasferisce dunque a Strasburgo dove diventa, tra le altre cose, relatrice del rapporto di iniziativa sulla situazione nel Mediterraneo e la necessità di un approccio olistico al fenomeno migratorio (e su cosa, sennò) e co-presidente dell’Intergruppo “Anti-Racism and Diversity” (e di cosa, sennò). Il resto è storia dei giorni nostri. Un comunicato sulle elezioni in Burkina Faso, una dichiarazione in occasione di qualche tragedia dell’immigrazione, una visita istituzionale da qualche parte in Africa, un tour de force in Italia perché è stato ucciso un immigrato e c’è da lanciare alto e forte l’allarme contro il ritorno del razzismo E contro che cosa, sennò.
Detto ciò è ipocrita che un paese razzista intrinsecamente si scandalizzi di un fatto marginale e monti un evento mediatico ed istituzionale per sugellare ed incentivare l’invasione islamica.
Il governo inventa l'Italia razzista. Le signore snob Boldrini e Boschi dicono che siamo degli sporchi razzisti. Ma che lo sanno loro chi sono gli italiani? Si chiede Alessandro Sallusti, Lunedì 11/07/2016, su "Il Giornale". Ce la stanno mettendo tutta, ma per quanto ci riguarda non ce la faranno a farci sentire in colpa, a farci sentire responsabili di tragedie private e collettive nei confronti delle quali il Paese Italia e gli italiani non hanno alcuna responsabilità. L'immancabile Boldrini e l'onnipresente ministra Boschi ieri hanno fatto passerella ai funerali di Emmanuel, il profugo nigeriano morto a Fermo aggredito da un balordo violento. Non discuto l'opportunità che lo Stato e il governo testimonino solidarietà dove meglio credono, mi inquieta il tentativo di trasformare un grave fatto di cronaca nera in un fatto politicamente rilevante. Siamo addolorati per Emmanuel, come lo siamo ogni volta che un uomo uccide un suo simile, come ogni volta che una tragedia miete vittime innocenti. Ma, detto con grande serenità, che cosa dobbiamo fare di più noi italiani nei confronti degli immigrati? I nostri marinai ne salvano da morte certa a migliaia ogni mese, i nostri centri di assistenza ne sfamano e curano altrettanti, il nostro governo per occuparsi di loro stanzia un miliardo di euro all'anno, tanti soldi sottratti a bisogni primari di molti cittadini italiani. Nelle nostre città spesso veniamo lasciati soli a gestire il degrado causato da flussi di immigrati eccessivi e fuori controllo. Le nostre carceri sono diventate ancora più invivibili per una criminalità di importazione senza legami con la società civile e, quindi, senza scrupoli e remore morali, purtroppo quasi impossibile da redimere. E non abbiamo neppure colpe politiche perché l'Italia, con i governi Berlusconi, è stata l'unico Paese occidentale ad opporsi ai due errori che hanno provocato queste invasioni e la nascita dell'Isis: la guerra all'Irak di Saddam e quella alla Libia di Gheddafi. Sopportiamo, e paghiamo, tutto questo per sentirci dire dalla Boldrini e dalla Boschi che siamo degli sporchi razzisti? Ma che lo sanno loro chi sono gli italiani? Sono anni che non li frequentano, chiuse nei loro palazzi, ben protette dai disagi e dalle paure che ogni cittadino deve affrontare quotidianamente. Io non ci sto a farmi insultare da queste signore snob. E con umiltà lo dico anche al Santo Padre, Papa Francesco, che ieri, forse non a caso, ha detto che «Dio è nel migrante che vogliamo cacciare». Giusto, direi ovvio: Dio è ovunque, quindi anche negli italiani che non ce la fanno più a convivere con un fenomeno che, a prescindere da colore e razza dei protagonisti, sta rompendo il patto sociale di una civile convivenza. Che Dio faccia Dio, senza priorità, ma Cesare, cioè lo Stato, deve fare Cesare e deve dare ordine alle cose, come disse Gesù ai farisei, casta ipocrita di saggi tutta forma e niente sostanza, i Boldrini dell'epoca.
L'Italia non è razzista, ma razzisti ci sono, scrive Paolo Lambruschi l'8 luglio 2016 su “Avvenire”. La vera Italia non è razzista. Lo pensiamo anche noi, perché lo abbiamo verificato tante volte e continuiamo ad averne conferme. Non ci fa cambiare idea neanche il pestaggio mortale di Emmanuel, nostro fratello nato in Nigeria. Non ci fa mutare avviso neanche il gesto orribile di un ultrà della locale squadra di calcio, fermato per «omicidio preterintenzionale con l’aggravante della finalità razziale» e, a quanto pare, non nuovo a intemperanze e violenze. Non è razzista l’Italia, né lo è la popolazione marchigiana e crediamo sia sincero chi oggi si commuove ed è addolorato per quello che è accaduto. L’Italia accogliente di Lampedusa e di Ventimiglia ha molto in comune con le Marche solidali. Questa profonda convinzione non consente, comunque, di abbassare la guardia, perché i segnali di allarme sono numerosi. E i cinici e i razzisti purtroppo ci sono. Per anni li abbiamo visti sistematicamente sottovalutati. Infatti, accanto ai grandi gesti di solidarietà e accoglienza compiuti dalla parte sana del Paese in tante emergenze gestite in modo altalenante dalla pubblica amministrazione, cattivi maestri hanno potuto imperversare diffondendo impunemente in tv, per radio, attraverso giornali compiacenti e sul web fior di menzogne pur di parlare alla “pancia” della gente e guadagnare consensi, popolarità, voti. Come non ricordare, per esempio, chi in Senato ha dato dell’«orango» ad avversari politici nati in Africa, portando l’insulto da osteria nella sede più alta della rappresentanza popolare? E soprattutto come dimenticare chi ha continuato a gridare su tutti i mass media all’«invasione» dei migranti– incurante di ogni smentita dei numeri – ad alimentare sentimenti xenofobi e a predire la «violenza nelle strade»? Questi cinici 'profeti di sventura' l’hanno azzeccata. Alcuni si preoccupano di offrire pubblica solidarietà alla fidanzata della persona uccisa. Non è mai troppo tardi, ma non basta. Troppi veleni e troppo male sono stati messi in circolo. Davvero troppi, per non farci altrettanto pubblicamente i conti. È importante, adesso, non sottovalutare più alcun segnale d’allarme. A cominciare, ad esempio, dagli attentati alle chiese di Fermo compiuti nei mesi scorsi, come ha ricordato più volte don Vinicio Albanesi, e dalle continue intimidazioni ai danni di diverse Caritas diocesane che praticano l’accoglienza (in Romagna non è stato risparmiato neppure un convento di clausura). Gesti compiuti da estremisti di destra. Comunque sia andata l’aggressione mortale (sarà l’autopsia a stabilirlo) anche l’uomo che ha ucciso Emmanuel ha fama di essere di quella brutta scuola e di quegli oscuri manipoli. L’opinione pubblica italiana – che, insistiamo, non è razzista – ha un grosso problema che si potrà risolvere soltanto nel lungo periodo: è il Paese più «ignorante» dell’area Ocse in materia di immigrazione. E la colpa è soprattutto dei giornalisti e dei politici che disinformano o distorcono la realtà dei fatti per mediocri tornaconti. Per di più, storie come quella del giovane nigeriano pestato a sangue, e stavolta a morte, per aver difeso la propria donna, la propria madre, la propria sorella da chi la oltraggia o la chiama «scimmia africana» sono sconosciute ai più, anche se sono purtroppo dannatamente comuni. Raccontiamola di nuovo, in breve. Emmanuel, 36enne richiedente asilo, era un profugo dalla Nigeria, un cristiano che in un assalto compiuto dai terroristi jihadisti di Boko Haram contro la sua chiesa aveva perso i genitori e una figlioletta. Con la sua promessa sposa Chinyery aveva raggiunto la Libia e anche lì i due erano stati aggrediti e picchiati da trafficanti, lei aveva anche subito un aborto durante la traversata. Da settembre la coppia viveva nel seminario vescovile di Fermo, che accoglie profughi e migranti in attesa di documenti, avevano di recente celebrato il rito della benedizione degli anelli. Un fidanzamento davanti a Dio e alla comunità. È la storia semplice di un amore profondo, di due persone che avevano deciso di condividere la vita e che hanno avuto il torto di nascere e amarsi in una terra dalla quale i cristiani sono costretti a fuggire per sopravvivere. Emmanuel aveva chiesto asilo, Chinyery l’ha ottenuto ieri mentre cantava straziata il dolore per l’amato ucciso. Non si torna indietro, ma se si vuole avere davvero rispetto di quest’uomo e di questa donna e della loro speranza infranta, questa volta non possiamo dimenticare nulla, non possiamo farci riprendere dall’indifferenza. La vera malattia da cui dobbiamo difenderci per non lasciare che i professionisti della paura e della menzogna narcotizzino le nostre coscienze e preparino altre tragedie.
Dopo il massacro del nigeriano a Fermo, nuova vergognosa aggressione ai danni di un immigrato", scrive “Leggo” il 7 luglio 2016. È l'accusa mossa e pubblicata sul proprio profilo facebook da "Cronaca Vera" che ha anche postato il video di una lite in spiaggia tra un venditore ambulante e un uomo italiano in Calabria. "La scena vergognosa - prosegue nel post - si è svolta sulle coste calabresi dove un giovane del posto si è rifiutato di pagare un venditore ambulante, ed alle rimostranze dello straniero lo ha colpito in modo brutale". Le immagini sono evidenti e mostrano il venditore chiedere i soldi al "cliente" per un tatuaggio minacciando anche di chiamare i Carabinieri. L'uomo, sdraiato sul suo asciugamano, non ne vuole sapere e dopo le insistenze reagisce sferrandogli un due calci in testa.
Ed Ancora. Palermo. Non pagano il tatuaggio a un immigrato, un amico lo picchia, scrive il 7 settembre 2009 “Blitz Quotidiano”. Un extracomunitario di 26 anni originario del Bangladesh è stato malmenato a Palermo da un diciassettenne intervenuto a difesa di alcune ragazze che si erano rifiutate di pagare l’immigrato per i tatuaggi che aveva loro praticato sulla spiaggia di Mondello. Lo straniero si era lamentato per il mancato pagamento del prezzo pattuito, 15 euro, e nell’allontanarsi aveva minacciato di contattare la polizia. Il diciassettenne lo ha raggiunto poi in un bar e lo ha colpito con un pugno. È intervenuta la polizia che ha identificato il diciassettenne, tranquillamente tornato intanto in spiaggia con le sue amiche, e lo ha denunciato per lesioni personali.
L’omicidio di Fermo è l’ultimo atto del profondo razzismo italiano, scrive Igiaba Scego, scrittrice, su "Internazionale" il 7 luglio 2016. Emmanuel Chidi Namdi, 36 anni, è morto. Quando ho letto la notizia mi è mancato il fiato. Davvero è successo? Davvero si può scappare da Boko haram, uno dei gruppi terroristici più efferati del mondo, e non sopravvivere all’Italia? Davvero l’Italia è peggio di Boko haram? Penso alla moglie che ha assistito impotente all’omicidio. Penso a quegli attimi prima della morte di Emmanuel. Mi immagino una coppia in una tranquilla sera di estate a Fermo, mano nella mano, progettando il futuro. E poi un uomo nel buio, il suo odio, la sua spranga, il sangue, il cervello che schizza tutto intorno, la paura, il dolore, la furia. Dicono che è stato un ultrà. Che parola strana ultrà. Non ha un reale significato. Ti rimanda allo stadio, alle curve, al tifo. Però nasconde a volte anche altro. Nasconde il razzismo, il fascismo, un certo gusto di menar le mani. Ma dire ultrà, ripeterlo in tutti i telegiornali, è anche un modo di non prendersi le responsabilità di un atto efferato. È lui, solo lui, l’uomo con la spranga, il colpevole, sembrano giustificarsi tutti. Lui, un balordo, uno strano, un emarginato in fondo. Succede, sembra dire la vulgata pubblica, non è colpa nostra se ci sono certe bestie in giro. E ci dimentichiamo che una bestia non nasce per caso. Che anche un omicidio a sfondo razziale è terrorismo. “Not in my name”, l’ho scritto e detto tante volte contro gli attentati jihadisti. Ci siamo schierati quando occorreva farlo e odiosamente nessuno lo ha notato. Il mondo islamico a cui appartengo sa di essere la prima vittima del terrorismo, ma sa anche che il terrorismo nasce dalle sue devianze. E anche il razzismo, l’odio di cui è avvolto tutto il paese, è roba nostra. Made in Italy. Non è un fatto isolato. E ora, dopo la morte di Emmanuel, non possiamo far finta di nulla. Dobbiamo capire da dove viene quest’odio, quali sono le cause profonde di questa sciagura. Dopo l’omicidio di Jerry Maslo, nel 1989, l’Italia si risvegliò più brutta, più sporca e più cattiva. Ed ecco che il nome di Emmanuel Chidi Namdi si mischia con tanti altri con Ahmed, Jerry, Abba, Samb. Non è la prima volta che succede. Il primo di cui ho memoria era un somalo, uno studente promettente caduto in disgrazia, di nome Ahmed Ali Giama. Ahmed era arrivato a Roma nel 1978. Alle spalle aveva una borsa di studio in Unione Sovietica, la voglia di cambiare il mondo, un comunismo a cui credeva più di se stesso. Poi qualcosa andò storto nella sua vita. L’Unione Sovietica lo rimandò a casa, in Somalia, perché il suo comportamento era stato considerato inopportuno. La motivazione ufficiale era che “beveva troppo”. Ma Ahmed Ali Giama sapeva di non bere più degli altri, sicuramente non più di quanto si faceva in Russia. Si sentiva vittima di una profonda ingiustizia. Ahmed arriva in Italia perché fugge da una dittatura militare, quella di Siad Barre, che gli sta stretta. Ma anche qui niente va bene. Una vita sempre più ai margini, tra i cartoni e le mense che offrono un po’ di cibo. E poi quella notte terribile, tra il 21 e il 22 maggio 1979, quattro ragazzi annoiati gli danno fuoco e lui muore senza un perché sotto l’arco del tempio della Pace, a Roma. I ragazzi erano fascisti? Uno aveva simpatie di destra, ma la ragazza era una che stava nei movimenti, una compagna. Un omicidio né di destra né di sinistra. Solo un grande squallore. Poi c’è stato Giacomo Valent a Udine. Era uno studente brillante. Anche la sua famiglia era brillante. Una famiglia di quelle che si vedono nei telefilm americani. Il padre era stato cancelliere dell’ambasciata italiana in Jugoslavia e la madre era una splendida somala di nome Egal Ubax Osman. Una coppia che univa il bianco e il nero, con figli belli, eleganti, brillanti. A Udine una famiglia così non l’avevano mai vista. Le ragazze andavano in visibilio per quei Valent. Davvero erano fantascienza. Giacomo, poi, era di sinistra e questo lo rendeva ancora più bello, ancora più tosto. A volte a scuola discuteva con i compagni di destra. Qualcuno lo chiamava scimmia e usava il razzismo perché non aveva argomenti davanti a quel ragazzo così intelligente. Giacomo non si lamentava mai per le battutacce. Andava avanti a testa alta. Sapeva di valere. Fu così che molti a Udine cominciarono a non sopportare quella famiglia troppo perfetta. Come si permetteva quel “negro” di frequentare una scuola friulana esclusiva? Dovevano dargli una lezione. E poi era troppo di sinistra. E così Giacomo pagò quell’odio strisciante. Due compagni di classe lo attirarono con una scusa in un capanno e lì giù botte e coltellate. Daniel P. (14 anni) e Andrea S. (16 anni) volevano dare una lezione a un diverso. E la lezione furono 63 coltellate che lasciarono Giacomo in un lago di sangue. Era il 1985. L’Italia dell’apartheid. In seguito arrivò il 24 agosto 1989 a Villa Literno. Era già da parecchi anni che giovani africani venivano usati dai caporali per la raccolta dei pomodori. Erano di fatto schiavi, pagati una miseria, per un lavoro faticoso ed estenuante. I ragazzi dormivano in baracche fatiscenti e anche se non c’era spazio per nulla, loro cercavano comunque di trovare un posticino per i loro sogni e il loro futuro che prima o poi sarebbe decollato. Stringevano i denti, “non sarà per sempre”. Lo deve aver pensato anche Jerry Maslo, un sudafricano scappato dall’apartheid. Jerry aveva tanti sogni. Soprattutto quello di poter camminare libero per le strade del suo paese, senza che nessuno gli dicesse dove poteva o non poteva passare. Sognava la fine dell’apartheid. Non mancava molto. Nelson Mandela aveva resistito così tanto in carcere anche per lui. Jerry lo sapeva, ci sperava. Ma il giovane sudafricano non vide mai la fine del regime di segregazione razziale perché fu ucciso da chi odiava il colore della sua pelle. Non era il Sudafrica dell’apartheid, era l’Italia dell’apartheid. Quattro persone, con delle calze di nylon sulla testa, fecero irruzione nelle baracche dove dormivano gli africani e cominciarono quella mattanza insensata. Si impossessarono anche di due spiccioli. Ma non erano i soldi il motivo dell’incursione. Il motivo era lo stesso degli assassini di Giacomo Valent: dare una lezione al diverso. L’assassinio di Jerry Maslo fece capire all’Italia che il razzismo non era solo quello degli altri. L’Italia si risvegliò più brutta, più sporca e più cattiva. Si parlò tanto di razzismo in quel 1989. Lo stesso grido di dolore, che oggi accompagna la morte di Emmanuel Chidi Namdi, accompagnò la salma di Jerry Maslo. Il funerale fu trasmesso in tv. L’Italia pianse, più per se stessa che per Jerry. Era stato un colpo scoprirsi razzista. Odio gli indifferenti, aveva detto Gramsci in tempi simili ai nostri. A quello di Jerry Maslo seguirono altri omicidi. Abdul Salam Guibre, detto Abba, un ragazzo italiano, una seconda generazione, originario del Burkina Faso preso a sprangate a Milano perché aveva rubato un pacco di biscotti. Lenuca Carolea, Menji Cloptar, Eva Cloptara, Danchiu Caldaran, bambini rom morti in un rogo a Livorno. Samb Modou e Diop Mor, uccisi a Firenze da un simpatizzante di Casa Pound. E come non ricordare, solo due mesi fa, Mohamed Habassi, torturato e ucciso nel silenzio generale dei mezzi d’informazione e della politica? Torturato non a Raqqa, ma a Parma? Ed ecco che improvvisamente ripenso alle parole sentite in uno spettacolo teatrale. In scena Mohamed Ba, attore e mediatore culturale senegalese. Mohamed il 31 maggio 2009 fu pugnalato mentre aspettava l’autobus a Milano. Un uomo gli si era avvicinato dicendo: “Qui c’è qualcosa che non va”. Poi arrivò quella pugnalata allo stomaco. Mohamed Ba è vivo per miracolo. Non fu soccorso subito. La gente non si fermò ad aiutarlo. L’odio era nella mano che lo aveva pugnalato, ma anche nello sguardo indifferente di chi non lo aveva soccorso mentre si stava dissanguando. Odio gli indifferenti, aveva detto Gramsci in tempi molto simili ai nostri. Ed è proprio l’indifferenza per questo odio, che viene sparso ogni giorno da giornali, tv e leader politici, che uccide e tortura. Ci siamo abituati ai titoli razzisti e urlati dei mezzi d’informazione, alle battute politicamente scorrette e agli articoli “perbene” scritti da persone “insospettabili” che parlano di civiltà superiori, di occidente moderno contro selvaggi di diversa provenienza. E siamo indifferenti verso la storia di questa Italia che si è formata e costruita sul razzismo e sul solco che ha tracciato sulla pelle del diverso. Dopo l’unità d’Italia si dovevano fare gli italiani, quante volte ce lo hanno detto a scuola? Nel 1861 gli italiani, di fatto, non esistevano. Esistevano i lombardi, i siciliani, i piemontesi, i toscani. L’Italia era pura astrazione. Per questo si cominciò a sottolineare l’idea di un italiano bianco ed europeo. Diverso dal suo meridione per prima cosa. Quindi prima si colonizzò il sud Italia, poi si colonizzò l’Africa per rimarcare questa unicità e diversità italiana. E il nero (ma anche il meridionale) divenne, di fatto, quello a cui l’Italia si doveva opporre. Una giovane studiosa, Marta Villa, in un suo saggio (contenuto in Costruire una nazione) ricorda un episodio di goliardia tutta maschile legato all’impresa africana. In Calabria un bracciante disoccupato del luogo fu oggetto di uno scherzo a dir poco crudele. Il poveretto aveva il naso schiacciato, la bocca larga, la fronte bassa e un lungo mento che lo faceva somigliare all’imperatore d’Etiopia, contro cui l’Italia di Mussolini aveva non solo scatenato una guerra tra le più assurde del novecento, ma anche una campagna razzista allucinante. Il bracciante fu fatto ubriacare da alcuni abitanti del paese. Poi gli fu impiastricciata la faccia di nerofumo per farlo assomigliare ancora di più a un africano. Infine fu avvolto in un lenzuolo bianco e fu fatto montare su un asino. Così conciato venne portato in giro per il paese, che sfogò la sua violenza su di lui con sputi e cattiverie di ogni genere. Gli omicidi a sfondo razziale non sono casi isolati, sono alimentati da un pensiero profondo mai sradicato. L’Africa, o almeno l’idea di un’Africa da conquistare e sottomettere, era “un perfetto altro da sé atto a rinforzare e così incorporare finalmente l’immagine di una identità italiana condivisa”. I riferimenti alla violenza contro l’altro si ritrovano spesso nelle canzoni fasciste della conquista dell’Etiopia. In Stornelli neri viene detto: “Se l’abissino è nero gli cambierem colore! / A colpi di legnate poi gli verrà il pallore!”. In Povero Selassié, invece, i camerati cantano: “Non piangere, mia cara, stringendomi sul petto / con la pelle del Negus farò uno scendiletto!”. In una canzone per bambini, Topolino va in Abissinia, c’è un Topolino fomentatissimo che vuol menare le mani e uccidere tutti. Imbrattare le sue appendici da topo con il sangue di gente aggredita impunemente. Nella canzone Topolino dichiara candidamente che “appena vedo il Negus lo servo a dovere. Se è nero lo faccio diventare bianco dallo spavento”. Ma il Negus non gli basta. Topolino vuole massacrare tutti. E ha un motivo ben preciso, che spiega ai suoi comandanti: “Ho molta premura. Ho promesso a mia mamma di mandarle una pelle di un moro per farci un paio di scarpe”. Ma sua madre non è l’unica ad avere bisogno di pelli. Topolino infatti aggiunge: “A mio padre manderò tre o quattro pelli per fare i cuscini della Balilla. A mio zio un vagone di pelli perché fa il guantaio”. E poi chiosa: “Me la vedrò da solo con quei cioccolatini”. Topolino va in Abissinia, una canzone per bambini…. La macchina del razzismo. Gli omicidi a sfondo razziale in Italia non sono casi isolati, sono alimentati da un pensiero profondo che non è stato mai sradicato. Sono atti quasi rituali, che si ripetono uguali a se stessi nel tempo, una rottura del quotidiano che sfoga su un elemento percepito come altro le frustrazioni di una società in crisi. Ecco perché il colonialismo e l’antisemitismo in Italia non sono fatti secondari, incidenti di percorso della nazione. Come ha detto Tatiana Petrovich Njegosh in Gli italiani sono bianchi? Per una storia culturale della linea del colore in Italia (in Parlare di razza, Ombre Corte), sono di fatto “eventi cruciali nella costruzione dell’identità nazionale italiana”. Paola Tabet lo aveva già perfettamente spiegato nella prefazione di un volume fondamentale per capire il razzismo in Italia, La pelle giusta. L’antropologa aveva raccolto dei temi di bambini delle elementari dal titolo “Se i miei genitori fossero neri”. In questi temi i bambini scrivono cose come “se i miei genitori fossero neri li metterei in lavatrice con Dasch, Dasch Ultra, Omino Bianco, Atlas, Ace detersivo, Ava, Dixan 2000, Coccolino, Aiax così sarei sicuro che ritornerebbero normali”. I bambini sono razzisti allora? No, certamente. Ma hanno respirato un’aria tossica che considera una pelle giusta e l’altra sbagliata. Per Paola Tabet il dispositivo xenofobo è “come un motore di un’automobile” che “può essere spento, può essere in folle, andare a cinquemila giri. Ma anche spento, è un insieme coordinato. Il sistema di pensiero razzista, che fa parte della cultura della nostra società, è come questo motore, costruito, messo a punto e non sempre in moto né spinto alla velocità massima. Il suo ronzio può essere quasi impercettibile, come quello di un buon motore in folle. Può al momento buono, in un momento di crisi, partire”. Ed è ripartito a Fermo, città che già nel 2011 aveva visto l’aggressione di alcuni somali presi di mira da un commando squadrista. Occorre fermare quel ronzio di cui parla Paola Tabet. Un ronzio fatto di mezzi d’informazione che flirtano con il razzismo, di leader politici che incitano all’odio per una manciata di voti, di benpensanti che pensano male abbracciando apocalittici scontri di civiltà. Dobbiamo fermare quel ronzio. Perché l’Italia merita di vivere in armonia abbracciando tutti i suoi colori.
Emmanuel, l'Italia e l'escalation razzista. Per l'Unar nel 2015 le aggressioni xenofobe nel nostro Paese sono state 57. Ma la stima è al ribasso, perché in molti non denunciano. Ecco come si propaga l'odio, scrive Francesca Buonfiglioli il 7 Luglio 2016 su “Lettera 43”. La tragedia di Emmanuel Chidi Namdi, massacrato da un coetaneo fermano di estrema destra per aver reagito alle offese e rivolte alla compagna, è un colpo allo stomaco. Buona parte dell'opinione pubblica ora si indigna accorgendosi che esiste anche nella profonda provincia italiana il germe dell'odio razziale. Eppure i casi di aggressioni e violenze a fondo xenofobo aumentano di anno in anno. Ma in Italia non esistono statistiche complete, né una banca dati di tutti gli gli episodi nonostante sul tema lavorino diversi enti, a partire dall'Unar. UNAR: NEL 2015, 57 AGGRESSIONI. Secondo l'Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali della presidenza del Consiglio non si può parlare di vera e propria escalation: nel 2015 le segnalazioni di aggressioni fisiche di stampo razzista, dicono a Lettera43.it, sono state 57; 78 se si comprendono anche quelle verbali. Contro le 56 del 2014. In Germania, per fare un confronto, secondo le statistiche del Bundeskriminalamt (Bka), l'ufficio criminale federale, e del Bundesamt für Verfassungsschutz, il controspionaggio, gli episodi di intolleranza nei confronti degli stranieri sono stati 198 nel 2014 e 817 nel 2015. I dati Unar sono però raccolti nel contact center e dall'osservatorio media dell'Ufficio e dall'Oscad, il centro interforze del ministero dell'Interno. Va da sé che non rappresentano la totalità degli episodi che si stimano essere molto di più. LA DENUNCIA EUROPEA. A parlare chiaro, invece, è la Commissione europea contro il razzismo e l'intolleranza che nell'ultimo rapporto 2016 ha sottolineato come le autorità italiane non siano ancora in grado di raccogliere dati «in modo sistematico e coerente». «Le fonti principali dei dati sui reati legati al discorso dell’odio», si legge nel report, «sono l'Unar, l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (Oscad), la banca dati del sistema di indagine della Polizia giudiziaria (Sdi), il ministero della Giustizia e l’Istituto nazionale di statistica (Istat). Tali sistemi non utilizzano tuttavia le stesse categorie e non fanno sempre una distinzione tra il discorso dell’odio e altri reati riconducibili al razzismo e alla discriminazione razziale». La tragedia di Fermo, con il suo carico emotivo, ha riacceso i riflettori sulla piaga della xenofobia. L'opinione pubblica si è commossa per la storia della coppia. Scampati all'orrore di Boko Haram che ne ha decimato le famiglie, i due ragazzi hanno affrontato le violenze in Libia, attraversato il Mediterraneo, perso due figli. Sembrava che la loro vita potesse ricominciare in Italia. E invece così non è stato. Non erano nemmeno sposati ufficialmente, perché al loro arrivo Emmanuel e Chimiary non avevano documenti. E lei, in assenza di altri famigliari, non ha potuto dare il consenso per l'espianto degli organi. La verità, però, è che di Emmanuel e Chimiary ne sbarcano a decine ogni giorno sulle nostre coste. Fuggono tutti dalla violenza jihadista, dalla guerra e dalla fame. Solo che non hanno nome e finiscono triturati in numeri e statistiche. Bollati indistintamente come «clandestini», spiega a Lettera43.it don Giancarlo Perego direttore di Migrantes, associazione che aiuta i profughi a integrarsi in Italia. Per questo la tragedia di Fermo ora può cambiare qualcosa. E aprire gli occhi. «Hanno ammazzato Emmanuel, Emmanuel è vivo», dice don Perego parafrasando Pablo di De Gregori. «Emmanuel è vivo, nella sua famiglia, in sua moglie e nella sua figlia morta in grembo, negli altri giovani richiedenti asilo accolti nel seminario vescovile di Fermo, nei tanti giovani che sono arrivati o stanno arrivando in Italia e in fuga soprattutto dall’Africa violentata e offesa da terrorismo, guerre, sfruttamento», continua, «tocca a noi ora responsabilmente aiutare a guardare a questi volti e a queste storie con occhi diversi, con parole diverse, con una cura diversa». La speranza è che questa assurda morte «aiuti le vite degli altri migranti». Quelle aggressioni relegate alle cronache locali. Quello di Fermo non è un caso isolato. Ma si tratta di storie che per lo più restano impigliate nelle pagine delle cronache locali. Come quella di un maliano che a Parma, nemmeno un mese fa, è stato minacciato con un accendino da un autista di un bus di linea: «Ora ti do fuoco», gli ha gridato in faccia. La sua colpa? Essere salito sul mezzo con un carrellino. Il primo giugno, invece, un giovane di colore stava cercando come ogni giorno di vendere la sua merce ai tavolini di un bar a Livorno. Un cliente lo ha sbattuto a terra prendendolo a calci. L'unico presente a prendere le sue difese è stato un consigliere comunale della lista civica Buongiorno Livorno. Infine a gennaio di quest'anno 13 estremisti di destra (tra cui uno di Forza Nuova) sono stati indagati a Roma per aver compiuto raid tra Tor Pignattara, Casilino, Pigneto e Prenestino contro negozianti del Bangladesh, «perfetti per le spedizioni punitive» commentavano i neofascisti, «perché non reagiscono e non denunciano». L'intolleranza nei confronti del diverso, dell'immigrato cresce, è palpabile. Ed è alimentata «da certi talk show, dall'hate speech sui social, da una informazione che falsifica i dati e da una certa politica», mette in chiaro don Perego. «Secondo le statistiche dell’Unar», conferma la Commissione europea contro il razzismo e l'intolleranza, «le segnalazioni relative a discorsi di incitamento all’odio nei media (compreso internet) rappresentano il 34,2% dell’insieme delle denunce ricevute nel 2013, rispetto al 19,6% nel 2012». E certo non solo nelle Marche, una delle tre regioni insieme con il Veneto e l'Umbria dove il numero di migranti è diminuito. Nonostante ciò, sottolinea il presidente di Migrantes, «si continua a parlare di ‘invasione inarrestabile’ in riferimento a 130 mila richiedenti asilo e rifugiati accolti. Falsificazioni che impediscono ancora una adeguata politica dell’immigrazione». La morte di Emmanuel è stata così «preparata da questo clima sociale e politico che si nasconde dietro la mano omicida». Sono evidenti le responsabilità di una politica che «non ha governato il fenomeno migratorio», continua il direttore di Migrantes. «Basta pensare agli effetti della Bossi-Fini. L'immigrazione è sempre stata considerata esclusivamente dal punto di vista della sicurezza, e non quello dell'inclusione e dell'incontro». Questi giovani, prosegue il sacerdote, tra l'altro «portano forza lavoro, voglia di vivere, capacità, carica vitale». La strada da fare, insomma, è lunga. E passa da una rivoluzione culturale e sociale. «Prendiamo la legge sulla cittadinanza», fa notare, «è ancora ferma in Senato. Mentre il diritto di voto amministrativo per gli immigrati è di là da venire». Senza parlare del pantano burocratico per il diritto d'asilo. Emmanuel, un «clandestino» fino a ieri e oggi un «uomo, un marito che voleva ricostruirsi una vita in Italia», aveva reagito ad Amedeo Mancini, 38enne titolare di una grossa azienda zootecnica e volto noto della tifoseria della Fermana, che per strada aveva strattonato e dato della «scimmia» alla sua compagna. Tre anni fa, però, a definire «scimmia» un ministro della Repubblica di colore non era stato un ultrà di estrema destra e già raggiunto da Daspo ma un senatore: il leghista Roberto Calderoli. Il parlamentare però nel settembre dal 2015 è stato salvato dal Senato. Per lui autorizzazione a procedere solo per diffamazione nei confronti di Cécile Kyenge, non per istigazione all'odio razziale. E che dire dell'europarlamentare leghista Gianluca Buonanno, scomparso recentemente, che definì i rom «feccia della società». Parole d'odio che in qualche misura contribuiscono a «legittimare» la violenza, sottolineano da Lunaria. Come è evidenziato anche nel report della Commissione europea contro il razzismo e l'intolleranza che ricorda come «un certo numero di episodi di discorsi dell’odio da parte di rappresentanti politici» abbiano avuto «come bersaglio immigrati, rom, musulmani e persone Lgbt». La discriminazione, alimentata dalla paura, così si insinua, e sconfina in ambienti estranei a quelli di Radio Padania. Il 29 giugno su Radio Tre è stata data la notizia del recupero del peschereccio Ivory che nell'aprile 2015 naufragò nel canale di Sicilia, al largo delle coste libiche, portando con sé, sul fondo del mare, 700 vite. I commenti degli ascoltatori alla rassegna stampa parlano da soli: «Chi lo ha autorizzato, e quanto costa?»; «il recupero è offensivo nei riguardi degli italiani in difficoltà, le sepolture vanno fatte da sempre in mare»; «non ci sono soldi per la sanità, per le pensioni, per la manutenzione delle strade, ma poi ci beiamo di aver recuperato il relitto di un barcone naufragato». Dal Not in my name siamo così passati al Not in my backyard, non nel mio cortile. Al grido del salviniano «Prima gli italiani».
“Dire che l’Italia è un Paese razzista non aiuta”. Il direttore generale dell'Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali: «Il 2015 è stato un anno nero: 1.800 segnalazioni». Nel giorno dello sgomento per l'omicidio di Fermo, sono dati che fanno riflettere: «Il mostro del razzismo è una bestia. Ma non bisogna lasciargli spazio», scrive Luca Sappino il 7 luglio 2016 su “L’Espresso”. «Il 2015 è stato un anno nero per le segnalazioni riguardanti ogni forma di discriminazione: sono state 1.800 rispetto alle 1.300 del 2014». I dati li dà Francesco Spano, direttore generale dell'Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali, ufficio di palazzo Chigi, che conta così le segnalazioni ricevute dal suo osservatorio, segnalazioni che vanno dall'insulto all'utilizzo di stereotipi fino all'aggressione fisica. Nel giorno dello sgomento per la storia di Emmanuel Chidi Namdi, ucciso a Fermo, sono dati che fanno riflettere: «Il mostro del razzismo», dice Spano, «è una bestia che non si deve mai dare per definitivamente debellata». Una bestia che però non va neanche mitizzata.
È allora una storia di un’Italia razzista quella di Fermo?
«In molti mi chiedono se questo sia una Paese razzista e io a tutti, anche quando vado nelle scuole e la domanda me la pone un bambino, dico che il razzismo non si può mai considerare sconfitto. Perché ogni volta che lo si sottovaluta arriva un caso come questo ci dà una brutta sveglia. Però parlare di un’Italia razzista è certamente un errore».
Le 57 aggressioni con movente razziale di cui 37 compiute in gruppo che voi stessi avete censito, sono però un dato allarmante.
«E sono un dato parziale. Ma se sbagliamo a non censurare chi strumentalizza storie e dati, come accade spesso sull'immigrazione, e chi fomenta l’odio razziale, sbagliamo anche a dipingere un Paese a tinte fosche. Non è così, ci sono centinaia di persone che costruiscono e lavorano per una società diversa, inclusiva e quindi democratica».
Ce ne sono molte che però soffiano sulla rabbia e la paura. Bufale sui social, politici spesso sopra le righe quando non direttamente razzisti. Quando l’Unaar suggerì a Giorgia Meloni di lasciar perdere le pericolose semplificazioni in tema di migranti, lei gridò alla libertà violata, si imbavagliò sotto palazzo Chigi. Avete gli strumenti necessari per intervenire?
«Io penso che il compito dell’Unar non sia intervenire su specifiche situazioni ma puntare sull’educazione, sugli interventi sulla grande massa, sui giovani. Non è certo il dibattito tra le forze politiche, infatti, che fa scaturire aggressioni come quella di Fermo, particolarmente violenta. C’è un elemento di responsabilità sociale che dobbiamo segnalare, questo sì, e lo facciamo».
Michela Murgia commentando Fermo, alla ricerca di responsabilità politiche, dice che non dovrebbero sentirsi tranquilli neanche i senatori che hanno evitato che Calderoli rispondesse dell’insulto a Kyenge.
«Che le parole siano importanti è sicuramente vero, soprattutto in una società che vive di parole, troppo spesso rapide, dette o scritte sull’istinto, di pancia. Chi esercita una funzione pubblica dovrebbe quindi porre maggior attenzione nel far precedere un pensiero alla parola».
Non avviene spesso. È un continuo di frasi così, nell’Italia che non è razzista ma lo è almeno ad ondate, ogni volta con un nemico diverso. Dopo l’attentato di Dacca, ci sono stati titoli sui bengalesi in Italia, per esempio: Libero in prima ha scritto «Paghiamo chi ci uccide». Succede sempre, senza che poi accada nulla, che si possa contrastare...
«Ci sono strumenti, ci sono codici di autodisciplina e sanzioni che possono e devono esser attivate: non bisogna abbassare la guardia. In ogni campo, compreso quello dei giornalisti, si può arrivare fino a individuare illeciti, civili e penali. A volte si fa, ma non sempre».
Don Albanesi, il presidente della comunità di Capodarco che conosceva Emmanuel Chidi Namdi e la moglie Chimiary, li aveva uniti in matrimonio a gennaio nella chiesa di San Marco alle Paludi, collega la morte di Namdi con i quattro ordigni piazzati nei pressi di altrettante chiese a Fermo negli ultimi mesi. Per lui erano manifestazioni di intolleranza nei confronti di chi accoglie i migranti. È così?
«Ho parlato con il garante per i diritti della regione Marche, ma non so dire se quella che abbiamo visto è stata un escalation o no. Perché costantemente verifichiamo ipotesi di tensione sociale che non sfocia in aggressioni e a volte invece abbiamo invece l’episodio cruento che proprio non ti spieghi. Sicuramente però, la vicenda, ci ricorda che certi sentori vanno presi per tempo e molto sul serio, che non bisogna sottovalutare i segnali. Ma soprattutto che dobbiamo fare di più».
Come?
«Anche fornendo una contro narrazione, come le dicevo. Dobbiamo raccontare l’inclusione, la collaborazione, le cose buone che porta la convivenza, a noi e ai migranti. Perché non raccontare che c’è un altro Paese, e lasciare la scena tutta a quello della violenza e della diffidenza è come aggiungere una voce al coro di chi insulta».
Beau Salomon e Emmanuel Namdi due stranieri morti ammazzati da italiani, ma con diseguale trattamento per fini ideologici della sinistra. Se la sinistra parteggia per gli immigrati per giustificare l'invasione e declama il razzismo italico, solo il Papa ha reso omaggio all'americano, incontrando i suoi genitori.
Beau Salomon e Emmanuel Namdi, morti che pesano come montagne, scrive Rita Di Giovacchino il 7 luglio 2016 su “Il Fatto Quotidiano”. Non ci sono morti che pesano come piume, ma certamente i due ragazzi stranieri uccisi nella nostra civile Italia in questi giorni, pesano più di una montagna. Beau Salomon ed Emmanuel Namdi, l’americano e il nigeriano, vittime lontane anni luce per razza, religione, continente, estrazione sociale, hanno trovato identico destino nella triste guerra che da tempo insanguina e imbarbarisce il nostro paese. Nella settimana della strage di Dacca questi due omicidi, maturati in circostanze assurde, hanno scosso le nostre atrofizzate coscienze anche perché a ucciderli sono stati altri giovani, non extracomunitari, clandestini o zingari ma italiani, italianissimi. Anche loro infinitamente diversi per ambiente, scelte di vita e ideologia, e ugualmente uniti dall’assenza di umanità e dal degrado culturale che li circonda. Secondo l’accusa, Beau Salomon, lo studente americano di 20 anni, appena sbarcato a Roma per uno stage-vacanza presso la Cabot, prestigiosa università americana, è stato spinto nel Tevere da tal Massimo Galioto, “punkbestia”, tossico, domiciliato sul lungofiume all’altezza di Ponte Garibaldi, nel cuore di Trastevere, la zona più turistica della città che in questo periodo ospita quanto resta dell’estate romana: bancarelle, bar, ristoranti esotici. Luci, chiasso, puzza di frittelle infastidivano la privacy del Galioto che da tempo aveva recintato la propria esistenza attorno a una tenda e a un barbecue, disposto a ospitare soltanto i suoi cani e la fidanzata, l’ineffabile Alessia che dai microfoni dei Tg lo accusa del delitto ma intanto lo magnifica come idealista. “Che sarà mai successo”, lamenta la punk. Un tafferuglio, qualcuno aveva rapinato l’americano che se l’è presa con Max e lui l’ha buttato in acqua. “Poi hanno dato l’allarme e noi sciamo andati a dormire”. Problema risolto. Beau è morto annegato, senza quella spintarella sarebbe ancora vivo, poteva ancora godersi la sua bella vacanza romana e sarebbe tornato nel Wisconsin dai genitori oggi straziati. Da bambino aveva sconfitto un cancro raro e devastante, ma un uomo dalla coscienza oscurata dall’alcol e dalla droga gli ha impedito di diventare adulto. E forse non era la prima volta che il “punkbestia” risolveva in questo modo i suoi problemi di vicinato. Il17 luglio 2015 un artista di strada, Federico Carnicci, è morto affogato nel Tevere proprio all’altezza di Ponte Garibaldi. Sono gli amici di Alessia e Max, su Facebook, a riaprire il caso attraverso tablet e smartphone, che tra bracieri e tende pullulano sul lungo fiume. “Ma che la droga v’ha bevuto er cervello!”, scrivono. Ancora più crudele l’omicidio a colpi di cartello stradale di Emmanuel Namdi, il profugo nigeriano sfuggito alla violenza di Boko Haram, sopravvissuto alla traversata del deserto libico e a quella del Mediterraneo durante la quale la giovane moglie Chinyery ha perso il bambino per le percosse ricevute dai trafficanti. Grazie alla Caritas Emmanuel aveva finalmente trovato rifugio a Fermo, nelle Marche, l’ “isola felice”. Al momento dell’aggressione stava passeggiando con Chinyery verso Piazza del Popolo quando un energumeno, tal Amedeo Mancini, ultra della locale Fermana calcio li ha circondati, insultando e aggredendo la donna. “Scimmia africana”, l’ha appellata mentre la colpiva con pugni e calci. Alla reazione di Emmanuel si è scagliato contro di lui e dopo aver divelto il palo di ferro di un cartello stradale lo ha massacrato riducendolo in fin di vita. Emmanuel è morto dopo 24ore di agonia, Mancini è stato fermato. Siamo di fronte a un omicidio frutto di odio razziale come nei periodi più bui della nostra storia. La tragica fine di Emmanuel, che ci saluta felice e sorridente dalla foto del suo matrimonio, il suo unico giorno felice, va oltre l’accusa alle classi dirigenti per lo stato di degrado che ha devastato la Capitale, chiama direttamente in causa l’ultima velenosa campagna elettorale nella quale politici senza scrupoli hanno sperato di trarre consenso pescando nel mal di pancia della gente, incitando all’odio contro gli immigrati senza neppure fare distinzione tra clandestini e profughi. Potremmo prendercela con il tronfio e panciuto Salvini che ci siamo sorbiti a colazione, pranzo e cena, mentre lui saltellava da un canale all’altro, e che ora è sprofondato in un tombale silenzio per via di una sconfitta elettorale che ci aveva fatto sperare nel buon senso degli italiani. Ma i cattivi semi che in molti, non soltanto Matteo due, hanno seminato stanno dando frutti avvelenati. Che fare contro il buio della ragione? Forse pure noi, come gli amici di Max e Alessia, potremmo prendere i nostri smartphone e scrivere: “Ma vi sieti bevuti il cervello”.
Vittorio Feltri su “Libero Quotidiano del 7 luglio 2016 e il nigeriano ammazzato a Fermo: "L'Italia non è razzista, lo prova questo numero". "L'Italia non è un paese razzista. Si sta sottovalutando il problema? Francamente credo lo si stia sopravvalutando, invece". Vittorio Feltri, ospite di una movimentata puntata di In Onda su La7 (dopo un acceso diverbio con il dem Gennaro Migliore, il direttore si alza e se ne va), commenta l'omicidio di Fermo, e va controcorrente. "Non possiamo dare giudizi definitivi, per ora sento solo slogan e mi oppongo", ha attaccato Feltri. Il nigeriano Emmanuel Chidi Namdi è morto dopo una colluttazione con l'italiano Amedeo Mancini. Una tragedia di cui la dinamica non è ancora chiara. "Certo, c'è un elemento razzista", spiega Feltri in riferimento alla provocazione di Mancini, che avrebbe chiamato la moglie del nigeriano "scimmia africana" portando alla reazione violenta della vittima. Come poi siano andate le cose per gli inquirenti è ancora un mistero: Mancini, accusato di omicidio preterintenzionale, ha colpito con un pugno poi rivelatosi fatale dopo essere stato aggredito da Emmanuel (come sostengono alcuni testimoni) oppure ha infierito sul nigeriano dopo averlo fatto cadere? Feltri parla di Mancini come di un "balordo". C'è un problema di razzismo in Italia? "Non credo si stia sottovalutando il problema, anzi lo si sta sopravvalutando - ribatte Feltri -. Sono stati 54 i fenomeni di razzismo in un anno, è imprudente sostenere che l'Italia sia un paese razzista o avviato a diventare tale. L'integrazione continua, non stanno avvenendo casi frequenti di violenza. Bisogna essere sempre vigili, certo, avere attenzione ma senza drammatizzare".
"Italia razzista? Allora la Kyenge è...": Vittorio Feltri su “Libero Quotidiano del 9 luglio 2016 svela la "grande balla". I soliti campioni della sinistra, profittando di uno squallido episodio di cronaca (un italiano che ha stecchito con un pugno un nero durante una rissa) hanno dato fuoco alla miccia di una vecchia polemica stolta e priva di fondamento: gli italiani stanno diventando o sono già diventati razzisti. Il che, pur essendo falso, viene spacciato per verità allo scopo di far sentire in colpa tutti noi, costringendoci moralmente ad accettare di buon grado le incessanti invasioni barbariche, che hanno ridotto parecchie nostre città ad accampamenti di stranieri più o meno sbandati. Non vedo per quale altro motivo si tenda ad accusare senza lo straccio di una prova il popolo di xenofobia e intolleranza. È vero che stando alle statistiche ogni anno si registrano una cinquantina di aggressioni ad opera di nostri connazionali nei confronti di poveracci immigrati, ma è altrettanto vero che si tratta di una cifra trascurabile se si considera che gli abitanti della penisola sono oltre 60 milioni. Non solo. I reati compiuti dagli extracomunitari dalle nostre parti sono numericamente impressionanti, tanto che un terzo e oltre della popolazione nelle patrie galere è costituita da extracomunitari. Significa che se gli italiani sono razzisti perché (per fortuna raramente) picchiano e uccidono i profughi, sono ancora più razzisti gli stessi profughi che commettono a nostro danno reati d'ogni tipo: stupri, omicidi, rapine, furti e quant’altro. Volendo discettare sul piano statistico, per ogni delinquente di casa nostra ce ne sono almeno tre di importazione. Questi scarni e approssimativi dati dovrebbero bastare a zittire coloro che ci diffamano dandoci dei razzisti. Evidentemente non sanno fare di conto o parlano a vanvera ispirati da una sorta di ideologia buonista che in realtà è soltanto cialtroneria. La vicenda di Fermo è paradigmatica in questo senso. Un imbecille dà della scimmia alla moglie di un nero. Questi perde il lume degli occhi e reagisce menando le mani di brutto, cioè massacrando a legnate colui che ne ha oltraggiato la consorte. Nel bel mezzo della zuffa - stando alle testimonianze - il cafone italiano, ormai sopraffatto, ha sferrato un cazzotto terrificante al nero, abbattendolo. Morto. Non è di sicuro una storia edificante e non tale da giustificare l'assassino. Ci mancherebbe. Ma non si può nemmeno affermare che l’omicida vada condannato subito, ancor prima che sia stato accertato come si siano svolti i fatti. Né si può altresì concludere che il delitto in questione, per quanto esecrabile, sia il frutto marcio di un clima di assoluta ostilità italiana verso il “diverso” ossia il nero. Prima di cianciare di razzismo strisciante serve attendere i risultati dell’inchiesta giudiziaria che, invece, non è neppure iniziata. Giovedì sera, quando ancora poco o nulla si sapeva di come si fosse svolta la tragica lite, sono stato ospite di In onda, programma televisivo de La7, condotto da Parenzo e Labate, insieme con Gennaro Migliore (ex Sel e ora Pd) e Montanari che non avevo il piacere di conoscere. Tema della conversazione, il razzismo. Migliore ha improvvisato una arringa contro gli italiani xenofobi, tra i quali ha inserito anche noi di Libero, rei di aver definito Bastardi islamici gli stragisti del Bataclan. E come dovevamo chiamarli? Boy-scout? Egli ha aggiunto nella sua filippica che i giornali fomentano l’odio con un linguaggio scriteriato. E ha citato un esempio ancora riguardante Libero, che in occasione di un femminicidio a Roma scrisse che la ragazza era stata arrostita. Come dire che se la fanciulla è morta bruciata la colpa non è dell'assassino, ma nostra che abbiamo usato un vocabolo sgradevole a giudizio di Migliore. Il problema, insomma non è che una signorina sia stata ammazzata col fuoco, ma la parola da noi usata per stigmatizzare l'atrocità del fatto. Ecco come ragionano le briscole della sinistra: non si interessano dei concetti, ma processano il lessico con cui vengono espressi, e va da sé che il dibattito seguente è stato penoso ancorché istruttivo. Io tentavo di argomentare e lui, Migliore (smentendo il luogo comune: nomen omen) anziché ascoltarmi onde replicare con cognizione di causa, sovrapponeva la propria voce alla mia, secondo una forma di maleducazione assai diffusa non solamente fra i progressisti. Niente di grave, ma me ne sono andato via perché discutere con un villano comporta un rischio: quello di assomigliargli. In questo mi vanto di essere razzista. Una tantum. di Vittorio Feltri.
Fermo, governo ai funerali. E le vittime di Dacca? Boschi e Boldrini parteciperanno ai funerali del nigeriano ucciso a Fermo. Il ministro rappresenterà il governo, scrive Claudio Torre, Sabato 9/07/2016 su “Il Giornale”. Domani alle 18 l'addio a Emmanel Chidi, il 36enne nigeriano richiedente asilo ucciso martedì scorso in centro a Fermo in seguito a insulti razzisti alla moglie e successiva colluttazione con un ultrà della Fermana. I funerali dell'uomo si terranno in Duomo alla presenza, anche, del ministro Maria Elena Boschi e della presidente della Camera Laura Boldrini. Alle esequie, celebrate dall'arcivescovo Luigi Conti, con don Vinicio Albanesi, ci sarà anche il presidente del Consiglio regionale delle Marche Antonio Mastrovincenzo, di altre autorità e di rappresentanti di movimenti e associazioni laiche e religiose. Spicca tra le presenze al funerale quella della Presidente della Camera e quella del Ministro Boschi che in una nota del Pd sottolinea come "la sua presenza sia in qualità di rappresentante del Governo italiano". Rappresentanza che però, come qualcuno comincia a chiedersi, non c'è stata ai funerali delle nove vittime del massacro di Dacca. Ieri infatti si sono tenuti i funerali di 7 dei nove morti trucidati in Bangladesh dai jihadisti. Ai funerali di Claudia D'Antona, Claudio Cappelli, Cristian Rossi, Maria Riboli, Simona Monti, Nadia Benedetti e di Vincenzo D'Allestro hanno partcepitato, va detto, sindaci, governatori e prefetti. Ma nessun ministro del governo. Stessa sorte è toccata a Marco Tondat e ad Adele Puglisi. Alle loro esequie i rappresentanti delle istituzioni locali, ma nessuno è arrivato da Roma.
Nigeriano ucciso a Fermo, minacce e insulti alla testimone. Chiamò lei il 118. "Mi danno della razzista, vivo in un incubo", scrive Fabio Castori il 9 luglio 2016 su “Il Resto del Carlino”. Non vive più Pisana Bachetti, la donna che ha assistito alla rissa tra Amedeo Mancini, Emmanuel Chidi Namdi e la moglie. La sua vita, tra insulti, minacce e accuse di mitomania, è diventata un inferno. Eppure la testimone, che è stata persino cancellata da Facebook, appartiene a una famiglia notoriamente di sinistra e antirazzista.
Signora Bachetti, cosa è accaduto dopo la sua testimonianza alla polizia e il racconto fatto su Facebook?
«La mia vita è diventata un inferno. E questo solo per aver fatto quello che ogni cittadino nella mia situazione avrebbe dovuto fare: chiamare la polizia perché c’era un rissa in corso».
Cosa ha visto quel maledetto pomeriggio?
«Purtroppo ho assistito alla scena e ho visto che il giovane fermano, prima di sferrare un pugno, è stato letteralmente assalito dalla vittima e da sua moglie. Lo hanno picchiato per quattro o cinque minuti e lo hanno colpito anche con un segnale stradale trovato nei pressi. Quando ho assistito a quella scena, ho chiamato la polizia perché temevo per l’incolumità del 39enne fermano, che ha reagito con un colpo, purtroppo per la vittima, ben assestato. Qualcuno ha cercato di intervenire, ma è stato preso a scarpate dalla moglie del giovane di colore».
È vero che dopo la sua testimonianza le giungono minacce e insulti da tutte le parti d’Italia?
«Si è vero. Ricevo chiamate da tutta Italia. Appena dieci minuti fa mi è stato inviato l’ultimo messaggio in cui mi davano della nazista. Ed è solo uno dei tanti che mi giungono. Ora mi dovete lasciare in pace. Tutti. Non voglio più essere disturbata, basta, lasciatemi in pace, non voglio dire più niente né parlare con nessuno. Sono stata sbattuta in prima pagina prima del nome del presunto assassino solo per aver detto la verità».
Che tipo di insulti ha ricevuto?
«L’elenco è lungo: xenofoba, e tanto altro ancora. Sto vivendo un incubo. Sono solo una cittadina fermana, mai stata razzista, che ha avuto la sfortuna di trovarsi in quel luogo e di assistere alla rissa che ha portato alla morte di quel povero ragazzo. Ho fatto solo il mio dovere da cittadina e ora mi trovo all’inferno. Non mi resta altro da fare che aspettare la fine di questo incubo. Mi hanno cancellato il profilo Facebook, non c’è più niente, hanno cancellato i miei amici, tutte le mie foto, tutti i miei ricordi. Basta ora, lasciatemi in pace».
Fermo, altra supertestimone. "Nigeriano colpì per primo". Il pm la considera attendibile. La tragica zuffa dopo le frasi razziste, scrive Fabio Castori l'11 luglio 2016 su “Il Giorno”. Sono due ora i supertestimoni che confermano l’aggressione ad Amedeo Mancini con un segnale stradale da parte di Emmanuel Chidi Namdi, il rifugiato politico nigeriano morto tragicamente dopo la zuffa scaturita dagli insulti razzisti dello stesso Mancini alla moglie di Emmanuel. C’è un’altra donna, ritenuta attendibile dal sostituto procuratore di Fermo, Francesca Perlini, che ha assistito alla rissa e che parla chiaramente dei colpi sferrati con il paletto metallico che hanno abbattuto l’ultrà fermano, prima della sua reazione fatale. La sua testimonianza risulta nei verbali degli inquirenti che sono inequivocabili. "Dopo essere scesa dall’autobus – si legge nel documento – la donna ha udito delle urla provenire dalla via sottostante dove notava parlare animatamente due persone di colore e Mancini. Riferiva che il ragazzo di colore iniziava a spintonare Mancini e, dopo aver preso un segnale stradale mobile, ivi presente, lo colpiva con il medesimo alle gambe, facendolo cadere a terra. Dopo ciò il ragazzo di colore si allontanava, ma veniva raggiunto da Amedeo Mancini e tra i due iniziava una scazzottata a seguito della quale l’uomo di colore rovinava a terra. Aggiungeva inoltre di aver sentito dire dal ragazzo, che si trovava in compagnia di Mancini, le seguenti parole rivolte all’amico: ‘Lascia perdere, c’è una donna, non reagire, c’è una donna’". Una versione che collima con quella dell’altra testimone, anche questa presente nei verbali della Procura della Repubblica. "Veniva sentita anche(omissis), testimone presente ai fatti, la quale dichiarava di aver visto l’intera scena i cui vi erano tre soggetti, due di colore e uno di carnagione bianca, che litigavano animatamente e si scambiavano dei colpi. In particolare descriveva che l’uomo di colore sferrava dei colpi tipo mosse di karate verso l’uomo di carnagione chiara e la donna colpiva quest’ultimo con le proprie scarpe, urlando verso di lui: “chi scimmia, chi scimmia?”. Dopodiché notava l’uomo di colore prendere un segnale stradale munito di pedana e zavorra e, dopo averlo sollevato, spingerlo contro l’uomo di carnagione chiara, colpendolo ad una spalla e facendolo cadere a terra. Infine notava che l’uomo di carnagione bianca, colpiva con un pugno quello di colore, facendolo rovinare a terra". Le due testimonianze sono tenute nella massima considerazione dal sostituto procuratore Perlini che scrive nel provvedimento di fermo emesso: "Le dichiarazioni circostanziate rese dalle signore (omissis) sono da ritenersi di sicura credibilità, in quanto persone estranee ai fatti in quanto distanti in termini di parentela e conoscenza sia dalla persona offesa sia dall’indagato". Testimonianze che dovranno essere esaminate dal gip del tribunale di Fermo, Marcello Caporale, durante l’interrogatorio di garanzia che si terrà oggi. Intanto Mancini resta rinchiuso nel carcere di Marino del Tronto dove, dice il suo avvocato, distrutto dal dolore, piange spesso. Il legale lo descrive come una persona disperata, che sembra non capacitarsi di quello che è accaduto. Agli investigatori ha confessato che la parola scimmia faceva parte del suo vocabolario perché da piccolo lui stesso era soprannominato così: «Gli amici mi chiamavano scimmia, ma non l’ho mai considerato un insulto grave".
Il medico legale gela il Governo: "Amedeo Mancini aggredito, bastonato e morso dal nigeriano…", scrive Alessandro Pecora il 10 luglio 2016 su “Sostenitori.info”. Amedeo Mancini, l’estremista di destra legato all’ambiente ultrà accusato dell’omicidio preterintenzionale del nigeriano Emmanuel Chidi Namdi, avvenuto a Fermo, avrebbe sul corpo chiari segni di aggressione e in particolare è stato riscontrato un ematoma diffuso al costato che evidenzierebbe il fatto che sia stato colpito con un palo della segnaletica stradale. Trovati anche i segni di un morso ed altri lividi concentrati soprattutto sulle braccia, compatibili con un tentativo di difesa. Lo ha riferito l’avvocato dell’uomo, Francesco De Minicis. Le ferite sarebbero emerse nell’ispezione medico legale effettuata nel primo pomeriggio nel carcere di Marino del Tronto, dove Amedeo Mancini si trova rinchiuso. La perizia è stata disposta dalla Procura della Repubblica per stabilire la veridicità di quanto affermato dall’indagato, oltre che dalla supertestimone che sostiene di aver visto il nigeriano poi ucciso aggredire per diversi minuti Amedeo Mancini, il quale – rialzatosi poi da terra – avrebbe inferto un pugno, ben assestato alla vittima e lo avrebbe ucciso. L’ispezione è stata eseguita dallo stesso staff che sta effettuando l’autopsia, guidato dalla dottoressa Alice Romanelli. Sono diverse le versioni contrastanti in questa vicenda: oltre a quella dell’aggressione prolungata da parte del nigeriano, c’è chi parla di un secondo uomo che avrebbe spalleggiato Amedeo Mancini, che peraltro viene dipinto da alcuni quotidiani locali come “un folle travestito da ultrà”. Controverse anche le versioni sulla sua militanza a destra: in un fotogramma successivo al momento dell’aggressione si vede infatti il 39enne indossare una t-shirt degli ZetaZeroAlfa, il cui leader è Gianluca Iannone, fondatore di CasaPound. “Non viene da una tradizione di destra”.
Passerella di Stato ai funerali: è la finta emergenza razzismo. La sinistra strumentalizza la tragedia del nigeriano ucciso a Fermo dall'ultrà per fare campagna elettorale, scrive Jacopo Granzotto, Lunedì 11/07/2016, su "Il Giornale". È un'afosa, caldissima domenica di luglio. Quanto basta per limitare al minimo sindacale la passerella dei politici nel Duomo di Fermo, dove si svolgono le rumorosissime esequie del profugo nigeriano Emmanuel Chidi Namdi. Adagiata in terra su un tappeto, davanti all'altare, la bara di legno chiaro con la salma di Emmanuel. Sopra al feretro, un cuscino di rose rosse e la foto del giovane migrante, sorridente nel giorno in cui don Vinicio Albanesi l'aveva simbolicamente unito in matrimonio con la compagna. In prima fila, l'una accanto all'altra, la presidente della Camera dei Deputati Laura Boldrini e la ministra per le riforme Maria Elena Boschi. La Boldrini tiene a ribadire il concetto: «Ora qualcuno dirà che questa presenza delle istituzioni è una semplice passerella. Figuriamoci. Non venire sarebbe stato peggio e comunque queste considerazioni non ci intimidiscono». Boldrini, che alla vedova Chinyery ha assicurato la vicinanza delle istituzioni «nei modi più appropriati». Nel frattempo la povera donna, vittima di un paio di svenimenti nel corso della cerimonia, è stata medicata dagli uomini del 118 prima di rientrare in chiesa. Chissà se gli saranno state di conforto le parole della rediviva Cecile Kyenge che, in una lettera, la invita a restare in Italia e realizzare qui il sogno di diventare medico. «Anche io sono arrivata in Italia con una grande valigia azzurra, vuota - fa sapere l'ex ministra per l'integrazione -, ma piena del mio sogno di diventare un giorno medico. Come te, se avessi potuto realizzarlo lì, in Congo, sarei rimasta nel mio Paese d'origine. Tu hai diritto a essere felice qui in Italia, ti aiuteremo». Presente in chiesa anche il vicepresidente del Parlamento Europeo David Sassoli: «Oggi siamo qui perché un uomo è stato ucciso per il colore della sua pelle, perché una donna ci ha straziato il cuore, per stare vicino a chi ci ricorda di essere migliori. Siamo qui perché vogliamo ricordare che le crisi che attraversiamo, anche quella dell'Europa, non potranno essere superate se non mettendo al centro il valore dell'essere umano. È inconcepibile che le persone vengano umiliate così in Europa e in Italia nel 2016». Anche se assente alla cerimonia, l'azzurro Maurizio Gasparri ha voluto dire la sua accusando la Presidente della Camera di avere il paraocchi: «Bene ha fatto il presidente della Camera a recarsi a Fermo. Avrebbe fatto ancora meglio se avesse partecipato ai funerali di una delle vittime italiane uccisa dai terroristi islamici a Dacca. Ottimo sarebbe stato se poi avesse espresso analoghi sentimenti quando l'italiano David Raggi venne ucciso a Terni da alcuni extracomunitari. Il razzismo va combattuto sempre. A Fermo, a Terni, a Dacca. Augurandomi che non ci siano più episodi di violenza, sono comunque certo che la Boldrini dimostrerà la sua sensibilità sempre e non solo in alcune occasioni». Una cerimonia pubblica, celebrata da monsignor Luigi Conti e costantemente interrotta (italica consuetudine) dagli applausi. Nel corso dell'omelia l'arcivescovo ha tenuto a ribadire che Fermo è una città «ospitale». «Qui non abita il razzismo - ha aggiunto -. Ma il dolore chiede con forza un supplemento di vicinanza, di fraternità e di dialogo. Alimenta la speranza di chi approda tra di noi. Noi fermani siamo ospitali». Aggiunge monsignor Vinicio Albanesi, capo della comunità di Capodarco, dove era ospitato Emmanuel: «Anche l'aggressore di Emmanuel è una vittima e se qualcuno lo avesse aiutato a controllare la sua istintività, la sua aggressività avrebbe fatto bene». Per volontà dei familiari la salma di Immanuel sarà portata appena possibile in Nigeria. Intanto, questa mattina presso il Tribunale di Fermo, ci sarà l'udienza di convalida per Amedeo Mancini. È accusato di omicidio preterintenzionale, ipotesi avvalorata dall'autopsia.
E poi, mai dire aggressione fascista…per poter santificare la vittima.
Fermo, fermato l’ultrà con il vizio delle risse. Il fratello: “L’insulto? Era solo una battuta”. Disoccupato con precedenti, è accusato di omicidio con aggravante razziale, scrive Paolo Crecchi l'08/07/2016 su “La Stampa”. Scimmia, sì, pare proprio che gliel’abbia sibilato l’insulto infamante, ma che esagerata è stata Chimiary a risentirsi e suo marito Emmanuel a venire alle mani. Di solito Amedeo Mancini «tira le noccioline, quando vede un negro, ma lo fa per scherzare perché è un allegrone, ha avuto una vita difficile e a 39 anni non può neppure andare allo stadio: è diffidato». Da ieri Amedeo Mancini è in stato di fermo, e per lui si profila un processo per omicidio preterintenzionale. Il fratello Simone lo difende. Vive con lui in un abituro, in mezzo ai campi di girasole, e giura che «diventa violento solo se lo vai a cercare». E l’insulto alla signora? «Boh, quei due potevano starsene. Mica li abbiamo chiamati noi in Italia». L’offesa dunque pare assodata. Potrebbe averla pronunciata Andrea Fiorenza, l’amico che era con Amedeo, come lui disoccupato e davanti all’ennesimo pomeriggio da buttare via: «L’avvocato mi ha detto che non posso parlare». La parrucchiera Pisana Bacchetti arriva che la rissa è già cominciata, «ero in macchina e non so dire chi abbia cominciato. C’era il nigeriano con un palo della segnaletica stradale in mano, blu con la freccia bianca. Ha colpito Amedeo allo stomaco, e poi glielo ha tirato addosso quando è caduto. Anche la ragazza picchiava. Mordeva. L’altro giovane cercava di separarli ma non c’è riuscito. Amedeo si è rialzato e ha colpito il nigeriano con un pugno. Quello è caduto. Ha sbattuto la testa sul marciapiede. Ho chiamato io la polizia». Chimiary sostiene l’opposto, dice che il palo era in mano all’italiano. L’autopsia dovrebbe chiarire chi mente, ma la procura tende ad avvalorare la testimonianza della parrucchiera. Resta la provocazione. Restano i precedenti di Amedeo, tafferugli da stadio e violenze assortite. Dice Simone Mancini: «Lo hanno già condannato, e allora chissà se fosse capitato a me che sono stato in galera per spaccio di droga. La verità è che ci facciamo un mazzo quadrato per tirare avanti, io a stampare suole di scarpe in fabbrica e lui a lavorare a giornata in campagna: raccoglie cipolle, taglia la legna». L’amico d’infanzia Sandro Rossi giura che è stato un equivoco. «Probabilmente voleva scherzare. Amedeo non è razzista, ha anche un amico del cuore maghrebino. E con me è stato generosissimo: se non mi sono ammazzato dieci anni fa, quando la ragazza mi ha mollato, lo devo a lui». Sono questi i giovani che inneggiano alla razza ariana dei quali parla monsignor Vinicio Albanese, presidente della Fondazione Caritas che ha accolto la coppia in fuga da Boko Haram? Il prete sostiene che «a Fermo si respira un bruttissimo clima di violenza», e tira in ballo misteriosi attentati dinamitardi a ben quattro chiese della zona. «Ma quali bombe! - replica il fratello dell’assassino - Quello ci ha fatto i soldi, con gli immigrati: per forza li difende». Adele Dari, mamma di Andrea Fiorenza: «Pensasse a difendere i cristiani, prima». Fermo è una città particolare. Antica roccaforte papalina, ancora oggi è governata da un potere ecclesiastico che si appoggia a Comunione e Liberazione e ai Neocatecumenali. I bene informati sostengono che Cl spadroneggi nella sanità, nel pubblico impiego e nell’istruzione pubblica, mentre gli oltranzisti che a suo tempo riuscirono a ottenere la visita in città di Giovanni Paolo II rappresentano una formidabile lobby trasversale. Contro di loro sono state fatte esplodere le bombe d’avvertimento? Don Vinicio Albanesi: «Lo escluderei». La procura non si esprime e studia i possibili collegamenti tra i balordi locali e più temibili criminali, magari forestieri. Di certo gli ultras della Fermana appartengono alla prima categoria, e a parlare con Simone, Sandro, Andrea non si coglie una particolare brillantezza delinquenziale. Disgraziati, piuttosto. Amedeo Mancini «è sempre stato comunista: come fa a essere razzista?», lo difende il fratello, azzardando un’equazione insensata come la sua analisi politico-sociale: «Gli immigrati rubano. Non è giusto che le leggi italiane li difendano. Noi dovremmo venire prima», e almeno non facessero i permalosi: «Una battuta, via…».
Il Sindaco di Fermo: «La mia città è ferita, ripartiamo dai bambini». Il giorno dopo l’omicidio Chidi, la città si divide sulla ricostruzione del fatto. Il Sindaco: «Qui duecento profughi sono la normalità. Voglio portare i rifugiati nelle scuole, per immunizzare i bambini dal razzismo», scrive Francesco Cancellato l'8 Luglio 2016 su “L’Inkiesta”. La realtà è sempre diversa da come si immagina. L’angolo tra via Vittorio Veneto e via Venti Settembre, ad esempio, quello in cui Amedeo Mancini ha ucciso Emmanuel Chidi, è un affaccio da cartolina che si apre sulla val d’Ete, tra colline e girasoli: «Troppo bello per essere un luogo del delitto», commenta un ragazzo, tra i tanti che si fermano di fronte ai fiori e ai cartelli in ricordo del trentaseienne nigeriano. Alcuni scattano delle foto, altri si guardano intorno per provare a immaginare la dinamica di quanto è accaduto. Più che della visita del ministro degli interni Angelino Alfano, a Fermo si parla delle diverse ricostruzioni dei fatti. Soprattutto, della ricostruzione fornita da Pisana Bachetti, la “supertestimone” intercettata dal Resto del Carlino, secondo cui «quel povero ragazzo nigeriano, prima di cadere a terra per un pugno subìto, si è reso protagonista di un vero e proprio pestaggio del 39enne fermano», che a suo dire «per quattro o cinque minuti è stato attaccato simultaneamente dal giovane di colore e da sua moglie». È stata lei a chiamare la polizia sul posto, amara ironia della sorte, «perché temeva per l’incolumità» di Amedeo Mancini, ora in galera per omicidio con aggravante razzista. Soprattutto, perché «erano arrivati una quindicina di nigeriani pronti ad entrare in azione». Vero? Falso? I fermani fanno spallucce, vallo a capire: «Stanno trasformando l’aggressore in una vittima. Io non ce lo vedo un energumeno come Amedeo a farsi pestare per cinque minuti», dice qualcuno. «Lo difende l’avvocato dei Della Valle…», sussurra a mezza bocca qualcun altro, lasciando intendere chissà cosa. È la festa del mercatino d’inizio estate, a Fermo, il secondo grande rito collettivo del più piccolo - neo e già ex - capoluogo di provincia marchigiano, dopo il palio dell’Assunta di agosto. La città si è riversata in massa nelle vie del centro storico. Ci sono tutti, tranne il sindaco Paolo Calcinaro. La luce del suo ufficio, al terzo piano del palazzo comunale che ci affaccia su piazza del popolo è l’unica accesa. È solo, nel palazzo vuoto, costantemente al telefono: «Sono distrutto - ammette lasciandosi cadere sulla sedia - ieri dal dolore, oggi nel trovare Fermo sulle prime pagine dei giornali, come fosse un luogo d’intolleranza. Non ce lo meritiamo». Racconta, Calcinaro, della festa di fine ramadan cui è stato invitato solo due giorni prima, coi membri della comunità islamica che lo chiamavano Paolo, non “Signor sindaco”. Soprattutto, racconta i suoi sensi di colpa: «Ho paura di essere stato superficiale - spiega - di non avere intuito quel che stava accadendo, di non aver saputo riconoscere l’humus da cui è generata questa follia». Conosceva bene Amedeo Mancini, il sindaco, come tutti a Fermo. Lo aveva anche difeso, da avvocato, quando gli avevano comminato il divieto ad assistere a manifestazioni sportive: «È l’ignorantone del Paese, un bullo, - racconta - Ultimamente aveva preso questa piega intollerante». C’è chi dice di chiamarlo col suo nome, di dire che era fascista. Al sindaco scappa un mezzo sorriso: «Qualche anno fa diceva di essere comunista, sempre con quell’atteggiamento prevaricatore - racconta -. Mancini non sa nemmeno cosa sia, il fascismo. E di sicuro non c’entra nulla con le bombe davanti alle chiese. Non è una persona capace di arrivare a quel livello». Dalla finestra si sente l’organizzatore del mercatino chiamare il minuto di silenzio in onore di Emmanuel. La gente più che ammutolirsi, applaude, in realtà: «Questa è una città colpita nel suo orgoglio - spiega il sindaco - Da noi duecento profughi sono la normalità. Siamo pieni di comunità di accoglienza e recupero da queste parti, grazie a don Vinicio ma non solo. Di rifugiati a Fermo ce ne sono sempre stati. Uno di loro, durante la veglia funebre di Emmanuel, ha ringraziato la città per come è stato accolto». Eppure anche qui, in un luogo all’apparenza immune, si è incistato il germe dell’intolleranza: «La retorica populista trova terreno fertile in territori dove le cose non vanno bene - riflette -. Forse la disperazione sociale portata dalla crisi fa salire a galla questo senso strisciante di conflitto. E alcuni si sentono giustificati, da questo stato di cose, in diritto di poter dire e fare qualunque cosa». Sulla facciata del palazzo comunale, fanno bella mostra i simboli delle contrade della città: «A me spaventano soprattutto le conseguenze che un evento come questo può generare - spiega il sindaco -. Temo ci divideremo nelle solite fazioni. Sobillati ad arte da chi vuole fare di in un fatto tragico come quello che è accaduto un’arma per raccogliere consenso». Lui, invece, vuole ripartire dai bambini: «Con don Vinicio vogliamo portare i rifugiati nelle scuole - racconta -, fargli raccontare in classe le loro storie. Far capire cosa c’è dietro quelle facce, che storie terrificanti li hanno portati qua. Solo così possiamo immunizzare i ragazzi dalla follia razzista». Scuote la testa, come stupito delle parole che ha appena pronunciato. La realtà è sempre diversa da come la si immagina.
Riccardo Prisciano contestato a Avetrana. Il suo Nazislamismo non piace a…, scrive il 10 luglio 2016 Silvia Cirocchi su “Blitz Quotidiano”. Scontro per fortuna solo verbale fra il maresciallo dei carabinieri Riccardo Prisciano, sostenitore della tesi che l’Islam è anticostituzionale e un gruppo di giovani che contestavano le sue tesi e il suo ultimo libro, “Nazislamismo”. Il vivace confronto è avvenuto nel corso della presentazione di “Nazislamismo” a Avetrana, città in provincia di Taranto diventata nota in Italia per il delitto e la morte misteriosa di Sarah Scazzi. La serata era intitolata “Estate d’autore, fra parole, poesie e pensieri”, organizzata da una associazione locale; tre in tutto erano i libri di cui si discuteva. Il pubblico era foltissimo visto l’interesse, com’è chiaro, per l’argomento trattato: l’islam. La tesi dominante del libro di Riccardo Prisciano è: inconciliabilità tra Occidente e mondo mussulmano, non scindibilità fra politica e religione islamica, inesistenza di un islam moderato. Al termine della presentazione, però, Prisciano è stato attaccato ed offeso da estremisti locali, filoislamici e, si presume, di “sinistra”; Prisciano ha reagito con molto autocontrollo e, grazie all’aplomb di Prisciano, i toni accesi si sono avuti esclusivamente a senso unico. I contestatori non apprezzavano l’opera di Prisciano, definendola “volgare e razzista”, pur dichiarando di non averla “mai letta ed [essere] intenzionati a non volerla leggere”. Pregiudizi, insomma; come hanno affermato gli stessi contestatori, dichiarando di avere dei “pregiudizi” nei confronti dello scrittore anti-islam. E, rivolgendosi agli organizzatori dell’evento culturale, si sono proclamati “delusi dalla serata”. Tra le gravi accuse rivolte allo scrittore Prisciano, quella di “essere la causa, insieme a Salvini e Giorgia Meloni, dell’omicidio di Fermo”. I toni erano diventati talmente accesi che, per evitare che si passasse dagli insulti a modi più diretti, il vicesindaco di Avetrana è intervenuto, smorzando le proteste ed elogiando il coraggio del Dott. Prisciano, che continua a dire che l’Islam è incostituzionale.
Al termine della presentazione, un gruppo di dissidenti, estremisti filo islamici, hanno iniziato a contestare e protestare, criticando l’opera di Prisciano, senza neppure conoscerne il contenuto e soprattutto senza volerli conoscere, scrive Giovanna Rispoli su “News 24 oggi”. Un duro attacco dai toni estremamente volgari ed offensivi, come abitudine di questi gruppi disagiati sociali. Volano parole pesanti ed offensive, oltre ogni limite, ma l’aggressione verbale è a senso unico. Infatti il Dr. Prisciano ha reagito in completo autocontrollo, facendo innervosire ancor di più i contestatori. Purtroppo queste volgarità ed offese erano talmente pesanti, che molti partecipanti si sono allontanati indignandosi. Gli estremisti di sinistra, non apprezzano l’opera, la reputano offensiva, volgare e razzista, ma assurdità della cosa, dichiarano apertamente: “Non conosciamo quest’opera e non abbiamo intenzione di conoscerla, i nostri occhi mai leggeranno queste righe di propaganda razzista”. Parole che dimostrano senza ombra di dubbio quali siano le facoltà dei contestatori, aggrappati ad ideali pre-confezionati, senza utilizzare il minimo di materia grigia.
Pier Francesco Galati, uno dei contestatori, insieme al padre Franco Galati già giorni prima, sulla sua pagina facebook, aveva prima citato e poi dichiarato: «“Odio gli indifferenti...credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti...” - Antonio Gramsci - non mi vergogno a dire che se verrà data la possibilità di presentare libri che incitano alla violenza e all'odio razziale, episodi come quello di Fermo saranno sempre più frequenti...Perciò ribadisco la mia rabbia e la mia delusione per il fatto che un libro, intitolato "Nazislamismo" venga presentato nel mio paese. Educhiamo alla multietnicità, all'uguaglianza, al rispetto e a credere che nonostante tutto possa esserci un mondo migliore e più giusto...Come diceva il buon Vittorio Arrigoni: “Restiamo UMANI...”» Ed a seguire i soli commenti dei soliti ignoranti…Altra considerazione è riportata sulla pagina facebook di Milvia Renna, madre e moglie dei contestatori: «CONSIDERAZIONI IN MERITO ALLA PRESENTAZIONE DEL LIBRO "NAZISLAMISMO". Credo sia doveroso a questo punto, visti i commenti astiosi su fb e gli articoli pretestuosi, fare alcune considerazioni personali sulla presentazione del libro ''nazislamismo''. In democrazia ognuno può scrivere e pubblicare ciò che vuole, ma credo che un libro che criminalizza un intero popolo, un'intera civiltà e un intero credo vada in direzione opposta a quelli che sono i valori della solidarietà, della pace e della convivenza tra gli uomini ed è questo il messaggio che è stato lanciato in maniera corretta agli organizzatori della serata, da chi è intervenuto per esprimere la propria opinione. Come insegnante non capisco come un'associazione culturale che più volte ha chiesto la collaborazione della SCUOLA per diffondere i valori del ''rispetto'' abbia pensato di presentare un libro che col suo messaggio, andava in direzione completamente differente...e lo dimostrano i toni volutamente accesi e i commenti di chi non era neanche presente alla serata, nel giudicare la spontanea obiezione di chi crede nei valori dell'umanità e della comunione tra i popoli ..Qualcuno obietterà che in democrazia tutto è possibile...ma credo che per il suo contenuto, un libro simile andasse presentato in altre sedi e non in una serata culturale, offerta all'intera comunità di cui fanno parte da anni cittadini di religione islamica. In un articolo apparso in rete, leggo di aggressioni verbali all'autore ...di accuse di razzismo...E' stato solo affermato che messaggi simili...possono acuire i sentimenti di avversione per un popolo, in un determinato e delicato contesto storico come quello che si sta vivendo oggi...Leggo che è stato addirittura reso necessario l'intervento del vicesindaco per smorzare i toni della protesta..., preciso che gli interventi sono stati fatti da un giovane studente e da un serio professionista, a differenza di ciò che è scritto...Ma quali toni avrebbe dovuto placare il vicesindaco? Ho solo ascoltato la sua condivisione ai contenuti espressi nel libro...che poteva pure fare da esponente, però, politico di un partito...ma quella sera lui rappresentava l'Istituzione...e sorge spontaneo chiedermi se le parole, espresse in occasioni di manifestazioni scolastiche organizzate all'insegna della solidarietà tra i popoli fossero davvero autentiche ...Non condividere un'idea o come essa venga presentata non significa ''aggredire''...Nessuno lo ha fatto, nè lo ha mai fatto!!! E mi rammarica aver sentito dire alla fine della serata, dallo stesso autore di aver raggiunto il suo obiettivo, cioè: quello di INDIGNARE. Forse sarebbe opportuno che l'organizzatore della serata facesse chiarezza, nel rispetto della verità!!! Ciò che leggo in questi giorni mi convince sempre più, che spesso volutamente, si scelgono le strade della non condivisione pacifica, della polemica a tutti i costi, dell'odio e soprattutto della distorsione della realtà... e come educatrice provo solo una grande delusione...e una grande amarezza...»
Intanto, sul suo profilo facebook, domenica Prisciano ha pubblicato: Splendida serata ieri sera ad Avetrana (TA), per la presentazione di “Nazislamismo”. Ringrazio gli organizzatori, le Autorità locali intervenute, il folto pubblico presente, ma soprattutto ringrazio quegli estremisti di sinistra che mi hanno offeso e calunniato: hanno confermato ancor di più che noi siamo dalla parte giusta, quella della Libertà. E per Essa sempre ci batteremo. #noinonindietreggiamo.
Nigeriano ucciso, valanga-Cacciari: "Ma quale fascismo? È colpa di...", scrive "Libero Quotidiano" il 12 luglio 2016. "Macché fascismo! Non diciamo stupidaggini. Quello che è successo a Fermo è l'atto di un disadattato. Ma la colpa è di chi non sa governare i fenomeni migratori. E così anche gli stupidi si fanno impressionare". Massimo Cacciari non ha dubbi sull'omicidio del nigeriano Emmanuel Chidi Namdi ucciso durante una rissa da Amedeo Mancini: "È stato chiaramente un episodio legato al razzismo", dice in una intervista a Il Giorno, "ma una rissa del genere cosa c'entra con il fascismo?". "Figurarsi se Fermo è una città pericolosa e fascista! Si tratta di fatti dolorosi, a Venezia mi sarà successo due o tre volte. Le botte a un egiziano per strada o un attacco contro un ristorante magrebino: atti di razzismo sempre per colpa di ignoranti poveracci. E un sindaco cosa vuole che faccia in questi casi? Non può fare altro che portare la sua solidarietà alle vittime e stigmatizzare la violenza senza se e senza ma. Purtroppo sono cose che possono sempre succedere e succederanno". E il motivo è semplice: "La gente sta sempre peggio. C'è un clima di caccia all'altro, al diverso. E persone deboli e sprovvedute, disadattate, possono farsi impressionare facilmente. Parlavamo di fascismo? Ma va', anche il tizio di Fermo, l'ultrà che ha ucciso il ragazzo nigeriano, era solo un ignorante all'ultimo stadio. Di sicuro una persona con difficoltà e disagio sociale". Ma "se ci fosse una politica europea forte sull'immigrazione, probabilmente non succederebbero episodi così".
"Mio marito ucciso da 4 clandestini. Per lo Stato io vedova di serie B". Federica Raccagni ha deciso di realizzare un video per denunciare la disparità di trattamento tra le vittime italiane e le vittime straniere: "Bene la solidarietà ad Emmanuel, ma io non ho ricevuto attenzioni", scrive Giuseppe De Lorenzo, Lunedì 11/07/2016, su "Il Giornale". Buonismo di Stato. Passerella. Opportunismo politico. Strumentalizzazione. Chiamatela come volete la corsa delle alte cariche dello Stato verso la prima fila ai funerali di Emmanuel, il nigeriano morto a Fermo dopo una lite con un ultrà locale. C'erano tutti: Laura Boldrini, Maria Elena Boschi, Cecile Kyenge e altri ancora. Angelino Alfano è andato il giorno dopo la tragedia, quando ancora si sapeva poco o nulla della dinamica. Matteo Renzi ha detto che l'Italia non lascerà sola Chinyery. Giusto. Giustissimo: ogni tragedia merita rispetto. O forse no. Venerdì, infatti, non era un giorno qualsiasi: nella notte dell'8 luglo di due anni fa, quattro albanesi entrarono nella casa di Pietro e Federica Raccagni, colpirono con una bottiglia il macellaio di Pontoglio e lo uccisero. Erano clandestini e facevano parte di una banda che aveva messo a soqquadro la zona. Federica ricorda ancora con dolore quel giorno. La morte del marito, i funerali e l'assenza dello Stato. Sì, assenza. Perché né il ministro dell'Interno, né Renzi, né l'allora Presidente della Repubblica andarono ai funerali di Pietro. Non c'era Maria Elena Boschi. Non c'era Cecile Kyenge a dichiarare che la clandestinità può portare alla malavita e la malavita distrugge la vita degli italiani. Non c'era Laura Boldrini al fianco di Federica, a rincuorarla, a dirle che lo Stato è con lei. Per questo la processione al funerale di Emmanuel, la vedova Raccagni la chiama diversamente: discriminazione. "Io sono vicina a Emmanuel e alla moglie - dice in un video - perché conosco il dolore e cosa vuol dire un atto di violenza. Ma quello che mi ha colpito più di tutto è stata la solidarietà del governo nei confronti della vedova. Una solidarietà che io non ho ricevuto. Per lei si è mosso Alfano, il Presidente della Repubblica ha speso belle parole nei suoi confronti. Renzi ha detto di non abbandonarla. Ecco: volevo denunciare che io tutte queste attenzioni non le ho avute". Federica è come se non esistesse agli occhi dello Stato. Nessuna pacca sulla spalla. Anzi: solo quella fitta quotidiana di sapere gli assassini condannati ad appena 10 anni di carcere per omicidio preterintenzionale. "Si parla di discriminazione razziale - attacca Federica -: penso di averla ricevuta io la discriminazione. Perché ci sono vedove di serie A e vedove di serie B. Ci sono vittime di serie A e vittime di serie B. Mio marito era una persona onesta, un marito esemplare, un padre esemplare, un cittadino onesto che ha sempre pagato le tasse. Era un uomo giusto e non ha ricevuto tutte queste considerazioni dallo Stato. Nonostante i miei richiami, nonostante io abbia fatto di tutto in questi due anni per sensibilizzare il governo". I familiari e gli amici di Pietro dovettero addirittura scrivere una lettera a Renzi per farsi ascoltare. "Non sono stata tutelata prima e non sono stata tutelata dopo - conclude Federica - Che l'esecutivo si sia mosso per la vedova di Emmanuel va benissimo. Ma deve muoversi per tutti. Perché io in questi due anni ho conosciuto moltissimi italiani che hanno subito aggressioni e nessuno si è interessato di loro. E questo non è giusto. Io voglio attenzioni. Io voglio che il governo ci tuteli. Si devono rendere conto che ci siamo anche noi italiani".
PROFUGOPOLI.
C’è razzismo e razzismo.
Di Pontelandolfo e Casalduni (BN) non rimanga una pietra: 14 agosto 1861 l'eccidio, scrive Leonardo Pisani l'11 agosto 2016. «Di Pontelandolfo e Casalduni non rimanga pietra su pietra.» Così disse il Generale Cialdini al Colonnello Eleonoro Negri. Era il 14 agosto 1861, in pieno periodo del grande Brigantaggio, qualche giorno prima il 7 agosto 1861 quando alcuni briganti della brigata Fra Diavolo, comandati da un ex sergente borbonico, il cerretese Cosimo Giordano, approfittando dell’allontanamento di una truppa delle Guardie Nazionali da Pontelandolfo, occuparono il paese, uccidendo i pochi ufficiali rimasti, issandovi la bandiera borbonica e proclamandovi un governo provvisorio. Successivamente L’11 agosto il luogotenente Cesare Augusto Bracci, incaricato di effettuare una ricognizione, si diresse verso Pontelandolfo alla guida di quaranta soldati e quattro carabinieri. Nei pressi del paese, gli uomini del reparto piemontese furono catturati da un gruppo di briganti e contadini armati che li portarono a Casalduni, dove furono uccisi per ordine del brigante Angelo Pica. Un sergente del reparto sfuggì alla cattura e successiva uccisione e riuscì a raggiungere Benevento dove informò i suoi superiori dell’accaduto. Costoro chiesero a loro volta un dettagliato rapporto ai capitani locali della Guardia Nazionale Saverio Mazzaccara e Achille Jacobelli. Ottenuti dettagli sull’accaduto, le autorità di Benevento informarono quindi il generale Enrico Cialdini. Racconta Carlo Melegari, a quel tempo ufficiale dei bersaglieri, che il rapporto inviato a Cialdini conteneva una descrizione raccapricciante dell’uccisione dei bersaglieri. Cialdini, consultandosi con altri generali, ordinò l’incendio di Pontelandolfo e Casalduni con la fucilazione di tutti gli abitanti dei due paesi “meno i figli, le donne e gli infermi”. Ma non fu così. Il colonnello Pier Eleonoro Negri, al comando di un battaglione di 500 bersaglieri, massacrò un numero stimato di oltre 400 inermi cittadini, altre fonti dicono quasi un migliaio e distrusse il paese incendiandolo: molte donne furono stuprate prima di esser assassinate e non furono forniti dati ufficiali sul numero totale delle vittime della repressione. Il generale Cialdini, per l’attuazione del piano, incaricò il colonnello Pier Eleonoro Negri e il maggiore Melegari, che comandavano due reparti diretti rispettivamente a Pontelandolfo e a Casalduni. All’alba del 14 agosto i soldati raggiunsero i due paesi. Mentre Casalduni fu trovata quasi disabitata (gran parte degli abitanti riuscì a fuggire dopo aver saputo dell’arrivo delle truppe), a Pontelandolfo i cittadini vennero sorpresi nel sonno. Le chiese furono assaltate, le case furono dapprima saccheggiate per poi essere incendiate con le persone che ancora vi dormivano. In alcuni casi, i bersaglieri attesero che i civili uscissero delle loro abitazioni in fiamme per poter sparare loro non appena fossero stati allo scoperto. Gli uomini furono fucilati mentre le donne (nonostante l’ordine di essere risparmiate) furono sottoposte a sevizie o addirittura vennero violentate: “Il saccheggio e l’eccidio durano l’intera giornata del 14. Numerose donne furono violentate e poi uccise. Alcune rifugiatesi nella chiesa prima denudate e trucidate davanti all’altare. Una, oltre ad opporre resistenza, graffiò a sangue il viso di un piemontese; le furono mozzate entrambe le mani e poi fucilata. Anche i luoghi di culto non furono risparmiati, le chiese profanate, le sacre ostie calpestate; i voti d’argento, i calici, le statue, i quadri, i vasi preziosi e le tavolette votive rubati. Gli scampati al massacro furono rastrellati e inviati a Cerreto Sannita, dove circa la metà fu fucilata. A Casalduni la popolazione, avvisata in tempo, per la maggior parte fuggì. Alle quattro del mattino, il 18° battaglione, comandato dal Melegari e guidato dal Jacobelli e da Tommaso Lucente di Sepino, circondò il paese. Il Melegari, attenendosi agli ordini ricevuti dal generale Piola-Caselli, dispone a schiera le quattro compagnie di cento militi ciascuna e attacca baionetta in canna concentricamente. La prima casa ad essere bruciata è quella del sindaco Ursini. Agli spari e alle grida, i pochi rimasti in paese escono quasi nudi da casa, ma sono infilzati dalle baionette dei criminali piemontesi. Messo a ferro e a fuoco Casalduni e sterminati tutti gli abitanti trovati. Dalle alture i popolani osservano ciò che sta accadendo nei due paesi, ma sono impotenti di fronte a tanto orrore. Carlo Margolfo, uno dei militari che parteciparono alla spedizione punitiva, scrisse nelle sue memorie: «Al mattino del giorno 14 (agosto) riceviamo l’ordine superiore di entrare a Pontelandolfo, fucilare gli abitanti, meno le donne e gli infermi (ma molte donne perirono) ed incendiarlo. Entrammo nel paese, subito abbiamo incominciato a fucilare i preti e gli uomini, quanti capitava; indi il soldato saccheggiava, ed infine ne abbiamo dato l’incendio al paese. Non si poteva stare d’intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli cui la sorte era di morire abbrustoliti o sotto le rovine delle case. Noi invece durante l’incendio avevamo di tutto: pollastri, pane, vino e capponi, niente mancava…Casalduni fu l’obiettivo del maggiore Melegari. I pochi che erano rimasti si chiusero in casa, ed i bersaglieri corsero per vie e vicoli, sfondarono le porte. Chi usciva di casa veniva colpito con le baionette, chi scappava veniva preso a fucilate. Furono tre ore di fuoco, dalle case venivano portate fuori le cose migliori, i bersaglieri ne riempivano gli zaini, il fuoco crepitava.» Angiolo De Witt, del 36° fanteria bersaglieri, così descrive quell’episodio: “… il maggiore Rossi ordinò ai suoi sottoposti l’incendio e lo sterminio dell’intero paese. Allora fu fiera rappresaglia di sangue che si posò con tutti i suoi orrori su quella colpevole popolazione. I diversi manipoli di bersaglieri fecero a forza snidare dalle case gli impauriti reazionari del giorno prima, e quando dei mucchi di quei cafoni erano costretti dalle baionette a scendere per la via, ivi giunti, vi trovavano delle mezze squadre di soldati che facevano una scarica a bruciapelo su di loro. Molti mordevano il terreno, altri rimasero incolumi, i feriti rimanevano ivi abbandonati alla ventura, ed i superstiti erano obbligati a prendere ogni specie di strame per incendiare le loro catapecchie. Questa scena di terrore durò un’intera giornata: il castigo fu tremendo…”. Alcuni particolari del massacro si leggono nella relazione parlamentare che il deputato Giuseppe Ferrari scrisse a seguito del suo sopralluogo a Pontelandolfo all’indomani del terribile evento. Nella relazione si citano due fratelli Rinaldi, uno avvocato e un altro negoziante, entrambi liberali convinti. I fratelli, usciti fuori di casa per vedere cosa stesse accadendo, vennero freddati all’istante e uno dei due, ancora in agonia dopo i colpi di fucile, fu finito a colpi di baionetta. Un altro episodio citato è quello di una ragazza, tale Concetta Biondi, che rifiutandosi di essere violentata da alcuni soldati, fu fucilata. «Una graziosa fanciulla, Concetta Biondi, per non essere preda di quegli assalitori inumani, andò a nascondersi in cantina, dietro alcune botti di vino. Sorpresa, svenne, e la mano assassina colpì a morte il delicato fiore, mentre il vino usciva dalle botti spillate, confondendosi col sangue» (Nicolina Vallillo) Al termine del massacro, il colonnello Negri telegrafò a Cialdini: «Ieri mattina all’alba giustizia fu fatta contro Pontelandolfo e Casalduni. Essi bruciano ancora.» Questo eccidio è stato sottaciuto, nascosto per più di un secolo nei “testi ufficiali” di storia, per una commemorazione ufficiale di un massacro di inermi si è dovuto aspettare Centocinquant’anni dopo, il 14 agosto 2011, Giuliano Amato, presidente del comitato per le celebrazioni del centocinquantenario dell’Unità d’Italia, ha commemorato quella strage, porgendo a tutti gli abitanti di quella che è stata definita «città martire», le scuse dell’Italia.
Sette giorni all'inferno: diario di un finto rifugiato nel ghetto di Stato. Dormitori stracolmi. Dove la legge non esiste. Fabrizio Gatti è entrato, clandestino, nel Cara di Foggia. Dove oltre mille esseri umani sono tenuti come bestie. E per ciascuno le coop prendono 22 euro al giorno, scrive Fabrizio Gatti il 12 settembre 2016 su "L'Espresso". Fabrizio Gatti all'interno del centro d'accoglienza per richiedenti asilo di Borgo Mezzanone. La quinta notte apro la porta sull’inferno. Dal buio dello stanzone esce un alito di aria intensa e arroventata che impasta la gola. Si accende un lumino e rischiara una distesa di decine di persone, ammassate come stracci su tranci di gommapiuma. Niente lenzuola, a volte solo un asciugamano fradicio di sudore sotto le coperte di lana. Nemmeno un armadietto hanno messo a disposizione: ciabatte e scarpe sono sparse sul pavimento, i vestiti di ricambio dentro sacchetti di carta. Rischio di calpestare una serpentina incandescente, collegata alla presa elettrica da due fili volanti. Qualcuno sta preparando la colazione per poi andare a lavorare nei campi. Cucinano per terra. Se scoppia un incendio, è una strage.
Fabrizio Gatti è entrato clandestinamente nel Centro di accoglienza per richiedenti asilo di Borgo Mezzanone. Dove la legge non esiste. Ecco il suo diario.
No, questa non è una bidonville. È un ghetto di Stato: il Cara di Borgo Mezzanone vicino a Foggia, il Centro d’accoglienza per richiedenti asilo, il terzo per dimensioni in Italia. Ce ne sono molti altri di stanzoni ricoperti di corpi. I ragazzi africani vengono sfruttati anche quando dormono. Per trattarli così, il consorzio “Sisifo” della Lega delle cooperative rosse, e la sua consorziata bianca “Senis Hospes”, amministrata da manager cresciuti sotto l’ombrello di Comunione e liberazione, incassano dal governo una fortuna: ventidue euro al giorno a persona, quattordicimila euro ogni ventiquattro ore, oltre quindici milioni d’appalto in tre anni. Più eventuali compensi straordinari, secondo le emergenze del momento. La quinta notte rinchiuso qui dentro ho già visto i gangster nigeriani entrare nel Cara a prelevare le ragazzine da far prostituire. I cani randagi urinare sulle scarpe degli ospiti messe all’aria ad asciugare. E perfino i trafficanti afghani offrire viaggi nei camion per l’Inghilterra. Mi hanno anche interrogato. Un picciotto dei nigeriani, non la polizia. Agenti e soldati di guardia non si muovono dal piazzale asettico del cancello di ingresso. In una settimana, mai incontrati. Nessuno protegge i 636 ospiti dichiarati nel contratto d’appalto. Ma siamo sicuramente più di mille. Contando gli abusivi, forse millecinquecento. Perché da quattro buchi nella recinzione, chiunque può passare. E da lì sono entrato anch’io. Un nome falso, una storia personale inventata. Da lunedì 15 a domenica 21 agosto. Una settimana come tante. Nulla è cambiato, nemmeno oggi. Quello che segue è il mio diario da finto rifugiato nel Ghetto di Stato. Dentro il Cara di Borgo Mezzanone il giorno non tramonta mai. Una costellazione di fari abbaglianti splende non appena fa buio sul Tavoliere, la grande pianura ai piedi del Gargano. La cupola di luce appare a chilometri di distanza. Bisogna arrivare alla rete arrugginita di un aeroporto militare dismesso. C’è un varco a est, dopo una lunga camminata nei campi. Ma a ovest entrano addirittura le macchine e i furgoni dei caporali, carichi di schiavi di ritorno dalla giornata di lavoro. Sono quasi le dieci di sera. Le prime casupole lungo la pista di decollo formano la baraccopoli abitata da quanti negli anni sono usciti dal centro d’accoglienza, con o senza permesso di soggiorno. Una stratificazione di sbarchi dal Mediterraneo e di sfruttamento da parte degli agricoltori foggiani. Da qualche mese però la bidonville si sta allargando. Da Napoli è arrivata la mafia nigeriana e si è presa metà pista: nelle baracche hanno aperto bar, due ristoranti, una discoteca che con la musica assorda ogni notte il riposo dei braccianti. Da Bari sono venuti alcuni afghani piuttosto integralisti e ora controllano l’altra metà: hanno allestito un negozio che vende di tutto e una misteriosa moschea. Questa è la zona chiamata Pista, appunto. Ancora qualche centinaio di metri e si può toccare la recinzione del Ghetto di Stato. I fari sono puntati a terra e le telecamere inquadrano tutto il perimetro. Il Cara è diviso in due settori. Il primo, proprio qui davanti, è composto da diciotto moduli prefabbricati. Quattro abitazioni per modulo. Ogni abitazione ha tre stanzette: due metri per due, una finestra, lo spazio per due brande, raramente quattro a castello. Ciascun modulo ospita così tra le 24 e le 48 persone. Oppure, per dirla brutalmente, rende ai gestori tra i 528 e i 1.056 euro al giorno. La piazza centrale è un campetto di calcio, davanti al capannone con la mensa, la moschea e i pavimenti di tre camerate ricoperti di materassi. Anche il secondo capannone accanto è un dormitorio stracolmo. I bagni sono distribuiti in una dozzina di casupole: sei rubinetti ciascuno, sei turche, sei docce malridotte, alcune con l’acqua calda. Il secondo settore è invece rinchiuso dietro cancellate alte cinque metri: due fabbricati illuminati a giorno sotto un’altra schiera di telecamere. È il vecchio Cie per le espulsioni, una prigione. Lo usano per l’accoglienza. I rapporti sulle visite ufficiali sostengono che il secondo settore sia la parte dove si sta meglio. Oltre non bisogna andare. Lì vigila, si fa per dire, il personale di guardia. I buchi nella recinzione del Cara sono quattro, proprio sotto le telecamere. Dopo una nottata e una giornata di sopralluoghi, il fotografo Carlos Folgoso sa cosa deve fare. Adesso posso entrare. Una voce sguaiata al megafono della moschea ricorda all’improvviso che Allah è il più grande. È l’ora della preghiera che precede l’aurora. Sono le quattro e diciannove. Addio sonno. Fino alle tre e mezzo avevamo il tormento della musica afro dalla baracca appena fuori il recinto, lì dove i gangster nigeriani fanno prostituire le ragazzine. Poi due auto si sono sfidate con frenate e sgommate lungo la Pista. Quindi un ragazzo ha telefonato al fratello in Africa e parlava così forte che sembrava volesse farsi sentire direttamente. Adesso chiamano alla preghiera anche dalla misteriosa moschea degli afghani. Le voci dei muezzin erano scomparse da questo cielo il 15 agosto del 1300, giorno d’inizio del massacro dei musulmani a Lucera. Migliaia di morti, i sopravvissuti venduti come schiavi: le radici europee del cristianesimo non sono più pacifiche di certi fanatici islamisti di oggi. Ogni angolo protetto dalla luce dei fari è occupato da qualcuno che prova a dormire all’aperto. Un po’ per il caldo asfissiante. Un po’ perché dentro non c’è posto. Lo sanno anche le zanzare. Quando il sole è ormai a picco, Suleman, 24 anni, nel Cara da tre mesi, esce a raccogliere babbaluci, le lumache aggrappate agli arbusti. «Al mercato di Foggia», spiega, «gli italiani le comprano a tre euro al chilo». Già. E le rivendono su Internet a sette. Ma servono ore a mettere insieme un chilo. Da dove vieni? «Dal Ghana, ho chiesto asilo», rivela Suleman. Il Ghana è una Repubblica. Forse è un oppositore perseguitato. Alla domanda, lui guarda stupito: «No, spero di ottenere i documenti e trovare un lavoro qualsiasi in Italia o in Europa. Dove non lo so. E tu?». Meglio non dire la verità, l’inchiesta è ancora lunga. È il momento di collaudare il nome preso in prestito da Steve Biko, l’eroe sudafricano della lotta contro l’apartheid: «Sono senza documenti e voglio raggiungere mia sorella a Londra». Lui non capisce subito. «Sono un sudafricano bianco. La terra di Mandela. Conosci Nelson Mandela?». «No Steve, who is this man, chi è quest’uomo? Ma hai il tesserino da rifugiato?», vuol sapere Suleman. No. «Allora non hai mangiato Steve, hai fame?», chiede con apprensione. No, grazie. «Però non dormire qui fuori. È pericoloso. Dentro nessuno controlla. Puoi anche mangiare. Stasera mi trovi dopo la preghiera quando distribuiscono la cena. Tu vieni in moschea?». Sotto il caldo del pomeriggio ci si va a riparare nei pochi metri d’ombra. Quanti attraversano il Sahara e il mare per sfuggire alla povertà meritano totale rispetto. Ma il diritto internazionale protegge soltanto chi scappa da dittature e guerre, come accade per eritrei, somali e maliani che dormono nei due grandi capannoni. La domanda di asilo di Suleman verrà comprensibilmente respinta. E anche lui si aggiungerà alle migliaia di fantasmi che riempiono le bidonville. Come la Pista, là fuori. Un altro giorno è passato. È la seconda notte qui dentro. I gangster nigeriani hanno appena spento il loro tormento musicale. Sono le tre e alla fontanella della piazza centrale c’è già la coda. Prima di partire i braccianti devono rifornire i loro zaini con le bottigliette di plastica piene. I padroni italiani non regalano più nemmeno l’acqua. I quattro varchi nella recinzione sono una manna per l’agricoltura pugliese. Forse è per questo che non li chiudono. Centinaia di richiedenti asilo escono che è ancora buio. E ritornano che è già buio. I caporali nigeriani li aspettano su furgoni e auto sgangherate all’inizio della Pista: per il trasporto ai campi di ortaggi e pomodori, incassano cinque euro al giorno a passeggero e li trattengono dalla paga. I capibianchi, gli sgherri italiani, li prendono invece a bordo lungo la strada che porta a Foggia. Così molti ragazzi per evitare il costo del passaggio partono in bici da soli. Le biciclette nel Cara sono grovigli di manubri e fatica parcheggiati a centinaia davanti alle casupole. Qualcuno nelle camerate si è portato la sua in mezzo ai materassi dove dorme. Farsi rubare la bici significa dover consegnare ai caporali 35 euro a settimana, il guadagno di due giornate di lavoro. I braccianti che vivono nel Ghetto di Stato vengono pagati meno dei loro colleghi di fuori: anche 15 euro a giornata, piuttosto che 25. I padroni foggiani decurtano il corrispondente di vitto e alloggio. Tanto sono garantiti dalla prefettura. Uno squilibrio che crea tensione tra la generazione ormai uscita dal centro d’accoglienza e gli ultimi arrivati, disposti a lavorare a meno. Il muezzin ancora non ha chiamato alla preghiera. E i primi ragazzi venuti a rifornirsi d’acqua alla fontanella sono già in viaggio. Erano tornati ieri sera quasi alle dieci. Si sono fatti la doccia. Hanno lavato e steso gli abiti da lavoro. Poi hanno mangiato la pasta della mensa, tenuta da parte da qualche compagno di stanza. Era mezzanotte passata quando sono andati finalmente a dormire. Dopo appena tre ore di sonno già pedalano silenziosi, uno dietro l’altro, che sembra il via di una tappa a cronometro. Scavalcano bici in spalla il muretto sotto i fari e le telecamere. Poi si dissolvono nel buio come bersaglieri del lavoro, chiamati in prima linea a riempire i nostri piatti. Lo stesso periodo, subito dopo la richiesta d’asilo, in Germania è dedicato ai corsi obbligatori di tedesco. Chi non frequenta è respinto. Qui dopo un anno di sfruttamento sanno al massimo dire “cumpà”. Compare, in foggiano. E quando li trasferiscono sono spaesati, impreparati, analfabeti. Come appena sbarcati. Nonostante quello che lo Stato versa alla cooperativa di gestione, nessuno ha insegnato loro nulla dell’Italia. E magari, una volta in città, passano la notte a gridare al telefonino. Così dal vicinato si aggiungono nuovi voti alla destra xenofoba. «Ehi Steve, South Africa, come stai?», chiede in inglese Nazim. Ha 17 anni anche se sul tesserino magnetico gli hanno scritto che è nato nel 1997. Viene da Dacca, Bangladesh, via Libia. Martedì sera ha saputo che non mangiavo dalla notte prima. È tornato con un piatto di plastica sigillato con la pasta della mensa, una scatola di carne, una mela, due panini. «Steve, prendi», ha insistito: «Sono piatti avanzati oggi». Vuole raggiungere l’Inghilterra o la Germania. Sa molto poco delle conseguenze di Brexit, delle frontiere europee chiuse. «Adesso vado dai nigeriani là fuori alla festa di un amico di Dacca. Gli hanno riconosciuto l’asilo. Domani parte per Milano. Ha invitato gli amici a bere birra. Portano anche le ragazze. Vieni, Steve?». È l’una di notte. Meglio non esporsi troppo. Precauzione inutile. La polizia non si è mai fatta vedere. Ma le spie dei nigeriani mi hanno già notato. Sono l’unico bianco con la faccia europea. Sono qui da quattro giorni. Non rispetto gli invisibili confini interni. E ho il doppio dell’età media degli ospiti. Così nel corso della notte provano a sapere di me. Prima con un africano del Mali. Poi con due pakistani. Alla fine con Cumpà, un senegalese alto e grosso. Sono marcato a zona. Non appena mi sdraio a dormire sulla solita piattaforma di cemento, arriva lui. «Cumpà, che succede?», chiede il picciotto in italiano. Puzza di birra. «Cumpà, di dove sei?». Rispondo in inglese che non capisco. E Cumpà si arrabbia: «Cumpà, vieni a dormire da me perché se arrivano i miei amici nigeriani da fuori, tu passi dei guai». Entra nel suo loculo. Riappare con un materasso sporco. «Cumpà, tu ti sdrai qui e non te ne vai». Ora si sistema sul suo materasso. Siamo sdraiati uno accanto all’altro, sotto il cielo nuvoloso. Lui si gira su un fianco. Cerca di fare l’amicone. «Cumpà, allora mi dici che cosa fai qui?». I suoi amici nigeriani non scherzano. La notte del 18 aprile hanno rapinato un ospite del Cara e lo hanno trascinato fuori. Lì lo hanno accecato con una latta di gasolio rovesciata negli occhi e bastonato fino a farlo svenire. Qualche giorno prima avevano ferito un connazionale con un machete. A giugno la polizia ha poi arrestato cinque appartenenti agli Arobaga, il clan che controlla caporalato e prostituzione lungo la Pista. «Io non parlo inglese», torna ad arrabbiarsi Cumpà: «Ho capito: tu sei un poliziotto. Adesso chiamo gli altri». Si alza e se ne va. Un messaggio parte subito per il telefonino di Carlos, il fotografo nascosto da qualche parte là fuori: “Vai via” seguito da una raffica di punti esclamativi. Steve resta sdraiato sul materasso, con le pulci che gli pizzicano le caviglie. È più sicuro rimanere nel Cara e vedere cosa succede. Cumpà riappare dopo mezz’ora. Solo. Si sdraia. Ronfa come un diesel. Anche i suoi amici saranno ubriachi. Al richiamo del muezzin, un connazionale viene a scuoterlo: «Madou, la preghiera». Non si muove. Al risveglio religioso, stamattina Cumpà preferisce il sonno di Bacco. Qualche riga oggi bisogna dedicarla alla pet therapy. È quella prassi secondo cui l’interazione uomo-animale rafforza le terapie tradizionali. Alla prefettura di Foggia, responsabile della fisica e della metafisica di questo Ghetto di Stato, devono crederci profondamente: perché il Cara è infestato di cani, ovunque, perfino dentro le docce. Nessuno fa nulla per tenerli fuori. Quando è ancora buio, subito dopo la preghiera, tre braccianti escono in bicicletta dal buco a Ovest, dove la recinzione è stata smontata. Le loro sagome sfilano nel chiarore della luna. Un cane abbaia e la sua voce richiama un’intera muta che si lancia all’inseguimento dei tre poveretti. Sono una decina di grossi randagi. Corrono. Ringhiano e si mordono. Poi diligentemente tornano a sdraiarsi tra gli ospiti del centro. Nasrin, 27 anni, afghano di Tora Bora, si tiene alla larga dai cani. Una sera parliamo davanti alla partita di cricket improvvisata dai pakistani, sul piazzale vicino ai rifiuti. Nasrin dice che se ne intende di viaggi fino in Inghilterra. È andato e tornato, rinchiuso nei camion. Un suo conoscente, che dorme alla Pista, conferma più tardi che può trovare i contatti. Deve solo verificare i prezzi. Dopo Brexit sono aumentati. «In Inghilterra i caporali pakistani pagano bene con la raccolta di spinaci e ortaggi: 340 sterline a settimana», spiega Nasrin. Con i documenti? «No, senza. Però si lavora 18 ore al giorno. In sei anni ho messo via ottantamila euro. E in Afghanistan mi sono costruito una bella casa». Allora perché sei qui? «Perché per avere i documenti avevo chiesto asilo in Italia». Stasera è meglio stare lontani dalla piazza. Una macchina dei carabinieri è ferma lì da un po’. Dicono siano venuti per una notifica. Poco più tardi tre nigeriani entrano a prendere le prostitute. Le ragazzine sono a malapena maggiorenni. Due in particolare. Nessuno sa se siano ospiti o abusive. Dormono nella sezione femminile, dice qualcuno, ricavata nell’ex centro di espulsione. Le portano dalle parti della discoteca, la causa dell’insonnia di molti di noi. Entrano nell’anticamera illuminata a giorno. E scompaiono oltre il separé, nella sala con la musica al massimo, le luci colorate, la palla di specchi al centro del soffitto. La corrente la rubano dalla rete di illuminazione pubblica. La Pista, anni fa, era un centro d’accoglienza. E molti braccianti, a loro volta ostaggi del caos, abitano là da allora. Bisogna stare molto attenti ai cavi elettrici. Per collegare le nuove baracche appena costruite e in costruzione, li hanno stesi ovunque nell’erba secca del campo tra la bidonville e il Cara. Sono semplici cavi doppi da interni, collegati tra loro da banalissimo nastro adesivo. Quando piove c’è il rischio di prendersi una bella scarica. Adesso è più difficile girare indisturbati. Trovarsi davanti Cumpà potrebbe essere pericoloso. Un angolo controluce del grande piazzale è il nuovo nascondiglio. I fari puntati negli occhi di chi passa sono lo schermo più sicuro dietro cui proteggersi. Il sottofondo musicale stanotte è dedicato al reggae. Il volume aumenta via via che scorrono le ore. E durante la preghiera sfuma in un fruscio assordante. Una mano sta cambiando canale alla radio. Si ricomincia con la voce di Malika Ayane. Le parole piovono direttamente dal buio: «La prima cosa bella che ho avuto dalla vita...». Parte una fila di braccianti in bicicletta. Attacca un vecchio successo di Luis Miguel: «Viviamo nel sogno di poi...». Se ne vanno a lavorare altre schiene sui pedali. Vengono tutti dall’ex Cie. Bisogna sfidare le telecamere per avvicinarsi e vedere. Anche lì hanno aperto un buco nella recinzione. Si salta sopra un fossato di fogna putrida a cielo aperto. E si scende agli inferi. Le camerate sono al buio. Hanno appeso stracci e teli alle finestre per tenere fuori la luce dei fari. Non c’è spazio nemmeno per la porta. Si apre a fatica. L’aria è densa, ma ancora non è chiaro cosa ci sia oltre. Sono quasi le quattro e mezzo. Un ragazzo si sta vestendo e adesso accende la pila. Una scritta incollata alla colonna al centro del salone saluta beffarda: «Benvenuti». Un orsacchiotto sotto il cuscino di un adulto sporge la testa e fissa il soffitto. La vita è tutta raccolta nei sacchetti e nelle scatole sotto le brande. Un vecchio televisore trasmette il replay delle Olimpiadi. E rischiara di un poco il suo orizzonte di corpi ammassati. Impossibile contarli tutti. Quattro sedie separano dall’angolo cottura i tranci di gommapiuma, usati come materassi. Per terra la serpentina elettrica incandescente sta riscaldando due uova, la pasta avanzata ieri sera, una teiera. Un sacchetto di plastica e un rotolo di carta igienica sono pericolosamente vicini al calore. Pentole, un piatto, due bicchieri. Tutto per terra. Non c’è lo spazio per un tavolo. Nel cortile al centro del Cie, per terra ci dormono pure. Il piccolo loculo di Cumpà al confronto è un lusso. Almeno ha un po’ di riservatezza, l’aria intorno, i vasi con gli oleandri. Perfino l’architettura qui dentro è oscena. È stata progettata e costruita in modo che si possa vedere soltanto uno spicchio di cielo. La mente che l’ha pensata voleva probabilmente umiliare le donne e gli uomini da rinchiudervi. L’effetto è questo, anche ora che è un centro di accoglienza. Stesse condizioni nelle altre stanze. Non ci sono uscite di sicurezza. Nemmeno maniglioni antipanico. Molte porte si incastrano prima di aprirsi. E il loro movimento va verso l’interno. Dovevano servire a non far scappare i reclusi, non ad agevolarne la fuga. Se scoppia un incendio, questa è una trappola. I bagni e le docce non profumano mai di disinfettante. Hanno perfino sloggiato dei profughi per trasformare le loro stanzette in privatissimi negozi. Ce ne sono cinque tra le casupole statali. Vendono bibite, riso, farina, pane, accessori per telefonini direttamente dalle finestre. Quattro li controllano gli afghani della Pista. Il quinto due ragazzi africani. Non ci sono cestini per i rifiuti, solo sacchi neri appesi qua e là. Stanotte i cani li hanno strappati e hanno disperso avanzi della cena ovunque. Un favore alla catena alimentare, sì. Perché alla fine anche i ratti hanno un motivo per uscire allo scoperto. Quello che colpisce è la rinuncia totale a spiegare, insegnare, preparare i richiedenti asilo a quello che sarà. Se i gestori lo fanno nei loro uffici, i risultati non si vedono. Qui fuori sembriamo tutti pazienti di un reparto oncologico. In attesa permanente di conoscere la diagnosi: vivremo da cittadini o moriremo da clandestini? Forse non ci sono abbastanza soldi per seguire il modello tedesco. Oppure noi italiani siamo troppo furbi, oggi. E contemporaneamente troppo stolti per pensare al domani. Non c’è soltanto la crisi umanitaria internazionale a rendere precario qualsiasi intervento. La ragione del fallimento si trova già nella gara d’appalto per gestire il Cara: premiava il «maggior ribasso percentuale sul prezzo a base d’asta, pari a euro 20.892.600». Un cifra di partenza che equivaleva a 30 euro al giorno a persona. E il consorzio “Sisifo” di Palermo si è aggiudicato il contratto con uno sconto di 8 euro. Ha abbassato la diaria a 22 euro e rinunciato a quasi cinque milioni e mezzo in tre anni. La logica matematica ci suggerisce una sola cosa: o i funzionari della prefettura di Foggia hanno sbagliato a formulare i prezzi, o il consorzio della Lega Coop sapeva di non starci nelle spese. Anche se è davvero difficile pensare che 22 euro al giorno a persona non bastino a fornire il minimo di dignità. Comunque il ministero dell’Interno chiede sempre di aumentare il numero di ospiti di qualche centinaio. E l’emergenza è pagata bene: i soliti 30 euro, ma senza gara. Così perfino lo sconto è rimborsato. La cooperativa cattolica “Senis Hospes”, che per conto di “Sisifo” gestisce Borgo Mezzanone e altri centri, corre al galoppo. Fatturato in crescita del 400 per cento in due anni: dai 3 milioni del 2012 a 15,2 milioni del 2014, ultimo bilancio disponibile. Dipendenti dichiarati: dai 109 del 2014 ai 518 di quest’anno. «Tali attività...», scrive nella relazione annuale Camillo Aceto, 52 anni, presidente di “Senis Hospes”, «rispondono alla missione che la cooperativa si prefigge dedicando l’attenzione alle categorie più bisognose». Ma qui dentro, nel grande stanzone degli inferi, oggi la luce è accesa alle quattro. È domenica. Alcuni richiedenti asilo sono già partiti per i campi. Altri preparano lo zaino. Sempre sotto quella scritta sulla colonna centrale, che martella la vista: «Benvenuti».
Capalbio e non solo, ex comunisti snobbano immigrati e metalmeccanici, scrive il 18 agosto 2016 Laura Naka Antonelli su “Wallstreetitalia”. Su Twitter viene lanciato anche un hashtag ad hoc per commentare il caso: l’hashtag è #capalbioforrefugees e l’ultimo caso tutto italiano, esploso qualche giorno fa, è quello di Capalbio. Un caso che coinvolge e travolge la sinistra italiana, e quella roccaforte della stessa, almeno fino a qualche tempo fa, che si chiama Regione Toscana. Le offese contro questa sinistra sempre più non pervenuta tra la gente comune si sprecano: si parla di ex comunisti radical chic che non vogliono gli immigrati. Tutto parte di fatto proprio dalla questione spinosa dell’immigrazione, dal momento che sono ben due i ricorsi che sono stati presentati al Tar dagli abitanti del centro storico di Capalbio, alla notizia dell’arrivo di 50 immigrati. “Non siamo affatto contro l’accoglienza”, precisa il sindaco del Pd Luigi Bellumori, dopo la bomba mediatica esplosa con le dichiarazioni rilasciate dal presidente della Regione Toscana Enrico Rossi (prima PCI, ora Pd) che, dal suo profilo Facebook, nel giorno di Ferragosto, ha stroncato la sinistra di Capalbio. “A Capalbio nobili ambientalisti, boiardi di Stato e intellettuali ex comunisti non vogliono i profughi, non vogliono la strada, non vogliono nulla, perché le loro vacanze non possono essere disturbate”. Esulta ovviamente la destra, con Matteo Salvini, leader della Lega, che usa le parole del governatore Rossi per perorare la propria causa: “Sono 50 profughi, ma la sinistra radical chic non li vuole vicino ai campi da golf, alle piscine, ai giardini, ai villini e ai villoni di questa sinistra che i campi rom li pensa sempre in periferia». E poi: «Non li metterete davvero qui, hanno detto in coro. Loro si sono ribellati. Ecco la sinistra”. Il sindaco di Capalbio Bellumori difende se stesso e la comunità di Capalbio: “Questa non è accoglienza, è ghettizzazione. Non è integrazione calare 50 migranti in un borgo di 130 residenti. Perché Capalbio è sì, molto più esteso perché ha frazioni e ville sparse, ma qui si parla del centro medievale”. E sulle accuse di razzismo: “Capalbio ha accolto i braccianti del Sud negli Anni ’50, e i migranti dell’Est negli Anni ’90”. Promettendo infine: “Convocheremo un tavolo con prefettura e Regione, sono convinto che troveremo una soluzione. Noi non diciamo no agli immigrati, diciamo no a 50 in quel posto, siamo disposti ad accoglierne una quindicina”. Certo il caso rimanda a quella intervista a IO Donna (Corriere della Sera) rilasciata ormai un bel po’ di anni fa, nel 2009, da Giovanna Nuvoletti, giornalista e fotografa, moglie di Claudio Petruccioli, ex presidente della Rai. Nel commentare il suo romanzo L’era del cinghiale rosso, Nuvoletti aveva parlato proprio della sua Capalbio. “L’unico ricco comunista che abbia mai conosciuto, Giangiacomo Feltrinelli, a Capalbio non ci veniva. I comunisti che negli anni Settanta andavano in Maremma erano squattrinati. Chi poteva se ne andava a Porto Ercole”. E’ una pessima estate, quella di quest’anno, per la sinistra italiana. Non si può dimenticare neanche l’altro grande triste protagonista dei cosiddetti ex comunisti, Arcangelo Sannicandro, 73 anni, avvocato e parlamentare “comunista”, che ha un reddito da 400mila euro l’anno (dato relativo al 2014) e che si è opposto in modo piuttosto plateale, lo scorso 4 agosto, alla Camera, alla proposta del M5S relativa alla riduzione delle indennità di carica da 10.000 a 5.000 euro (tra l’altro richiesta non passata). “Non siamo lavoratori subordinati dell’ultima categoria dei metalmeccanici! Da uno a dieci noi chi siamo?”. E lui, anche, viene da Pci e da Rifondazione.
Capalbio, arrivo dei migranti: gli spocchiosi radical chic tolleranti col sedere degli altri, scrive il 17 agosto 2016 Emanuele Ricucci su “Il Giornale”. Arrivo migranti. A Capalbio è dramma collettivo. Bruciati i tricolori, interrotte le proiezioni della Trilogia dei colori di Krzysztof Kieślowski e le serate di degustazione delle mandorle bio dell’Uzbekistan in tutta la città; per protesta, i vip locali chiedono più diritti. C’è già chi grida “Fascisti!”. In queste ore caldissime, l’ANSiA riporta le ultime dichiarazioni ed iniziative per fronteggiare il dramma: ANSiA: Emergenza migranti a Capalbio. Arrivati i viaggiatori del mare. Distribuite ai poveri fuggiaschi dalla disperazione, pashmine colorate, occhialetti tondi, copie di Pasolini e Saviano. Ristabilito l’ordine. Un gesto umanitario necessario dopo il lungo viaggio, dopo stress alto e paura. A Capalbio i migranti arrivati sono cinquanta e sono stati destinati solo profughi poeti che narrano delle danze tipiche del loro Paese e che sono emarginati dalla dittatura tribale a cui si sono ribellati non potendosi più barbaramente permettere un nuovo Mercedes o di non poter presentare il nuovo libro in giro per il mondo. Altrove in Italia, tutti gli altri. Il sindaco di Lampedusa, ex perla del mediterraneo, si unisce al coro dei colleghi di tutta Italia – che senza battere ciglio hanno ricevuto ordine dalla Prefettura di ospitare i poveri fuggiaschi dalle guerre -, dal centro al Sud, fino al Nord, dai paesini più poveri e isolati a quelli più espressivi a livello architettonico e storico, fino alle grandi città d’arte, in un appello: “Ha ragione il collega toscano. L’arrivo dei 50 (cinquanta) migranti nella sua città, potrebbe essere una “una catastrofe lesiva dell’appeal di Capalbio” – parola del sindaco PD Luigi Bellumori -. Fa bene a dirlo; fa bene a difendere la sua realtà e chi se ne frega delle nostre città, del nostro turismo, della nostra arte e della nostra capacità di fare cultura. Del decoro delle nostre comunità”. Proprio in seguito a quanto si apprende dall’agenzia ANSiA, abbiamo raccolto alcuni pareri. “Appena ricevuta la notizia dell’arrivo di questi poveri viaggiatori sono corso a casa, ho preso mia moglie per un braccio e mio figlio Ubaldo Jonah e gli ho detto: “dobbiamo lasciare casa. Dobbiamo andarcene ora!”. Non credevamo che questo problema potesse toccare anche a noi in Italia. Pensavamo fosse una cosa da Sud, da isole di prossimità, da paesini sperduti del centro o del nord Italia, quelli devastati dalle politiche governative; la nostra Capalbio e chi poteva immaginarlo. Che ne sarà dei nostri reading? E delle sedi delle nostre associazioni umanitarie, deserte? E delle degustazioni di Tofu, del teatro sperimentale? – ci racconta ancora atterrito Gian Maria Ipocriti, stimato medico del luogo -. “Abbiamo riflettuto sulle parole del sindaco. È da fascisti, suvvia, non accogliere, da figli del terzo Reich, quelli a cui toglierei il diritto di voto e di vita; ma noi qui non possiamo proprio permettercelo. Non possiamo!”, ci racconta Guidobaldo Pace. C’è anche chi, come Luigi Colpavostra, addossa le colpe di un simile problema alla politica e alla storia: “La colpa dell’arrivo di cinquanta migranti? Di Salvini, oggi, e delle politiche di Mussolini, ieri. Se non avesse bonificato le paludi pontine, con il conseguente arrivo di operai veneti, del nord Italia, di altre regioni, insomma, venuti a lavorare per vivere, tutto questo non ci sarebbe stato!”. Duilio Demo Crazia, conte capalbiese, dopo due aver dato due corpose boccate di pipa ci risponde: “Chi l’ha detto che immigrazione faccia rima con sicurezza, sostenibilità, assistenzialismo. Roba da fascisti! Prendete le parole (reali) del sindaco. La sicurezza? “Non potrà essere garantita dalla polizia municipale che conta un solo agente a tempo indeterminato e due vigili estivi con il sindaco che ha il ruolo di comandante”. Integrazione e sostenibilità? “Ho delle perplessità che una comunità possa accettare che per un cittadino di Capalbio vengono spesi 31,28 euro l’anno in spesa sociale e per i richiedenti asilo 32,50 euro al giorno”. Vedete? L’immigrazione non ha nulla a che fare con la sicurezza, la sostenibilità, non porta problemi! Prima gli italiani? Fascisti!”. “SulGiornale, quello dei nazimaoistiklingoniani, sì, proprio quello, addirittura si legge: “Tra i moventi del lamento capalbiese, c’è il fatto che i profughi siano sistemati in «ville di gran lusso» vicine «all’area più residenziale». «In 19mila ettari bisognava metterli proprio là?», ha chiosato il primo cittadino. Altra equazione «profughi-decoro». Morale: l’unico immigrato buono per Capalbio è la colf”. Ma vi rendete conto dove siamo arrivati?”, così Patrizio Pierre Libertà. Nel frattempo, il DCSAGdAdPC, il Dipartimento Centro Studi Associazione Gruppo di Amici del Politicamente Corretto, ente freschissimo, istituito nella notte tra il 14 e il 15 agosto, approfittando delle partenze intelligenti degli italiani, si esprime, in una nota, sull’annosa questione di Capalbio: “Quello dei migranti è un dramma. Eppure a Capalbio il mare è bello, le menti sono belle. Crediamo sia un peccato rovinare questa cartolina d’Italia con l’arrivo di un contingente di poveri viaggiatori del mare, ben 50, che pensiamo di destinare altrove, verso un’Italia più povera, in cui non ci saranno le principali basi strutturali per l’accoglienza ma ci sono maggiori spazi territoriali. Ribadiamo il nostro sdegno verso chi ritiene l’immigrazione un problema, verso quelle comunità che si lamentano di non riuscire ad integrare, di non averne gli strumenti per farlo. Una barbarie proprio nel corso del giubileo della Misericordia. Questi sono i nemici della modernità, della democrazia, del nuovo modo di stare al mondo e di essere più che fratelli: coinquilini”.
Brutti, sporchi e cattivi, scrive Giovedì 18 agosto 2016 Nino Spirlì su “Il Giornale”. Ebbene, ora che anche la sinistra radicale di Capalbio ha ricevuto la sgraditissima visita di questi clandestini puzzolenti, che scappano dalle loro bidonville, per venire a bivaccare in Italia, possiamo dire che la misura sia colma. Finché hanno rotto i coglioni ai poveracci italiani, quelli che non arrivano alla prima settimana, quelli che stanno duellando con equitalia da anni, quelli che stanno ancora pagando a rate di sangue il finto benessere post DriveIn e AsFidanken, quelli che hanno recuperato i nonni a casa e magnano con le loro pensioni sicure (per ora), quelli che non sanno più per chi votare dopo aver fatto tutto il giro delle setteliste, finché, dicevamo, i coglioni triturati erano i loro, c’era, ad ogni lamentela, l’islamofobia, il razzismo, l’accoglienza necessaria, la fratellanza cattolica di parata di Francesco il gaucho, la xenofobia, il volemosebbenismo. I giornali addomesticati avevano scancellato (è italiano, è italiano: significa fare le cancella tipo ####### sulla parola sbagliata e si usava sulle pergamene. NdA) tutti i termini tipo negro, zingaro, beduino… Certo pretame da politburo, certo vescovame unto di compromesso massomafioso e grasso di soldi facili da finta fratellanza, certo papame da fotoromanzo l’hanno avuta facile. Perché il cuore del governo, non ancora in ferie, era dalla loro parte. “Seicento negri al 15! N’acqua minerale lisca al 23! 387 siriani al 19! Na pajiata ar 5! Na camionata de regazzini ar grand hotel! Ahò, portaje na cinquantina de mignotte nigeriane ar privé!…” Sembrava una comanda continua. Poi, il piede in fallo! Venti negretti, docciati, sanati e vestiti alla marinara vanno sistemati in un cinquestelle a Capalbio! Col Cazzo! Ma che stamo a scherzà??? Qua c’abbiamo in ferie milionarie tutta a nomenclatura der piddì!!!! Politisci, imprenditori, zozzone rifatte, gente che conta… Robba da villona de millemetriquadri! Che, fra l’altro, i loro stranieri ce l’hanno già: filippini per i tappeti e i mobili, moldave per i nonni, svizzere per i bambini, capoverdiani per le siepi, giamaicani per le signore (e i signori, diciamolo)… Che gli mandi, i negri d’Africa????? Quelli sdentati, che gli puzza il fiato di carie e hanno le pulci fra i ricci? Quelli che te ribartano i cassonetti e bruciano i materassi? Quelli che se credono sto par de ciufoli e parlano di uguaglianza e diritti umani????? Brutti sporchi e cattivi! Ecco cosa sono! Un ammasso di straccioni che non possono pretendere di venire ad abitare in un paradiso terrestre destinato solo a pochi, pochissimi, (non)eletti che hanno il diritto di rilassarsi prima delle fatiche autunnali: shopping stagionale, party referendari, riaperture di canottieri, palestre eterofrocie, discotroieche di vecchio conio e nuova stampa…No, ragazzi, non si può! Sti clandestini vanno freesbati da n’artra parte! Mò chiamo io a Roma… Pronto, ma che, state a scherzà??? … E viene fuori che, “Stai tranquillo: tutto sotto controllo! Mò basta lo diciamo noi, compagno! Mò bombardiamo pure noi! Non ve lo volevamo dire, per evitare il clamore, ma, sì ragazzi: in Libia je stamo a fa un culo così! Gli abbiamo mandato quelli dei Servizi. E pure qualche bombetta. E mica se fermamo! No, no. Mò li sterminiamo tutti. Intanto, abbiamo controllato i gommoni e, toh!, Ci abbiamo trovato un tunisino che voleva venire in Italia, diononvoglia a Capalbio, per fare l’attentato. Dunque, c’est fini! Che crociata sia! Questi pur di distruggere Capalbio, sarebbero capaci di venirci a pisciare pure davanti al portone del palazzo a Roma. Magari a defecare nel parchetto sotto casa. E senza raccogliere con la paletta e la bustina, come fanno i nostri filippini coi nostri bassotti… No, No, No! Vanno rimandati tutti a casaccia loro.” Ma pensa te: invadere Capalbio! Che idea malsana! Considerazioni agostane, a qualche metro dalla vergognosa tendopoli di San Ferdinando, Area Industriale Porto di Gioia Tauro, piena fino al vomito. Anzi, con la nuova, più accogliente, in fase di montaggio proprio di fronte…Puah! Tra me e me…
I profughi a Capalbio: l'ultima spiaggia della sinistra. Le villette destinate ai profughi a Capalbio. Il luogo simbolo dell'Italia radical chic doveva dare una risposta diversa, avrebbe dovuto aprire le porte, scrive Roberto Saviano il 19 agosto 2016 su "La Repubblica". Capalbio non è solo Capalbio. Ci sono luoghi che trascendono ciò che sono, smettono di essere definiti dalle piazze e dagli affreschi, non sono descritti nemmeno dai volti, dai palazzi o dalle scalinate ma diventano simbolo creato dall'immaginazione. Capalbio è uno di questi luoghi. Non è per la grazia del suo meraviglioso borgo, per la dolcezza della sua costa, o quantomeno non è più solo per la sua bellezza armoniosa che Capalbio campeggia nel nostro immaginario. Capalbio è la storia delle estati della nostra Repubblica: della prima, della seconda e adesso di questa indecifrabile terza. La piccola Atene - definizione romantica in cui Capalbio con un po' di civetteria si riconosce - dove nel tempo delle ferie si sono incontrati da sempre intellettuali, dirigenti di partito, imprenditori, giornalisti e artisti progressisti e di sinistra. Capalbio è divenuta - forse persino suo malgrado - il dolce ritrovo degli intellettuali. Parola che nel tempo della rabbia, che è il nostro tempo, sta subendo sui social network lo stesso destino semantico di "parlamentare" o "consigliere comunale" - per non parlare di "assessore": troppo spesso sinonimi, per le nuove generazioni, di élite. E quindi, immancabilmente, di corruzione. E che cosa ti combina l'"intellighenzia" di Capalbio? Che cosa si fa per spegnere la rabbia e il qualunquismo? I fatti sono noti. Profughi in fuga dalla guerra o semplici poveri cristi in cerca di un futuro migliore. Certo, come in ogni emigrazione da qualche parte si nasconderà anche qualche brutto ceffo (non siamo stati noi a regalare agli americani Al Capone e Lucky Luciano?). Certo, in questi giorni c'è l'allarme per le infiltrazioni jihadiste. Ma qui stiamo parlando di immigrati a cui è stato già riconosciuto appunto lo stato di profughi. A Capalbio, come a tanti altri comuni d'Italia, è stato chiesto di esserci, nel tentativo di arginare l'emergenza. Quindi ospitarne, nel caso, cinquanta. E che è successo? Capalbio ha fatto le barricate. Sì, il sindaco (per la cronaca, il piddino Luigi Bellumori) sarà anche stato inopportuno, comportandosi come qualsiasi sindaco di un piccolo centro turistico, protestando per la decisione del prefetto: terrorizzato magari che i migranti allontanino le famiglie, che i ristoranti si svuotino, che la spesa turistica diminuisca. Ma Capalbio non è solo Capalbio: non è un piccolo centro turistico come un altro. E proprio per questo la piccola Atene doveva rispondere diversamente: in nome della sua storia. Il flusso di migranti, ben poco a dire il vero, avrebbe dovuto essere al centro di una risposta intelligente come i suoi villeggianti. Di fronte all'emergenza, Capalbio avrebbe dovuto rispondere in tutt'altro modo: focalizzando la sua estate su questo tema, essendo questa terra di dibattiti e incontri. Il che non avrebbe voluto dire trasformare una legittima vacanza in penitenza. Né tanto meno ospitare i migranti nelle proprie case (richiesta subdolamente razzista che si diffonde come un morbo online a chiunque sostenga politiche d'accoglienza "portateli a casa tua"). Invece, col loro silenzio, gli intellettuali di Capalbio non hanno fatto che fornire munizioni ai soliti fustigatori dei Radical Chic. Ecco: Radical Chic l'espressione mutuata da Tom Wolfe è una accusa sempreverde al di là di qualsiasi riflessione seria sul caso. Si sa da dove deriva: ma è bene fare una veloce sintesi. Se potete, rifiondatevi su quel libro di Wolfe, Radical Chic, pubblicato in Italia da Castelvecchi (meraviglioso). È il reportage di una serata particolare. A New York. In casa di Leonard Bernstein: il grande direttore d'orchestra nonché autore di West Side Story. Tra gli ospiti, il regista da Oscar Otto Preminger e i leader dei Black Panthers. Il libro racconta come la moglie di Bernstein, in una casa lussuosissima, raccogliesse fondi per i combattenti delle Pantere Nere. Wolfe fa capire come in quella casa si respirasse quasi l'eccitazione per qualcosa di esotico, lontano e proibito. Il tutto sapeva di impostura: il gioco puramente intellettuale di chi, da lontano, prende parti che nella vita reale non è costretto a sostenere, di chi insomma nella propria posizione può permettersi di giocare con le idee, senza doverne pagare mai il prezzo. Questo e molto altro si conserva dunque in quelle pagine e nella definizione di Radical Chic. Ma da allora - era il 1970 - quel titolo viene ormai usato come uno slogan dispregiativo. Chiunque decida di vivere del proprio lavoro culturale e abbia posizioni progressiste e democratiche diventa "radical chic". Provare a ragionare su certi temi, provare a cercare la mediazione, subito viene etichettato come furbesco e ipocrita. Radical Chic oggi è uno slogan qualunquista. Un insulto generico. Il fatto è che questa volta Capalbio ha risposto esattamente come nelle pagine di Tom Wolfe si muovono gli intellettuali americani alle prese con i "pericolosi" ribelli: attraenti da lontano, disgustosi da vicino. Ora, i migranti destinati a Capalbio non saranno certo i nuovi Black Panters. E nelle villette sul mare in Toscana non svernano certo i nuovi Bernstein (o i nuovi Preminger). Ma non ci voleva neppure l'intelligenza di Tom Wolfe per comportarsi con più buonsenso. Non lo sanno, nella piccola Atene, che il disgusto più grande, nella gente, nasce proprio quando si vede il problema migrazione scaricato lontano dalle loro case e quindi piombato nelle periferie? I loro figli, nelle scuole che frequentano, forse non si imbattono in quelle classi formate per la maggior parte da bambini immigrati. Le spiagge che frequentano - come la ormai mitica "Ultima spiaggia" - non sono come le spiagge libere e popolari piene di famiglie d'ogni cultura. Molto più facile - dicono i delusi dalla risposta di Capalbio - parlare di integrazione quando i problemi sono lontani. Non la vivono, i sostenitori dell'integrazione, la difficoltà dell'integrazione. Ecco perché da Capalbio ci si sarebbe aspettati una reazione diversa. Avete presente l'immagine dei migranti che entrano nella stazione di Monaco accolti dalla gente? Ricordate il milione di euro raccolti, sempre a Monaco, non dai circoli intellettuali (che pure tanto si sono impegnati e schierati) ma dagli ultras del Bayern? Certo: Capalbio non è Monaco. Ma tanto più dopo questa brutta storia non è più solo Capalbio. La piccola Atene avrebbe potuto fare la differenza. Che delusione invece questo silenzio di tutti gli intellettuali - quasi tutti: Asor Rosa è stata una delle pochissime eccezioni. Che vergogna vedere non "l'intellighenzia" ma l'intelligenza andare in vacanza. E nascondersi.
Quel "poverino" del colonnello dell'Isis. Così i compagni italiani lo difendevano, scrive “Libero Quotidiano” il 19 agosto 2016. C'è un filo nero che collega l'estremismo islamico e i militanti anarchici e neobrigatisti italiani. Un collegamento raccontato anche dalle lettere che il colonnello dell'Isis arrestato in Libia, Fezzani Moez Ben Abdelkader, detto anche Abu Nassim, scriveva agli "amici", i compagni anarchici attivi a Milano. Abu Nassim era stato arrestato a maggio 2010 e detenuto nel carcere di Rossano Calabro, in provincia di Cosenza. Il destinatario delle sue lettere era l'associazione Ampi orizzonti, che ha inserito le carte nel dossier "è Ora di Liberarsi dalle Galere", con il quale gli anarchici milanese fanno controinformazione sullo stato delle carceri. I punti in comune tra le rinascenti Br e i terroristi islamici stanno tutti nella lotta all'imperialismo americano e contro la misura dell'isolamento nelle carceri. Per i compagni italiani, gli estremisti islamici sono "prigionieri di guerra arabi". Nel dossier "Guantanamo italiane - Dalle sezioni speciali per araboislamici" del 2014 c'è la rappresentazione plastica del legame tra i due mondi, considerando che il dossier porta le firme dei principali "prigionieri politici" rossi come Alfredo Davanzo e Claudio Latino. Dal carcere di Siano, in provincia di Catanzaro, scrivono: "Siamo solidali con la loro lotta contro il carcere dello Stato imperialista italiano". Per far breccia nei cuori dei compagni italiani, Abu Nassim aveva raccontato il suo curriculum carcerario. Quegli ultimi sette anni passati a Bagram, in Afghanistan, prigioniero dell'esercito americano, lo hanno reso praticamente un martire: "Ero legato al muro con i ferri - racconta in una lettera agli amici italiani - come i gladiatori romani, ricoperto dal suono della musica rock 24 ore su 24... Non dovrei trovarmi in carcere perché ho diritto all'asilo politico, perché dopo 7 anni nell'inferno di Bagram sono stato considerato innocente". Quando è tornato in Italia, Abu Nassim è stato espulso nel 2013, prima della condanna. In Tunisia ha fatto carriera tra le fila dell'esercito del Califatto, fino a toccarne i vertici.
Quegli strani rapporti tra jihad, Br e criminalità. Una lettera di Abu Nassim su una rivista rossa. Solidarietà ai detenuti islamici dai brigatisti, scrive Luca Fazzo, Sabato 20/08/2016, su "Il Giornale". L'emersione del cosiddetto «fondamentalismo islamico è solo una spia della rinascita di una civiltà di antiche e inestirpabili radici, dove la religione è etica, diritto, prassi politica»: bisogna partire da questa analisi, ospitata da uno dei siti di punta della sinistra antagonista italiana, per capire dove appoggi uno dei fenomeni più inverosimili della emergenza terrorismo in Italia: la saldatura tra gli ambienti dell'integralismo islamico e l'universo antagonista e insurrezionalista. Nelle carceri e fuori dalle carceri, i fanatici della jihad intrecciano legami con i fanatici della lotta armata made in Italy, dagli ultimi avanzi delle Brigate Rosse al magma anarchico e autonomo. Una intesa saldata da alcune parole d'ordine comuni: la battaglia contro il capitalismo occidentale e l'odio verso Israele, spesso tracimante in antisemitismo. In nome della lotta ai nemici comuni, i rivoluzionari nostrani non disdegnano il dialogo con chi decapita omosessuali e adulteri. A rilanciare l'allarme su un fenomeno già noto alle forze di polizia sono le lettere pubblicate ieri sul Corriere della sera scambiate in carcere tra Moez Fezzani, il terrorista espulso dall'Italia dopo una assoluzione campata per aria e ora catturato in Libia, e ambienti estremisti italiani. In particolare il quotidiano milanese cita una missiva inviata da Fezzani (alias Abu Nassim) e pubblicata da Altri orizzonti, la rivista anarchica dedicata al mondo delle carceri. La lettera viene inviata dall'islamico alla rivista nel 2010, dopo che Fezzani - a lungo rinchiuso nel carcere americano di Bagram - era stato consegnato all'Italia. Interessante il luogo di provenienza: Fezzani scrive da Rossano, il carcere calabrese di alta sicurezza dove il ministero concentra tutti i detenuti islamici considerati a maggiore rischio di militanza jihadista. In teoria, la corrispondenza degli estremisti detenuti a Rossano dovrebbe essere soggetta a censura preventiva. Ma la lettera in cui Abu Nassim denuncia presunte torture riesce a superare i varchi di censura e viene ricevuta e pubblicata da Altri orizzonti insieme a quelle di altri detenuti politici. Di rimando, nel 2014 dal carcere di Siano dove sono detenuti i capi delle «nuove Br» arriva il documento di solidarietà ai detenuti islamici, un dossier intitolato Le Guantanamo italiane in cui i terroristi rossi denunciano le condizioni in cui sarebbero detenuti i terroristi islamici. Nel documento, i Br sentono il dovere di prendere in parte le distanze dagli aspetti più integralisti della ideologia islamica. Ma si tratta di dettagli su cui i rivoluzionari italiani sono pronti a sorvolare senza fatica in nome della comune battaglia antimperialista: come sintetizza un titolo di un documento della Organizzazione comunista internazionalista, Dalla bandiera rossa alla bandiera verde per stato di necessità. Ad approfondire le basi ideologiche di questa alleanza basta leggere quanto il leader dei «Comunisti-marxisti leninisti» Giovanni Scudieri: «Il nostro posto attuale è al fianco di chi combatte l'imperialismo che è il nemico comune di tutti i popoli del mondo. Lo Stato islamico non vuole che l'imperialismo sia il padrone dell'Irak, della Siria, del Medioriente. Nemmeno noi lo vogliamo, quindi non possiamo non appoggiarlo». E sul sito campoantimperialista.it troneggia il titolo Rivolta islamica: un 11 settembre di massa, sotto cui si legge addirittura: «Il salafismo combattente, ancorché sconfitto, come l'araba fenice risorgerà dalle sue ceneri. Sempre risorgerà, fino a quando l'imperialismo dominerà il mondo». Insomma: privi di prospettive, davanti alla disarmante sordità delle masse popolari italiane ai loro proclami, i rivoluzionari di casa nostra cercano interlocutori più attivi nella galassia islamica. E a quanto pare, come dimostrerebbe la lettera di Fezzani, trovano disponibilità al dialogo. Un'alleanza potenzialmente assai pericolosa, che lo diverrebbe ancora di più se dai messaggi da una cella all'altra e dai ponderosi documenti ideologici si passasse ad una contiguità operativa. Di questa per ora non c'è traccia. A differenza di quanto emerso in alcuni casi di dialogo tra organizzazioni islamiche e ambienti legati alla criminalità organizzata: ma questo è un altro film.
Il detenuto Moez era il «povero amico» di anarchici e brigatisti. Lettere dal carcere italiano del reclutatore Abu Nassim. Islamisti e «compagni» uniti nella lotta antimperialista. «Mi sveglio sempre alle 2 per parlare da solo come un pazzo a causa delle torture subite», scrive Gianni Santucci il 19 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera". Rivolgendosi ai nuovi «compagni», anarchici e neobrigatisti, si firma così: «Il vostro povero amico Moez, che si sveglia sempre alle 2 per parlare da solo come un pazzo a causa delle torture subite». La lettera viene spedita dal carcere di Rossano Calabro (Cosenza). È datata 30 maggio 2010 e arriva a Milano poco dopo. Il «povero amico» è Fezzani Moez Ben Abdelkader (detto Abu Nassim): oggi colonnello dell’Isis in fuga dalla Libia. Secondo alcune fonti, non confermate, Fezzani sarebbe stato arrestato qualche giorno fa, ma è interessante sapere chi sono gli «amici» a cui scriveva prima della condanna e l’espulsione dall’Italia (nel 2013). Abu Nassim indirizzò la sua lettera all’associazione «Ampi orizzonti», che l’ha inserita in un ampio dossier «OLGa» («è Ora di Liberarsi dalle Galere»): il bollettino anti carcerario degli anarchici milanesi. Quel fascicolo racconta l’abbraccio solidale che, da un decennio, lega i «neri» e le nuove Br ai terroristi islamisti (definiti «prigionieri di guerra arabi»). Si sono ritrovati «compagni di strada» su un terreno comune: contro «l’imperialismo americano» e i reparti di isolamento nei penitenziari italiani. La testimonianza più profonda di questo legame sta in un’altra lettera di solidarietà ai condannati islamisti, anch’essa contenuta nel dossier «Guantanamo italiane - Dalle sezioni speciali per arabo-islamici» (2014), che porta la firma dei maggiori «prigionieri politici» delle Nuove Brigate Rosse (tra cui Alfredo Davanzo e Claudio Latino). Pur chiarendo che «ci distingue la concezione del mondo», dal carcere di Siano (Catanzaro) affermano: «Siamo solidali con la loro lotta contro il carcere dello Stato imperialista italiano». L’isolamento dei condannati islamisti ha un obiettivo primario: contenere il reclutamento in carcere dei detenuti per reati «comuni». Abu Nassim si radicalizzò nella moschea di viale Jenner nel 1993. Partì come mujaheddin per la guerra in Bosnia. Tornato a Milano, divenne un reclutatore per l’invio di combattenti di Al Qaeda in Afghanistan. Poi si spostò a fare lo stesso «mestiere» in Pakistan, dove venne fermato dagli americani e tenuto per 7 anni a Bagram. Ai «compagni» anarchici e comunisti raccontava questa esperienza: «Ero legato al muro con i ferri, come i gladiatori romani, ricoperto dal suono della musica rock 24 ore su 24... Non dovrei trovarmi in carcere perché ho diritto all’asilo politico, perché dopo 7 anni nell’inferno di Bagram sono stato considerato innocente». Riconsegnato all’Italia ed espulso prima della condanna, dalla Tunisia Abu Nassim ha scalato le gerarchie dell’Isis. L’abbraccio con gli estremisti italiani è stato politico, mai «operativo». Nell’ambiente anarchico e neobrigatista c’è stato un duro dibattito interno sull’amicizia con i «compagni (islamisti) che sbagliano».
Padre Rebqwar scuote il Meeting: "Sull'islam dovete dire la verità", scrive Franco Bechis il 22 agosto 2016 su “Libero Quotidiano”. "Sul rapporto con l'Islam bisognerebbe smetterla con il politically correct per non urtare sensibilità. L'unico criterio possibile per parlarsi èla verità, non nascondere i fatti come si fa con la polvere sotto il tappeto". Padre Rebwar Basa è un iracheno di 38 anni, nato ad Erbil e ordinato sacerdote nel monastero di San Giorgio a Mosul. Un religioso nella polveriera di questi anni, che ha vissuto in un Iraq dove i cristiani sono sempre più minoranza, perseguitata da tutti i gruppi islamici del paese e con una vita resa difficile anche dal potere ufficiale. Al Meeting di Rimini per tre giorni è venuto a raccontare la sua storia a chi visita la mostra sui martiri cristiani organizzata dalla onlus Aiuto alla Chiesa che soffre. È stato protagonista di un episodio che mai si era verificato al Meeting di Rimini: un testimone oculare di stragi che racconta la propria storia e che viene messo in discussione, ritenuto inattendibile dal pubblico che ascolta. L'ho filmato durante quel braccio di ferro con il pubblico, e lui ha tenuto botta: "Ogni tanto leggo che i cristiani sarebbero vittime collaterali di un conflitto. No, non è così: sono l'obiettivo principale. C'è una persecuzione che è anche un genocidio, e di questo dobbiamo parlare". Il pubblico rumoreggiava, contestava apertamente. Padre Rebwar con calma ha replicato: "Non vi fidate di me? Non ci credete? Potete anche approfondire: ci sono mass media, ci sono libri, ci sono altri testimoni. Potrete informarvi. Però qui spesso si ha paura di parlare per non toccare la sensibilità di altre religioni, di non dire questo, non dire quello. E state vedendo grazie a questo atteggiamento come è diventata la situazione dell'Europa, dove siete la maggioranza come cristiani e vivete in allerta. Immaginate cosa si vive da noi in Iraq, dove siamo lo 0,5% della popolazione. Qui da voi ci sono ragazzi dell'Islam che partono per andare a combattere in Iraq e in Siria, pronti a morire. E i vostri giovani non sono pronti nemmeno più a partecipare a una Santa Messa”. Il giorno dopo gli ho chiesto se era stupito di questa incredulità. Mi ha fatto capire di no, che non è la prima volta. Ho sentito le sue parole vibranti sugli errori dell'Occidente, ma lui ora quasi se ne ritrae: "Voi in Occidente siete molto più sviluppati che da noi, non posso dirvi cosa dovete fare. Secondo me c'è un solo criterio per giudicare quel che sta avvenendo: la libertà. Dove la libertà è assicurata, non c'è conflitto, non c'è ingiustizia. Ma per esserci libertà bisogna che una minoranza possa vivere in pace, e da noi questo non accade. L'Islam è una religione, che però spesso viene catturata dalla ideologia che lo rende radicale. I giovani che corrono a combattere con l'Isis sono vittime di questi islamici che gli insegnano l'odio, dicono loro di non accettare le diversità, di considerare gli altri infedeli. E quell'odio diventa persecuzione nei nostri confronti. Questo bisogna saperlo...". Franco Bechis.
Al Meeting di Rimini di CL. Oltraggio alla statua della Madonna: come l'hanno ridotta (per gli islamici), scrive “Libero Quotidiano" il 20 agosto 2016. La statua della Madonna nascosta per non urtare la "sensibilità" dei fanatici islamici. Anzi, per evitare che qualcuno, magari un lupo solitario ispirato dall'Isis, possa dare di matto e fare qualche gesto inconsulto. Il clima di terrore si è diffuso anche al Meeting di Comunione e Liberazione. Un video di RepubblicaTv svela cos'è successo nello stand della casa editrice Shalom, dove si vendono libri religiosi, rosari, poster e oggetti sacri. Qui però sulla statua della Vergine è stato posto un telo azzurro: "È per questi attacchi che stanno facendo. Loro hanno un odio verso la Madonna e quindi, per evitare, l'abbiamo coperta - spiega davanti le telecamere la responsabile dello stand -. La dovevamo togliere, addirittura perché qui ci sono tante religioni. Non era mai successo, avevamo dei quadri qui che ci hanno fatto togliere. È per evitare degli scontri". Il finale è all'insegna di un'amara ironia: "La Madonna è stata messa in castigo e ha accettato perché è umile. Ogni tanto la vengo a consolare".
Filippo Facci il 28 luglio 2016 su “Libero Quotidiano” svela il vero volto dell'Islam: "Perché lo odio". Odio l’Islam. Ne ho abbastanza di leggere articoli scritti da entomologi che osservano gli insetti umani agitarsi laggiù, dietro le lenti del microscopio: laddove brulica una vita che però gli entomologi non vivono, così come non la vivono tanti giornalisti e politici che la osservano e la giudicano dai loro laboratori separati, asettici, fuori dai quali annasperebbero e perirebbero come in un’acqua che non è la loro. È dal 2001 che leggo analisi basate su altre analisi, sommate ad altre analisi fratto altre analisi, commenti su altri commenti, tanti ne ho scritti senza alzare il culo dalla sedia: con lo stesso rapporto che ha il critico cinematografico coi film dell’esistente, vite degli altri che si limita a guardare e a sezionare da non-attore, da non-protagonista, da non vivente. Ma non ci sono più le parole, scrisse Giuliano Ferrara una quindicina d’anni fa: eppure, da allora, abbiamo fatto solo quelle, anzi, abbiamo anche preso a vendere emozioni anziché notizie. Eccone il risultato, ecco alfine le emozioni, le parole: che io odio l’Islam, tutti gli islam, gli islamici e la loro religione più schifosa addirittura di tutte le altre, odio il loro odio che è proibito odiare, le loro moschee squallide, la cultura aniconica e la puzza di piedi, i tappeti pulciosi e l’oro tarocco, il muezzin, i loro veli, i culi sul mio marciapiede, il loro cibo da schifo, i digiuni, il maiale, l’ipocrisia sull’alcol, le vergini, la loro permalosità sconosciuta alla nostra cultura, le teocrazie, il taglione, le loro povere donne, quel manualetto militare che è il Corano, anzi, quella merda di libro con le sue sireh e le sue sure, e le fatwe, queste parole orrende che ci hanno costretto a imparare. Odio l’Islam perché l’odio è democratico esattamente come l’amare, odio dover precisare che l'anti-islamismo è legittimo mentre l’islamofobia no, perché è solo paura: e io non ne ho, di paura. Io non odio il diverso: odio l’Islam, perché la mia (la nostra) storia è giudaica, cattolica, laica, greco-latina, rousseiana, quello che volete: ma la storia di un’opposizione lenta e progressiva e instancabile a tutto ciò che gli islamici dicono e fanno, gente che non voglio a casa mia, perché non ci voglio parlare, non ne voglio sapere: e un calcio ben assestato contro quel culo che occupa impunemente il mio marciapiede è il mio miglior editoriale. Odio l’Islam, ma gli islamici non sono un mio problema: qui, in Italia, in Occidente, sono io a essere il loro. Filippo Facci
Vergognoso il razzismo anti-italiano del Governo, scrive Andrea Pasini il 23 agosto 2016 su “Il Giornale”. “Ma, detto con grande serenità, che cosa dobbiamo fare di più noi italiani nei confronti degli immigrati” si chiede laconico, qualche tempo fa, il direttore Alessandro Sallusti su la prima pagina de Il Giornale. Con Mare Nostrum e l’operazione Triton siamo andati a raccogliere i clandestini in mezzo al mare. Con i centri d’accoglienza li abbiamo accolti, sfamati e vestiti per sentirci dire che il popolo italiano non è nient’altro che razzista. La lista continua e ai rom, che spesso mi capita di citare, consentiamo di non pagare le tasse, di vivere in campi abusivi e senza la minima norma igienica. Agli islamici invece consentiamo di dettarci le regole, vedendo costruire moschee ad ogni latitudine della penisola senza sapere da dove provengono, in maniera precisa, i contributi che servono a finanziare l’edificazione di questi luoghi di culto. Una dinamica che non sta né in cielo, né in terra. Il tutto mentre gli italiani vittime di calamità naturali vivono ancora dentro a delle baracche a distanza di decenni. Gli anziani “campano” con 300 euro al mese di pensione, anche se le indagini Istat parlano di un pensionato su due che vive con più di 1000euro al mese di vitalizio miraggi da terzo millennio, morendo di fame. I giovani valorosi, con lauree e voglia di fare, si vedono il futuro sottratto perché davanti a loro, sulla corsia di sorpasso preferenziale, passano gli incapaci, ma amici degli amici. Qualche tempo fa ci siamo imbattuti nella morte di Emmanuel Chidi Namdi, l’immigrato deceduto a Fermo in seguito ad una rissa con Amedeo Mancini. Il fermano è già stato bollato dalla stampa come estremista di destra ed ultras per questo razzista e colpevole. Ben prima che la Magistratura faccia il suo corso. Si è detto che Mancini avesse insultato razzialmente il nigeriano e ne sarebbe nata una colluttazione, ma la testimone, la cui voce è stata messa in dubbio ripetutamente, Pisana Bachetti ha visto l’africano, che era accompagnato dalla consorte, aggredire l’italiano. Al funerale tutti gli alti funzionari da Laura Boldrini a Maria Elena Boschi. Ma costoro dov’erano agli estremi onori delle vittime di Dacca? Erano presenti al servizio funebre del giovane ternano, David Raggi, sgozzato da un marocchino irregolare sul suolo italiano con precedenti penali? Le parole della vedova del macellaio Pietro Raccagni, ucciso due anni fa da quattro immigrati clandestini albanesi, fanno raggelare il sangue: “noi discriminati dal governo”. Proprio così perché nessun politico parlò di razzismo in questi casi da me citati. Nessun presidente della Camera si recò ai funerali di questi uomini. Nessun anima pia della lotta all’antirazzismo spese una parola per questi italiani. Vittime di serie A e di serie B, ma per loro saremo sempre e solo vittime di serie B. “Noi fummo da secoli calpesti, derisi, perché non siam popolo, perché siam divisi”. Inizia così la seconda parte dell’inno d’Italia e i doppiopetto della politica esercitano questa parole a meraviglia.
Si sta rompendo il patto sociale vigente in Italia. Si sta cercando di scardinare ogni appiglio di questa nazione, ogni speranza di rivalsa. Le famiglie italiane si impoveriscono giorno dopo giorno, gli imprenditori, le partite Iva e i commercianti lottano contro una burocrazia fattasi pachiderma che costringe i lavoratori a pagare il 60% delle loro entrate sotto forma di tasse. Le nostre forze dell’ordine sono senza mezzi, senza dignità e lasciati senza fiducia nella lotta che li vede contrastare il crimine in ogni angolo dello stivale. Immaginate voi, per pochi spiccioli, di combattere il male riversatosi su questa nazione e di dover essere schiacciati ed usurpati da chi ci comanda. Una pazzia. Il sistema sanitario è al collasso. La sanità è sempre stato un vanto tutto italiano dai medici ai primari passando per gli infermieri capaci e volenterosi di dare dignità al malato in ogni istanza. Mentre oggi per una visita specialistica, che può fare la differenza tra la vita e la morte, bisogna aspettare mesi, se non mesi anni. E il pronto soccorso? Si entra la mattina e si esce la notte, il tutto mentre ai clandestini vengono gettati a terra tappeti rossi e privilegi. La sanità va a pari passo con le case popolari e a soccombere sono, tra un incartamento e l’altro, i nostri concittadini. Vittime di attese e scavalcati da ogni lato dagli altri, che vengono prima ce lo dice il governo. Per non farci mancare nulla ovviamente l’orco brutto e cattivo della fiaba siamo noi, che non abbiamo cuore, che non ci doniamo come dovremmo. Per Papa Francesco “Dio è nei migranti”, ma non esiste per i padri divorziati che dormono in macchina per dare un futuro ai propri figli. Per chi raccoglie nella spazzatura un torsolo di mela pur di mangiare qualcosa. Per quegli italiani in fila al dormitorio che non vogliono passare una notte su di una panchina. Per il nostro vicino di casa senza lavoro che non vede un domani e pensa al suicidio. Dio per questa gente, secondo l’attuale Chiesa, si è voltato dall’altra parte. La saliva dei politici e dei prelati continua a dirci che dobbiamo accogliere i clandestini in casa nostra, che dobbiamo sostenere le comunità disagiate provenienti da ogni lato del mondo, che, come direbbe Nichi Vendola, dobbiamo abbracciare “i nostri fratelli rom e i nostri fratelli mussulmani”, che l’integrazione è fondamentale. Ma chi siede sui banchi di Montecitorio o a palazzo Madama che esempio dà? Nessuno, si sono adagiati sulla riva del mare per vedere affondare questa nazione, al fresco, visto il periodo di canicola, delle loro laute ricompense. Date il buon esempio e accoglieteli nelle vostre regge, spalancate i conventi per ospitare e mantenere tutti i clandestini presenti in Italia. Essere bravi a parole non vale nulla è troppo facile. Prima gli italiani, bisogna gridarlo in ogni piazza, perché gli interessi di questa nazione vengono prima di qualunque altra cosa. Gli italiani tutti i giorni si rimboccano le maniche e fanno sempre di più di quello che dovrebbero fare. Tutti i giorni devono cercare di sbarcare il lunario per pagare tasse su tasse, senza ricevere in cambio niente, nessun servizio, nessuna tutela, nulla di nulla. Ma attenzione, siamo stanchi di farci derubare dei nostri soldi che vengono utilizzati per mantenere chiunque l’importante è che non sia italiano. Ed avete la faccia tosta di chiamarci razzisti? Come osate? La classe dirigente di questo paese si deve vergognare, dovrebbe rappresentare con onore il popolo italiano e invece tutti i giorni lo offende, lo accusa, lo processa e soprattutto lo sfrutta. I veri razzisti siete voi. Basta con la discriminazione anti-italiana, basta con questa classe politica costituita da incapaci e traditori.
Italicidio. L’Italia è gli Italiani. Non tutti gli italiani sono l’Italia, scrive Nino Spirlì il 22 agosto 2016 su “Il Giornale”. « …Vergine Augusta e Padrona, Regina, Signora, proteggimi sotto le tue ali, custodiscimi, affinché non esulti contro di me satana, che semina rovine, né trionfi contro di me l’iniquo avversario » (S. Efrem) Italicidio, direi. Sì. Tanto per scimmiottare i neologisti dello specifico spasmodico. Morte della mia Patria, aggiungerei, pensando a mio Nonno Nino Spirlì, Vero Cavaliere di Vittorio Veneto e a Zio Giacomo Mangialardo, Camicia Nera fino all’estremo sacrificio. Assassinio della mia Terra, della mia Gente, della nostra Identità e della nostra Cultura, per mano sporca di schiavisti vestiti da cherubini. Per mano di trafficanti di libbre di carne umana, in cambio di strapotere occulto. Di vile denaro, lordo di sangue di innocenti e di pianti di italiani abbandonati a se stessi, mentre i macellai ci sgozzano come agnelli sacrificali e il papampero li incoraggia con la stupida e ottusa falsa accoglienza che gli fa cassa, eccome! Martirio della nostra Storia e della nostra Fede Cristiana, la quale, volenti o nolenti, è Radice inconfutabile della nostra Civiltà. Gesù Nazareno nacque Uomo, accolse la Legge degli uomini e il volere del Padre, e tracciò per noi, con la vita, la morte e la rinascita, il tempo e la strada da seguire. Che piaccia o no ai maomettani e similari, ai senzadio nostrani e ai disattenti politicanti da selfie tamarro, Cristo è Padre, Fratello e Signore dell’Occidente e degli uomini liberi di tutto il mondo. A Lui dobbiamo. Quando la nostra Civiltà e il suo progresso vengono schiaffeggiati, derisi, violati, uccisi, viene commesso reato e peccato. Insieme. Perché noi siamo così come siamo proprio perché Cristiani. E soprattutto i Cristiani non dovrebbero uccidere i Cristiani. Mentre sono proprio certi cristianoidi, bugiardi nella fede e nella dignità, che stanno aprendo le porte al maiale di troia (perché della nobiltà del cavallo nulla ha, questo nuovo strumento d’invasione), affinché dalle sue viscere si liberi quel fango violento che ci vorrebbe spazzare via dalla nostra Casa. L’Italia uccide l’Italia. Il Palazzo vende la carne del Popolo alle mafie e ai menzogneri di tutto il continente africano. Assassini, ladri, truffatori, pedofili, femminicidi di ogni stato del continente nero salgono sulle carrette del mare e si vomitano in Italia, senza un pezzo di carta che attesti chi siano e che cazzo vogliano da noi… Brutti nel corpo e nell’anima, sporchi nella dignità e nelle speranze, cattivi nella mente e nel cuore, sbarcano e si sentono padroni feroci. Anche delle nostre esistenze, che qualcuno gli presenta in dono. Ma noi non ci stiamo. Noi siamo l’Italia che non ci sta! Siamo Coloro i quali li spazzeranno via. Li costringeranno a tornarsene nei loro lontani covi malandrini, dai quali sono scappati non certo per persecuzioni o carestie, ma per codardia o colpevolezza. Ribellarsi all’invasione è un dovere. Ribellarsi alla malapolitica e alla sopraffazione massona è un diritto. Allontanare l’antiCristo è un obbligo, che ci viene dal nostro Signore. Che si chiama Gesù e non UE. Basta prendere schiaffi! Ognuno di noi cominci a lavorare nel proprio piccolo territorio. Non li chiamiamo più, i clandestini, per pulire il giardino o scaricare la legna per dieci euro. Non li chiamiamo più per svuotare le cantine. Non li copriamo più coi nostri vestiti ancora nuovi. E neanche con quelli lisi, se mai ne avessimo. Prima di consegnare un chilo di pasta o un barattolo di pelati, guardiamoci intorno: magari c’è una famiglia italiana che non ne ha da mesi…Apriamo, spalanchiamo le porte a Cristo, come diceva qualcuno. Prima che a Maometto, aggiungerei. E scegliamoci veri e buoni amministratori, che sappiano e vogliano difendere confini e territorio, dignità e avvenire della nostra Italia. L’Italia è gli Italiani. Non tutti gli italiani sono l’Italia. Fra me e me.
Il poliziotto racconta: “L’accoglienza un business dei poteri forti. E chi parla viene fatto fuori dal sistema”, scrive Mattia Sacchi il 22 agosto 2016 su “Il Mattino On Line”. E’ uno dei poliziotti più famosi d’Italia, grazie alle sue denunce pubbliche su quanto succede nei centri d’accoglienza e nelle procedure per identificare i migranti. Daniele Contucci, assistente capo della Polizia di Stato in forza presso la Direzione centrale immigrazione e Polizia delle Frontiere, ora dirigente sindacale Consap, racconta quanto visto negli sbarchi di migranti sulle coste italiane.
Daniele Contucci, lei è stato in prima linea durante l’emergenza immigrazione…
«Ho fatto parte dell’URI. Si trattava di un’unita il cui obiettivo era quello dell’impiego in tutte le emergenze di immigrazione. Facevamo interviste a tutti i migranti che duravano circa 20 minuti e durante le quali ricostruivamo tutto il loro trascorso: tra cui le generalità, il percorso fatto per arrivare fino all’Italia e se avevano ricevuto ritorsioni nel loro paese d’origine. Successivamente, i dati venivano inviati in un database che veniva girato alla commissione territoriale la quale decideva se concedere l’asilo politico».
Lei ha visto da vicino il Cara di Mineo, uno dei più grandi centri richiedenti l’asilo d’Europa…
«Un centro in grado di ospitare 4000 richiedenti, ognuno dei quali ha un costo giornaliero di circa 37 euro, di più se il richiedente è minorenne. Potete quindi immaginare il tipo di business, per non dire altro, che ci sia dietro. Centinaia di persone che lavorano all’interno del centro, quindi un indotto economico enorme per l’entroterra siciliano. Con tutti gli interessi del caso e gli scambi clientelari. La task force di cui facevo parte riusciva a ridurre i tempi di permanenza di un anno. Successivamente l’unità è stata demansionata e chiusa, chissà perché…»
I migranti che ha incontrato le davano tutti l’impressione di scappare da qualcosa?
«Assolutamente no! Abbiamo avuto a che fare con tante persone dal passato tragico, ma anche da tanti migranti che si capiva sin da subito che avevano altri obiettivi. D’altronde i numeri parlano chiaro: nel 2014 sono arrivati in Italia 172mila migranti. Di questi solo il 10% riconosciuto lo status di asilante politico, per un totale di 36mila migranti a cui è stato riconosciuto un titolo per stare sul territorio europeo. Tutti gli altri avrebbero dovuto rimpatriare e invece la maggior parte è sparita nel nulla».
Lei è conosciuto anche per essere stato il primo a denunciare casi di turbercolosi e malattie infettive…
«Durante un’operazione di sbarco migranti nel Porto Augusta nel giugno 2014, siamo stati un giorno e mezzo a trattare con 1.200 persone, di cui 66 con la scabbia e altri con la tubercolosi. Ma, contro ogni procedura, siamo stati mandati allo sbaraglio con delle semplici mascherine e guanti in lattice. Io ho un figlio che all’epoca era appena nato e, per paura di non contagiarlo, non l’ho incontrato per un mese e ho fatto degli esami privati per accertarmi di non aver contratto alcuna malattia infettiva. Potete immaginare la frustrazione nel non poter vedere il proprio figlio crescere nei primi mesi di vita. Allora ho voluto denunciare questa situazione assurda che metteva i poliziotti a serio rischio».
Aveva paura delle malattie che si potevano contrarre?
«Certamente. Salivamo e scendevamo dalle navi senza le protezioni necessarie, incontrando persone che magari avevano malattie infettive. Finché si trattava di scabbia poteva essere fastidiosa ma non grave. Ma con la tubercolosi si può morire e soprattutto si rischia di contagiare i propri cari. Cosa avrei fatto se mio figlio avesse contratto una malattia del genere? Non me lo sarei mai perdonato, il solo pensiero era terribile».
Le sue denunce hanno portato a qualcosa?
«Prima le visite mediche duravano pochi minuti, adesso sono fortunatamente più approfondite, anche se non abbastanza. Proprio qualche giorno fa è stato trovato nella provincia di Como un migrante con una diagnosi di scabbia riscontrata pochi giorni prima nel Meridione d’Italia, senza sapere se aveva effettuato la profilassi del caso. Questi sono pericoli per la salute pubblica. Ma non è l’unico problema nelle procedure con i migranti in Italia».
Cosa intende dire?
«La mancata fotosegnalazione dei migranti ha creato dei grandissimi problemi. Io sono stato il primo a denunciare queste manchevolezze, che impedivano il rispetto dei trattati di Dublino. Molti di questi migranti evitavano di farsi fotografare, con la compiacenza delle autorità italiane: parliamo di 100mila persone non fotosegnalate tra il 2014 e il 2015. Magari alcuni di loro sono terroristi o legati ad associazioni dai fini criminali. Anche se fosse solo uno su mille sarebbe una cosa gravissima dalla portata decisamente pericolosa con evidenti responsabilità dei vertici governativi e di sicurezza».
Le sue denunce le hanno portato ripercussioni sul posto di lavoro?
«Solo problemi e ritorsioni. La nostra sezione è stata ufficialmente chiusa, noi demansionati dai nostri incarichi. Io lavoro a Roma e hanno cercato ad ogni modo di convincermi a far domanda di trasferimento, situazione comoda vista la lontananza da un ufficio centrale di importanza così rilevante. E anche i colleghi che prima mi sostenevano sono piano piano spariti, lasciandomi solo contro tutti. Chissà se qualcuno di loro comprato?»
La politica si è però interessata a lei e al suo caso…
«La Lega Nord aveva presentato delle interpellanze sui casi da me denunciati, ma quando il gioco ha cominciato a farsi più serio sono spariti anche loro. Forse gli interessi che ho toccato sono troppo grandi. Poi ho accettato la candidatura al Consiglio comunale a Roma con Fratelli d’Italia: se avesse vinto la Meloni forse avrei fatto parte del Consiglio comunale per continuare a lottare affinché giustizia, verità e libertà trionfino contro la casta e il malaffare legato al business dell’immigrazione».
Quindi cercava anche lei la poltrona…
«Ma per niente! Solo che in questa situazione è praticamente impossibile proseguire in Polizia il mio lavoro di verità e giustizia. Ricoprendo un incarico politico elettivo rinuncerei a qualsiasi euro in più rispetto alla mia ultima busta paga a dimostrazione del mio disinteresse economico. Lo avrei fatto solo per continuare la lotta contro la delinquenza, ovunque essa sia».
Come valuta la situazione a Como?
«E’ una situazione molto particolare. I migranti che arrivano vogliono passare il confine svizzero. Solo che se entrano in Svizzera e non sono stati fotosegnalati prima in Italia è più difficile accertare il primo paese di approdo per poi esser riaccompagnati alla frontiera. Ma comunque dalle interviste delle polizie locali si risale poi ai fatti e quindi rispediti lo stesso in Italia. A questo punto è giusto che le Guardie di Confine siano li per garantire la sicurezza del loro popolo, visto anche il concreto rischio terrorismo».
Ma l’Italia ha colpe in tutto questo?
«Direi proprio di si. I trattati di Dublino probabilmente penalizzano l’Italia, ma la soluzione non è non identificare i migranti. Durante il semestre di presidenza europeo, l’Italia poteva far qualcosa su questo fronte ma in realtà, nonostante i proclami, non si è fatto nulla. Un’immigrazione controllata e integrabile può essere sana, ma non è certo questo il caso».
“Immigrazione integrabile”. Ritiene che molti immigrati rifiutino di integrarsi?
«Chiedete alle donne poliziotte quando alcuni migranti di sesso maschile si rifiutavano di rilasciare le dovute interviste. Già questo indicativo della differenza di mentalità».
Cosa pensa di Mare Nostrum e Triton?
«Mare Nostrum è stata un’operazione italiana dai costi incredibile che ha fatto il gioco degli scafisti, visto le regole d’ingaggio che permettevano di arrivare a 10 miglia dalle coste libiche. Mentre Triton, sotto Frontex e tutt’ora in atto, ha come obiettivo salvaguardare le coste e arrestare gli scafisti con l’ingaggio a 30 miglia dalle coste libiche. Un migrante prima di queste missioni pagava 2-3 mila euro per il viaggio verso l’Italia, successivamente solo 700-800 perché ovviamente i rischi, sempre altissimi, sono diminuiti con Mare Nostrum. Bisogna arrivare alle origini del fenomeno, facendo lavorare le diplomazie. All’estero ci sono consolati e ambasciate italiane: si potrebbe gestire la cosa nei paesi d’origine organizzando e gestendo le richieste d’asilo direttamente presso le nostre diplomazie all’estero. In quel modo la gente potrebbe sapere che c’è una strada normale e ordinaria per arrivare in Italia e si toglierebbe un business mortale dalle mani dei trafficanti di esseri umani. Poi servirebbe un’operazione cuscinetto sotto l’egida dell’Onu creando dei campi sosta per selezionare da lì i richiedenti asilo. Accompagnando inoltre corridoi umanitari per le popolazioni effettivamente in guerra come la Siria o Libano. Purtroppo invece si preferisce la politica delle lacrime di coccodrillo e delle morti annunciate».
Nonostante le ritorsioni, continuerà a denunciare i malfunzionamenti delle politiche migratorie?
«Certo, continuerò a lottare da uomo libero quale sono e non mi fermerò di fronte ad alcuna ritorsione o minaccia. Racconterò i fatti, nella convinzione che molti apriranno gli occhi…»
Mario Giordano su “Libero Quotidiano” del 19 agosto 2016: la verità è che gli immigrati non vogliono lavorare. Lavoro? Non ce n' è, perciò noi lo diamo ai profughi. È un'idea geniale quella del governo, avanzata tramite il capo dell'Immigrazione, prefetto Mario Morcone. Un' idea candidata ufficialmente al Premio Oscar della Stupidaggine 2016. E del resto solo chi sta gestendo l'accoglienza nel modo delirante che abbiamo sotto gli occhi, con piccole frazioni invase da centinaia di immigrati e cooperative improvvisate che si riempiono le tasche di soldi, poteva partorire una scemenza di tale portata. E solo chi sta cercando disperatamente un diversivo per celare la propria incapacità poteva lanciarlo a nove colonne sul Corriere della Sera come una vera proposta su cui far discutere il Paese. Intanto, per prima cosa, va detto che se questa è una novità anche Matusalemme potrebbe passare per un neonato. Di Comuni che negli ultimi mesi hanno cercato di impiegare i sedicenti profughi in lavoretti vari, infatti, se ne contano a bizzeffe: a Belluno gli immigrati hanno ridipinto le ringhiere, a Vicenza hanno pulito i parchi, a Castello d' Argile hanno fatto lavoretti nell' asilo, a Lucca si sono occupati della manutenzione della via Francigena, in Val Bormida hanno tolto i rami dai fiumi, ad Arezzo e Vittorio Veneto si sono occupati di giardinaggio, a Genova si sono trasformati in archivisti al Museo Doria… Il problema, piuttosto, è che "lavorare" per molti aspiranti profughi è una parola grossa, la questione non è tanto trovare loro un'occupazione quando ottenere che la svolgano. Evidentemente mangiare a sbafo, per molti, è assai più comodo… Il prefetto Morcone, dunque, dimostra ancora una volta di non conoscere la realtà che dovrebbe amministrare perché propone un'idea che non solo è vecchia come il cucco, ma che già mostra la corda in tutto il Paese per manifesta inapplicabilità. Probabilmente, come dicevamo, lo fa soltanto per creare un diversivo in mezzo alle polemiche. Ma quello che è grave è l'idea devastante che questa proposta rivela, la concezione mortale della nostra società che si nasconde dietro di essa. Lo si capisce perfettamente quando il giornalista del Corriere chiede al prefetto Morcone: «E gli italiani che non hanno lavoro?», e lui risponde sprezzante: «Io mi occupo di immigrati». Chiaro, no? Lui si occupa di immigrati. È giusto che gli immigrati abbiano vitto, alloggio, i soldi per il telefono e ora anche il nostro lavoro. E gli italiani? Che restino disoccupati. Che muoiano pure di fame. Oppure, se preferiscono, che spariscano dall' Italia. Sia chiaro, lo ripetiamo per non essere fraintesi. In sé l'idea di togliere i clandestini dai muretti dove bighellonano da mane a sera non è priva di qualche fascino. Vedere schiere di giovani baldi e forti (a proposito: perché i sedicenti profughi che arrivano in Italia sono tutti baldi e forti?) che ciondolano nullafacenti negli hotel quattro stelle in attesa del pranzo e della cena (che contestano se non è di loro gradimento) o bivaccano sulle panchine smanettando sugli smartphone di ultima generazione (a proposito: perché i sedicenti profughi che arrivano in Italia hanno tutti smartphone di ultima generazione?), magari provocando risse, furti, scippi e altri guai, non è piacevole. Di qui è ovvio che qualche sindaco si lasci tentare: perché, almeno, non facciamo fare loro qualcosa? Ma dev' essere chiaro che se un immigrato fa (gratis o sottopagato) il giardiniere o il cantoniere o l'archivista, evidentemente toglie il posto a un italiano, che quel lavoro non lo può fare gratis né sottopagato per il semplice motivo che a lui quei soldi servono per vivere perché non c' è nessuno che lo mantiene, a differenza dell'immigrato. Dunque ci sarà un operaio disoccupato in più, una piccola azienda che perde la commessa, un artigiano senza lavoro. E allora vi sembra logico che un italiano paghi le tasse (e tante) per mantenere in Italia profughi che vivono a sbafo e poi portano via pure il posto di lavoro? Non è un circolo perverso, una spirale mortale, un tunnel che porta al nulla? Questo è quello che è successo finora: lo Stato dà i soldi ai profughi e affama i sindaci, i sindaci affamati dallo Stato si fanno tentare dall' utilizzare manodopera gratis, e alla fine chi è che paga il conto? I lavoratori italiani, ovviamente. Quelli che hanno sempre pulito le strade, riparato le strade, verniciato le ringhiere. E che ora lo fanno sempre meno. Per la crisi, si capisce. Ma anche per la concorrenza sleale di chi può lavorare gratis perché mantenuto. Ancora più grave, poi, se tutto ciò avviene non per lavori di pubblica utilità, ma in attività private, come accadde l'anno scorso alla festa del Pd di Reggio Emilia. Qui lo sfruttamento è totale e non ha nemmeno l' alibi del servizio alla collettività… Che ora lo Stato, attraverso il capo dell' Immigrazione, proponga questo come sistema generale è preoccupante perché dimostra il modello di società che hanno in mente, che si basa per l' appunto sullo sfruttamento totale, una cosa che arriva quasi a sfiorare la moderna schiavitù: l' invasione programmata di clandestini serve infatti ad abbassare fino all' annullamento i diritti dei lavoratori e la loro retribuzione, fino a considerare cioè la retribuzione non come la giusta ricompensa ma come un "di più", una mancetta da elargire insieme a un tozzo di pane e a un posto letto improvvisato. Vi siete mai chiesti, per esempio, perché a Rosarno non si riesca a eliminare l'eterna tendopoli dei clandestini? Semplice: perché serve manodopera a bassissimo costo per i caporali che reclutano lavoratori per i campi. E gli italiani, se vogliono lavorare, devono adeguarsi a quelle condizioni, come in effetti già stanno facendo. Ecco il modello Morcone è una specie di maxi-caporalato esteso a livello nazionale, una Rosarno moltiplicata per mille: diffondo lavoro sottopagato per costringere gli italiani ad adattarsi, oppure ad emigrare. Un progetto devastante che si nasconde dietro il volto gentile dell'integrazione, del "non possiamo lasciarli abbruttire", dei "meccanismi premiali" e dei "comportamenti virtuosi". Tutte parole inutili per nascondere due verità semplici che il prefetto Morcone, ovviamente, si guarda bene dal dire. La prima verità: quelli che bivaccano nei nostri centri di accoglienza nella maggioranza non sono profughi, ma "richiedenti asilo". Cioè sono persone che chiedono una cosa di cui non hanno e non avranno diritto. E dunque (seconda verità) l'unico modo per non farli bivaccare o abbruttire o bighellonare non è dar loro un lavoro togliendolo agli italiani. Ma è rispedirli subito nel loro Paese. Senza farne entrare altri. Mario Giordano
I trecento cristiani perseguitati dagli islamici in Puglia, scrive il 20 agosto 2016 “Libero Quotidiano”. Fedeli cristiani segregati in Italia, costretti a celebrare messe clandestine, Crocifissi nascosti per evitare che vengano distrutti, bruciati da fanatici islamici. Tutto questo nel Gargano, a 40 km dalla tomba di San Padre Pio in Puglia. La storia, incredibile, la racconta Cristiano Gatti sull'Espresso e Repubblica ne anticipa una parte. Si tratta di 300 immigrati africani, lavoratori stagionali dei campi di pomodoro, che vivono in una vera e propria bidonville sotto costante minaccia di musulmani che vengono da fuori: "Abbiamo paura, sì. Da due anni la domenica preghiamo tra di noi senza farci vedere". Di fatto il ghetto di Rignano Garganico è la riproposizione su piccola scala dei drammi della Nigeria e di altri Paesi africani dove i cristiani vengono perseguitati, picchiati, uccisi. "La bidonville aumenta di 10 nuovi arrivati ogni 24 ore. Ha già superato il record di 2mila abitanti e, con la raccolta dei pomodori, si avvia verso i 3mila. Troppa manodopera. Il risultato è che trovano lavoro per non più di 3 o 4 giorni al mese". I racconti dei cristiani sono atroci. Un nigeriano custodisce una croce, due legnetti di fortuna legati insieme alla bell'e meglio: "L'abbiamo fatta con i resti della baracca della fedele che ogni domenica ospitava la messa. La baracca l'hanno bruciata una notte di due anni fa. Poi qualcuno ci ha fatto capire che, se non volevamo altri incendi, non dovevamo pregare davanti ai musulmani. Anzi non dovevamo proprio farci vedere. Noi cristiani siamo una minoranza. Trecento contro duemila, troppo pochi. Così per paura abbiamo dovuto rinunciare alla messa. Solo a Pasqua abbiamo chiesto che venisse un prete. Almeno a Pasqua. Per il resto, preghiamo di nascosto. Loro hanno 3 moschee qui. Ma nessuna baracca può essere usata come chiesa". "I braccianti musulmani sono solidali con noi", spiega, rivelando che i persecutori sono "spie dei caporali", africani anche loro, che per ora non hanno dichiarato la loro vicinanza a Boko Haram o Isis. Ma l'intolleranza sta aumentando anche nel ghetto, con l'arrivo di nuovi immigrati: "Oggi ci dicono che non vogliono vedere croci o immagini di Gesù. Papa Francesco dovrebbe venire qui e scoprire con quanta fatica viviamo".
Apocalisse in Puglia, un pezzo del Paese oltre ogni umanità. Una spaventosa baraccopoli arsa dal sole e dal degrado. Clan di schiavisti in guerra. Migranti islamici che bruciano le croci di quelli cristiani. Violenze, minacce, agguati. A Rignano Garganico è la peggiore estate di sempre, scrive Fabrizio Gatti su "L'Espresso" il 22 agosto 2016. L’ultima messa l’hanno celebrata a Pasqua. La penultima non se la ricordano nemmeno. Nella torrida pianura ai piedi del Gargano, a 40 chilometri dalla tomba di San Padre Pio, c’è una bidonville di oltre duemila abitanti dove trecento cristiani vivono segregati. La misera baracca, in cui ogni settimana un padre missionario veniva a santificare le domeniche, l’hanno bruciata una notte di due anni fa. Dai resti del luogo di preghiera hanno costruito un crocifisso per ricordare l’aggressione: due moncherini di legno carbonizzato, legati insieme da un nastro di plastica nero ricavato dai tubi che irrigano i campi di pomodoro. La croce adesso la conservano nascosta sotto uno scaffale. Non se la sentono di esporla. Hanno paura di nuovi attacchi: «Abbiamo paura, sì. La domenica preghiamo tra di noi senza farci vedere fuori». La vita dei braccianti nelle campagne della provincia di Foggia è già difficile. Ma per i trecento cattolici africani, isolati in mezzo alla maggioranza musulmana del Ghetto di Rignano Garganico, lo è molto di più. Il Ghetto di Rignano è un valico in uscita. Quando le rotte carsiche verso l’Europa si chiudono, qui la baraccopoli si riempie. È la capitale delle bidonville nostrane. La più grande. Un termometro del clima sociale. Dovrebbero ammetterlo gli italiani che vorrebbero seguire la Brexit: finora ci hanno salvato le frontiere aperte, cioè l’Unione Europea. Dei 170 mila profughi sbarcati in Italia nel 2014, centomila hanno continuato il viaggio verso Nord. Se ne sono andati anche un po’ dei 153 mila arrivati nel 2015. Ma la grande maggioranza e i novantamila che si sono finora aggiunti quest’anno non hanno alternative. Si dovranno accontentare dell’Italia, anche se non piace. L’Austria prima, poi la Francia e la Svizzera non li lasciano più passare. È la nuova fase dell’immigrazione, la più maledetta: dalla chiusura delle frontiere europee dobbiamo cavarcela da soli. E le premesse non sono buone. Nel 2015 sui 29.698 stranieri riconosciuti come rifugiati e transitati nei progetti Sprar, il sistema di protezione italiano, soltanto 1.972 sono usciti dal percorso con un contratto di lavoro. E il 32 per cento dei progetti non ha portato a nessuna assunzione (dati Atlante Sprar). Normale, con un tasso di disoccupazione nazionale al 12 per cento. Ma l’Africa continua a partire al di là del mare. E quasi mai i nostri ministri la vanno ad ascoltare. Il 25 maggio il sottosegretario all’Interno, Domenico Manzione, è atterrato in Niger, snodo cruciale lungo la rotta del deserto verso la Libia. La sua missione è durata solo un pomeriggio. Pochi giorni prima Francia e Germania avevano inviato contemporaneamente i loro ministri degli Esteri. E insieme, con il governo di Niamey, hanno avviato una collaborazione ad alto livello che riguarda anche noi. Ma senza di noi. La frontiera che porta alla bidonville di Rignano è diversa da quelle di Ventimiglia, Ponte Chiasso o del Brennero. Il Ghetto, così lo chiamano senza giri di parole i suoi abitanti, sorge al di là di un confine interiore. È il valico dentro ciascuno di noi tra la decenza e l’indecenza, la democrazia e il caporalato. Dopo il tour nei centri ordinari e straordinari per richiedenti asilo, un periodo variabile tra nove mesi e due anni e aver tentato inutilmente di entrare in Francia o in Germania, i profughi riappaiono qui. Non fa differenza se hanno o non hanno ottenuto un qualsiasi tipo di permesso di soggiorno. Tanto, là fuori, di lavoro regolare non ce n’è più. E qui dentro perfino i capineri, i caporali africani, i kapò del nostro tempo, fanno fatica a soddisfare tutti. Dieci anni fa il rapporto era di un caponero ogni dieci, venti braccianti. Quest’anno siamo a uno ogni cento. Troppa manodopera. Il risultato è che si lavora non più di tre o quattro giorni al mese. Il resto delle settimane si sopravvive con la solidarietà tra connazionali, un piatto di riso al giorno, un morso di carne arrostita regalato dal vicino di baracca. La bidonville aumenta di dieci abitanti ogni ventiquattro ore. Il Ghetto ha già superato il record di duemila persone e con la raccolta dei pomodori si avvia verso quota tremila. Il governatore della Puglia, Michele Emiliano, ha ottenuto dal prefetto lo sgombero. Stanno studiando dove trasferire gli abitanti. Un pericoloso azzardo, in piena stagione di raccolto. Ci avevano provato già in passato. Ma le alternative offerte si limitavano a spiazzi sperduti. Così la bidonville ogni volta è risorta: la sera, di ritorno dal lavoro nei campi, è meglio l’intimità di una casa di legno e cartone, piuttosto che l’ipocrita benevolenza delle tendopoli e dei container di Stato. Adesso le autorità ci riprovano. Magari sgomberassero l’economia locale dal piglio criminale di molti imprenditori. Prendete l’esempio di Franco Valenzano, agricoltore di Borgata Arpinova a Foggia. L’anno scorso il Tribunale l’ha condannato a risarcire 19.595 euro di arretrati non pagati a uno dei suoi schiavi, un geometra del Burkina Faso, padre di tre figli, arrivato in Italia in aereo nel 2009 con un visto di lavoro. Valenzano non ha fatto ricorso in Appello. Dopo quasi un anno dalla sentenza semplicemente continua a non pagare. E anche il suo ex dipendente è precipitato in una baracca del Ghetto. In mezzo a questa arroganza italiana perfino l’eredità sindacale di Giuseppe Di Vittorio diventa un privilegio. Meglio un caporale subito e dodici ore di fatica a venti euro al giorno. «Padrone mio... damme li botte», supplica la triste canzone del compositore foggiano Matteo Salvatore. «Questa è la croce bruciata», dice sottovoce il bracciante nigeriano che la custodisce. La prende dallo scaffale. La mostra cauto, come fosse una sacra reliquia. E lo è. «L’hanno benedetta due volte. L’abbiamo fatta con i resti della baracca della fede che ogni domenica ospitava la messa. La baracca l’hanno bruciata una notte di due anni fa. Lei per fortuna non c’era. Poi qualcuno ci ha fatto capire che se non volevamo altri incendi non dovevamo pregare davanti ai musulmani. Anzi non dovevamo proprio farci vedere. Noi cristiani siamo una minoranza. Siamo del Togo, del Ghana, noi nigeriani. Trecento contro quasi duemila, troppo pochi. Così per paura di altri incendi abbiamo dovuto rinunciare alla messa. Solo a Pasqua abbiamo chiesto che venisse un prete. Almeno a Pasqua. Per il resto, preghiamo di nascosto. Loro hanno tre moschee qui. Ma nessuna baracca può essere usata come chiesa». Chi sono quelli che vi hanno fatto capire? «No, non facciamo nomi. Sono spie dei caporali, africani che non vivono nel Ghetto, vengono da fuori. Poche persone, ma stanno seminando paura. No, no, nessuno si è mai dichiarato a favore dei terroristi di Boko Haram o dello Stato islamico. I braccianti musulmani sono perfino solidali con noi. Con loro i rapporti sono buoni. Ma negli ultimi due anni è arrivata tanta gente nuova. E molti di loro non sembrano così tolleranti». Una sera di febbraio un altro incendio, partito da una stufa a gas, ha distrutto la baraccopoli. «Abbiamo messo in salvo le nostre cose, la batteria, il pannello solare. Ma mentre stavamo tentando di spegnere il fuoco, ce le hanno rubate. Anni fa nessuno ti chiedeva di che religione sei. Ora ci dicono che non vogliono vedere croci o immagini di Gesù. Papa Francesco dovrebbe venire qui e scoprire con che fatica viviamo». Gli immigrati che hanno costruito il Ghetto una decina di anni fa erano cresciuti nella speranza laica e socialista di Thomas Sankara. E anche l’emigrazione era vissuta come lo strumento necessario per finanziare il riscatto scolastico dei propri figli, rimasti con le mamme in Africa. I ventenni che sbarcano ora non sanno che farsene di Sankara, nemmeno di Nelson Mandela. Gran parte di loro ha trascorso anni a ciondolare il capo leggendo ad alta voce versetti nelle madrase coraniche, pagate dall’Arabia Saudita lungo tutto il Sahel. La lingua internazionale dei più giovani appena arrivati nella bidonville non è più il francese o l’inglese, ma l’arabo. Sono i figli dei patti di stabilità imposti dalle istituzioni mondiali agli Stati africani: tagliare la spesa, in cambio di aiuti. Così hanno tagliato le scuole statali. E a riempire il vuoto è piovuto dal Golfo l’imperialismo wahhabita, il razzismo religioso che sta sconquassando il mondo, finanziato dagli stessi emiri che in Europa comprano squadre di calcio, interi quartieri e compagnie aeree. Il tramonto adesso allunga le ombre. E nonostante le minacce alla comunità cristiana, la baraccopoli di Rignano sembra correre nella direzione opposta. I genitori musulmani consegnano senza remore i pochi bambini a don Vincenzo, giovane missionario scalabriniano, che con i suoi volontari viene fin qui qualche ora alla settimana a insegnare italiano. Per adescare i raccoglitori di pomodori sono accorse da Napoli le maman nigeriane con ragazze giovanissime da far prostituire nei bar improvvisati ovunque. E anche quest’anno una rete di studenti da tutta Italia si dà il cambio per mantenere accesa Radio Ghetto, davanti all’autoproclamato imam senegalese dell’autocostruita moschea di legno e cellophane, che al di là del spiazzo di polvere passa e saluta. Sotto sotto però, la delusione, il sovraffollamento, l’infiltrazione delle gang hanno rotto l’equilibrio. A fine luglio un bracciante del Mali, Ibrahim Traoré, 34 anni, viene ucciso a coltellate da un ivoriano di 26 anni, poi arrestato dai carabinieri. Pochi giorni dopo, un ladro sorpreso a rubare 300 euro, rischia il linciaggio. Lui si chiude in una baracca. Da fuori impugnano bastoni chiodati. «Bagnatelo tutto che lo colleghiamo all’elettricità», gridano i rivali assatanati. Ritornano i carabinieri e la sera alcuni connazionali che li hanno avvertiti passano un brutto quarto d’ora. Quando ormai è buio, telefonano da Lampedusa per raccontare della visita al campo profughi dell’europarlamentare di “Possibile”, Elly Schlein, accompagnata dall’avvocato Alessandra Ballerini della rete “LasciateCIEntrare”. È un altro passo dentro i confini dell’indecenza: 350 stranieri rinchiusi, venti donne, sei bambini piccoli, dieci minori, e solo otto docce (una ogni 43 persone), dodici turche in condizioni pessime (una ogni 29), wc inagibili e niente doccia nel settore minori, dormitori di lamiera rovente e mai un ricambio per i materassini di gommapiuma su cui dormono senza lenzuola i malati di scabbia. Eppure Lampedusa è diventata un “hotspot” europeo. Bruxelles ha inviato una palata di soldi all’Italia che una gara d’appalto ha girato alla “Confederazione nazionale delle Misericordie”, l’associazione cattolica che l’ha vinta. Fine della telefonata. A pochi passi da un disoccupato di Foggia che vende patate dal bagagliaio della sua macchina, gli ultimi inquilini del Ghetto portano notizie del mondo di fuori. Dicono che la polizia adesso fa scendere a Genova i neri che salgono sui treni per Ventimiglia. E sorridono spiegando che aerei pagati dal ministero dell’Interno riportano in Sardegna i rifugiati sgomberati dal confine francese. Qualcuno di loro ha già fatto su e giù addirittura quattro volte: sì, nel caos del prossimo autunno, finiremo con i gommoni che scappano da Olbia per sbarcare a Sanremo.
Migranti, in centomila sono scomparsi. La grande fuga dopo lo sbarco. Mentre bruciamo miliardi per l’accoglienza. Senza riuscire ad aiutarli, né a controllarli. Cosi in 104.750 sono sfuggiti ai controlli. Scappano anche davanti ai militari. Che non intervengono: in esclusiva le immagini di Bari, scrive Fabrizio Gatti il 21 gennaio 2015 su "L'Espresso". Lo Stato c’è, eccome. Il Tricolore sventola nella brezza. Il cartello giallo sulla rete avverte: «Zona militare. Divieto di accesso. Vigilanza armata». La camionetta dell’esercito con i due soldati di ronda arriva puntuale. Davanti ai loro occhi, sette tra africani e asiatici non si scompongono. Scavalcano i quattro metri e mezzo di recinzione. Scappano dal Cara di Bari, il Centro di accoglienza per richiedenti asilo. Uno di loro è vestito da talebano: caffetano bianco, berretto afghano sulla testa, barba e capelli lunghi. Forse è per questo che per uscire non passano dalla portineria. I militari guardano e non si fermano. La camionetta tira dritto, sempre a passo d’uomo. Sono le 10.30 di mercoledì 14 gennaio. La grande fuga continuerà per tutta la mattinata. Ma era così anche dieci minuti fa, un’ora fa, stamattina presto, stanotte, ieri sera, ieri pomeriggio, ieri mattina. Decine e decine di stranieri fuggono a ogni ora del giorno e della notte dal centro che dovrebbe registrare la loro presenza in Italia. Altri profughi, sbarcati addirittura nel 2011, a Bari usano il Cara per mangiare, dormire, farsi la doccia. Loro si arrampicano sulla recinzione due volte al giorno. Andata e ritorno. Hamid, 35 anni, bengalese, richiesta di asilo respinta, fa questa vita da due anni: esce la sera per andare a lavare i piatti in una pizzeria, la mattina rientra. Non importa se non è registrato. Perfino gli imam, quelli autoproclamati che nessuna moschea ufficiale riconosce, entrano a predicare il loro Islam. E, quando hanno finito, escono indisturbati. Eccone due. Si calano dalle sbarre di ferro del perimetro, lato Sud. La camionetta dell’esercito riappare dietro di loro e, puntuale, tira dritto. Sempre a passo d’uomo. Lo Stato c’è. Ma è di burro. Non solo a Bari. Accoglienza all’italiana. La strage di Parigi ha fatto risuonare l’allarme terrorismo. I rifugiati non sono criminali. Ma in tempi di massima allerta, registrare l’identità di chi entra in un Paese è il minimo indispensabile. Per avere il quadro della situazione, prevenire i rischi. Ecco, già questo elementare calcolo è impossibile: perché nel 2014 ben centomila dei 170 mila profughi arrivati in Italia sono scomparsi da ogni forma di monitoraggio. Fantasmi di cui non si sa più nulla. Nella maggioranza dei casi, nemmeno la vera identità: soccorsi in mare e contati, una volta arrivati a terra sono stati lasciati fuggire. Proprio come a Bari. Quasi sempre prima di essere identificati. Sono dati ufficiali del ministero dell’Interno. Le crisi umanitarie nell’area del Mediterraneo e l’operazione «Mare nostrum» hanno quasi triplicato il record nazionale del 2011:170.816 profughi arrivati nel 2014 contro i 64.261 di quattro anni fa. Nell’ultimo anno, però, soltanto 66.066 risultano registrati e ospitati nei centri. Significa cioè che104.750 stranieri sbarcati nel 2014 sono ora al di fuori di qualunque controllo. Colpiscono anche le cifre suddivise per origine. Siria: su 51.956 sbarcati nel 2014, solo 505 hanno richiesto protezione in Italia. Eritrea: su 43.865, solo 480. Somalia: su 8.152, solo 812. Il resto? Spariti. Rimangono i profughi partiti da altri Stati africani. Nigeria: 10.138 le domande d’asilo nel 2014. Gambia: 8.556. Mali: 9.771 su 11.119 sbarcati. Gran parte di siriani, eritrei e somali è andata ad alimentare il record di arrivi in Germania e Svezia. Moltissimi però vengono rimandati indietro. Oppure non escono dai nostri confini. Vanno ad aggiungersi alle migliaia di loro connazionali, in Italia dal 2011 o anche da prima, che non hanno mai ottenuto un permesso di soggiorno, o se l’hanno ricevuto non hanno più un lavoro regolare. Tremila di loro vivono a Roma: per strada, sotto i portici della stazione Termini o in case e uffici abbandonati. Nessun mezzo di sostentamento se non le mense di beneficenza. E, per qualche centinaio di africani, lo spaccio al Pigneto, il quartiere di Pier Paolo Pasolini. Altri cinquemila si stimano nelle province di Napoli e Caserta. Settecentocinquanta all’ex villaggio olimpico di Torino. Cinquecento al Ghetto di Rignano Garganico: la baraccopoli di braccianti e caporali nella campagna foggiana per la prima volta non si è svuotata, anche se è pieno inverno e in giro non c’è niente da fare. Centinaia dormono in ripari di cartone e container intorno ai centri statali per richiedenti asilo. Come Borgo Mezzanone, vicino a Foggia, o Pian del Lago, a Caltanissetta: una volta usciti dai Cara, con il permesso di soggiorno o il respingimento in tasca, le persone si spostavano a cercare lavoro. Adesso no: è più sicuro rimanere nelle vicinanze e attraverso la recinzione elemosinare un pasto a chi ha ancora diritto all’accoglienza di Stato. Insicurezza alimentare, la chiamano. Ci si aiuta così. L’Italia in recessione crea mille disoccupati ogni giorno. Nel frattempo avrebbe dovuto assimilare 291.247 nuovi cittadini: tanti quanti ne sono sbarcati dal 2011 al 2014. Il sogno infranto dalla crisi. Per noi. Per loro. “L’Espresso” è andato a cercarli. Dal Piemonte alla Sicilia. Dalla Calabria al Friuli. Ritorna una parola da decenni scomparsa dal vocabolario delle nostre strade: fame. L’alimentazione tipo la descrive Isaac Kumih, 32 anni, partito dal Ghana e incagliato nei prefabbricati di lamiera sulla pista della vecchia base militare di Borgo Mezzanone, quattro materassi in una stanza: «Una fetta di pane secco e una tazza di tè la mattina, un piatto di semolino la sera. Ho raccolto pomodori in agosto: 550 euro. Mi devono ancora pagare. Non posso permettermi il pranzo». Un alto funzionario della polizia italiana si lamenta perché alla frontiera del Brennero i colleghi austriaci rimandano indietro gli eritrei: «Sono spesso ragazzi cresciuti nei campi profughi». Ma si tengono i siriani diplomati e laureati. Non è solo cinismo. Quei titoli di studio in Italia andrebbero probabilmente sprecati. Mohanad Jammo, 42 anni, medico di Aleppo fuggito dalla guerra in Siria e poi dalla Libia in fiamme, è sopravvissuto con la moglie e la figlia di 5 anni al naufragio dell’11 ottobre 2013. Il più grande e il più piccolo dei loro bambini sono scomparsi in mare. Da Malta, la famiglia Jammo è stata accolta in Germania. Destinazione, un appartamento affittato dal sistema federale a due ore da Francoforte e un contributo mensile di 350 euro a persona per la spesa e il vestiario. Nel 2014 il dottor Jammo ha potuto frequentare un corso di tedesco. Nemmeno la sua laurea siriana è stata cestinata. A fine autunno ha superato l’esame per convertire la qualifica ed esercitare in Germania: da inizio gennaio Mohanad Jammo lavora in un ospedale. Dopo appena quattordici mesi e una tragedia immensa, la sua famiglia non è più a carico del governo tedesco. Un altro sopravvissuto allo stesso naufragio del 2013, un ragazzo che non vuole che il suo nome sia rivelato, ha chiesto protezione all’Italia. Dopo quasi un anno trascorso in un centro temporaneo in provincia di Varese, viene trasferito all’improvviso con una trentina di profughi a Carfizzi, milleduecento chilometri a Sud, 700 abitanti in mezzo alla Sila. Il paese in provincia di Crotone e il progetto di una cooperativa locale sono entrati nella rete Sprar, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati: è l’ultima tappa, da sei mesi a un anno di accoglienza che dovrebbe fornire all’ospite conoscenze linguistiche e capacità professionali per vivere e lavorare in Italia. «A Carfizzi ci sono 33 profughi», spiegano il 6 gennaio Yasmine Accardo, dell’associazione LasciateCientrare, e l’avvocato Alessandra Ballerini: «Oggi un ragazzo con mal d’orecchie non è riuscito a contattare nessuno. Abbiamo provato a chiamare mediatrice e gestore: niente. La guardia medica non risponde». Dopo una visita al centro, parte la segnalazione al servizio centrale Sprar: «La struttura, un ostello della gioventù, è posta al di fuori del paese... Gli ospiti ci chiedono aiuto sotto diversi aspetti: cibo scarso, ritardo dei documenti, isolamento sociale, scarsa assistenza medica, assenza di riscaldamento... Moltissimi ospiti hanno radicato i loro documenti a Varese e tanti ci hanno fatto vedere la documentazione con appuntamenti già scaduti. Veniamo a sapere che il gestore dichiara che non ha soldi per acquistare il biglietto per il Nord. Nelle comunicazioni della questura, lo spazio riservato all’interprete è sempre vuoto. Sono tutte in lingua italiana. È evidente che la mediazione multiculturale non sia il forte di questo soggetto gestore che in alcuni documenti addirittura scrive: englesh». Dopo quattordici mesi, il ragazzo sopravvissuto come il dottor Jammo non parla italiano, non parla inglese, è in profonda depressione. Ed è ancora a carico dello Stato italiano. Come tutti gli altri 32 ospiti a Carfizzi: cioè, la loro presenza in Italia permette all’ente gestore di incassare circa 35 euro al giorno per persona, 1.050 euro al mese. Fanno tre volte il contante versato dalla Germania a ciascun profugo perché possa mantenersi e, con le sue spese, contribuire all’economia locale. Degli oltre mille euro pagati dal sistema Sprar alla cooperativa di Carfizzi, però, il ragazzo siriano riceve soltanto 75 euro al mese. Per le piccole necessità: le telefonate alla famiglia, l’integrazione del cibo quando è scarso, le marche da bollo per i documenti. Dal 2011, con i primi decreti sull’ emergenza Nord Africa, questo sistema ci è costato due miliardi 287 milioni 851 mila euro: 483 milioni soltanto nel 2014 per vitto e alloggio, più 117 milioni e mezzo per l’operazione «Mare nostrum». Trenta-trentacinque euro al giorno per persona non sono affatto pochi. Un esempio è l’albergatore napoletano Pasquale Cirella, 49 anni: grazie ai 614 profughi che le prefetture campane gli hanno affidato, incassa 19 mila euro al giorno. Così la sua società Family srl è passata dai 44 mila euro di fatturato del 2009 al milione 853 mila euro del 2012. Con utili annuali cresciuti da 676 euro a 170 mila euro. Un altro imprenditore a Monteforte, in provincia di Avellino, ha messo a dormire 107 rifugiati in tre appartamenti: tagliando sulle spese di assistenza, come interpreti e tutela legale, se le prefetture non controllano il guadagno aumenta. “L’Espresso” ha scoperto che nel 2006 il Comune di Roma riusciva a garantire ospitalità a cifre bassissime, tra i 4,70 e i 8,30 euro al giorno per persona. Se ne occupava Luca Odevaine, futuro consulente del Cara di Mineo, provincia di Catania, arrestato nell’operazione «Mafia capitale». L’aumento da allora ha raggiunto il 421 per cento. Oggi il consorzio dei Comuni, che a Mineo controlla il più grande centro di accoglienza profughi, incassa dallo Stato decine di milioni. Il direttore generale, Giovanni Ferrera, tre mesi fa ha stanziato diecimila euro del bilancio al Comune di San Cono per organizzare la “XXIII Sagra del ficodindia”. Un comunicato ci assicura che «l’integrazione è passata attraverso la partecipazione e la condivisione di iniziative popolari come la Festa del grano di Raddusa e la Sagra del ficodindia di San Cono...»: 648 parole pagate all’autore locale 720 euro, organizzazione della conferenza stampa inclusa nel prezzo. Sempre il direttore generale nel 2013 ha pagato un’altra conferenza stampa 4.514 euro: 855 parole di comunicato alla cifra di 5,27 euro a parola e incontro con i giornalisti locali compresi nella fattura. C’è anche la “Partita del Cuore” attori contro Cara: tredicimila euro di noleggio dei pullman per lo stadio e altri cinquemila per i biglietti. E l’educazione stradale ai profughi? Ventimila euro. I volontari della protezione civile? Quattordicimila 900 euro. La festa dell’uva a Licodia? Fuori altri diecimila euro. L’Estate ramacchese? Diecimila euro. Tradizioni e sapori a Raddusa? Diecimila euro. Cara estate a Mineo? Diecimila euro. L’agosto mirabellese? Diecimila euro. Il Natale dell’amicizia a Castel di Iudica? Diecimila euro. Il presepe vivente a Mineo? Diecimila euro. Tutto regolare, ovviamente. Pagano gli italiani. Nessuna obiezione dal sindaco-presidente del consorzio, Anna Aloisi. Né dal rappresentante legale delle cooperative locali che lavorano nel centro, Paolo Ragusa. Né dall’ex commissario delegato per il Cara di Mineo, Giuseppe Castiglione, attuale sottosegretario all’Agricoltura nel governo Renzi. Sono tutti e tre sostenitori del Nuovo centrodestra, il partito del ministro dell’Interno, Angelino Alfano, di cui Castiglione è coordinatore in Sicilia. Clifford Emeanua, 35 anni, moglie e due figli in Nigeria, faceva il muratore in Libia. Scoppiata la guerra, è scappato: sbarco a Lampedusa il 4 agosto 2011. Poi l’hanno portato al campo di Mineo: «Sono rimasto lì un anno e mezzo». Cosa ha fatto in quell’anno e mezzo? «Non c’è lavoro a Mineo. Chiedevo l’elemosina ai bianchi per strada per qualche soldo da mandare alla mia famiglia. Dentro il campo non potevamo fare niente. Solo mangiare e dormire». Ha frequentato un corso d’italiano? «Non c’era nessuna scuola quando io ero a Mineo. Se c’era, avrei imparato un po’ di italiano. Questo è il problema che ho oggi. Nessun lavoro. Niente. Sono un essere frustrato. Non so dove sto andando. Non so cosa fare. Perfino mangiare è un grande problema. Se chiedo l’elemosina per strada, mangio. Se non raccolgo soldi, non mangio». Conclusa per decreto l’emergenza Nord Africa, nell’inverno 2013, Clifford è stato messo fuori dal Cara con un permesso umanitario. E come migliaia di profughi cancellati da un giorno all’altro dal governo, si è ritrovato sulla strada. È salito a Torino e ora dorme in una stanza dell’ex villaggio olimpico al Lingotto. Quattro palazzine occupate nel 2013. Dal 2006, anno dei Giochi invernali, erano ancora abbandonate. Lui quasi si scusa: «Dormivo in un giardino. Faceva freddo. Gli amici mi hanno detto che qui c’erano appartamenti vuoti da sette anni». Un meccanico nello scantinato costruisce carri da trainare con le biciclette. Li usano per raccogliere e rivendere vestiti, elettrodomestici, metalli recuperati tra i rifiuti. Dieci ore fuori, da 50 centesimi a tre euro l’incasso. Soltanto alcuni centri sociali si occupano di loro. Mentre Lega e neofascisti chiedono lo sgombero. Stesso clima all’ex Ferrhotel: settanta profughi somali, uomini e donne, vivono nell’albergo abbandonato accanto alla stazione di Bari. Per la realizzazione di un centro per rifugiati qui dentro sono stati già stanziati due milioni, di cui quasi un milione e mezzo dall’Unione Europea. Fine lavori: 30 dicembre 2012. Proprio così: non sono mai cominciati. A Pescopagano, frazione africana di Castelvolturno, gli ultimi abitanti sono arrivati dopo il 2011. All’alba li vedi alle rotonde alla ricerca di un ingaggio. Il caporalato è ormai l’unica forma di welfare: il vero jobs act per migliaia di lavoratori. Ma la manodopera è in eccesso. Amou Otoube, 31 anni, la moglie in Ghana che non vede da 9 anni, nel 2014 ha lavorato soltanto due giorni: un guadagno annuo di 70 euro. Isaac Onasisi, 48 anni, come molti italiani disoccupati è alle prese con le bollette. Il Comune gli ha mandato la tassa sui rifiuti: 239 euro, anche se da anni non passa nessun servizio di nettezza urbana. Sul prato all’ingresso di via Parco Fabbri crescono più sacchi dell’immondizia che erba. Centri che funzionano bene esistono. Come lo Sprar dell’Ex-canapificio a Caserta: 40 ospiti in appartamenti diffusi, corsi professionali e di italiano. Fabio Ballerini, dell’associazione Africa Insieme, racconta invece che a Pisa la prefettura ha messo rifugiati perfino nell’ex tenuta presidenziale di San Rossore. Undici richiedenti asilo, erano 40 fino a qualche mese fa, li stanno ospitando a 4,6 chilometri dall’uscita del parco. Altri dieci a quattro chilometri. Con relativi appalti per le cooperative di gestione. Gli unici collegamenti con il mondo sono due o tre biciclette da condividere. L’integrazione in mezzo al nulla. Forse c’è una logica nel nascondere i profughi. Ricordate a Genova gli angeli del fango? Sono i venti ragazzi africani armati di badili che con i genovesi hanno ripulito la città dopo l’alluvione. In quei giorni erano ospitati nell’ex ospedale a Busalla. Lega e Forza nuova hanno protestato con i manifesti: «Ospedale per italiani, non ostello per africani». Anche se riaprire l’ospedale a Busalla sarebbe un oltraggio alla spesa pubblica, la prefettura ha deciso il trasferimento. Evviva la gratitudine. Gli angeli del fango sono finiti a Belpiano, in mezzo ai boschi dell’Appennino ligure: quattro ore e mezzo di pullman e treno da Genova, quasi tre ore da Chiavari, sette chilometri a piedi da Borzonasca, il paese più vicino dove trovi soltanto una tabaccheria e cinque frane che si sono mangiate pezzi di strada. Non appena hanno visto il posto, due ragazzi sono usciti dal programma di accoglienza. Questa è l’Oasi di don Mario Pieracci. Lui sale raramente. Vive a Roma ed è più facile incontrarlo in tv, ospite della Rai. L’Oasi è un villaggio vacanze della chiesa. Un tempo era aperto solo d’estate. Dagli sbarchi del 2011, funziona tutto l’anno. Centoventi profughi, asiatici e africani, conferma Caterina, la cuoca che da sola gestisce il centro e la cucina. Il corso di italiano è affidato a uno studente di ingegneria che parla inglese. Nessun aiuto linguistico per chi conosce appena arabo, pashtun o francese. Anche per questo soltanto otto ragazzi su 120 frequentano oggi la lezione. Per scendere in paese, si va a piedi. Una volta al mese. Il vecchio pullmino è rotto. Non c’è Internet. Non ci sono film in lingua straniera. La tv riceve solo i programmi della Rai. «Poveri cristi», ammette Caterina, «ci sono ragazzi che sono arrivati il 5 gennaio 2014 e sono qui ancora in attesa dei documenti». Mangiano, dormono. Si scaldano le infradito e i piedi scalzi, seduti intorno alla stufa a legna. Si riparte. Qualche ora di autostrada ed ecco Gorizia, la Lampedusa dell’Est: ogni mese la rotta balcanica scarica dai camion decine di richiedenti asilo afghani e pakistani. Gli amministratori della cooperativa siciliana Connecting People e una vice prefetto sono sotto processo con l’accusa di avere gonfiato numeri e fatture del Cara di Gradisca d’Isonzo. I dipendenti della cooperativa non ricevono lo stipendio da mesi. Molti di loro sono allo stremo, come gli africani di Pescopagano. Nonostante lo scandalo, secondo i sindacati il prefetto potrebbe presto arrivare a una risoluzione consensuale del contratto. Una conclusione amichevole: la Connecting People non perderebbe così la cauzione da 791 mila euro. Mentre i lavoratori perderebbero gli arretrati. Nell’industria dei rifugiati, tutto è possibile. All’inizio dell’inverno sempre a Gorizia, provincia con decine di caserme da anni deserte, la prefettura ha pagato come dormitorio un’officina: umidità, materassi per terra, riscaldamento scarso, 25 euro per persona e 70 profughi che al fortunato proprietario hanno reso 1.750 euro al giorno. Una velocità di 73 euro l’ora. Proprio quell’officina era il garage di una concessionaria Lancia. Curiosa parodia che riassume il destino dell’economia italiana: perse le auto, si spremono i profughi. (Ha collaborato Francesca Sironi).
Sfruttamento selvaggio, ora gli schiavi d'Italia dicono basta. Non solo Rosarno. Dalla pianura pontina al distretto del pomodoro in Puglia sfruttamento, ghetti e zero sicurezza riguardano 400 mila lavoratori. Che finalmente denunciano, scrive Floriana Bulfon e Francesca Sironi il 18 luglio 2016 su "L'Espresso". Picchia il sole su 400mila lavoratori impiegati senza tutele a raccogliere casse di pomodori e ceste di meloni, fino alle uve d’autunno. La cifra è fornita dall’osservatorio della Cgil sul caporalato. In inverno erano a Rosarno o Ginosa per gli agrumi. Con l’estate si trovano a Foggia come a Nardò, come in qualche località della Campania. Altro raccolto, altra schiavitù. Perché nonostante leggi, programmi e promesse, lo sfruttamento nei campi continua. Assume nuove forme, indossa maschere semi-legali: intermediazione, contratti a ore, aziende fantasma. Riceve fondi europei. Conta sulla mancanza di controlli. E non arretra. E oggi all’emergenza “storica” (in Calabria è da otto anni che le associazioni parlano di schiavitù, in Puglia la prima rivolta dei braccianti risale al 2011) se ne aggiunge una nuova. Nei centri d’accoglienza per i richiedenti asilo sono registrati 111mila migranti. Arrivano da Pakistan, Nigeria, Gambia, Senegal, Mali. Erano 33 mila in meno un anno fa. Nella tendopoli di San Ferdinando, dove un carabiniere ha ucciso, sparando, un ragazzo che lo minacciava con un coltello, il 33 per cento dei 471 stagionali curati da “Medici per i diritti umani” era un “diniegato”, un esule cioè in attesa di ricorso in tribunale. Più della metà aveva in tasca un permesso di protezione internazionale. Il 10 maggio da un’inchiesta della Digos di Prato sono stati indagati 12 pakistani: per la vendemmia di cinque aziende del Chianti - “Chianti classico”, docg e “gran riserva” - facevano il giro dei centri d’accoglienza. Caricavano su van dai vetri oscurati i profughi - cento, almeno, quelli coinvolti - per pagarli da quattro a sei euro l’ora, contro i 9 del contratto nazionale. Al telefono li chiamavano «questi schiavi negri e stronzi». Sono stati perquisiti anche tre italiani: professionisti di Prato, fornivano false buste paga e documenti. Fra quelle vigne mancavano ispezioni, prima della denuncia da cui è partita l’indagine, aiutata dal direttore della cooperativa che ospitava i rifugiati e che si era accorto che qualcosa non andava. Del resto sui campi, quando arrivano i controlli, arrivano anche le sanzioni: nelle 8.862 aziende agricole ispezionate dalle autorità nel 2015 sono stati intercettati 6.153 irregolari e 3.629 braccianti totalmente in nero. Impiegati secondo l’antica prassi di ricatti, rimborsi per il “viaggio” dovuti ai caporali, ghetti, nessuna sicurezza. Fino alla fame: meno di un mese fa i carabinieri hanno arrestato nel brindisino una madre e suo figlio. Italiani, portavano, secondo l’accusa, i braccianti fino nel barese, stipati in furgoncini; se non c’era posto, li chiudevano nel bagagliaio. «Non mangio da giorni», diceva disperata una di loro. «Ho provato vergogna. Qui mancano i diritti e non è riconosciuta la dignità». Così Camilla Fabbri, presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sugli infortuni sul lavoro, commentava il 24 maggio l’ispezione appena terminata nella cooperativa “Centro Lazio”, nella pianura pontina. In quattro ore di controlli i Carabinieri di Latina e gli agenti dei Nuclei Antisofisticazioni e Sanità hanno trovato nelle serre braccianti “in regola” per 12 giorni al mese quando ne lavoravano 20, per paghe da meno di quattro euro l’ora e turni da dodici ore al giorno. Raccoglievano in queste condizioni pomodori e zucchine “di alta qualità”, come pubblicizza il sito dell’azienda, che ha chiuso il bilancio del 2014 con un fatturato di 14 milioni di euro. La “Centro Lazio” ha ricevuto negli ultimi tre anni un milione e 440mila euro di fondi agricoli europei: 304mila nel 2013, altri 600 nel 2014 e 536mila l’anno scorso. Rappresentante dell’impresa è Fiorella Campa, che con la sorella Stefania (anche lei socia della cooperativa) era già stata denunciata nel 1994 per sfruttamento, riporta l’archivio dell’Agi. Il padre, Luigi, «tuttora impegnato a sostenere le figlie con una presenza costante e vigile sul campo», come si legge in un’intervista con cui le sorelle presentano i loro progetti per diventare «un colosso dell’ortofrutta», era stato arrestato nel gennaio del 1993 con l’accusa di occultamento di cadavere e violazione della legge sugli stranieri. Secondo un giovane impegnato nei campi l’amico di 31 anni si era sentito male dopo aver mangiato, ed era morto. «Se lo trovano qui succede un macello», avrebbe detto il padrone: «Buttiamolo nella discarica». La “Centro Lazio” fa parte di un grande consorzio: “Italia ortofrutta”, 140 aziende associate. Gennaro Velardo, il presidente, commenta così i risultati dell’ispezione: «Verificheremo per capire l’origine del problema. Lo sfruttamento è inaccettabile ma di certo c’è anche un problema di crisi del reddito per i produttori. Niente è giustificabile però sappiamo cosa può capitare, quando la grande distribuzione chiede prezzi sempre più bassi». L’estate scorsa un altro consorzio aveva espulso immediatamente una delle sue consociate dopo la denuncia di 14 immigrati che venivano rimborsati a 2,5 euro a cassetta. «Incontreremo la società per capire cos’è successo», dice invece Velardo, che aggiunge: «Gli autocontrolli ci sono, le irregolarità non sono così diffuse. E insisto: bisogna capire anche i bisogni degli agricoltori. Lo dico con una battuta: ma forse il cottimo non sarebbe sbagliato». Di “Italia Ortofrutta” fa parte anche “Ortolanda”, una cooperativa olandese con una lunga esperienza nella coltivazione di ravanelli. Dai Paesi Bassi è scesa fino all’Agro Pontino per coltivare in nome della qualità e dello sviluppo sostenibile. Nove lavoratori Sikh hanno presentato lo scorso agosto una denuncia: avevano un caporale, connazionale, che li convocava la sera per il giorno dopo. Per comodità aveva creato un gruppo WhatsApp intitolato “Ortolanda”: 34 utenti, lui l’unico “amministratore” che decideva chi lavorava e chi no. Le indagini sono in corso e stabiliranno chi dice la verità. Intanto nelle serre pontine si lavora senza sosta. Per reggere la fatica spesso ci si aiuta anestetizzandosi. Metanfetamine, antispastici e soprattutto oppio: la produzione è in mano agli italiani, lo spaccio agli indiani e costa pochissimo, dieci euro a bulbo. Una spirale che può portare al suicidio: pochi giorni fa è stato trovato un altro ragazzo appeso a una corda dentro un capannone nelle campagne di Borgo Hermada, a ridosso del fondo agricolo in cui lavorava. Aveva trent’anni e non c’era più niente che potesse prendere per sopportare la schiavitù. «Nel sikhismo il suicidio è vietato; la comunità lo associa allo sfruttamento lavorativo intensivo», spiega Marco Omizzolo dell’associazione InMigrazione: «La stessa comunità che affronta con una colletta per i costi per mandare la salma in India». Il caporale sbraita - «dovete muovervi, riempire i cassoni!» - e loro, per la prima volta incrociano le braccia. È l’estate del 2011 ed era il primo sciopero dei migranti contro la schiavitù. Grazie a quella protesta nelle campagne di Nardò, in Puglia, fu approvata la legge penale contro il caporalato. Cinque anni dopo «la situazione è peggiorata, i diritti sono regrediti», dice con amarezza Yvan Sagnet, il giovane ingegnere camerunense che per pagarsi gli studi al Politecnico di Torino era arrivato in Salento (un amico gli aveva parlato di “paghe da favola” e invece s’era ritrovato a rischiare di morire): «Sono stati approvati molti provvedimenti, ma rimangono inefficaci se non ci sono i controlli». «Qualche passo in avanti c’è, ma insufficiente», conferma Guglielmo Minervini, consigliere regionale in Puglia ed ex assessore: «A Rignano Garganico si sta già ri-formando il ghetto. Il “distretto del pomodoro” è stato portato a Foggia. Ma per ora non sta accadendo niente». Nel frattempo, la schiavitù si evolve. In Basilicata, dove dal 2013 i controlli sono più stretti, gli investigatori hanno scoperto cooperative fantasma che regolarizzavano cittadini italiani, pagando per loro i contributi, mentre a raccogliere andavano stranieri, ad un costo inferiore. E sono sempre più diffusi gli sfruttati “a contratto”: sulla carta le ore di lavoro sono solo tre, eppure passano l’intera giornata chinati sui campi. Ma se arriva un controllo: risultano in regola. Anche i caporali ora operano legalmente all’ombra delle agenzie interinali. In Puglia uno di loro è riuscito, da solo, a spostare da una società d’intermediazione all’altra seimila persone, rassegnate a condizioni prive di sicurezza. Spostate come merci, da buttare quando non servono più. Come è successo a Paola Clemente, uccisa lo scorso agosto dalla fatica mentre raccoglieva uva a 150 chilometri da casa. «Le agenzie interinali celano spesso i caporali del terzo millennio», nota Bruno Giordano, magistrato e consulente giuridico della Commissione: «Dovrebbero esserci maggiori controlli. E quando il reato di caporalato avviene da parte di un’agenzia bisognerebbe prevedere un’aggravante». Perché una morte come quella di Paola Clemente non si ripeta, il 27 maggio è stato firmato un “protocollo contro il caporalato” per le regioni del Sud. «È un risultato forte», dice Ivana Galli, segretario generale della Flai Cgil: «Il programma avrà a disposizione fondi Ue e risponderà a esigenze concrete». Ora bisogna seguirlo, però. Mentre il 25 giugno i sindacati saranno a Bari per chiedere di votare, finalmente, il disegno di legge contro lo sfruttamento in agricoltura, che «prevede una sanzione per l’azienda: fino ad oggi veniva punito solo il caporale», spiega la senatrice Fabbri, e la confisca dei beni utilizzati per lavorare, fino a tutto il patrimonio qualora si accerti che non coincide con la situazione fiscale. Leggi da modificare, ma soprattutto da applicare, rafforzando i controlli e modificando alcuni aspetti: «Da quando è stata introdotta la legge sul caporalato un solo processo è giunto fino in Cassazione», nota il magistrato Giordano. Per tutti gli altri a poco è valso il coraggio di chi ha denunciato. Per ora, ha vinto l’impunità.
Artigli e passamontagna. Ecco come i «pacifisti» aiutano i clandestini. Spranghe, coltelli e un artiglio da film horror sequestrati ai "No border" a Ventimiglia. Gabrielli: "Professionisti dell'agitazione", scrive Stefano Zurlo, Martedì 09/08/2016, su “Il Giornale”. Un'arma degna di Wolvwerine o di Freddy Krueger. Sembra di stare dentro una scena da incubo della saga horror di Nightmare, invece siamo alla frontiera di Ventimiglia. Dove l'Europa va in frantumi, i migranti si accatastano, i No Borders soffiano sul fuoco. Otto arresti, sette francesi e un'italiana residente a Parigi, ma soprattutto un catalogo impressionante di armi: un guanto con punte acuminate modello X-Men, coltello da rambo con lama di 30 centimetri, mazze, tubi di plastica da maneggiare come manganelli, cappucci. Il kit del perfetto dimostrante che si schiera al fianco dei disperati arroccati in attesa di un domani sugli scogli dei Balzi Rossi, ma poi distribuisce violenza, prima di giocare la solita parte della vittima. Insomma, il classico «pacifista» armato. Nessuno vuole colpevolizzare le idee, ci mancherebbe. Gli antagonisti e i centri sociali hanno tutto il diritto di dare voce alle proprie opinioni, ma troppe volte il copione deraglia. Qui, con 600 persone bloccate a un passo da Mentone e dall'agognata Francia, arriva l'imprevisto che sconvolge i piani di guerriglia: sabato sera un agente, Diego Turra, muore d'infarto sulla prima linea della protesta. I No Bordes, spiazzati, annullano il corteo previsto e mettono le mani avanti: «Non vogliamo cadere in trappola. Non c'entriamo nulla con quella morte, avvenuta per cause naturali mentre i suoi colleghi ci inseguivano e ci picchiavano». Fermi e fogli di via disegnano uno scenario assai diverso. Ci sono tutti gli strumenti classici per imbastire un pomeriggio di terrore, ambientato non più nel cuore di Milano o in Val di Susa, ma dove Italia e Francia s'incontrano. Al crocevia di una politica sempre più impotente. «E' lo stesso meccanismo che abbiamo visto tante volte con i Black Blok - dicono gli agenti che stanno monitorando il fenomeno - italiani o francesi non importa: si organizzano e si danno appuntamento nei luoghi più problematici per alimentare la tensione». Angelino Alfano, in un'intervista a Repubblica, sconfina attribuendosi meriti straordinari: «Se Ventimiglia non è fin qui diventata una Calais italiana lo si deve al fatto che abbiamo realizzato controlli». Ma le sue parole roboanti non tranquillizzano. Anzi. Il Governatore della Liguria Giovanni Toti denuncia «la situazione ormai insostenibile a Ventimiglia, dove serve subito un intervento fermo e deciso del governo con l'identificazione degli immigrati e il pugno duro con i No Borders che, irresponsabilmente, aggiungono tensioni a tensioni». Sulla stessa lunghezza d'onda, anzi più in là, il senatore forzista Maurizio Gasparri: «Il Governo sta drammaticamente sottovalutando la situazione a Ventimiglia. Ci aspettiamo l'allontanamento immediato dalla città di tutti i clandestini e fermezza contro i provocatori». Il capo della polizia Franco Gabrielli dosa i concetti come un politico consumato: «Intensificheremo le operazioni di decompressione, in modo da alleggerire la pressione nell'area. E alleggerire la pressione significa prendere le persone e portarle da un'altra parte». Poi si concentra sulla protesta: «I No Borders sono professionisti dell'agitazione, ma - aggiunge subito - addebitare a loro la morte di Turra è un esercizio poco serio». Un punto che tutti condividono. Ma che non cancella il malcontento: mentre l'Europa si scioglie, gli agenti sono sempre più vecchi, mal pagati, peggio equipaggiati. E devono fronteggiare, in quel lembo estremo d'Italia, anche il rischio che qualche terrorista si mescoli ai profughi.
Tra islamici e anarchici il lato «oscuro» degli attivisti. I legami internazionali del movimento anti-confini sotto la lente degli investigatori. Le prove dei video, scrive Fausto Biloslavo, Martedì 09/08/2016, su "Il Giornale". Gli attivisti «No Borders» hanno dei lati oscuri e dei collegamenti internazionali sotto la lente degli investigatori. Non si tratta solo della solidarietà estrema ai migranti «nelle loro pratiche di resistenza e violazione dei confini attraverso le frontiere interne ed esterne dell'Europa», come dichiarano gli stessi attivisti. Mohamed Lahaouiej Bouhlel, che ha falciato con un camion 84 persone a Nizza, è stato ripreso in un video e identificato dalla polizia a Ventimiglia nel giugno dello scorso anno. Il futuro stragista islamico partecipava ad una manifestazione pro migranti assieme all'associazione «Cuore della speranza» con base a Nizza. Il gruppo pseudo caritatevole era gestito da estremisti salafiti, che accoglievano e aiutavano soprattutto profughi o clandestini musulmani. Le foto sul profilo Facebook mostrano la mobilitazione a Ventimiglia e personaggi con il barbone islamico d'ordinanza che alzano un dito verso il cielo per indicare la volontà e la potenza di Allah. Nonostante l'inquietante commistione gran parte degli antagonisti «No Borders» italiani, che negli ultimi giorni si sono mobilitati dai centri sociali della Liguria, Piemonte e Lombardia hanno simpatie e agganci anti Stato islamico. I loro riferimenti sono i miliziani curdi di estrema sinistra del Ypg, che combattono nel nord della Siria contro l'Isis. Lo dimostra uno dei loro siti di riferimento, InfoAut, con tanto di stellina rossa. Sul blog di contro informazione si legge: «Il ruolo preposto dall'Unione europea all'Italia per i prossimi anni è quello di essere un deposito di materiale umano sfuggito alle guerre umanitarie dell'Occidente e alla sistematica spoliazione delle risorse dei paesi del sud globale che hanno subito gli ultimi decenni di «aiuto allo sviluppo». La «resistenza» pro migranti e contro i confini è pan europea. In marzo attivisti «No Borders», anche italiani, hanno fomentato i migranti rinchiusi nel campo greco di Idomeni distribuendo volantini con indicato un tragitto per raggiungere la Macedonia. Il risultato è stata la reazione della polizia con scontri ed arresti. Dallo scorso anno il movimento «No ai confini» influenzato dalla sinistra antagonista si è mobilitato da Ventimiglia a Calais, dove sono state arrestate e poi rilasciate tre attiviste italiane che studiano a Parigi. Chi paga proteste e mobilitazioni? Ufficialmente i soldi vengono raccolti in rete con il crowdfunding, ma da noi la campagna pro migranti è ampiamente rilanciata sul sito Melting Pot Europa. Lo sponsor del sito è l'Istituto nazionale assistenza ai cittadini (Inac). Un patronato «da oltre 40 anni impegnato nel sociale» e promosso dalla Confederazione italiana agricoltori, che fornisce assistenza gratuita agli immigrati per il rilascio del permesso di soggiorno o le pratiche del ricongiungimento familiare. Dalla scorsa estate volontari pro migranti italiani e di mezza Europa hanno fornito assistenza non solo umanitaria, grazie a mappe scritte anche in arabo con indicazioni precise sulle rotte, passaggi e sotterfugi per raggiungere soprattutto la Germania. Via twitter con gli hashtag #Crossingnomore o #marchofhope e WhatsApp hanno indirizzato migliaia di migranti verso determinati punti di frontiera per cercare di sfondarli. La rete «No Borders», infiltrata dagli anarchici, «è uno strumento per i gruppi e le organizzazioni di base a favore dei migranti e dei richiedenti asilo - si legge sul web - al fine di lottare al loro fianco per la libertà di movimento». Alcuni gruppi europei anti confini o Stop Deportation hanno piani più aggressivi. Le compagnie aeree come Lufthansa, Air France, Swissair, Sabena, British Airways, Iberia e pure le agenzie di viaggio sono finite nel mirino perché «deportano» i clandestini. I campi pro-migranti come quello di Ventimiglia, già organizzati in Slovacchia, Germania, Polonia, Sicilia e Spagna, sono un altro tassello del piano pro «invasione». Ulteriori azioni prevedono l'«evasione dai centri (di accoglienza nda), la loro distruzione o la lotta contro le nuove costruzioni». Dopo Ventimiglia il passaggio ad azioni violente è dietro l'angolo.
Marcinelle, 60 anni fa la tragedia nella miniera belga. L'8 agosto del 1956 nelle viscere della miniera del Bois du Cazier morivano 262 minatori. 136 erano italiani fuggiti dalla miseria, scrive il 7 agosto 2016 Edoardo Frittoli su Panorama. I Belgi li trattavano più o meno come prigionieri di guerra. Erano i lavoratori italiani della miniera del Bois du Cazier a Marcinelle vicino a Charleroi. Si erano sentiti spesso chiamare "musi neri" o "sporchi maccaroni". Siamo nel 1956, ma le condizioni di vita dei minatori emigrati riportavano ad almeno 10 anni indietro, quando le misere baracche dove alloggiavano erano state utilizzate prima come lager dai nazisti e poi come campo di prigionia per gli stessi tedeschi. Il Belgio si trovava in quegli anni in una situazione opposta a quella dell'Italia stremata da una guerra perduta. Aveva molte risorse e poca mano d'opera disponibile. Il nostro Paese invece mancava completamente di riserve energetiche, centellinate dai vincitori. Fu un accordo politico siglato nel 1948 dai governi di Roma e Bruxelles a portare decine di migliaia di italiani spinti dalla fame a lavorare nei pericolosi cunicoli delle miniere del Belgio. Braccia umane in cambio di carbone. Il contratto prevedeva per i minatori un periodo minimo di un anno di lavoro, pena l'arresto in caso di rescissione da parte loro. Per 8 anni fino al giorno della tragedia, gli italiani lavorarono giorno e notte in cunicoli alti appena50 centimetri a più di 1000 metri dentro le viscere della terra, spesso vittima di esplosioni di grisù e di malattie gravi come la silicosi. La speranza per 262 minatori, di cui 136 italiani, si spense poco dopo le 8,20 del mattino dell'8 agosto 1956. Nel pozzo N.1, un impianto obsoleto in funzione dal 1930, si verificò un incidente ad un ascensore carico di carrelli di carbone. Uno di questi sporgeva di alcuni centimetri dal vano di carico e per un errore umano fu fatto partire verso la superficie. L'attrito del carrello sporgente spezzò contemporaneamente cavi elettrici e tubazioni d'olio per macchinari ad alta pressione. L'incendio si innescò immediatamente e invase presto le gallerie puntellate con travi di legno e prive di sistemi di sicurezza efficaci. Presto dai due pozzi della miniera iniziarono a levarsi alte colonne di fumo, mentre la squadra di soccorso del Bois du Cazier distava ben 1,5 km dall'impianto. Non fu neppure fermato il pozzo di aerazione, fatto che contribuirà ad alimentare l'incendio ed i gas letali da questo sprigionati. Le fiamme furono domate solo 24 ore dopo con l'ausilio dei pompieri di Charleroi, ma i superstiti furono soltanto 13. 262 cadaveri giacevano inghiottiti nelle gallerie, ed i quotidiani uscirono con il titolo a cinque colonne "Sono tutti morti". Gli ultimi corpi furono recuperati il 22 marzo del 1957, mentre iniziava l'inchiesta sulle responsabilità della tragedia. Come prevedibile, la Commissione belga nella quale furono chiamati anche alcuni ingegneri minerari italiani, scagionò la società delle miniere del Bois du Cazier in un iter pieno di omissioni e vizi di forma. Nessuna tra le vittime ebbe giustizia né risarcimento in quell'estate di 60 anni fa quando la vita umana valeva una manciata di carbone. Per un approfondimento sulla storia del disastro di Marcinelle, segnaliamo il libro di Toni Ricciardi "Marcinelle, 1956: quando la vita valeva meno del carbone".
Marcinelle sessant'anni dopo. Otto e mezzo del mattino di quel maledetto 8 agosto 1956. Una gigantesca voluta di fumo nero si sprigiona dalla miniera di carbone di Bois du Cazier, a ridosso di Marcinelle, nel comune di Charleroi in Belgio. La bestia ha spiegato le sue ali di fuoco nero a mille metri sotto il livello della dignità umana. Muoiono 262 minatori, e di questi 136 sono italiani, scrive Maurizio Di Fazio l'1 agosto 2016 su “L’Espresso”. Ha scritto Paolo Di Stefano nel suo “La Catastrofa” (Sellerio, 2011): “Troviamo tutti i nomi dell’Italia di sempre, Antonio, Giovanni, Mario… e i nomi delle tante Italie di un tempo. Nomi-casa, nomi-memoria, nomi-storia, nomi-simbolo, nomi-speranza, nomi-destino: (tra gli altri) Bartolomeo, Santino, Valente, Camillo, Modesto, Primo, Secondo, Terzo, Annibale, Benito, Adolfo, Assunto, Felice, Liberato, Calogero, Otello, Abramo. E Rocco. Si ripete cinque volte il nome Rocco, tra i morti dell’8 agosto 1956: c’è persino un Rocco Vita”. Sessant’anni dalla più immane tragedia del lavoro italiano all’estero. Dalla strage di guerra in tempo di pace di Marcinelle. Divampata alle otto e dieci del mattino. Un addetto ai carrelli fa risalire nel momento sbagliato un montacarichi, che sbatte contro una trave metallica che va a squarciare un cavo dell’alta tensione, una conduttura dell’olio e un tubo dell’aria compressa. L’incendio è immediato e micidiale, non lascia scampo, anche perché in quel complesso di antica estrazione (dallo smantellamento più volte rinviato) tutte le strutture sono ancora in legno. Il sistema di sicurezza è inchiodato all’ottocento. Non sono in dotazione nemmeno le maschere con l’ossigeno e così quasi tutti moriranno soffocati dall’ossido di carbonio, di concerto col lavorio infame delle fiamme. Soltanto dodici i superstiti. Otto e mezzo del mattino di quel maledetto 8 agosto 1956. Una gigantesca voluta di fumo nero si sprigiona dalla miniera di carbone di Bois du Cazier, a ridosso di Marcinelle, nel comune di Charleroi in Belgio. La bestia ha spiegato le sue ali di fuoco nero a mille metri sotto il livello della dignità umana. Crepano 262 minatori, e di questi 136 sono italiani. Quasi la metà di loro, nel numero di 60, è abruzzese; ben 23 vittime provengono da Manoppello, un impalpabile paesino accartocciato ai piedi di Chieti, emigrato in blocco in Vallonia e altrove perché a casa propria il lavoro era un po’ come la materia oscura dell’universo (e senza effetti gravitazionali). Gli altri arrivano dalle altre regioni del mezzogiorno e del nord-est, spesso portandosi dietro la famiglia al completo. Marcinelle: un’indicibile calamità innaturale, abruzzese, italiana e mondiale seguita (per la prima volta) in diretta dai media internazionali ora dopo ora. Le operazioni di salvataggio dureranno due settimane, al cospetto di una folla disciplinata e sgomenta: i parenti di chi è rimasto sepolto per sempre nel sottofondo delle viscere della terra. Almeno prima erano tumulati sì, ma vivi. Pregano nel dialetto natìo le centinaia di mogli e figli; invocano, invano, Santa Barbara. Il 23 agosto, l’annuncio ferale: “Sono tutti morti”. Gli ultimi li hanno rinvenuti a 1.035 metri di profondità. Abbracciati gli uni agli altri. Solidali e impavidi fino all’ultimo respiro. Dal 1990 la miniera del Bois du Cazier è un monumento storico; un luogo della memoria. Nel 2001 è stata introdotta nel nostro calendario civile la “Giornata nazionale del sacrificio del lavoro italiano nel mondo”: ricorre non a caso ogni 8 agosto, anniversario di Marcinelle. Nel 2012 la silicosi, il morbo del minatore, era ancora la malattia professionale più diffusa in Belgio, nonché la principale causa di morte nella popolazione. Nel 1956 a lasciarci la pelle erano stati contadini per lo più: un esercito sub-industriale di riserva in esubero in quell’Italia Anno Zero del dopoguerra. La carica dei macaronì, come venivano chiamati con una punta di disprezzo. Era il frutto dell’accordo siglato tra Roma e Bruxelles nel 1948, sulla falsariga perfetta di quello con la Germania nazista del 1937: braccia (duemila nuovi minatori tricolori a settimana) in cambio di carbone (duecento chili per ogni nostro lavoratore). Solo che il carbone arrivò molto di rado a destinazione, e questi poveri diavoli si spensero a venti, trenta o quarant’anni nella strenua e beffarda speranza di un futuro migliore. Anime pure, non ne avevano percepito l’inganno intrinseco. Pensavano finalmente di scegliere per se stessi, dopo secoli di subalternità, e invece erano precettati con furbizia; si credevano autonomi quando stavano firmando per la loro nuova schiavitù: minatori volontari, ma fortemente indotti. “Regolari o irregolari, l’importante era che ne partissero il più possibile per andare a scavare nelle viscere della terra quel carbone che sarebbe dovuto servire per il rilancio economico della disastrata Italia” scrive lo storico delle migrazioni Toni Ricciardi in “Marcinelle, 1956. Quando la vita valeva meno del carbone”, da poco uscito per Donzelli. Tra il 1945 e il 1950, il 45% dei maschi maggiorenni dello Stivale sognava di espatriare. Si partiva a cuor leggero e con febbrile entusiasmo, sulla scorta di quegli affascinanti manifesti rosa che tappezzavano tutte le città e cittadine della neonata Repubblica italiana: “Operai italiani! Condizioni particolarmente vantaggiose per il lavoro sotterraneo nelle miniere belghe”. Seguiva elenco lirico delle mirabili e progressive novità che li attendevano sul posto: “ottimi salari giornalieri, premi temporanei, assegni familiari, scorte di carbone gratuito, biglietti ferroviari gratis, premi di natalità, ferie, possibilità di rimesse per l’Italia, facilità di alloggio”. E graziose casette in legno e mattoni per i minatori con familiari al seguito. Ecco quello che molti di loro poi effettivamente trovavano nella dura prosa del distretto minerario di Charleroi (oggi meta di rapidi e confortevoli voli low cost), dopo viaggi estenuanti in treno lunghi anche due giorni e mezzo: baracche prive di acqua, gas, bagno interno, elettricità, e a volte persino del tetto. Stamberghe che pochi anni prima avevano ospitato, mutatis mutandis, i prigionieri di guerra russi e tedeschi. Al centro della scena, e dei retroscena, la cosiddetta battaglia del carbone. L’Italia che riaffiorava dalla seconda guerra mondiale era una nazione agricola, “povera e affamata di carbone, che all’epoca rappresentava la fonte energetica primaria” (nel 1944 il 92 per cento dell’energia prodotta derivava dal carbone). No carbone, no ricostruzione. L’equazione fu presto fatta: noi straripiamo di disoccupati, il Belgio possiede miniere a volontà? Allora facciamo uno scambio equo. Anche perché i minatori autoctoni non volevano più calarsi negli abissi del sottosuolo: troppo rischioso e potenzialmente letale. E per ovvi motivi non si poteva più contare sull’apporto dei prigionieri di guerra. Non restava che imbarcare quote cospicue di “libera” manodopera straniera: “Non volevamo i lavoratori stranieri, ma abbiamo dovuto cercarli per sopravvivere economicamente”. Nuovi prigionieri in tempo di pace. Porte aperte agli italiani. Benvenuti, macaronì! Tappeti stesi rosso sporco-sangue&fuliggine per voi. Lo scambio minatore-carbone (ribattezzato, non a caso, “accordo di deportazione”) divenne una priorità nazionale e bipartisan tanto a Roma quanto a Bruxelles. Dal 1948 al 1955, in base alle cifre ufficiali, furono più di 180 mila gli italiani che passarono per le miniere belghe. L’impatto era traumatico, terribile. Per la grande maggioranza di loro, ragazzi di campagna “partiti con il sole, con il cielo splendido” si trattava del debutto nel ventre inglorioso della terra. Così “dopo le prime ore in fondo alla mina (cioè la miniera), in media 250-500 minatori – un quarto, se non a volte la metà dell’intero contingente arrivato – stracciavano il contratto chiedendo a tutti i costi di essere destinati ad altra occupazione, se non addirittura di essere rimpatriati immediatamente” afferma Ricciardi. Era fulmineo, era irrefrenabile il desiderio collettivo di tornarsene a casa. Meglio la miseria della vita nei campi, ma col sole in faccia, di quelle discese quotidiane nel regno delle ombre roventi. A mille metri sotto, rannicchiati dentro un buco in posizioni innaturali: se questo è un lavoro. La reazione delle autorità belghe fu implacabile: far “soggiornare” in carcere tutti quelli che si rifiutavano di scendere in fondo alla mina. Si accavallano a migliaia le storie dei minatori trasferiti di forza al Petit-château, un carcere di fatto: “I malcapitati venivano stipati anche in quaranta in celle di dieci metri per cinque. La latrina era fatta da buglioli posti nell’angolo della stanza che venivano svuotati due volte al giorno, mentre i letti erano sacchi di paglia buttati sul pavimento. Per ripararsi dal freddo, visto che i vetri superiori delle finestre erano rotti, veniva concessa loro solo una piccola coperta”. Questo è il riassunto di un’ampia relazione che nell’ottobre del 1946 giaceva sulle scrivanie dei ministeri romani. Già, perché le classi dirigenti sapevano. Sin dapprincipio. Conoscevano le “condizioni in cui vivevano e lavoravano decine di migliaia di minatori volontari indotti”. Andarono in visita al Bois du Cazier e dintorni Amintore Fanfani, allora ministro del lavoro; il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi; un giovanissimo Aldo Moro, l’unico a dipingere quell’occupazione come “abbrutente, inumana, svolta lontano dalla luce del sole, in condizioni spesso di pericolo e di timore”. Ha scritto la storica belga Anne Morelli: “L’Italia ha venduto i suoi figli? La responsabilità dei governanti italiani dell’epoca è molto pesante. Hanno inviato coscientemente migliaia di giovani in perfetta salute sapendo molto bene ciò che li attendeva. Sapevano perché i belgi non scendevano più nelle miniere. Ciò malgrado, i dirigenti italiani hanno finto di non esserne al corrente. Oggi tutti quelli che hanno fatto un’intera carriera nelle miniere sono morti al prezzo di terribili sofferenze. Li hanno venduti”. Tra i suoi effetti collaterali, il disastro di Marcinelle ha portato alla ribalta mediatica mondiale località e frazioni mai udite prima. A cominciare dal comune abruzzese di Manoppello (oggi noto per aver dato i natali al calciatore Marco Verratti), che contava settemila abitanti e “proprio in Belgio aveva esportato, dal 1946, 325 uomini”: quell’8 agosto del 1956 ne morirono 23 di cittadini manoppellesi in miniera. Un paese disseminato nel mondo: chi in America Latina, chi nell’America del nord, o in Australia. Ne ripercorre la sventura Annacarla Valeriano, autrice del capitolo che conclude il saggio di Toni Ricciardi: “Ci vogliono i titoli sulla prima pagina dei quotidiani, le fotografie delle vedove e degli orfani perché l’Italia si domandi dov’è Manoppello e perché la gente di questo paese è così povera e che cosa si può fare per sollevarla dalla miseria senza mandarla a morire in Belgio. Diciamo subito che non si può fare niente, perché il tessuto sociale di Manoppello, il connettivo che tiene insieme duecento case del paese intorno alla parrocchia è proprio la miseria. La miseria a Manoppello è quello che è a Ivrea la Olivetti, la Fiat a Torino, il porto a Genova, i commerci e l’industria a Milano, la burocrazia a Roma” tratteggiò un cronista de “Il Giorno”. A Manoppello c’era “un solo cinema che costa cento lire e mette in programma soltanto vecchi film tagliati e mal ridotti” e si vendeva “tutto a crediti con la “libretta”, il pane, la pasta, persino il latte, persino il formaggino, persino i lacci delle scarpe, tutto si vende a credito” aggiunse l’inviato dell’Unità. Giungeva da Turrivalignani (cinque chilometri a ovest di Manoppello) Cesare Di Berardino, il nonno di Enrica Buccione, la ragazza che lo scorso 22 giugno ha tenuto un memorabile discorso al Parlamento europeo di Bruxelles: “Io sono la nipote di una vittima. Quel tragico 8 agosto del 1956 mio nonno Cesare perse la vita insieme ad altri cinque familiari e a molti altri amici. Mia nonna rimase vedova a 35 anni con quattro bambine. E sono un'emigrante di terza generazione. Ho trascorso la maggior parte della mia vita in Italia. Lo scorso ottobre mi sono trasferita qui a Bruxelles con mio marito e un bimbo in grembo, alla ricerca delle mie radici”. Annacarla Valeriano: “I minatori di Marcinelle erano partiti da questi contesti, da questi luoghi intrisi di desolazione muta in cui si campava a stento nella speranza di migliorare la loro vita; una volta in Belgio, avevano dovuto accettare, insieme alle loro famiglie, una quotidianità ancora più pesante”. La morte era sempre in agguato: “Si avevano delle mascherine di plastica in dotazione, ma venivano puntualmente tolte, arrivati in fondo, perché il caldo era insopportabile e si arrivava zuppi di sudore. Tutti avevano paura, lì sotto. Il grisou (un gas combustibile inodore e incolore) faceva morti di frequente, perché faceva addormentare le persone. Molti morirono così, andando per un bisogno e non tornando più” racconta l’ex minatore di Marcinelle Sergio Aliboni a Martina Buccione in “La nostra Marcinelle” (edizioni Menabò). Tutti morti, e tutti assolti nell’apocalisse sotterranea del 1956. Bastò esibire due mostri sacrificali qualunque. Per la commissione che fu chiamata a indagare, l’incidente era stato provocato dall’errata manovra compiuta da Antonio Iannetta, un 28enne di Bojano, un piccolo borgo del Molise famoso per le mozzarelle. Iannetta non capiva quasi per niente il francese e non riusciva a eseguire correttamente quello che gli veniva richiesto. La prima sentenza del 1959 mandò tutti assolti, e solo nel processo d’appello di due anni dopo la catastrofe venne considerata di origine colposa: ne era responsabile il direttore dei lavori del complesso minerario antidiluviano, il signor Adolphe Calicis. Per lui sei mesi di reclusione con la condizionale più una multa di duemila franchi. Tutti gli altri, innocenti e immacolati. Eppure già all’alba dell’orribile ‘56 il ministro belga Jean Rey aveva divulgato i “codici” della grande carneficina annunciata: dal gennaio 1947 al dicembre del 1955, i morti nelle miniere del Paese erano stati 1164. Quasi la metà italiani. “In realtà, la mattanza fu ben più alta. Dal 1841 al 1965 furono circa 170 l’anno, per un totale di oltre 21 mila in poco più di un secolo. Solo nel secondo dopoguerra, dal 1946 al 1965, si sono registrate 3400 vittime” specifica Ricciardi. E c’è la storia di Maria. Maria che non ha “conosciuto mai la faccia di un politico”, dopo il fattaccio. Maria che suo marito Camillo, falciato poco più che ventenne a Marcinelle, lui che “voleva morire di vecchiaia, non di silicosi”, non l’ha mai abbandonata veramente. Maria che il giorno in cui il corpo di suo marito rientrava a Manoppello, a tre mesi e mezzo dal misfatto, era in ospedale. Maria che negli istanti esatti in cui la cassa di suo marito Camillo sfilava in funerale per le vie del paese, stava partorendo la loro Camilla. Maria che da sola cristallizza e sublima il ricordo di quella vergognosa “Catastrofa”. Di questi 262 minatori, martiri indotti. Morti d’emigrazione. Di silenzio. Di indignazione. Per il lavoro. Per il carbone. Per una vita migliore. Per il futuro. Per l’Europa unita. Per tutte le Manoppello, Lettomanoppello e Turrivalignani d’Europa. Per tutti i loro cari. Per non farli preoccupare. Per dare sostegno a chi se n’era rimasto al paesello. Per ridare fiato alla nostra industria. Per il benessere della nazione. Per la tenuta della famiglia. Per rimpatriare il prima possibile. Per il primo treno utile. Per affanno. Per l’inganno. Per il dolore. Per amore.
Quando l’Italia era “Lamerica” degli albanesi. Era l’8 agosto del 1991, esattamente 25 anni fa, quando la nave «Vlora», con a bordo 20mila migranti albanesi in cerca di futuro in Italia, sbarcava nel porto di Bari. La storia e le immagini di quei momenti entrati nella storia, scrivono Leda Balzarotti e Barbara Miccolupi l'8 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera”. Non c’è più stupore nel leggere sui giornali la notizia di uno sbarco di migranti sulle coste siciliane o sull’isola di Lampedusa, è un fenomeno quotidiano al quale siamo tristemente abituati, salvo indignarci quando al largo dell’Italia si ripetono tragici naufragi di uomini, donne e bambini in viaggio verso la salvezza, il sogno di un lavoro o più semplicemente una vita senza guerra. Non era così nel 1991, quando l’Italia diventò di colpo la terra promessa delle popolazioni balcaniche e in particolare dei nostri “vicini di casa” albanesi, ovvero di quei paesi in frantumi dopo la caduta del Muro e dell’Unione sovietica. Lo capimmo con chiarezza la mattina dell’8 agosto 1991, quando nel porto di Bari fece il suo ingresso la nave Vlora, carica all’inverosimile di 20 mila migranti giunti dall’Albania dopo un viaggio iniziato due giorni prima a Durazzo, a bordo di un mercantile malandato, fabbricato 30 anni prima nei cantieri di Genova. Qualche ora prima, la Vlora aveva già tentato l’approdo nel porto di Brindisi, ma l’allora viceprefetto Bruno Pezzuto aveva negato l’ingresso e convinto il comandante Halim Milaqi a navigare verso Bari: altre sette ore di viaggio, al timone di una nave difficile da governare, con la tensione alle stelle e la folla stipata fino al radar. L’Italia sperava, in quel breve margine di tempo, di potersi organizzare al respingimento e al rimpatrio immediato del mercantile, o almeno a disporre una temporanea accoglienza, ma a Bari non c’erano né il prefetto né il questore, entrambi in ferie, e le autorità cittadine, compreso il sindaco, furono avvisate quando la nave era già in porto. Le dimensioni di quello sbarco colsero le autorità centrali italiane totalmente impreparate, ma al vuoto istituzionale rispose la mobilitazione dei cittadini pugliesi e del sindaco Enrico Dalfino, che si attivarono subito per fornire ai migranti stremati i primi soccorsi, acqua, cibo e vestiario. A distanza di 25 anni gli albanesi in Italia sono diventati una delle comunità straniere più radicate e integrate nel nostro Paese, ma come dimostra ogni giorno la cronaca il problema migratorio resta ancora attualissimo e irrisolto, e il ricordo della Vlora e del suo carico di 20 mila anime è diventato un simbolo per l’Italia e per l’Europa intera.
8 agosto 2016. Vlora, 25 anni dopo. Bari ricorda il grande esodo, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno il 7 agosto 2016. Quello che stava succedendo dall’altra parte dell’Adriatico, nell’estate del 1991, lo abbiamo ricostruito nel tempo. In Albania avevano aperto le prigioni e, secondo i servizi segreti, a criminali, banditi comuni e balordi era stato «consigliato» di scomparire. Come? Fuggendo in Italia. A queste bande di malviventi in fuga si erano uniti i poveri disgraziati delle campagne, quelli che non avevano granché da lasciarsi alle spalle, ma anche molti giovani che nel tam tam di strada «Dai, partiamo, andiamo in Italia!» avevano proiettato la propria occasione di avventura, il gioco, la goliardata. Questa - variegata, colorata, inquietante - era l’umanità che abitava la Vlora. Sulla banchina 14 del porto di Bari, la mattina dell’8 agosto 1991, c’era anche Luca Turi, il nostro fotoreporter. Anche lui, in qualche modo, è un pezzo della «leggenda albanese»: le sue fotografie della vecchia carretta del mare stipata di uomini all’inverosimile hanno fatto il giro del mondo. «C’era gente che si sentiva male, chi simulava di sentirsi male, c’era il viavai di mezzi della finanza, dei carabinieri, della polizia, le ambulanze. Era tutto sporco, perché sulla banchina avevano scaricato il carbone qualche giorno prima. Era l’inferno», racconta Luca.
Il ricordo più intenso?
«Enrico Dalfino, il sindaco. Un uomo mite, come tutti ricorderanno, bene: in quei giorni mostrò tutt’altra faccia, la sofferenza e la rabbia».
E invece qual è la prima emozione legata all’incontro degli albanesi?
«La fame. E la disperazione. Si lanciavano sui panini e sulle bottiglie d’acqua come animali selvaggi. Perché all’epoca non c’era la macchina dell’accoglienza di oggi».
Oggi c’è molta più organizzazione.
«Certo. Negli ultimi anni a Bari come in tutta Italia, la Protezione civile, le forze dell’ordine e i volontari hanno saputo accogliere i profughi. Il cibo, le cure mediche, i primi soccorsi, gli indumenti: tutto è già pronto. A queste persone viene garantita subito la salvaguardia della dignità. Io ricordo uomini sbarcati in mutande che in mutande sono rimasti per giorni».
Una curiosità: nell’epoca digitale sembra impossibile pensare che le fotografie un tempo andavano sviluppate e stampate. Come si riusciva 25 anni fa a rispettare i tempi di un giornale?
«Facevamo la spola dal porto o dallo stadio al mio vecchio studio di via Cairoli. Ci davamo il cambio, toglievamo i rullini dalle macchine e li andavamo a sviluppare, scappando di qua e di là. Sì, i tempi erano più lunghi e lo stress a mille, ma certe fotografie di allora, credo, sono più autentiche di quanto non si possa fare oggi».
Lo Stadio della Vittoria: gli albanesi furono sistemati lì. E furono giorni durissimi.
«Gli elicotteri delle forze dell’ordine sorvolavano lo stadio in continuazione, anche per ragioni di sicurezza. Portavano acqua e viveri che venivano gettati sull’erba dall’alto. Sono scene indimenticabili. Anche perché la stanchezza e l’esasperazione degli albanesi a un certo punto divennero incontenibili. L’alloggio del custode dello Stadio fu letteralmente fatto a pezzi, ma non dimentichiamo che tra quelle migliaia di persone c’erano anche dei criminali serissimi».
L’allora capo della polizia Parisi venne a contrattare il loro possibile rientro in Albania.
«Lo ricordo fuori dallo Stadio. Propose di dare 50mila lire a testa per rimandarli indietro, per loro era una cifra strepitosa. Qualcuno alla fine se ne andò di sua spontanea volontà, altri fuggirono. Qualche altro è rimasto e in Italia davvero ha trovato fortuna».
Si può dire che la storia professionale di Luca Turi sia anche in qualche modo legata alle sorti dell’Albania da quel 1991 in poi?
«Sono stato uno dei primi ad andare in Albania subito dopo la Vlora: la prima volta rimasi due ore in tutto. Ripresi la nave per rientrare in Puglia la sera stessa».
Perché?
«Perché capii perché tutta questa gente era venuta a consumare il suo sogno italiano: in poche ore compresi le loro condizioni di vita, la miseria la disperazione. Mi portarono in una villa per farmi passare la notte: appena vidi gli scarafaggi uscire dal lavandino me ne scappai. Ma ci sono tornato molte altre volte: è un Paese che ha completamente cambiato volto».
Nel senso che le condizioni di vita sono migliorate?
«Assolutamente. Oggi si assiste piuttosto a un fenomeno inverso: sono gli italiani che vanno in Albania».
Un paradosso.
«Beh, a fronte della modernità, della pulizia e dei servizi, i prezzi sono bassissimi. Un bell’appartamento nel centro di Durazzo, dove molti nostri pensionati si trasferiscono, costa 120 euro al mese e con 20 euro puoi stare bene una settimana».
Dopo 25 anni rimane in ogni caso la memoria collettiva di una città che seppe aiutare i profughi.
«È vero. I baresi mostrarono tutto il loro cuore. Nella disorganizzazione generale, è stata l’umanità delle persone, sindaco in testa, a governare l’emergenza».
Caporalato, nel ghetto salentino di Nardò l'arruolamento degli sfruttati è via Whatsapp. Tutto è organizzato. Anche le sale tv sotto le tende, dove risuona il telegiornale di Al Jazeera, il barbiere, il meccanico, la sera tre o quattro disco-pub e le case delle prostitute, una quindicina di nigeriane, scrive Chiara Spagnolo il 27 luglio 2016 su "La Repubblica". Il caporalato ai tempi di Internet vive grazie a Telegram e Whatsapp: messaggi in arabo, inglese e francese per convocare i braccianti al lavoro e concordare le paghe, perfino le foto dei capisquadra per dimostrare chi ha lavorato e quanto. Evolve la complessa organizzazione para-criminale che gestisce il lavoro nelle campagne del Salento. E nel ghetto di Nardò i migranti non staccano gli occhi dai telefonini. Entrare in quella terra di mezzo in contrada Arene-Serrazze è impresa ardua. Difficile portare in mano videocamere e macchine fotografiche, pure il telefono cellulare è meglio metterlo via. Perché i ragazzi del ghetto - almeno duecento, di una decina di nazionalità - dopo essere stati esibiti per anni sui media, guardano tutti con sospetto. La rivolta della masseria Boncuri del 2011 ormai è un ricordo e l'obiettivo primario di ognuno è solo lavorare qualche ora al giorno e tornare al campo con pochi euro in tasca. I più fortunati racimolano 30 euro a giornata, qualcuno molto meno, considerato che la raccolta del pomodoro viene pagata circa 3,5 euro a cassone (ciascuno da 350 chilogrammi) e le angurie 5 euro all'ora. Contratti non ne ha firmati nessuno. O almeno così raccontano i lavoratori, mostrando fogli che indicano una fantomatica disponibilità al lavoro acquisita dalle aziende. Con la mediazione rigorosa dei caporali, che sono stati i primi ad arrivare in Salento e ora gestiscono il lavoro con il telefonino, affidando ai capisquadra le verifiche nei campi e anche il trasporto delle persone. Dal ghetto si parte alle 5,30-6, intorno alle 12,30 molti furgoni sono di ritorno perché alcune aziende rispettano l'ordinanza del sindaco, Pippi Mellone, che ha inibito il lavoro dalle 12 alle 16. I 15 proprietari delle ditte più grosse hanno fatto ricorso al prefetto e al Tar, ma per il primo cittadino indietro non si torna. Lui la patata bollente dei braccianti l'ha ereditata a stagione iniziata: in un'area comunale accanto alle casupole sono state sistemate 22 tende (20 del ministero dell'Interno e due del Comune), container con bagni e docce inviati dalla Regione e da Coldiretti, aperto un presidio sanitario e avviati corsi sulla sicurezza sul lavoro. Nel campo, però, trovano posto 132 persone a fronte di almeno 400 che orbitano nell'hinterland neretino e da quest'anno si spingono a lavorare fino al Brindisino, a Ginosa, al Metapontino. Per gli altri resta il ghetto, proprietà comunale in cui neppure gli addetti alla raccolta della spazzatura vogliono mettere piede, limitandosi a svuotare i tre bidoni vicino al cancello. Dentro, per forza di cose, i rifiuti sono ovunque, i servizi igienici non esistono e un odore nauseabondo ammorba l'aria. Nelle casupole costruite con materiale di risulta si cerca di mantenere una parvenza di dignità, ma non è facile quando il pavimento è la terra rossa e abiti e suppellettili vedono l'acqua di radi. I gruppi sono divisi per etnie e poi anche per tribù - spiega Angelo Cleopazzo di Diritti a Sud - ognuno con un capo che mantiene l'ordine e stempera i conflitti. A pochi metri dall'ingresso il primo bar, con tre uomini intenti a preparare il pranzo per chi torna dal lavoro: "Oggi fave, pomodoro, uova e cipolla", spiega un ragazzone che poi insiste per offrire il caffè. Più avanti si cambia Paese d'origine e quindi menù: "Oggi uova e carne, assaggia questo frullato, lo faccio io tutti i giorni". Il sapore è buono, il bicchiere grande costa un euro, 2 il panino, 50 centesimi il caffè. Tutto è organizzato. Anche le sale tv sotto le tende, dove risuona il telegiornale di Al Jazeera, il barbiere, il meccanico, la sera tre o quattro disco-pub e le case delle prostitute, una quindicina di nigeriane portate dalle matrone e gestite da protettori. Perché se pure nel ghetto di Nardò lo Stato non vuole entrare, dentro ci sono comunque persone. Che hanno rinunciato ai diritti di lavoratori, ma non alla loro umanità.
Bracciante schiavo che si ribella, scrive Giovanni Masini il 28 luglio 2016 su "Gli occhi della Guerra". Da Boreano (Potenza). Non è facile, per uno schiavo, ribellarsi ai propri padroni. Così come non è semplice trovare il coraggio di denunciare tutto davanti a una telecamera. Eppure, anche fra i dannati del caporalato di casa nostra, c’è chi osa alzare la testa e rifiutare il sistema criminale di sfruttamento e di ricatto che ogni anno costringe in catene decine di migliaia di braccianti irregolari. Per incontrare uno dei rari Spartaco contemporanei dobbiamo spingerci fino in Lucania, nella terra che diede i natali al poeta latino Orazio. Un volontario di sosRosarno, l’associazione anti-caporalato nata dopo le rivolte di migranti in Calabria, ci ha fornito il contatto di un bracciante disposto a “parlare” dei meccanismi di questa industria della morte. Di lui abbiamo solo un numero di telefono e un soprannome, “l’americano”. Vive in una baracca di plastica e lamiere sperduta in mezzo ai campi di grano, dove il sole estivo picchia come un martello e il frinire delle cicale assorda ogni pensiero. L’americano, che poi scopriamo chiamarsi Youssif, è un lavoratore relativamente emancipato: parla un discreto italiano ed è riuscito a mettere da parte abbastanza denaro per potersi permettere una bicicletta e qualche gallina per le uova. Ci riceve nella sua baracca, dove ha sistemato un generatore di corrente recuperato chissà dove e qualche sedia. La sera ospita i compagni di lavoro per bere qualche birra insieme. Lui lo chiama “il suo bar”. Per l’affitto della terra su cui ha costruito la baracca paga al proprietario del fondo cinquanta euro al mese. Periodicamente, spiega, il padrone distrugge le capanne dei braccianti per liberare il terreno. Gli incendi non sono infrequenti. I lavoratori si spostano di qualche metro e tutto ricomincia da capo. Anche qui vigono le medesime leggi che regolano la vita dei braccianti di Rignano: dei trentacinque euro di paga giornaliera, al lavoratore ne finiscono circa venti. Tutte le masserie abbandonate, parla piano Youssif indicando i casolari diroccati all’orizzonte, sono piene di braccianti. A volte la brutalità dei caporali si spinge fino a ritirare loro i passaporti; non è raro che le donne, specialmente quelle dell’est, vengano ricattate e avviate alla tratta della prostituzione. In queste terre selvagge sembra non esistere legge né pietà. La dimensione del fenomeno è tale che oltre due terzi dei braccianti stranieri non figurano nemmeno nelle liste ufficiali. “Solo in Puglia – spiega il segretario regionale della Flai Cgil Puglia Giuseppe Deleonardis – ci sono cinquemila africani iscritti negli elenchi anagrafici, che in gran parte risultano lavorare per meno di 51 giornate, come se per il resto del tempo se ne venissero in ferie… Ma il dato stupefacente è un altro: solo nei ghetti del foggiano se ne contano almeno quindicimila. I due terzi almeno, quindi, sono irregolari.” Peraltro moltissimi di questi schiavi godono dello status di rifugiato o sono addirittura richiedenti asilo: per lo Stato italiano non possono essere dei fantasmi e per la legge in molti casi non potrebbero nemmeno lavorare. In un’azienda produttrice di pomodorini, racconta Deleonardis, l’anno scorso sono stati trovati richiedenti asilo che lavoravano quattordici ore al giorno per poco più di trenta euro lordi.” E questo meccanismo perverso di gioco al ribasso, che contribuisce a scaricare i costi di produzione sull’anello più debole della catena, inizia a colpire anche i lavoratori italiani. Appoggiato al suo trattore, il signor Rocco Strada, coltivatore diretto, ci espone la sua visione dei fatti togliendosi il cappello davanti alla telecamera: “Questi immigrati sono esseri umani come noi – farfuglia in un misto di italiano e dialetto – Hanno due occhi, due orecchie, un naso… Ma perché non se ne stessero a casa loro? Vivono con venti euro al giorno, perché i proprietari dovrebbero spenderne cinquanta per un operaio italiano?” Chissà come risponderebbe l’americano. Come noi, una risposta non ce l’ha. Lontano da ogni forma di civiltà, isolato in una baraccopoli che brucia nel sole, sa solamente che domattina alle tre e mezzo suonerà di nuovo il clacson della macchina che lo porterà al lavoro nei campi. Da queste parti, già accettare di dire le cose come stanno è una vittoria del coraggio.
Cgil: in Capitanata almeno 20.000 lavoratori invisibili, scrive il 30 luglio 2016 “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il cosiddetto ghetto di Rignano Garganico è solo un pezzo del problema dell’agricoltura in Capitanata, dove la vera questione è l’illegalità diffusa: è quanto sostiene in una nota la Flai Cgil di Foggia prendendo spunto dalla lite di tre giorni fa nella baraccopoli culminata nell’uccisione di un malese ad opera di un ivoriano, che è stato fermato nelle ore successive. «Almeno 20.000 lavoratori in agricoltura, pari al 50% degli iscritti negli elenchi anagrafici - scrive il sindacato - sono privi di diritti e invisibili ai mass media. A questi devono essere sommati almeno altri 10-15 mila lavoratori completamente in nero che non vengono iscritti negli elenchi anagrafici e che sono fuori da ogni circuito di legalità». La Cgil sottolinea che il fenomeno del ghetto di Rignano "interessa l’opinione pubblica e le istituzioni soprattutto nei tre mesi estivi, mentre sembra quasi cadere nel dimenticatoio per i restanti mesi, un luogo come altri della Capitanata. Rignano non è l’unico, probabilmente è il più vasto e forse il più famoso, sotto i riflettori dei media internazionali e nazionali». La Cgil fornisce una serie di cifre sul lavoro nero in agricoltura in Capitanata: i lavoratori africani censiti negli elenchi anagrafici al 2014 sono 2.646, e di questi solo 588 hanno più di 51 giornate lavorative, mentre 1.151 hanno lavorato nell’anno nella provincia di Foggia per meno di 10 giornate. Stesso destino spetta ai lavoratori bulgari, che sono 4.289 di cui 3.600 con meno di 51 giornate mentre 2.300 non raggiungono le 10 giornate. Infine ci sono 11.451 romeni, dei quali 8.400 non raggiungono le 51 giornate annue. Un contesto complessivo, scrive la Cgil, che frutta all’economia illegale milioni di euro e che andrebbe analizzato nel suo insieme come un sistema strutturato e complesso gestito in modo organizzato, «sottaciuto da sacche di assuefazione, anche da parte delle istituzioni». Per il sindacato serve «un’azione sinergica tra le parti sociali con le parti datoriali», le aziende di trasformazione in loco «devono pretendere che i propri conferitori, le aziende agricole di produzione, debbano essere iscritte nella rete di qualità per il lavoro agricolo», ovvero «debbano essere eticamente sostenibili».
Non solo extracomunitari. Italiani schiavi nei campi per tre euro l’ora, inchiesta di Giovanni Masini con video di Roberto Di Matteo del 29 luglio 2016 su "Gli occhi della Guerra". I sindacati di sinistra disprezzano le riforme sul lavoro che danno un filo di speranza ai disoccupati non politicizzati. I sindacati di sinistra vogliono assunti sindacalizzati, e per i loro protetti ci riescono, per poter mantenere i sindacati con i prelievi forzosi in busta paga. Assunzione che per i più mai arriverà per l’esoso costo del lavoro. Con il buono lavoro, invece, si ha la speranza di svolgere almeno dei lavori saltuari. L’alternativa è lo sfruttamento del caporalato, che a quanto sembra i sindacati con le loro posizioni non vogliono debellare. “Il caporalato è andare dalle persone che stanno morendo e farle finire di morire”. La frase, lapidaria, è di un proprietario terriero della provincia barese, che intercettiamo alle cinque del mattino mentre assiste all’inizio dell’acinellatura: la difficile operazione di pulitura dei grappoli di uva da tavola, da preparare verso fine luglio in vista della raccolta di settembre. Gli acini più piccoli impediscono agli acini più grandi di crescere al meglio e vanno rimossi uno per uno. Questo lavoro viene tradizionalmente svolto da braccianti chiamati a giornata, non di rado giovani sui vent’anni che cercano di guadagnare qualche soldo “facendo l’acinino”. Pulire i grappoli sembra un compito semplice, ma può rivelarsi massacrante. Trascorrere fino a dieci ore sotto il tendone di plastica che serve a proteggere l’uva contro la pioggia con temperature che superano i quaranta gradi, le braccia sempre sollevate e il caporale che incalza chi lavora meno velocemente, non è un lavoro da signorine. Eppure, negli ultimi anni, sono sempre di più le donne che vanno a giornata a lavorare in campagna. Non più giovani che vogliono pagarsi gli studi o magari la vacanza, ma madri di famiglia che accettano di lavorare anche per venti euro al giorno pur di sfamare la propria prole. Alle quattro del mattino si mettono in viaggio dalle province meno ricche della Puglia, Brindisi e Taranto. Sui pullman viaggiano per ore fino alla zona compresa fra Bari, Andria e Foggia, dove c’è più richiesta di manodopera. Il sindacato stima che ogni notte si mettano in movimento fra trentamila e quarantamila donne, per la stragrande maggioranza italiane. A volte si portano dietro anche il marito, il fratello, i figli. La miseria costringe ad accettare ogni tipo di ricatto. Anche la truffa dei fogli di ingaggio, che consente a molti datori di lavoro di conferire una patina di legalità – anche se solamente formale – al lavoro dei braccianti alle loro dipendenze. Il meccanismo è semplice: i braccianti vengono assunti per quindici giorni con il sistema del part-time orizzontale e (sotto)pagati per un mese. Così facendo l’azienda risulta sempre in regola con le uscite, i contributi previdenziali e tutte le norme sul lavoro: se mai dovesse arrivare un’ispezione, si fa sempre in tempo a dire che il bracciante ha iniziato a lavorare da due ore, quando invece sta raccogliendo uva dalle cinque del mattino. Come se questo non bastasse, molto spesso i fogli di ingaggio vengono intestati ad amici o parenti dei proprietari terrieri, che così, se non si superano le 51 giornate di lavoro in un anno, possono godere dell’assegno di disoccupazione. Ma le truffe a danni dello Stato si sommano a quelle, se possibili ancora più gravi, commesse alle spalle dei braccianti diseredati. Dalle tabelle salariali emerge che la paga giornaliera di un operaio di “secondo livello” (fra cui quelli, ad esempio, addetti all’acinellatura) non dovrebbe essere inferiore, al lordo, a 47 euro. Una paga quasi doppia al salario medio di un operaio irregolare. Nemmeno gli orari vengono rispettati: da contratto la giornata dovrebbe durare sei ore e mezza più due di straordinario, ma nella realtà questo tempo può quasi raddoppiare. Non è raro che le donne lavorino dalle sei del mattino alle sei di sera. Alla paga lorda, come succede per gli africani, dev’essere sottratto il costo del trasporto sul posto di lavoro (che, se superiore a un’ora e mezza, competerebbe contrattualmente all’azienda). Per quanto questo fenomeno sia sulla bocca di tutti, trovare qualcuno disposto a parlarne è ancora più difficile che nel ghetto di Rignano Garganico. La manodopera non manca e chi “parla” rischia di trovarsi senza lavoro da un giorno all’altro. Ogni tanto la questione torna alla ribalta delle cronache, soprattutto quando, tre o quattro volte all’anno, qualche bracciante muore sul posto di lavoro. È il caso della bracciante quarantanovenne Paola Clemente, morta nel luglio 2015 mentre lavorava nelle vigne della campagna di Andria. Un malore provocato dai quarantadue gradi all’ombra e, quasi certamente, dal lavoro estenuante. Il suo stipendio era di appena 27 euro al giorno. Nel processo ancora in corso, per cui, nonostante i tanti mesi trascorsi, non ci sono ancora stati rinvii a giudizio, è indagato fra gli altri Ciro Grassi, l’autista del bus che aveva condotto la Clemente fino nei campi, dal paese del Tarantino di cui era originaria. Ciro Grassi è anche il nome che leggiamo sulla fiancata di un bus parcheggiato, fin dalle cinque del mattino, sul bordo di una vigna delle campagne baresi. Una coincidenza? Certo Grassi è solamente indagato e quindi innocente fino a prova contraria, ma resta comunque paradossale che la normativa non ne abbia sospeso l’attività per cui pure si è dichiarato innocente.
Profugopoli. Quelli che si riempiono le tasche con il business degli immigrati di Mario Giordano. La società che organizza corsi per buttafuori e addetti alle pompe funebri ed è controllata dal noto paradiso fiscale dell'isola di Jersey. L'ex consulente campano che con gli immigrati incassa 24.000 euro al giorno e gira in Ferrari. La multinazionale francese dell'energia. E l'Arcipesca di Vibo Valentia. Ecco alcuni dei soggetti che si muovono dietro il Grande Business dei Profughi: milioni e milioni di euro (denaro dei contribuenti) gestiti dallo Stato in situazione d'emergenza. E proprio per questo sfuggiti a ogni tipo di controllo. Dunque finiti in ogni tipo di tasca, più o meno raccomandabile. Si parla spesso di accoglienza e solidarietà, ma è sufficiente sollevare il velo dell'emergenza immigrazione per scoprire che dietro il paravento del buonismo si nascondono soprattutto gli affari. Non sempre leciti, per altro. Fra quelli che accolgono gli stranieri, infatti, ci sono avventurieri improvvisati, faccendieri dell'ultima ora, speculatori di ogni tipo. E poi vere e proprie industrie, che sulla disperazione altrui hanno costruito degli imperi economici: basti pensare che, mentre il 95 per cento delle aziende italiane fattura meno di 2 milioni di euro l'anno, ci sono cooperative che arrivano anche a 100 milioni e altre che in dodici mesi hanno aumentato il fatturato del 178 per cento. Profugopoli è un fiume di denaro che significa potere, migliaia di posti di lavoro, tanti voti. In sintesi, Mario Giordano ci racconta il dramma dell'immigrazione, attraverso il suo sguardo tagliente, con Profugopoli. In questo saggio dove svela il grande business dei profughi, ovvero milioni e milioni di euro gestiti dallo Stato in situazione d'emergenza, ci espone il suo punto di vista in un reportage che lascerà senza parole il lettore. Gli immigrati rendono più della droga: così si dice nella politica. E visto il fiume di denaro che scorre dietro questo traffico è evidentemente così, tra migliaia di posti di lavoro e tanti voti. Per Giordano dietro il paravento del buonismo si nascondono soprattutto gli affari, e non sempre leciti. Fra quelli che accolgono gli stranieri, infatti, ci sono avventurieri improvvisati e faccendieri dell'ultima ora, speculatori di ogni tipo. Intorno a questa povera gente che giunge da molto lontano e che affronta ogni avversità, ci sono delle vere e proprie industrie che, sulla disperazione altrui, hanno costruito degli imperi economici. Giordano, in Profugopoli, scoperchia così una pentola che non riguarda solo Roma, ma tutta l'Italia. Questo saggio vi anticipa gli scandali che stanno per scoppiare e vi svela ciò che nessuno ha ancora svelato: le coop sospette che continuano inspiegabilmente a vincere appalti, i personaggi oscuri, gli affidamenti dubbi, i comportamenti incomprensibili di alcune Prefetture. Tutti gli scandali sono insopportabili. Ma quelli che si fanno scudo della generosità sono i peggiori. E vanno denunciati, in primo luogo per rispetto ai tantissimi volontari perbene: questo libro è dedicato proprio a loro, che ogni giorno tendono la mano al prossimo senza ritirarla piena di quattrini.
Mario Giordano, ecco chi si riempie le tasche con il business dei migranti. Un libro inchiesta che fa arrabbiare, discutere e un po' anche vergognare, scrive "Panorama" il 7 marzo 2016. Mario Giordano, nell'ultimo libro," Profugopoli. Quelli che si riempiono le tasche con il business degli immigrati", (Mondadori 2016) racconta, in un'inchiesta serrata, una storia che fa arrabbiare, discutere e anche un po' vergognare. È la storia dei più incredibili modi per improvvisarsi centro d'accoglienza per migranti e guadagnare molti soldi. Ci sono l'associazione folcloristica (specializzata in tarantella) e l’istituto per odontotecnici. E poi Lady Finanza (bocconiana) e lo speculatore di Londra. Ma anche hotel, agriturismo e residence che rinunciano ad accogliere clienti e turisti e si buttano sul più sicuro “Affare Profugo”. (E se non bastano i posti letto, va bene anche un night club, o una piscina svuotata e riempita di tende.) Privati che affittano case e ville, e il business delle multinazionali. Le grandi coop bianche e le grandi coop rosse, che sono diventate delle vere e proprie industrie con fatturati che si moltiplicano. Un’inquietante inchiesta ci svela chi sono gli “avvoltoi” che oggi stanno speculando in nome dell’accoglienza.
I furbetti della solidarietà arricchiti da Profugopoli. Non solo Mafia capitale. Dalle mini coop alle multinazionali, nel libro di Mario Giordano i nomi di chi si spartisce la torta dell'accoglienza, scrive Massimo Malpica, Martedì 08/03/2016, su "Il Giornale". Un ritratto impietoso di un «sistema». Un sistema che trasforma accoglienza e solidarietà in lucroso business, sulla pelle degli immigrati e di chi la solidarietà la fa davvero. C'è di tutto in Profugopoli, l'ultimo libro del direttore del Tg4 Mario Giordano, che racconta «quelli che si riempiono le tasche con il business degli immigrati». Se a scoperchiare il calderone sul tema era stata Mafia Capitale, con il ras delle coop sociali Salvatore Buzzi a vantarsi di far più soldi con gli immigrati che con la droga, il volume di Giordano mostra invece che il malcostume non è questione meramente capitolina né si tratta di un fenomeno episodico. È un sistema. E prescinde da colori politici e confini geografici. Un libro-denuncia che fa nomi e cognomi di quanti, in Italia, si spartiscono la «grande torta» dell'immigrazione, dalle mini-coop alle multinazionali come la Gepsa, legata al gigante transalpino dell'energia Gdf-Suez, che fa incetta di appalti nel settore giocando al ribasso. Viste le differenze, Giordano divide questo esercito di furbetti in categorie. Ci sono gli «improvvisati», come il centro di formazione padovano che, fiutato l'affare, l'estate scorsa ha messo da parte i corsi per buttafuori e becchini per «accogliere» 81 migranti, e incassare 80mila euro al mese. Per non dire dell'associazione folkloristica siciliana che forte del suo «core business» - spettacoli con tamburelli e mandolino - si è aggiudicata, a Trapani, un bando prefettizio per una quarantina di profughi. Seguono gli «affaristi», imprenditori il cui fiuto li ha dirottati verso l'accoglienza, ma sempre con la testa al business, come l'avvocatessa napoletana che in Piemonte, sul Lago Maggiore, alleva capre e asine da latte, e a Busto Arsizio si dedica ad altro, aggiudicandosi 11 appalti per l'accoglienza migranti in 7 mesi tra 2014 e 2015, per oltre 2,5 milioni di euro. Poi tocca a «Specialisti&Colossi», le coop che sul sociale e sugli immigrati hanno costruito le loro fortune, trasformandosi in «imperi fondati sull'altrui disperazione», spiega Giordano, snocciolandone le storie. C'è la coop ferrarese, «monopolista» nonostante le bacchettate di Raffaele Cantone al Comune, quella modenese che nel 2014 ha incassato 13 assegnazioni di immigrati per oltre 2 milioni di euro, e quasi tutte in affidamento diretto, senza bando. Il colosso salentino dell'accoglienza, fondato da una ex colf albanese che «subappalta» i migranti alla chiesa copta lombarda, tenendosi 15 euro a migrante per il disturbo. Il viaggio a Profugopoli, corsa tra follie, sprechi e inchieste in salsa solidale, fa tappa anche dagli albergatori che hanno mollato i clienti paganti per i migranti ospitati a spese dello Stato e si conclude dove tutto è cominciato. Con i «farabutti», quelli pizzicati dalla magistratura, raccontati inchiesta per inchiesta, da «Mafia Capitale» alla mafia vera e propria.
“Profugopoli” di Mario Giordano racconta quanti italiani lucrano sulla tragedia dei migranti. Il business dell’accoglienza a spese nostre (e dei migranti), scrive il 9 marzo 2016 Gian Antonio Stella su "Il Corriere della Sera". Cos’hanno in comune le tarantelle di «Sicilia Bedda» e una coop toscana di derattizzazione? Niente, direte voi. Invece sono in qualche modo sorelle: hanno scoperto il business dei profughi. Capace in un caso di moltiplicare il fatturato fino a 126 volte (centoventisei!) in cinque anni. A spese degli italiani e dei profughi stessi. Che fosse un affarone si era già intuito leggendo la famosa intercettazione di Salvatore Buzzi, uno dei principali protagonisti di «Mafia Capitale»: «C’hai idea di quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno». Il puzzle ricostruito pezzo su pezzo da Mario Giordano in Profugopoli (167 pagine, Mondadori) è però ancora più vasto e spesso ripugnante di quanto sapessimo. E accusa non solo gli «intrallazzatori professionisti, i truffatori patentati, i trafficanti di immigrati, i semplici furbetti di paese» che cercano di strappare più profughi possibili ai volontari veri, quelli che si dannano l’anima sul serio per aiutare il prossimo (come la mamma dello stesso Giordano, cui il libro è dedicato) ma il sistema. Compresi certi prefetti che, per liberarsi dell’ingombro, smaltiscono i nuovi arrivati consegnandoli a chi capita. Dice tutto la storia di Pasquale Cirella, ex-installatore di impianti idraulici del napoletano che dopo aver fondato con incerte fortune la «Family Srl» per la «gestione di alberghi, pensioni, ristoranti, pub, pizzerie…» cambia la «mission» scrivendolo anche a bilancio: «L’emergenza profughi è l’oggetto principale della nostra società». In alleanza con «New Family» di Daniela Carotenuto, già «Miss Paesi Vesuviani», ha fatto per anni man bassa di appalti. Passando tra il 2009 e il 2014 da 44 mila a 5 milioni e mezzo (abbondanti) di euro. Un exploit dovuto anche a come trattava i profughi: al «Di Francia Park», ristorantone per matrimoni poi sequestrato, ne aveva messi trecento su brandine accatastate nelle sale. «I soliti terroni!», dirà qualcuno. «Lady Finanza» Giannina Puddu da quarant’anni «vive e respira la Milano da bere: prima la Bocconi, poi PiazzaAffari» fino a «diventare presidente di Assofinance». Costruita una palazzina a Chieve (Cremona) «è riuscita a vendere solo due appartamenti» e che fa? Fonda la società «Garbata Accoglienza». Dodici giorni dopo, è «ritenuta dalla Prefettura adatta a gestire la drammatica emergenza dei profughi» e piazza i suoi nella palazzina vuota: «Dovevo pagare le rate del mutuo». Il Consorzio di cooperative McMulticons sta a Empoli e dintorni, tratta di «pulizie civili, industriali, sanificazione ambienti, derattizzazione» ed è legato a una Onlus che si occupa di carcerati. Che c’entrano i profughi? Ne prende in carico 141 e ne manda 36, denuncerà redattoresociale.it, in un «casolare diroccato in aperta campagna, a 5 chilometri da Castelfiorentino e lontano da qualsiasi centro abitato» con le «pareti ammuffite, i muri sgretolati, le cucine abbandonate, gli angoli pieni di sporcizia» e «due bagni per 36 persone». Due euro al giorno dello Stato vanno a ogni immigrato (sigarette) e gli altri (da 28 a 38, a seconda dei contratti) a chi gli dà da mangiare e dormire. «A Benevento la Prefettura si fida ciecamente di Maleventum. Non è un gioco di parole, è il nome del consorzio che raccoglie diverse cooperative cui sono stati affidati ben 770 profughi, un’enormità. “Sparsi in 13 centri diversi”». Incassi 2015? «Quasi 9 milioni di euro». La «mente è Paolo Di Donato, che non a caso si definisce “ideatore, creatore e gestore, con oltre 200 dipendenti, del consorzio”». Volete vedere il tipo? «Sul profilo Facebook si mostra a bordo di una Ferrari». In compenso, denuncia ancora redattoresociale.it, per una trentina di giorni, i circa 120 «ospiti» ammassati in una palazzina a Contrada Madonna della Salute «hanno bevuto e si sono lavati con acqua di pozzo». Elio Nave è titolare dell’Hotel Quercia di Rovereto: «Sono stato sempre leghista e sempre lo sarò». Il suo segretario Matteo Salvini spara più contro i profughi che contro gli affaristi? Lui applaude, ma ha spiegato al Corriere delle Alpi che il nuovo business va benissimo: «Non riuscivo a coprire le spese. Avevo già chiuso il ristorante. Poi avevo provato ad aprire una pizzeria…». Adesso è sempre completo: «Senza i profughi avrei dovuto chiudere». «Ospitare i profughi è il nostro nuovo modello economico» dice Giulio Salvi dell’Hotel Bellevue di Cosio Valtellino: «Ho già incassato 700-800.000 euro». Di turisti «non ne venivano più…». Vuoi mettere i profughi? «Ne hanno 70 a 37,5 euro al giorno», spiega Giordano, «Incassano 80.000 euro al mese. In cambio offrono camere modeste, un vecchio televisore e un menù basico, riso e pollo, piatto unico». Il Csfo di Monselice (Padova), fa corsi di formazione per buttafuori e per addetti alle pompe funebri ma non si fa scappare il business e prende in gestione «una cinquantina di immigrati, incassando per ognuno di loro un contributo pari a 34,89 euro al giorno». E dove li piazza? In una ex colonia a mille metri a Pian delle Fugazze. Un’interrogazione accusa: «degrado inaccettabile», «abisso di inciviltà», «bagni intasati», «allagamenti di corridoi»… Fra l’altro, racconta il libro, «vien fatto notare che a tutti gli ospiti sono stati consegnati all’inizio del soggiorno un piatto e due posate in plastica, genere usa e getta. Da mesi sono costretti a mangiare con quelli. Sporchi e rotti. Da far schifo». Ma che razza di società è? Sorpresa: «L’86 per cento del capitale è vincolato nel CalvetTrust, un fondo soggetto alla legge di Jersey». Un paradiso fiscale…
«Profugopoli» quegli affari della coop leccese, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno” il 9 marzo 2016. Esce oggi in libreria «Profugopoli» di Mario Giordano (pagg. 156, euro 17,50), una documentata denuncia di «quelli che si riempiono le tasche con il business degli immigrati». Ne anticipiamo uno stralcio su un caso pugliese. "Continua a gestire regolarmente profughi anche l’Integra di Lecce, nonostante le «gravi inadempienze» che le vengono imputate. La cooperativa, molto attiva in tutta Italia, è stata fondata nel Salento da una italo-albanese, Klodiana Çuka: sbarcata sulle nostre coste nel 1992, Klodiana ha cominciato come collaboratrice domestica, poi è stata traduttrice e mediatrice culturale. Di qui l’idea di fare sul serio: la coop, nata nel 2003, dal 2013 è regolarmente iscritta al registro delle imprese, e oggi ha 42 addetti, con sedi a Roma, Milano, Taranto e Avezzano. Nel 2014 si è aggiudicata i progetti di accoglienza gestiti dalla città di Lecce e di alcuni altri Comuni pugliesi. Nel frattempo è scoppiata la grande emergenza e allora ci si è buttata a capofitto, decidendo di giocare anche in trasferta. Ha vinto appalti a Lodi, ha lavorato in convenzione con la Prefettura di Pavia. E soprattutto è sbarcata a Milano, dove nel corso del 2014 ha ottenuto contratti per un totale di 752.766 euro. Una bella impresa per chi aveva cominciato come collaboratrice domestica. Ma in realtà dalle parti di Integra non tutto fila liscio. Al di là delle belle parole con cui la cooperativa si presenta nei suoi documenti ufficiali («sensibilità verso il mondo della migrazione», «creare e implementare una società multietnica e multiculturale», «associazione trasversale guidata dal motto: unire senza fondere, distinguere senza dividere, rimanendo uniti nelle diversità»), la gestione del centro di via Quintiliano a Milano non brilla per efficienza. Tanto che nel febbraio 2015 la Prefettura compie un blitz e lo chiude temporaneamente per «gravi inadempienze», costringendo a trovare un’altra collocazione ai profughi che là dentro erano stipati all’inverosimile, in locali all’apparenza piuttosto devastati. «Sono cose che possono succedere» ha commentato con una certa noncuranza la responsabile Klodiana Çuka. In effetti: cose che possono succedere. Nel novembre 2015 Safwat Bakhit, presidente della Chiesa copta evangelica egiziana della Lombardia, dalle colonne di «Repubblica» denuncia: «Dall’estate del 2014 diamo ospitalità a 92 persone per conto di Integra, ma sono otto mesi che la coop non ci paga». L’associazione di Lecce, infatti, aveva siglato un accordo con la Chiesa copta: quest’ultima si era accollata interamente la gestione dei profughi, Integra avrebbe dovuto girarle 20 dei 35 euro incassati dalla Prefettura per ognuno. Invece, niente. «Hanno abbandonato qui quelle persone, incassano i soldi dallo Stato e non ci pagano» accusa Bakhit. «Si approfittano di noi perché siamo una chiesa e non lasciamo i rifugiati in mezzo alla strada». Avete capito il meccanismo furbetto? Prima Integra ottiene i profughi dalla Prefettura a 35 euro, poi li «gira» alla Chiesa copta a 20 euro. La differenza (15 euro) resta nelle sue tasche, senza fatica alcuna. Ma tutto ciò non basta. Secondo i religiosi, infatti, la coop non verserebbe nemmeno i 20 euro e si terrebbe l’intero bottino, lasciando agli altri le spese del mantenimento profughi. Ma vi pare? «La colpa non è nostra, è la Prefettura che non ci paga regolarmente» si difendono i cooperanti del Salento. Ma anche se fosse vero, la manovra resta piuttosto spericolata. E un po’ sospetta. Sono cose che possono succedere, si capisce. Ma quello che proprio non si spiega è come mai, nonostante tali dubbi e le gravi inadempienze, anche da essa stessa accertate e segnalate con diverse lettere di contestazione, la Prefettura di Milano continui a fidarsi di questa cooperativa di Lecce, improvvisamente sbarcata al Nord. E soprattutto non si capisce come mai continui a concederle affidamenti diretti su base fiduciaria: non solo, infatti, il Prefetto non sospende immediatamente l’appalto da 965.947 euro (in essere dal 1° gennaio 2015), ma addirittura ne sigla un altro il 1° maggio 2015 da 378.329 euro e piazza Integra in testa alla graduatoria della nuova gara (29 dicembre 2015). Davvero una fiducia a prova di bomba, non credete?
TERREMOTO, RAZZISMO E SCIACALLAGGIO.
«Eravamo lì per aiutare, ci hanno trattato da sciacalli», scrive Simona Musco il 29 ago 2016 su “Il Dubbio”. I giornali nazionali li hanno sbattuti in prima pagina con accuse infamanti e senza lo straccio di una prova. «Volevamo solo dare una mano a quelle persone disperate, ora, invece, ci additano come sciacalli, solo perché veniamo da Platì: ma è tutto un equivoco». Rocco Grillo e Pasquale Trimboli ci avevano provato. Erano saliti su una Suzuki Vitara, 48 ore dopo quel terremoto che ha squarciato il centro Italia, pensando di «fare del bene». Ma da Amatrice, simbolo del sisma, sono tornati giù con l'accusa peggiore: quella di voler approfittare della tragedia per riempirsi le tasche. La loro versione, fino ad ora, era un rigo nei giornali nazionali, che parlano di loro come «malviventi» - i due hanno precedenti per furto - che si aggiravano «tra le rovine di una casa diroccata» con «fare sospetto». Di passare per avvoltoi, però, non ne hanno voglia. E raccontano quel viaggio, durato meno di 24 ore. «Ci siamo ritrovati al bar con degli amici, a parlare di tutta quella gente disperata che avevamo visto in tv - racconta Trimboli, bracciante agricolo di 36 anni -. Dovevamo partire tutti insieme, ma non abbiamo trovato un furgone. Così abbiamo pensato di raccogliere viveri, coperte e vestiti in giro per il paese e di partire con la mia auto. Ma visto che avevano bloccato l'invio dei beni, abbiamo pensato di partire per dare una mano e basta». Prima di mettersi in viaggio, alle sei del pomeriggio del 26 agosto, i due passano dalla caserma dei carabinieri di Platì, paesino di poco meno di 4mila anime, arroccato sull'Aspromonte, per tutti simbolo di una 'ndrangheta prepotente e sanguinaria, ma che ha fatto vedere il suo volto migliore in più di un'occasione. «In caserma ci hanno detto che stavamo facendo una cosa bella - spiega Grillo, 38 anni, anche lui bracciante -. Siamo passati per capire se fosse il caso di andare e ci hanno detto che il volontariato è libero». I due arrivano ad Amatrice alle 3.30, nel cuore della notte. Incontrano la polizia, chiedono dove andare per dare una mano e vengono indirizzati alla tendopoli. «Lontano, dunque, dalle case», sottolineano. I due passano da una divisa all'altra, cercando qualcosa da poter fare, fino a quando un uomo della protezione civile, alle 6.30, dà loro dei guanti e li mette a pulire i bagni. «Era pur sempre un lavoro da fare», dice Trimboli. Poi vengono spediti a raccogliere la spazzatura dentro le tende. «Da soli abbiamo raccolto circa trenta sacchi», spiega Grillo. I due si fermano per la colazione e dopo aver preso un caffè in mensa tornano alla tendopoli, dove incontrano il presidente Sergio Mattarella e il capo della protezione civile Fabrizio Curcio. «Gli abbiamo detto che venivamo dalla Calabria - raccontano -. Ci ha dato la mano e ci ha fatto i complimenti». Sono le dieci quando i due decidono di spostarsi di qualche metro, all'ombra, vicino alla loro auto, per fumare una sigaretta. «In quel momento - spiega Trimboli - è arrivato un ragazzo del posto, in macchina, e ci ha chiesto chi fossimo e il tesserino. Noi però non lo avevamo. Abbiamo spiegato che eravamo volontari ma una signora, arrivata poco dopo, ha iniziato a inveire contro di noi. Ci gridava: "dovete andare via, bastardi, infami". Abbiamo provato a spiegare che eravamo lì per dare una mano ma ha continuato a urlare». È in quel momento che arriva una ventina di uomini delle forze dell'ordine. Che avviano la procedura di rito: la consegna dei documenti, la perquisizione dell'auto, domande sul come e il perché si trovano lì. «I carabinieri hanno controllato l'auto ma non c'era nulla», spiega Trimboli, parole confermate dal verbale firmato dai due. Che per farsi credere mostrano i guanti e indicano chi li ha messi a lavorare. E pure lui, sostengono, prova a dire come sono andati i fatti. «Ha spiegato che eravamo andati a registrarci ma era tutto bloccato - racconta Grillo -. Ce n'erano tantissimi come noi lì, non registrati ma che davano una mano». I carabinieri vogliono sapere perché partire da Platì per un viaggio così lungo. Loro insistono: «per noi era un onore poter aiutare qualcuno - sottolinea Trimboli -. Ho lasciato tre bimbi piccoli a casa, solo per dare una mano. Non per sentirmi dire che sono uno sciacallo». I due invitano i carabinieri a contattare la stazione di Platì ma i loro precedenti bastano e avanzano: furto. Fatti troppo specifici per lasciar correre. «È vero, ho sbagliato anni fa ma ho pagato i conti con la giustizia, sono su una strada buona. A Platì abbiamo sempre dato una mano quando c'è stato bisogno», conclude Trimboli. A loro carico, ora, c'è solo un procedimento amministrativo presso la Questura di Rieti per il foglio di via, spiega il loro legale, Domenico Amante. «Il problema è che ora, per tutti, sono due sciacalli. Ma loro volevano solo aiutare».
E poi ci sono gli sciacalli mediatici. Dapprima i media avevano diffuso le sue generalità e pareva fosse un pregiudicato napoletano. Ma invece non è così. Si tratta infatti di un nomade di etnia Rom arrivato appositamente da Napoli in Treno, scrive “La Voce del Trentino” il 26 agosto 2016.
Arrestato sciacallo ad Amatrice: è un pluripregiudicato napoletano, scrive “Il Mattino di Napoli” il 25-08-2016. I carabinieri del comando provinciale di Rieti, nell'ambito dei servizi messi in atto al fine di reprimere il fenomeno dello sciacallaggio a seguito del forte sisma, hanno tratto in arresto un pluripregiudicato napoletano, Massimiliano Musella, 41 anni, residente al Rione Alto. Una delle pattuglie poste in campo e composta dal comandante della stazione di Leonessa e da un militare dipendente dello stesso reparto, coadiuvati da militari del 7° rgt laives, nel pomeriggio odierno, nella frazione «Retrosi» del comune di Amatrice, hanno colto all'improvviso l'uomo che tentava di forzare con un cacciavite, la serratura di un'abitazione colpita dal sisma e disabitata. I militari lo hanno sorpreso alle spalle e l'uomo, vistosi braccato, ha tentato di divincolarsi ingaggiando con i militari, una violenta colluttazione, ferendo con il cacciavite, uno dei militari. I carabinieri al termine della breve colluttazione sono riusciti a immobilizzarlo e ad ammanettarlo. Dopo averlo disarmato, lo hanno accuratamente perquisito rinvenendo nella tasca dei pantaloni, un biglietto ferroviario datato 24 agosto 2016 tratta Napoli-Roma, confermando la tesi che il pregiudicato, era giunto sul luogo del sisma, prima in treno e poi in pullman, con l'intento di far razzie all'interno delle abitazioni colpite dall'evento tellurico. L'uomo, gravato da numerosi precedenti penali per detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti, ricettazione e porto abusivo di armi è stato tratto in arresto con l'accusa di rapina impropria e lesioni personali e tradotto presso la casa circondariale di Rieti a disposizione dell'autorità giudiziaria locale. I militari, ricorsi alle cure mediche da parte dei sanitari presenti nel campo allestito per le vittime del sisma, sono stati giudicati guaribili in 6 giorni.
Il racconto degli angeli di Amatrice: «Così abbiamo arrestato lo sciacallo», continua Ebe Pierini su “Il Mattino di Napoli” il 26-08-2016. Lì dove non possono arrivare con le auto perché ci sono solo macerie loro arrivano a piedi. Sono stati i primi a giungere sul luogo del sisma ed ora sono 400 i carabinieri che pattugliano il territorio di Amatrice ed Accumuli, 24 ore su 24, per impedire che gli sciacalli entrino nelle case abbandonate per rubare. Com'è successo giovedì quando a finire in manette è stato il 41enne napoletano Massimiliano Musella. «Mentre transitavamo in auto per la frazione di Retrosi, vicino Amatrice, io e il mio collega, l’appuntato scelto Gianni Reali, abbiamo notato un uomo che armeggiava con un cacciavite nei pressi del portone di legno di un’abitazione – racconta il maresciallo Mauro Margarito, comandante della stazione di Leonessa – Siamo scesi dal mezzo. Io indossavo la pettorina dei carabinieri. Abbiamo intimato l’alt e lui è fuggito. Lo abbiamo rincorso e raggiunto e, mentre tentavamo di immobilizzarlo, ci ha offerto resistenza. Ne è nata una colluttazione. Siamo finiti tutti e tre a terra. Il caso ha voluto che in quell’istante passasse una pattuglia di colleghi del 7° reggimento Laives che ci ha aiutati ad ammanettarlo». «L’uomo è stato poi condotto presso il carcere di Rieti con l’accusa di rapina impropria e lesioni – aggiunge il capitano Emanuela Cervellera, comandante della compagnia di Città Ducale, dipendente dal comando provinciale di Rieti, che ha la competenza sulla zone di Amatrice ed Accumuli – Il maresciallo ha infatti riportato una distorsione dell’avambraccio sinistro, mentre l’appuntato scelto una ferita da taglio all’indice della mano destra e una contusione al gomito». «L’uomo ci ha minacciato dicendo che ci avrebbe denunciati perché quello che avevamo visto non corrispondeva al vero – racconta ancora il maresciallo Margarito – Ad insospettirci è stato anche il fatto che indossasse una pettorina con scritto security e che con sè avesse un grosso sasso oltre a un borsone. In tasca aveva un verbale di accertamento di violazione di 38 euro effettuato sul treno da Napoli a Roma in quanto non aveva pagato il biglietto, datato 24 agosto, il giorno del sisma. In un primo momento si è giustificato dicendo che era un soccorritore, ma ho comandato la stazione di Amatrice per due anni e mezzo e conosco tutta la gente del posto. Se fosse stato di lì lo avrei riconosciuto. Tra l’altro la mattina era stato già notato mentre cercava di oltrepassare i varchi di accesso alla città dicendo di essere un volontario». «La prevenzione dei furti fa già parte dei nostri compiti quotidiani – assicura il capitano Cervellera - Tranquillizzare la gente rappresenta un aiuto psicologico. Hanno lasciato tutte le loro cose all’improvviso ed è nostro compito farle loro ritrovare».
Terremoto, lo sciacallo arrestato ad Amatrice aveva annunciato l'impresa su Facebook: “Vado lì”, affonda il colpo Stella Cervasio nel suo articolo del 27 agosto 2016 su "La Repubblica". L'aveva scritto sul suo profilo Facebook il 24 agosto alle 18.48: "Vado lì". Dopo si è capito che intendeva nei paesi del centro Italia colpiti dal terremoto. M.M., 41 anni, di Chiaiano, ha preso un treno Napoli-Roma, è sceso alla stazione Tiburtina ed è salito su una corriera che l'ha portato ad Amatrice, quel nome di paese che aveva sentito in tv, spazzato via dal terremoto. Nella frazione di Retrosi i carabinieri l'hanno trovato ad armeggiare con un cacciavite al lucchetto di una porta di una delle case evacuate dopo il sisma. Si è girato e ha colpito i due uomini dell'Arma, che hanno un referto ospedaliero di cinque e sei giorni. "Che lavoro fa? Nessuno ", dicono al Comando provinciale di Rieti, dove peraltro sono presi da ben altri impegni, in queste ore. L'arresto di M.M., che è accusato di rapina impropria, lesioni e resistenza, è stato eseguito dai carabinieri di Città Ducale e deve ancora essere convalidato dal gip. L'uomo intanto è rinchiuso nel carcere di Rieti. Sul suo profilo Facebook, dove annunciava la partenza per i paesi terremotati, sono piovuti gli improperi di ogni genere, anche sotto le foto di statue di santi che aveva postato in precedenza, e le accuse di aver fatto vergognare i cittadini napoletani per aver battuto il peggiore dei record: è stato il primo (e finora per fortuna l'unico) sciacallo del dopoterremoto del Lazio. E purtroppo è targato Napoli, anche se il sindaco de Magistris, per segnare immediatamente la distanza della città da quest'azione, ha annunciato la costituzione di parte civile contro il responsabile. M.M è stato arrestato in precedenza una volta per droga e due volte per furto, quindi non è nuovo a questo tipo di lavori. Ma, pur vivendo ai Camaldoli, nel dominio del clan Polverino, non ne fa parte. M.M. ama piuttosto montare sui treni e fare bravate. Lo avevano visto anche l'anno scorso, alla prima udienza del processo contro Bossetti, accusato dell'omicidio di Yara Gambirasio. Era arrivato con il gruppo innocentista che sui social ha anche diversi sottogruppi per la verità con non numerosissimi iscritti. Reggeva uno striscione che sosteneva che il carpentiere di Mapello, poi condannato all'ergastolo, fosse innocente. Sui giornali l'avevano descritto come "l'autista molto abbronzato, arrivato da Napoli ". E sarebbe andato anche a più di una udienza del processo. Secondo quanto i giornali di Bergamo scrissero, all'epoca avrebbe anche dichiarato davanti alle telecamere: "Un'accusa ingiusta e totalmente infondata - sostiene Massimiliano M.M, il napoletano che ieri mattina è arrivato in via Borfuro appositamente per seguire la prima udienza - non è lui il colpevole. Gli autori del delitto sono ancora in circolazione. Purtroppo le indagini non state condotte in modo adeguato".
Il video dello sciacallo: un falso grossolano, scrive Ugo Maria Tassinari il 26 agosto 2016. Un video supporta da stamattina una campagna virale sullo sciacallo napoletano a partire dalla notizia di stampa attivata da “Il Mattino” (proprio contro un suo concittadino). Un’onda di indignazione tale che il sindaco De Magistris ha annunciato la volontà di costituirsi parte civile. Peccato che il video non c’entri niente. A trascinare il fermato, infatti, sono poliziotti. E, a finale, arriva pure la smentita della Questura di Rieti, che racconta la reale dinamica. La polizia ha scongiurato il linciaggio di un innocente. Ecco la nota Agi: Roma – E’ polemica sullo sciacallaggio nelle aree devastate dal sisma: dopo una serie di denunce di individui sospetti sorpresi a rovistare tra le macerie, rilanciate anche dai media, la Questura di Rieti in un comunicato ha definite “prive di ogni fondamento” queste notizie. “I servizi di vigilanza, specificamente finalizzati al contrasto di possibili episodi di sciacallaggio, sono stati infatti attuati sin dai primi istanti con personale delle forze dell’ordine, e poi rafforzati nelle ore serali e notturne con l’arrivo dei reparti organici”, ha assicurato la Questura. Allo stato, “sentite anche le altre forze di polizia, non risulta alcun episodio di illegittima introduzione di persone nelle abitazioni evacuate, tantomeno di furti perpetrati”. Sono stati eseguiti controlli su persone sospette o “semplicemente presenti all’interno di aree interdette o in procinto di entrarvi”, ma tutte le verifiche, conclude la Questura, “hanno avuto esito negativo e le persone sono state indirizzate ai competenti organismi di Protezione civile o semplicemente allontanate”. Tra gli episodi segnalati c’era quello di un uomo identificato ad Amatrice perchè sorpreso con un trolley e sospettato di aver sottratto oggetti da alcune abitazioni. L’uomo ha rischiato il linciaggio da parte della folla, ma l’arrivo dei poliziotti ha evitato l’aggressione. Sempre ad Amatrice tre persone sono state fermate perché sorprese a rovistare nelle case abbandonate. Segnalazioni sono arrivate anche nell’ascolano nel comune di Arquata, in particolare nella frazione di Pescara del Tronto spazzata via dal terremoto. Secondo i soccorritori, si sono verificati casi già nel corso della prima notte del sisma. I carabinieri hanno intensificato i controlli in tutta l’area.
La versione corretta pubblicata dai media non ti aspetti.
Fermato un presunto sciacallo: rischia il linciaggio degli abitanti di Amatrice. Un presunto sciacallo è stato fermato dalla polizia ad Amatrice, scrive Giuseppe De Lorenzo, Giovedì 25/08/2016, su "Il Giornale". Un presunto sciacallo è stato fermato dalla polizia ad Amatrice. Siamo nella zona alta vicino al giardino dove alcuni degli sfollati del terremoto cercano riparo dal sole. Un gruppo di abitanti del luogo ha notato un uomo di Napoli con una valigia piena e l'ha bloccato. Alla richiesta di far vedere cosa c'era dentro la borsa, il napoletano si è rifiutato. A quel punto sono intervenute le forze dell'ordine. Il video che IlGiornale.it ha realizzato in esclusiva mostra il momento del fermo. L'uomo grida aiuto dicendo "vi sbagliate, vi sbagliate". Le forze di polizia lo portano allora in un angolo al riparo dalla furia della folla che vorrebbe linciarlo. "Ma come si fa a rubare nelle case distrutte - dice molto alterato un ragazzo - entrano e si portano via tutto. Perché gli edifici non crollano quando ci sono queste persone dentro invece della gente perbene?". Alla conclusione di lunghe perquisizioni e accertamenti, i poliziotti in borghese ci fanno sapere che il presunto sciacallo "non è stato arrestato". Non sono stati trovati elementi certi per accusarlo. "Questa persona - aggiunge un ispettore della Digos - non ha commesso alcun reato a quanto pare". Ma è stato comunque allontanato dalla città: "Qui non serve", conclude l'ispettore. Il dubbio che fosse un delinquente rimane. Questa la ricostruzione dei fatti. Il presunto sciacallo sarebbe stato visto la prima volta da un ragazzo a pochi passi da un'abitazione dove si scavava tra le macerie. Avrebbe detto di dover riportare il caschetto protettivo ad un amico che stava lavorando all'interno della casa distrutta. Si sarebbe quindi spacciato per volontario. "Gli ho detto di darlo a me - racconta un ragazzo che era nei paraggi - ma insisteva per portarlo personalmente". Poco dopo l'episodio che ha scatenato il fermo. L'uomo, come detto, è stato notato con una valigia da alcuni cittadini di Amatrice e poi bloccato dalla Digos. "Diceva di essere un ingegnere", racconta il signore che l'ha intimato ad aprire la borsa. "Ma come? - fa eco un altro ragazzo - prima dice di essere un volontario e poi un ingegnere?". Durante il fermo avrebbe anche sostenuto di essere di Amatrice. Ma tutti gli abitanti assicurano di non conoscerlo. "Qui siamo tutti vicini - dice un signore - ci conosciamo bene". Il presunto sciacallo per provare a fornire un alibi avrebbe fatto il nome di un cittadino del luogo. Le forze dell'ordine lo hanno cercato per permettergli di fare un riconoscimento. Si trattava di un carabiniere. Il quale, appurato di non conoscerlo, ha avuto uno scatto d'ira. A raccontarlo è lo stesso militare. La polizia ci fa sapere che il sospettato non è un volontario registrato. Per questo motivo è stato allontanato dalla città. "Ci aspettiamo - conclude l'ispettore - di doverne allontanare altri". L'allerta sciacalli è altissima.
«Dagli allo sciacallo!». Gli untori di Amatrice, scrive Paolo Persichetti il 6 set 2016 su "Il Dubbio". Il caso dei rumeni Ion C. e Letizia A, fermati con il nipote di 7 anni con l'infamante accusa di sciacallaggio denunciato dall'avvocato Luca Conti, presidente dell'ordine di Rieti. Amatrice Oltre a provocare vittime e distruzione i terremoti sembrano suscitare il malsano bisogno di capri espiatori. Tra le pieghe del dolore e dello strazio di chi ha perso figli, genitori, parenti o amici e ha visto la propria esistenza sbriciolarsi sotto il crollo della propria casa, perdendo tutto ma forze più di ogni altra cosa le tracce della propria memoria, ciò che compone l'io di ogni persona, ci sono anche delle vittime "collaterali". L'allarme sciacalli ne ha provocate diverse in questi giorni. Alimentata dai media con storie costruite a tavolino fin dalle prime ore successive al sisma, la paura dello sciacallo si è insinuata subdolamente, complice anche l'atteggiamento di alcune forze di polizia che invece di infondere sicurezza e tranquillità nella popolazione scossa dalla tragedia hanno moltiplicato paure, diffuso dicerie come quella del falso prete che si aggira tra le frazioni colpite nascondendo sotto l'abito talare gli ori e gli argenti sottratti dalle case danneggiate. Abbiamo tutti letto la storia del pregiudicato napoletano che avrebbe preso il treno fino a Roma per poi recarsi ad Amatrice ed essere qui scoperto, non si capisce come e dove. Una vicenda confezionata ad arte al punto che lo stesso sindaco di Napoli aveva dichiarato che il comune partenopeo si sarebbe portato parte civile contro l'uomo arrestato. Peccato però che nessuno fosse finito in manette. A sole 24 ore di distanza dal terremoto un quotidiano del Nord titolava "Maledetti sciacalli, stanno già rubando tutto", narrando di tre arresti, tra cui ovviamente l'immancabile «nomade», avvenuti tra le rovine di Pescara del Tronto, tanto che la Questura di Rieti è dovuta intervenire con un comunicato nel quale si riferiva che «allo stato non risulta alcun episodio di illegittima introduzione di persone nelle abitazioni evacuate, tantomeno di furti perpetrati». Sono stati eseguiti - proseguiva il testo - controlli su persone sospette o «semplicemente presenti all'interno di aree interdette o in procinto di entrarvi», ma tutte le verifiche «hanno avuto esito negativo e le persone sono state indirizzate ai competenti organismi di Protezione civile o semplicemente allontanate». Ovviamente il comunicato è servito solo a quei pochi che lo hanno letto, non poteva certo arginare una psicosi da trauma se poi sul terreno c'è chi sobilla il sospetto, attrezza campi che sembrano ghetti, infantilizza le persone. La ricerca del capro espiatorio diventa allora un espediente rassicurante, una tecnica di governo del territorio che compatta le comunità disorientate verso un nemico esterno. Una ong francese ha rischiato di tornare indietro con il suo carico di preziose tende se non fosse stato per il buon senso di alcuni militari. L'esercito, oltre ai Vigili del fuoco sempre fedeli al loro motto ubi dolor ibi vigiles, ha dimostrato sul terreno di essere il corpo con la mentalità meno militare di tutti. Non stupisce dunque se due volontari di Platì, arrivati ad Amatrice con i propri mezzi e tanta solidarietà - come hanno raccontato al Dubbio - abbiano pagato il prezzo di questa fobia: accusati di esser dei potenziali sciacalli dopo le grida di una donna anziana che non li conosceva, nonostante lavorassero all'interno del campo messo in piedi dalla protezione civile, sono stati allontanati da Amatrice con il foglio di via. Chi scrive ha assistito ad un episodio grottesco: l'inseguimento da parte di sei motociclisti dei carabinieri di un furgone, avvistato nei pressi della frazione di Preta, che poi si è rivelato trasportare una salma. Non hanno avuto la stessa fortuna dei volontari di Platì i due cittadini romeni di etnia Rom fermati nella tarda mattinata del 29 agosto con l'infamante accusa di essere degli sciacalli. In un comunicato dei carabinieri si legge che una pattuglia del nucleo radiomobile di Roma avrebbe «sorpreso nella frazione di Preta del comune di Amatrice, un uomo ed una donna rispettivamente di 44 e 45 anni, che a bordo di un'autovettura Wolkswagen Passat con targa tedesca, avevano perpetrato poco prima, alcuni furti nelle abitazioni distrutte dal terremoto». Dopo un'accurata perquisizione «venivano rinvenuti svariati capi di abbigliamento, alcuni oggetti domestici, la somma contante di oltre 300 euro, una pistola giocattolo sprovvista del prescritto "tappo rosso" ed alcuni arnesi da scasso. I soggetti, entrambi di nazionalità rumena e gravati da numerosi precedenti penali per reati contro il patrimonio, sono stati tratti in arresto con l'accusa di furto aggravato e trattenuti nelle camere di sicurezza dell'arma, in attesa della relativa convalida da parte dell'autorità giudiziaria». La versione dei fatti fornita dai carabinieri ha sollevato tuttavia alcuni dubbi, intanto perché il fermo di Ion C. e Letizia A., che a bordo della loro macchina trasportavano anche il nipotino di 7 anni, non è avvenuto nella frazione di Preta ma lungo la strada regionale 577 del lago di Campotosto, in uno slargo molto ampio nei pressi del bivio per Retrosi. Dunque in un luogo lontano da centri abitati. La scena è stata vista da chi scrive, insieme ad altre due persone, che dalla frazione di Capricchia, immediatamente sotto Preta, scendevano in macchina verso Amatrice. La Passat era ferma con il portellone posteriore alzato e gli stracci contenuti all'interno gettati a terra. L'uomo e la donna erano accanto al carabiniere che controllava i documenti. L'autorità giudiziaria dopo aver confermato il fermo ha disposto la scarcerazione, sottoponendoli alla misura cautelare del divieto di entrare nelle province terremotate. Nel corso del rito per direttissima, ha spiegato l'avvocato Luca Conti, presidente dell'ordine degli avvocati di Rieti che ha assunto la difesa dei due romeni, è emersa l'inconsistenza dei capi di accusa (furto di biancheria e capi di abbigliamento). Gli arnesi da scasso si sono rivelati nient'altro che il kit di soccorso presente in ogni autovettura e i precedenti sono risultati inesistenti: la donna è sconosciuta ai servizi di polizia mentre l'uomo aveva solo una vecchia denuncia per possesso di arma impropria. Niente reati specifici come furti o rapine. I due non parlano italiano, la donna è analfabeta. Nel corso della udienza la coppia, con molte difficoltà espressive nonostante la presenza dell'interprete, ha dichiarato di essere ignara del terremoto. In macchina avevano tutto il necessario per dormire: un piccolo materasso, dei cuscini, coperte, biancheria varia e vestiti, alcuni piatti, bicchieri, posate, e i giocattoli del nipotino (tra cui la pistola di plastica), materiale privo di valore. Salta agli occhi l'assenza di preziosi, gioielli, argenteria, materiale tecnologico? L'uomo possedeva appena 305 euro, il minimo indispensabile per affrontare un viaggio. A Preta, come nella altre frazioni circostanti, nessuno ha lamentato furti. La coppia dopo essere stata scarcerata non ha più ritrovato il nipotino, affidato ai servizi sociali di Rieti che nel frattempo lo avevano trasferito a quelli di Roma. Il terremoto può contare così un altro disperso. L'avvocato Conti ha sollecitato l'ambasciata romena affinché il bimbo venisse restituito ai nonni, mentre il consiglio dell'ordine di Rieti ha promosso una raccolta di fondi i cui proventi verranno destinati ad opere di ricostruzione di edifici di interesse pubblico nei territori colpiti dal sisma (conto corrente denominato "In aiuto delle popolazioni colpite dal sisma" Iban: IT37O0306914601100000005558).
A SINISTRA: RAZZISTI AL CONTRARIO.
Brescia: senzatetto italiano morto di freddo, a pochi metri il resort che ospita i profughi, scrive “Riscatto Nazionale” il 4 gennaio 2016. Un senzatetto di 56 anni è stato trovato morto questa mattina a Desenzano del Garda, nel Bresciano. L’uomo è morto a causa del freddo poco distante dal ponte ferroviario del paese. E pensare che a Desenzano del Garda, a pochi minuti di distanza, ci sono giovani maschioni africani in un resort di lusso. Il lusso non è mai troppo, per i finti profughi di Renzi. Borgo Machetto, il governo ha affittato questo resort quattro stelle lusso di Desenzano del Garda, per ospitare i sedicenti profughi. Per i giovani maschi africani, una vacanza all’insegna del relax e del bel vivere, nella struttura scelta per loro dalla Prefettura di Brescia: prato tagliato all’inglese, bracieri accesi sulla terrazza con vista sul campo da golf, bionde turiste del nord europa rilassate nel patio e in piscina. Ma tranquilli. La responsabile, tal Maura, a chi protesta fa sapere: «Non so nemmeno se ci sia l’aria condizionata. A dire la verità i profughi proprio non escono». «Con i famosi 35 euro noi forniamo il necessario per il loro mantenimento e loro stanno lì senza uscire, hanno una piccola area comune destinata a quelle due stanze». A questi pseudo albergatori con hotel di lusso lucrano per 35 euro in pensione completa, tasse di anziani e gente normale: ma non vi fate schifo?
Il leader della Lega, Matteo Salvini: «Razzismo nei confronti degli italiani in difficoltà». Dura la presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni: «Denunceremo Pisapia in tribunale». La replica di Majorino (Welfare): «Siamo orgogliosi e non ci fermiamo», scrive “Il Corriere della Sera” il 4 gennaio 2016. Quattrocento euro al mese alle famiglie che saranno disponibili a ospitare profughi. È quanto prevede un bando del Comune per selezionare famiglie residenti sul territorio che vorranno mettere a disposizione un alloggio idoneo come abitazione-residenza per i titolari di protezione internazionale. Immediata la protesta del leader della Lega, Matteo Salvini, che su Facebook ha scritto: «Il Comune di Milano, giunta Pd-Pisapia, pagherà 400 euro al mese chi ospiterà un immigrato a casa sua. Roba da matti. Vergogna, questo è razzismo nei confronti degli italiani in difficoltà!». Si tratta di «una misura innovativa - la replica di Pierfrancesco Majorino, assessore al Welfare - che c’eravamo impegnati a mettere in campo mesi fa e che prevede anche forme di rimborsi per le famiglie ospitanti, configurandosi peraltro come una forma assolutamente vantaggiosa rispetto ad altre sul piano dei costi. Ovviamente la destra e la Lega gridano allo scandalo. Invece noi ne siamo orgogliosi e non ci fermiamo». L’incentivo, come sottolineato dallo stesso Majorino, si è reso possibile «grazie alla collaborazione tra Amci e Governo. U utilizzando risorse dello Stato - puntualizza il responsabile delle Politiche sociali - a Milano possiamo finalmente sperimentare l’accoglienza in famiglia di migranti, titolari di protezione umanitaria». Può partecipare al bando, entro il 15 gennaio, chi risiede nel Comune di Milano e ha a disposizione una camera per gli ospiti, possibilmente con bagno personale. Tra i requisiti, anche due giorni di formazione obbligatoria e avere un colloquio con uno psicologo. Il tempo previsto di ospitalità è di sei mesi che possono essere prorogati. Il rimborso spese «con fondi statali» è di 350 euro mensili per ospite, massimo 400 se si accoglie più di una persona. Sarà la cooperativa «Farsi prossimo» a selezionare i rifugiati che saranno ospitati in famiglia. Nel centrodestra, in molti hanno cavalcato la protesta si Salvini. Paola Frassinetti, coordinatrice regionale di Fratelli d’Italia, l’ha definita «un’idea indecente». Le fa eco Carlo Fidanza, responsabile Enti locali, che parla di «ennesima vergogna della giunta Pisapia». Secondo l’assessore lombardo al Territorio, Viviana Beccalossi (Fdi), si tratta di un’iniziativa da campagna elettorale che offre «l’ennesima squallida mancia in cambio dell’ospitalità di un profugo o presunto tale», mentre la giunta lombarda di Roberto Maroni «mette a disposizione dei cittadini il cosiddetto reddito di autonomia, cercando concretamente di aiutare gli italiani in difficoltà». L’ex vicesindaco Riccardo De Corato (Fdi) chiede invece al Comune di creare un fondo da dare a chi accoglie italiani poveri. «Andrò a incontrare i clochard italiani che ogni giorno trovano riparo in scatoloni di fortuna di fronte alle vetrine e sotto i portici della Galleria del Corso o in altre vie del centro di Milano, invitandoli a bussare all’assessorato di Majorino - promette per pretendere di entrare in un piano di protezione ed essere ospitati da famiglie italiane. Le quali, invece, potranno ricevere 300 o 400 euro al mese che il Comune mette a disposizione attingendo da fondi statali legati al sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati se ospiteranno una o più persone purché sottoposte a protezione internazionale». Dal centrodestra, tra le voci più dure si leva quella di Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia. Che, su Facebook, si dice pronta a sfidare il sindaco di Milano a suon di carte bollate: «Pisapia vuole dare 400 euro al mese ad ogni famiglia che ospiterà un immigrato richiedente asilo. È un atto illegale che Fratelli d’Italia è pronta a denunciare in tribunale». «La ragione - spiega Meloni - è semplice: così come l’articolo 42 del Testo unico sull’immigrazione del 1998 e sulla parità di trattamento e diritti sociali vieta a un’amministrazione pubblica di discriminare gli immigrati rispetto ai cittadini italiani nell’accesso ai servizi sociali, allo stesso modo un’amministrazione pubblica non può adottare provvedimenti che prevedono servizi sociali solo per gli immigrati ed escludano gli italiani. Fratelli d’Italia è pronta a difendere questo principio di giustizia sociale e a dimostrare in ogni sede che quello di Pisapia è un atto di discriminazione e di razzismo nei confronti del popolo italiano».
Ospitano rifugiati soldi alle famiglie. Scintille tra Lega e giunta Pisapia, scrive Sabrina Cottone Lunedì 04/01/2016 su “Il Giornale”. Trecentocinquanta euro al mese per chi ospita un profugo che ha richiesto asilo, quattrocento euro se si vuole e può ospitare più di una persona. Il bando per il censimento delle famiglie disposte all'accoglienza è rilanciato sul sito del Comune di Milano, nell'ambito di stanziamenti del ministero dell'Interno per offrire assistenza a richiedenti asilo e rifugiati (è il sistema di protezione cosiddetto Sprar). Volontari e privati si impegnano già da tempo a incentivare l'assistenza in famiglia, anche attraverso il portale Refugees Welcome (che si dedica a far incontrare chi desidera accogliere i profughi e chi cerca asilo) ma ora è Palazzo Marino a lanciare un bando aperto a tutte le famiglie che hanno una stanza da offrire, adeguati servizi igienici e disponibilità «a condividere la quotidianità con persone provenienti da diversi contesti socio- culturali». Le famiglie dovranno poi seguire un corso di formazione di due giorni e sottoporsi a un colloquio con un psicologo. Alla fine, potranno ospitare i rifugiati. Si tratta di accoglienza temporanea della durata di sei mesi. Il bando solleva la protesta della Lega che accusa Palazzo Marino di «scialare quattrini» e sovvertire l'agenda e la replica del Comune che definisce «barbarie» la posizione leghista. Dice Paolo Grimoldi (nella foto), segretario regionale della Lega: «Verrebbe da pensare che il Comune non abbia altri problemi di politiche sociali da affrontare se la giunta arancione di Pisapia può permettersi di mettere in cima alle priorità gli immigrati clandestini, anche se poi girando nelle periferie della città vediamo bene che non è così». Nella nota, firmata col segretario provinciale Davide Boni, si mette in dubbio la regolarità dei richiedenti asilo, definendoli «clandestini» ma soprattutto si dice che i fondi «andrebbero destinati ad aiutare le migliaia di anziani che non riescono a pagare l'affitto e non hanno assistenza domiciliare e ai tanti disoccupati o genitori separati che finiscono a dormire in macchina e sono costretti a rivolgersi alla Caritas o alle mense per i poveri». Replica dura di Pierfrancesco Majorino, assessore alle Politiche sociali: «La nostra scelta sull'accoglienza non cambia. Attraverso fondi statali vogliamo fare ancora di più il nostro dovere. La barbarie leghista non ci ferma». Scontro verbale violento tra posizioni agli antipodi.
"Soldi ai rifugiati, razzismo al contrario". Il centrodestra insorge contro i 400 euro dati dal Comune a chi ospita un extracomunitario, scrive Sabrina Cottone Martedì 5/01/2016 su “Il Giornale”. Sabrina Cottone «Milano innova anche nella solidarietà» dice l'assessore alle Politiche sociali, Pierfrancesco Majorino, difendendo a spada tratta il bando che offre fino a 400 euro alle famiglie che ospitano profughi. Si tratta di fondi del ministero dell'Interno nell'ambito dello Sprar (il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) ma il bando milanese rafforza e dà visibilità al progetto, che sarà attuato in collaborazione con la cooperativa «Farsi prossimo». Ma soprattutto scatena una pesante polemica politica, con centrodestra e Lega sul piede di guerra. «Roba da matti. Vergogna, questo è razzismo nei confronti degli italiani in difficoltà» scrive su Facebook il segretario della Lega, Matteo Salvini. Critiche anche da Forza Italia. Dice il coordinatore provinciale azzurro, Luca Squeri: «L'iniziativa ben rappresenta le priorità della sinistra: si offrono 400 euro alle famiglie italiane che decidono di ospitare in casa un migrante, ma se quelle stesse famiglie si trovassero in difficoltà, i 400 euro dallo Stato non li riceverebbero mai». Riccardo De Corato, Fratelli d'Italia, paventa una discriminazione: «Andrò a bussare dai clochard che ogni giorno trovano riparo in scatoloni di fortuna di fronte alle vetrine e sotto i portici della Galleria del Corso o in altre vie del centro di Milano, invitandoli a bussare all'assessorato di Majorino per pretendere di entrare in un piano di protezione». E Nicolò Mardegan, Noi per Milano: «Le priorità di un Comune devono essere i suoi abitanti ed il loro benessere: ci sono moltissime donne che per paura di non poter mantenere un bimbo scelgono di abortire». Il Comune, da parte sua, rivendica per Milano il ruolo di «capitale dell'accoglienza» e dà i numeri dei migranti coinvolti nei programmi di aiuto: ottantasettemila persone, di cui diciassettemila bambini. Vale la pena però di sottolineare la differenza tra migranti e richiedenti asilo o profughi: i primi arrivano per ragioni economiche, i secondi sono in fuga da guerre e persecuzioni e l'obbligo d'accoglienza discende da accordi internazionali a partire dalla Convenzione di Ginevra, oltre che dalla Costituzione che tutela lo status di «rifugiato». Il problema nasce dal distinguere i migranti dai rifugiati. I richiedenti asilo in tutta Italia sono settantamila, il sistema Sprar prevede una distribuzione in proporzione alla popolazione, quindi a Milano possono essere accolti tra i duemila e i tremila profughi e Lombardia si arriva intorno a quota diecimila. A spiegare l'utilizzo dei soldi è Matteo Bassoli, presidente di Refugees Welcome Italia e docente di Sociologia politica a E-Campus: «Si tratta di fondi vincolati che i governi hanno sempre usato per i rifugiati. Ma se durante l'emergenza del 2010 i profughi erano stati accolti in alberghi che ospitavano 80 persone, adesso quasi tutte le prefetture incentivano l'ospitalità diffusa. L'accoglienza in famiglia aiuta a ridurre i rischi sociali legati alla criminalità». Refugees Welcome, associazione del privato sociale che si occupa proprio di abbinare famiglie e richiedenti asilo, lavora spesso senza soldi. «Per noi - spiega - la diaria non è automatica: dipende dai contesti».
Del Debbio, l'accusa durissima a Quinta Colonna: "Molestie sessuali di stranieri, Mestre come Colonia", scrive “Libero Quotidiano il 13 gennaio 2016. "Mestre come Colonia". L'accusa, durissima, arriva da Paolo Del Debbio e dalla sua trasmissione Quinta Colonna. Un servizio del talk di Retequattro ha mostrato il degrado e l'insicurezza della cittadina dirimpettaia di Venezia. Ragazze e una attivista del comitato Sos Mestre raccontano le molestie sessuali subite per strada da stranieri o presunti tali, in un clima di paura che ricorda molto da vicino secondo il programma di Del Debbio quanto accaduto la sera di Capodanno in piazza a Colonia. Una ventunenne ha rivelato di essere stata toccata in maniera pesante "da un albanese o da un romeno" mentre camminava, mentre una coetanea studentessa di giapponese a Venezia ha ricordato di essere stata seguita appena scesa dal treno da un uomo, che "non pareva italiano" e che si è poi calato i pantaloni. Alla polizia però non risultano denunce.
Gli stupri islamici e le cretinate di sinistra, scrive Guia Mocenigo su “L'Opinione” il 13 gennaio 2016. L’ordine agli immigrati sul web è “aggredite le donne bianche”. Questo è il messaggio che ha dato il via alla notte da incubo di Colonia, un vero e proprio attacco preordinato e coordinato di migliaia di uomini/bestie islamiche contro le donne bianche, occidentali. “Molesta e aggredisci la donna bianca, usala come vuoi”. Questo è il messaggio islamico contro le donne occidentali. L’ordine rivolto agli islamici di tutta Europa, per “vendicarsi” contro l’Occidente che li accoglie e sfama, contro il suo simbolo, cioè la “donna bianca” appunto. “A Capodanno attuate il Taharrush gamea (l’aggressione e la violazione) ovunque in Europa, assaltate le loro donne, fate vedere chi siamo”. Il mondo islamico si è dunque organizzato online per sferrare l’attacco delle molestie di massa di Capodanno, a Colonia. Il ministro della giustizia tedesco, Heiko Maas, l’ha chiamato col suo nome, ed ha subito parlato di “un’azione organizzata e coordinata”. E-mail, sms e messaggi criptati, in arabo in inglese in tedesco e in italiano inviati ai residenti arabi nel nostro continente. Una sorta di chiamata alle armi del mondo islamico per umiliare le donne occidentali. “È una nuova dimensione del crimine. È chiaro che tutto è stato preordinato e organizzato” ha detto il ministro dell’interno tedesco, da Colonia a Stoccarda, da Helsinki a Zurigo, gli assalti sono stati precisi. Solo a Colonia su una ventina di indagati, la metà sono richiedenti asilo, gli altri clandestini. Intanto sulle coste pugliesi gli scafisti delinquenti gettano in mare le donne dai barcone carichi di clandestini somali in viaggio per l’Italia. Ed un pakistano, giunto da poco in Campania con una nave di migranti, avendo molestato una ragazzina di 14 anni a Salerno, ha visto formarsi contro un raid punitivo di italiani che hanno cercato di farsi giustizia da sé assaltando poi il centro di accoglienza immigrati dove è ospitato il pakistano, e dove gli immigrati si sono barricati all’interno nell’attesa delle forze dell’ordine. Se la giustizia non funziona, la legge immigrati è inadeguata e il ministro non eletto Alfano all’interno non lavora e non funziona, così come non funziona, è sacrosanto che la gente esasperata si faccia giustizia da sé. Barbarie contro barbarie. Anche a Colonia è partita la rappresaglia contro i musulmani. Le violenze di Capodanno compiute d stranieri e migranti hanno finalmente giustificato tutte le ostilità contro i mussulmani, in risposta a quello che gli islamici pretendono di fare qui, in Occidente. E ancora c’è molto da fare a Colonia dato che su 500 reati denunciati, sono per ora stati indagati solo 20 sospetti identificati. 516 reati a sfondo sessuale denunciati contro siriani, algerini, pakistani, marocchini islamici. Ora, dove sono le imbecilli sinistrorse italiane? Come reagiscono di fronte al branco islamico di Colonia ed in Italia? Le nostre cretine italiane di sinistra strisciano per lo più nascondendosi. Dov’è quel gran genio di bestialità della Boldrini impostaci da Napolitano alla Camera e mai scelta o eletta da nessun italiano? Dove sono le altre dementi di sinistra? Le nostre femministe dal femminismo d’accatto di sinistra? Dove sono quelle che paghiamo, cui diamo i nostri soldi di italiani al governo di sinistra mai elette? La Serracchiani si è messa il velo, come si vede dalla foto, e già sa il Corano a memoria, per recitarlo ad alta voce appena l’islamico ci metterà la spada al collo per decidere se ammazzarci o meno. Prontamente la Serracchiani si è già coperta. E le altre imbecilli di sinistra? La Aspesi, che non corre molti pericoli per l’età, non nomina gli islamici né il terrorismo islamico, li chiama maschi stranieri, la Signorelli, per far vedere che ha studiato la barbara questione, la liquida con “una lotta tra maschilisti occidentali contro quelli islamici”, incurante del fatto che i maschilisti occidentali non ci ammazzano, almeno non ancora in massa, la Maraini, anche lei fuori pericolo come le altre, dubita che tra i molestatori ci siano rifugiati, ma per levarsi i terribili dubbi può chiamare la polizia di Colonia che glielo conferma, dato che sono decine e decine i rifugiati assalitori islamici. Il problema, diamo retta ad Oriana fallaci chiedendole scusa e riconoscendo il merito, è proprio dell’Islam, non certo della cultura europea che ha quale unico difetto quello di avere tirato sù delle cretine italiane di sinistra, insieme a quelle francesi, a quelle tedesche, a quelle spagnole, e le inglesi eccetera. Il vignettista Vauro che ride della tragedia in atto disegnando: “Le nostre donne ce le stupriamo noi!”, vada a stuprarsi le donne di sinistra. Lo vogliamo vedere! Bisogna correre ai ripari, il terrorismo così come le violenze di Colonia sono islamici perché così è scritto nel Corano, almeno come lo interpretano oggi le bestie – uomini e donne – islamici.
Colonia, gli antifascisti difendono gli stupri: "Carenza di affetto". Sulla pagina Facebook "osservatorio antifascista" le giustificazioni delle violenze degli immigrati: "Si saranno sentiti emarginati e in carenza di affetto, quindi hanno agito di conseguenza". È un profilo falso? Scrive Claudio Cartaldo Sabato, 09/01/2016, su "Il Giornale". Chiamarla farneticazione, forse, è troppo poco. E probabilmente sarebbe stato doveroso anche lasciare queste frasi nell'oblio dell'indifferenza. Ma le giustificazioni dell'"osservatorio antifascista" sui fatti di Colonia, dove circa mille immigrati hanno violentato più di 100 donne, rappresentano in tutta la sua ideologia il pensiero medio di chi, pur di difendere gli immigrati, s'inventa scuse assurde. Che mai avrebbe adottato per uno stupratore italiano. "Gli accusati, molto probabilmente - si legge nel post di Facebbok - sono fuggiti da guerre, carestie e indigenze varie. Si saranno sentiti emarginati e in carenza di affetto, quindi hanno agito di conseguenza". Carenza di affetto. Se non fosse ancora rintracciabile online, potreste non crederci. Invece è così: pur di regalare una via d'uscita dal crimine che hanno commesso a quei "profughi", gli "antifascisti" tirano fuori dal cappello la carenza d'affetto. E allora perché non giustificare anche i fidanzati che, abbandonati dalla ragazza, violentano e uccidono le loro "amate". Nessuno sarebbe in grado di sostenere una tesi del genere. Ma gli "antifascisti" sì, solo se a commettere il reato sono gli stranieri. Ora, alcuni commentatori del post fanno presente che la pagina sarebbe un falso. Potrebbe anche essere (e in molti lo sperano) se si prende per buono quel "in chiave ironica" nella descrizione. Ma leggere queste frasi fa comunque impressione. "Potrebbe essere un 'troll'. Ora ragazzi - commenta infatti Marco sul post - tornate nei vostri centri commerciali anarchici a giocare ai comunisti perché non é ironico quello che state scrivendo e sta diventando una cosa troppo estremista". Dal post si evince che chi è in fuga da guerre, senza una casa, è legittimato a stuprare e derubare delle donne indifese. Tutto torna. In fondo, sempre sulla stessa pagina si legge: "Non sono stupratori, non è giusto chiamarli in modo tale, ma andrebbero chiamati al massimo molestatori".
Colonia, il silenzio delle femministe sulle violenze degli immigrati. Dalla Boldrini alle femministe del Pd, tutte hanno paura a dire che i violenti erano immigrati. Per timore di dare ragione alla destra, scrive Giuseppe De Lorenzo Mercoledì, 06/01/2016, su "Il Giornale". Nemmeno il numero elevato di donne violentate nella loro intimità, nemmeno l'indignazione della pubblica opinione, niente di quello che è successo a Colonia è riuscito a scalfire il muro dell'incoerenza delle femministe nostrane. Mille uomini, di origine mediorientale, hanno violentato e derubato oltre 100 ragazze nella notte dei Capodanno. Ma loro non parlano. Anzi, è bene specificare. A farlo sono stati 1000 immigrati, profughi, clandestini. Bisogna essere chiari, perché le femministe italiane vivono in questi giorni un dramma interiore che le distrugge. Sono divise tra l'accoglienza-a-tutti-i-costi e la difesa dell'integrità delle donne, dell'emancipazione, della libertà femminile. Su questi bei propositi hanno fatto una legge, quella sul femminicidio, di dubbia utilità ma dal forte impatto mediatico. Eppure, si dimenticano di condannare ad alta voce gli stupri degli immigrati. Perché? Cosa le ferma? Semplice, il buonismo. O chiamatelo come volete. Ovvero il rischio di dar ragione ai beceri della destra, ai populisti che da anni mettono la politica di fronte al problema - evidente - dell'integrazione degli altri popoli, delle culture diverse. Di quella islamica in particolare. Che in molti casi ha con la donna una relazione offensiva, lesiva dei dirititti, barbara. Come si può scindere le violenze di Colonia dagli stupri di Boko Haram, dalle violenze dell'Isis, dalle schiave Yazide e dall'imposizione del burqa? Non si può. Sono principi e modi di comportamento che superano le barriere e arrivano sulle nostre coste. Immutati. E poi si manifestano nelle nostre strade, nelle nostre periferie. Pur di non dire che a mettere le mani sui seni e tra le gambe di quelle ragazze tedesche sono stati degli immigrati, le attiviste tutte preferiscono cucirsi la bocca. Quando invece occorrerebbe raccogliere gli avvertimenti di chi dice da tempo che ad integrarsi deve essere lo straniero e non un intero popolo adattarsi ai desideri di chi arriva in Occidente. Tace la Boldrini, che nel discorso di insediamento da Presidente della Camera aveva ricordato il suo impegno contro la violenza sulle donne. Quella volta era scattato l'applauso unanime dell'Aula. Oggi, invece, la Presidente ha scelto l'oblio. Dire che aveva ragione Salvini fa male. Essere d'accordo con la Meloni, pure. E' dalla parte del giusto anche la Santanché, che ha definito i fatti di Colonia "un atto di terrorismo contro le donne". "Hanno dimostrato bene il loro concetto del femminile - ha aggiunto - e cioè che non sono persone ma oggetti. Come si può dialogare con chi non rispetta le persone? Dove sono le donne del Pd e le femministe? Il loro silenzio è assordante". L'unica ad uscire dal coro del silenzio è stata Lucia Annunziata. Che sul suo blog ha riconosciuto come "il rapporto dell'Islam con le donne è un tema devastante, intriso di violenza e di politica", ha messo in dubbio che tutti i migranti arrivati in Europa siano davvero in fuga dalle guerre, ha chiesto "barriere successive per fare dell'ammissione in un paese un lavoro di integrazione". Peccato che il suo sia un risveglio tardivo. Le aggressioni di Colonia, per l'Annunziata, sarebbero il "primo episodio di scontro di civiltà". Ma non è così. Ce ne sono stati altri. Solo che sono rimasti fuori dalla porta dei salotti radical-chic. La direttrice chiede alle femministe di iniziare una discussione sull'immigrazione per "evitare che la giustissima accoglienza di chi ha bisogno diventi la vittoria di Pirro della nostra sicurezza e indipendenza". Ma è già tardi. Oggi sarebbe bastato stigmatizzare le violenze degli immigrati. Condannare quello che è un attacco non solo alle donne, ma al modo di essere dei Paesi che accolgono, cioè dell'Europa. Invece è prevalso il silenzio. Colpevole.
Il Femminismo di regime in questo caos è solo un accessorio inutile, scrive Emanuele Ricucci il 12 gennaio 2016 su "Il Giornale". Liberticidio, femminicidio, fastidio. Non un’apologia del maschilismo, ma un contenimento dell’idiozia, nell’epoca in cui la paura di perdere la libertà è la fobia più grande. Ma perché? Da chi? Nella fobia schizofrenica di perdere la libertà, ci stiamo ammanettando da soli, giorno dopo giorno, follia dopo follia, e l’odio, la rimarcazione delle differenze, lo scaricabarile, la gogna, l’ombra, i processi sommari (antica abitudine di una certa porzione d’Italia) alle streghe, sono la base di partenza per la costruzione della modernità, la stessa che, secondo l’egemonia culturale vigente, sta perseguendo tutt’altro obiettivo. Tremate, tremate le streghe son tornate. Tornate? Reinventate, altro che! Ma non dovevano essere schiattate le ideologie? I movimenti spirituali, i flussi interiori, tutti quegli “ismi” che contaminano il pensare e l’agire sociale ed individuale? Evidentemente, in questo marasma squilibrato e molto poco democratico, non tutti gli “ismi” hanno lo stesso peso. Ce n’è uno, poi, che miete vittime come un moderno Politburo. Sfrondato dagli eccessi ideologici, rinnovato nella capacità di influenza sociale, rinforzato e reso meno brutale, marciato e militante, più candido, fatto passare per un’esigenza culturale irrinunciabile, per faro di questa modernità, per battaglia civile, simulando il movimento intellettuale, il femminismo continua, a distanza di anni dalle vagine mimate con le mani, a mietere vittime e a non servire a nessuno scopo. Magari con qualche annetto in più, con qualche acciacco in più, le femministe son tornate, eccome, trovando fertile humus nella sconsideratezza siderale di questo sistema senz’anima e senza identità, ma soprattutto senza più dignità. Dal capriccio al raccapriccio. Oggi, che il femminismo è istituzionalizzato, formalmente formalizzato, forse ancor più di prima, l’orda dell’inutilità avanza, imponendo un nuovo moralismo fatto di eccessi: la genesi della contraddizione mascherata da intellettualismo. E basta! Come se non ci fosse già un’aurea di contraddizione, di confusione e di terrore globale, come se non ci fosse altro a cui pensare seriamente. Eccessi che tagliano il sistema e si annidano ovunque, dalla lingua italiana alla dichiarazione dell’ultimo minuto. La fantasia al potere, è proprio il caso di dirlo. Così, i fatti di Colonia si snaturano e finiscono per essere colpa del “maschilismo occidentale” e comunque , a prescindere da tutto, “non erano immigrati, non richiedevano asilo, potrebbe succedere ovunque e a chiunque”. Parola di Dacia Maraini, intervistata da “Il Mattino”: “Un atto di una guerra misogina, contro le donne viste come prede […] stento a credere che tra gli aggressori ci possano essere migranti e rifugiati, gente che ha alle spalle storie molto dolorose […] sopravvive anche da noi questo arcaismo culturale che porta a considerare le donne come una proprietà […]Una paura che ha radici culturali lontanissime, anche per la nostra cultura, se pensiamo alla cacciata di Eva dal Paradiso terrestre. Ma anche economica e soprattutto sociale. L’emancipazione femminile continua a fare paura come dimostrano, nella nostra società, i continui delitti che hanno per vittime le donne. Anche il femminicidio è una manifestazione di paura di fronte all’emancipazione, ad una donna che lavora, che decide, è sempre più visibile nella società in posti di comando e di potere e che molti uomini non tollerano. Un rigurgito arcaico”. E che dire, come sottolineato da Paolo Bracalini sulla nostra testata, della non più giovanotta antropologa Amalia Signorelli che, durante un’intervista, candidamente afferma: “l’uomo occidentale difende le donne aggredite per sentirsi superiore ai musulmani. Cercano di fare di noi donne la bandiera della loro capacità di liberazione”, liquidando il tutto come “una guerra tra maschilisti”. Boom, chiudete tutto! O ancora, c’è chi si chiede, come Natalia Aspesi, se le donne italiane ed occidentali siano “libere davvero”. Ma non di sola acqua di Colonia si abbevera il circo neofemminista nazionale…Quell’arietta secca di sufficienza affonda le radici lontano. In principio era la sancta sanctorum, la divina maestrina, Laura Boldrini, terza carica dello Stato – o di quel che ne rimane –; la Presidenta, che di Colonia ha affermato che chi ha sbagliato paghi, in virtù delle “conquiste della civiltà giuridica” e che lei è dalla parte delle donne pur evitando ben volentieri e volutamente di dare un nome alle cose, agli aggressori, di chiamarli con il loro nome, con la volontà sua e dei suoi seguaci istituì un vero e proprio gruppo di esperti per “sensibilizzare la società sull’uso corretto della lingua italiana in un’ottica rispettosa di entrambi i generi”. “Il linguaggio rispecchia la cultura di una società e ne influenza i comportamenti”, così l’Onorevola Giovanna Martelli, consigliera del Presidente del consiglio dei Ministri per le Pari opportunità in una nota, “educare e sensibilizzare a una comunicazione e informazione rispettosa e priva di stereotipi e visioni degradanti del femminile fa parte della rivoluzione culturale che è necessaria per la lotta alla violenza sulle donne”. Prosegue: “Il gruppo sarà composto da esperte ed esperti del linguaggio di genere, del mondo del lavoro, di modelli educativi e di sociologi che svolgeranno l’incarico a titolo gratuito e avranno vari compiti tra cui quello di predisporre delle linee guida per promuovere il linguaggio di genere presso la pubblica amministrazione e nel settore dei media”. La paladina delle femministe, Laura, che Nel 2013, riuscì persino a farsi cambiare la carta intestata. Non poteva sopportare quell’ “Il” di fronte a “Presidente della Camera” ed arrivò ad affermare: “Se una giudice chiede di essere chiamata la giudice, se una ministra chiede di essere chiamata la ministra, se una presidente della Camera chiede che sulla carta intestata sia scritto ‘la presidente’, lo fa per affermare che non c’è più un’esclusiva maschile per certi lavori, non c’è più una normalità maschile della quale tutte noi saremmo provvisorie eccezioni”. Suvvia, pensate davvero che i maschietti tedeschi non siano colpevoli di qualche palpatina all’Oktober Fest? Tanto “le molestie sessuali su vasta scala non sono una novità “, come ha scritto Dinah Riese, giornalista del tedesco Die Tageszeitung? Quello stesso femminismo che stentiamo a credere sia necessario, che abbia una funzione di servizio per le donne, emancipante, fluidificante anzi, il contrario, mettendo in risalto la donna come una specie protetta. Tremate, tremate…
E ora parliamo di stupro, scrive Giulia Blasi il 13 ottobre 2013. Prima, come sempre, i fatti. Una ragazzina di Modena denuncia di essere stata stuprata a turno durante una festa da cinque coetanei. Uno faceva il palo, gli altri nel frattempo l’avrebbero costretta ad avere rapporti sessuali con loro. Uno dei tanti casi di violenza di gruppo che nel nostro paese come nel resto del mondo colpiscono le donne, anche molto giovani: Anna Maria Scarfò, Lorena Cultraro, la ragazzina di quattordici anni di Montalto di Castro. E come sempre, sui giornali fioriscono gli articoli dal tono fra il malinconico e lo scandalizzato in cui, fra un signoramia e l’altro, si cerca di estrarre dal caso del giorno un insegnamento morale. La prima ad andare a pelle di leone è Concita De Gregorio. Ora, non c’entra niente ma c’entra: in bozza dentro questo blog c’è un post che parla de Il pane quotidiano, spazio culturale condotto da Concita De Gregorio su Raitre che fra le altre cose prevede la partecipazione di un gruppo di liceali. Un programmino dalle intenzioni oneste, che però usa gli studenti più o meno come figuranti. Siedono composti e in silenzio in un angolo con la faccia di chi poi esce e si guarda sei volte la trilogia di Twilight in fila, parlano quando interrogati, fanno domande che non prevedono uno scambio dialettico, e poi tutti a casa. Perché i giovani sì, sono il bello del mondo, la freschezza, il futuro, ma devono stare al posto loro e la cultura bisogna dargliela così, facendola cadere dall’alto come una tonnellata di mattoni. Se ti diverti non ti elevi, una cosa esclude l’altra. E come la cultura, anche l’educazione sessuale si impartisce così, con i predicozzi strabici in cui si parla alle vittime, piuttosto che ai carnefici. Concita De Gregorio affronta il caso di Modena e la morale che ne ricava, stringi stringi, è: ragazzina, dovevi tenere le gambe chiuse. Cito: “Quando ti chiedono di mostrargli le mutande non è vero che si alza l’auditel, come dice la canzone scema. Quando te lo chiedono vattene, ridigli in faccia e torna a casa.” Che è esattamente la cosa da dire a una che ha appena denunciato una violenza di gruppo: vattene. Non dovevi giocare a quel gioco. Del resto, un tempo le stuprate le rinchiudevano in convento. Il secondo a cadere sulla faccenda con un tonfo flaccido è Mauro Covacich, che individua la causa dello stupro nella società del consumo, liquidando la questione culturale nelle prime righe: “A mancare non è la cosiddetta trasmissione di valori.” Oplà, sistemato tutto: se cinque ragazzi chiudono una coetanea in bagno e la violentano la colpa è di Amazon Prime. Due articoli che sono la rappresentazione plastica del perché sulla violenza sessuale non si riesca mai a fare un discorso sensato. Il primo parte dal presupposto che se ti stuprano è anche un po’ colpa tua, che sei sedotta dalla cultura dell’immagine, dal velinismo, dal carosello di bagasce a casa di Berlusconi, da quello che è. Il secondo mette sesso e stupro sullo stesso identico piano, in virtù del fatto che entrambi gli atti tirano in ballo i genitali. Anche un cazzotto e una carezza partono da una mano, ma nessuno si sentirebbe di confonderli: sesso e stupro vanno ugualmente distinti, a meno che non si pensi che il sesso sia sporco per definizione, e che lo stupro discenda dal desiderio, piuttosto che dalla sopraffazione. Se non cominciamo a separare con fermezza lo stupro dall’atto sessuale, ogni riflessione e conseguente azione diventa inutile. Quando anni fa un concorrente del Grande Fratello raccontò di avere avuto un rapporto con un’amica in stato di incoscienza per eccesso di alcool, il massimo delle reazioni furono le battute della Gialappa’s Band, che (se la memoria non mi inganna) deplorarono la scelta come se si trattasse di cattiva educazione e non di violenza ai danni di qualcuno non in grado di acconsentire a un accoppiamento. Una donna trattata né più né meno che come un buco in cui infilare l’arnese, che vuoi che sia, a quello servono le vagine. Una donna che non ha diritto al rispetto della sua integrità fisica, una donna che può essere chiusa in una stanza e costretta ad atti sessuali. Non invogliata, costretta da qualcuno che poi se n’è vantato, perché qualcun altro non gli ha insegnato la differenza fra il sesso – quella cosa che si fa in due, in tre, in quindici ma comunque si fa perché lo vogliono tutti – e lo stupro, che è quella cosa che fai perché lo vuoi tu e l’altra persona no, ma l’altra persona non conta. In una cultura come la nostra, che chiede alle donne di essere sexy ma caste, ammiccanti ma senza concedere troppo, tigri a letto ma senza esagerare e soprattutto di imparare a usare il sesso come arma di manipolazione (dargliela quando se la merita, non dargliela quando si ritiene di doverlo punire, dargliela soprattutto per ottenere qualcosa), non è difficile far passare l’idea che il desiderio sia per noi un pensiero secondario, una roba vergognosa che è giusto nascondere, sopprimere, far passare in secondo piano. È la stessa cultura che fa credere agli uomini di avere un diritto sindacale al sesso, in ogni modo e con ogni mezzo, e senza dover soddisfare nemmeno i requisiti minimi di desiderabilità. Se sei stronzo, orrendo e puzzi comunque puoi andare sulla Cristoforo Colombo e dare dei soldi a una in cambio di un rapporto sessuale, e ti pare che qualcuno ti dice qualcosa? Sei maschio, hai i tuoi bisogni. Il sesso ridotto a una qualsiasi pulsione fisiologica e la donna ad attrezzo: per cacca e pipì c’è il water, per il sesso la femmina, tutto a posto. In tutto questo, i grandi assenti sono i maschi adulti. Se avessi cinque euro per ogni volta che qualche maschio ha provato a buttare il discorso stupro sulla linea di pensiero “È la biologia/non ci sappiamo trattenere/pulsioni fisiologiche/tu non mi devi provocare” (con la premessa obbligatoria che lo stupro è brutto, bruttissimo, ingiustificabile!), avrei svoltato l’affitto per un po’ di mesi. I maschi adulti sono i grandi colpevoli: sono i primi ad aver totalmente rinunciato a educare i più giovani (nonché a educarsi reciprocamente) all’idea che una donna sia un essere umano la cui autonomia sessuale è insindacabile, e che anche se ti si para davanti nuda tu non la puoi toccare se non esplicitamente invitato. È un’idea che non attecchisce: se le donne stanno al mondo per essere guardate, desiderate, toccate, perché se ne parli come di bovini da macello (le tette, il culo, le gambe, sembra quasi di vedere i trattini intorno alle aree descritte) è impossibile non leggere ogni loro atteggiamento come subordinato al desiderio maschile. Se si mette la minigonna, se ha la scollatura profonda, se esiste in pubblico da sola ti sta lanciando un messaggio e tu devi rispondere. E se dice di no, troppo tardi: sei stato provocato, ne hai diritto. Che manchi proprio quel tipo di educazione lì poi si è visto in altri casi: a Montalto di Castro, dove la vittima è stata umiliata in pubblico, a San Martino di Taurianova, dove Anna Maria Scarfò ha subito la doppia violenza del mobbing da parte di tutto il paese, e in tanti altri casi in cui la responsabilità della violenza è stata scaricata sulle ragazze. Che non dovevano essere lì, non dovevano dare confidenza, non dovevano essere attraenti, non dovevano. Nessuno ha mai parlato di cosa non avrebbero dovuto fare i maschi che le hanno violentate, di quali siano le loro responsabilità, e sono pronta a scommettere che non se ne parlerà veramente neanche questa volta.
Consigli per stupratori...e non, scrive Alessandro Bertirotti il 14 gennaio 2016 su "Il Giornale". È tutta questione di…conoscenza. Ho letto con attenzione questo articolo, e consiglio di farlo a chi segue questo blog. Le considerazioni in esso contenute partono proprio da questa lettura. Sono d’accordo con l’autrice quando denuncia l’ipocrisia necessaria ai media per fare ascolti, e farci credere che tutti i setting operativi che propongono siano veri, reali ed efficaci. No, direi proprio di no. Anzi, siamo decisamente di fronte alla messa in scena di falsità sempre più funzionali al mantenimento di cervelli anestetizzati di spettatori ancora ignari, nella maggioranza dei casi, che è fortemente voluto ai fini dell’audience e dello share. Ma veniamo ai concetti dell’articolo. Tutto vero, anche dal mio punto di vista, quello antropologico-mentale. Ho solo qualche riserva rispetto al fatto che sia sufficiente una reale educazione sessuale impartita ai maschi della nostra specie, in quasi tutte le culture del mondo, tranne quelle matrilineari e matriarcali (in realtà poche, ed alcune solo in Oriente), anche se fosse costante e continua. In effetti, secondo gli studi sull’influenza degli ormoni sessuali nella formazione di veri e propri stili cognitivi, dunque comportamentali, degli esseri umani, maschi e femmine che siano, il nostro agire dipende fortemente dal sistema endocrino, e nel nostro caso dal testosterone e dal progesterone. Rimando i lettori a questi studi, facilmente reperibili in siti scientifici anche nel web, mentre penso che si dovrebbe, prima ancora di educare, almeno informare, tanto i maschi quanto le femmine, che questi ormoni agiscono in modi precisi, e di fronte a situazioni culturali ed ambientali stimolanti. Sarebbe importante cominciare a rendersi conto che di fronte a certi stimoli, gli esseri umani non sono ancora tanto evoluti, educativamente parlando, da ritenersi immuni e non sono nelle condizioni di garantire, specialmente a se stessi, la presenza di comportamenti reattivi che potremmo definire civili. Siamo deboli, molto deboli e molto di più di quello che crediamo, anche quando siamo particolarmente informati, scolarizzati e viviamo in ambienti che potremmo definire “colti” (prendete questo ultimo termine della frase, cortesemente, in senso assai lato…). Non nego, ovviamente, il ruolo dell’educazione nello sviluppo di comportamenti sociali, ma ricordo solo all’autrice dell’articolo, come ai lettori di questo blog, che sarebbe opportuno non fidarsi troppo di se stessi, delle proprie reazioni emozionali, anche frutto di sostanze ormonali, ragion per cui occorre stare di più all’erta rispetto alle proprie certezze e convinzioni. Il potere degli stimoli, specialmente di quelli che hanno a che fare con forti, umbratili e persino “nere” passioni, oltrepassa ogni nostra possibile garanzia di civiltà, dunque di educazione. Il consiglio finale, a tutti, maschi e femmine che siano: informiamoci sulla realtà nella nostra neurofisiologia e stiamo all’erta, convincendoci davvero che gli stimoli sono come le occasioni, e tutti possiamo diventare dei ladri, anche quando crediamo di esserne completamente immuni.
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.
Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.
La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868)
Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.
27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia.
11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta".
15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura.
27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia.
30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani.
31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare.
2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo.
17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio.
10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.
21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore".
1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”.
1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.
8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia.
15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)
1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera.
1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta.
1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi.
1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc.
4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola.
Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6: “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.
Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.
Il Paese che non ama, scrive Mauro Munafò su “L’Espresso”. Gli italiani sono i più razzisti d'Europa: primi per odio contro i rom, i musulmani e gli ebrei. Orgoglio italiano, finalmente siamo primi in qualcosa: l'odio razziale. Tra i nostri cugini europei non c'è infatti nessuno che ci batte quando si parla di detestare i rom e i musulmani. Quando invece si tratta di odiare gli ebrei siamo secondi dietro la Polonia: peccato, abbiamo sfiorato il triplete. Sarà per la prossima volta. A certificare che in Europa siamo un caso di studio, in senso negativo ovviamente, ci pensa una ricerca pubblicata il 3 giugno 2015 dal Pew research center e dedicata in generale all'Unione Europea, con una parte che si concentra invece sulla percezione delle minoranze nei vari paesi. La ricerca non credo possa cogliere nessuno di sorpresa, anche se i numeri del distacco rispetto ai nostri vicini europei sono quantomeno inquietanti. Ma basta ciarlare, ecco qualche numero. Come vengono percepiti i Rom in Europa? Gli italiani, con l'86 per cento, sono di gran lunga il popolo che vede con maggior sfavore i Rom. Solo 9 italiani su 100 hanno un'opinione favorevole. Piuttosto curioso notare come in Germania, Spagna e Regno Unito siano molti di più coloro che hanno una percezione positiva e solo la Francia, seppure con numeri assai diversi, è più o meno nella nostra situazione. Direi che questo grafico dovrebbe aiutare a capire quanto il problema forse non siano direttamente "i rom" in quanto tali, ma la gestione della loro presenza sul territorio. Gestione su cui tanti hanno lucrato, e lucrano, milioni di euro e voti. Vabbeh ma i rom saranno un'eccezione no? Chissà quanto siamo più moderati e aperti quando parliamo di altre categorie, come i musulmani. Beh, non proprio. Anche qui, siamo primi in classifica. Sei italiani su dieci non vedono di buon occhio i musulmani, mentre in Regno Unito, Francia e Germania le cifre sono ribaltate. Una ricerca che conferma quanto riportato da un altro studio, quello di Ipsos, di cui avevo parlato un anno fa circa e da cui emergeva come gli italiani credono di essere circondati da musulmani. A completare il terzetto arriva la percezione per gli ebrei. "Purtroppo" qui ci classifichiamo solo secondi, dietro la Polonia. Interessante in ogni caso notare come un italiano su 5 abbia un qualche pregiudizio nei confronti degli ebrei, mentre in Francia e Regno Unito a condividere questi sentimenti sono appena 7 persone su cento. Forse dovrei chiudere questo post con una mia opinione, un giudizio su quanto avviene di fronte ai nostri occhi, un commento sulla stranezza del caso italiano in Europa. Ma stavolta preferisco tacere e far parlare i semplici numeri. Se volete dire qualcosa voi, i commenti sotto sono il posto giusto. PS. Temendo che qui sotto possa scatenarsi l'inferno già avvenuto in occasione della ricerca sull'ignoranza degli italiani, mi premuro di darvi tutte le informazioni aggiuntive per valutare la bontà e la serietà dello studio. A questo link trovate il testo della ricerca. Per ottenere questi risultati, il centro Pew ha realizzato interviste a campione, qui trovate i dettagli sulla metodologia: dichiarano un margine di errore del 4,1 per cento.
Offese a Monti e Napolitano: Bossi condannato (con polemica). Un anno e sei mesi all’ex leader della Lega. L’avvocato: «Difformità col caso Calderoli», scrive “Il Corriere della Sera”. Umberto Bossi è stato condannato a un anno e sei mesi di reclusione per vilipendio al capo dello Stato con l’aggravante della discriminazione razziale. Lo ha stabilito il tribunale di Bergamo accogliendo la richiesta del pm Gianluigi Dettori. Un’inchiesta nata da un centinaio di querele, presentate in tutta Italia (da Verona alla Sicilia, fino a Bergamo), dopo il comizio di Bossi alla festa della Lega di Albino (Bergamo) il 29 dicembre del 2011: parole e immagini rilanciate la sera stessa e il giorno dopo da tutti i telegiornali. «Ma Monti lo sa che molti allevatori si sono impiccati? Questi coglionazzi del governo lo sanno?» aveva esclamato il lumbard dal palco, applaudito dal pubblico e dai suoi colonnelli. «Mandiamo un saluto al presidente della Repubblica», aveva rincarato, esibendo il gesto delle corna. E poi ancora: «Napolitano, Napolitano, nomen omen, terun…». E quando il pubblico aveva iniziato a scandire: «Monti, Monti, vaffanculo...» il leader dal palco aveva replicato. «Eh...magari gli piace anche...». Prima che il collegio dei giudici, presieduto da Antonella Bertoja, si ritirasse per la sentenza, il difensore dell’ex leader del Carroccio, l’avvocato Matteo Brigandì (ex deputato e senatore della Lega) ha chiesto che la corte sollevasse il conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato e in subordine che venisse esclusa l’aggravante della discriminazione, «perché - evidenzia Brigandì -Bossi rispondeva al pubblico che aveva detto teun». Il legale ha anche ricordato che per Bossi la Camera dei Deputati non si era pronunciata sull’insindacabilità, a differenza di quanto ha fatto di recente il Senato per Roberto Calderoli, invischiato nel processo sulle offese all’ex ministro Cecile Kyenge (in realtà i senatori hanno negato l’autorizzazione a procedere solo sull’aggravante, non sulla diffamazione). Rimarcando la mossa di Calderoli che subito dopo ha ritirato i 500 mila emendamenti alla riforma di Palazzo Madama, l’avvocato non ha risparmiato una stoccata finale: «C’è - sostiene - una giustizia di maggioranza». Da Calderoli, nero su bianco sulla sua bacheca Facebook, è arrivato comunque sostegno: «Fatemi capire - commenta il colonnello leghista -, un pluriomicida come Adam Kabobo prende 20 anni per aver ucciso tre persone, meno di 7 anni per ogni vita umana stroncata, e Umberto Bossi per una semplice battuta fatta ad un comizio viene condannato a 18 mesi? Qualcosa non mi quadra davvero... Ovviamente all’amico Umberto va tutta la mia solidarietà per questa condanna».
Calderoli e “l’orango” alla Kyenge, per il Senato non c’è istigazione all’odio razziale. Neanche il Pd cambia idea: il paragone tra l'ex ministro e la scimmia è una "condotta ritenuta insindacabile perché coperta dall'articolo 68 della Costituzione". Palazzo Madama dà solo l'ok per il processo per diffamazione. L'ex ministro: "Ricorrerò alla Corte Ue", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 16 settembre 2015. Diffamazione sì, istigazione all’odio razziale no. Dare dell’orango a una persona di colore non merita un processo. Ma chi riceve l’epiteto ha almeno il diritto di rivalersi. Così il Senato ha deciso sull’autorizzazione a procedere contro il senatore della Lega Nord Roberto Calderoli che nel luglio 2013, durante un comizio a Treviglio, paragonò l’allora ministro per l’Integrazione Cècile Kyenge a una scimmia, per l’esattezza a un orango. Una decisione che ora potrebbe finire davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, dove annuncia che la porterà la Kyenge: “Il mio perdono a Calderoli l’ho dato, ma non si tratta più di un fatto personale. Ora è una questione di principio perché il messaggio che arriva dalle istituzioni ai nostri ragazzi e giovani è devastante”. Nel frattempo il M5s sottolinea la coincidenza tra la mezza “assoluzione” da parte del Senato per Calderoli e il ritiro del mezzo milione di emendamenti che il senatore del Carroccio aveva presentato per il disegno di legge sulle riforme istituzionali in discussione al Senato. “Il mercato delle vacche continua” commenta Riccardo Nuti. “Smanettando con Internet – disse Calderoli – apro "il governo italiano" e, cazzo, cosa mi viene fuori? La Kyenge. Io resto secco. Io sono un amante di animali, eh, per l’amore del Cielo. Ho avuto le tigri, gli orsi, le scimmie. Però quando vedo le immagini della Kyenge e quelle sembianze da orango, resto ancora sconvolto”. Parole che avevano suscitato la reazione di tutte le più alte cariche dello Stato, a partire dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Peraltro si segnalò, in quell’occasione, una difesa d’ufficio della senatrice Serenella Fucksia (M5s) – poi subito ritrattata – che spiegò che “tutti assomigliano a un animale”. Per esempio, aggiunse, l’ex M5s Adele Gambaro somiglia “a una mucca” o Nicola Morra che le ricordava “un camaleonte…”. La Fucksia, componente della Giunta per le immunità, aveva votato contro l’autorizzazione a procedere per Calderoli. La Procura aveva chiesto così il giudizio immediato. Ma una decisione del genere del Senato era nell’aria. La Giunta per le immunità, a suo tempo, a febbraio, si era espressa contro l’autorizzazione a procedere nel suo complesso. Tra coloro che votarono contro c’erano anche i commissari del Pd. “La condanna politica resta – disse allora il capogruppo democratico in giunta Giuseppe Cucca - però non ci sono le basi per l’istigazione razziale. E il magistrato non può procedere per diffamazione perché non c’è stata la querela da parte del ministro”. E così anche in Aula, a Palazzo Madama, la condotta di Calderoli è stata ritenuta insindacabile in quanto coperta dal primo comma dell’articolo 68 della Costituzione, in base al quale “i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”. Il Pd sembrava averci ripensato, ma in Aula quell’orientamento è stato confermato. Il Pd in Aula ha chiesto invano di rinviare il voto finale. Così il relatore della proposta Lucio Malan (Forza Italia) ha proposto di votare il documento per parti separate: un primo scrutinio per la diffamazione ai danni dell’ex ministro di origine congolese, un secondo per l’istigazione all’odio razziale. Nel primo caso il Senato ha dato il via libera all’autorizzazione a procedere con 126 sì, 116 no e 10 astenuti. Per l’istigazione all’odio razziale l’Aula ha respinto la richiesta di autorizzazione a procedere con 196 no (46 i sì e 12 le astensioni).
Calderoli "razzista riluttante", scrive “L’Indro”. Il Senato lo salva dal processo per il caso "orango" Kyenge. Il M5S sospetta un voto di scambio sulle riforme. Il Senato concede l’autorizzazione a procedere contro Roberto Calderoli per diffamazione (ma non per odio razziale, salvandolo, di fatto, dal processo)) nei confronti dell’ex ministro Cecile Kyenge: l’aveva paragonata ad un orango. Lui risponde annunciando il ritiro dei 500mila emendamenti della Lega alla riforma costituzionale (tranne 10) allo scopo, dice, di riportare la discussione del ddl Boschi in commissione Affari Costituzionali dove il Giglio Magico «non ha i numeri». Ma per il M5S quello in corso tra il senatore leghista e la maggioranza è un «mercato delle vacche», una sorta di "voto di scambio". E, infatti, come volevasi dimostrare, la conferenza dei capigruppo, convocata sotto il tiro dei fucili Pd da Pietro Grasso al Senato, proprio per forzare i tempi dopo la rottura del tavolo delle trattative sulle riforme tra renziani e minoranza Dem, ha comunque stabilito di portare il testo in aula già da domani saltando il passaggio in commissione. Il forzista Paolo Romani parla di «forzatura inaccettabile» e smentisce con decisione la riedizione del patto Nazareno e il "soccorso azzurro". E il premier, sull’orlo di una crisi di nervi, prima convoca la Direzione del partito per lunedì prossimo allo scopo di rimettere in riga i bersaniani, e poi incontra Flavio Tosi a Palazzo Chigi ottenendo, non si sa in cambio di cosa, il ‘non ostruzionismo’ delle tre senatrici tosiane sulle riforme. Respinte con voto segreto, sempre a Palazzo Madama, le dimissioni dell’ex M5S Giuseppe Vacciano, ora nell’Idv per votare (forse) insieme a Renzi. Terroristi di tutto il mondo tremate: le Agenzie ci danno conto che questa mattina si è tenuta a Palazzo Chigi una nuova riunione sul tema del contrasto al terrorismo. A formare la task force tricolore, oltre all’ubiquo Renzi, i ministri Alfano, Boschi e Gentiloni. Migranti, Beppe Grillo d’accordo col Dalai Lama: «Impossibile accoglierli tutti». Nonostante il gruppo Pd avesse espresso palesemente l’intenzione di rinviare il voto in aula sull’autorizzazione a procedere contro il leghista Roberto Calderoli (probabilmente per ammorbidirlo in vista della concitata votazione sulle riforme costituzionali), oggi Palazzo Madama ha detto sì all’inchiesta per diffamazione nei confronti del suo vicepresidente. Pietra dello scandalo sono le offese rivolte nel 2013 da Calderoli all’ex ministro del governo Letta Cecile Kyenge, colpevole di avere la pelle nera e di assomigliare, secondo il lombrosiano e "macumbato" leghista, ad un «orango». 126 i voti favorevoli, 116 i contrari e 10 gli astenuti, un voto sul filo di lana che, però, ha al contempo respinto l’accusa, grave ed infamante, di istigazione all’odio razziale. Ma è su questo punto controverso (il voto separato dell’aula su reato di diffamazione e aggravante di odio razziale che ‘disinnesca’ il processo) che si innestano i sospetti del M5S. «Il Pd salva Calderoli dal processo penale e lui ritira i suoi 500mila emendamenti. Il mercato delle vacche continua», scrive su twitter Riccardo Nuti. «Calderoli ritira suoi ridicoli 500mila emendamenti subito dopo voto Senato che lo salva da processo penale. Vedete un nesso?», cinguetta il suo collega Danilo Toninelli. Il protagonista della triste vicenda, intanto, aveva provato a scusarsi prima con un autodafé («avrei voluto tagliarmi la lingua») e poi cercando di strappare lacrime ricordando che «proprio in quel periodo avevo subito 4 interventi chirurgici pesanti. Stavo facendo la chemioterapia, e anche ora la faccio, ed è pesante e quando la fai con la testa non ci sei e qualche stupidata magari scappa». Nelle sue condizioni, appunto, sarebbe meglio tacere. Ma il padre del Porcellum anziché lasciare, raddoppia e annuncia di essere disposto a ritirare gran parte della montagna di emendamenti presentati dalla Lega al ddl Boschi. Unica condizione: il ritorno del testo in commissione Affari Costituzionali per riprendere la discussione. «Renzi vuole andare in aula non per il numero degli emendamenti», spiega così la sua scelta Calderoli, «ma perché non hanno i numeri in commissione e non ce li hanno in aula». Dichiarazioni che, secondo i grillini, sarebbero niente altro che menzogne. Infatti, il redde rationem in casa Pd sulle riforme costituzionali è stato già fissato direttamente da Matteo Renzi per lunedì 21 settembre, quando si riunirà la Direzione del partito. Ma l’odierna linea del Piave è stata la conferenza dei capigruppo, convocata per oggi pomeriggio dal presidente del Senato Pietro Grasso, messo sotto pressione dal governo e dalla maggioranza renziana del Pd. Dopo il rovesciamento del tavolo della trattativa con la minoranza Dem, almeno per quanto riguarda gli incontri ufficiali e non il mercato dei voti, il Giglio Magico pretendeva di calendarizzare al più presto il voto sulle riforme perché, come ha detto il premier, bisogna chiudere entro il 15 ottobre. E il ddl Boschi già domani sarà a Palazzo Madama, confermando in pieno i sospetti a 5Stelle. Peccato che i rivoltosi in camicia rossa (si fa per dire) vogliano (o vogliono far credere di) vendere cara la pelle. «Ma io non potevo mica rimanere a quel tavolo: perché, mentre noi trattavamo, all’esterno una parte del Pd faceva il tifo per la rottura», spiegava stamane al "Corriere della Sera" la "Giovanna D’Arco bersaniana" Doris Lo Moro, «perché mentre noi affrontavamo il nodo dell’elettività diretta dei futuri senatori, all’esterno il presidente Renzi chiudeva sull’articolo 2». Sempre per il capitolo riforme, ci pensa il forzista Paolo Romani a smentire alcune ricostruzioni giornalistiche che danno per risorto il patto del Nazareno con l’obiettivo di far respirare una boccata di voti in più alla maggioranza che rischia di non avere i numeri a Palazzo Madama. «Forza Italia è solida e compatta: i problemi ce li hanno gli altri, nel Pd e nell’Ncd. Il ‘soccorso azzurro’ sul ddl riforme non ci sarà», assicura Romani intervistato da ‘Libero’. Smentite anche le voci di un voto favorevole alle riforme renziane da parte dei senatori Bernabò Bocca e Franco Carraro perché, conclude Romani, «sono persone perbene e non intendono minimamente disattendere all’indicazione del gruppo». A cercare di far dormire sonni tranquilli al tormentato presidente Renzi ci prova, invece, il senatore amico del ‘casalese’ Nicola Cosentino, Vincenzo D’Anna, vicepresidente del gruppo Ala (Alleanza Liberalpopolare Autonomie), ovvero il braccio destro di Denis Verdini. «Con questa vicenda Renzi si libererà della minoranza interna», confida D’Anna al quotidiano ‘Il Mattino’, «probabilmente sfiorerà i 170 voti. Ad ogni modo poi ci siamo noi 13 verdiniani». Fa discutere il post pubblicato sul blog di Beppe Grillo che riporta le parole del Dalai Lama sulla questione migranti. «Penso che Germania e Austria abbiano avuto una buona risposta alle migrazioni, ma bisogna riflettere: è impossibile che tutti possano venire in Europa», ha detto la guida spirituale del buddhismo durante un viaggio in Gran Bretagna. Non che il monaco tibetano si sia trasformato di punto in bianco nel nuovo Matteo Salvini. Il Lama, infatti, elogia quei paesi europei che hanno deciso di accogliere i profughi, ma ricorda anche che l’ondata migratoria deve essere gestita in qualche modo, soprattutto cercando di risolvere alla radice i problemi dei paesi poveri, affamati da secoli di colonialismo imperialista. Di fatto, le stessa posizione espressa dal M5S.
Ecco chi ha salvato Roberto Calderoli dall'accusa di razzismo. Due terzi dei senatori democratici, sinistra interna compresa. Una metà dei vendoliani. Qualche Cinque stelle, espulsi inclusi. Tutti convinti che nelle parole dell'esponente leghista ("la Kyenge sembra un orango") non ci fosse un intento discriminatorio basato sul colore della pelle, scrive Paola Fantauzzi su “L’Espresso”. Roberto Calderoli"Vorrei proprio vedere se hanno il coraggio di guardarmi negli occhi": se, come ha affermato all'Espresso, aspetta un segnale dai senatori Pd per il voto di Palazzo Madama che ha salvato Roberto Calderoli da un processo per razzismo, Cécile Kyenge può probabilmente attendere in assoluta calma. Dietro la fredda conta numerica, infatti, c'è tutto un abisso da esplorare. Dai risvolti sinceramente inaspettati. Secondo l'esito della votazione, solo 45 senatori hanno reputato che, per aver paragonato l'allora ministro dell'Integrazione a un orango, Calderoli meritasse l'aggravante della discriminazione razziale prevista dalla legge Mancino. Mentre per ben 196 quella "battuta", come l'ha definita il suo autore, era insindacabile, perché in quel comizio il politico leghista stava esercitando le sue funzioni da parlamentare. L'europarlamentare dem se la prende col suo partito: "Così ci distinguiamo dai populisti? Con quale coraggio rimprovereremo i nostri figli quando li sentiremo fare affermazioni razziste?". E sottolinea: "Quell'insulto, al Paese intero, ora arriva dalle istituzioni". A scandagliare dietro questi quasi 200 senatori che hanno "graziato" l'esponente del Carroccio dalla pesantissima accusa, come ha fatto l'Espresso sulla base dei tabulati e delle votazioni, si resta tuttavia sorpresi per l'entità del supporto ricevuto dallo schieramento avverso. A essere convinti che paragonare una donna di origini congolesi a un primate non prefiguri un caso di razzismo che esuli dalle funzioni parlamentari sono stati 81 senatori Pd. Ovvero oltre due terzi del totale, considerato che i democratici a Palazzo Madama contano 113 onorevoli. Con una trasversalità assoluta fra maggioranza, minoranza interna, dissenzienti e dissidenti vari. Si va dal capogruppo Luigi Zanda presidente della commissione Affari costituzionali Anna Finocchiaro, relatrice delle riforme costituzionali lo scorso anno proprio con Calderoli, dalla vicepresidente del Senato Valeria Fedeli a renziani osservanti tipo Andrea Marcucci. Fino agli anti-Renzi per eccellenza, esponenti della sinistra interna che in questi giorni stanno alzando le barricate sulla riforma della Costituzione come Vannino Chiti o il bersaniano Miguel Gotor. Di questi 81, la gran parte (68) hanno votato l'autorizzazione per far processare Calderoli per diffamazione, in ossequio alla via di mezzo escogitata dal Pd per non "assolvere" del tutto l'ex ministro. Ma ce ne sono stati alcuni che hanno votato sia contro l'aggravante razziale che contro la diffamazione, proprio come il centrodestra. Nove in tutto: Daniela Valentini, Mara Valdinosi, Maria Rosa Di Giorgi, Silvana Amati, Corradino Mineo, Raffaele Ranucci, Francesco Scalia, Ugo Sposetti e Ludovico Sonego. Altri ancora hanno invece ritenuto non ci fosse discriminazione e non hanno votato al momento di esprimersi sull'autorizzazione a procedere per diffamazione: Anna Finocchiaro, Rosanna Filippin, Walter Tocci, Giuseppe Cucca, Claudio Broglia e Rosaria Capacchione. Ma la convinzione che non ci fosse del razzismo nelle parole di Calderoli ha fatto breccia anche in un partito, come Sel, che si dice in prima linea sui diritti civili. Su sei senatori vendoliani, tre hanno votato contro l'aggravante della discriminazione e si sono astenuti sulla diffamazione: Loredana De Petris, Luciano Uras e Giovanna Petraglia. Con loro anche l'ex grillina Maria Mussini. Calderoli ha comunque potuto contare anche sull'aiuto di alcuni Cinque stelle, malgrado l'indicazione del gruppo prevedesse due voti contrari alle proposte di insindacabilità. Serenella Fucksia, la senatrice "tentata" dal salvataggio di Giovanni Bilardi in Giunta delle immunità - come Adele Gambaro, espulsa dal M5S - ha votato come il centrodestra: nelle parole di Calderoli non prefigura diffamazione né razzismo. Mentre le grilline ortodosse Laura Bottici e Nunzia Catalfo non hanno votato sull'aggravante razziale ma si sono espresse a favore del processo per ingiurie. Non è mancata neppure qualche sorpresa assoluta, come quella che riguarda le senatrici fuoriuscite dal Carroccio per aderire al progetto "Fare!" di Flavio Tosi: Raffaela Bellot, Patrizia Bisinella ed Emanuela Munerato. Tutte e tre si sono espresse sia a favore della discriminazione razziale che della diffamazione. Hanno votato male o si tratta di una vendetta postuma nei confronti dell'ex collega leghista?
Calderoli, i politici "dicono, disdicono, stradicono, non dicono niente”. Il Senato ha detto sì all’autorizzazione a procedere per diffamazione, no a quella per istigazione all’odio razziale, nei confronti del sen. Calderoli, che nel 2013 aveva definito "orango" l'allora ministro per l'immigrazione. La conclusione: si può dire e fare quasi tutto in proporzione del potere che si ha, dal blog L'inquieto di don Vinicio Albanesi su “Redattore Sociale”. Tra le notizie belle di questa mattina abbiamo letto che il Senato della Repubblica italiana ha detto sì all’autorizzazione a procedere per diffamazione, no a quella per istigazione all’odio razziale nei confronti del sen. Calderoli. Il 13 Luglio 2013, durante un comizio a Treviglio, l’allora Vice-Presidente del Senato aveva detto: “Smanettando con internet apro “il governo italiano” e, cazzo, cosa mi viene fuori? La Kyenge. Io resto secco. Io sono amante di animali, eh, per l’amore del cielo. Ho avuto le tigri, gli orsi, le scimmie, però quando vedo le immagini della Kyenge e quelle sembianze di orango, resto ancora sconvolto”. Evviva il nostro Senato della Repubblica perché al rispetto delle istituzioni (verso un Ministro) al rispetto di una donna (nel caso della Kyenge) al rispetto della la verità (che cosa di più ignobile si potrebbe dire a una donna di colore) ha preferito piccoli e grandi strategie di politica nazionale (equilibri, riforme, governabilità, stabilità economica). Non è vero nulla: i nostri rappresentanti al Senato si sentono onnipotenti. Gestiscono concetti, parole, indicazioni fuori da ogni realtà e buon senso. “Dicono, disdicono, stradicono, non dicono niente” affermava S. Caterina da Siena ai potenti del suo tempo. Con esempi così eccelsi, difficile combattere il bullismo a scuola, gestire le paure dell’immigrazione, dare un futuro ai giovani e alle famiglie. La conclusione che si trae è facile: si può dire e fare quasi tutto in proporzione del potere che hai. Il colpevole tenderà a minimizzare (ha chiesto scusa, ha mandato fiori), i sodali cercheranno le vie d’uscita nelle pieghe di un regolamento debitamente ammansito. Si invocherà comprensione e misericordia senza spese. Perché – il bello deve venire – la pena per l’offesa non sarà troppo onerosa: lo spirito è quello dei “compagni di merenda”; una battuta colorita, un linguaggio proporzionato alla lotta politica … bla, bla, bla … forse un po’ esagerato! Oggi a te, domani a me. Tutti resteranno in silenzio, perché devi far parte dell’istituzione, altrimenti ridiventi un comune cittadino: in politica, in magistratura, nella finanza, nella Chiesa. Al dunque le lotte liberatorie, le utopie, un futuro radioso scompaiono nei privilegi di quanti hanno fatto le leggi per tutelare i propri interessi. Saranno i convegni di sociologi, antropologi, economisti a tentare di spiegare perché metà della popolazione non va a votare. Ma l’istituzione si regge anche quando più della metà degli aventi diritto non partecipa. Tutto previsto.
COS'E' IL TERRORISMO? TERRORISTI E FIANCHEGGIATORI.
Parigi, 13 novembre 2015: il racconto della strage. La storia della Francia e dell'Europa è cambiata in 40 minuti. E' passata una settimana, 130 innocenti uccisi in sei attacchi, anche i jihadisti sono morti. Resta però il mistero su uno di loro. Ecco la cronaca di una notte che nessuno potrà dimenticare, scrivono Carlo Bonini, Giuliano Foschini, Anais Ginori, Daniele Mastrogiacomo, Fabio Tonacci, su “La Repubblica” il 20 novembre 2015.
La chiamano l'Estate di san Martino. E la sera di Parigi è mite. La temperatura è di 15 gradi. Assenza di vento. Allo Stade de France, banlieue nord di Saint-Denis, è in programma alle 21.00 l'amichevole Francia-Germania. I caffè hanno i tavolini all'aperto. Nella città che non ha terrazzi, le chiamano terrasse. Il cartellone del teatro Bataclan, al 50 di Boulevard Voltaire, ha in programma il concerto degli "Eagles of Death Metal", gruppo garage rock californiano. Prima tappa di una tournée che deve toccare altre città della Francia. Da settimane non si trova più un solo biglietto.
Alle 19.30 il ministro dell'Interno, Bernard Cazeneuve è a Montrouge, periferia sud di Parigi, per consegnare le onorificenze agli agenti della polizia municipale che, l'8 gennaio, ventiquattro ore dopo la strage di Charlie Hebdo, hanno per primi intercettato Amedy Coulibaly, l'assassino della vigilessa Clarissa Jean-Philippe, impedendogli di consumare una carneficina che, purtroppo, avverrà il giorno successivo.
Alle 20.30, il ministro è di ritorno a Place Beauveau, sede del Ministero dell'Interno. I giorni di Charlie sono lontani. O almeno così sembra. Cazeneuve discute brevemente con i suoi collaboratori dei due falsi allarmi terrorismo della giornata. Alla Gare de Lyon, in parte evacuata, e al "Molitor", vecchio hotel art decò sulla riva sinistra della Senna che ospita la nazionale tedesca. Non c'è motivo di ansia. "#Diemannschaft ist zuruck im Hotel. Voller Fokus auf #Frager", "Siamo tornati in albergo. La testa è solo alla Francia", twitta la nazionale tedesca. A duecento metri da Place Beauvau, il presidente François Hollande sta lasciando l'Eliseo diretto allo stadio. I titoli del telegiornale danno notizia dello sciopero dei medici contro la riforma del Governo e dell'annunciata uccisione di Jihadi John in Siria. Consigliano di anticipare i regali di Natale, annunciano la riapertura del museo Rodin e l'attesa per la partita della sera. "Il primo match contro la Germania dopo l'eliminazione ai quarti nel mondiale del Brasile". Almeno nove uomini si salutano per l'ultima volta e salgono su tre macchine di colore nero. Una Volkswagen Polo, una Seat Leon, una Renault Clio. Hanno tutte e tre targa e immatricolazione belga. Sono state affittate pochi giorni prima in un'agenzia di noleggio auto di Bruxelles a nome Salah Abdeslam e Ibrahim Abdeslam. Due fratelli residenti nel quartiere Kareveld di Molenbeek. Sono arrivate a Parigi giovedì sera a distanza di dieci minuti l'una dall'altra, in convoglio. Hanno depositato i loro passeggeri in un appartamento di Bobigny affittato per una settimana attraverso il sito homeholidays e in due stanze al terzo piano del residence Apart'City Paris di Alfortville. In avenue Jules Rimet, il vialone che costeggia il settore est dello Stade de France, un giovane siriano è chiuso in un bomber nero. Ha un passaporto in cui dice di chiamarsi Ahmad Almohammad, nato il 10 settembre 1990 a Edlib, Siria. Ha raggiunto l'Europa cinque settimane prima. Il 3 ottobre, un barcone di profughi lo ha sbarcato sull'isola di Leros. Le autorità greche lo hanno fotografato, gli hanno preso le impronte digitali e riconosciuto un lasciapassare temporaneo nello spazio di Schengen. Un timbro che gli ha consentito di raggiungere la Serbia e, da lì, la Croazia. L'ultimo tratto di strada verso i fratelli che lo aspettano a Molenbeek, Bruxelles, Belgio. La città di Abdelhamid, di Salah, di Ibrahim. La porta verso il Paradiso. Ahmad non ha il biglietto. La partita Francia-Germania è cominciata da 10 minuti. Il risultato è sullo 0-0. Hollande, in tribuna, contempla lo spettacolo degli 80 mila dello Stade. Ahmad ha caldo. È fradicio di sudore. Entra nei bagni della birreria di fronte al cancello D. Il bomber che nasconde la cintura imbottita di perossido di acetone (Tatp) e bulloni lo soffoca. Si dirige verso i lavabi. Si appoggia con le braccia tese di fronte allo specchio. Incrocia lo sguardo di Blay Mokono, un uomo di colore. Il cronometro del tabellone segna il minuto 10 della partita. Blay recupera il figlio tredicenne Ryan e l'amico Rashid al bancone della birreria. Sono in ritardo. Devono entrare. Ahmad lo urta con la spalla. Non chiede scusa. Prosegue verso i tornelli e la biglietteria del cancello D. Lo affronta con garbo uno degli steward. "Non può entrare, monsieur ". Ahmad rincula. Ma non si dà per vinto. Avanza di nuovo di qualche passo. "Monsieur, le ho già detto che non può entrare senza biglietto". Ora il tabellone indica il minuto 16 e 24 secondi. Sull'ala sinistra, lavora il pallone Martial con un profondo retropassaggio. Il boato è avvertito in tutto il catino ed è confuso con un petardo. Un innocente è morto in un lampo di fuoco e bulloni. Si chiama Manuel Dias. Ha 63 anni. E' il primo di 130 vittime. La folla ondeggia in una ola. Sulle tribune si alzano felici i 1.000 impiegati della compagnia aerea GermanWings in trasferta premio, per cancellare il lutto dello schianto sulle Alpi francesi. Il pallone ora è dei tedeschi. Un rimpallo lo riconsegna a Evra. Diciannovesimo minuto e 35 secondi. Di fronte al cancello H, lungo le vetrine di Decathlon, in corrispondenza dell'insegna Gaumont, un altro "fratello" muove i suoi ultimi passi. Un secondo boato. Un uomo della sicurezza presidenziale si avvicina in tribuna ad Hollande. Si china leggermente e sussurra all'orecchio del Presidente. "Monsieur le Président le Quick a sauté". Il presidente sa cosa significa. Per sessanta secondi fissa il vuoto. Quindi si alza senza una parola. Frank Walter Steinmeier, ministro degli Esteri tedesco seduto alla sua sinistra, lo insegue con lo sguardo mentre prende la via dei sotterranei. Un corteo di macchine nere esfiltra Hollande verso Place Beauvau. Dieci chilometri lo separano dal bunker del ministero dell'Interno.
21.53. A Bilal Hadfi resta l'ultimo giro di orologio dei suoi vent'anni. In piedi, sotto un palo arrugginito fissa le indicazioni stradali. Autostrada A86, La Courneuve centre, Aubervilliers, S33. Lo stadio è un rumore di fondo lontano un chilometro. Quasi quanto il ricordo dei mesi da foreign fighter in Siria. Bilal pigia l'interruttore che lo spegne per sempre. Un brandello di carne e sangue imbratta le indicazioni per la S33. Negli spogliatoi dello Stade, Sebastian Lowe, ct della Germania e Didier Dechamps, collega francese, annuiscono uno di fronte all'altro con accanto i funzionari Uefa e agenti della polizia. Ora sanno. Ma non devono dire. Ne va della vita degli 80mila. Per nessuna ragione al mondo devono sapere. La partita deve continuare. All'angolo tra rue Bichat e rue Alibert, Ouidad Bakkali, 29 anni, assessore alla cultura di Ravenna, marocchina di seconda generazione nata in Italia, ordina una birra. Intorno a lei, ai tavolini del "Carillon" una folla di universitari ride tra uno "waikiki" e l'altro di rhum e pera. Shot da due euro a bicchierino. Tra Bastille e canale Saint Martin, questo spicchio dell'undicesimo arrondissement non parla più della sapienza dei faubourg artigiani. Ha la gioia e l'energia della movida e la più alta densità di locali della città. Nella Seat Leon nera con targa belga GUT 18053, tre uomini hanno di fronte 4 chilometri, 15 minuti e 39 vite umane da prendersi. Una vita ogni 100 metri. Al tavolo di Ouidad e del suo fidanzato sono arrivate le birre. Accanto ai due ragazzi, una coppia sta litigando. Una macchina fa manovra in corrispondenza dell'ingresso del locale. È una mamma con la bambina sul sedile posteriore. Deve togliersi di mezzo. Non fa in tempo. Il calibro 7.62 del kalashnikov imbracciato dall'uomo sceso dalla Seat le stacca la testa. Ouidad pensa a un petardo. Poi sedie e tavolini cominciano a volare. I ragazzi urlano. Il sangue imbratta l'asfalto. Le rose delle raffiche sono ad alzo zero. Da destra a sinistra. Da sinistra a destra. Sull'altro lato della strada, il proprietario del "Petit Cambodge" tira furiosamente giù la saracinesca e invita tutti a stendersi a terra dentro il locale. L'uomo col fucile si avvicina. Le raffiche sbriciolano il cartongesso del muro. Ouidad vede cadere due ragazze come fantocci. Prega e piange. La Seat riparte sulla rue Alibert lasciando dietro di sé 100 bossoli e 15 cadaveri.
21.32. In rue della Fontaine au Roi, ai piccoli tavoli della pizzeria "Casa Nostra", la pioggia di schegge di vetro anticipa di qualche secondo la morte che porta la Seat. Una donna, seduta all'esterno, si rannicchia a terra. "C'est pour la Syrie", sente gridare. L'uomo che le si avvicina alza il kalashnikov e lo rivolge verso il basso. Appoggia la canna al cranio della donna. Tira il grilletto. Una, due volte. L'arma è inceppata. Risale in auto. Non c'è tempo. E cinque cadaveri possono bastare.
21.36. Nella sua casa dell'undicesimo arrondissement, il primo ministro Manuel Valls ha appena chiuso la telefonata che lo avvisa che qualcuno ha dichiarato guerra alla Francia. Che il Presidente sta raggiungendo il bunker del ministero dell'Interno e che si sta sparando nel quartiere in cui il premier abita. Ancora. Ancora una volta a dieci mesi di distanza da quella mattina di Charlie Hebdo. Stesso quartiere. Stesso odio. In rue de Charonne, alla "Belle Equipe" si festeggia Houda Saadi. Compie 36 anni e si è presa una sera fuori. I suoi bambini sono a casa. Al tavolo con lei, insieme alla sorella, c'è, con altri amici, Ludovic Bombasse. Ha 40 anni, è nato in Congo, ama i libri e gli restano pochi secondi di vita. La Seat è alla sua ultima stazione di morte. Houda non ha il tempo di capire. Né lo ha sua sorella. Ludovic decide di fare scudo a Chloé, una ragazza che conosce appena e che le siede affianco. Nascosto dietro il bancone, Gregory Reibenberg, il proprietario del locale, stringe a sé sua moglie Djamila. La sente andarsene via, trafitta da una raffica. Lei è musulmana. Lui ebreo. La contabilità dell'orrore ha spuntato la sua trentanovesima vita. All'esterno della "Belle Equipe", una ragazza è seduta al tavolino. Nella mano stringe un calice di vino. La testa è reclinata sul tavolo. Come dormisse. La Seat nera è ripartita. Un poliziotto di quartiere corre con la pistola in pugno verso quel tavolo. E' del commissariato dell'undicesimo. Lo stesso che è intervenuto la mattina di Charlie. Il poliziotto si china sulla ragazza, che ha ancora gli occhi sbarrati. Crolla in ginocchio. Piange. Sul maxi-schermo televisivo del "Comptoir Voltaire", il rumore delle raffiche nel quartiere non ha fatto in tempo ad arrivare, né a farsi strada tra le risate e il vociare che accompagnano le immagini della partita. Ibrahim Abdeslam è sceso per l'ultima volta dalla Seat che prosegue verso Montreuil. E per l'ultima volta ha guardato negli occhi suo fratello Salah. Si siede a un tavolo.Catherine, la cameriera, gli chiede cosa gradisca. Ibrahim non muove un muscolo. Non le risponde. Si alza lentamente e dopo due passi salta in aria. C'è sangue dappertutto. La tv continua ad andare. Ha segnato Giroud. Da qualche minuto, in Rete, gira il tweet con la foto delle luci del caffè "Comptoir Voltaire". E' un'immagine singolare e sgranata. Scattata dal tetto di un edificio che guarda boulevard Voltaire e postata, alle 21.16, dal profilo twitter "OP_IS90". L'acronimo è corredato da una foto di al-Zarqawi, il macellaio di Falluja. In una Polo nera con targa belga, parcheggiata di fronte al teatro "Bataclan", degli uomini sono chiusi da due ore dentro l'abitacolo. I due sui sedili anteriori smanettano sul cellulare. E' arrivato il tweet di "OP_IS90". Si chiamano Ismael Mostefai, 29 anni e Samy Amimour, 28. Hanno lo stesso passaporto francese. Sono nati nella stessa città, Parigi, ma in due banlieue diverse. Hanno avuto due vite diverse. Samy, nel 2013, è fuggito dalla Francia verso i campi di Daesh. Non fuma più. Ha sposato la donna che le ha assegnato il Califfato. L'ultima volta che ha visto il padre, un venditore ambulante di vestiti, era ancora in Siria e gli ha riconsegnato la lettera con cui la madre lo implorava di tornare e i 100 euro che quella lettera nascondeva. "Non ne ho più bisogno", ha detto. Anche Ismael ha toccato l'orrore siriano. Ma, al contrario di Samy, che è inseguito da un mandato di cattura internazionale per terrorismo, lui è un invisibile. Dai tavoli del ristorante "Cellar", Cristophe continua a osservare quella Polo, dentro vede quattro ragazzi. Due ore prima ha chiesto loro di spostarla. Ma non ha avuto neppure risposta. Li ha fissati per un attimo negli occhi e ha avuto la sensazione di aver incrociato lo sguardo vuoto di zombie. Non ha insistito più. Anche se non può fare a meno di chiedersi per quale diavolo di motivo, da due ore, quella macchina in sosta abbia le luci spente ma il motore sempre acceso. Cristophe guarda per l'ultima volta l'orologio. Sono le 21.30. Decide di andarsene. È la migliore decisione della sua vita. Nella sala del Bataclan il concerto è cominciato. Da mezz'ora Jesse Hughes pesta sulla sua chitarra. La folla è felice. In mille e cinquecento tra platea e galleria ondeggiano e ballano facendo tremare le strutture in legno di questo bizzarro edificio dell'Ottocento. Una guazzabuglio architettonico che incrocia suggestioni cinesi. I flash dei cellulari che scattano selfie lampeggiano insieme alle luci stroboscopiche del palco. La band è su di giri come chi ascolta. Jesse ha piantato un coltello in uno degli amplificatori. Il rock degli Eagles and Death Metal è anche questa roba qui.
21.42. Il motore della Polo in sosta in boulevard Voltaire si spegne. I quattro uomini scendono dall'auto. Il cellulare torna a illuminarsi. Il messaggio ha 18 battute di testo. "On est parti. On commence". Siamo partiti. Cominciamo. Il destinatario del messaggio è Abdelhamid Abaaoud. Il mastermind della cellula. Lo psicopatico di origini marocchine con passaporto belga che trascina cadaveri nel deserto di Raqqa con il suo fuoristrada. L'uomo sfuggito in gennaio all'operazione che ha smantellato la cellula di Verviers. Quello che la Francia dà per certo in Siria, ma che in Francia è tornato per chiudere il conto. "Vite, vite! Partez, ça tire". Veloci, veloci, sparano. "Didi" è un'istituzione al Bataclan. Un po' buttafuori, un po' butta dentro, un po' angelo custode per chi, a notte, non si regge più in piedi per l'alcool. Ne ha viste tante. Non le ha viste tutte. Non quello che gli si è appena parato di fronte agli occhi. Due ragazzi usciti per fumare sono stati giustiziati da quei cavalieri dell'Apocalisse che ora puntano a passo svelto verso l'interno del teatro. Sono pochi passi. Tra la strada e la "fosse" dove si balla, si grida, si suda, sono pochi metri. Una porta a vetri, il guardaroba, due ante girevoli. "I meet the Devil and this is his song". Incontro il Diavolo e questa è la sua canzone, canta Jesse Hughes annunciando una delle loro hit, "Kiss the devil". Bacia il diavolo. La prima raffica sulla platea ne falcia una decina, ma suona come un effetto speciale. La seconda mette in fuga Hughes, mentre il chitarrista, Dave Catching, continua ancora per qualche istante a tenere il centro della scena. Poi, l'intera band si rifugia nel retro palco. La musica si interrompe e ora si sentono solo grida. Di dolore, di terrore, di implorazione. Le raffiche non cessano un solo istante. Chi non è riuscito a fuggire usando le uscite di emergenza sui lati della platea ora è sdraiato a terra. Sono centinaia. Qualcuno si finge morto. Qualcuno si copre con i morti. Altri strisciano in un lago di sangue e brandelli di carne. Gli uomini del commando hanno il volto di bambini e la voce da orchi vendicatori. "Avete ucciso i nostri fratelli in Siria, ora siamo qui". "È colpa del vostro presidente Hollande". In due, cominciano ad aggirarsi tra i corpi stesi. "Se qualcuno muove il culo, lo ammazziamo". Ma è una minaccia infame. Perché loro ammazzano anche chi resta immobile. Con un piede colpiscono chi è a terra per verificare se sia in vita o meno. E al primo cenno di reazione fanno fuoco alla nuca. Chi non è più in platea è in cerca di un qualunque nascondiglio. Le intercapedini del teatro, i camerini, i bagni, i locali della attrezzeria. In una delle toilette, un gruppo di ragazzi e ragazze sfonda il controsoffitto e si infila nei condotti della areazione. Una donna incinta si appende ad una delle finestre. Qualcuno salta giù chiudendo gli occhi fracassandosi gambe e bacino. Una colonna umana riesce ad arrampicarsi fino ai sottotetti. Qualcuno, guadagnate le scale antincendio, raggiunge il tetto del teatro e di lì salta sul palazzo prospiciente. Bussa disperatamente a porte e finestre.
22.01. Bfm, la televisione all news francese, annuncia: "Una sparatoria a colpi di kalashnikov ha provocato diversi morti in un ristorante nel decimo arrondissement di Parigi".
22.18. L'agenzia di stampa Reuters batte il primo take che annuncia l'orrore fuori dai confini del Paese. "Two dead, seven wounded in shooting in restaurant in central Paris". Due morti, sette feriti in sparatoria nel centro di Parigi. Nessuno immagina. Nessuno sa. Tranne chi è dentro il teatro e chi verso il teatro sta correndo impugnando una pistola. È un commissario di quartiere che ha raccolto il primo allarme e che resterà un angelo senza nome. Entra nell'edificio scavalcando decine di cadaveri. E nella hall distingue la sagome di uno dei macellai. Lo protegge soltanto un giubbotto antiproiettile. E quando le raffiche cominciano a raggiungerlo risponde al fuoco. Uno dei tre con il kalashnikov salito sul palco, crolla. Gli altri due fuggono verso la galleria. All'esterno del Bataclan arriva il furgone blindato nero della BRI la "Brigade recherche intervention", l'unità di élite della polizia giudiziaria. Gli uomini che ne scendono sono al comando di Christophe Molmy. È uno sbirro che, dieci mesi prima, ha condotto il blitz all'Hypercacher di Porte de Vincennes dove si era asserragliato Amedy Coulibaly. Ha scritto un romanzo, Loups blessés, lupi feriti, sull'umanità storta che ha combattuto per una vita: banditi, tossici, rapinatori. Gli mancano i martiri di Allah. Li ha trovati. Molmy è un uomo colto. Sa dare alle cose il loro nome. "E' l'inferno di Dante ", comunica alla centrale dall'interno del teatro. Pile di corpi smembrati, lamenti. Un silenzio di morte bucato dal concerto di decine di suonerie di cellulari che squillano a vuoto accanto a ragazze e ragazzi che non possono più rispondere. I due martiri in galleria si sono barricati in un locale con venti ostaggi. Vorrebbero negoziare. O almeno così dicono. Ma non si capisce cosa. Né a che prezzo. Molmy e le teste di cuoio che sono salite in galleria dove tutto è ancora buio e le uniche luci sono quelle dei puntatori laser dei fucili di precisione della BRI, raggiungono la porta che li separa dai due terroristi e dagli ostaggi. Uno di loro grida "Fermatevi o ci uccideranno tutti!". Convincono gli assediati a prendere un cellulare attraverso cui comunicare con il negoziatore della BRI. Lo stesso che aveva inutilmente trattato per ore con Coulibay. Con i due martiri va ancora peggio. Non riesce neppure il primo degli step del protocollo del negoziatore. Quello che impone di stabilizzare l'interlocutore. Raffreddarlo. Sgonfiarlo di adrenalina. Riportargli i battiti cardiaci a una condizione di lucidità. Dall'altra parte della porta si farfuglia soltanto di Siria e Hollande. Si minacciano decapitazioni e non si negozia nulla. Molmy capisce che i 20 ostaggi non sono e non saranno moneta di scambio. Sono solo animali sacrificali. E anche per questo quando i due provano a chiamare Bfm fanno cadere la linea del cellulare. Non vogliono che quello che sta per accadere vada in diretta televisiva e in mondovisione. Sono le 23.45. Negli ospedali di Parigi sono stati riaperti tutti i blocchi operatori d'emergenza e tutti i chirurghi richiamati. Dalle ambulanze vengono sbarcate lettighe su cui sono stesi uomini e donne che sembrano usciti da una trincea. Sul marciapiede di boulevard Voltaire il prefetto di Parigi Michel Cadot è in linea con Hollande e il ministro dell'Interno Cazeneuve. Il presidente ha appena parlato in tv alla nazione, visibilmente sconvolto. "Quello che vogliono è farci paura". Al telefono il Prefetto Cadot annuisce. La decisione è presa. Si dia l'assalto. Anticipate da lunghi minuti di scambio di fuoco, due deflagrazioni scuotono il piano superiore del Bataclan. È finita. Bisogna solo evacuare i feriti e contare i morti. Ottantanove. Ai tavolini del "Les Béguines", un pub nel cuore di Molenbeek, Bruxelles,Mohamed Hamri e Hamza Attou stanno fumando l'ennesima canna e buttando giù l'ennesima birra. Il locale ha riaperto da qualche giorno dopo essere stato chiuso dalla polizia belga per droga. Da due anni il proprietario èIbrahim Abdeslam. Da qualche ora, di quel proprietario è rimasto un tronco d'uomo carbonizzato in boulevard Voltaire. Ma questo Mohamed e Hamza non lo sanno. O, almeno, racconteranno di non saperlo. Squilla il cellulare. E' Salah, il fratello di Ibrahim. Chiama da Parigi. "Dimmi fratello". "Sono qui a Parigi. Ho bisogno che tu mi venga a prendere. Ora. Pago io la benzina e l'autostrada. Ti aspetto. Ci vediamo a Barbès", il quartiere arabo del diciottesimo arrondissement, dove verrà ritrovata la terza auto. La Clio nera. Alle tre del mattino una Volkswagen Golf 3 grigia targata ILJV 973 che percorre l'autostrada A2 Bruxelles-Parigi passa la frontiera tra il Belgio e la Francia. A bordo, Mohamed e Hamza, che dell'auto è il proprietario. Non c'è ombra di gendarme lungo la strada. La Francia ha appena annunciato la chiusura delle frontiere, ma il dispositivo fatica a mettersi in moto. Alle 5, la Golf è a Parigi e carica Salah.
Alle 9,15 del mattino di sabato 14 novembre, la Golf grigia va in senso inverso. All'altezza di Cambrai, accosta all'invito di una pattuglia della Gendarmerie francese. I quattro uomini mostrano i documenti. L'agente li controlla al terminale della banca dati del ministero dell'Interno. Tra le mani si ripassa il documento di quell'uomo indicato come Salah Abdeslam. Risultano precedenti per furto e spaccio di droga. Il gendarme torna alla Golf e restituisce i documenti ai tre uomini. "Bon voyage Monsieur".
L'attacco agli Usa dell'11 settembre 2001: gli schianti, il fumo e le vittime che cadono dal cielo, scrive la Redazione di Tiscali L'America subiva il peggior attacco della sua storia. E oggi quell'11 settembre del 2001 è ancora vivo perché alimentato da nuovi timori. Ecco la successione, minuto per minuto, della tragedia che ha cambiato anche gli equilibri politici internazionali. L'ora indicata è quella di New York e Washington, indietro di sei ore rispetto a quella italiana.
7.59 - Il volo American Airlines 11 decolla dal Logan International Airport di Boston. Sul Boeing 767, diretto a Los Angeles, vi sono 95 persone.
8.14 - Il volo United Airlines 175 decolla dallo stesso aeroporto con 65 persone a bordo. Anche questo è un Boeing 767 e anche questo è diretto a Los Angeles.
8.15 - Primo segnale di allarme. Il volo AA11 non rispetta le disposizioni dei controllori di volo.
8.15 - Il volo American Airlines 77 decolla dal Dulles Airport di Washington. E' un Boeing 757 con 64 persone a bordo, diretto a Los Angeles.
8.40 - Boston informa il Norad (North American Aerospace Defense Command) che il volo AA11 è stato probabilmente dirottato.
8.42 - Il volo UA93 decolla da Newark (New Jersey) alla volta di San Francisco. E' un Boeing 757, con a bordo 44 persone.
8.43 - La Faa (Federal Aviation Administration) notifica al Norad che anche il volo UA175 è stato dirottato.
8.46 - Il volo AA11 si schianta contro la Torre Nord del World Trade Center di New York. Il Norad ordina il decollo immediato di due caccia F-15 dalla base di Falmouth (Massachusetts).
8.49 - La Cnn interrompe le trasmissioni. "Un aereo ha colpito una delle torri del World Trade Center".
8.50 - La prima autopompa dei vigili del fuoco giunge al Wtc.
9.00 - Il presidente George W. Bush, in visita a una scuola elementare a Sarasota (Florida), viene informato dal consigliere per la sicurezza nazionale Condoleezza Rice che un aereo ha colpito un grattacielo del Wtc.
9.03 - Il volo UA175 colpisce la Torre Sud.
9.07 - Bush è informato dal capo di gabinetto Andrew Card che "un secondo aereo ha colpito la seconda torre".
9.16 - La Faa informa il Norad che anche il volo UA93 è stato dirottato.
9.21 - Le autorità di New York chiudono i ponti e i tunnel di accesso a Manhattan.
9.24 - Il Norad apprende che anche il volo AA77 è stato dirottato.
9.26 - La Faa ordina il blocco di tutti i decolli negli aeroporti Usa.
9.30 - Bush in Florida: "L'America è sotto attacco".
9.32 - Wall Street interrompe le operazioni.
9.37 - I controllori di volo di Washington avvertono che un aereo non identificato è diretto verso la capitale.
9.43 - Il Volo AA77 colpisce il Pentagono.
9.45 - La Casa Bianca viene evacuata. Il vicepresidente Dick Cheney è portato nel bunker blindato sotto la residenza. La Faa blocca il traffico aereo sugli Usa.
9.55 - L'Air Force One con a bordo Bush decolla dalla Florida. Bush telefona a Cheney e ordina l'allerta delle forze militari Usa nel mondo.
9.58 - I passeggeri del volo UA93, informati di quanto accaduto agli altri velivoli, si scagliano contro i dirottatori per prendere il controllo dell'aereo.
9.59 - Crolla la Torre Sud.
10.03 - Il volo UA93 precipita in un campo della Pennsylvania, nei pressi di Shanksville.
10.28 - Crolla anche la Torre Nord.
10.45 - Le autorità ordinano l'evacuazione di tutti gli edifici federali di Washington.
12.36 - Bush parla alla nazione da Barksdale, Indiana. "La nostra libertà è stata attaccata da un codardo senza volto. La determinazione della nostra grande nazione è stata messa alla prova. Supereremo questa prova".
13.02 - Il sindaco di New York Rudolph Giuliani ordina l'evacuazione di Manhattan a sud di Canal Street.
13.27 - Dichiarato lo stato di emergenza a Washington.
14.50 - Bush si sposta in aereo al quartier generale del Comando Strategico Usa nella base aerea Offut (Nebraska) dove presiede una video-conferenza con i membri del Consiglio per la Sicurezza Nazionale a Washington.
17.20 - Crolla anche il Seven World Trade Center, un edificio di 47 piani.
18.45 - Bush rientra alla Casa Bianca.
20.30 - Il presidente parla a reti unificate alla nazione. "I responsabili la pagheranno. L'America non farà distinzioni tra i terroristi e coloro che li ospitano".
21.00 - Bush torna a riunirsi con il Consiglio per la Sicurezza Nazionale. Viene discusso anche un primo piano di rappresaglia militare contro i terroristi.
Orgoglioso di essere cristiano e cattolico.
I sinistroidi e similari (5 Stelle) non si limitano a condannare la barbarie islamica di Parigi, punto e basta. Si sforzano di mistificare la realtà delle cose, contrapponendo le ipotetiche malefatte cristiane alla barbarie terroristica mussulmana, come per giustificare o sovvertire le responsabilità. Nascondono nei tg quel “Allah akbar” gridato nello stadio di Istanbul in Turchia il 17 novembre 2015 nella partita Turchia-Grecia durante il minuto di raccoglimento per le vittime degli attentati di Parigi, che inneggia ai terroristi, o quell’appoggio morale ai terroristi dato da parte dei mussulmani in Italia, interpellati sulla vicenda. Nei social network post che pubblicano le responsabilità occidentali per la vendita delle armi in medio oriente o gli eccidi commessi da occidentali da singoli (vedi attentati di Norvegia con autore Anders Behiring Breivik) o in seguito ai bombardamenti sui territori occupati dai taglia gole degli ostaggi innocenti. Atei che parteggiano per i mussulmani in tempi oscurati dalla morte di innocenti. Islamici, da loro ritenuti ultimo baluardo contro l’occidentalismo ed il capitalismo. Lì, dove il comunismo ha fallito. Sinistroidi che in nome della loro fede disprezzano la loro identità, cultura e tradizioni, imponendoci un politicamente corretto. Non sono i mussulmani ad invaderci ed ad imporre a casa nostra la loro fede, cultura e tradizioni, senza colpo ferire, ma sono i sinistroidi a permettere che ciò avvenga. La cultura dei sinistroidi è la discultura e l’oscurantismo. Atei che si spingono a farsi rapire per foraggiare il terrorismo con i loro riscatti o che condannano le guerre o gli attacchi per ritorsione, ma poi speculano finanziariamente con milioni di euro di finanziamenti sulla cura delle vittime delle stesse guerre.
Le puntualizzazioni saccenti della sinistra a sinistra.
DISINFORMAZIONE. Non tutti gli islamici sono terroristi, ma tutti i terroristi sono islamici. Doppia disinformazione: da una parte una frase associata ad Oriana Fallaci, ma non è sua, mentre il contenuto di quella frase è stato alterato riportando una considerazione errata sul terrorismo, scrive il 18 novembre 2015 David Tyto Puente su “Bufale”. Da qualche giorno, ma già a inizio 2015 in seguito all’attentato terroristico contro Charlie Hebdo, viene largamente condivisa questa frase associata erroneamente ad Oriana Fallaci e citata da Giuliano Ferrara durante una puntata di Servizio Pubblico: Non tutti gli islamici sono terroristi, ma tutti i terroristi sono islamici. In realtà si tratta di una frase del musulmano saudita Abdel Rahman al Rashed (all’epoca direttore della televisione Al Arabiya) tratta da un suo editoriale e riportata nel libro “Oriana Fallaci intervista se stessa – L’apocalisse”: Anche se non tutti i musulmani sono terroristi, la gran parte dei terroristi sono musulmani. Tornando alla frase diffusa online e citata da Ferrara a inizio 2015, in questo articolo raccoglieremo qualche esempio di terrorismo di matrice non islamica.
Che cos’è il terrorismo? Prima di parlare di terroristi bisogna capire che cos’è il terrorismo: Il terrorismo è una forma di lotta politica che consiste in una successione diazioni criminali violente, premeditate ed atte a suscitare clamore come attentati, omicidi, stragi, sequestri, sabotaggi, ai danni di enti quali istituzioni statali e/o pubbliche, governi, esponenti politici o pubblici, gruppi politici, etnici o religiosi. Le organizzazioni dedite a tale pratica vengono definite “organizzazioni terroristiche”, mentre l’individuo è definito come terrorista, termine che in storiografia indica un membro del governo in Francia durante il periodo del Regime del Terrore. In realtà non esiste una definizione accettata da tutti del terrorismo, ma ne è stata data una, nel 1937, dalla Società delle Nazioni: “fatti criminali diretti contro lo Stato in cui lo scopo è di provocare terrore nella popolazione o in gruppi di persone”. Fatti criminali in cui lo scopo è di provocare terrore nella popolazione o in gruppi di persone. Teniamolo a mente.
Le statistiche. Secondo gli studi svolti dall’FBI, nell’arco di tempo tra il 1980 e il 2005, il 94% degli atti terroristici negli Stati Uniti non sono di matrice islamica. In questo grafico possiamo vedere che il 6% è di matrice islamica, il 7% di matrice ebraica, il 42% dei latinos e via dicendo. È innegabile il fatto che il numero di vittime dell’11 settembre sia ben superiore rispetto agli altri episodi. Ricordiamo che per atti terroristici non si considerano solo esplosioni o kamikaze. Ecco le tipologie di atti terroristici registrati dallo studio dell’FBI: Tutti i terroristi sono musulmani è come dire che tutti gli italiani sono mafiosi. Tra tutti i pregiudizi che calano sugli italiani il peggiore è senz’altro l’assioma “italiani=mafiosi”. All’estero incontriamo sempre qualcuno che appena sa che siamo italiani casca in questo luogo comune che, in un modo o nell’altro a seconda della pazienza di ognuno di noi, ci fa imbarazzare per la sua stupidità. Sentirci dare dei “mafiosi” è un insulto, per molti anche molto grave. Per chi non se ne è reso ancora conto, la Mafia è un gruppo terroristico a tutti gli effetti e di certo non è di religione musulmana.
Il terrorismo in Italia – Gli “anni di piombo”. La storia del terrorismo italiano è ben impressa nella memoria del nostro Paese, terrorismo ad opera degli stessi italiani nostri connazionali. Il periodo tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni ottanta viene ricordato con il nome “anni di piombo” di cui ricordiamo la “strategia della tensione” (strategia politica da realizzare mediante un disegno eversivo, tesa alla destabilizzazione o al disfacimento di equilibri precostituiti). Non possiamo assolutamente dimenticarci le stragi di quei periodi:
Strage di piazza Fontana a Milano (diciassette vittime e ottantotto feriti);
Strage di Gioia Tauro (sei vittime e sessantasei feriti);
Strage di Peteano a Gorizia (tre vittime e due feriti);
Strage della Questura di Milano (quattro vittime e una quarantina di feriti);
Strage di Piazza della Loggia a Brescia (otto vittime e centodue feriti);
Strage dell’Italicus (Strage sull’espresso Roma-Brennero, dodici vittime e centocinque feriti);
Strage della stazione di Bologna (ottantacinque vittime e oltre duecento feriti);
Così come non possiamo dimenticarci le Brigate Rosse, l’organizzazione terroristica di estrema sinistra costituitasi nel 1970 per propagandare e sviluppare la lotta armata rivoluzionaria per il comunismo.
Il terrorismo in Italia – La Mafia. Come dicevamo in precedenza, non si può negare in alcun modo che la mafia sia un gruppo terroristico a tutti gli effetti, la storia ne è testimone. Non bisogna dimenticare le stragi compiute ad atto della malavita organizzata:
Strage del Rapido 904 (17 morti e 267 feriti);
Strage di Pizzolungo (l’obiettivo era il magistrato Carlo Palermo, ma invece vennero uccisi una donna e dei suoi due figli gemelli);
Strage di via dei Georgofili (cinque morti e una quarantina di feriti);
Strage di via Palestro (cinque morti);
La strage di Capaci (dove rimasero uccisi il giudice Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta, mentre una decina di persone restarono ferite);
La strage di via d’Amelio (dove rimasero uccisi il giudice Borsellino e cinque agenti di scorta, mentre ventitré persone restarono ferite).
Il terrorismo cristiano. Nella storia non esistono solo terroristi di religione islamica o ebraica, ma anche di fede cristiana: Il Terrorismo Cristiano comprende atti di terrorismo compiuti da gruppi o individui che citano obiettivi o motivazioni da loro interpretati come "cristiani", o entro un contesto di base di violenza tra diverse fazioni e/o pregiudizi quali l’intolleranza religiosa. Come altre forme di terrorismo religioso, i terroristi cristiani hanno indicato interpretazioni di principi di fede – in questo caso interpretazioni del Vecchio Testamento (bibbia) – come propria ispirazione per giustificare violenza e omicidi.
Il massacro di Utøya. Non possiamo dimenticarci del Massacro di Utøya, in Norvegia, ad opera del terrorista cristiano protestante Anders Behring Breivik, dichiarato anti-multiculturalista, anti-marxista e anti-islamista. Lui stesso si autodefinisce “salvatore del Cristianesimo” e “il più grande difensore della cultura conservatrice in Europa dal 1950“. Il suo gesto portò alla morte ben 77 persone, ma l’obiettivo di Breivik fu quello di mandare un segnale al popolo norvegese contro il Partito Laburista e fermare la distruzione della cultura norvegese causata dall’immigrazione musulmana.
Il movimento ultracattolico Christian Identity e il gruppo Army of God. Un gruppo ultracattolico che ritiene i cattolici ariani la “Razza Eletta del Signore”, guidati dal terrorista Eric Robert Rudolph (foto sotto), furono i colpevoli dell’attentato alle Olimpiadi di Atlanta nel 1996 (111 feriti ed un morto), della bomba contro la clinica per aborti ad Atlanta ed il bar Otherside Lounge (bar frequentato da clientela lesbica) nel 1997, della bomba contro la clinica per aborti di Birmingham nel 1998. Negli Stati Uniti d’America è presente anche un gruppo terroristico chiamato “Army of God“, a cui era associato anche il terrorista Eric Robert Rudolph, i quali rivendicarono gli attentati del 1997 contro le cliniche per aborti ed inviarono oltre 500 lettere contenenti polvere bianca, spacciata per antrace, a 280 operatori nel 2001. Nel 1999 furono arrestati e deportati da Israele i membri del gruppo ultracristiano Concerned Christians grazie all’operazione “Operation Walk on Water”, la quale aveva sventato il loro attentato contro la moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme. Il gruppo terroristico ultracristiano era convinto di compiere un atto necessario per il ritorno di Gesù Cristo. Da non dimenticare il famoso gruppo terroristico americano Ku Klux Klan. Il gruppo terroristico americano giustificava la sua azione contro i neri e contro gli ebrei attraverso l’interpretazione di alcuni versetti della Bibbia tra cui quello della Genesi 9, 24-27: «Quando Noè si fu risvegliato dall’ebbrezza, seppe quanto gli aveva fatto il figlio minore; allora disse: Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà per i suoi fratelli! Disse poi: Benedetto il Signore, Dio di Sem, Canaan sia suo schiavo! Dio dilati Iafet e questi dimori nelle tende di Sem, Canaan sia suo schiavo!» Per quanto possa sembrare strano, nella simbologia del KKK c’era anche la croce che brucia, simbolo usato per indurre terrore.
Il terrorismo ebraico. Non bisogna dimenticare il gruppo paramilitare sionista Irgun Zvai Leumi giudicato terrorista dal Regno Unito che operò durante il controllo britannico della Palestina dal 1931 al 1948, anno in cui il gruppo fu disciolto e i suoi membri vennero integrati nelle neo-costituite Forze Israeliane di Difesa. Da citare anche il gruppo paramilitare sionista Lohamei Herut Israel (chiamato dai britannici Banda Stern), di cui bisogna ricordare il massacro di Massacro di Deir Yassin, dove vennero uccise più di 100 arabi costringendo i superstiti a lasciare l’insediamento. Da non dimenticare l’attentato contro il King David Hotel di Gerusalemme nel 1946 (foto sotto), dove vennero uccise 91 persone di varie nazionalità. L’Italia se li dovrebbe ricordare soprattutto per l’attentato compiuto a Roma il 31 ottobre 1946, dove tre giovani terroristi attaccarono l’ambasciata britannica situata presso Porta Pia facendo esplodere due ordigni che causarono la totale distruzione dell’edificio.
L’Esercito di Resistenza del Signore in Uganda. Non tutti conoscono l’esistenza dell’Esercito di resistenza del Signore, un gruppo ribelle di guerriglia di matrice cristiana (che opera anche nel nord dell’Uganda, nel Sudan del Sud, nella Repubblica Democratica del Congo e nella Repubblica Centrafricana). Il gruppo è guidato da Joseph Kony (foto sotto), il quale si dichiara fondamentalista cristiano contro all’Islam e a favore della creazione di una teocrazia basata sui Dieci Comandamenti.
I massacri degli islamici in Africa centrale. Parliamo dei massacri ad opera dei cristiani ed animisti anti-Balaka nello Stato di Centr’Africa, dove la minoranza musulmana viene massacrata. Nel solo mese di gennaio 2014 vi furono circa 1000 vittime, ma il conflitto dura da anni. A denunciare questi massacri fu Amesty International nel 2014. Ciò causò la fuga di numerosi credenti musulmani verso i paesi vicini.
Libano e Palestina. Non bisogna dimenticare il Lebanese Phalanges Party, il “partito delle falangi” di matrice cristiana, le cui milizie compirono i massacri di Sabra e del campo profughi di Shatila ai danni delle popolazioni musulmane e palestinesi durante la guerra civile libanese (1975-1990).
Eppure Ayman Al-Zawahiri, terrorista egiziano, leader di Al-Qā'ida: ha pronunciato queste frasi:«Il nostro messaggio per voi è chiaro, forte e definitivo: non vi sarà alcuna salvezza fino a quando non vi ritirerete dalla nostra terra, smetterete di rubare il nostro petrolio e le nostre risorse, porrete fine al vostro supporto agli infedeli e alla corruzione dei governanti....E' un fatto certo che non tutti i musulmani sono terroristi, ma è altrettanto certo, ed eccezionalmente doloroso, che quasi tutti i terroristi sono musulmani.....Siamo una nazione fatta di pazienza. E noi resisteremo per combattervi, se Dio vorrà, fino all'ultimo minuto....Dobbiamo dissanguare economicamente l'America provocandola, in modo che continui a spendere massicciamente sulla sicurezza. [Dichiarazione del 13 settembre 2013].
Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano” del 19 novembre 2015: invece di denunciare l'Isis manifestano contro di noi. La Francia ieri si è svegliata con le notizie del blitz delle teste di cuoio contro i terroristi islamici e in tutta Europa, Italia compresa, si è seguito in tv l'evolversi dell'assedio di Saint Denis. Tuttavia, mentre in ogni diretta televisiva si parlava dell'azione delle forze speciali francesi e di quella ragazza che ha scelto di farsi esplodere per evitare l'arresto, Maryan Ismail si preoccupava di far sapere a tutti di aver organizzato a Milano una fiaccolata sotto la sede di Libero. Sì, avete letto bene. Un raduno davanti alla redazione perché io e i colleghi chiedessimo scusa ai musulmani per il titolo di sabato scorso, «Bastardi islamici». Mentre in Europa ci sono tizi che, nel nome di Allah, vanno in giro ad ammazzare centinaia di persone colpevoli di vivere in Occidente - e dunque di andare allo stadio, a teatro o al ristorante -, la signora Ismail si preoccupava del titolo di Libero. Non chiedeva a ogni islamico di condannare gli attentatori, di invitare ogni imam a tenere un sermone contro gli assassini, di lanciare una fatwa contro il califfo Al Baghdadi e i suoi seguaci. Domandava a noi di scusarci con i musulmani per aver accostato ai bastardi che hanno sparato contro giovani inermi il riferimento all'islam. Vi chiedete chi sia Maryan Ismail? La signora, di cui fino a ieri ignoravo l'esistenza, è nata a Mogadiscio, in Somalia, ma da anni vive a Milano. Figlia di un diplomatico e politico somalo, è arrivata in Italia in qualità di rifugiata politica e la politica da quel che si capisce è la sua passione, tanto da averla indotta a iscriversi al Pd, entrando a far parte della segreteria cittadina del partito. (...) La sua biografia l'ho desunta da Internet, dove tra l'altro si trova una sua polemica a proposito della costruzione della moschea nel capoluogo lombardo. A Maryan non va giù l'idea che il comune, guidato come è noto da un sindaco sostenuto dal Pd, abbia fatto un bando per assegnare un lotto di terreno su cui edificare il luogo di preghiera degli islamici locali. La signora avrebbe preferito che l'amministrazione comunale invece di cedere a questa o a quella associazione la costruzione e la gestione della moschea, gestisse in proprio il sito, in modo da averne il controllo. Fosse passata la sua tesi, oltre agli asili e alle scuole comunali, a Pisapia sarebbe toccato pure fare l'imam o il muezzin, chiamando a raccolta i fedeli. Perfino i suoi, cioè quelli del Pd, l'hanno giudicata una follia, al punto che il segretario cittadino le ha risposto un po' piccato, facendole capire che la moschea non è l'Atm e non tocca all'amministrazione municipale occuparsi del servizio. La sensazione è che Maryan sia in cerca di un po' di visibilità, soprattutto in vista delle prossime elezioni comunali, quando cioè in primavera si dovrà eleggere il nuovo sindaco. E allora, cosa c'è di meglio se non organizzare una bella fiaccolata in nome della pace per fare la guerra a Libero? Di certo sfilando in piazza dichiarandosi vittime di un'offesa a mezzo stampa non si rischia una pistolettata. Per quanto le nostre parole e i nostri titoli non piacciano, mi risulta che non abbiano ancora ammazzato nessuno. Cosa ben diversa invece è contestare integralisti e terroristi, che come si sa, e come si è visto in questi giorni, non vanno troppo per il sottile, anche con quelli che in apparenza dovrebbero essere fratelli. Come ha scritto l'altro ieri Ernesto Galli della Loggia, nel mondo islamico, anche quello moderato che non si riconosce nelle tesi più radicali e nello Stato islamico, si fa molta fatica a condannare senza se e senza ma le fazioni più estremiste che si ispirano al Corano. A parte le dissociazioni post attentati, non esistono infatti prese di posizione nette contro gli integralisti. Ho provato anche a chiedere a Stefano Dambruoso, uno che da pm si è occupato di terrorismo, quante volte gli sia capitato di ricevere da appartenenti alla comunità islamica delle denunce contro persone sospette di predicare odio o di intrattenere rapporti con organizzazioni terroristiche. La risposta è stata: mai. A volte si ottiene qualche confidenza, nella speranza che si chiuda un occhio su altre faccende, ma vere e spontanee dichiarazioni all'autorità neppure il magistrato che per primo si è occupato di integralisti ne ha mai ottenute. E allora siamo sempre al punto di partenza: ci si indigna per un titolo che associa i terroristi e gli islamici, ma anche tra chi si dichiara moderato si fa poco o nulla per fermare i soggetti più pericolosi. Per certi versi par di vedere l'atteggiamento della sinistra ai tempi degli anni di piombo, quando qualcuno sosteneva che i brigatisti erano sedicenti. Vedrete, tra un po' ci diranno che anche quelli del Bataclan sono sedicenti islamici. Eh sì, sta a vedere che i jihadisti invece che figli di Maria sono figli della Cia.
Libero e Bastardi islamici, ecco cosa pensa Vittorio Feltri, scrive “Libero Quotidiano” il 19 novembre 2015. Nel lungo elenco di persone dotate di razionalità e onestà intellettuale che hanno difeso la scelta di Libero del titolo "Bastardi islamici" va doverosamente aggiunto il fondatore di questo quotidiano, Vittorio Feltri, che a Un giorno da pecora su Raidue ha prima ironizzato: "E come vogliamo chiamarli, discoli o birichini? Non credo sia esagerato definire bastardi i terroristi che hanno compiuto una strage come quella di Parigi". Poi Feltri ha spiegato: "Bisogna leggere oltre il significato delle parole: bastardi è un termine che si riferiva a tutti i terroristi, non a tutti gli islamici. Il titolo - ha aggiunto - si riferiva al fatto che i terroristi che hanno colpito in Francia non sono dei frati trappisti o degli scout, ma degli islamici". Feltri risponde anche alla provocazione della conduttrice Geppi Cucciari, quando chiede se in caso di attentati terroristi compiuti da italiani bisognerebbe fare un titolo "Bastardi cristiani". Feltri dice: "Se ci fossero dei terroristi cristiani che vanno in un Paese a compiere degli attentati, perché non definirli cristiani? Se lo facessero si potrebbe fare, ma non lo fanno, quindi non possiamo definire i cristiani terroristi. Mentre quelli a Parigi, guarda caso, sono islamici o islamisti".
Giorgia Meloni su “Libero Quotidiano” del 17 novembre 2015, perché difendo il titolo di Libero: dagli altri giornali l'Islam è sparito. "Caro direttore, leggo delle polemiche scatenate da "Bastardi islamici", titolo di apertura del suo giornale all' indomani degli attentati di Parigi. C' è chi è arrivato a chiedere le sue dimissioni, altri hanno paventato denunce. L' hanno insultata, chiesto la sua radiazione dall' ordine dei giornalisti, qualcuno ha addirittura invocato la galera. Ma sono la sola ad aver visto dietro quel titolo, che colpisce come un pugno perché appare come un insulto sfrontato, un significato molto più profondo di quello che gli è stato attribuito da chi si lascia condizionare dai pregiudizi della propria visione ideologica? Perché personalmente ho interpretato quel «bastardi» come illegittimi, fasulli, impostori: «Bastardi islamici» ovvero «Impostori islamici», islamici deviati. Un messaggio che addirittura potrebbe piacere ai fan del politicamente corretto. Per intenderci, se lo stesso titolo lo avesse pubblicato il manifesto gli stessi che oggi attaccano Libero starebbero plaudendo al genio comunicativo. A proposito del manifesto, titoli ad effetto come questo che colpiscono allo stomaco e costringono a riflettere, ne fa parecchi (il titolista non lo conosco ma è un genio vero). Mi viene in mente il titolo «Niente asilo» sopra la foto del piccolo Aylan, il bambino siriano morto sulle spiagge turche. Il messaggio era chiaro: gli è stato negato il diritto di asilo politico, e ora che è morto non potrà andare all' asilo come gli altri bambini. Nessuno è stato così idiota da credere che il manifesto stesse facendo sarcasmo o insultando un bambino morto. Lo stesso sforzo di perspicacia non guasterebbe anche per cercare di capire i titoli (choc) dei quotidiani vicini alla destra. E quindi, col solito anticonformismo che ci contraddistingue, le scrivo direttore per esprimere a lei e al suo giornale la nostra solidarietà. Piuttosto approfitterei per fare una riflessione su titoli e prime pagine di altri quotidiani, come ad esempio Repubblica: non troverete mai le parole «islam» e «musulmani», quasi che gli attacchi a Parigi fossero stati compiuti da indefiniti gruppi terroristici di matrice sconosciuta. Ma questa è un'altra storia (e un altro giornalismo). Giorgia Meloni
E LI CHIAMANO MODERATI...Islam, sondaggio tra i musulmani in Italia: il 20% non condanna la strage di Parigi, scrive “Libero Quotidiano" il 20 novembre 2015. Qual è la reazione dei musulmani (moderati) alla strage di matrice islamica di Parigi. Bruno Vespa oggi su Il Giorno illustra un sondaggio che ha mostrato a Porta a porta condotto da Ipr su un campione dei due milioni di musulmani residenti in italia (di cui 800mila ormai cittadini italiani). Di questi, l'80% condanna la strage di Parigi, il 12% la giustifica e l'8% dice di non avere una opinione in merito. Il 75% degli intervistati dice che i terroristi si comportano male, il 15% sostiene che sbagliano, ma li comprende e un 5% dice che agiscono bene, perché bisogna combattere la cultura occidentale. Secondo il sondaggio, un musulmano su 4 pensa che la colpa degli attacchi sia degli occidentali e meno della metà dice che si tratta di singoli terroristi che non hanno niente a che fare con la religione islamica. Il 40% ritiene che Francia sbaglia a reagire e ad attaccare militarmente "perché così si fomenta il terrorismo". Ma voi denuncereste un terrorista o qualcuno che lo favorisce? Il 70% risponde di sì. Quanto all'integrazione, il 25% non si sente parte del tessuto italiano, mentre la metà non ha alcuna intenzione di farlo.
Portavoce Ppe: "I terroristi voterebbero allegramente la sinistra". Fratoianni: "Frase gravissima". L'articolo sul sito internet del Partito popolare europeo che attacca la sinistra. L'esponente di Sinistra Italiana contro le affermazioni di Monika Hohlmeier: "L'eurodeputata tedesca sfrutta le tragedie di questi giorni per sponsorizzare la restrizione delle libertà e dei diritti costituzionali per i cittadini europei". Forenza (L'Altra Europa con Tsipras): "Ci aspettiamo delle scuse", scrive Monica Rubino su “La Repubblica” 19 novembre 2015. Sul sito del Partito popolare europeo, nella sezione "Comunicati stampa", c'è un articolo dal titolo "I terroristi voterebbero allegramente la sinistra". Il pezzo riferisce che l'eurodeputata tedesca Monika Hohlmeier, coordinatrice del Comitato delle Libertà civili degli Affari Interni al Parlamento Europeo, ha criticato i colleghi di sinistra per il loro atteggiamento "lassista" nei confronti del terrorismo. Segue poi un virgolettato della Hohlmeier, che giustifica il titolo del comunicato: "Sembra che per i socialisti, i liberali, i verdi e i comunisti - sostiene l'esponente del Ppe - non ci sia nessuna lezione da trarre dagli attacchi di Parigi. Questi gruppi di sinistra invitano i terroristi a sfruttare le lacune della nostra legislazione sulla sicurezza al fine di perpetrare altri attentati". Per poi concludere: "Le buone intenzioni per prevenire il terrorismo non sono più sufficienti, è necessario cambiare le leggi". Il nesso stabilito dalla Hohlmeier fra i terroristi e il "lassismo della sinistra", come lei stessa dichiara, ha mandato su tutte le furie Sinistra Italiana, che interviene per bocca del deputato Nicola Fratoianni: "Trovo gravissime le affermazioni di Monika Hohlmeier - afferma l'esponente di SI - La deputata tedesca afferma senza vergogna che i terroristi voterebbero allegramente la sinistra, ed utilizza i morti e le tragedie di questi giorni per sponsorizzare la restrizione delle libertà e dei diritti costituzionali per i cittadini europei, il respingimento dei profughi che scappano da Daesh, la chiusura delle frontiere. Esattamente le stesse posizioni che hanno i terroristi che insanguinano il Medioriente e le nostre città". "La destra estrema - prosegue il coordinatore di Sel - evidentemente ha fatto egemonia all’interno del Ppe. Quello che mi impressiona di più è quanto le posizioni della destra europea finiscano per fare il gioco dei terroristi, che nella loro agghiacciante propaganda scommettono proprio su questo: ridurci alle leggi speciali, alla paura, all’indifferenza verso chi soffre. I terroristi stanno già votando la destra estrema in Europa, a suon di morti e paura. Perchè odiano la democrazia. La signora Hohlmeier - conclude Fratoianni - farebbe bene a pensarci prima di parlare”. "Le parole della collega deputata europea Monika Hohlmeier – dichiara Eleonora Forenza, capodelegazione dell’Altra Europa con Tsipras al Parlamento europeo – sono inaccettabili. Da militante di sinistra ed europarlamentare del gruppo Gue/Ngl, voglio dire all’esponente popolare che noi siamo da sempre, e realmente, contro i terroristi, contro ogni forma di terrorismo: perchè lavoriamo per politiche di pace e giustizia sociale, difendiamo i diritti dei migranti, siamo contro chi usa la paura e l’odio per affermare la propria idea di società. Anche per queste ragioni ci opponiamo alle politiche della grande coalizione di cui fa parte il Ppe: fondare l’Europa sul neoliberismo e sulla solidarietà militare. Mi aspetto da Hohlmeier delle scuse per questa indecente dichiarazione, che strumentalizza in modo bieco e maldestro il dramma di Parigi".
Eppure…
Terrorismo, per Laura Boldrini l'Isis siamo noi: "Abbiamo seminato odio", scrive su “Libero Quotidiano” di Enrico Paoli il 19 novembre 2015. L’Europa parla di guerra, di attacco senza precedenti. Ed è un linguaggio che non è più isolato, fuori sincrono rispetto alle scene che ci passano davanti agli occhi nei telegiornali e nei servizi dedicati alla Francia. È semplicemente la dura realtà che i fatti di Parigi hanno messo al centro del dibattito politico di tutti i Paesi. Eppure l’illuminata e progressista presidentessa della Camera, Laura Boldrini, ha sentito ancora una volta l’urgenza, se non proprio l’impellenza, di marcare il proprio territorio, di mettersi fuori dal coro. Come se starci dentro fosse un problema, un neo da rimuovere. Quando il neo in questione, a dire il vero, è il fenomeno del terrorismo con tutte le sue complicazioni. Ma la Boldrini è così, un eterno salmone anche quando la storia richiederebbe ben altro. In una lunga intervista al settimanale L’Espresso, in edicola oggi, la terza carica dello Stato sostiene che la guerra all’Isis si combatte «con la politica», dialogando con gli attori in campo, esclusa ovviamente la stessa Isis». La presidente della Camera fa notare che «dopo cinque anni di guerra in Siria ci sono state 250mila vittime, oltre la metà della popolazione è fuori casa forzatamente», sostiene la Boldrini, «ci sono quattro milioni di profughi di cui due in Turchia». «La guerra è nefasta, crea odio e disfacimento», sostiene l’inquilina di Montecitorio, «abbiamo seminato odio, abbiamo creato contrapposizione. Abbiamo predicato lo scontro di civiltà, l’errore più grave di tutti. Ora proseguire su questa strada sarebbe miopia politica». Insomma, le forze della coalizione, la stessa Europa, l’America in particolare, avrebbero provocato il processo di reazione che si sta traducendo in atti terroristici, in stragi che colpiscono i civili nella loro quotidianità. La colpa è nostra, sembra essere la sintesi estrema del ragionamento fatto dalla Boldrini. Non solo. La presidente della Camera, sottolineando come la sua sia «una posizione realista, non buonista», rimarca il fatto di non essere mai stata «contro gli interventi militari a prescindere, mi è capitato anche di lavorare in situazioni in cui erano l’unico modo per fermare il massacro di civili innocenti. Ma bisogna evitare di creare odio su odio», sostiene la Boldrini, «fermarsi a riconsiderare gli strumenti con cui vogliamo combattere questa guerra. Tagliare i finanziamenti. Non comprare più il petrolio che arriva dai territori occupati dai tagliagole, un milione di dollari al giorno. Rafforzare l’intelligence: fare un salto nell’integrazione europea significa anche avere una sola politica di sicurezza e di difesa». Tutte belle ricette, tutte belle idee, ma che fanno drammaticamente a cazzotti con la realtà. Nel momento in cui prendi uno schiaffo, non puoi fermarti a chiedere perché, puoi solo reagire, con una forza simile se non addirittura superiore. Poi arriva il momento del dialogo, dunque della politica. Perché veniamo attaccati, perché hanno insanguinato Parigi è già passato. Le domande riguardano già il futuro. L’Europa, in questo momento non ha tutto questo tempo. Parigi ha dimostrato che siamo in una fase di emergenza. Soprattutto di carattere tecnico militare, inteso come sicurezza dei cittadini. E poi c’è il capitolo socio-economico, che la Boldrini ama in modo particolare. «I rifugiati sono le prime vittime del terrore. Chi vuole rimandarli indietro fa un regalo all’Is che si presenterebbe come l’unica protezione», sostiene la terza carica dello Stato, «chi dice che tutti i musulmani sono uguali consegna a poche migliaia di miliziani la rappresentanza di miliardi di persone. Una follia. Si pensa sempre che il nemico venga da fuori», fa notare la Boldrini, «invece è qui, in casa nostra. Le ricette semplici sono un inganno. E sono anche le meno efficaci. Perché il terrorismo è una minaccia globale, che colpisce ad ogni latitudine: a Parigi come a Beirut, ad Ankara come a Nairobi». Ecco, se le cose stanno esattamente così, è evidente la contraddizione in termini contenuta nel ragionamento della Boldrini, che spegne le ipotesi di risposta militare come soluzione ma parla di nemico già presente in casa nostra. Dobbiamo tenercelo? «Il governo ha finora tenuto una posizione ragionevole che condivido. Sulla lotta al terrorismo», ribadisce la Boldrini, «serve senso di responsabilità da parte di tutti». Già, la responsabilità. Noi riflettiamo, loro attaccano. Ancora.
Bufera dopo il post del portavoce di Gabellone, la Sinistra chiede la rimozione. La polemica, nata sul web prosegue a colpi di comunicati stampa. Dopo il post delle scorse ore del portavoce del presidente della provincia di Lecce Antonio Gabellone ne chiedono la rimozione dall'incarico il gruppo “Salento bene comune”, Abaterusso e Carlo Salvemini. Gabellone non risponde, per l'interessato: mera strumentalizzazione, scrive “TeleRama il 18 novembre 2015. Continua a far discutere il post su Facebook scritto dal portavoce del presidente della Provincia Cosimo Carulli sulla morte di Valeria Solesin, negli attacchi terroristici a Parigi. “Non portava la kefiah, non agitava bandiere della pace, dunque sarà dimenticata in fretta .– si legge – Solo una ragazza normale e studiosa, figuriamoci se la feccia della nostra società le riconoscerà qualche onore. Sta circolando tra le agenzie di stampa la notizia sulla morte di una nostra connazionale. Valeria, studentessa modello alla Sorbona di Parigi per mano di bastardi senza scrupoli; ma certamente non farà nessun effetto ai nostri tanti connazionali caproni comunisti vestiti del loro finto egualitarismo con il portafoglio pieno e del loro dialogo del niente con gente come loro, puzzolente e stragista, brigatista e violenta quanto loro. Scenderanno in campo per le varie Vanessa e Greta, le cooperanti in gita di piacere in Siria (piacere in tutti i sensi….), per la Sgrena a cui bastò un rapimento per un seggio in Parlamento e non per i Quattrocchi morti per l’Italia. Insomma, restano quelli che sono: il tumore maligno dell’Italia”.
Il Movimento 5 Stelle, da sempre dalla parte del terrorismo, scrive “Il Corriere del Giorno” il 16 novembre 2015. Degli attivisti del Movimento5Stelle dal baso della loro evidente “ignoranza” ci accusano di percepire contributi dello Stato, quando in realtà chi viene retribuito con i soldi pubblici (ed altro che gli sbandierati e promessi 2.500 euro in campagna elettorale!) sono i loro deputati e consiglieri comunali e regionali, ed i loro “portaborse”, che spesso sono loro parenti diretti o indiretti! Ma questa volta vogliamo ricordarvi alcuni comportamenti dei loro rappresentanti nelle sedi istituzionali.
Era il 12 novembre 2013 e la deputata Emanuela Corda, esponente del Movimento 5 Stelle, non poteva trovare giorno migliore… per commemorare a modo suo, l’attentatore kamikaze che ha ucciso 19 Carabinieri a Nassiriya. Infatti quel giorno, 12 novembre, ricadeva il decennale di quella strage. Con squallido e volgare tempismo, l’onorevole “grillina” ha voluto spendere parole d’affetto e di comprensione nei confronti del giovane attentatore. Nel suo discorso, pronunciato davanti agli attoniti colleghi deputati, Emanuela Corda ha ricordato, dopo una doverosa introduzione in memoria dei 19 italiani e 9 iracheni uccisi: “Nessuno ricorda il giovane marocchino che si suicidò per portare a compimento quella strage. Quando si parla di lui se ne parla come di un assassino, e non anche come vittima, perché anch’egli fu vittima oltre che carnefice”. Parole squallide, allucinanti, quasi incredibili, cui la deputata grillina sembra porre rimedio: “Una ideologia criminale l’aveva convinto che quella strage fosse un gesto eroico e lo aveva mandato a morire“, ma l’apparente rinsavimento durò poco, perché Emanuela Corda continuò così: “e non è escluso che quel giovane come tanti kamikaze islamici fosse spinto dalla fame, dalla speranza che quel suo sacrificio sarebbe servito per far vivere meglio i suoi familiari, che spesso vengono risarciti per il sacrificio del loro caro“. Avete letto bene. Si lo ha giustificato in quanto “spinto dalla fame”. Come se per logica conseguenza si potesse uccidere per fame. Anche il giovane marocchino, ricordato “affettuosamente” dalla deputata grillini, è stato una vittima. Vero, è morto anch’egli nell’attentato. Ma ha scelto di uccidere 28 persone. Commemorarlo in un giorno come questo, in ricordo delle vittime di Nassiriya, appare tanto fuori luogo quanto di cattivo gusto. Ancor più in una istituzione come il Parlamento italiano. Cosa ne penseranno i delusi dalla politica, che votando Movimento 5 Stelle hanno contribuito a portare persone come Emanuela Corda in Parlamento?
Il 12 novembre 2014, l’anno successivo e questa volta, sempre in occasione della ricorrenza dell’anniversario di Nassirya, è stato un consigliere regionale (candidato Governatore) della Regione Lazio per il M5S, a manifestare la sua “vicinanza” ideologica al terrorismo. Infatti, durante il minuto di silenzio che il presidente del Consiglio Regionale del Lazio Daniele Leodorifece osservare, tutti i consiglieri si sono alzati in piedi tranne quello del M5S, Davide Barillari. Il consigliere del Ncd, Giuseppe Cangemi, tra l’altro ex paracadutista, subito dopo gli si e” fatto sotto e stava per attaccarlo fisicamente se non fosse stato trattenuto da alcuni consiglieri, tra i quali Gino De Paolis di Sel e Daniele Mitolo di Per il Lazio. Barillari provo a replicare: “Vorrei alzarmi per ogni morto che abbiamo nel Lazio, in ogni scenario di lotta, comprese le morti bianche. Dovremmo alzarci continuamente. Semmai è questione di chiedersi perchè muoiono queste persone. Queste persone sono morte a causa di una guerra”. Le reazioni “Il consigliere Barillari si dovrebbe vergognare: rimanere seduto durante il minuto di silenzio per l’undicesimo anniversario della strage di Nassiriya e per la Giornata del ricordo dei caduti nelle missioni internazionali è una provocazione inaccettabile”. E’ quanto dichiarò Giuseppe Cangemi, consigliere Ncd della Regione Lazio. “Il consigliere grillino- aggiunse- ha oltraggiato la memoria dei militari che hanno perso la vita, dileggiato la sofferenza delle loro famiglie e offeso tutti gli italiani che si sono inchinati davanti alle bare dei nostri caduti a Nassiriya. Barillari dovrebbe chiedere scusa oppure dimettersi”. Lo sdegno nei confronti dell’esponente del M5S fu “bipartizan”. Marco Vincenzi, presidente del gruppo del Partito democratico al termine del minuto di silenzio per commemorare l’eccidio dei militari italiani a Nassiriya, dichiarò: “Il consigliere del M5SBarillari questa mattina si e” reso responsabile di un gesto grave che offende l’istituzione regionale, l’Italia e l’intera comunità internazionale. I nostri militari caduti a Nassiriya, e in altri teatri di guerra, erano in missione di pace, impegnati a difendere la popolazione civile. Strumentalizzare come ha fatto il consigliere Barillari, la barbarie di Nassiriya, rappresenta uno dei peggiori episodi per l’Aula consiliare della Regione Lazio che stigmatizzo e condanno con forza. Desidero esprimere, infine, a nome del gruppo del Partito democratico, solidarietà e vicinanza ai nostri militari, ringraziandoli per l’impegno quotidiano a difesa della pace nelle missioni internazionali”.
Era il 13 agosto 2014 ed i deputati “grillini” della Commissione Esteri si erano espressi contro la scelta di Farnesina e Ministero della Difesa di appoggiare, anche militarmente, il tentativo del governo del Kurdistan iracheno di contenere l’espansionismo del Califfato islamico. “Mogherini e Pinotti giocano a fare la guerra in Iraq senza aver consultato il Parlamento preventivamente. Si fermino e vengano a riferire in Aula prendendosi le loro responsabilità di fronte al Paese. Bombardamenti e forniture di armi non fanno altro che alimentare gli stessi fenomeni che si vogliono contrastare. Praticamente è come curare un diabetico con iniezioni di glucosio.” “Il duo Ue-Usa decide di bombardare per mettere pace, con la giustificazione che tutto ciò serva a prevenire il genocidio, mentre per uguali situazioni nel vicinissimo Medio oriente non si procede certo con misure analoghe – concludevano – Violenza genera violenza e l’articolo 11 della costituzione non è un optional.” Una posizione molto netta, ribadita anche dal capogruppo M5S in commissione Esteri alla Camera Manlio Di Stefano in un’intervista a La Stampa: “Noi occidentali abbiamo dato per scontato che la nostra fosse l’unica democrazia possibile. Affrontare le cause con rispetto significa interrogarsi se non ci siano altre forme di governo e di democrazia che vanno bene per i posti dove sono.” Di Stefano attaccò anche gli Stati Uniti e il loro “interventismo accanito contro alcuni territori e il totale oblio di altri territori” (il riferimento era alla Palestina, ndr). Come soluzione, propose “un intervento diplomatico forte”, o al massimo interventi di corpi non armati e interventi umanitari, invece dei “bombardamenti veri e propri” che “polarizzano ulteriormente le divisioni”. “Vero, sono terroristi – concludeva Di Stefano – Ma siamo sicuri che ogni terrorista morto non ne nascano altri cento? Quella provocazione del Califfato di arrivare fino a Roma significa questo: più voi intervenite, più noi reagiremo.” Solo pochi giorni prima Di Stefano era stato al centro di una polemica politica dopo aver attaccato Israele, definendo “genocidio” quello in atto in questi mesi a Gaza. Contro di lui si erano espressi portavoce delle comunità ebraiche e anche l’ambasciata d’Israele in Italia.
Era il 16 agosto 2014 ed un post pubblicato sul blog di Beppe Grillo, i cui proventi pubblicitari non entrano nelle casse del M5S ma del loro “padre-padrone-comico-guru”, il deputato Alessandro Di Battista scriveva: “Dovremmo smetterla di considerare il terrorista un soggetto disumano con il quale nemmeno intavolare una discussione”. Non a caso in quei giorni i deputati grillini della Commissione Esteri si erano espressi contro la scelta di Farnesina e Ministero della Difesa di appoggiare, anche militarmente, il tentativo del governo del Kurdistan iracheno di contenere l’espansionismo del Califfato islamico invitando alla “calma” e al “rispetto” per capire “fenomeni radicali come Isis“, adesso è la volta di Di Battista che nel post pubblicato sul blog di Grillo scriveva: “L’obiettivo politico (parlo dell’obiettivo politico non delle assurde violenze commesse) dell’ISIS, ovvero la messa in discussione di alcuni stati-nazione imposti dall’occidente dopo la I guerra mondiale, ha una sua logica“. Ma l’apice del lunghissimo post arrivava quando il grillino parlava del terrorismo: “Dovremmo smetterla di considerare il terrorista un soggetto disumano con il quale nemmeno intavolare una discussione. Questo è un punto complesso ma decisivo. Nell’era dei droni e del totale squilibrio degli armamenti il terrorismo, purtroppo, è la sola arma violenta rimasta a chi si ribella. È triste ma è una realtà. Se a bombardare il mio villaggio è un aereo telecomandato a distanza io ho una sola strada per difendermi a parte le tecniche nonviolente che sono le migliori: caricarmi di esplosivo e farmi saltare in aria in una metropolitana. Non sto ne giustificando né approvando, lungi da me. Sto provando a capire. Per la sua natura di soggetto che risponde ad un’azione violenta subita il terrorista non lo sconfiggi mandando più droni, ma elevandolo ad interlocutore”, scriveva Di Battista. Non era la prima volta che il M5S difende le posizioni più estreme dell’Islam. Ancor prima di impegnarsi attivamente in politica Beppe Grillo, durante i suoi spettacoli, attaccava le politiche occidentali e giustificava quelle islamiche. Fino ad arrivare all’intervista del 2012 a un giornale israeliano in cui si prodigava in una strenua difesa dell’Iran di Ahmadinejad: “Quelli che scappano, sono oppositori. Ma chi è rimasto non ha le stesse preoccupazioni che abbiamo noi all’estero. L’economia lì va bene, le persone lavorano. È come il Sudamerica: prima si stava molto peggio. Ho un cugino che costruisce autostrade in Iran. E mi dice che non sono per nulla preoccupati”. Non contento…. il deputato M5s disse la sua anche sull’11 settembre : “L’attentato alle Torri Gemelle fu una panacea per il grande capitale nordamericano. Forse anche a New York qualcuno “alle 3 e mezza di mattina rideva dentro il letto” come capitò a quelle merde dopo il terremoto a L’Aquila. Quei 3.000 morti americani vennero utilizzati come pretesto per attaccare l’Afghanistan, un paese con delle leggi antitetiche rispetto al nostro diritto ma che con il terrorismo internazionale non ha mai avuto a che fare”. Quelle parole di Di Battista riuscirono ad unire tutta la politica italiana, accomunata dallo sdegno: da Forza Italia al Partito Democratico, passando per l’Udc e Scelta Civica. Il coro fu unanime: “Siamo al game over per la credibilità e per il margine di tollerabilità del Movimento 5 Stelle” (Forza Italia). “Di Battista a ferragosto deve aver preso un brutto colpo di sole” (Italia dei Valori), “l’ignoranza di Di Battista fa pena” (Ncd). Ma questa volta, alla luce dell’attentato di Parigi, riecheggiano le parole di Di Battista. Ma cosa aspettarsi da uno che ha un padre che partecipando ad una manifestazione dei grillini, dichiarò: “Io di destra? Sono fascista, è un’altra cosa”. Ecco, cari lettori, da chi è composto il Movimento 5 Stelle. Con loro l’Italia ha definitivamente toccato il fondo.
Filippo Facci su “Libero Quotidiano” del 20 novembre 2015 umilia Vauro: "Coniglio e bastardo: ti spiego pure perché". Allora sei un bastardo anche tu, Vauro Senesi, e di che religione non importa, anzi sei un coniglio, un coniglio mannaro, uno che mette sullo stesso piano i lettori di Libero e i plauditori della strage di Parigi, uno che ha trovato la soluzione allo scontro di civiltà, e cioè questa: arrestare Maurizio Belpietro e le sue sporche truppe. Ma prego, Vauro, a te la parola, come hai fatto nella mattinata di ieri nel vacuo parolaio che è L' aria che tira su La7: avevano appena trasmesso un servizio su un islamico di Catania (uno tutto contento per i morti di Parigi) e poi eccoti: «Sono il primo a condannare il pazzo che a Catania dice quelle cose, però...». C' è un però: «Quando quel pazzo lì sarà arrestato, perché è un fomentatore di odio, ma allora: il signor Belpietro? Quando lo arrestiamo il signor Belpietro, che scrive un titolone così "Bastardi islamici?"». Perché, che ha fatto in concreto Belpietro? «Il signor Belpietro mette a rischio la mia sicurezza, e la sicurezza di ognuno di noi, perché al pari - che non è al pari, perché quello è un poveraccio ignorante, mentre il signor Belpietro dovrebbe essere un intellettuale (voci che si sovrappongono, ndr) ... è criminale, mette in pericolo la vita dei nostri figli, perché se domani un cretino fomentato dal titolo di Belpietro prende a accoltella il primo che incontra... (voci che si sovrappongono, ndr) ... la paura che ho, è che quelli che ci dovrebbero difendere dal terrorismo sono gli stessi che hanno creato il terrorismo». Riassunto: il terrorismo l'ha creato Belpietro o quelli come lui, il quale, non pago, vuole altro sangue e allora aizza gli islamici col titolo «Bastardi islamici» dopo che degli islamici (bastardi) hanno fatto a pezzi dei civili; Belpietro dunque mette in pericolo i figli di Vauro e tutti gli altri. Parentesi: è record, perché l'altro giorno Giafar al Siqilli (come si è ribattezzato ridicolmente Pietrangelo Buttafuoco) aveva scritto sul Fatto che «se il musulmano è un bastardo, un coltello prima o poi se lo ritrova», ora invece arriva Vauro e aggiunge che lo stesso titolo «mette in pericolo la vita dei nostri figli». Insomma, con un solo titolo fai fuori tutti. Ecco spiegata vignetta che Vauro ha piazzato in prima pagina sul Fatto di lunedì: la scritta «Il sangue non si è ancora asciugato» e Belpietro e Salvini che dicono «possiamo sguazzarci». Ma dicevamo de La7 e de L' aria che tira: nel bailamme a quel punto interveniva la conduttrice Myrta Merlino (le cui pettinature sono l'unica giustificazione all' esistenza dell'Isis) e con vacuo cerchiobottismo cercava di sedare: «Belpietro ha fatto un titolo sbagliato, ma...». Ma. Però. Tuttavia. È anche vero che. Insomma, povero Vauro, forse no, forse non sei un bastardo: mettere sullo stesso piano Libero e gli assassini di Parigi è da bastardi e basta, ma è solo che hai una fottuta paura. Ce l'avevi nel 2006, quando attaccasti le vignette danesi anti-Maometto perché, detto con parole tue, «messaggi violenti provocano reazioni violente». Poi però andasti da Santoro con la maglietta di solidarietà, che nel tuo caso avrebbe dovuto essere: «Siano tutti Charlie, da oggi». E poi via, al calduccio a fare vignette su Berlusconi e su Renzi. Ti teneva compagnia Maurizio Crozza, secondo il quale era meglio sfottere il Papa o Bush «perché loro influenzano il nostro modo di vivere». I bastardi musulmani, in effetti, influenzano il nostro modo di morire.
Niente Adeste Fideles a scuola: "È troppo cristiana". Il brano della tradizione natalizia “Adeste fideles”? "Troppo cristiano, non si può suonare". La pensa così, almeno, il dirigente scolastico dell’Istituto comprensivo di Casazza, la professoressa Maria Antonia Savio, che, nell’imminenza del consueto appuntamento annuale della festa della scuola, ha fatto pervenire i suoi rilievi al Corpo parrocchiale musicale che sarà protagonista dell’appuntamento, riservato ai ragazzi e alle loro famiglie, scrive Mario Valenza Lunedì 23/11/2015 su "Il Giornale". Il brano della tradizione natalizia “Adeste fideles”? "Troppo cristiano, non si può suonare". La pensa così, almeno, il dirigente scolastico dell’Istituto comprensivo di Casazza, la professoressa Maria Antonia Savio, che, nell’imminenza del consueto appuntamento annuale della festa della scuola, ha fatto pervenire i suoi rilievi al Corpo parrocchiale musicale che sarà protagonista dell’appuntamento, riservato ai ragazzi e alle loro famiglie. Una presa di posizione, quella della preside, che naturalmente non ha mancato di suscitare polemiche nel paese bergamasco. "Cosa significa “troppo cristiano”?", sbotta qualche anziano nella piazza all’ombra del campanile della chiesa. "Dovremo forse chiedere il permesso a qualcuno per intonare i nostri canti di Natale? E un concerto di Natale se non è cristiano cosa è?". Secondo la dirigente Savio, bisogna attingere a un repertorio meno legato alla sensibilità cristiana, visto che l’istituto è frequentato anche da figli di immigrati. Una spiegazione che tuttavia appare poco convincente. Così come la preside appare più realista del re, visto che nessuno tra le famiglie degliu alunni aveva sollevato il problema. "Ci è stato fatto presente - dice Silvia Micheli, 28enne componente del consiglio direttivo della banda al Giorno - che, siccome Casazza è un paese multiculturale, occorre non urtare la sensibilità di nessuno. La richiesta ci ha un po’ sorpresi perché noi siamo una banda parrocchiale. In ogni caso, essendo ospiti, abbiamo deciso, senza polemica, di optare per “Jingle bell rock”, meno connotato". Infine il consigliere regionale della Lega Nord, Silvana Santisi Saita, ha subito rilanciato la notizia sulla propria pagina Facebook rilevando che "La scuola, che dovrebbe formare e integrare, dopo il Presepe adesso censura anche la musica".
Altro che corano: citiamo il Padre Nostro. A un terrorista islamico che puntandoti il mitra ordina di recitare versetti coranici, chiunque di noi, laico o fedele che sia, dovrebbe rispondere con le parole del Padre Nostro, che è preghiera di libertà e carità, scrive Alessandro Sallusti Sabato 21/11/2015 su "Il Giornale". E tre. Dopo l'aereo russo e la notte di Parigi, lo stragismo islamico fa tappa in Africa, a Bamako, capitale del Mali. Nel grande hotel degli occidentali si contano i morti e in Europa si rinnova la falsa indignazione di chi a parole fa il duro ma in realtà si tiene ben alla larga dall'affrontare il nemico come si dovrebbe in una situazione come quella che stiamo vivendo. Fa paura pensare che una religione dichiari guerra agli infedeli, ma - coerentemente con quanto scritto nel Corano - è esattamente quello che sta accadendo. Che non si tratti di tutto l'islam o solo di una parte, non so quanto minoritaria, è rebus che lasciamo agli esperti di statistica. Perché, per quanto riguarda la sostanza, i fatti parlano sempre più chiaro. Ieri a Bamako è successo che i terroristi hanno sottoposto 170 ostaggi all'esame di Corano: chi sapeva recitare i versetti del profeta ha avuto salva la vita, chi no è finito nella lista dei condannati a morte. In questa tragedia c'è una beffa atroce, perché se i terroristi islamici avessero voluto - per paradosso - graziare anche i conoscitori dei vangeli, credo che in pochi l'avrebbero scampata, tanta è l'ignoranza di un Occidente che si è voluto auto-scristianizzare in nome del multiculturalismo, fenomeno bello in astratto ma, nei fatti, bomba (in tutti i sensi) pronta a esplodere quando meno te lo aspetti, come infatti sta accadendo. Non parlo della mancanza di fede, che è fatto personale. Parlo della consapevolezza della storia che ci ha generato, che invece dovrebbe essere patrimonio collettivo e collante di civiltà. A un terrorista islamico che puntandoti il mitra ordina di recitare versetti coranici, chiunque di noi, laico o fedele che sia, dovrebbe rispondere con le parole del Padre Nostro, che è preghiera di libertà e carità. Se non altro per dimostrare a questa gentaglia «come muore un occidentale» o «come muore un cristiano», sulla scia della celebre frase pronunciata in faccia al boia da Fabrizio Quattrocchi durante la guerra in Irak. Ma forse è chiedere troppo. In un Paese dove Laura Boldrini è presidente della Camera non è tempo di eroi, è il tempo di coccole per i 200mila immigrati islamici «moderati» che in cuor loro tifano Isis. Che brutti tempi.
In Europa crescono i crimini legati all'odio contro i cristiani. È questo uno dei trend che emerge dai dati sugli "hate crimes" diffusi dall'Osce/Odihr per l'anno 2014: in Europa sempre più spesso ad essere colpiti da questo tipo di crimini sono gli appartenenti alla maggioranza della comunità, scrive Alessandra Benignetti Lunedì 23/11/2015 su "Il Giornale". Chi lo ha detto che sono solo le minoranze ad essere perseguitate? Dal rapporto dell’OSCE/ODIHR, che qualche giorno fa ha reso pubblici i dati del 2014 sui cosiddetti“hate crimes” in 46 paesi del mondo, compresa l’Italia, emerge un quadro ben diverso. Uno dei dati più interessanti di questo rapporto infatti, che ogni anno raccoglie dati sugli "hate crimes", ovvero quei crimini contro persone o beni che sono motivati da un pregiudizio o discriminazione, è infatti quello sui crimini contro i cristiani negli stessi Stati europei. Questo trend è evidenziato dai dati collezionati dall’Osce attraverso un duplice sistema di raccolta informazioni, che coinvolge, da un lato i punti di contatto nazionali ufficiali di 43 Paesi, e dall’altro le segnalazioni di 122 ONG legate alla società civile. Secondo i dati forniti da questi diversi attori, si evince che almeno in tre grandi Stati dell'Europa occidentale, come Francia, Germania ed Italia, le aggressioni fisiche e materiali con alla base pregiudizi contro la fede cristiana, supererebbero in certi casi sia quelle nei confronti di altri gruppi religiosi, sia quelle derivanti da pregiudizi di altra natura. In Italia, infatti, nel 2014 gli “hate crimes” a sfondo religioso, anche contro i Cristiani, vengono subito dopo quelli legati alla xenofobia. A confermare questo trend si aggiungono anche i dati che riguardano, ad esempio, gli “hate crimes” in Francia nell’anno 2013, dove si sono registrati 602 casi di crimini motivati da pregiudizio contro i Cristiani, tra cui 197 casi di profanazione di cimiteri e 405 casi di danneggiamento di chiese. Nello stesso anno in Francia, “solo” 301 sono stati invece, secondo l’Osce/Odihr, gli “hate crimes” contro i musulmani. Anche i dati che riguardano la Germania per il 2014 riportano centinaia di casi di violenza nei luoghi di preghiera, nelle chiese, la profanazione di un cimitero e, nel 2013, anche alcuni casi di aggressione fisica. "Benché i dati pubblicati dall'OSCE/ODIHR siano tra i più completi a livello internazionale, certamente vi è un ampio numero oscuro di “hate crimes” non registrati”, ha commentato Mattia Ferrero, delegato per le attività internazionali dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, sentito al telefono da ilGiornale.it, “tuttavia, è possibile svolgere alcune considerazioni sui trend riscontrabili”. “Uno degli aspetti di maggiore interesse consiste nel fatto che gli “hate crimes” colpiscono tanto le minoranze, quanto le maggioranze. In particolare, gli “hate crimes” contro i Cristiani, anche e soprattutto nell'Europa occidentale, rappresentano un numero molto significativo, comparabile, se non superiore in alcuni casi, a quelli nei confronti di altre comunità religiose” continua l’avvocato Ferrero, “in secondo luogo, essendo gli “hate crimes” motivati da odio religioso, principalmente degli atti di violenza contro luoghi di culto e non violenze contro le persone, le vittime e le autorità sono portati a sottovalutarli, ed è quindi necessario aumentare l'attenzione, sia a livello politico e di opinione pubblica, sia da parte delle autorità, verso gli “hate crime” anticristiani”. Inoltre il delegato dell’Unione Giuristi Cattolici ha sottolineato come occorra “valutare con molta attenzione gli "hate crimes" più ricorrenti, ovvero quelli motivati da odio etnico, razziale, nazionalistico e religioso, perché si tratta di fenomeni che sono in grado di portare ad un escalation di violenza a livello interno ed internazionale”. “La prevenzione di conflitti ed instabilità dell'area europea passa anche attraverso la prevenzione e lotta di questo tipo di hate crimes" ha affermato l’avvocato. Un altro trend che emerge dai dati del report, è quello che vede, in quasi tutti i Paesi esaminati, i casi di hate crimes contro persone LGBT, sottostare in valore numerico ai casi di violenza motivati da odio etnico e religioso, che sono invece predominanti. È quanto ha evidenziato in una nota stampa l’associazione Pro Vita Onlus, tramite il portavoce dell’associazione Alessandro Fiore. “Alcune associazioni e molti organi di stampa presentano il fenomeno dei crimini d'odio contro persone LGBT come un'assoluta emergenza nazionale, i dati oggettivi a nostra disposizione ci restituiscono un quadro diverso”, ha dichiarato il portavoce. Come ha affermato l’Osce nella decisione di Atene n.9 del 2009, quindi, anche gli individui appartenenti alla maggioranza della comunità possono essere vittime di “hate crimes”, ed è importante per questo, si legge nella decisione della Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, contrastare i crimini di odio a tutti i livelli. Sono soprattutto questo tipo di crimini spesso, infatti, a minacciare la “sicurezza dei singoli e la coesione sociale”, fino a sfociare in “conflitti e violenza su larga scala”.
Filippo Facci su “Libero Quotidiano del 21 novembre 2015 umilia Antonio Di Pietro: ecco la prova, parla arabo. Islam moderato, titoli moderati: trovare un linguaggio comune è la cosa più importante. Chi meglio di Antonio Di Pietro? Ecco il suo contributo (iperstestuale) espresso ieri mattina a «Coffee Break», su La7: «Guardi, si fa presto a riempirsi la bocca... ehm... di... ergh... agenti segreti, la sicurezza, la la... il controllo del territorio... tra i dire e il fare non è mica facile, eh, perché prendi case di questo genere, per poi accorgersi semplicemente quando è già fatta la frittata, non è facile andare all’interno... ma prevenire: bisogna prevenire, ma bisogna anche avere il senso del... ergh... la responsabilità di dire fino a che punto è possibile, ecco perché io ritengo, quel che sta succedendo, che succederà questa manifestazione che fanno... Ergh… domani, sia importante per un motivo molto semplice: perché deve far capire al popolo italiano che... l’islam è una cosa... bh... è una cosa, ebeh... l’Isis è un’altra, che... ergh... la religione musulmana è una cosa, che coloro che... usz.. zhezhe... si riempono la bocca di questa parola ma che in realtà... ergh... sono problemi psichiatrici, sono problemi mentali, sono problemi che... per risolverli bisogna semplicemente isolarli e cercare che qualcuno dica di chi li conosce, di chi ha rapporti con lui, ci dica qualchecosa. Ecco perché sotto questo aspetto io ritengo che il messaggio che viene mandato in questo momento dalle istituzioni, anche dal governo Renzi che io ho sempre contrastato con tante altre (incomprensibile) sia un messaggio corretto... in questo momento dobbiamo stare tutti uniti. Questo momento cominciare a fare polemica quello non va bene quello non va bene quello non va bene, serve semplicemente a creare confusione... il... quel che a me preoccupa qual è? È il proselitismo... quel che a me preoccupa è che ci sono menti malate che vedendo tutto quel che sta vedendo, lo voglio fare anch’io, lo voglio fare anch’io. Perché viene in mente a fare tutto questo. Ecco, in questo senso che cosa può avvenire? Il controllo del territorio siamo innanzitutto noi stessi, senza stare seduto sulla sedia e pensare: perché quello non ha fatto quello? Ma mica è Mandrake, il poliziotto, bisogna che qualcuno glielo dico, e allora quando succedono queste cose, come quelle che avete visto adesso in questa ragazza, sicuramente, nel suo entourage, nel suo ambiente, nel suo territorio, tante persone hanno capite che qualcosa non andava, e allora facciamo una cosa: d’ora in poi ogni volta che capiamo qualcosa che non va, meglio una una segnalazione in più, magari sbagliata... non chiudiamoci... perché i migliori agenti in sicurezza di noi stessi siamo noi stessi. Dobbiamo essere tutti partecipi tutti insieme. Io mi metto a dire male del governo Renzi perché poteva mettere più poliziotti: ma se ci stai pure tu a vederle e segnala il fatto, no?». Così disse il noto moderato Antonio Di Pietro: perché trovare un linguaggio comune - tra l’italiano e l’arabo - è la cosa più importante.
LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE. L’ALTRA FORMA DI CENSURA: IL POLITICAMENTE CORRETTO.
Il Politicamente corretto ha ucciso la cultura occidentale, scrive Francesco Giubilei su "Il Giornale il 13 novembre 2015. Uno dei principali mali della nostra società – forse il più profondo e grave perché subdolo, ramificato e stratificato – è il politicamente corretto. Una vera e propria dittatura – come recita il sottotitolo del libro di Annalisa Chirico che tratta di tutt’altro argomento “contro la dittatura del politicamente corretto” – che è diventata ancor più evidente con il web. Perché in una società di tuttologi, di esperti in ogni settore dello scibile umano, in un bar sport a cielo aperto come è diventata la società del XXI secolo, avere posizioni che contrastano il pensiero comune non è ormai più concesso, in barba alla democrazia. Criticare la visione della massa porta ad essere tacciati come snob o, peggio ancora, con un paradosso che stento a comprendere, di essere antidemocratici. Perché sostenendo posizioni scomode o non omologate, si offende l’altrui libertà. Così non è più possibile pubblicare sui social la foto di una cena a base di maialino arrosto perché si offende la sensibilità dei vegani, non si può più pubblicare un crocifisso perché si è irrispettosi verso le altre religioni. Il risultato è quello di annichilire la nostra storia, le nostre tradizioni e la nostra cultura, creando una società senza valori e identità e quindi senz’anima. Proprio in questi giorni sono avvenuti due episodi in tal senso sconcertanti, uno negli Stati Uniti e uno nel nostro paese. La celebre catena di caffetterie Starbucks ha deciso di eliminare la scritta “Merry Christmas” dalle tazze di Natale per rispettare le altre credenze religiose. Mi chiedo a questo punto quale sia l’utilità delle tazze natalizie se non si celebra il Natale, ah già il denaro… L’episodio accaduto a Firenze è invece ancor più grave e preoccupante: “le crocifissioni di Chagall e Guttuso, la pietà di Van Gogh, la via crucis di Fontana potrebbero urtare <la sensibilità delle famiglie non cattoliche>, e per questo le terze classi dell’elementare Matteotti di Firenze non andranno a visitare la mostra dove queste opere sono esposte, cioè la ‘Bellezza Divina’ a Palazzo Strozzi”, scrivono Adinolfi e Bocci su la Repubblica. Siamo giunti al punto che anche le opere d’arte di alcuni dei principali artisti al mondo possono urtare la sensibilità dei credenti di altre religioni, non resta che abbattere chiese e monumenti per evitare che possano creare fastidi e malumori.
Firenze, la mostra con le tele di Chagall e Van Gogh vietata ai bimbi della scuola: "Urta i non cattolici". I genitori contro la scelta del consiglio interclasse delle terze elementari dell'istituto Matteotti di fermare la gita all'esposizione "Divina Bellezza" sul rapporto tra arte e sacro. Il preside: "Nessun motivo religioso, la programmazione è ancora in corso". Inviato un ispettore del Miur, scrivono Gerardo Adinolfi e Valeria Strambi il 12 novembre 2015La Crocifissione bianca di Chagall, il quadro preferito da Papa Francesco che per l'occasione della sua visita a Firenze era stato spostato da Palazzo Strozzi al Battistero, non potrà essere visitato dagli alunni della terza elementare della scuola Matteotti del capoluogo toscano. E così neanche la Pietà di Van Gogh, la Crocifissione di Guttuso, l'Angelus di Millet e le altre cento opere della mostra Divina Bellezza. Ai bambini dell'istituto così non sarebbe concesso di conoscere le sculture di Fontana, ma anche i quadri di Munch, Picasso, Matisse che, nell'esposizione fiorentina, riflettono sul rapporto tra arte e sacro avendo come filo conduttore proprio il tema della religione. La gita per gli alunni del Matteotti è vietata. Il motivo? "La visita è stata annullata per tutte le terze per venire incontro alla sensibilità delle famiglie non cattoliche visto il tema religioso della mostra", si legge, secondo quanto riporta il quotidiano La Nazione, dal verbale della riunione del consiglio interclasse dello scorso 9 novembre redatto da un rappresentante di classe e distribuito a tutti i genitori. Con le proteste partite proprio da molte famiglie arrabbiate dalla decisione: "I nostri figli non potranno più studiare storia dell'arte, basata proprio sull'arte sacra? - si sono chiesti i genitori contrari al divieto - siamo a Firenze, vedremo quindi negare le gite a Santa Croce, in Duomo e agli Uffizi perché ci sono figure sacre?". Domande poste anche al preside dell'Istituto Alessandro Bussotti che però ribatte alle accuse e spiega: "La visita non è stata annullata perché nessuna visita era precedentemente stabilita, la programmazione è ancora in corso e non è detto che non si faccia. Una classe delle medie dell'Istituto comprensivo la farà. Se gli insegnanti nella programmazione avevano deciso di non farla sicuramente non è stata per motivazioni religiose. Tutti indipendentemente dalla fede devono poter godere delle bellezze dell'arte". Ribattono anche gli insegnanti delle terze del Matteotti: “L’inclusione, o meno, di visite a mostre o musei non ha motivazioni di ordine religioso, ma esclusivamente di natura didattica, nell’ambito dell’attività di progettazione, che è propria della libera espressione dell’attività docente, in relazione all’efficacia della ricaduta sul processo di apprendimento degli allievi.” Cosa sia successo nel consiglio di interclasse spetterà dunque scoprirlo ad un ispettore del Miur che arriverà forse già domani da Roma alla scuola elementare di viale Morgagni per fare luce sul caso. A confermare l'ispezione è stato il direttore generale dell'Ufficio scolastico regionale della Toscana Domenico Petruzzo. "Stamani - ha affermato Petruzzo - ci siamo sentiti con l'ispettore" che arriverà alla scuola "al più presto, forse domani". "Dobbiamo vigilare e avere cognizione del caso in modo preciso" ha continuato il direttore dell'Usr Toscana, spiegando che "occorre riserbo" fino a che non saranno "accertate con precisione le cose come stanno". Al termine degli accertamenti, ha detto ancora, "saranno prese le misure per le responsabilità che ci sono". Di sicuro c'è che quelle tre righe in uno dei quattro verbali sono state scritte, e diffuse tra i genitori. Se è vero che una scuola fiorentina ha annullato la visita degli alunni ad una delle più belle mostre fiorentine di arte sacra degli ultimi anni 'per venire incontro alla sensibilità delle famiglie non cattoliche' saremmo davanti ad un fatto quantomeno insensato. Non solo perché siamo da sempre la città del dialogo interreligioso, ma anche perché sarebbe un errore grossolano escludere dalle scuole la fruizione del nostro patrimonio di storia e cultura che comprende oggettivamente anche l'arte sacra, che per forza di cose da noi è arte cristiana", ha detto il sindaco di Firenze Dario Nardella. "Senza togliere che alla mostra "Bellezza divina", accolta in Palazzo Strozzi vi sono mirabili pitture del grande Chagall che proprio cattolico non è! A volte mi chiedo... ma a cosa pensano certi insegnanti? - va avanti il sindaco - Forse che io, cattolico, non possa fare una gita ad Istanbul o a Tel Aviv perché queste città ferirebbero il mio credo?". Forza Italia parla invece di "Follia ideologica" mentre la Lega Nord ha organizzato una protesta pacifica all'esterno della struttura per la prossima settimana.
L'ARTE SACRA VIETATA A SCUOLA: LA STUPIDITÀ DI UN DIVIETO. Alla scuola elementare Matteotti di Firenze è stato deciso di non far visitare la mostra “Bellezza Divina” in corso a Palazzo Strozzi con opere di Van Gogh, Guttuso, Matisse, Picasso e la celebre Crocifissione Bianca di Chagall per non urtare la sensibilità dei non cattolici visto il tema religioso. Allora si dovrebbero eliminare tutte le gite ai musei italiani ed europei e togliere la storia dell’arte dai programmi, scrive Antonio Sanfrancesco il 12 novembre 2015 su “Famiglia Cristiana”. Quando l’ideologia, unita alla mancanza di buonsenso, entra nelle scuole accadono cose assurde. È il caso della scuola elementare Matteotti di Firenze dove il consiglio interclasse del 9 novembre scorso, come riferisce La Nazione, ha deciso di annullare per tutte le classi terze della scuola la visita già programmata alla mostra “Bellezza Divina” allestita a Palazzo Strozzi. Il motivo? «Per venire incontro alla sensibilità delle famiglie non cattoliche visto il tema religioso della mostra», recita il verbale della riunione redatto da un rappresentante di classe. Nell'esposizione si possono ammirare oltre cento opere di celebri artisti italiani che vanno da metà Ottocento al Novecento tra cui capolavori famosissimi come l’Angelus di Jean-François Millet, eccezionale prestito dal Musée d’Orsay di Parigi, la Pietà di Vincent van Gogh dei Musei Vaticani, laCrocifissione di Renato Guttuso delle collezioni della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, laCrocifissione bianca di Marc Chagall, proveniente dall’Art Institute di Chicago. Più altre opere di artisti del calibro di Gaetano Previati, Felice Casorati, Gino Severini, Renato Guttuso, Lucio Fontana,Pablo Picasso, Max Ernst, Stanley Spencer, Georges Rouault, Henri Matisse. I non cattolici potrebbero aversene a male, e quindi meglio non far conoscere nulla ai ragazzi. In base a questo scellerato principio, anche la storia dell’arte dovrebbe essere bandita dai programmi scolastici visto che la stragrande maggioranza di essa è sacra e ha per tema la religione cristiana. A scuola non si dovrebbe studiare la Commedia di Dante e – per restare a Firenze – dovrebbero essere abolite anche le gite in Duomo, in Santa Croce o gli Uffizi dove le immagini sacre di certo non mancano. Se così fosse, i cristiani che vanno a Istanbul non potrebbero visitare la Moschea Blu o ammirare un tempio induista in India. Il preside dell’Istituto, Alessandro Bussotti, ha fatto sapere che non era presente alla riunione spiegando che «l’eventuale esclusione della visita non ha motivazioni religiose e non è escluso che la mostra possa essere reinserita nei programmi didattici se non di tutte, almeno di alcune classi». A completare il quadro di una vicenda inquietante e grottesca insieme c’è il commento, di assoluto buonsenso, dell’imam di Firenze, Izzedin Elzir, che ha detto che andrà a vedere la mostra e che il Crocifisso «non offende nessuno ed è il simbolo di una fede religiosa che rispettiamo». Di scelta «insensata» parla il sindaco di Firenze Dario Nardella: «Alla mostra», ha scritto in un post su Facebook, «vi sono mirabili pitture del grande Chagall che proprio cattolico non è! A volte mi chiedo...ma a cosa pensano certi insegnanti? Forse che io, cattolico, non possa fare una gita ad Istanbul o a Tel Aviv perché queste città ferirebbero il mio credo?».
Il direttore del museo: "Vietare la mostra? All'estero non sarebbe mai successo". Arturo Galansino, direttore generale di Palazzo Strozzi: "Quando l'ho saputo sono rimasto interdetto. Vieteranno anche i lavori di Michelangelo e Leonardo perché trattano di arte sacra?", scrive Giovanni Masini Venerdì 13/11/2015 su "Il Giornale”. Quando lo raggiungo al telefono, Arturo Galansino sembra più divertito che altro. Il giovane direttore generale di Palazzo Strozzi, fresco di nomina (è a Firenze da marzo, in precedenza aveva lavorato a Louvre e National Gallery, ndr), non si capacita della bufera che si è scatenata dopo che a una scolaresca fiorentina è stato vietato di visitare la mostra sull'arte sacra allestita proprio nel suo museo per "non offendere i bimbi non cattolici".
D'altronde il politicamente corretto è eccepito solo alla controparte politica.
Cristo nell'urina: l'opera scandalo patrocinata dalla regione Toscana. L'opera di Andres Serrano verrà esposta al Photolux Festival di Lucca e ritrae un crocifisso in un bicchiere di urina. L'ira della Lega Nord, scrive Giuseppe De Lorenzo Venerdì 13/11/2015 su “Il Giornale”. Un crocifisso, simbolo non solo di una religione ma anche della cultura italiana ed europea, immersa nell'urina. Chiamatela pure arte. Ma blasfema. Al Photolux Festival di Lucca, dal 21 novembre al 13 dicembre prossimi, verrà esposta "Piss Chirst", una fotografia realizzata da Andres Serrano, fotografo statunitense, che ha immortalato un crocifisso immerso in un bicchiere pieno della sua urina. Sono anni che l'opera crea scandalo. Succede dalla sua prima esposizione nel lontano 1987 negli Usa. In quel caso due senatori repubblicani portarono il caso anche in Parlamento. Da noi, invece, il Pd ha deciso addirittura di patrocinare la mostra in cui verrà esposta. Il simbolo della regione Toscana, infatti, campeggia su volantini e sul sito della mostra internazionale di di fotografia. A denunciare il fatto sono stati due esponenti locali leghisti in una nota: "È inammissibile - affermano i consiglieri regionali Manuel Vescovi ed Elisa Montemagni - che si sostengano iniziative di questo genere, dove vengono esposte opere che offendono pesantemente il cristianesimo. Un'opera che umilia Cristo e rende omaggio all'Islam". Gli esponenti leghisti annunciano che durante il festival "organizzeranno un presidio davanti alla sede della mostra per esprimere il nostro totale dissenso. Invitiamo i cittadini toscani ad unirsi a noi in questa forma di pacifica protesta che vuole difendere le nostre profonde radici cristiane". Secondo il direttore del festival, Enrico Stefanelli, invece, l'opera ha pieno diritto ad essere esposta. "Lo spirito del festival - ha detto - è quello dell'equilibrio in un contesto di libertà". "Quell'opera - continua - non è nata come un oltraggio o una contestazione del Cristo, quanto piuttosto della mercificazione delle immagini. Poi dobbiamo collocarla nel periodo storico in cui è stata realizzata, negli anni '80". Sarà. Ma mentre il crocifisso nell'urina merita di essere visto e pubblicizzato, solo ieri in una scuola di Firenze ad alcuni bambini è stata vietata la mostra con dipinti raffiguranti il Cristo perché i crocifissi "urtano i non cattolici". Allora facciamo una proposta: si annulli anche questa che urta i cattolici. Anche se già sappiamo che i buonisti ci diranno di no ed utilizzeranno i soliti due pesi e due misure. Le ragioni dei cattolici, per loro, non hanno ragione d'esistere.
Al contrario.
“Carabiniere spara”: la canzone controcorrente indigesta ai buonisti. Il singolo di Matteo Greco in difesa del diritto delle forze dell'ordine di sparare per fare il loro lavoro è stata sommersa dagli insulti della sinistra, scrive Giuseppe De Lorenzo Venerdì 13/11/2015 su “Il Giornale”. “Mi sento un cantautore controcorrente. So bene che questo non mi renderà famoso. Ma non importa”. Matteo Greco non ne è irritato. La sua canzone “Carabiniere spara” ha provocato reazioni stizzite dalla maggioranza degli ascoltatori. “Perbenisti”, li chiama lui. Ma se ne farà una ragione: sa bene che il successo è più facile con un testo buonista, piuttosto che di buonsenso. L’ultimo singolo del cantautore di Falconara Marittima è diventato famoso, suo malgrado, per la quantità di insulti ricevuti. Il motivo è tutto - o quasi - nel titolo: “Carabiniere spara”. Spara ai ladri che rendono impossibile la vita nelle città. Spara (metaforicamente) al governo che non fa nulla per cambiare le cose. E così è stato messo all’indice dalle varie sinistre, culturali e non. Gli hanno dato del razzista, istigatore d’odio e c’è anche chi ha avanzato denuncia alla procura della Repubblica per apologia di reato. La canzone, la cui musica può piacere o meno, lancia un messaggio semplice su sicurezza e immigrazione. “La cittadinanza non si può regalare - afferma Greco - bisogna conquistarsela. Per ridurre la criminalità è necessario gestire l’immigrazione con maggiore intelligenza”. Concetto reso chiaro sin dalla prima strofa: “Spiegami cosa ci fa un uomo con machete in mano, nessuno che lo può fermare, nessuno che gli può sparare”.
Da cosa nasce questa canzone?
“Da due casi di cronaca. Quello di Milano, quando Kabobo ha creato il panico con il suo machete. E la vicenda molto simile di Jesi, dove un ragazzo sfondò la vetrina di un negozio, prese due machete e si mise a camminare per tutto il centro storico. Venne fermato da un carabiniere - quello della canzone - che aveva la pistola in mano, ma non sparò”.
A lui rivolgi un complimento: “Tanto onore a te”. Perché allora il titolo della canzone sembra biasimare la scelta di non aver aperto il fuoco?
“Bisogna partire dal principio. Una cosa simile non dovrebbe succedere: il poliziotto non dovrebbe essere messo nelle condizioni di usare le armi. Questo è (sarebbe) il ruolo dello Stato, che però non sta assolvendo al suo compito”. Ma quel carabiniere avrebbe dovuto sparare, sì o no? “Cristianamente dico che una vita risparmiata è sempre una vittoria. Il gesto che io richiamo nella canzone, “Carabiniere spara”, più che una richiesta è un avvertimento. Se non verranno trovate delle soluzioni, se i cittadini continueranno a sentirsi insicuri, saranno costretti a farsi giustizia da soli. Il mio grido è un allarme: bisogna permettere alle forze dell’ordine di fare il loro mestiere”.
Le forze dell’ordine si sentono frustrate dall’impossibilità di garantire la sicurezza dei cittadini.
“Sono anni che sento poliziotti e carabinieri lamentarsi di essere in trincea con mezzi insufficienti. Agenti che perdono un’intera giornata a identificare un malvivente, che rischiano la vita per arrestarlo e poi lo vedono il giorno dopo fuori di prigione. Inutile lamentarsi poi delle città insicure”.
Te la prendi anche con il governo “che non dice niente”.
“Il Governo è colpevole di non aver messo al primo posto la sicurezza e la tutela della vita dei cittadini. Sembra essere distante dalla vita reale, è percepito assente”.
Perché i “buonisti”, come li chiami tu, ti hanno criticato così tanto?
“La gente non ragiona. Preferisce stare con gli occhi bendati e coccolarsi nei bei pensieri buonisti. Bisogna invece essere razionali. Parlare di difesa significa focalizzarsi sulla vita di una persona. Pensiamo agli anziani, che hanno pagato anni di tasse per ritrovarsi obbligati a stare chiusi in casa perché se escono rischiano di essere rapinati o aggrediti. E’ questa l’Italia per cui hanno lavorato? A me questo Paese non va più bene. E l’ho cantato”.
Nel testo dici di “rivolere la mia Italia, una città libera”.
“Il nostro è un Paese non più libero di essere vissuto. La mia Italia, invece, è quella in cui i ragazzini sono di nuovo padroni delle loro piazze e i nonni delle loro panchine.
Qualcuno ti avrà spiegato però che non è il tipo di canzone con cui si diventa famosi.
“Lo so benissimo. Ma io scrivo quello che penso. So di andare controcorrente, ma sono anche fiero di essere riuscito a coinvolgere le forze dell’ordine. Ho ricevuto tantissimi messaggi di apprezzamento di agenti, poliziotti o soldati. Una volta l’ho anche fatta ascoltare in piazza ad alcuni carabinieri”.
E come hanno reagito?
“Con un semplice ‘grazie’. Che vale più di mille parole. E pensare che tra i passanti che mi hanno sentito suonare e che si sono fermate, c’erano soprattutto stranieri. Questo sa cosa vuol dire?” Mi dica. “Che nel loro Paese sono abituati a far rispettare le regole. Solo in Italia vale il contrario”.
A proposito della foto del ministro Marianna Madia pubblicata su "Chi" con il titolo "con il gelato ci sa fare". c'è chi scrive Madia-Signorini: giù le mani dal pompino! Scrive Fulvio Abbate su “Il Garantista”. Giù le mani dal pompino! Ecco, di fronte alla querelle Signorini-Madia, volendo essere epici, ma ancora di più sinceri, onesti, popolari, bisognerebbe dire subito così, affermando questa semplice verità, quasi un bisogno di liberazione dalla falsità, perfino dall’ipocrisia virtuosa da educandato o perfino terrazza di sinistra. E ancora di più, occorrerebbe aggiungere abbasso ogni forma di allusione, assodato che alludere in certi casi, quando c’è di mezzo il piacere, il corpo, la realtà genitale, cioè la fica e il cazzo, significa innanzitutto non consentire a un concetto di liberamente volare, quasi che dovessimo vergognarci d’aver semplicemente chiamato una certa cosa, un certo atto, con il suo nome proprio. Dunque, così come una rosa è una rosa, una fellatio è una fellatio, un pompino è un pompino, un cazzo, una fica, ecc…Per questa ragione, sebbene ne abbiamo appena pronunciato la parola, talvolta è davvero da ipocriti dire fellatio, quasi a voler nascondere dietro la grazia remota e letteraria di un affresco pompeiano la realtà delle cose, la realtà concreta del pompino, come atto di piacere e d’amore. Di voglia. Punto. Al di là di chi lo pratica e dei sessi implicati, cioè in questione. Volendo restare in ambito storico, c’è stato un tempo in cui molti infelici, forti di una cultura da bordello, erano assolutamente convinti che quella del pompino fosse una pratica “degradante”, non a caso le prostitute, attribuendo loro un tratto razzista, erano dette e ritenute anche “pompinare”, quasi come un titolo-marchio di felice e necessaria infamia, un Collare della Santissima Annunziata ulteriore, lì a garantire le loro prerogative, la loro abiezione quasi, e tuttavia doverosa. Menzogne, tutte bugie, tutti e tutte, uomini e donne, amano i pompini: farli e averli fatti, riceverli e offrirli. Tutte sciocchezze da antichi tabù da sottoscala o refettorio cattolico concentrazionario sessuofobico che tutto ciò non sia vero. Per questa ragione le allusioni alle foto della ministra Marianna Madia che lecca un cono gelato sono innanzitutto desolanti, così come lo è altrettanto, se non di più, l’idea d’essere in presenza di una lesa maestà per il fatto stesso di avere associato quel gelato all’atto sessuale di cui sopra. Anche il manifesto di “Lolita” con la ragazza Sue Lyon che, armata di occhiali a forma di cuore, tiene tra le labbra un lecca-lecca alludeva, e tuttavia quelle immagini nella loro allusione sembravano esser lì a tracciare un ideale arcobaleno di piacere nel cielo della consapevolezza sessuale. Fa davvero specie che i volti sfigurati dei bambini morti in guerra non facciano suonare la stessa sirena dello sdegno pieno, così come invece accade con il pensiero stesso di un coito orale. Ripeto: nulla è più penoso della cultura rionale dell’allusione, dell’ammicco, del doppio senso di cui si è nutrito l’avanspettacolo del peggiore casino per decenni, forte di canzoni come “Ai romani piaceva la biga, più dinamica della lettiga” o del poema di Ifigonia e delle sue ancelle che “nell’arte di fare pompini battevano le troie di tutti i casini”, e giù con le risate, e giù a ridere ancora con la mano sul “pacco” – ma è ancor più ripugnante pensare che si debba rigorosamente arrossire o magari provare sdegno davanti a un qualcosa che appartiene all’immaginario desiderante, cioè del piacere, dunque della condivisione, poiché in nome di un sacro codice ipocrita si è ritenuto che si tratti di cose indicibili. Anni fa, ragionando nero su bianco sulla sparizione del cosiddetto 69 su un quotidiano, mi ritrovavo a constatare che quel genere di doppio scambio era pressoché svanito dal palmarès delle predilezioni condivise, al contrario, volate via le vecchie bugie sessuofobiche della cultura da bordello, la fellatio – cioè il pompino o bocchino o pompa – e chiamarli qui con il loro nome è innanzitutto un fatto politico, liberatorio, viveva invece intatto e acclamato sull’ideale tabellone luminoso delle predilezioni, dei desideri, delle voglie, per questa ragione non c’è davvero scandalo nelle immagini di Marianna Madia felice del suo gelato da leccare, così come non c’è scandalo nell’affiancare quelle stesse foto al già citato manifesto del film di Kubrick. Giù le mani!
Il mondo è una community sui social network. Nessuno comunica più fisicamente. L’anonimato sui social ci protegge. Fisicamente non ci rimane che comunicare a gesti, oppure conformarsi al politicamente corretto di sinistra o al bacchettone bigotto di destra.
Riportiamo l'opinione del Dr Antonio Giangrande, sociologo storico e noto saggista, autore della collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo".
La virtualizzazione della società si fa sentire in molti aspetti della nostra vita quotidiana. Uno degli ambiti in cui è più presente, e spesso ha effetti più limitanti, è quello della comunicazione fra mezzi d’informazione e pubblico, fra istituzioni e cittadini, fra cittadini e altri cittadini.
Era della comunicazione dove non comunichiamo. Questo paradosso la dice lunga e ci avverte che non si ascolta più, si parla e basta.
Leggiamo sui giornali o ascoltiamo in televisione, morto per overdose…, si uccide perché va male a scuola, bambino di tre anni ucciso in circostanze misteriose,…, figli che uccidono i genitori, madri che uccidono i figli e quel che è incredibile è che le persone si stanno abituando ai fatti negativi. Divenendo negativi essi stessi. Abitudine che potrebbe essere la punta di un iceberg, dove sotto c’è un vuoto di valori causato anche da una generazione che è riuscita a mettere in discussione tutto e il contrario di tutto.
Sono andati in crisi le istituzioni, la chiesa, la famiglia, la scuola, il mondo del lavoro e siamo senza un collante per regole e certezze e la community virtuale è la nostra isola felice dove sfogarci.
Ci indaffariamo a cercare amici sui social e ad aumentarne il numero sui nostri profili per avere visibilità e proseliti, per poi scoprire che proprio amici non sono. Ostilità od indifferenza sono le loro caratteristiche. Le nostre caratteristiche, perchè loro siamo noi.
Recentemente, ci sono stati diversi casi di chiusura di account legati a minacce ed offese sui principali social network. Non ultimo, il direttore del TG di La7, Enrico Mentana, che ha deciso di cancellare il proprio profilo Twitter a causa di continui insulti. Personaggi noti, del mondo dello spettacolo e non, denunciano quasi quotidianamente questo fenomeno dilagante. Insulti gratuiti, minacce, gravi offese e istigazioni alla violenza di ogni genere. C'è un po' di tutto nei social network più famosi. Chiunque, sui social network, inserisce ciò che vuole: considerazioni su politica, personaggi dello spettacolo, link divertenti, video divertenti, fotografie, aggiornamenti di stato….
Questo popolo social ciarlante ed imperito, spesso, vuol far politica......
Il paradosso è che il potere si difende punendo questi comportamenti, con l'intento di renderci tutti conformisti.
Conformista come già cantò Giorgio Gaber
"Io sono un uomo nuovo, talmente nuovo che è da tempo che non sono neanche più fascista.
Sono sensibile e altruista, orientalista ed in passato sono stato un po' sessantottista.
Da un po' di tempo ambientalista, qualche anno fa nell'euforia mi son sentito come un po' tutti socialista.
Io sono un uomo nuovo, per carità lo dico in senso letterale.
Sono progressista, al tempo stesso liberista, antirazzista e sono molto buono, sono animalista.
Non sono più assistenzialista, ultimamente sono un po' controcorrente, son federalista.
Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta.
Il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa, è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani e quando ha voglia di pensare, pensa per sentito dire.
Forse da buon opportunista, si adegua senza farci caso e vive nel suo paradiso.
Il conformista è un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza.
Il conformista s'allena a scivolare dentro il mare della maggioranza, è un animale assai comune che vive di parole da conversazione.
Di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori, il giorno esplode la sua festa che è stare in pace con il mondo e farsi largo galleggiando.
Il conformista, il conformista.
Io sono un uomo nuovo e con le donne c'ho un rapporto straordinario, sono femminista
Son disponibile e ottimista, europeista, non alzo mai la voce, sono pacifista.
Ero marxista-leninista e dopo un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.
Il conformista non ha capito bene che rimbalza meglio di un pallone.
Il conformista aerostato evoluto, che è gonfiato dall'informazione, è il risultato di una specie che vola sempre a bassa quota in superficie, poi sfiora il mondo con un dito e si sente realizzato.
Vive e questo già gli basta e devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi.
Il conformista, il conformista.
Io sono un uomo nuovo, talmente nuovo che si vede a prima vista sono il nuovo conformista."
Non so più dove girarmi. Giornali on line e non, social network, radio, tv…Non c’è scampo: il buonismo dilaga ovunque. Un buonismo fintissimo: quello politicamente corretto.
Perché oggi, in Italia, se critichi qualsivoglia malvivente sei razzista (se è straniero).
Sei intollerante (se è italiano).
Sei sessista (se è un uomo e tu una donna, e viceversa).
Sei cattivo (se è un essere umano).
Dobbiamo essere tutti bravi, altruisti e generosi. Comprensivi, giusti e dalla mente aperta. Certo che dobbiamo! Ma non significa certo che dobbiamo anche giustificare tutto e tutti o conformaci alla cultura mediatica che va per la maggiore.
Potremmo esprimere il nostro pensiero con un linguaggio che nel gergo quotidiano è consentito, mentre se diffuso a mezzo stampa è definito scorretto?
Potremmo esprimere un'opinione, senza essere tacciati come discriminatori?
La discriminazione consiste in un trattamento non paritario attuato nei confronti di un individuo o un gruppo di individui in virtù della loro appartenenza ad una particolare categoria. Alcuni esempi di discriminazione possono essere il razzismo, il sessismo, lo specismo e l'omofobia.
L'espressione politicamente corretto (traduzione letterale dell'inglese politically correct) designa una linea di opinione e un atteggiamento sociale di estrema attenzione al rispetto generale, soprattutto nel rifuggire l'offesa verso determinate categorie di persone. Qualsiasi idea o condotta in deroga più o meno aperta a tale indirizzo appare quindi, per contro, politicamente scorretta (politically incorrect). L'opinione, comunque espressa, che voglia aspirare alla correttezza politica dovrà perciò apparire chiaramente libera, nella forma e nella sostanza, da ogni tipo di pregiudizio razziale, etnico, religioso, di genere, di età, di orientamento sessuale, o relativo a disabilità fisiche o psichiche della persona.
Insomma, politicamente corretto significa ipocrisia.
"L'ipocrisia è il linguaggio proprio della corruzione". Lo afferma Papa Francesco, nell'omelia durante la messa mattutina celebrata nella cappella della Domus Santa Marta in Vaticano, presenti fra gli altri i vertici della Rai, con la presidente Anna Maria Tarantola e il direttore generale Luigi Gubitosi. "L'ipocrisia - sottolinea il Papa, facendo riferimento alla pagina del Vangelo sulla domanda dei farisei sulla liceità del tributo da dare a Cesare - non è un linguaggio di verità, perché la verità mai va da sola, mai, ma va sempre con l'amore. Non c'è verità senza amore, l'amore è la prima verità e se non c'è amore non c'è verità". I farisei, gli ipocriti, "vogliono invece una verità schiava dei propri interessi; l'amore che c'è è quello di se stessi e a se stessi: quell'idolatria narcisista li porta a tradire gli altri, li porta agli abusi di fiducia". Francesco punta il dito sui falsi amici che "sembrano tanto amabili nel linguaggio", sui "corrotti che con questo linguaggio cercano di indebolirci". Infatti, "gli ipocriti che cominciano con la lusinga, con l'adulazione, finiscono cercando falsi testimoni per accusare chi avevano lusingato. Il nostro linguaggio - conclude il Papa - sia il parlare dei semplici, con anima di bambini, il parlare in verità dall'amore".
Il politicamente scorretto è tale, però, ad intermittenza.
Sto pensando agli epiteti che sono stati lanciati ad Andreotti sulla sua scoliosi, a Berlusconi o Brunetta per la loro altezza, Alfano per il suo viso... etc. La scusa sciocca della satira non basta: anche al sesso maschile (o femminile purchè del campo avverso) vengono riservate considerazioni sgradevoli. Vogliamo fare una carrellata che non ha scandalizzato stranamente nessuno?
"Condoleezza [Rice], con quelle guancette da impunita, è la leader maxima delle donne-scimmia" (Lidia Ravera, L'Unità, 25 ottobre 2004).
"Di sicuro [il Ministro Gelmini] non è un essere umano. Dovremmo chiamare i professori di chimica per capire che cos’è" (Andrea Camilleri).
"Se dopo De Nicola, Pertini e Fanfani, ci ritroviamo con Schifani, sono terrorizzato dal dopo: le uniche forme residue di vita sono il lombrico e la muffa. Anzi, la muffa no perché è molto utile" (Marco Travaglio).
Appari politicamente scorretto, anche se non lo sei? Scatta l'invettiva, secondo l'accusa dei giornalisti, anche per frasi o comportamenti innocenti.
L'invettiva razzista. Il caso forse più noto tra quelli registrati, però, riguarda la televisione. Si tratta della vicenda che ebbe per protagonista Paolo Bonolis il quale, nel corso della trasmissione di Canale 5 “Avanti un altro” ebbe la infelice idea di travestirsi da domestico filippino e di esibirsi in una gag che scatenò la reazione indignata della comunità filippina in Italia, stufa di essere considerata alla stregua di un'associazione di camerieri e di donne di servizio. Romulo Sabio Salvador, consigliere aggiunto di Roma Capitale, a nome dei suoi connazionali scrisse una lettera indignata a Mediaset, all'Agcom e, appunto, all'Unar. E proprio a proposito di filippini. Il presidente della Sampdoria parlando con Massimo Moratii, ex presidente dell’Inter, ebbe a dire a proposito di Thohir, il suo successore all’Inter: “caccia quel filippino”, giustificandosi poi con Valerio Staffelli su Striscia La Notizia dicendo “l’ho saputo dalla televisione che era indonesiano….”. Carlo Tavecchio, presidente FIGC, ha dichiarato: «Le questioni di accoglienza sono un conto, le questioni del gioco sono un altro. L’Inghilterra individua i soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare. Noi, invece, diciamo che Opti Poba - dice inventando un nome - è venuto qua, che prima mangiava le banane, adesso gioca titolare nella Lazio. E va bene così. In Inghilterra deve dimostrare il suo curriculum e il suo pedigree». Tavecchio è stato punito dai media, dalla UEFA e dalla FIFA.
L'invettiva omofoba. Eziolino Capuano, allenatore dell’Arezzo (Lega Pro), «Prendere gol in superiorità numerica al 90’ è vergognoso, non lo accetto», ha detto a Radio Groove dopo la sconfitta di Alessandria degli amaranto, e prima di esplodere: «Se avessero perso in maniera diversa non avrei detto nulla, però in campo le checche non vanno bene. In campo devono andare gli uomini con le palle e non le checche» Capuano è stato crocifisso dai giornali. Ormai la lobby gay in Parlamento non solo mira ad avere un matrimonio tutto loro ed avere figli non loro, ma sulla comunicazione comune vieta ogni parola riferita alla loro condizione sessuale. Più per gli uomini. Ormai è vietato dire quelli dell'altra sponda, quelli dell'altra parrocchia e poi frocio, ricchione, finocchio, culo, culattone, culano, culatino, bucaiolo, buso o busone, bardassa o bardascia, buggerone, checca, cupio, garrusu, invertito, gay, urningo o uraniano, femminello, mezzafemmina, pederasta, sodomita, invertito, pigliainculo.
L'invettiva sessista. Il settimanale diretto da Alfonso Signorini pubblica quattro fotogrammi rubati del ministro mentre mangia un gelato con il titolo “ci sa fare con il gelato” e l'Ordine dei giornalisti apre un procedimento. "Uno schifo". "Qualcosa di disgustoso". "Spazzatura". L'indignazione, a dir poco, esplode in rete insieme a disgusto e incredulità per quattro fotogrammi rubati al ministro Marianna Madia, e messi in doppia pagina su "Chi" con un titolo volgare e ammiccante. I tweet e i post su Facebook sono migliaia. Due facciate che vengono "difese" proprio dal direttore di Chi, Alfonso Signorini, che twitta: "Calippo si e gelato no?", con l'ashtag #duepesiduemisure. Il riferimento è alle foto di Francesca Pascale apparse nel febbraio 2013. Il riferimento non è puramente casuale, anzi è chiaro e diretto al servizio pubblicato tempo fa da Oggi, gruppo Rcs, in cui venivano riproposte vecchie immagini di Francesca Pascale che mangiava un Calippo nel corso di una clip per una televisione locale. Il direttore di Chi poi, intervistato da Giorgio Mulè alla presentazione del suo libro "L’altra parte di me" nella tappa catanese del tour Panorama d’Italia, ha spiegato meglio il suo pensiero: "Chi oggi s’indigna per il titolo che ho fatto alle foto della Madia che mangia il cono gelato ha marciato per anni sul calippo della Pascale. Io aderisco a una scuola di pensiero secondo cui la malizia sta negli occhi di chi guarda e non di chi la fa, accusare me di sessismo o di persecuzione a sfondo sessuale è assurdo, per non parlare di certe campagne davvero infamanti, per usare la stessa parola che usano oggi contro di me, sulle giarrettiere della Brambilla o il calendario della Carfagna".
L'invettiva pedofila. Del resto oggi tutto ha il sapore di proibito, ma anche solo pensare di essere amorevole con i figli, ti conduce subito sulla sponda più terribile: quella dei genitori oggetto di riprovazione. È una categoria semplice, assoluta e falcidiante. Ha il potere di bloccare l'azione sul nascere, perché influisce direttamente sul pensiero: è la forza del politicamente corretto, che rovina perfino i momenti di divertimento o di affetto. È il motivo per cui non si dà più un bacio innocente o una carezza, agli adulti, così come ai bambini: passi immediatamente per un maniaco o per un pedofilo. Ecco il motivo per cui i bambini non giocano più nei cortili, non prendono più un ascensore da soli, non possono giocare a palla in riva al mare, mentre è così difficile fermare i piccoli sbandati o i delinquenti, quelli veri. Ed è molto più facile fare sentire un genitore come un criminale, che fare divertire un bambino.
L'invettiva giudiziaria. Le lacrime e la rabbia lasciano il posto alla determinazione. «Mi devono uccidere per fermarmi», dice Ilaria Cucchi all’indomani della sentenza della corte di appello di Roma che vede tutti assolti gli imputati per la morte del fratello Stefano, deceduto il 22 ottobre di cinque anni fa dopo una settimana di ricovero in ospedale. Una vicenda che ha provocato uno strascico di polemiche su cui interviene anche il presidente della Corte d’Appello di Roma, Luciano Panzani: «Basta gogna mediatica, non c’erano prove».
L'invettiva specista. Lo specismo è l'attribuzione di un diverso valore e status morale agli individui a seconda della loro specie di appartenenza. Il termine fu coniato nel 1970 dallo psicologo britannico Richard Ryder, per calco da razzismo e sessismo, con l'intento di descrivere in particolare gli atteggiamenti umani che coinvolgono una discriminazione degli individui animali non umani, inclusa la concezione degli animali come oggetti o proprietà. Il termine viene usato comunemente nel contesto della letteratura sui diritti animali, per esempio nelle opere di Peter Singer e Tom Regan. Succede spesso di leggere sui giornali o di vedere video su youtube di incredibili salvataggi, per mano umana di animali (specialmente cani) in difficoltà. Quello che però lascia perplessi è leggere di un intervento simile proprio in un luogo come quello di Carloforte, noto per la tradizionale mattanza dei tonni. Questo salvataggio, se ci si sofferma un attimo a pensare, ha davvero dell’incredibile. Uomini che si uniscono e si impegnano con tutte le loro energie per salvare una vita da annegamento certo mentre stanno per calare le reti che spezzeranno le vite, attraverso una lenta e dolorosa sofferenza, di centinaia e centinaia di pesci. Purtroppo questo è lo specismo, che quotidianamente e ovunque nel mondo continua a dilagare ma che dobbiamo cercare di abbattere. Come per l'allevamento Green Hill, ovvero: la preoccupazione riguarda solo i cani di Green Hill, non c'è nessuna condanna delle inenarrabili crudeltà perpetrate in laboratorio su altri animali quali topi, ratti o maiali.
Era della comunicazione dove non comunichiamo. Non si ascolta più, si parla e basta....
In conclusione. Come si può non essere politicamente corretti e conformisti? Basta essere corretti e veritieri nell’espressione del pensiero. Basterebbe abbeverarsi dal sapere dei buoni maestri senza tema di smentita, pensare un attimo a quello che si dice o si scrive e non vedere cose brutte in cose estremamente innocenti!
L'ipocrisia dei "no Cav". Giornalismo malato da una guerra civile. L’odio nei confronti di Berlusconi trasuda sulla stampa di sinistra che rivendica anche la propria egemonia culturale, scrive Paolo Guzzanti su “Il Giornale”. Su «Carta straccia» Giampaolo Pansa offre di giornali e giornalisti di oggi uno spettacolo spesso grottesco, ma più spesso desolante. Che il giornalismo italiano sia diverso da quello degli altri Paesi è un fatto storico: per lo più scritto con pretese letterarie e molta retorica supponente si sta trasformando sempre più in una brodaglia di violenza e imprecisione che lascia spesso sbalorditi i colleghi stranieri: «Davvero potete scrivere usando il condizionale senza prove? Da noi ci sbatterebbero in galera…». A nessuno, mai, nel Regno Unito o negli Stati Uniti, in Francia o in Svizzera, ma neanche in Polonia o in Romania, verrebbe in mente di inserire (come è accaduto in questi giorni) nell’articolo di un cattedratico un lungo brano ignoto all’autore ma spacciato come autentico e difendere poi un tale arbitrio come libertà d’informazione. Non sono di quelli che esaltano il giornalismo «anglosassone» immaginato come asettico e impersonale, ma ho un grande rispetto per il giornalismo americano e britannico e per il modo accurato in cui trattano i fatti anche quando le testate si schierano politicamente: del resto in quei Paesi la pagina dei commenti è di competenza dell’editore, perché il direttore si deve preoccupare soltanto delle notizie e curare che siano complete e corredate dalle fonti. Quel giornalismo, che non è certo esente da difetti, ha però prodotto antidoti e anticorpi che ancora funzionano bene, attraverso scandali e processi sulla cattiva informazione. Walter Lippmann, che influenzò il presidente Wilson alla fine della Grande Guerra e che morì criticando Lyndon Johnson per la politica bellicosa nel Vietnam, creò la parola «stereotipo» – oggi si direbbe «politicamente corretto» – per indicare il pericolo delle opinioni automatiche e moralmente prefabbricate. Fu lui del resto a dire che «la salute della società dipende dalla qualità delle informazioni che riceve» affermazione non contestabile ma priva di riscontro in Italia. Lippmann ricordava anche che la notizia e la verità non sono la stessa cosa e questo perché l’informazione e la comunicazione non sono la stessa cosa: spacciarle l’una per l’altra produce una forma di giornalismo che si vieta di pensare, anticipando così, come ha scritto Marco Bardazzi su «Ttl», il monito di Hannah Arendt: «quando gli uomini rinunciano a dire quel che pensano, spesso smettono anche di pensare». Da noi, peccato, niente Hannah Arendt e niente Walter Lippmann, ma tutt’al più un composto Umberto Eco che nel suo «Costruire il nemico» riconosce che Julien Assange, la primula rossa di WikiLeaks, ha finalmente certificato che il re è nudo ponendo la stampa di fronte alla responsabilità di decidere, senza ricorrere a Internet, che cosa sia reale e meriti di essere stampato. Di «Carta Straccia» condivido il giudizio positivo su Antonio Padellaro direttore del Fatto Quotidiano, e su Marco Travaglio come fenomeno di straordinaria efficacia e qualità, a prescindere dalle differenze di opinione. Del resto è stato proprio il direttore del Fatto Quotidiano a dire a Laura Cesaretti, sul Giornale del 1° novembre 2010, che «la sinistra ha una grande suscettibilità nei confronti della libertà di stampa. Una suscettibilità che può raggiungere livelli insopportabili, in-sop-por-ta-bi-li!». E lo stesso Padellaro, ricorda Pansa, considerò la campagna sulla casa di Montecarlo un’operazione giornalistica efficace e ineccepibile. Anche a me la nascita e il successo del Fatto hanno entusiasmato al di là della linea politica, perché quel successo dimostra che esistono segmenti di opinione pubblica in attesa di essere rappresentati sia sui giornali che in politica. Ma ecco che mi imbatto, fra i documenti di «Carta straccia» in alcune parole di Marco Travaglio che ignoravo, pubblicate sul blog di Beppe Grillo e che, sorpresa, esaltano e rivendicano il diritto all’odio. Così: «Chi l’ha detto che non posso odiare un politico? Chi l’ha detto che non posso augurarmi che il Creatore se lo porti via al più presto? Non esiste il reato di odio». Che cosa rispondere? Che è vero, il reato di odio non esiste sui codici, ma dovrebbe esistere nelle coscienze. Oggi l’odio trasuda dalle pagine stampate di entrambi i fronti, ma con una sperimentata prevalenza dell’odio di sinistra, che è più antico, raffinato e velenoso. Sul Giornale io stesso alcuni anni fa denunciai la categoria degli «odiatori professionisti», come nuova mutazione giornalistica: gente che non attacca soltanto con le notizie, ma che incita all’odio e, di conseguenza, alle sue applicazioni pratiche. Una volta rivendicato il diritto di esprimere l’odio, è difficile prendere le distanze da atti di violenza come il famoso duomo sulla faccia di Berlusconi, a causa del quale Sabina Guzzanti è stata violentemente attaccata avendo lei, antiberlusconiana, espresso disagio alla vista del sangue. Ma la pratica dell’odio e del disprezzo non è una novità fra giornalisti e intellettuali: ricordo che quando da giornalista certificavo che Francesco Cossiga non era affatto matto (come voleva invece il comitato degli intellettuali che seguivano le indicazioni di Eugenio Scalfari) amici e colleghi cominciarono a cambiare marciapiede quando mi vedevano. Ricordo Tullio de Mauro, il celebre linguista, che mi sibilò: «Ma che cazzo scrivi Paolo? Ma non ti vergogni?». E non mi rivolse più la parola. Il giornalismo è da molto tempo al limite della guerra civile latente, sicché berlusconismo e antiberlusconismo sono diventate due categorie del cattivo spirito dei tempi, uno Zeitgeist al limite della malattia mentale. Ma, ancora una volta, non si tratta di una novità dovuta alla discesa in campo dell’uomo descritto come il «Grand Villain», o «Caimano» perché prima di Berlusconi esistevano altri «grand villain» contro i quali la stessa macchina da guerra funzionava attaccando Bettino Craxi e Andreotti, e prima ancora Forlani e Fanfani senza escludere Aldo Moro. Anche allora, con appena una misura di maggior pudore, il clima era quello di una guerra civile giornalistica agli ordini di quella politica è sempre stata coltivata con genialità da personalità della sinistra estremamente colte e raffinate anche se crudeli, come Palmiro Togliatti (sotto lo pseudonimo di «Roderigo de Castilla») o geniali e letterarie come «Fortebraccio» (Mario Melloni). La sinistra nata dai lombi del Pci si presenta poi sempre come un unico campione etico rivendicando di conseguenza una egemonia culturale che interviene alla fine sulle carriere, i finanziamenti, i premi, i festival, le legittimazioni e le delegittimazioni. E questo è un mestiere che il giornalismo di destra, per sua colpa o per un suo limite genetico, non ha mai saputo o voluto correggere, limitandosi a protestare in maniera inconcludente e anche un po’ isterica. L’Italia che Pansa descrive in «Carta Straccia» è un caso grave ma non unico perché l’egemonismo giornalistico di sinistra è universale dagli Stati Uniti alla Francia dove il politico italiano di sinistra Dario Franceschini può veder pubblicato il suo ottimo romanzo presso un editore come Gallimard, cosa che difficilmente potrebbe accadere ad un politico di centrodestra di pari valore. E così nella letteratura: se Gabriel Garcia Marquez, ritenuto di sinistra e amico personale di Fidel Castro, ebbe il Nobel per la letteratura nel 1982, il vecchio e cieco Jorge Luis Borges, accusato di essere un reazionario aspettò invano per tutta la vita. E infatti ha fatto discutere l’anomalia grazie alla quale il premio Nobel sia andato nello scorso ottobre a Mario Vargas Llosa, considerato di destra ma nato a sinistra, autore col figlio anche di un folgorante «Manual del Perfecto idiota Latino-Americano» che ha spellato il giornalismo sinistrese del suo mondo. In Italia, Paese da cui scaturiscono o sono scaturiti cattolicesimo, fascismo e il più influente partito comunista occidentale, la sostituzione del giornalismo con la propaganda è stata una strada obbligata: soltanto da noi si poteva inventare l’espressione «linea editoriale» per giustificare nel servizio pubblico televisivo l’uso di un linguaggio di propaganda, la censura e l’eccesso, sia di sinistra che di destra. La «verità» stessa, come premessa dell’informazione corretta e completa, in Italia è relegata al rango di «arroganza». Ed è questo il motivo per cui, senza dover aspettare Berlusconi, i politici italiani hanno sempre avuto nei confronti del giornalismo un atteggiamento padronale creando il ridicolo fenomeno del politico «di riferimento», padrino-padrone che promette carriere e direzioni nei telegiornali «d’area». Ci fu un tempo in cui Giampaolo Pansa ed io chiudevamo di notte la seconda edizione di Repubblica in tipografia. Una notte arrivarono in redazione, piangendo disperati, i parenti di alcune persone morte avvelenate. Li ascoltammo e Pansa disse: «Avete ragione, è una tragedia immane, guardate qui: “familia” nel titolo senza la “g”! Santo cielo, che catastrofe…». Mentre i parenti delle vittime se ne andavano stizziti per la nostra insensibilità ci precipitammo a correggere il titolo. Un episodio minimo, che però Pansa e io ricordiamo ogni volta che ci parliamo perché contiene forse la misura dell’aneddoto buffo, del mestiere minore, la corsa in tipografia, i casi della vita, quel modo semplice e casuale che costituiva la cifra del nostro mestiere. Eravamo in fondo dei proletari della notizia e appartenevamo a una generazione che si poteva permettere un giornalismo tutt’altro che neutrale, anzi schierato e combattivo, ma usando sempre e soltanto rigorosamente i fatti.
Giampaolo non ha nessuna intenzione di accedere - come molti suoi coetanei - a una vecchiaia omaggiata e sacrale, scrive Luca Telese su “Il Fatto Quotidiano. Non aspira a entrare nel novero dei vecchi saggi che invecchiano bene, centellinano il talento e le esternazioni, amano farsi benvolere da tutti, si risparmiano molto e si fanno celebrare di più. Nel suo ultimo libro, per esempio, Pansa spara su Fabio Fazio, su Ezio Mauro, su Nichi Vendola, su Michele Santoro sul nemico (di sempre!) Giorgio Bocca e tanti altri (ma, stranamente, parla bene di questo quotidiano). E risparmia la destra. Il fatto è che Giampaolo Pansa ha scritto un altro libro sul giornalismo (si intitola Carta Straccia), e ha - diciamo la verità - un caratteraccio: gli piace che nella sua scrittura si indovini il ghigno dei cattivi del cinema francese in bianco e nero, un Jean Gabin marsigliese tutto sangue e inchiostro. In questa parte della sua vita, per dire, Pansa ama farsi nemici, tirare freccette al curaro su alcuni bersagli privilegiati, fra cui svetta Repubblica, il quotidiano che lo ha consacrato. Non è elegante, ma lui se ne frega. Giampaolo è romantico, passionale, viscerale vendicativo, ma anche cameratesco: ora è a Libero, e "i due mastini" della coppia di direzione si trovano effigiati in un capitolo celebrativo che li mostra un po' canaglie, ma simpaticissimi. Pansa, temo, ci seppellirà tutti con uno sberleffo o con una scudisciata a mezzo stampa. Giampaolo, in fondo - se passi ai raggi X la sua bibliografia di ben 45 tomi - ha scritto praticamente trenta libri su due soli argomenti: il giornalismo (e la propria vita); e poi la Resistenza e il fascismo (prima e dopo "il ciclo dei vinti"), su cui ha cambiato clamorosamente idee. Non lo nega, anzi. Ma l'amore ne esaltava la Resistenza e l'eroico partigiano "Infuriato", il ciclo dei vinti è dedicato alla demolizione della Resistenza (prima "quella comunista", poi tutte "le altre"). Insomma, questi libri Pansa li ha scritti raccontando sempre la stessa storia (e talvolta persino gli stessi aneddoti) ma virandoli in maniera diversa, in nome di un revisionismo esistenziale che è uno dei motivi per cui una sterminata tribù di lettori almanacca i suoi libri. Meravigliosa contraddizione: un titolo dispregiativo per officiare il culto della stampa. Anche in questo libro, per esempio, c'è la storia del suo binocolo Zeiss, c'è la redazione de La Stampa conosciuta da ragazzo, e raccontata anche ne Il Revisionista (2009), ma pure nel ''Romanzo di un ingenuo'' (2000) che è stata la sua prima autobiografia. C'è di nuovo l'intervista a Enrico Berlinguer che è stata già raccontata in ''Ottobre addio'' (1982) e - ancora - ne Il Revisionista (2009). E così c'è da esser certi che arriveranno anche un altro libro e un altro ritorno, perchè Pansa riscrive se stesso cambiando continuamente lo scenario che gira intorno, la fissità del demiurgo che scruta il mondo nel circo immaginario del suo Bestiario. Giampaolo è meticoloso, a volte maniacale. Un altro, in un capitolo dedicato alla demolizione sistematica e feroce di Fazio non metterebbe mai una frase come questa: "Non mi ha mai voluto nel suo salotto per una colpa imperdonabile: il mio presunto anti-antifascismo, attestato dai libri che andavo scrivendo sulla guerra civile. Però aveva accolto col tappeto rosso quel collaudato fascista di Fini". Fazio non lo ha voluto e lui ratatatà - squaderna la sua arma più micidiale, l'archivio. Una volta me lo fece vedere, senza compiacimento, come un chirurgo che apre la teca dei bisturi. Un garage della sua casa di San Casciano, un arsenale pronto per essere usato a ogni occorrenza, contro chiunque: "Ho una cartellina anche su di te", e rideva. Pansa è un vecchio cronista cresciuto nella religione del "cartaceo": ritaglia anche le lettere dei lettori. Oppure estrae dal garage la raccolta de ''Il dito nell'occhio'', la rubrica che 15 anni fa Nichi Vendola teneva su Liberazione, infilando una antologia antidalemiana: "Massimo è gravemente atlantico", "cinicamente spoglio di dolore", "goffamente demagogico", "con una spocchia da statista neofita", "livido come i neon del metrò". Conclusione dell'autopsia: "12 anni fa il deputato Vendola era un polemista dal pensiero violento e dal linguaggio stridulo". In fondo ''Carta straccia'', il potere inutile dei giornalisti italiani (Rizzoli, 427 pagine 19.50) è la fusione di uno strumento perfetto e di un umore sulfureo. E' un viaggio nel garage di San Casciano con intenzioni contundenti, ed effetti sorprendenti. Ad esempio nel capitolo su Il Fatto, che dopo tre pagine sugli strafalcioni dei giornali italiani e un paio di scotennamenti senza rete ti potresti stupire: "Nella Grande crisi della carta stampata un solo giornale si rivelò capace di andare contro la corrente: Il Fatto".A Giampaolo questo giornale non piace, ma dopo aver tratteggiato i medaglioni di "Beriatravaglio" (copyright di Staino) e di Antonio Padellaro, rende un onore delle armi al successo ottenuto: "Di chi era il merito? Prima di tutto del direttore, Padellaro. Poi della star del giornale, Travaglio. Infine della redazione". Memorabile l'episodio di un collega di La Repubblica - unico non citato per nome - che propone una brillante intervista al segretario del Psdi Luigi Longo. Il giorno dopo Pansa, all'epoca vicedirettore riceve questa telefonata di Longo: "Ho letto l'intervista. Mi sembra molto fedele, rispecchia bene il mio modo di considerare il momento politico. Ha un solo difetto. Io non ho mai dato nessuna intervista". Per colpire Bocca (per lui ha la stessa passione che Achab ha per Moby dick) estrae dal'articolo una "intervista doppia" del 1980 sul terrorismo raccolta da un giovanissimo Lucio Caracciolo. Bocca sosteneva che i covi delle Br erano una invenzione, Pansa che le Br erano attive dal 1971. Sul quotidiano di Mauro un intero capitolo, e una sentenza feroce: "Perché non fare di La Repubblica una vera formazione politica? I militanti c'erano. I Soldi pure. Anche il leader non mancava. Era un direttore-segretario caparbio, aggressivo, più carismatico di moti big della casta partitica".
Giampaolo Pansa è uomo di furori, non di convenienze, scrive Stefano Di Michele su “Il Foglio”. Pure di rancori, ma non di ipocriti ritegni. E nemmeno di malafede. Forse si è sentito ferito, Pansa – anzi, sicuramente è stato ferito. Una ferita non medicata, la sua, né dagli amici che furono né dai compagni che l’amarono – ché loro, soprattutto, si fecero assalitori. Piuttosto, ognuno a versare sale, su quella ferita, a lanciare stupide accuse, ad attruppare becere squadracce iperdemocratiche (l’iperdemocrazia essendo la china che conduce prima a un’eccessiva considerazione di sé, quindi al fanatismo) per impedirgli di presentare i suoi libri su quella che lui – con ostinazione sempre più ostinata ogni volta che qualcuno gliela rinfaccia – chiama la “guerra civile”. Si è aperta con “Il sangue dei vinti” la seconda vita (da scrittore di gran successo) di Pansa. E con “Il sangue dei vinti” ha avuto inizio la seconda esistenza (di gran disdegno) di Giampaolo agli occhi dei suoi detrattori. Quelli fanatici e offesi, lui cocciuto. E il suo sarà, c’è da pensare, il secondo paradosso giornalistico-politico di quest’Italia da Seconda Repubblica e di ancestrali collere. Se Montanelli, icona del giornalismo di destra, è finito sugli altari davanti ai quali compie riti gente di ogni sfumatura di sinistra, probabilmente tra cento anni (nei giorni caldi della Ventinovesima Repubblica), quando Pansa non ci sarà più, sarà lui, antica icona del giornalismo di sinistra, issato sull’altare davanti al quale s’aduneranno manipoli di destrorsi incontinenti. Essendo uomo di carattere, Pansa ne ha uno pessimo – e la mai sopita intelligenza delle cose (movente, opportunità, aggressori) lo costringe a una tignosa, divertita e (magari) dolente ricapitolazione. Perché fa i conti con i suoi nemici, Pansa, e fa anche i conti con se stesso. Un pugno di anni, e un intero orizzonte è mutato. E in fondo, come è stato con il suo precedente libro “Il revisionista”, anche questo “Carta straccia. Il potere inutile dei giornalisti italiani” (Rizzoli), è un altro pezzo della sua resa dei conti – con l’antico universo che l’ha amato e poi espulso; con se stesso, che quell’universo ha prima attraversato e poi rinnegato. E’ un libro divertente, perfido, feroce – scritto divinamente, quindi scritto da Pansa. Ma le oltre quattrocento pagine, alla fine, lasciano un senso di amarezza: nell’area della sinistra decente e civile, che il Pansa che fu rimpiange, ma lo stesso ama il Pansa che è, innanzi tutto. E forse, nello stesso autore. Perché il libro è scanzonato, “libraccio carogna” come piace dire a lui, che marcia e macina – facce, parole, giudizi impertinenti. Ma non è un libro sul giornalismo e sui giornalisti: non così ampio, non così riduttivo. E’ un libro su Pansa e sul suo mondo di giornali e giornalismo. Su ciò che fu (con qualche eccesso di sottovalutazione, e forse qualche giudizio ingeneroso) e su ciò che è (con qualche eccesso di partecipazione, e forse qualche giudizio eccessivamente generoso). Una sorta di (nuova) autobiografia professionale, dove Pansa getta via quel che ancora conservava di ricordi affettivi sul fondo di un polveroso cassetto, e abbraccia – con la generosità di sempre, quella che ogni giovane cronista che ha avuto a che fare con lui ha sperimentato – il nuovo mondo: Belpietro invece di Scalfari, Feltri invece di Bocca “l’uomo di Cuneo” (in realtà da un pezzo, al posto di Bocca chiunque andava bene), e Lerner e l’Ingegnere e la ex direttrice dell’Espresso, e la Gruber, ed Ezio Mauro, e la Concita – per tacer, senza tacere, di quel Fazio lì… Ha invece pagine bellissime, commoventi, quando ricorda vecchi colleghi come Gaetano Scardocchia e Gianni Rocca. Fino all’eruzione finale: mai votato il Cav!, Pansa – solo i cretini pensano che le persone intelligenti possano cambiare idea facendo mercato di se stessi – ma se continuano a fargli girare i santissimi… Gran libro di cenere e furie – e pernacchie e (qua e là) persino risate.
NAPOLETANO: CAMORRISTA PER NASCITA. QUELLO CHE PENSANO GLI ALTRI…E LO DICONO!
I peggiori nemici di Napoli? I napoletani che non sanno amarla, scrive Metti LA7 e ti fai diverse domande, guardando un imprescindibile servizio del tg di Mentana su Napoli. Intanto, cosa succede nelle riunioni di redazione di Chicco, se il meglio che puoi scovare su Napoli è un vox populi in cui un quartiere alto della città partenopea dice la sua sulle vicine e disprezzate periferie? A questo punto, tanto vale che a condurre e far editoriali, nella sede di Via Novaro a Roma, vada Martina Dell’Ombra, fautrice della divisione tra l’altolocata Roma Nord e la periferica Roma Sud con clip su Youtube seguitissime. Quella è satira, ma in molti ci credono. Pensate a Rosy Bindi, presidentessa della Commissione Parlamentare Antimafia che candidamente parla di “camorra nel dna di Napoli”: quindi il problema è genetico, è irrecuperabile a quanto pare. C’è da chiedersi se sia anche una malattia contagiosa. Comunque la bella e furba Martina già la immaginiamo, su Napoli: “Forcella? Uno stato d’animo. Il Rione Traiano? Ci vorrebbe un muro. Il Rione Sanità? So’ simpatici, diamogli degli aiuti per trasferirsi a Posillipo. I quartieri Spagnoli? So’ dei poracci”. Ma diciamo pure che prendersela con i giornalisti è esercizio facile – non ce ne voglia la collega Russo, che probabilmente eseguiva solo degli ordini – e soprattutto non esaustivo. Perché poi tra Via Foria e Via Cilea, signore ingioiellate e snob le hanno trovate a mazzi, così come ricchi in occhiali da sole che ci spiegano i nuovi ghetti e le mancanze della Stato (con la moglie che addirittura gli dice “ti stai esponendo troppo” in un siparietto da commedia alla Zalone, con lui che eroico fa “e che fanno, mi sparano?”) o una brizzolata e sorridente passante che ci dice che appena superi il confine (sì, è tipo Gaza Napoli e non lo sapevamo) capisci di essere “lì, non dico il nome perché non mi sembra il caso (ha paura che solo dicendo il nome di un rione possa attirarsi l’ira degli dei?”, già “da come si guida, diciamo che lo stile di guida è più volgare”. Perché il volante va impugnato con eleganza radical chic, diamine. E dovete guardare le giovani e graziose pulzelle partenopee del Vomero che sdegnate dicono “io amici al Rione Traiano o a Sanità? No, per carità”. Una addirittura si spinge spregiudicatamente più avanti con “non vedo perché si debba frequentare i quartieri altrui, perch uno di Via Chiaia dovrebbe andare a Traiano per il liceo?”. Una cosa del tipo “sono napoletani di serie B, aiutiamoli a casa loro”. Un’altra non si è ancora ripresa dal trasferimento Via Cilea-Marano, “è tutta un’altra cosa”, dice inconsolabile. Ecco se anche una città che della solidarietà ha fatto sempre un tessuto connettivo – un terzo della popolazione, secondo le statistiche, viaggia sulla soglia della povertà, ma evidentemente rimane a galla anche per la capacità della comunità di aiutarsi (oltre che dei pagamenti in nero di tenere a galla intere classi sociali) -, comincia a disgregarsi, a invitare Salvini per farsi insultare, a dividersi in quartieri e classi sociali, c’è da preoccuparsi. E se è vero che l’aristocrazia borghese del Golfo è tra le più superbe e esclusive (anzi escludenti), raramente si era sentito, in un quartiere come il Vomero – perché qui ha avuto luogo il servizio – una tale distanza verso il resto della città. Certo, se a Roma vai ai Parioli, probabilmente troverai commenti anche peggiori. Ma se nella Capitale il buio della ragione – dal razzismo strisciante di quartieri in rivolta contro gli immigrati a quella da stadio contro la mamma di Ciro – almeno da un decennio avanza indisturbato, a Napoli, come sempre in controtendenza – in negativo come in positivo – rispetto al resto del paese, una crisi drammatica (tanto che la città da anni è a un passo dal default e nella criminalità la lotta efficace ai grandi boss ha creato una frammentazione di cui stanno approfittando i babyclan) corrisponde a una vitalità culturale e intellettuale non indifferente. Eppure, anche qui, dove era più forte la coesione sociale, ora assistiamo a una demolizione della propria identità (si sentono vomeresi, non napoletani). Ecco, se il problema del nostro paese, tra tanti, è l’italiano che non sa amare l’Italia e per questo né la rispetta né contribuisce a migliorarla, il problema di Napoli è quel nucleo di partenopei, spesso benestanti e benpensanti, che disprezzano la propria città, non di rado la sabotano costruendo le proprie ricchezze sulle macerie, vorrebbero andarsene (dicono, ma non lo fanno, perché le zone grigie della città fanno loro un gran comodo) ed ergono un quartiere a isola. Non capendo che il ghetto è il loro, un ghetto in cui Genny del Sanità non è figlio tuo, ma un minorenne che se l’è cercata. Un ghetto in cui il diritto di critica diventa ferocia, razzismo interno, quasi guerra antropologica di chi si sente superiore. In periferia, invece, niente rabbia verso chi è più fortunato, anzi si preoccupano pure “ora non è facile neanche per loro”. E in fondo perché stupirsi per “loro”? In un paese che vuole vedere affondare barconi con disperati che cercano solo una vita migliore, con coerenza i napoletani “in” (come tutti gli altri privilegiati metropolitani, d’altronde) parlano e agiscono riguardo ai quartieri più disagiati alla stessa maniera. Anzi, perdonateci: non sono razzisti, siamo stati ingiusti. Per loro chi vive ai Quartieri spagnoli vale come un profugo siriano. P.S.: l’intelligenza della maggioranza spesso troppo silenziosa dei napoletani, per fortuna, la noti nei commenti e nelle condivisioni dello status del profilo Facebook Il terronista. Autocritici, autoironici, intelligenti (quasi tutti). Perché Napoli non è il pregiudizio diffuso in tutto il paese (e spesso esportato nel mondo) alimentato dal fuoco amico in maniera indegna.
Il paradosso in Italia è che persone che non hanno alcuna competenza in materia da un giorno all’altro, con la politica o con concorsi pubblici truccati, si trovano a ricoprire spazi e funzioni immeritate ed a spandere pillole di idiozia travisandoli come verità assoluta, infangando intere comunità. Complici ne sono le istituzioni che li osannano, i media che ne divulgano i messaggi e i cittadini coglioni che li votano.
A Napoli la Commissione Antimafia, Bindi: «La camorra dato costitutivo di Napoli». Nella criminalità organizzata «è stato confermato il coinvolgimento dei minori non solo come manovalanza, che è un dato di sempre, ma come una vera e propria autorganizzazione con i minori che diventano veri e propri capi». Così Rosy Bindi, presidente commissione antimafia, a margine della prima giornata di missione a Napoli. Minori, ha aggiunto, «che riescono a coinvolgere i loro coetanei con le conseguenze che abbiamo visto in questi giorni». A Napoli la missione della Commissione Antimafia dopo l’omicidio del 17enne Genny Cesarano al quartiere Sanità e l’escalation di violenza che si sta registrando in diverse zone della città. La Commissione presieduta dall’onorevole Bindi ha ascoltato il prefetto Pantalone, i comandanti provinciali delle forze dell’ordine, dei vertici giudiziari del Distretto, il procuratore nazionale Antimafia, Franco Roberti e il sindaco. «È già molto importante quello che è emerso oggi: la camorra è un dato costitutivo di questa società, di questa città, di questa regione. Siamo particolarmente preoccupati», ha aggiunto Bindi al termine delle prime audizioni, ed «anche quando grazie ai risultati raggiunti dalla magistratura o dalle forze di polizia assicurano alla giustizia i grandi capi dei clan non bisogna mai distrarre l'attenzione per la straordinaria capacità di riproduzione che hanno i clan e per il radicamento sociale ed economico che hanno in questa città, in questa regione». Serve «una grande attenzione dal punto di vista investigativo» ma per Rosy Bindi, presidente Commissione antimafia «soprattutto dobbiamo accendere definitivamente una luce sui problemi sociali di questa città e del mezzogiorno. Le stesse forze di polizia e magistratura lamentano questa solitudine. Non è solo sul piano repressivo che combattiamo questo fenomeno. Nessuno vuole l'esercito - ha sottolineato Bindi - e noi siamo d'accordo, però ci vuole più intervento delle istituzioni e della politica». C'è poi anche un altro aspetto. «Nel nostro ordinamento penso a cosa vuol dire perseguire un minore che è capo clan- ha spiegato- attualmente forse non c'è un impianto normativo adeguato, bisognerà che ce lo diamo».
Il presidente della Commissione antimafia aveva detto: «È un dato costitutivo di Napoli». Poi ha aggiunto: «Non posso chiedere scusa perché ne sono convinta», scrive “Il Corriere della Sera”. Le parole di Rosy Bindi hanno sollevato un polverone. C’era da aspettarselo. «Sono saltato sulla sedia quando ho sentito quella frase che non condivido per nulla». Non ci sta il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, e attacca il presidente della Commissione parlamentare antimafia, Rosy Bindi, che, lunedì 15 settembre 2015, ha detto: «La camorra è un dato costitutivo di Napoli». Il sindaco afferma che «la maggior parte dei napoletani è stanca della camorra e della sopraffazione. Non ce la si fa più, c’è richiesta di giustizia che viene ancora prima di richiesta di legalità. Con tutti i nostri limiti stiamo facendo la nostra parte - ha aggiunto- non sottovalutiamo quanto accaduto ma non consentiremo a nessuno di interrompere la stagione di rinascita». «Come diceva Falcone le mafie sono un fatto umano, hanno un’origine e una fine - ha concluso - Qui è iniziato il riscatto e la ribellione che porterà alla sconfitta della camorra». Per il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, il presidente dell'Antimafia, Rosy Bindi «deve spiegare quella frase» pronunciata ieri e secondo la quale la camorra è un elemento costitutivo della città di Napoli. Oggi non se n'è parlato nel corso dell'audizione in Prefettura «che mi auguro abbia una sua utilità». Il Comune - ha riferito de Magistris - oggi ha fatto comunque diverse proposte alla Commissione: «rivedere il patto di stabilità, non servono leggi speciali ma utilizzare poteri ordinari, e poi dare risorse per far funzionare i sevizi essenziali». Ed ancora, «abbiamo chiesto lo stop alle discriminazioni, non abbiamo chiesto fondi ulteriori, ma se si danno soldi cash a Milano o Roma sono politiche nazionali e centralistiche». «Se qualcuno si è offeso - ha detto Rosy Bindi oggi, martedì, in conferenza stampa - non posso chiedere scusa perché ne sono convinta. Non ho mai parlato di dna. Non negare la camorra è il primo atto per combatterla. Credo che le camorre siano un elemento costitutivo della storia e della sociologia di questa città e di questa ragione così come le mafie sono elementi costituivi della storia, della sociologia e dell’economia italiana. Prenderne consapevolezza, non negarlo è il primo atto per combatterle». «Non è una frase che si può spiegare con la biologia perché io non ho mai parlato di dna, invece si può spiegare con la storia e con la sociologia», ha sottolineato la Bindi. «Noi dobbiamo rendere permanente e costitutivo nelle nostre società e istituzioni la lotta alla camorra e alle mafie. È solo così che quella lotta la vinceremo - ha ribadito - Fin quando negheremo che ci sono e ci ostineremo a non conoscerle, fin quando ci volteremo dall’altra parte perché questo non ci riguarda gli apriremo territori immensi, gli consegneremo vite, anche quelle che sparano in nome della camorra e delle mafie». E poi: «E' stato de Magistris stesso ad affermare che il Comune ha chiuso le porte alla camorra e noi sentiamo queste parole come un dato di consolazione. Dalle parole del sindaco viene fuori un sostegno a quanto ho affermato ieri e cioe' che la camorra per vivere ed essere forte non ha bisogno per forza della politica perché ha un grande radicamento sociale». Rosy Bindi ha inoltre ribadito che il «Mezzogiorno è la vera emergenza di questo paese» e che «servono politiche strutturali permanenti per riscattare le condizioni economiche e sociali del sud». «Non servono leggi speciali» alla città di Napoli, spiega a conclusione della due giorni della Commissione in città, ma l’attenzione al Mezzogiorno «deve costituire un elemento forte delle politiche nazionali». «Non si può applicare in maniera differenziata il patto di stabilità meno che meno logica dei tagli lineari. Non serve una progettualità sporadica ma permanente». Nell’acceso dibattito si inserisce anche il procuratore Giovanni Colangelo: «La camorra non è nel Dna dei napoletani che non hanno una propensione al crimine. La criminalità - dice il magistrato - rappresenta una minima percentuale della popolazione rispetto ai cittadini che vogliono vivere in pace». Così il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca: «Considero un’offesa sconcertante a Napoli ed a tutti i nostri concittadini l’affermazione dell’onorevole Rosaria Bindi». Numerose le reazioni su Facebook. Sostanzialmente contro la Bindi. Ida Di Martino scrive: «Sono senza parole. Troppo qualunquista». E Marco Filosa: «No, non è fenomeno solo napoletano ma italiano. Ricordiamoci di Falcone e Borsellino». Giuseppe Di Sauro invece afferma: «La Bindi ha ragione, la colpa è di Alfano che ci prende in giro (si riferisce ai rinforzi giunti in città dopo gli ultimi fatti di sangue, giudicati esigui ndr)». Giancarlo De Luca: «Così la Bindi da un assist al narcisindaco», cioè de Magistris. Il presidente della Commissione Antimafia Rosy Bindi, in visita al quartiere Sanità dove lo scorso 5 settembre è stato ucciso il 17enne Gennaro Cesarano, ha spiegato i motivi per i quali la sua visita al rione non è avvenuta nella basilica situata in piazza Sanità, luogo dell'omicidio di Genny. «Abbiamo chiesto quale era il modo più rispettoso con il quale essere presenti - ha spiegato Bindi durante un incontro con le associazioni del territorio nella basilica San Gennaro extra moenia - e manifestare la nostra vicinanza. Ci hanno segnalato questo e ora sono qui». Invece al carcere minorile sull’isolotto di Nisida a Bagnoli, ha detto Bindi, tra quei ragazzi «ho visto una possibilità di futuro». «Il presidente Bindi non ha mai parlato di Dna. Ha veramente ragione perchè non si può capire tutta la storia di Napoli senza la storia della camorra. La sua frase potrà essere percepita come un pugno nello stomaco, lo è. Ma mi auguro che questa affermazione aiuti tutti noi a reagire». Così il padre combomiano della Sanità Alex Zanotelli commenta la frase della presidente della Commissione Antimafia Rosy Bindi che ieri ha affermato che la camorra è un «elemento costitutivo della città di Napoli». Così, alla fine di un pomeriggio di polemiche, l’ultima arringa del sindaco de Magistris sulla sua pagina social: «Il Presidente della Commissione Antimafia On. Bindi sostiene che la camorra è costitutiva della città di Napoli. Italiano poco felice, ma dal contenuto che appare univoco: Napoli nasce con la camorra. Un connubio genetico, quasi fetale. Trovo offensiva, aberrante e falsa tale affermazione. La storia di Napoli e’ rappresentata dalla sua gente, dalla cultura, dal paesaggio, dal patrimonio artistico, dalle tradizioni popolari, culinarie, artigianali. Millenni di storia non possono sopportare un tale insulto. La camorra e’ un fatto umano, che da decenni infesta le nostre terre. Se non è stata ancora sconfitta è anche perché per troppo tempo pezzi di politica, di istituzioni, di imprenditori e di professionisti hanno prima colluso e poi sono divenuti organici ad essa. Oggi la camorra esiste ancora, ma la lotta contro di essa è sempre più dura ed è radicata in quella parte delle istituzioni onesta e nella stragrande maggioranza dei napoletani e dei campani. È in atto una ribellione civile, sociale e culturale che condurrà alla fine della camorra. I napoletani onesti libereranno Napoli dalla camorra, dalla corruzione, dagli affaristi, dalla politica e dalle istituzioni deviate, ed anche da pregiudizi e narrazioni superficiali sullo nostra terra, sulla nostra storia. Noi non neghiamo i nostri difetti e le nostre colpe, le sofferenze e i drammi, ma On. Bindi bisogna avere enorme rispetto per la storia profonda della nostra città, la prima in Europa che si ribellò con le quattro giornate del 1943 al nazifascismo con una rivolta di popolo, in testa donne e bambini. Non consentiremo a nessuno di accostare la storia di Napoli alla camorra !!». Saviano non poteva non intervenire su un argomento così «suo». «La dichiarazioni di Rosy Bindi è in perfetta coerenza con l'analisi che da anni viene fatta del territorio. Forse è stata mal interpretata, qualcuno ha creduto che si facesse riferimento al Dna dei meridionali o dei napoletani ma non credo che abbia fatto riferimento a questo». Così lo scrittore intervistato da Massimo Giannini nel corso della puntata di Ballarò su Rai3. E poi: «Bisogna essere radicali: il sud è fallito, c'è un pezzo di Italia che è completamente fallita. Certo ci sono città che si salvano, qualche imprenditore che riesce a reggere, ma si va via. Il Sud non è più un problema per questo governo perché non fa pressione politica. Il Sud non fa più neanche paura alla politica, per paura intendo la volontà di conquistare il consenso, tanto compri i voti con pochi spicci, con qualche promessa».
Camorra, scontro Bindi-sindaco: "Mai detto che è nel dna di Napoli". La presidente della commissione antimafia risponde al procuratore capo Colangelo e a de Magistris. "Se qualcuno si è offeso chiedo scusa, ne ho parlato come elemento costitutivo della società e della storia. Se lo neghiamo, loro vinceranno", scrive Dario Del Porto su “La Repubblica”. "Se qualcuno si è offeso, non posso chiedere scusa perché le mie parole sono queste. Non ho mai parlato di dna, ho parlato di camorra come elemento costitutivo della società e della storia". Così la presidente della commissione Antimafia, Rosy Bindi, replica alle polemiche accese dalla sua frase sulla camorra come "elemento costitutivo della società napoletana". E in conferenza stampa ribadisce: "Non mi offendo a dire che sono italiana e in Italia c'è un dato costitutivo costituito dalle mafie. Napoli ha tantissimi elementi costitutivi, ha ragione il sindaco, come ne ha l'Italia. Ma hanno anche la camorra e le mafie. Se neghiamo il dato costitutivo, loro vinceranno. Ma per fortuna, oggi tra gli elementi costitutivi c'è anche l'antimafia". In conferenza stampa, Rosy Bindi ha anche replicato al sindaco de Magistris: "Ha detto che oggi il comune di Napoli ha spezzato i legami con la camorra. Ecco, io ho conosciuto Rosa Russo Iervolino. E non credo che Rosa Russo Iervolino abbia mai interloquito o offerto una sponda alla camorra napoletana. E lo stesso vale per Bassolino, certamente". "La commissione Antimafia - ha detto la Bindi - tornerà a Napoli all'inizio dell'anno prossimo". "Dobbiamo dare continuità alla nostra opera. Siamo noi che dobbiamo riscattare tutti quei ragazzi, non solo quelli che sono vittime ma anche quelli che sparano", dice la Bindi, che annuncia l'impegno della commissione per interventi sul patto di stabilità e per potenziare gli organici investigativi. "Non servono leggi speciali e neppure l'esercito", ha ribadito. La presidente della commissione Antimafia, Rosy Bindi, risponde così al procuratore capo e al sindaco di Napoli, che stamattina avevano reagito alla frase pronunciata ieri dalla stessa Bindi, che aveva parlato di "camorra come elemento costitutivo di Napoli". "La camorra non è nel Dna dei napoletani che non hanno una propensione al crimine. La criminalità rappresenta una minima percentuale della popolazione rispetto ai cittadini che vogliono vivere in pace". Ha precisato stamattina il procuratore Giovanni Colangelo nel corso di una conferenza stampa sul blitz contro i Casalesi. "La criminalità è una manifestazione patologica e non fisiologica della società napoletana - ha aggiunto Colangelo - la delinquenza fa più rumore dei cittadini che vogliono vivere in pace". Per il procuratore di Napoli si avvertono comunque "i segni di un mutamento in meglio". Contemporaneamente dalla Prefettura era arrivata anche la reazione netta del sindaco, Luigi de Magistris. "La frase di Rosy Bindi sulla camorra elemento costitutivo di Napoli? Non la condivido per nulla", afferma il sindaco Luigi de Magistris, al termine della lunga audizione, durata due ore e mezzo, davanti alla commissione parlamentare antimafia. "Quando l'ho letta - afferma il sindaco- sono saltato dalla sedia. La cultura, la storia, il teatro, l'umanità sono l'elemento costitutivo della città di Napoli, della Regione Campania e del Mezzogiorno. Non so quale fosse il pensiero del presidente Bindi. Altra cosa è dire che la camorra è diventata forte come le mafie perché per troppo tempo sono andate a braccetto con la politica e con centri di potere. Questo è un altro dato. La camorra ancora esiste, anche in altre regioni e all'estero, e questo è un altro dato, altrimenti non staremmo a lottare contro la camorra. Ma ho sottolineato che ci sono elementi importanti. Oggi la camorra non ha più rapporti con la politica dell'amministrazione comunale di Napoli. Questo è un elemento molto significativo insieme alla rivoluzione culturale che si sta mettendo in campo. La politica può vivere senza le mafie, le mafie perdono ossigeno se interrompono il rapporto con la politica. Il sindaco di Napoli ha il dovere di difendere la storia millenaria di Napoli. Non si può dire che la camorra è elemento costitutivo quasi genetico della città. A Napoli, pur con tutti i problemi, è iniziato un riscatto culturale, un risveglio civile, una ribellione che porterà alla sconfitta della camorra. La presidente Bindi dovrà spiegare quella frase". Nel corso del l'audizione, il sindaco ha proposto di rivedere il patto di stabilità. I tagli, spiega, "indeboliscono il contrasto alla camorra". Inoltre, sottolinea de Magistris, "non servono leggi speciali, basta osservare le leggi che ci sono. Ho chiesto gli uno stop alle discriminazioni. Si guarda in un modo a Napoli e in un altro a Roma e Milano. Questo non è lamentela nè piagnisteo". Sulla frase della Bindi interviene anche don Maurizio Patriciello, il prete noto per il suo impegno nella battaglia della Terra dei Fuochi: "La camorra nel dna di Napoli? Oltre al danno anche la beffa. Se siamo stati lasciati soli, se la Campania è diventata la pattumiera d'Italia, se tonnellate di rifiuti tossici sono state sversate su questa terra, la colpa è dei cittadini? Oltre al danno la beffa? La colpa sarebbe anche nostra? Noi qui lavoriamo, qui ci moriamo - dice don Patriciello - Io avrei potuto salvare migliaia di giovani se mi avessero dato l'opportunità di dargli lavoro, invece questa gente è dimenticata e la camorra si fa spazio. Se lo Stato non pone davvero l'accento sul problema del lavoro, resterà solo un sogno sconfiggere la camorra". Posizione fuori dal coro quella del rettore dell'Università Federico II di Napoli Gaetano Manfredi. "Non credo che il destino di Napoli sia ineluttabile e per sempre legato alla camorra, ma la criminalità è una componente di questa città, non possiamo negarla e dobbiamo combatterla con un'azione quotidiana, partendo dai giovani". "La migliore risposta al momento difficile che la città sta vivendo sotto il profilo della criminalità - ha proseguito il rettore - è quella di riportare nella città agenti sociali positivi: la formazione, la scuola, l'università, la diffusione del sapere civico sono fondamentali per combattere in maniera non repressiva i fenomeni che stiamo vedendo in questi giorni". Oggi è la seconda giornata della missione napoletana della Commissione parlamentare antimafia. Dopo le audizioni, ieri, dei vertici delle forze dell'ordine e dei magistrati e le preoccupazioni della presidente Rosi Bindi, oggi è stato ascoltato il sindaco. Davanti alla commissione Antimafia vengono sentiti anche l'assessore alle Politiche Giovanili Alessandra Clemente, i presidenti delle Municipalità Soccavo, Maurizio Lezzi e giuliana.
Dalla Bindi un’assurda condanna. Che cosa ha voluto precisamente dire l’onorevole parlando della camorra come elemento costitutivo della realtà napoletana e campana? Si chiede Giuseppe Galasso su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Che cosa ha voluto precisamente dire l’onorevole Rosy Bindi parlando della camorra come elemento costitutivo della realtà napoletana e campana? Non ci venga a dire, per cortesia, che intendeva dire soltanto che la camorra è in questa realtà un dato di fatto (che è, peraltro, napoletano ancor più che campano). Se così fosse, avrebbe detto qualcosa di talmente scontato da non valere assolutamente la pena del viaggio suo e della commissione da lei presieduta a Napoli; qualcosa che si suppone essere stato il presupposto dell’interesse della commissione a venire a Napoli per cercare di rendersi conto di questo dato di fatto noto all’universo mondo. In un italiano corrente, e decentemente parlato, costitutivo è inteso invece come elemento costituzionale nel senso per cui una volta si chiedevano i certificati di sana e robusta costituzione fisica: come un elemento, cioè, strutturale e, cioè, tale da costituire un elemento portante della struttura. È questo che al termine dei lavori della prima giornata della visita napoletana la commissione o, almeno, il suo presidente ha ricavato da quel che ha ritenuto di capire del rapporto tra camorra e realtà napoletana? In tal caso ci si sarebbe messi sulla strada di una condanna storica e antropologica di Napoli e della sua regione che lascerebbe ben poche speranze di futuro ai napoletani e ai campani. O forse gli si voleva dire che essi debbono abituarsi a convivere con il loro cancro criminale e cercare di far qualcosa di buono nella vita civile, economica, sociale, culturale pagando il prezzo di questa loro irrimediabile patologia? Anche in tal caso, però, napoletani e campani sarebbero destinati senza rimedio a un futuro difficilissimo e odioso, ma anche lo Stato del quale Napoli e la Campania fanno parte dovrebbe dichiarare vergognosamente di non essere capace di fare nulla di meglio di quanto fanno napoletani e campani con le loro patologie. Queste cose sono dette non per campanilismo napoletano. Siamo sempre tra quelli che più praticano l’autocritica napoletana e che ritengono che le verità sgradevoli e dolorose sono una medicina preziosa e doverosa nella vita delle comunità umane. Ma qui si tratta, per l’appunto, di una verità che non è tale, e che offende come tale, non per una ipersensibilità napoletana. E, alla fine, non è un po’ curioso che ci si esprima in un certo modo, salvo poi a ripetere sempre, proprio nelle sfere ufficiali, che qui ci sono — il che è vero — energie e potenzialità che abbiamo il torto di non realizzare? Insomma, una maggiore disciplina e attendibilità anche verbale gioverebbe a tutti e a tutto.
Il Movimento Neoborbonico ha inviato al presidente della Commissione Antimafia Rosi Bindi richiesta di chiarimenti in merito alle sue recenti dichiarazioni, scrive “Il Mattino”. Se per la Bindi, in riunione a Napoli, “la camorra è un dato costitutivo di questa società, di questa città, di questa regione”, i neoborbonici hanno chiesto di chiarire se, secondo il suo parere, si tratta di una connotazione di carattere genetico, come sostenuto nel periodo dell’unificazione dalle teorie razziste di Cesare Lombroso, o se, a proposito della società napoletana, campana e meridionale, si tratta invece di una degenerazione di un processo di unificazione che esattamente dal 1860 in poi ha creato una nazione a sviluppo duale affidando compiti sempre più importanti alla criminalità organizzata a partire da Garibaldi in poi. Studi sempre più approfonditi e documentati hanno infatti dimostrato che, al di là di una percentuale fisiologica di delinquenti (tipica di ogni tempo e di ogni paese a Sud come a Nord), prima dell’unificazione la criminalità era messa ai margini dai Borbone e solo dal 1860 fu utilizzata sistematicamente per controllare territori e popolazioni in uno scellerato patto politico-clientelare-economico che resta spesso drammatico e attuale e resta uno dei problemi più gravi dei nostri territori. I neoborbonici, per favorire l’aggiornamento degli studi della Commissione Antimafia, hanno inviato alla segreteria della Commissione a Roma copie delle dichiarazioni del grande giudice Rocco Chinnici “(la mafia nacque con l’unità d’Italia”), degli ultimi libri del giornalista Gigi Di Fiore (Il Mattino), dei prof. Antonio Fiore (Università di Napoli) e Francesco Benigno (Università di Teramo) che documentano queste tesi in maniera ormai inoppugnabile.
IO NON SONO RAZZISTA, MA….
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Dr. Antonio Giangrande – Avvocato e scrittore perseguitato dal sistema.
La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.
Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali.
A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato.
I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti.
Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. I non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità.
L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini.
Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.
Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla.
Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).
Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).
Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso.
Quando qualcuno, bianco o nero, cristiano, mussulmano o induista, ricco o povero, gay o etero, italiano o straniero, entra in casa nostra senza permesso è occupazione.
Quando questo qualcuno ci occupa casa e ci impone di sostentarlo è assoggettamento.
Quando qualcuno ci assoggetta e ci obbliga di abbracciare la sua cultura e la sua religione è invasione.
Quando qualcuno ci invade e noi ci rifiutiamo e reagiamo e questo poi ci mette la bomba in casa e/o ci uccide è conquista.
Bene. Se la legge è uguale per tutti, per tutti va applicata anche in caso di conquista di beni e persone. Quindi, di cosa stiamo parlando?
Io non sono razzista e fascista: chiedo solo rispetto! A chiunque suoni alla mia porta e chiede permesso io lo faccio entrare! E se chiede aiuto io lo aiuto.
Però non voglio essere occupato, assoggettato, invaso, conquistato o addirittura ucciso: sono razzista e fascista?
Sono nato bianco...
Sono nato bianco, il che fa di me un razzista.
Non voto a sinistra, il che fa di me un fascista.
Sono eterosessuale, il che fa di me un omofobo.
Non sono sindacalizzato, il che fa di me un traditore della classe operaia e un alleato del padronato.
Sono di religione cristiana, il che fa di me un cane infedele.
Rifletto, senza prendere per buono tutto ciò che mi dice la stampa, il che fa di me un reazionario.
Tengo alla mia identità e alla mia cultura, il che fa di me uno xenofobo.
Vorrei vivere in sicurezza e vedere i delinquenti in galera, il che fa di me un agente della Gestapo.
Penso che ognuno debba essere ricompensato secondo i suoi meriti, il che fa di me un antisociale.
Ritengo che la difesa di un Paese sia compito di tutti i cittadini, il che fa di me un militarista.
Amo l’impegno e lo sforzo di superare se stessi, il che fa di me un ritardato sociale.
Pertanto ringrazio tutti i miei amici, che hanno ancora il coraggio di frequentarmi, nonostante tutti questi difetti.
(Marina Priami)
Sono nato mussulmano...
Sgozza gli infedeli ovunque li trovi (Corano 2:191)
Fa’ la guerra agli infedeli che vivono vicino a te (9:123)
Quando si presenta l’occasione, uccidi gli infedeli ovunque vengono catturati (9,5)
Gli ebrei ed i cristiani sono pervertiti. Combattili (9:30)
Uccidi gli ebrei ei cristiani, se non si convertono all’islam o se rifiutano di pagare la tassa jizya [tassa dell'umiliazione] (9,29)
Mutila e crocifiggi gli infedeli che criticano l’islam. (05:33)
Punisci i miscredenti con indumenti (gabbie) di fuoco, aste di ferro con ganci, acqua bollente, si fondano la loro pelle e il ventre (22:19)
Ogni religione diversa dall’Islam non è accettabile (3:85)
Non cercare la pace con gli infedeli. Decapitali quando li prendi prigionieri (47:4)
Terrorizza e decapita chiunque creda in altre scritture che il Corano (8:12)
I miscredenti sono stupidi. Esorta i musulmani di combatterli (8:65)
I musulmani non devono avere amici fra gli infedeli (3:28) )
I musulmani devono usare tutte le armi possibili per terrorizzare gli infedeli (8:60)
Gli infedeli sono impuri e non vanno lasciati entrare nelle moschee (9,28)
Sono vostri nemici. Evitateli. Che Dio li stermini. Come sono falsi ! (4,63)
Vi esortiamo a marciare contro le nazioni potenti. Le combatterete finché avranno abbracciato l’islam (16,47)
Gli infedeli sono cattivi (2, 25,26,255 - 8, 38 - 46, 29 - 3, 54) perfidi (2,26)- impostori(3- 54), empi (3, 144) - perversi (5,75) - i più perversi di tutti gli esseri creati (97,5) - bugiardi (6, 28 -51, 10) - gli animali più vili (8, 22, 57) -idolatri (9,5 )- criminali (10,14 -55,43)) - ingiusti (9 e 10, 53)- ipocriti (9, 69) - maledetti (9, 69) -prevaricatori 46, 19)
Metterò il terrore nel cuore degli infedeli. Tagliate loro la testa e schiacciategli le dita (8,12)
Che spettacolo, quando gli angeli uccidono gli infedeli! Li picchiano sulla faccia e sulle reni, gridando: “Voi giusterete il supplizio del fuoco (8,52)
Non sei tu che uccidi gli infedeli, è Dio. Quando tiri una freccia, non sei tu che la tiri, è Dio per mettere alla prova i fedeli, perché Dio sente e sa tutto (8,52)
Credenti! Combattete gli infedeli che vi avvicinano, che vi trovino sempre severi nei loro confronti (9, 124) (A&F)
A proposito dell’invasione dei mussulmani senza colpo ferire….diamo proposte e non proteste.
Se lo sbarco incontrollato dei clandestini è dovuto alla guerra fratricida nei loro paesi: fermiamo quella guerra con una guerra giusta sostenendo la ragione. Per molto meno abbiamo bombardato l’Iraq, l’Afghanistan e la Libia, senza aver un interesse generale europeo, se non quello di assecondare le mire americane.
E poi, dalla patria in fiamme non si scappa, ma si combatte per la sua liberazione. Gli italiani non sono scappati in Africa dalla occupazione tedesca. O i comunisti hanno combattuto non per liberare l’Italia ma per consegnarla all’URSS?
Se il motivo dello sbarco incontrollato dei clandestini è quello economico, evitiamo di farci espropriare il nostro benessere ottenuto con sacrifici. Per la sinistra è un sistema che vale in termini elettorali, ma è ingiusto. Difendiamoci dall'invasione in pace. Apriamo aziende nei luoghi di espatrio dei clandestini. Imprese finanziate da quei fondi destinati a mantenere gli immigrati a poltrire in Italia. In alternativa tratteniamo i più giovani di loro per dargli una preparazione ed una istruzione specialistica, affinchè siano loro stessi ad aprire le aziende.
E comunque, senza parer razzista…In Italia basterebbe far rispettare la legge a tutti, compreso i clandestini, iniziando dalla loro identificazione, e se bisogna mantenere qualcuno, lo si faccia anche con gli italiani indigenti.
Per inciso. Non sono di nessun partito. Non voto da venti anni, proprio perché sono stufo dei quaquaraqua in Parlamento e di quei coglioni che li votano.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
Si deve sempre guardare il retro della medaglia. Si dice che i soldi vadano ai migranti e ce la prendiamo con loro. Invece i soldi vanno ai migranti tramite le cooperative di sinistra e della CGIL. Ergo: Ai migranti quasi niente; alla sinistra i soldi dell'emergenza ed i voti dei futuri cittadini italianizzati. Ecco perchè i comunisti sono solidali fino a voler mettere i mussulmani nelle canoniche delle chiese cristiane. Poi per l’aiuto agli italiani non c’è problema: se sei di sinistra, hai qualsiasi cosa: case popolari, anche occupate, e sussidi ed occupazioni nelle cooperative. Se sei di destra, invece, vivi in auto da disoccupato, non per colpa della sinistra, ma perché quelli di destra ed i loro politici son tanto coglioni che non sanno neppure tutelare se stessi.
Lo stesso sistema si adotta per la lotta alla mafia. Sostentamento e sovvenzioni alle associazioni vicine alla CGIL ed a loro assegnazione dei beni confiscati alla mafia.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci.
Bufera sulla Bindi per lo scandalo dei beni della mafia, scrive di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. L'inchiesta della procura di Caltanissetta sul giudice Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, rischia di avere un effetto domino e di coinvolgere i cosiddetti professionisti dell'Antimafia. Si indaga per «fatti di corruzione, induzione, abuso d' ufficio» legati agli incarichi conferiti al re degli amministratori giudiziari siciliani, l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, il quale a sua volta avrebbe pagato consulenze per oltre 750 mila euro all'ingegnere Lorenzo Caramma, marito della stessa Saguto. Nei mesi scorsi l'ex direttore dell'Agenzia nazionale per i beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso, aveva denunciato i presunti conflitti d' interesse di Cappellano Seminara. Per questo l'alto funzionario nel 2014 venne convocato dal presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi e i due diedero vita a un aspro confronto. Bindi parlò di «effetto delegittimazione» e di «un'accusa generalizzata al sistema» e «a magistrati che rischiano la vita». Caruso, contattato da Libero, replica: «Ora qualcuno dovrebbe confessare come stanno effettivamente le cose e più di qualcuno dovrebbe dimettersi, dovrebbe essere consequenziale alle cose che ha detto, se non corrispondono a verità…». Caruso non fa il nome della Bindi, ma ammette che in quell'audizione la parlamentare piddina dimostrò «di non aver approfondito bene il problema o di aver percepito in maniera distorta» le sue dichiarazioni. Caruso denuncia da molti anni le criticità della legge sulla confisca dei beni mafiosi: «Ma durante l'audizione, mentre proponevo le mie soluzioni, mi interruppe spesso e io non sono riuscito a comprendere quel suo atteggiamento». Forse era frutto di un approccio ideologico al tema dell'antimafia? «Per esempio... Io, da tecnico non posso affermarlo, ma per qualcuno, visto che non è un'esperta della materia, potrebbe essere stata strumentalizzata da Giuseppe Lumia (senatore del Pd ndr) che in Sicilia è il campione dell'antimafia. Da prefetto (di Palermo ndr) a Lumia qualche bacchettata l'ho data». Nel frattempo, ieri, il presidente del Tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale, sembra aver scaricato la Saguto, denunciando la difficoltà di ricevere informazioni certe sui beni assegnati: «Nonostante la complessa interlocuzione con il presidente della sezione non sono ancora pervenuti i dati richiesti». Cappellano Seminara, da parte sua, ha rilasciato dichiarazioni che potrebbero scoperchiare un nuovo verminaio nel sistema giudiziario isolano: «Osservo che in tutti i tribunali siciliani congiunti dei magistrati che ivi prestano servizio, ricevono quotidianamente, da altri magistrati dello stesso tribunale, incarichi sia quali avvocati, curatori, consulenti, amministratori giudiziari, senza che ciò dia luogo ad ipotesi corruttive. Diversamente, chi è in qualche modo legato da parentela con un magistrato non potrebbe svolgere alcuna attività libero-professionale nei distretti delle corti d' appello ove il congiunto esercita le sue funzioni, cosa che, invece, avviene costantemente».
Ancora veleni menzogne e ombre, scrive Pino Maniaci su “TeleJato”. “IN TEMPI NON SOSPETTI, E IN TUTTE LE SEDI ISTITUZIONALI E NON, HO RAPPRESENTATO TUTTE LE CRITICITÀ RISCONTRATE” NELLA GESTIONE DEI BENI SEQUESTRATI E CONFISCATI “E PROPOSTO LE RELATIVE SOLUZIONI. ORA QUALCUNO DOVRÀ GIUSTIFICARSI E QUALCUN ALTRO FORSE DIMETTERSI…”. E’ il lapidario commento all’Adnkronos del Prefetto Giuseppe Caruso, ex Direttore dell’Agenzia dei Beni confiscati, sull’avviso di garanzia alla Presidente della sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, accusata di corruzione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio, insieme con il marito Lorenzo Caramma e all’avvocato Gaetano Cappellano Seminara. L’inchiesta è coordinata dalla Procura di Caltanissetta e riguarda la gestione dei beni confiscati. In passato, Caruso aveva più volte denunciato alla Commissione nazionale antimafia, presieduta da Rosi Bindi, l’uso “a fini personali” che avrebbero fatto alcuni amministratori giudiziari dei beni a loro affidati. In questo modo, secondo Caruso, avrebbero “bloccato il conferimento dei beni agli enti destinatari”. Gli stessi amministratori avrebbero percepito “parcelle stratosferiche” e mantenendo poltrone dei consigli di amministrazione delle aziende confiscate, così da fare “il controllato e il controllore”. Il nome che Caruso ha fatto più spesso in proposito è quello dell’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, che ha gestito una grande fetta dei patrimoni confiscati in Sicilia, in particolare quella del sequestro al costruttore Vincenzo Piazza. All’epoca Bindi aveva parlato di un “effetto delegittimazione” e di “un’accusa generalizzata al sistema” e “a magistrati che rischiano la vita”. E Caruso aveva ribattuto: “Dire che ho inteso delegittimare l’autorità giudiziaria non corrisponde a verità”. Oggi Caruso, che invita qualcuno a giustificarsi e qualche altro a dimettersi, non fa nomi, ma il riferimento sembra evidente, la Presidente dell’Antimafia Rosi Bindi, oltre alla Presidente Misure prevenzione Silvana Saguto. È un mondo a parte, inesplorato nonostante sia sotto gli occhi di tutti, quello dei beni confiscati alla mafia. E ogni tanto, ormai con sempre maggiore inquietante frequenza, si scopre che le cose non vanno come andrebbero e che ci sarebbe chi ne approfitta. La montagna di risorse requisite alle mafie potrebbe risanare le casse dello Stato – e non può certo sorprendere che ci sia competizione all’interno e che si sgomiti per gestire le risorse ed i beni immobili sequestrati. Ma il sistema è saturo, il giro di interessi sempre più fitto, e la competizione sempre più aspra. Il prefetto Caruso ha lanciato l’allarme, indicato le criticità e messo in moto un meccanismo di verifica, che ha provocato indagini. La Procura di Caltanissetta, guidata da Sergio Lari, a conclusione di una prima fase di indagini, ha indagato Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione, l’avvocato Cappellano Seminara, considerato il plenipotenziario delle gestione dei beni per via del numero di consulenze ricevute, e l’ingegnere Lorenzo Caramma, marito di Silvana Saguto, che secondo l’ipotesi accusatoria avrebbe beneficiato delle consulenze ricevute da Cappellano Seminara. Insomma, il presidente della sezione Misure di prevenzione avrebbe tenuto in speciale conto l’avvocato e questi si sarebbe sdebitato attribuendo consulenze al marito. Il presidente del Tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale “fin dal proprio insediamento avvenuto lo scorso 15 maggio” ha “iniziato a svolgere accurati accertamenti sull’attività della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, richiedendo al Presidente della Sezione i necessari dati conoscitivi”. È quanto si legge in una nota diramata dalla stessa Presidenza del Tribunale di Palermo. “Preso, peraltro, atto dei provvedimenti adottati dalla Procura della Repubblica di Caltanissetta e ritenuto che, nonostante la complessa interlocuzione con il Presidente della Sezione, non sono ancora pervenuti i dati richiesti nella loro completezza, ha emesso, un provvedimento con il quale ha disposto una diretta e definitiva verifica – si legge ancora nella nota del Presidente del Tribunale, Salvatore Di Vitale – Tutti i dati emersi fino a questo momento sono stati comunicati al Csm e al Ministero”. Il palazzo di Giustizia di Palermo torna in prima pagina, dunque. E stavolta non ci torna per le minacce, intimidazioni, iniziative “d’avanguardia”, ma per una gestione opaca di bene pubblico, ciò che generalmente l’autorità giudiziaria addebita alla “casta” della politica. Un ribaltamento dei ruoli, in considerazione anche del fatto che a smuovere le acque, molto rumorosamente, è stato il prefetto Caruso, un funzionario di lungo corso, cui non fa difetto la tenacia. In effetti sembra strano che quando le indagini riguardano qualche magistrato o qualche “protetto” non esiste più la questione morale e le tanto sbandierate dimissioni richieste a tutti gli indagati “comuni mortali” non valgono quando ad essere indagati sono loro. Sorge spontanea, per la natura dei gravissimi reati contestati, corruzione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio, la considerazione che anche a loro andrebbe applicata la misura di prevenzione patrimoniale e così sottoporre a sequestro preventivo tutto il loro patrimonio e farlo gestire ad un amministratore giudiziario con i tempi biblici che la dott.ssa Saguto concede ai “suoi” amministratori giudiziari nei procedimenti da lei presieduti. E’ noto, tra l’altro, che la stessa Saguto nelle motivazioni di sequestro perpetrate ai danni di altri, e non certo tutti mafiosi, sostiene che per disporre un sequestro non sono necessarie le prove ma basta soltanto il minimo sospetto che il patrimonio dell’indagato possa essere stato costituito con proventi da attività illecita e che, a suo dire, tale motivazione risulta più che sufficiente in questo tipo di procedimenti. Non si comprende perché la stessa misura non possa essere applicata a chi come Lei, il marito e il Cappellano Seminara risultano indagati di gravissimi reati che gettano fango al nostro Paese e inducono la gente a non avere fiducia nell’amministrazione della Giustizia. (Ricordiamo che stando alle cifre della Corte dei Conti la corruzione sottrae al nostro Paese risorse per 60 miliardi di euro pari al 4,4 per cento del PIL). Così come non si comprende come una persona indagata possa ancora ricoprire lo stesso ruolo. Perché la dottoressa, il marito e il Cappellano Seminara non sono stati sospesi dai loro incarichi? Le tanto pubblicizzate frasi “potrebbe inquinare le prove” o “potrebbe reiterare il reato”, valide per tutti i cittadini italiani e in tutti i procedimenti, evidentemente non si applicano per la dott.ssa Saguto & company. Questo dimostra i due pesi e le due misure nella gestione della giustizia, con comportamenti diversi in base a chi ha la sventura di essere sotto giudizio. Comunque la gestione dei beni sequestrati ha bisogno di trasparenza, su questo non ci piove, nuove regole e di un “allargamento” significativo dei soggetti abilitati alla gestione del patrimonio. Su questo terreno lo Stato si gioca la credibilità oltre che i soldi: il numero di aziende che chiudono battenti o falliscono dopo la confisca è molto alto, e migliaia di lavoratori perdono il posto e si trovano sul lastrico. Il mondo delle confische è assai articolato e, a nostro avviso, non bisogna dare niente per scontato, perché all’ombra dei buoni propositi potrebbero trovare ospitalità furbizie e prepotenze. Indispensabile e urgente, dunque, una svolta. Regole e nomi nuovi. Ci auguriamo che le tante persone per bene che ancora difendono con la propria onestà il valore e il prestigio della Magistratura abbiano il coraggio di attuare scelte che siano da esempio per tutti i cittadini onesti e anche per i malcapitati nelle grinfie della dott.ssa Saguto e della sua banda. Pino Maniaci.
S'allarga ad altri familiari del giudice Silvana Saguto l'inchiesta sull'assegnazione di incarichi di gestione dei beni confiscati alla mafia. L'indagine toccherebbe il padre e uno dei figli del presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, indagata per corruzione, induzione e abuso d'ufficio. Con lei sono sotto inchiesta l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, il più noto amministratore giudiziario di Palermo, e l'ingegnere Lorenzo Caramma, marito del magistrato, scrive “L’Ansa”.
Beni sequestrati alla mafia, si allarga indagine su giudice Saguto. Che si dimette. Il presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo si dimette dall'incarico dopo essere stata coinvolta nell'inchiesta della procura di Caltanissetta per corruzione, induzione e abuso d’ufficio, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 12 settembre 2015. Aveva detto di poter chiarire la sua posizione in breve tempo. Intanto però Silvana Saguto, presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, il magistrato che dal 2010 gestisce un patrimonio miliardario composto dai beni sottratti ai boss mafiosi, si è dimessa dall’incarico. La donna che Gian Carlo Caselli definì “la più importante, dal punto di vista economico, della città”, perché dal Palazzo di giustizia “gestisce capitali enormi”, ha scelto di fare un passo indietro dopo essere stata travolta dall’inchiesta della procura di Caltanissetta. Un’indagine per corruzione, induzione e abuso d’ufficio che a Palermo ha scatenato un vero e proprio terremoto. A dare notizia delle dimissioni del magistrato indagato è il presidente del tribunale di Palermo Salvatore Di Vitale, che ha “preso atto della disponibilità della dottoressa Saguto a essere destinata ad altra sezione del Tribunale”. Dimissioni, quelle della Saguto, che servono a garantire “la continuità e la piena funzionalità di un organo giudicante, da anni centrale nella strategia di contrasto dello Stato alla criminalità mafiosa”. Il presidente del Tribunale di Palermo ha sottolineato che “il provvedimento mira anche ad agevolare i doverosi accertamenti in corso che potranno svolgersi in un clima di serenità idoneo a favorire più dettagliati approfondimenti”. Due giorni fa, dopo la diffusione della notizia sull’indagine, lo stesso Di Vitale aveva annunciato di avere “emesso, in data odierna, un provvedimento con il quale ha disposto una diretta e definitiva verifica. Tutti i dati emersi fino a questo momento sono stati comunicati al Csm e al Ministero”. E mentre l’incarico della Saguto è stato preso da Mario Fontana, presidente della quarta sezione penale, quella che ha processato e assolto gli ex alti ufficiali del Ros Mario Mori e Mauro Obinu, l’indagine dei pm nisseni si è allargata. Insieme alla Saguto sono indagati l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, uno dei principali amministratori giudiziari della città, e l’ingegnere Lorenzo Caramma, marito del magistrato e collaboratore dello studio di Cappellano Seminara. Secondo gli inquirenti ammonterebbero a 750 mila euro in dieci anni l’ammontare delle consulenze concesse da Cappellano Seminara al marito della Saguto. I pm nisseni guidati da Sergio Lari (che tra qualche giorno passerà a fare il procuratore aggiunto mentre l’interim spetterà a Lia Sava) stanno passando al setaccio documenti e fotografie acquisite nel sequestro di due giorni fa. Nell’inchiesta è finita anche la festa di laurea del figlio del magistrato, organizzata da Cappellano Seminara tramite un amico docente universitario, che ha ricevuto a sua volte alcuni incarichi, ed è a sua volta ndagato. La Saguto ha anche un altro figlio, che di mestiere fa lo chef e lavora all’Hotel Brunaccini, albergo in pieno centro della famiglia Cappellano Seminara. E questo quello che sospettano gli investigatori: che la gestione dei beni confiscati sia stata un vero e proprio affare di famiglia per la Saguto.
Gestione dei beni confiscati: altri tre magistrati indagati. Si allarga l'inchiesta che vede coinvolta Silvana Saguto, sotto indagine anche l'ex consigliere del Csm Tommaso Virga e altri due giudici, scrive “La Repubblica” il 12 settembre 2015. Sono quattro i giudici del tribunale di Palermo indagati nell'ambito dell'inchiesta sulla gestione dei beni confiscati. Oltre a Silvana Saguto che ha lasciato il suo incarico sostituita da Mario Fontana, l'inchiesta coinvolge il presidente di Sezione ed ex consigliere togato del Csm, Tommaso Virga, indagato per induzione alla concussione, il sostituto procuratore Dario Scaletta (presunta rivelazione di segreto d'ufficio) e Lorenzo Chairomonte, giudice della Sezione diretta dalla Saguto (abuso d'ufficio). Come riporta il quotidiano "Il Messaggero", Virga è sospettato di avere favorito un procedimento disciplinare a carico della Saguto la quale avrebbe garantito la nomina del figlio di Virga, Walter ad amministratore giudiziario dei beni sequestrati agli eredi di Vincenzo Rappa. Scaletta avrebbe invece rivelato a due giudici della sezione della Saguto notizie sull'inchiesta. Uno dei due giudici, Chiaromonte avrebbe deciso sulla gestione di beni da 10 milioni di euro sequestrati al mafioso Luigi Salerno "malgrado l'amministratore giudiziario fosse una persona a lui molto vicina". Una nuova bufera, insomma, si abbatte su Palazzo di Giustizia. Oltre a Silvana Saguto, altri tre magistrati del tribunale di Palermo sarebbero indagati nell'inchiesta sulla gestione dei beni confiscati alla mafia. Lo rivela il quotidiano il Messaggero, notizia che trova conferme negli ambienti giudiziari siciliani.
Un terremoto quello che sta investendo il Palazzo di giustizia di Palermo, scrive “Sicilia Live”. L'inchiesta infatti, oltre alla Saguto che si è già dimessa dall'incarico, coinvolgerebbe il presidente di Sezione ed ex consigliere togato del Csm, Tommaso Virga, indagato per induzione alla concussione, il sostituto procuratore Dario Scaletta (presunta rivelazione di segreto d'ufficio) e Lorenzo Chiaramonte, giudice della Sezione diretta dalla Saguto (abuso d'ufficio). Virga, in particolare, sarebbe finito sul registro degli indagati per induzione alla concussione perché sospettato di aver favorito un procedimento disciplinare a carico della Saguto. Il magistrato dimissionario, in cambio, la quale a sua volta avrebbe nominato ilfiglio di Virga, Walter, amministratore giudiziario dei beni sequestrati agli eredi di Vicenzo Rappa, imprenditore condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Nei giorni scorsi la Procura di Caltanissetta, come vuole la procedura, ha comunicato l'avvio dell'inchiesta nei confronti dei magistrati alla Procura generale che ha inviato una nota al Csm. Si allunga, dunque, l'elenco degli indagati per lo scandalo della gestione dei beni confiscati. Oltre alla Saguto, infatti, sotto inchiesta per corruzione, induzione alla corruzione e abuso d'ufficio, ci sono pure il padre, il figlio e il marito (l'ingegnere Lorenzo Caramma) del magistrato che fino a ieri guidava le misure di prevenzione palermitane. Indagato pure Gaetano Cappellano Seminara, il più noto tra gli amministratori giudiziari che in cambio di alcuni incarichi, avrebbe affidato delle consulenze al marito della Saguto.
ON È LA STORICA CATTEDRALE DI BARCELLONA IDEATA E COSTRUITA DA GAUDÌ: A PALERMO, IN QUESTO MOMENTO È UNA FAMIGLIA INTESA NON COME “FAMIGLIA MAFIOSA”, ALMENO SINO AD ORA, MA COME FAMIGLIA INDAGATA: UFFICIALMENTE SI TRATTA DI REATI DI CORRUZIONE, ABUSO D’UFFICIO E, QUALCHE GIORNALE SCRIVE ANCHE, INDUZIONE ALLA CONCUSSIONE.
Quello della concussione, se è vero quello che si lascia trapelare a “spizzichi e muddichi”, sarebbe un reato grandissimo: nell’antica Roma, i processi per concussione si concludevano con il trasferimento dei funzionari in lontane colonie dove non avrebbero più potuto delinquere, mentre i mussulmani sono più cattivi, ai ladri tagliano la mano destra, scrive Salvo Vitale su “Tele Jato”. Nel nostro caso non sappiamo più cosa pensare. La nostra sacra famiglia è quella dell’ing. Caramma (Caramma che sorpresa), del figlio Elio detto Crazy, abile ed esperto chef al servizio di Cappellano Seminara presso l’albergo Brunaccini, di sua proprietà (cioè di Cappellano), ma presente anche all’EXPO di Milano con le sue specialità siciliane, arancini e cazzilli. Suggeriamo agli inquirenti di indagare anche sul posto in cui abita, visto che non siamo in grado di confermare alcune strane voci che circolano su di lui. Crazy vuol dire “pazzo” (con la lettera p). Basta così. Sulle accuse rivolte all’ingegnere Caramma padre, la moglie ha detto che è tutto in regola e che chiarirà. Ma chi è la moglie? Si tratta di una che, dopo aver girato parecchi uffici del tribunale di Palermo, da diversi anni ha trovato il posto giusto in un ufficio che sembra creato apposta per lei, quello dei beni sequestrati ai mafiosi o presunti tali. La legge, alla modifica della quale la signora ha dato un contributo importante, le consente di tenere sotto controllo ogni impresa siciliana, e di indagare, sequestrare e assegnare quello che è sequestrato a un cerchio di persone che su questo ci campano e non mollano l’osso sino a quando non lo spolpano del tutto. In tal senso, cioè nel mettere le mani sulle gestioni economiche delle imprese, i mafiosi sono dei dilettanti. E va bene. Adesso, vista l’indagine la signora si è dimessa ed è stata, per il momento assegnata ad un altro ufficio, quello della terza sessione penale del tribunale di Palermo. In qualsiasi altro stato dovrebbe essere sospesa da tutto, in attesa di chiarire la sua posizione, ma in Italia funziona diversamente. D’altronde non bisogna dimenticare che l’Italia è la patria della corruzione, occupa il penultimo posto nel mondo per la capacità di generare a ripetizione strumenti di corruzione, di imbroglio, strategie di “una mano lava l’altra”, che in Sicilia si chiamano pizzo o tangenti, nel resto d’Italia mazzette o contributi. Il gioco del “futticompagno” è più praticato e amato di quello del calcio. Siamo il paese in cui tutti sono bravi a evadere le tasse e Renzi ora, Berlusconi prima, ci dicono che queste tasse cattive bisogna eliminarle. E va be!!! Quello che ci stupisce e ci lascia allibiti è la notizia, arrivata stamane, che anche il padre della Saguto è indagato. Sul padre del marito della Saguto non sappiamo niente. Dovrebbe avere una veneranda età e quindi, che diamine, essere lasciato in pace a vivere i suoi giorni. Quindi, padre, madre, figlio e padre della madre. Per dirla con una poesia di Prevert “la belle famille”. Intanto pare che l’indagine si stia allargando al verminaio degli amministratori giudiziari, dei quali da tempo facciamo i nomi: Benanti, Virga, Modica de Moach, Geraci, Aulo Giganti, Miserendino, Dara, e una coda infinita di collaboratori, coadiutori, sorveglianti, controllori, verificatori, tutti legati dal sacro vincolo del “tiengo famiglia”. Una famiglia sacra e di tutto “rispetto”. In tutto questo si aggira un silenzio assordante, in parte causato da stupore, in parte da complicità, amicizia e favori, da parte di tutte le organizzazioni che usano timbrare le proprie azioni con il marchio dell’antimafia, ma che, in un momento come questo scelgono di non dire niente. “Mutu cu sapi u iocu”!!!!!!
Il costo vero degli immigrati? Nessuno lo sa, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Aveva ragione un grande liberale come Sergio Ricossa che scriveva: Gli intellettuali di sinistra amano il popolo come astrazione, lo guardano dall’alto, da un palco. Oggi quelle lenti astratte con cui si guarda al popolo si chiamano austerity. In funzione della quale si sono commessi i peggiori crimini fiscali. Che si tratti di un’astrazione e del fatto che siamo osservati dall’alto, lo dimostra con tutta evidenza il caso della violenta ondata di immigrazione che l’Italia sta subendo. Facciamo un passo indietro. Abbiamo reintrodotto la tassa sulla prima casa poiché, si diceva, stavamo fallendo o in alternativa si affermava che eravamo gli unici a non averla. Si tollera un sistema di welfare sui più deboli e senza lavoro da terzo mondo, poiché c’è un vincolo di bilancio che non permette di avere la manica più larga. Si affrontano le emergenze, dalle frane ai recenti tornado in Veneto, con l’occhio attento del contabile. Non siamo impazziti. Non amiamo la spesa pubblica e continuiamo a ritenere che lo Stato migliore sia quello minimo. Non vogliamo più spesa pubblica, per il semplice e banale fatto che siamo noi a finanziarla con le tasse. Per questo ci chiediamo una cosa semplice, aritmetica. Perché esiste, nel nostro paese, un vincolo di bilancio su tutto: dal welfare ai terremoti, e non esiste un tetto alla spesa per l’immigrazione? È banale, ma è mai possibile che nessun documento ufficiale, nessuna dichiarazione ministeriale ci ha mai fatto capire quanto l’Italia, complessivamente, ha messo a bilancio per affrontare il problema immigrati. In questo caso sembrano venire meno i medesimi vincoli di bilancio, che esistono per ogni altra attività pubblica. Il diritto da tutelare (l’accoglienza degli immigrati) è forse sovraordinato a tutti gli altri diffusi bisogni che oggi la collettività che paga le tasse sente suoi? Perché la politica riduce tutto ad un dato ragioneristico e non altrettanto avviene sull’immigrazione? Ci hanno spigato che sanità, pensioni, stipendi, scuole, giustizia, polizia devono contenere le loro richieste entro limiti fissati. Esiste un confine economico alla spesa per l’accoglienza? Non porsi il problema è volerlo nascondere. Gli intellettuali dal loro palco ci diranno che siamo dei cinici economisti. In realtà ribaltiamo esattamente lo stesso ragionamento che essi ci fanno quando chiediamo di mettere un po’ di benzina nel motore di un’economia che non gira: se ogni attività pubblica oggi cade sotto la mannaia della dura legge dell’austerity perché ce ne è una al di fuori.
Immigrazione, i mille volti dell'Italia razzista. In Italia crescono intolleranza e rifiuto. Un fenomeno diffuso da nord a sud che contagia tutti i ceti. E rischia di deflagrare con la gestione caotica dei rifugiati, scrive Fabrizio Gatti su "L’Espresso”. Un parroco può perdere il controllo delle parole? Quando a Tirrenia, tremila abitanti inzuppati dal mare alle porte di Pisa, vedono qualche rom in giro, una mano femminile preoccupata scrive a padre Marcello. Sulla pagina Internet da cui il prete comunica con i fedeli, la donna gli confessa di avere paura per sé e per i bimbi. E lui, padre Marcello, il parroco di San Francesco arrivato anni fa dalla Romania, risponde ad altezza d’uomo: «Avete un fiammifero?». «Per la benzina», aggiunge a quel punto un’altra parrocchiana, «offro io». No, non è razzismo, dirà il sacerdote quando la notizia esce su “La Nazione”: «Ho scritto quel post perché nella nostra chiesa mancano i fiammiferi nei candelieri e anche per invitare a stare attenti i miei parrocchiani a non aggiungere benzina sul fuoco. Ognuno», sostiene padre Marcello sul quotidiano toscano, «capisce quello che vuole». Appunto. «Gli italiani no, non sono razzisti...», butta lì Joseph Giuseppe Alabi, 59 anni, diploma da ragioniere e contratto a termine da aiuto cuoco. Joseph Giuseppe, africano del Togo, ti guarda con il sorriso simpatico in attesa di una reazione alla sua provocazione. E si corregge, sicuro dei venticinque anni da immigrato passati a lavorare nelle cucine da Roma a Padova: «Il razzismo è come la mafia: non si vede, ma è dappertutto». Ecco l’Italia. Quella delle battute imprudenti, al massimo si fa sempre in tempo a correggerle. E quella dell’intolleranza militante, invisibile ma violenta nelle parole e da qualche mese anche nei fatti. In poco più di un anno, nove fra centri profughi e future strutture di accoglienza sono stati danneggiati o distrutti da attentati incendiari: dalla baita bruciata sulle montagne del Trentino all’auto in fiamme lanciata contro l’ex caserma Gasparro, nel rione Bisconte a Messina. In mezzo ai due estremi, una massa di italiani, cittadini, elettori ha cambiato idea e si riconosce oggi nell’identikit: «Non sono razzista, ma...». Un ripensamento, proprio quando i tedeschi e il loro governo sorprendono l’Europa e aprono i confini agli esuli, selezionando a modo loro la solidarietà: «Solo siriani, danke». Mentre da noi, al contrario, sta evaporando l’umanità che dal 3 ottobre 2013, giorno dei 366 profughi annegati a Lampedusa, aveva fornito consenso all’accoglienza. Nemmeno la foto simbolo del corpicino di Aylan al-Kurdi, il bimbo siriano di tre anni annegato durante la traversata dalla Turchia alla Grecia, sembra aver scalfito il cuore. Forse perché è una storia apparentemente lontana. Nelle ultime ore in cui il bambino scappato da Kobane era ancora vivo, molte redazioni dei giornali e dei telegiornali italiani decidevano di non pubblicare le foto di altri piccoli siriani ritrovati pochi giorni prima a faccia in giù sulla spiaggia di Zuwara, in Libia lungo la rotta per la Sicilia, molto più vicino a noi. Ma poi eccoli tutti a rincorrere la storia di Aylan, dopo la pubblicazione sui quotidiani inglesi. Stessi profughi, stessa tragedia, due misure. Forse troppo dolore disturba gli italiani. È anche colpa dei numeri epocali dell’esodo: come spiegano i sociologi, non si può fingere che una pressione migratoria così massiccia, e per ora senza sosta, non provochi una reazione sociale. Ma non è questo l’unico fattore a risvegliare la xenofobia. Il governo e alcune sue prefetture nella loro azione dimostrano di muoversi senza piani condivisi, con provvedimenti dettati più dalla disperazione. Come la caccia, in questi giorni, del ministero dell’Interno a ulteriori ventimila posti letto da allestire a pagamento ovunque: case sfitte, hotel in crisi, capannoni, tendopoli. È giusto che quanti richiedono asilo ricevano la dovuta assistenza. Questo tra l’altro elimina il rischio, tra coloro che hanno perso tutto, di dover commettere reati per sopravvivere. Fra due, tre, cinque anni, però, cosa succederà? Senza una vera ripresa economica, per quanto tempo saremo in grado di garantire oltre settantamila pasti tre volte al giorno a un numero crescente di disoccupati stranieri senza nessun futuro? Non dobbiamo meravigliarci se nei prossimi mesi, in contrapposizione ai cortei di leghisti, xenofobi e neofascisti, vedremo manifestare anche richiedenti asilo che non hanno più nulla da perdere. Come è accaduto nei giorni scorsi a Bresso, a Nord di Milano. Le condizioni del cibo sono spesso solo il pretesto. Insomma, una bomba sociale pericolosamente innescata. È questo il tappeto altamente infiammabile su cui cresce il popolo dei “non sono razzista, ma”. Dove si incontrano? La pagina ufficiale di Matteo Salvini, europarlamentare e segretario della Lega Nord, è una delle piazze più affollate. L’abbiamo osservata come termometro di una nuova borghesia arrabbiata che non ha remore a esporsi su Facebook con foto, nome, cognome, professione, minacce o insulti. A questo punto bisogna avvertirvi che i lettori minorenni, come si usa per i film in tv, andrebbero accompagnati. Il linguaggio di una certa frangia politica è ormai da bollino rosso. Ma è proprio qui, su Internet, al di fuori del galateo, della decenza e a volte del codice penale, che viaggia il nuovo consenso. Abbiamo escluso dalla ricerca i giorni con fatti di cronaca gravi: lì è ormai scontato raccogliere manifestazioni di odio contro tutti gli immigrati. Eccoli invece in giornate qualunque. Li provoca Salvini, dopo la protesta dei richiedenti asilo a Bresso: «Vogliono i documenti? Col cacchio. Sono ospiti a spese nostre e rompono pure i coglioni». È sempre la sua pagina ufficiale: in appena cinque ore raccoglie 26.460 “piace” e 2.967 condivisioni. Rispondono subito in centinaia con i loro commenti. Ecco Teresa Luglini, viso pacifico, sorriso e occhiali da Reggio Emilia: «Li hanno accolti spalancando braccia e gambe? Bene. Tutti questi a casa di coloro che hanno aperto il culo». Bruno Collerio, impiegato di Milano, foto con moglie e figlia il giorno della laurea e gli auguri a Mussolini per il compleanno del Duce: «Salvini, fa qualcosa, questi si riforniscono di armi e per noi italiani è una strage». Carmine Cioffi: «Ammazzateli di botte e mandateli a casa loro». Andrea Riviero: «A casa ingrati parassiti». Alberto Lodi Rizzini, comandante dei vigili urbani in provincia di Mantova, ora in pensione: «Ributtiamoli tutti in mare». Michele Lecchini, imprenditore toscano: «Questi ci ammazzano tutti». Matteo Lancia, tifoso della Lazio: «Olio di ricino a tutti questi». Mauro Calogero, manager in una tv satellitare, fa un comizio: «Gli europei sono naufragati nel meticciato, sommersi da orde di immigrati afro-asiatici. La piaga dei matrimoni misti produce ogni anno migliaia di nuovi individui di razza mista... l’integrazione equivale a un genocidio». Insulti che nessuno rimuove anche per la presidente della Camera, Laura Boldrini: «Presidente più inutile della Storia», lancia Salvini. «Vorrei vedere se la Baldracca camminerebbe senza scorta di sera o di notte per strada e si trova davanti un branco di clandestini cosa farebbe», commenta nel suo italiano Brenda Wolsh, pseudonimo di una fan che nei messaggi si presenta poi come una ragazza di 19 anni di Caserta, Daiana F., con lavoro precario come colf. «Io vi ho chiesto di specificare se l’orgia vede solo la Boldrini come donna...», insiste Niccolò Re, 29 anni, giornalista ligure, replicando ad altri commenti: «Io ne facevo un problema terminologico. Orgia con una donna è gang-bang...». Ce n’è anche per il premier, dopo il duplice omicidio di Catania per il quale è stato arrestato un richiedente asilo della Costa d’Avorio: «Renzi maledetto. Le bestie clandestine uccidono, violentano le donne, rapinano, rubano e tu, persona inutile, ostenti menefreghismo. Ti auguro che questi animali penetrino in casa tua di notte dalla tua famiglia...». È il livello del dibattito sulla pagina ufficiale del nuovo leader della Lega, un milione e 83 mila frequentatori abituali, più di Renzi e di Silvio Berlusconi. Quando vuole Salvini interviene: ma solo se gli danno del fascista o deridono i suoi sostenitori. Nel frattempo gli insulti ai profughi che protestano a Bresso guadagnano ancora consenso: in meno di 48 ore totalizzano 22.406 “piace”, 37.440 condivisioni, addirittura 7.030 commenti. La differenza con i gruppi neonazisti tedeschi è che la Lega è stata un partito di governo e al governo ci vuole tornare. Allora immaginate cosa accadrebbe in Germania se un leader politico con un incarico istituzionale lasciasse sul suo sito un osanna a Hitler. In Italia niente. Questa è la vetrina ufficiale su Facebook di Roberto Maroni, ex ministro dell’Interno e presidente leghista della Regione Lombardia. «Hitler dove sei?», scrive sulla pagina Giancarlo Spinelli, che si presenta come chimico nucleare di Gorgonzola, provincia di Milano. E sempre lui: «Duce come ti rimpiango». Rosetta Maiorino sugli stranieri che protestano: «Sparargli e fuori dai coglioni». Paolo Mantovani: «Ma quando andiamo a legnare cazzo». C’è perfino la foto dell’ex ministro Kyenge con la scritta “Sono italiana anch’io” e sotto: «No, tu hai semplicemente rotto i coglioni», regalo inviato al governatore da Giovanni Dragotto di Cinisello Balsamo. Non si risparmia nemmeno l’ex assessore lombardo Davide Boni, messo in panchina dalla Lega in attesa che gli elettori dimentichino la bufera sulle spese pazze in Regione. Il 23 agosto tra la Libia e l’Italia affonda l’ennesimo barcone, 20 cadaveri recuperati, 170 dispersi. Nelle stesse ore Boni, attualmente amministratore delegato di una società di consulenze fiscali, pubblica su Facebook il fotomontaggio di un pescecane che si mangia un gommone carico di profughi africani. E la didascalia: «Nel Mare nostrum arrivano solo meduse tropicali, squali no?». Quella stessa mattina critica anche l’arrivo di quarantacinque profughi in un hotel a Mantova. E un fan aggiunge: «Spero che gli brucino l’albergo». Giocano con il fuoco. E non solo. Massimiliano Bordignon, giornalista di Milano e qualche anno da emigrante a Toronto in Canada, il giorno della manifestazione a Bresso scrive la sua su come i profughi che protestano andrebbero trattati: «Ragazzi, qui bisogna organizzarsi e scendere in piazza. Bloccare questa gentaglia e fare capire alla polizia che non ci difende che sappiamo difenderci da soli». Difendersi da soli, in che modo? «Il mio appello era rivolto alla gente perché possa tornare consapevole e mobilitarsi di fronte al crimine, da qualsiasi parte venga, mentre uno Stato sempre più assente si limita al contenimento dei danni», spiega serio a “l’Espresso” Bordignon: «Lo dimostra l’azione nei confronti dei black bloc durante l’inaugurazione di Expo. Le persone devono poter pesare maggiormente sulle scelte politiche. La piazza deve tornare a essere il punto d’incontro di chi, senza restare chiuso in casa, abbia voglia di dire no senza farsi strumentalizzare». Stessa agitazione per Antonio Ciraci, 50 anni, imprenditore in Lombardia: «Inizia una nuova stagione calda. Con l’apertura delle scuole ricordatevi di aumentare la sicurezza dei bambini e delle mogli a casa», scrive sarcastico qualche settimana fa: «L’aumento degli ormoni nei profughi, il cibo scadente somministratogli, le suite malandate, la garanzia scaduta sugli iPhone causerà troppo disagio e qualcuno di loro potrà manifestare la sindrome del macete. Si raccomanda di munirsi di porto d’armi e armi leggere. In bocca al lupo». Ma siamo davvero così in pericolo? «Le armi non sono la soluzione a questa situazione», risponde a “l’Espresso” l’imprenditore: «Penso però che prossimamente queste persone siano in grado di aggredirci a un semplice comando di qualche imam. Condivido l’uso delle armi a scopo difensivo, non offensivo. I bambini sono stati ripetutamente usati allo scopo di inculcare la commiserazione dei cosiddetti profughi». I bambini spesso muoiono. «Converrà con me», dice Antonio Ciraci, «che i rifugiati che stanno attraversando l’Ungheria sono ben diversi dai rifugiati in Italia». Non è vero. Ma qualche preoccupazione sull’altissimo numero di stranieri che non hanno ottenuto asilo è fondata. La loro percentuale sul totale delle persone sbarcate è passata dal 29 per cento del 2013 al 50 per cento attuale. L’aumento dei respingimenti è legato all’arrivo di un maggior numero di cittadini africani da Paesi devastati dalla crisi economica permanente, ma non da guerre o dittature ufficialmente riconosciute dalle commissioni di valutazione. Sono ragazzi giovanissimi e costituiscono quella generazione con scarsa preparazione scolastica e nessuna formazione professionale che la Germania, la Francia, la Svezia rifiutano. Significa così che la metà di quanti sono sbarcati negli ultimi mesi e continuano a sbarcare non riceverà nessun documento, se non il foglio di via: il ministero dell’Interno stima che, concluso il ciclo dei ricorsi ai tribunali amministrativi e al Consiglio di Stato da parte dei respinti, già quest’anno trentacinquemila persone ospitate tra il 2013 e il 2014 diventeranno clandestine. Mantenendo queste percentuali, a loro si aggiungerà la metà degli oltre centomila richiedenti asilo sbarcati quest’anno e così via. Scenario reso ancor più incerto dai numeri ereditati dalla precedente “Emergenza Nord Africa” e dai permessi di soggiorno nel frattempo scaduti e mai più rinnovati: oltre 262mila nel 2011, 166mila nel 2012, 145mila nel 2013 secondo l’Unar, l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali istituito dalla Presidenza del Consiglio, che nell’ultimo rapporto annuale ammette: «Non è dato sapere, tra gli immigrati non comunitari i cui permessi di soggiorno sono scaduti senza essere rinnovati, quanti si siano trattenuti in Italia». Eppure nei Paesi da cui proviene o transita gran parte dei richiedenti asilo africani, come Gambia, Mali e Niger, l’Italia non ha nemmeno un ambasciatore che la rappresenti. E senza rapporti internazionali è impensabile tentare di rallentare le partenze, formare i futuri immigrati, rimpatriare chi non ha diritto all’asilo. Il piano, che in questi giorni ci viene chiesto anche dalla Commissione europea per poter accedere allo smistamento dei profughi tra gli Stati membri, semplicemente non esiste. Torniamo in Veneto. Fabio Brasiliani, portavoce del comitato contro i profughi a Due Carrare, venti chilometri da Padova, annuncia che due africani arrivati in paese sono stati trovati positivi all’epatite B. Mostra perfino il referto medico di uno dei due, un ragazzo di 20 anni, che soltanto lui sa come ha avuto in violazione di ogni norma sulla privacy. Brasiliani però dimentica di spiegare che, come i due profughi, almeno 75 mila venetissimi concittadini sono portatori cronici della stessa forma di epatite: secondo le pubblicazioni dell’Istituto superiore di sanità, l’incidenza nella popolazione italiana è infatti dell’1,5 per cento. Lo scopo è tenere alta la tensione. Ricordate il muro di via Anelli a Padova? Quella barriera di ferro fatta costruire nel 2006 dall’allora sindaco di centrosinistra Flavio Zanonato per separare il quartiere degli immigrati dalle villette a schiera dei veneti. Sgomberarono tutti i palazzi per cacciare gli spacciatori, anche se alcuni stranieri erano proprietari della loro casa. Partito Zanonato, promosso ministro, in città ha vinto la Lega. Ma quei condomini dopo quasi dieci anni sono ancora vuoti: cento appartamenti abbandonati, diventati covo di ratti, piccioni e zanzare. «Chiamiamo, chiamiamo in Comune, ma non vengono più nemmeno a tagliare l’erba», protestano Gianni Borille e Pietro Minin, pensionati. E la casa agli italiani? Solo uno slogan. Joseph Giuseppe, l’aiuto cuoco del Togo da venticinque anni in Italia, se ne sta seduto su una panchina del Giardino Cavalleggeri, centro di Padova. È il suo giorno libero. Osserva due ragazze e tre ragazzi nigeriani, giovanissimi, arrivati da poche settimane. Loro dormono nella caserma Prandina, qui accanto, trasformata in centro d’accoglienza. Si fotografano a turno con il telefonino e caricano gli scatti su Facebook, così gli amici in Nigeria vedranno dove sono arrivati. Risaltano le Nike nuovissime ai piedi di uno di loro. «È una vergogna per l’Europa e per l’Africa. Guarda questi ragazzi», dice Joseph: «Partono senza saper fare un lavoro. Si preoccupano di avere un paio di Nike, il telefonino. Ma nessuno sa, nemmeno loro, cosa faranno tra un anno. Intanto mettono le foto su Facebook, dicono che si sta bene e anche i loro amici partono. Quelli che arrivano dai Paesi dove non ci sono guerre vanno fermati e, se possibile, rimandati indietro. Nessuno di loro da qui racconterà agli amici che hanno lasciato la sofferenza in Africa per venire a soffrire in Europa». Per caso, le piace Salvini? «No, per niente. Con lui si sa da dove si comincia, non dove si finisce. È un coltello a due lame. Ma i governi europei devono fare pressioni sui governi africani per fermare l’emigrazione, prima che sia troppo tardi». Stasera Salvini incontra i leghisti vicino a Padova, le va di andarlo a sentire? «No, se succede qualcosa a lui finisce che mi denunciano e perdo il permesso di lavoro». Ma perché? Andiamo insieme. «Perché sono nero e ho paura».
In seguito alla pubblicazione del suddetto articolo dell’Espresso. Arriva con raccomandata RR, l’11 agosto 2017 da un sedicente studio legale per un personaggio citato nel testo, una minaccia di risarcimento danni, ivi asserendo l’estraneità del suo assistito citato alle vicende narrate secondo infondate e fantasiose considerazioni, intimandomi l’immediato ritiro del libro. Tutto il libro e NON LA LIMITATA RETTIFICA DELL’ EVENTUALE ERRATO. Quando la notizia riportata a scopi didattici o scientifici, scritta da terzi, è preceduta e seguita da altre similari riguardanti lo stesso soggetto che minaccia azioni legali, va da sè che trattasi di notizia sottoposta a diritto di cronaca, contenente: verità, attinenza e continenza, interesse pubblico.
E poi, basta chiedere il ritiro del nominativo. Non ho mai rifiutato l'invito con toni garbati. Non ho nessun interesse a dare visibilità, ma le minacce con me non attaccano: se non ho paura dei mafiosi o dei magistrati, figuriamoci degli altri...
La frase contestata riportata da Fabrizio Gatti sull’Espresso il 14 settembre 2015: “Fabio Brasiliani, portavoce del comitato contro i profughi a Due Carrare, venti chilometri da Padova, annuncia che due africani arrivati in paese sono stati trovati positivi all’epatite B. Mostra perfino il referto medico di uno dei due, un ragazzo di 20 anni, che soltanto lui sa come ha avuto in violazione di ogni norma sulla privacy. Brasiliani però dimentica di spiegare che, come i due profughi, almeno 75 mila venetissimi concittadini sono portatori cronici della stessa forma di epatite: secondo le pubblicazioni dell’Istituto superiore di sanità, l’incidenza nella popolazione italiana è infatti dell’1,5 per cento”.
Di seguito le notizia stampa riguardanti lo stesso fatto e soggetto, di cui si contesta con minacce la fondatezza.
C'è chi specula sui profughi, scrive mercoledì 26 Novembre 2014 "Il Corriere adriatico". «Il Comune di Due Carrare nasconde gli elenchi dei profughi presenti nelle due palazzine di via Fermi. Non sappiamo esattamente quanti ce ne siano». Pierangela Negrisolo, consigliere del gruppo "Prima Due Carrare", ha denunciato il fatto ai carabinieri di Battaglia Terme. Per lo stesso motivo i cittadini che facevano parte della commissione migranti, istituita giusto un mese fa, hanno sbattuto la porta dando le dimissioni. Irrevocabili. Tutto è cominciato giovedì scorso quando alcuni ospiti africani hanno inscenato una protesta silenziosa davanti ai due condomini che li ospitano. Dicevano di aver fame. A loro detta la cooperativa sociale Ecofficina, che gestisce l'accoglienza, non dava loro abbastanza da mangiare. I responsabili di Ecofficina hanno mostrato ai media frigoriferi pieni di provviste. «Per stessa ammissione del vicepresidente di Ecofficina Gaetano Battocchio fino a martedì scorso i profughi erano più di 32 - commenta Fabio Brasiliani, ormai ex componente della commissione - I conti non tornano. La Prefettura, il Comune e la cooperativa ci hanno sempre detto che non sarebbe mai stato sforato il tetto dei 32. E invece oggi scopriamo che non è andata affatto così. Ecco perché il Municipio non vuole fornirci gli elenchi». Il vicesindaco Claudio Garbo replica che «si tratta di dati sensibili. Abbiamo avuto precise istruzioni da parte della Prefettura. Non credo che ai cittadini interessi sapere nome e cognome dei migranti, basta solo il numero totale. Tra l'altro non possiamo divulgare i nominativi, sono coperti dalla privacy. Nessuna volontà di nascondere il numero reale dei presenti. Sono 32: i numeri ci sono stati dati direttamente dalla Prefettura». Il vicesindaco ha poi annunciato che nei prossimi giorni convocherà la commissione migranti. «Mi auguro che i cittadini ci ripensino - aggiunge - Da parte nostra vogliamo portare avanti un percorso costruttivo. Non vorrei che la questione dei profughi fosse stata sollevata ad arte per creare confusione. Guai a fare speculazioni politiche sulle spalle di questi ragazzi». Secondo Brasiliani, ai quali i migranti hanno suonato il campanello di casa dicendogli che avevano fame, sarebbe proprio la cooperativa a cavalcare l'onda per business.
I migranti con i referti dei compagni: "Viviamo con tre malati di epatite B", scrive Mercoledì 2 Settembre 2015 “Il Gazzettino/Il Mattino di Padova”. «Siamo preoccupati. Alcuni profughi mi hanno mostrato dei referti di tre loro compagni di appartamento: risultano essere affetti da epatite b». Fabio Brasiliani abita in via Fermi a Mezzavia di Due Carrare, di fronte alle palazzine dove sono ospitati da un anno 27 migranti. È uno dei "portavoce" degli abitanti autoctoni. In passato ha anche organizzato delle riunioni sulla questione migranti insieme alla vecchia amministrazione guidata dall'ex sindaco Sergio Vason. «Sia chiaro, non vogliamo creare alcun allarme sociale - spiega - Ma la documentazione prodotta da un centro medico specializzato, di cui ora sono in possesso, non lascia certo tranquilli». Nella stessa, alla voce "Antigene di superficie epatite b" l'esito viene indicato come positivo. «Appena sono venuti a conoscenza della cosa, i migranti che condividono l'appartamento con i tre infetti mi hanno contattato. Ormai fra di noi si è creato un rapporto di confidenza. Speravano che potessi aiutarli in qualche modo. Non sono un medico; ho solamente raccolto le loro preoccupazioni». Secondo quanto raccontato da Brasiliani i tre ragazzi non sono in quarantena. «Ho pure parlato con loro - continua - Girano liberamente, fanno le cose di sempre. Vorremmo che le autorità competenti ci rassicurassero in merito a eventuali rischi di contagio». La trasmissione dell'epatite b avviene tramite esposizione a sangue infetto, o a fluidi corporei come ad esempio lo sperma. La malattia provoca un'infiammazione acuta del fegato, vomito, ittero e, raramente, porta alla morte. L'infezione si può prevenire con la vaccinazione. «Può essere che allo stato attuale non ci sia alcun pericolo di contagio - conclude Brasiliani - L'Ulss ci faccia sapere qualcosa». Durante un'assemblea pubblica che si è tenuta qualche mese fa nella sala civica di Mezzavia Maria Grazia D'Aquino, responsabile immigrazione dell'Ulss 16, disse che la situazione era sotto controllo. Nell'occasione illustrò come vengono effettuati gli screening medici una volta che i migranti arrivano nelle strutture di accoglienza della Provincia.
Due Carrare (Pd), migranti positivi ad epatite B, scrive il 2 settembre 2015 "Vvox". Due giovani africani, ospitati a Due Carrare (Padova), sono risultati positivi all’epatite B. La notizia arriva da Fabio Brasiliani, portavoce e coordinatore del comitato di via Fermi, nato all’epoca dell’arrivo dei migranti nel comune padovano. Brasiliani denuncia al Mattino di Padova: «ho parlato con loro e mi hanno riferito che in questo momento non si stanno sottoponendo ad alcuna profilassi. Noi del quartiere siamo consapevoli che la trasmissione del virus dell’epatite B avviene solo per via ematica, ma non è questo il problema. Come cittadini dello stesso rione, dal momento che i nostri figli quotidianamente frequentano il parco giochi dove vanno anche i profughi, abbiamo il diritto di sapere come stanno davvero le cose». Il sindaco di Due Carrare Davide Moro, controbatte: «sono allarmismi privi di fondamento che non fanno altro che creare un’inutile preoccupazione nella gente. Se sapessi che c’è qualcosa che non va in quegli alloggi farei il diavolo a quattro perché sono responsabile della salute pubblica, sia quella dei carraresi che degli immigrati che ospitiamo». L’assessore ai Rapporti con la stampa Gino Favero rassicura: «evidentemente chi ha fatto quelle diagnosi ha ritenuto che non ci fosse alcun pericolo e per questo non ha attivato le procedure previste. All’amministrazione non risulta alcuna emergenza sanitaria in quegli appartamenti e pertanto non sono stati presi provvedimenti».
Epatite B, a Due Carrare altri casi: ora sono sei. Altri tre profughi residenti nelle palazzine di via Fermi a Mezzavia di Due Carrare contagiati dall'epatite b, scrive Sabato 12 Settembre 2015 "Il Gazzettino/Il Mattino di Padova”. In tutto ora gli ammalati sarebbero sei su un totale di 32 ospiti. Sono stati gli stessi migranti ad esibire ieri mattina i referti medici. «Sono arrivato in Italia ad agosto dell'anno scorso e non avevo niente - racconta un ragazzo africano che vuole rimanere anonimo - Quando sono sbarcato a Lampedusa mi hanno fatto i prelievi del sangue ed era tutto a posto. Qualche giorno fa ho scoperto di aver preso l'epatite b». I compagni di appartamento sono preoccupati. «Gli operatori della cooperativa sociale Ecofficina ci hanno consigliato di lavare bene piatti e forchette - commenta un altro giovane - Ma non ci hanno mai detto che alcuni di noi avevano preso l'epatite b. Quasi volessero tenerci all'oscuro di tutto». I migranti che, analisi alla mano, dicono di essere contagiati, affermano di non essere sottoposti a particolari profilassi. «Non stiamo prendendo medicine - spiegano - Vorremmo capire a che rischi stiamo andando incontro». «Dopo la scoperta dei primi tre casi, alla fine di agosto, abbiamo fatto tutti dei prelievi di sangue - sottolineano - È stato allora che sono saltati fuori gli ulteriori tre casi». Fabio Brasiliani, portavoce del comitato di via Fermi, intende vederci chiaro: «Non vorremmo che la situazione ci sfuggisse di mano. Le autorità competenti ci illustrino cosa sta accadendo. Questi ragazzi si rivolgono spesso a me per avere indicazioni in merito a varie questioni. Ho spiegato loro che non sono un medico, desiderano comunque parlarmi perché dicono di non avere alcun referente che li possa aiutare». L'assessore Gino Favero si mostra sereno: «Abbiamo un forte senso e rispetto delle istituzioni - precisa - Ci preoccuperemo se e quando la struttura complessa di igiene e di sanità pubblica dell'Ulss ci avviserà in maniera ufficiale che esiste un problema. Non un istante dopo, ma neanche un secondo prima». La trasmissione dell'epatite b avviene tramite esposizione a sangue infetto o a fluidi corporei quali sperma e liquidi vaginali. La malattia provoca un'infiammazione acuta del fegato, vomito, ittero e, raramente, porta alla morte. L'infezione si può facilmente prevenire con apposita vaccinazione.
Profugo trovato con la droga nella palazzina di Due Carrare. Un migrante nigeriano di 24 anni in attesa del riconoscimento dello status di profugo, C. I., residente in una delle palazzine di via Fermi nella frazione di Terradura di Due Carrare..., scrive l'11 marzo 2016 "Il Mattino di Padova". Un migrante nigeriano di 24 anni in attesa del riconoscimento dello status di profugo, C. I., residente in una delle palazzine di via Fermi nella frazione di Terradura di Due Carrare gestite dalla cooperativa sociale Ecofficina, ieri è stato denunciato a piede libero dai carabinieri del Nucleo Radiomobile di Abano Terme per spaccio di droga. Gli uomini dell’Arma in borghese intorno alle 15 hanno perquisito, su autorizzazione della Procura della Repubblica di Padova, la palazzina bianca dove ci sono tre alloggi destinati all’accoglienza dei migranti. Nella stanza di C. I. hanno trovato 15 grammi di marijuana suddivisa in 6 dosi pronte per lo spaccio e 250 euro in contanti ritenuti provento dell’attività illecita. I militari sono arrivati al nigeriano dopo una lunga attività di indagine, svolta con appostamenti anche all’interno delle case private che si trovano intorno all’edificio gestito da Ecofficina. Il ventiquattrenne è stato portato in caserma e dopo la denuncia per spaccio è stato rimesso in libertà vista la modesta quantità di stupefacente trovata in suo possesso. «Dobbiamo ringraziare i carabinieri che tengono sott’occhio queste persone spesso lasciate in balia di se stesse, che conducono una vita non certo cristallina» commenta Fabio Brasiliani del Comitato di via Fermi. «Noi residenti del quartiere siamo convinti che quella palazzina sia da tempo una base di spaccio dove vengono ad approvvigionarsi anche minorenni. Questo fatto conferma i nostri dubbi sulla gestione di quei migranti e aumenta la preoccupazione tra le famiglie che vivono in questa zona». Per il nigeriano-spacciatore dopo l’episodio di ieri, il riconoscimento dello status di profugo da parte della commissione territoriale forse si allontana per sempre. (g.b.)
NON SONO RAZZISTA, MA CHI PENSA AGLI ITALIANI?
Gli italiani se ne vanno e spesso non ritornano. Sono già 100 mila quest’anno i connazionali andati a cercare fortuna all’estero. Un fenomeno in grande crescita. Che colpisce anche il Nord, scrive Bruno Manfellotto su "L'Espresso". E se i muri ideologici, giuridici, di filo spinato che si alzano sempre più numerosi – Macedonia, Ungheria, Gran Bretagna, Austria – dovessero fermare anche i nostri emigranti? Sì, perché gli italiani hanno ricominciato a lasciarsi alle spalle il loro Paese. Come cento, come cinquanta anni fa. Il fenomeno, di cui colpevolmente si parla ancora troppo poco, non è nuovissimo, ma si sta ora aggravando, diventa stabile e continuo. Preoccupante. Tanto che dall’inizio dell’anno sono ormai più i connazionali che se ne vanno in cerca di fortuna degli stranieri che si fermano in Italia: questi scappano dalla fame e dalla guerra e arrivano qui, ma per la maggior parte proseguono. Lo hanno già segnalato Fondazione Migrantes, Caritas, l’Istat, ma ormai si sprecano gli studi che svelano un fenomeno di cui viene raccontata solo l’altra faccia, quella della paura per chi arriva, non dell’angoscia per chi lascia. L’Italia è stata terra di emigrazione alla fine dell’Ottocento, poi negli anni Trenta del Novecento, e ancora nei Cinquanta fino ai primi Settanta. Ma dagli anni Duemila il flusso è ricominciato: 90mila nel 2011, centomila l’anno scorso, altrettanti nel 2015. Finora. È nata “la nuova emigrazione italiana” (titolo di una ricca raccolta di saggi curata da Iside Gjergji per l’Università Ca’ Foscari di Venezia), con molti caratteri simili alle precedenti, ma anche con significativi elementi di novità. A spingere lontano tanti italiani è, ora come allora, la mancanza di un lavoro, o un lavoro mal pagato, o un reddito che non garantisce più lo stesso tenore di vita. Ad andarsene non sono soltanto i giovani, come raccontano anche le storie dell’emigrazione che fu. Anche i Paesi di destinazione sono per lo più quelli di sempre: Stati Uniti, Brasile e Argentina; va forte l’Australia, che non ha mai ricevuto tante richieste italiane di “visto”; sempre appetibili Germania, Svizzera e Francia; ma oggi è l’Asia – in particolare Giappone, Singapore, Thailandia e soprattutto Cina – la nuova frontiera della speranza. Comunque, è la Gran Bretagna, addirittura pronta a vietare l’ingresso a chi cerca lavoro, la terra promessa degli italiani in fuga: 71,5 per cento in più da un anno all’altro. A Londra abitano ormai 250 mila italiani, quanti ce ne sono a Verona, più che a Messina, più che a Siracusa e a Monza messe assieme. Ed ecco le novità. In questa ennesima ondata migratoria sono in costante aumento le donne, e non sempre perché al seguito dei mariti. A svuotarsi poi non sono più soprattutto le campagne, come in tutti gli altri grandi esodi, ma le città grandi e piccole dove sempre più scarse sono le occasioni di lavoro. Stavolta, inoltre, non è fuga solo dal Sud povero e abbandonato, ma anche dal Nord ricco e operoso, spia evidente di una crisi diffusa in tutto il Paese: è infatti la tenace Lombardia ad aver pagato nel 2014 il prezzo più alto in termini di abbandoni, il doppio del Veneto e del Lazio. Ancora. Dicono i numeri che oltre ai giovani tra i 18 e i 34 anni (36,2 per cento), dei quali solo uno su tre è laureato, partono gli uomini tra i 35 e i 49 anni (26,8) a conferma che la stagnazione dell’economia ha colpito molto in profondità. Del resto, la disoccupazione viaggia ancora intorno alla rispettabile cifra del 12 per cento e quella giovanile – di molto superiore al 40 – è ancora troppo alta. Tanti sono anche i minori, quasi uno su cinque, indice che a cercare una nuova vita sono intere famiglie. In altre parole, non stiamo esportando solo futura classe dirigente - che regaliamo a Inghilterra, Stati Uniti, Germania - ma una parte consistente di popolazione caparbia, che non si rassegna, che cerca altrove riconoscimenti e soddisfazioni che qui non ha. Un campanello d’allarme. Da non sottovalutare. Per molti dei nostri nuovi emigranti, l’Italia ha significato negli ultimi vent’anni potere delle caste, corruzione, inquinamento criminale, scarso riconoscimento del merito, vere cause di mancanza di lavoro o di lavori marginali e umilianti. Per ribellarci al triste destino dello zero virgola e per ricostruire un solido tessuto morale, insomma per ritrovare la forza dell’ottimismo, bisognerà impegnarsi ancora molto. Per chi va via e per chi resta.
Università, la grande fuga. Da Napoli a Palermo, gli atenei meridionali perdono matricole, docenti, fondi e punti nelle classifiche. Un fenomeno che riflette e accentua il divario del Paese, scrive Sabina Minardi su “L’Espresso”. In vetta il Nord, a partire da Siena. E Bologna, Padova, Trento, secondo i ranking del Censis per la “Grande Guida Università” di “Repubblica”. In basso il Sud, e un gap con le regioni settentrionali che si consolida di anno in anno. Ai primi posti Verona, Trento, Milano, Bologna, Padova. In fondo Calabria-Rende, Palermo, Catania, Napoli, Cagliari, Bari, per la Classifica Università 2015 del Sole 24-Ore. Brutali, sintetiche, senza attenuanti, le liste sui migliori atenei fotografano una realtà spaccata in due. Esattamente come l’Italia: il Sud cresce meno del resto del Paese; il Pil continua a scendere mentre al Nord sale; il tema delle risorse ferme al palo per incapacità e cattiva politica riaccende la questione meridionale. E non c’è solo la desertificazione industriale a far paura: anche lo stato delle università del Sud riflette quel rischio di “sottosviluppo permanente” additato dallo Svimez. Storici avamposti di cultura come l’università Federico II di Napoli faticano a mantenere il numero degli studenti. Presidi territoriali come l’Università di Palermo o di Bari arrancano dietro più giovani atenei del Nord, perdendo il loro ruolo di punto di riferimento. La crisi del Mezzogiorno è anche erosione di un intero patrimonio culturale. Meno studenti; finanziamenti ridotti; sostegno scarso al diritto allo studio. E territori che offrono sempre meno. L’elenco dei mali dell’università del Sud è lungo. Ma ce n’è uno che è già causa ed effetto della cronicizzazione del malessere: l’esodo verso le regioni del Nord. «La fuga intellettuale è la nuova emigrazione meridionale», dice Roberto Lagalla, il rettore uscente dell’università di Palermo: «Accade alla fine del liceo o del primo ciclo dell’università, ed è dettata da due ragioni: la depressione del mondo delle imprese e l’idea che al Sud si dia più sostegno alla marginalità sociale che ai talenti e a chi ha competenze più alte. Così si favorisce la fuga dei più bravi». In Sicilia, il 30 per cento degli studenti residenti prosegue gli studi al Nord. Intanto il Politecnico di Torino dà i numeri delle preimmatricolazioni: oltre 10 mila, il 60 per cento da Puglia, Sicilia, Sardegna, Calabria. «Sono preoccupatissimo per l’emigrazione studentesca», gli fa eco Gaetano Manfredi, rettore della Federico II di Napoli, 85 mila iscritti e 10 mila laureati all’anno, ultima nella classifica Censis: «Se una regione perde il suo capitale umano non ha futuro. La colpa non è di chi va via - seguire le opportunità è legittimo- ma della meritocrazia messa in discussione». Il tasso di occupazione è, per Almalaurea, del 52,5 per cento tra i laureati del Nord e del 35 al Sud. A un anno dalla laurea i ragazzi del Nord hanno uno stipendio più alto del 24 per cento rispetto ai colleghi meridionali. Non a caso, a cinque anni dalla tesi le regioni del Sud, secondo il “Profilo dei laureati 2014”, perdono il 39 per cento dei laureati. Partendo da un numero già più basso: se la media nazionale, nella fascia 25-34 anni, è del 21 per cento (contro il 39 in ambito Ocse), i laureati al Sud sono il 18,9. La Puglia è tra le prime regioni investite dalla diaspora. «I ragazzi ricchi del Nord vanno all’estero; quelli del Sud, che possono permettersi di studiare fuori, vanno al Nord; quelli poveri restano qua», nota Antonio Felice Uricchio, rettore dell’università di Bari, 50 mila studenti, al settimo posto tra gli undici mega atenei per il Censis: «Questa università ha 8000 studenti meritevoli che, per ragioni di reddito, non pagano le tasse. L’università ha un ruolo sociale decisivo: a Bari, l’80 per cento degli studenti ha genitori non laureati. Lo studio è ancora un ascensore sociale». Cresce il numero di chi non la pensa così. Calo demografico. Futuro incerto. Minore disponibilità economica. E una sensazione avanza: che studiare non serva più. Scrive il Rapporto Svimez: «Si inizia a credere che studiare non paghi più, alimentando una spirale di impoverimento del capitale umano, determinata da emigrazione, lunga permanenza in uno stato di disoccupazione e scoraggiamento a investire nella formazione avanzata. I 3 milioni 512 mila giovani Neet (che non hanno e non cercano una occupazione) nel 2014, sono aumentati di oltre il 25 per cento rispetto al 2008. Di questi, quasi due milioni sono donne, e quasi due milioni sono meridionali». Risultato? Rispetto a dieci anni fa, secondo l’Anagrafe degli studenti del Ministero dell’Istruzione, il Sud ha perso 45 mila iscritti all’università, mentre in alcune regioni del Nord come Lombardia, Piemonte e Trentino-Alto Adige sono cresciuti. Dal 2008 al 2012 la Sicilia ha perso il 19,7 per cento di studenti, seguita da Molise e Umbria (-18,7 e -18,6), e Puglia (-14,8). «La Campania soffre meno la migrazione studentesca fuori regione -la percentuale è del 15 per cento- e molto di più la fuga dei laureati», sottolinea Manfredi: «Il profondo calo delle iscrizioni è un fenomeno pericoloso perché riguarda le fasce più deboli. Specialmente i ragazzi delle scuole tecnico-professionali non proseguono gli studi. Non ce la fanno, soprattutto per il venir meno del sostegno del diritto allo studio». L’università vive un’emergenza nel suo complesso: è fanalino di coda rispetto al resto d’Europa per risorse investite. Al Sud l’effetto è più evidente. «Le politiche nei confronti dell’università non sono irrilevanti rispetto al calo della popolazione studentesca», conferma Stefano Paleari, presidente della Conferenza dei rettori universitari italiani e rettore dell’Università di Bergamo: «L’università ha subito in questi anni i tagli più grossi della spesa pubblica: ha perso il 15 per cento delle risorse umane e il 13 per cento dei fondi (che arrivano al 20 considerando i finanziamenti corretti a causa dell’inflazione). Un quinto delle risorse in 5 anni. Ma se si tolgono i soldi per il diritto allo studio l’articolo 34 della Costituzione, sul diritto per tutti di raggiungere i gradi più alti degli studi, non è rispettato». Il Fondo di finanziamento ordinario è di circa 6 miliardi e mezzo. «Concretamente, le università del Sud hanno perso in media il 18,8 per cento del Fondo di finanziamento; quelle del Nord il 7», sostiene il rettore di Palermo Lagalla: «La mia università conta 44 mila iscritti: 1000-1500 abbandonano dopo il primo anno perché non riescono a pagare le tasse. La regione copre il 37 per cento. Non basta. In questo ateneo gli immatricolati sono stati 6.500 nel biennio 2012-2013; 6618 tra il 2013 e il 2014, 6644 nel 2014-15. Nonostante le difficoltà sono cresciuti. Gli iscritti, tra il 2011 e il 2015, sono diminuiti del 20-25 per cento: ma abbiamo laureato 11mila fuori corso, promuovendo l’idea che l’università non è luogo in cui stazionare». La quota di giovani che termina gli studi nei tempi previsti è, sul piano nazionale, in crescita: il 15 per cento nel 2004, il 43 nel 2013. Anche su questo fronte al Sud è un’altra storia. Tante università, forse troppe: l’Abruzzo, un milione 300mila abitanti, ne ha tre (L’Aquila, Teramo, Chieti-Pescara); l’Emilia Romagna quattro (Bologna, Ferrara, Reggio Emilia, Parma) e si potrebbe continuare. Un corpo docente vecchio: su 12 mila professori, solo 8 - stigmatizza Paleari - hanno meno di 40 anni. Un nepotismo talvolta sfacciato, da Roma a Palermo, da Napoli a Bari. Alla riforma Gelmini l’università non è certo arrivata come un corpo integro. E dal Sud arrivano segnali ambigui: voti di laurea generalmente più alti; test da numero chiuso aggirabili con la frequenza di università private (come l’ateneo romeno, annunciato ad Enna). Ma alcuni meccanismi favorirebbero ora le università già floride e penalizzerebbero le altre. «L’università vive una situazione paradossale: da una parte ha subito grossi tagli; dall’altra si è data un sistema di valutazione. È nata l’Anvur, che accredita le università; ha dato vita ai “corsi standard”, che prevedono un numero di docenti in base a quello degli studenti. Ma non esiste un parametro che misuri l’efficienza: gli sforzi fatti con le risorse a disposizione», continua Paleari: «Le classifiche fotografano una realtà innegabile: Lombardia, Veneto e Piemonte sono un forte magnete perché sono lì le maggiori concentrazioni industriali». In quattro anni il Sud ha perso 281 “punti organico”, la possibilità per un ateneo di assumere nuovi professori, e svecchiare il corpo docenti: il Centro Italia ne ha persi 60, il Nord ne ha guadagnati 341, informa l’associazione Return on Academic Research: è come se 700 ricercatori fossero stati trasferiti dagli organici del Sud a quelli del Nord. I punti sono collegati al bilancio, tasse studentesche incluse. «Centinaia di docenti e ricercatori in meno: un condizionamento forte ai corsi che un’università può offrire», dice Uricchio: «Abbiamo perso 500 docenti in 5 anni, a fronte di 50 nuovi professori. I criteri per l’assegnazione delle risorse vanno ripensati tenendo conto di diverse realtà: le tasse universitarie qui sono più basse. Necessariamente». «Nelle città le università hanno un ruolo fondamentale. Nel Mezzogiorno di più: fabbrica di cultura e di legalità dove lo Stato è più in difficoltà», dice Manfredi: «Come si recupera? Investendo in ricerca, formazione, riportando il merito al centro. Abbiamo avviato un programma di rientro di cervelli dall’estero. Abbiamo bisogno di più servizi: i trasporti, ad esempio, sono carenti». «L’università di Bari punta su placement e internazionalizzazione», dice Uricchio. «Dobbiamo abituarci a fare di più con meno risorse», aggiunge Lagalla: «L’inserimento nel lavoro dei nostri laureati è pari a quello dei laureati del Nord. Palermo è tra le prime quindici università per internazionalizzazione. Siamo penalizzati per attrattività. Ma in un quadro di competitività impari abbiamo mantenuto vitalità». «Si potrebbero collegare le lauree specialistiche in un Erasmus interno», auspica Paleari: «Non possiamo rassegnarci a far coincidere la geografia delle università con la geografia della produzione industriale. L’università è una delle poche istituzioni unificanti del Paese: entri in un ateneo qualunque e ti connetti col wi-fi, sei parte di una comunità. Le università sono istituzioni fondanti delle città europee: Manchester, Stoccarda, Bologna». Se ne parlerà a Pavia, dal 9 all’11 settembre, in un convegno intitolato “Università e città”. In sintesi: togli l’università, un territorio muore.
“Tranquilli amici, la Calabria non esiste”, scrive Piero Sansonetti su "Il Garantista". Un giorno un cronista di un giornale del nord andò dal suo caporedattore, un po’ agitato, e gli chiese: “Cosa devo fare con il ciclone che ha sconvolto la Calabria, provocando danni enormi, isolando paesi, città, campagne, facendo mancare acqua e luce, trascinando decine di macchine nel mare? E’ una apocalisse: è da prima pagina. Forse dovremmo aprirci il giornale”. Il suo capo redattore alzò lo sguardo, sornione, e con tutta calma domandò: “c’entra la ‘ndrangheta in questa storia?”. Il cronista dovette ammettere che la ‘ndrangheta stavolta non c’entrava. E il caporedattore allora gli spiegò che la Calabria è la terra della ‘ndrangheta e della criminalità, e la Calabria interessa ai giornali solo se si parla di ‘ndrangheta. Per il ciclone basta qualche riga in una pagina interna. Molto interna…Ieri, più o meno, le cose devono essere andate così nelle redazioni di quasi tutti i giornali del centro-nord. “Repubblica” sistema la Calabria a pagina 21 e il “Corriere” fa la stessa scelta. Se avete letto il “Garantista” o un altro giornale calabrese sapete cosa è successo, l’altro giorno, nel litorale Ionico. E conoscete l’ampiezza dei danni. Il Presidente Oliverio ha chiesto che sia dichiarata la calamità naturale. Né il governo, né i vertici dello Stato, né i grandi giornali sono rimasti molto impressionati, e hanno tutti continuato a scannarsi, anche nei partiti, un po’ sulla questione del Senato e un po’ sul litigio tra Gianni Cuperlo e Sergio Staino. Cosa sarebbe successo se l’uragano che ha devastato il cosentino avesse colpito Genova, o Firenze o magari persino Vicenza? L’iradiddio, giustamente. Tutti i giornali nazionali avrebbero dedicato all’avvenimento l’apertura e cinque o sei pagine interne, apertura anche dei telegiornali, decine di inviati, dichiarazioni e impegni solenni del Presidente della repubblica, del premier, dei ministri, polemiche feroci dei partiti di opposizione. Ma la Calabria non esiste. Tranquilli. Non può esserci stata nessuna calamità naturale, in Calabria, perché la Calabria non esiste. Esiste la ‘ndrangheta, non la Calabria.
Il Sud dimenticato dalle mappe della politica. Crollo delle nascite. Città abbandonate. Economia immobile. E nessuna strategia. Un terzo del Paese è come dimenticato. Per il governo, la sfida più difficile. Sempre che voglia davvero affrontarla, scrive Marco Damilano su “L’Espresso”. Desertificazione industriale. Assenza di risorse umane, imprenditoriali e finanziarie. Rischio povertà. E crollo demografico: «Nel 2014 al Sud si sono registrate solo 174 mila nascite, livello al minimo storico registrato oltre 150 anni fa, durante l’Unità d’Italia: il Sud sarà interessato nei prossimi anni da uno stravolgimento demografico, uno tsunami dalle conseguenze imprevedibili». Sottosviluppo permanente. Prima della pausa estiva il rapporto 2015 dello Svimez aveva fotografato la catastrofe del Mezzogiorno dopo quasi settant’anni di Repubblica. Un paese povero in un paese ricco, un paese immobile in un paese in trasformazione. Nelle regioni del Sud si viaggia in pullman e per arrivare a Matera, capitale della cultura europea 2019 si prende la ferrovia appulo-lucana. Un mondo separato, per parafrasare Pier Paolo Pasolini, che condiziona la fragile crescita italiana e il calo della disoccupazione rivelato dall’Istat in questi giorni. Un mondo dimenticato, sparito dalle mappe della politica italiana, terra di approdo per i migranti in arrivo dall’Africa e alla deriva nel Mediterraneo, terra di fuga per le giovani generazioni. Un mondo che sprofonda nell’illegalità e nel sopruso mafioso. Inevitabile banco di prova per il governo di Matteo Renzi che in seguito alla pubblicazione del rapporto Svimez e alla lettera aperta di Roberto Saviano («Caro premier, il Sud sta morendo») aveva convocato all’inizio di agosto una direzione del Pd sul Mezzogiorno. Con l’annuncio per l’autunno degli stati generali dello sviluppo convocati dal ministro Federica Guidi. E un progetto del Pd da presentare nei prossimi giorni, prima dell’approvazione della legge di Stabilità di fine mese. Un masterplan, il piano Renzi per il Sud. Nell’attesa, il 12 settembre il premier sarebbe dovuto essere a Bari per inaugurare la fiera del Levante, tradizionale vetrina del presidente del Consiglio di turno per impegni, promesse, assicurazioni sulle politiche meridionali destinate a essere disattese. Invece Renzi è volato a New York per assistere alla partita di tennis (finale di US Open) tra Flavia Pennetta (di Brindisi) e Roberta Vinci (di Taranto). Il primo a farlo (inaugurare) fu Benito Mussolini, nel 1934, per la quinta edizione, poi tutti i capi di governo democristiani, a partire dal pugliese Aldo Moro, tradizione interrotta da Silvio Berlusconi. A Bari Renzi è intervenuto un anno fa, nel 2013 negli stessi padiglioni lanciò la sua candidatura alla segreteria del Pd. Mai, però, si è realizzata una condizione politica così favorevole. Tutti i presidenti delle regioni meridionali, dall’Abruzzo alla Sicilia, passando per Campania, Puglia, Molise, Basilicata, Calabria e Sardegna, militano nell’area del Partito democratico e guidano giunte di centrosinistra: il campano Vincenzo De Luca, il pugliese Michele Emiliano, il calabrese Mario Oliverio, l’abruzzese Luciano D’Alfonso, il lucano Marcello Pittella, il sardo Francesco Pigliaru, il molisano Paolo Di Laura Frattura, il siciliano Rosario Crocetta. Un parterre solo ideale, per adesso. Michele Emiliano li avrebbe voluti riunire tutti all’inaugurazione della fiera del Levante: i governatori sudisti del Pd seduti in prima fila ad ascoltare Renzi. Ma la foto di gruppo, almeno per ora, non si farà. Da Palazzo Chigi è partito un giro di telefonate con un invito esplicito: restate a casa. Meglio stroncare sul nascere qualunque ipotesi di partito del Sud dentro il PdR, il partito di Renzi. E, in ogni caso, a fare le convocazioni deve essere soltanto uno, il premier-segretario, non il governatore pugliese, da mesi nel mirino degli spin renziani come potenziale ribelle contro il governo nazionale. Tra Renzi e Emiliano i rapporti sono interrotti da maggio, da quando l’ex sindaco di Firenze chiamò l’ex sindaco di Bari per avvisarlo gelidamente che non sarebbe andato in Puglia a fare campagna elettorale per lui. Colpa della posizione di Emiliano ostile alla riforma della scuola. Una freddezza che svela come la potenza del partito renziano al Sud (nel nuovo Senato previsto dalla riforma costituzionale, composto dai designati dei consigli regionali, a Palazzo Madama la rappresentanza del Meridione sarebbe quasi interamente in mano al Pd), in apparenza un monocolore, sia nella realtà un poliedro con molte sfaccettature. Tanti e diversi sono i Pd almeno quanti sono i Sud d’Italia. E la grande occasione per il Pd potrebbe rovesciarsi in una terribile responsabilità. In mezzo ad alcuni timidissimi segnali di ripresa, flebili luci accese nel buio pesto disegnato dal rapporto Svimez. Il primo aumento dell’occupazione da molti anni a questa parte, il + 0,8 per cento del primo trimestre 2015 segnalato da Confindustria. L’incremento di spesa dei fondi strutturali europei, all’inizio di agosto il dipartimento per lo sviluppo e la coesione economica del governo ha pubblicato gli ultimi dati, le spese effettivamente sostenute fino al 30 giugno 2015 per 52 programmi operativi regionali sono 37,3 miliardi di euro, il 79,8 per cento delle risorse programmate nel periodo 2007-2013, in aumento rispetto al 2014, anche se alla fine dell’anno resteranno da spendere 9,4 miliardi di euro. E anche se, come hanno dimostrato gli economisti Emanuele Ciani e Guido De Blasio in un report pubblicato da lavoce.info , il problema non è il quanto si spende, ma il come, e l’impatto effettivo dei finanziamenti sull’occupazione è vicino allo zero: «Un aumento dell’esecuzione finanziaria degli stanziamenti potrebbe non essere, di per sé, sufficiente: visto che questi finanziamenti non sembrano essere in grado di apportare benefici, varrebbe la pena di impegnarsi per spenderli meglio». Conclusione in linea con quanto affermato da Renzi: basta con i piagnistei e con la richiesta di nuove risorse, di nuova spesa pubblica, per il Sud servono investimenti privati. E un racconto diverso, far emergere un altro meridione nell’immagine trasmessa all’estero. La comunicazione, lo storytelling, l’apriti Sesamo di ogni politica renziana. Che rischia di apparire lontano. E di infrangersi su piaghe antiche, la presenza della mafia e la sua capacità di inquinare la politica e l’economia, e su difficoltà più recenti, l’assenza di una classe dirigente nazionale che metta al centro la questione meridionale, il rapporto distorto con i territori locali. Le classi dirigenti «estrattive», le ha definite l’ex ministro Fabrizio Barca, «che drenano risorse dai territori ostacolandone la modernizzazione, quelle leadership locali che tendono a far sì che tutto rimanga immobile affinché possano conservare, senza intralci, le loro posizioni dominanti». Quelle leadership oggi sono nel Sud in gran parte espressione del Pd. E tocca a loro incarnare il cambiamento, la via alla trasformazione del Sud, se mai ne esiste una. Ma nel Mezzogiorno oscillano tra modelli storici e letterari, tra i gattopardi e i viceré, con l’eterna tentazione del ribellismo, i Masaniello scagliati contro il potere centrale. «Renzi torna a centralizzare le funzioni dello Stato, ma non c’è possibilità di farlo per via partitica, bisogna passare dalle macchine istituzionali, al Sud più che altrove», spiega il politologo Mauro Calise. «Torniamo a un sistema pre-moderno, neo-imperiale. Al centro c’è il leader che non può controllare tutto. Deve sperare di trovare nel meridione una classe di feudatari che riescano a fare da traino ai loro territori. Governatori decisionisti, con il piglio e la determinazione necessari per trascinare la loro regione nel processo di riforma dello Stato che Renzi sta cercando di promuovere dall’alto». Il governatore della Campania Vincenzo De Luca è stato il più rapido ad aderire a questo modello. Poteva trasformarsi in una bomba a orologeria per Renzi che aveva provato ad ostacolare la sua candidatura. Ma ora che è stato eletto ed è stato superato l’ostacolo della legge Severino che lo avrebbe dovuto sospendere dalle funzioni di presidente, De Luca punta a conquistare la leadership al Sud del nuovo corso renziano con la stessa formula del premier: concentrazione di potere nelle mani del leader e decisionismo. In una regione dove il governo di Roma fatica a decidere. Il sindaco di Napoli Luigi De Magistris proclama la città territorio de-renzizzato, il commissariamento di Bagnoli continua a essere rimandato nonostante le promesse di Renzi. E la nuova classe dirigente non si vede. A Salerno, per la successione di De Luca, sono in corsa i figli, Piero e Roberto. A Napoli il Pd ha divorato un nome dopo l’altro e alla fine resta in piedi il sindaco degli anni Novanta Antonio Bassolino che si gode sornione lo spettacolo della riabilitazione totale anche da parte dei suoi nemici storici. Come De Luca che ha affidato il compito di rimettere in moto la disastrata macchina burocratica alla vice-capo di gabinetto Maria Grazia Falciatore che affiancò Bassolino in regione. In Puglia Emiliano sembra seguire la strada opposta: scatenare l’orgoglio del territorio, «sono il presidente della Puglia, non del Pd», anche a costo di dare qualche dispiacere all’uomo di Palazzo Chigi: sulla riforma della scuola, sulle trivellazioni, sul decreto Ilva, sullo stop al gasdotto azero in Salento, il Tap. Mantiene rapporti trasversali, dal dialogo con gli ex berlusconiani come Raffaele Fitto e con il Movimento 5 Stelle, a lungo corteggiato con l’offerta di un assessorato. «Governo in una condizione di Ulivo 2.0, sto cercando di mettere insieme un’alleanza che permetta al Pd nazionale di non dover dipendere da Denis Verdini sulla riforma del Senato», spiega Emiliano che si è appena dimesso dalla carica di segretario del Pd ma che in Puglia rappresenta decisamente l’uomo forte. «Io ho detto a Renzi: vieni ad abbracciare il Sud. Il Sud è la mafia, ma anche l’antimafia, siamo noi la causa del nostro sottosviluppo ma anche la chiave della nostra possibile rinascita. Renzi deve sapere che noi siamo disponibili, ma non possiamo essere convocati a bacchetta o sottoposti a strategie improvvisate». E c’è infine il modello siciliano rappresentato da Rosario Crocetta: desideroso di accreditarsi ma isolato nel Pd nazionale. I tanti Pd sono chiamati a governare i drammi e le emergenze dei tanti Sud d’Italia. Se lo sforzo dovesse fallire un pezzo di elettorato meridionale, come in altre stagioni della storia repubblicana, è pronto alla rivolta, al voto per il Movimento 5 Stelle, nella scomparsa dei tradizionali referenti politici, la sinistra, il moderatismo. Per questo è sulla nuova questione meridionale che si giocherà la vittoria o la sconfitta del governo di Roma, di Matteo Renzi.
La moria degli avvocati nel sistema forense italiano. Secondo una riforma adottata dal Parlamento, chi non è ammanicato col sistema forense giudiziario, non sopravvive. I retroscena di come ci si abiliti all’avvocatura o alla magistratura.
Chi studia giurisprudenza pensa che vale la forza della legge. Chi come me ha esperienza e perizia, afferma che vale la legge del più forte. Ossia: nei tribunali la prassi fotte la legge. In tutta Italia.
L’unico consiglio che io posso dare è che, ormai in questa Italia, è meglio non fare nulla, perché si fotte tutto lo Stato, e non avere nulla, perché si fottono tutto i legulei.
Già, i legulei. I giornalisti approssimativi e disinformati da sempre ce la menano sul dato che in Italia ci siano 250 mila avvocati con la tendenza all’aumento di 15 mila unità all’anno. A loro è imputata ogni sorte di maldicenza. Al loro incremento numerico è addebitata la responsabilità della deriva della giustizia in Italia.
Cosa più falsa non c’è.
Sicuramente tra gli scribacchini ci sarà qualcuno che avvocato lo è o comunque ha partecipato invano all’esame per diventarlo e quindi la verità è a loro portata.
Abilitazione all’avvocatura nel sistema forense italiano
Eppure si sottace o si continua a negare l’evidenza sul come ci si abiliti all’avvocatura, alla magistratura, o ad ogni altra professione, così come attestato dalle sentenze dei Tar di tutta Italia. Un esame truccato nelle voglie dei commissari. Un sistema insito in tutti gli esami o i concorsi pubblici.
Abilitazione uguale a omologazione. Subisci e taci e non rompere il cazzo. Se sei diverso e ti ribelli: sei fuori.
Oggi c’è il paradosso che, a prescindere dall’esame truccato di abilitazione, non conviene più parteciparvi, in quanto, pur superandolo, non ci si può iscrivere agli albi per esercitare la professione.
Un ostacolo ulteriore per chi entra, un impedimento a proseguire per chi già c’è.
Ecco perché in tempo di crisi non si parla dell’imminente moria dei cosiddetti “pesci piccoli” forensi.
E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo“, letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia e alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it, mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu .
Non paghi di aver partorito in Parlamento una riforma forense contro l’inclusione dei giovani nel mondo leguleico, i marpioni, sempre in Parlamento, hanno adottato un riforma, affinché chi sia entrato nel loro autarchico mondo venga espulso per stato di necessità. E cioè sono coloro che non ben ammanicati nel sistema forense giudiziario non ce la fanno a supportare le inani spese di gestione della professione.
Di questo nessuno ne parla. Ed aimè tocca a me farlo per una categoria che non merita solidarietà, ma solo commiserazione.
Da sempre il popolo forense si divide in due parti.
I dinosauri privilegiati con degni natali e con potere in Parlamento, ma genuflessi alla magistratura;
i loro followers per ignavia o per necessità, ossia i praticanti e i giovani avvocati.
Quanto costa mantenersi alla professione di avvocato nel sistema forense italiano
Il 7 agosto 2014, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha approvato il Regolamento attuativo dell’art. 21 della Legge Professionale n. 247 del 2012, che impone a tutti gli avvocati, iscritti all’apposito albo, l’iscrizione obbligatoria anche alla Cassa Forense, con versamento di un contributo di importo fisso indipendentemente dalle condizioni reddituali.
I contributi minimi dovuti dagli iscritti, rivalutati per ogni anno di iscrizione alla Cassa, sono i seguenti:
a) Contributo minimo soggettivo: € 2.780,00;
b) Contributo minimo integrativo: € 700,00;
c) Contributo di maternità: € 151,00.
Il regolamento prevede: o paghi o ti cancelli dall’Albo e nulla valgono le presunte agevolazioni previste.
La conseguenza immediata di tale provvedimento è che, di qui a poco, circa cinquantamila avvocati italiani, soprattutto più giovani, rischiano di sparire dagli albi professionali, in quanto impossibilitati a far fronte agli onerosi contributi obbligatori richiesti! Molti avvocati con un reddito basso e insignificante non possono iscriversi alla Cassa per mancanza di liquidità economica e rischiano, pertanto, di subirne le relative conseguenze, ovvero la cancellazione forzata ed obbligata dai relativi albi professionali di appartenenza. Il versamento obbligatorio dei contributi previdenziali, così come previsto dalla nuova normativa, se per gli studi legali con giro d’affari multimilionario, risulterà praticamente insignificante, colpisce, tuttavia, una schiera di professionisti che avranno serie difficoltà a sostenere tale spesa: appunto, qualcosa come cinquantamila avvocati – coloro, cioè, che percepiscono un reddito inferiore ai 10.300 euro annui. Per loro sarà complicato trovare un’alternativa alla disoccupazione, vuoi per l’età, vuoi per l’alta specializzazione in un settore e in nessun altro», dice l’avv. Eugenio Gargiulo di Foggia.
Vero è che la contribuzione obbligatoria e l’esoso peso fiscale accompagnato dalla mano morta della burocrazia colpisce ogni categoria professionale. Ed è questa stagnazione dello status quo che alimenta la crisi economica.
Inoltre i liberi professionisti del ramo tecnico, ingegneri, architetti, geometri e periti sono alla fame. Nessuno ne parla. Sono un esercito di oltre 500.000 persone senza protezioni sociali.
E’ questa l’Italia che continuiamo a volere? Con l’astensionismo elettorale il popolo mette sotto processo la politica inconcludente ed ignava e rea di aver sfornato una classe dirigente inetta, frutto di familismo e raccomandazioni.
Perché in Italia, oramai, si lavora esclusivamente per mantenere le sanguisughe.
La rottamazione assoluta del sistema senza schemi identitari ed ideologici, se non ora, quando?
ANTIFASCISTA UN PO' FASCISTA.
Vietata la festa di CasaPound, ma che antifascismo è questo? Si chiede Piero Sansonetti su "Il Garantista". Quando quasi mezzo secolo fa ho iniziato a far politica, nel 1968, erano due gli slogan che mi appassionavano di più. Il primo era semplice: “Vietnam rosso”. Il secondo – sempre di due sole parole – ancora più semplice: “Vietato vietare”. Il primo di questi due slogan non aveva niente di utopistico. E dopo circa sette anni si realizzò. Il secondo slogan veniva dalla Francia: “Il est interdit d’interdire”. Ma fu tradotto in tutto il mondo. Gli spagnoli dicevano: “Prohibido prohibire”. Gli inglesi e gli americani dicevano “it is forbidden to forbid”. Questo slogan invece era sommamente utopistico. Presumeva una completa rivoluzione: dei cervelli e delle anime. E probabilmente quella rivoluzione era impossibile. Lo slogan vietato vietare è il più radicale degli slogan mai gridato dalla sinistra politica. Perché mette in discussione tutto, sinistra compresa. Soprattutto mette in discussione il potere, le sue forme e il suo stesso diritto di esistere. Non c’è niente di più sovversivo al mondo. E niente di più tenuto. Mettere in discussione il potere, vietare i divieti, vuol dire costringere tutti a “strupparsi”, a pensare, a non accoccolarsi sulla potenza di chi comanda. Impresa quasi impossibile. E così non c’è niente da stupirsi se la sinistra italiana, compatta, in queste ore ha chiesto di vietare la Festa nazionale di Casapound. Ed è felice di averlo ottenuto, questo divieto. Si sente più forte, più viva: chi vieta è vivo, esiste. Le cose sono andate così. CasaPound (che è l’organizzazione che raccoglie i cosiddetti fascisti del terzo millennio) aveva deciso di organizzare la sua Festa nazionale a Milano, per questi giorni di metà settembre. Poi però la sinistra milanese e l’Anpi hanno chiesto al Comune, al prefetto e alla questura di vietare la manifestazione di CasaPound perché Milano è una città antifascista. Nonostante la scombiccheratezza della richiesta, la richiesta è passata. CasaPound ha deciso allora di ritirarsi in un paesino della cintura milanese che si chiama Castano Primo. Qui il sindaco prima ha dato l’autorizzazione, poi all’ultimo momento l’ha ritritata. A questo punto la tensione è salita a mille perché CasaPound ha deciso di tenere lo stesso la sua festa visto che ormai è troppo tardi per programmare un nuovo spostamento. Che senso ha, nel 2015, vietare una festa politica, sia pure di una organizzazione che ha parecchio a che fare con le nostalgie fasciste? Ovviamente non ha nessun senso, salvo quello di riaffermare la forza e la prepotenza dello Stato. E’ chiaro che nessuno pensa neppure lontanamente che oggi in Italia ci sia il rischio di un golpe guidato dai fascisti (forse dei colpi di mano istituzionali ce ne sono stati, ma i fascisti non c’entravano niente), e dunque il gusto è solo quello di riaffermare il diritto a reprimere e a proibire. Quello che colpisce è che questa onda reazionaria e proibizionista sia cavalcata dalla sinistra, quella moderata, quella moderatissima, quella più radicale o estremista, i centro sociali: tutti. Come si spiega? In un modo solo: che ormai la politica è diventata solo un gioco di “gruppi”, di piccole caste, di ceti politici. Con nessun legame più con le idee, con il pensiero, coi principi. E l’antifascismo, da religione della libertà come la concepiva Calamandrei, è diventa semplicemente una etichetta che serve a farsi riconoscere, senza più nessun valore libertario e antirepressivo. Come la maglietta della Roma, o dell’Atalanta. Ieri ho provato a esprimere su Twitter questo concetto, in fondo così banale. E cioè l’idea che proibire è una attività fascista (senza per questo voler insultare nessuno, semplicemente per dare un po’ grossolanamente l’idea della differenza tra chi concepisce la politica come divieto e chi come libertà). Sono stato sommerso dalle proteste e dagli insulti. Per esempio, Paolo Ferrero, che è il segretario di Rifondazione comunista, mi ha risposto rovesciando la mia frase. Ha scritto: “Proibire la festa di CasaPound è una tipica iniziativa antifascista”. Confermando una visione poliziesca dell’antifascismo e della lotta politica che lascia pochissime speranze. E dimostra anche una buona dose di autolesionismo. Chiunque capisce che se oggi si leva la parola ai fascisti, sarà facilissimo, domani, toglierla ai comunisti o a chiunque altro, con la scusa che la loro è una ideologia non democratica. Non fece così Mario Scelba, il più reazionario dei ministri dell’Interno di tutta la storia della Repubblica? Non è che bisogna essere dei geni per capire queste cose. Temo che il problema sia più serio: che quando si ha in mente che la libertà è una complicazione da limitare, specie da parte di chi fa politica, poi è logico che l’unica attività che si ritiene degna è quella di vietare: la droga, il sesso, l’indipendenza, la piccola illegalità, e poi magari l’alcool, l’aborto, l’omosessualità. E naturalmente il fascismo, e poi il comunismo e tutto i resto. Altro che vietato vietare. Lo slogan che ha vinto è un altro: veto, ergo sum!
C’è un antifascismo un po’ fascista, continua Sansonetti. Esistono tre modi di concepire l’antifascismo, e quindi di celebrare il settantesimo anniversario della Liberazione, che cade sabato prossimo, 25 aprile. Il primo è un modo freddo e storico. Che si limita a osservare la grandiosità di quella data che rappresenta la caduta del nazi-fascismo, e cioè di un fenomeno e di una leadership politica dell’Europa occidentale che trascinò l’intero continente sull’orlo del baratro, al limite della fine della civiltà. E’ talmente gigantesco l’obbrobrio politico creato dal fascismo e dal nazismo – e che ha avuto il suo apice nel razzismo e nello sterminio della popolazione ebraica e dei rom – che la sua sconfitta militare (in Italia sancita dall’ingresso a Milano dell’esercito anglo-americano) segna uno spartiacque nella storia del nostro paese e del continente. Il secondo è il modo della retorica. Il più diffuso. L’antifascismo proclamato non come un valore ma come una “appartenenza”. Una bandiera. L’antifascismo come luogo degli eletti, al di fuori del quale c’è solo feccia e vermitudine, e dunque chiunque non entri con baldanza e convinzione nel cenacolo antifascista, e non si sottoponga ai riti e alle giaculatorie, è condannato ad essere scacciato tra i reietti. Questo è l’antifascismo più diffuso. E’ l’antifascismo delle cerimonie, ed è una specie di sotto-ideologia, dai confini molto vasti -dalla vecchia Dc ai centri sociali – che ha permesso per anni alle forze politiche di sinistra di rinunciare ad una propria struttura politica – di idee e di progetto – perché questa struttura era sostituita dal pacchetto-già-pronto dell’antifascismo e della militanza antifascista. Dentro questo antifascismo non ci sono idee o valori: c’è “identità”. Anzi, questo modo di concepire l’antifascismo è esso stesso “identità”. E questa “identità”, siccome è molto debole, labile, perché non sia dispersa, è “militarizzata”. Poi c’è un terzo modo di pensare l’antifascismo. Ed è quello di ricercare, di ricostruire e poi di affermare i suoi valori. Quali sono i suoi valori? Sono il rovesciamento delle caratteristiche più reazionarie del fascismo, e cioè delle caratteristiche che lo hanno portato alla condanna della storia. Proviamo ad elencarle. L’autoritarismo. L’illiberalismo. L’intolleranza e la richiesta di appartenenza. Il militarismo. Il pensiero unico. La violenza, fisica e culturale. L’arroganza. Il senso di superiorità. Il razzismo e la xenofobia. Lo statalismo. La repressione. Il disprezzo per lo stato di diritto. L’antifascismo del “terzo tipo” è quello che trasforma in valori la lotta contro queste tendenze. Ed è un antifascismo attualissimo, perché queste tendenze non solo sono presenti, e radicate, nello spirito pubblico italiano di oggi, ma sono larghissimamente maggioritarie e prevalenti. E sono trasversali, uniscono destra e sinistra, così come fu trasversale il movimento fascista. Quasi tutte queste tendenze si ritrovano, esasperate, (ma in misura variabile) nel leghismo, nel grillismo, nel travaglismo. E si ritrovano anche, meno esasperate, ovunque. Il “renzismo”, se lo vogliamo chiamare così, non è certo esente dalla retorica fascista, sia nei suoi aspetti autoritari (riduzione del parlamento a bivacco di manipoli …) sia nel suo linguaggio politico (spianiamo tutto, chissenefrega del dissenso, abbasso i vecchi evviva la giovinezza, se avanzo seguitemi…). E anche nella violenza della polemica politica. Dei tre tipi di antifascismo che ho citato, il primo è scarsamente rilevante, il secondo è dilagante, il terzo è del tutto marginale. E come tutti gli antifascismi che si rispettano è quasi clandestino…Il problema drammatico è che l’antifascismo di secondo tipo, quello retorico e militarista, che ha dominato il dibattito politico durante tutto il tempo della prima e della seconda repubblica, oggi sta assumendo caratteristiche sempre più militariste, autoritarie e intolleranti, quasi sovrapponendosi allo stesso fascismo. E’ un antifascismo di tipo fascista. E tuttavia è l’unico antifascismo con diritto di parola. Se fino a qualche anno fa il suo limite era l’assenza di pensiero e il trionfo del conformismo, ora le cose si sono complicate, perché si è mescolato con i grandiosi populismi di destra e di sinistra di questi anni, ed ha subito un fortissimo degrado. Basta ascoltare le posizioni di gran parte del mondo politico e giornalistico sull’immigrazione. Sono posizioni che sempre più spesso “sdoganano” principi di tipo nazista. E alle quali non si oppone quasi nessuno, al di fuori della Chiesa cattolica. Oppure basta seguire le polemiche più diverse, su tanti giornali, e la carica di intolleranza e di rifiuto del dialogo, e di senso di superiorità che vi si trova. Mi ha colpito un articolo di Antonio Padellaro – persona mite e seria – pubblicato ieri sul “Fatto”. Giustamente Padellaro in quell’articolo rivendica il diritto ad essere “buonisti” e rivendica persino il valore della tolleranza contro quello dell’intransigenza. E una riga esatta dopo aver scritto questo, si ricorda che sta scrivendo sul “Fatto” e si rivolge ai suoi avversari politici, che ha visto in un certo talk show, e li definisce la “feccia di qualche zoo del Nord-est”. E’ questo il problema: a nessuno viene in mente che rivendicare la tolleranza e definire feccia chi dissente (a qualunque titolo e su qualunque posizione) non funziona. E però ci avviamo a celebrare un 25 aprile in questo clima. Che non credo sia molto diverso da quello del 1922.
IMMIGRATI DI OGGI COME I MERIDIONALI DI IERI.
Salvini: “Sui meridionali ho sbagliato: li conoscevo poco”. Dietrofront alla vigilia del lancio della Lega nazionale. Verso Sud. Visti i buoni risultati delle ultime consultazioni elettorali, Salvini ha puntato a raccogliere voti anche a sud dell’Emilia, dove tradizionalmente la Lega aveva raccolto poco, scrive Alberto Mattioli su "La Stampa". «Cosa mi ha fatto cambiare idea sui meridionali? I fatti. Probabilmente il Sud lo conoscevo poco, ho fatto e abbiamo fatto degli errori». Alt. Fermi tutti. Pizzicotto. No, non è un sogno. È proprio Matteo Salvini, ieri ai microfoni di Rtl. Un’autocritica in regola, piena e completa come in un processo stalinista. D’accordo: arriva a pochi giorni dal lancio della nuova Lega «nazionale» (la settimana prossima, pare, e di sicuro nel nome ci sarà «Salvini» e non «Nord»), però non è meno clamorosa. Il famigerato video del 2009, quando Salvini fu piratato a Pontida mentre con una birra in mano cantava giulivo: «Senti che puzza / scappano anche i cani / sono arrivati i napoletani», sembra dimenticato. Sperando che se lo siano scordato anche i meridionali. Sullo sbarco al Sud il capitano leghista si gioca molto. Far uscire la Lega dalle sue riserve padane significa lanciare una doppia sfida: a Berlusconi sulla leadership del centrodestra e a Renzi su quella del Paese. Da qui i distinguo di Salvini, che non solo non smentisce ma rilancia: «Confermo tutto. La critica rimane, anzi è ancora più dura, sui politici del Sud. Ma lì c’è anche tanta energia positiva, gente che vuole solo lavorare in pace. E ne ha piene le scatole di falsi invalidi, forestali inutili e pizzo alla camorra. Il Sud va salvato dalla sua classe dirigente». Incoraggiati dal successo dell’Emilia, i leghisti in generale e Salvini in particolare martellano sul fatto che le due emergenze, quella dell’economia e quella dell’immigrazione, sono questioni italiane, che deve affrontare il già aborrito Stato nazionale. «Non è che in questo momento a Taranto o a Catania i problemi siano meno gravi che a Milano. Semmai il contrario», dice il segretario. La scelta delle due città è puramente voluta: «Sono quelle da cui mi scrivono di più». Poi, certo, «l’autonomia e il federalismo sono le risposte che servono anche al Sud, purché non siano intese come per esempio fa Crocetta in Sicilia». Cioè, come? «Come spesa senza controllo e infatti ormai fuori controllo». Resta il problema di trovarne un’altra, di classe dirigente. «Al 95 per cento sarà formata di gente nuova, professionisti, imprenditori, insegnanti, persone senza esperienza politica - promette Salvini -. Poi ci potrà essere una piccola parte di politici, ma dovrà essere impeccabile. Non vogliamo riciclati». Le adesioni che arrivano dal territorio sono incoraggianti, giura Salvini. Poi si vedrà. Da sinistra e soprattutto dal l’Ncd sparano a zero sulla svolta meridionalista. «Farneticazioni» è il termine più cordiale. Resta il fatto che, nella sua inesausta attività di esternatore full time, adesso il segretario della Lega Nord fa il paladino del Sud. Ed è oggettivamente una notizia.
Per comprendere il successo di Matteo Salvini alle elezioni non servono analisti e politologi, scrive Alessandro Madron su “Il Fatto Quotidiano”. Bastano due ore a passeggiare in un mercato di provincia. A Saronno, dove il leader del Carroccio è andato per sostenere il ballottaggio del candidato leghista, si scoprono i volti e gli accenti della sua nuova base. Non ci sono più gli anziani in canottiera che vivevano nel “mito celodurista” di Umberto Bossi. Oggi a chiedergli i selfie e a stringergli la mano sono signore di mezza età, che fanno la fila per dargli un bacio e per tributargli tutti gli onori del caso. Sono ambulanti meridionali che fanno a gara per una foto dietro al banco del pesce per regalargli un’albicocca. Sono immigrati regolari che si scattano una foto da mostrare in famiglia commentando “mia figlia sarà invidiosa, lei ti ama” o, ancora: “Dal vivo è meglio che in tv”. Una base popolare, che se ne infischia del politicamente corretto, che comprende i suoi slogan semplici e li condivide, in un carnevale di battute, sorrisi, strette di mano e incitazioni: “Mi raccomando Mattè, ruspa, ruspa ruspa”.
L'immigrazione a Torino. Scritto su "Museo Torino". A partire dal primo dopoguerra, Torino è al centro di un consistente flusso migratorio che, iniziato nei primi anni Cinquanta, raggiunge il suo apice nel periodo del miracolo economico proseguendo per tutti gli anni Settanta del Novecento. A partire sono soprattutto uomini e donne residenti nel Sud Italia, zona di fame e miseria, attratti dalle possibilità lavorative offerte dalle fabbriche cittadine, che attraversano una fase di straordinario sviluppo, a stento supportato dalla manodopera locale. Città dell’industria e capitale dell’auto, Torino esercita una forte capacità attrattiva, ben esemplificata da una filastrocca, molto diffusa tra i bambini della Puglia: “Torino, Torino, che bella città, si mangia, si beve e bene si sta!”. Tra il 1958 e il 1963 più di 1.300.000 meridionali abbandonano le proprie case per trasferirsi nel Centro e nel Nord Italia; tra essi sono più di 800.000 coloro che si dirigono verso le grandi città del triangolo industriale, prima tra tutte Torino. Ogni giorno, sulle banchine della stazione di Porta Nuova, si riversa un numero sempre più consistente di persone arrivate a bordo del “Treno del Sole”, un convoglio che in ventitré ore attraversa l’Italia, dalla Sicilia al Piemonte. Un flusso migratorio che si traduce in una crescita immediata della popolazione torinese, passata dai 753.000 abitanti del 1953 a 1.114.000 del 1963, molti dei quali costituiti da immigrati, che portano il saldo migratorio cittadino a essere quello “più elevato di tutte le altre città italiane”. Sul territorio cittadino si snodano parabole migratorie che vedono i nuovi arrivati dal sud sostituirsi a quelli dell’Italia settentrionale, i primi ad arrivare in città. A partire dagli anni Cinquanta lo scenario muta radicalmente: pugliesi, calabresi, lucani, siciliani e sardi prendono il sopravvento sugli immigrati dell’Italia settentrionale, “fino ad allora la maggioranza assoluta”. Secondo il censimento del 1971, risiedono in città 77.589 siciliani, 106.413 pugliesi, 44.723 calabresi, 35.489 campani e 22.813 lucani: Torino diventa così “una città meridionale di dimensioni paragonabili a Palermo”. Anche il Veneto rappresenta un consistente serbatoio migratorio. Un’immigrazione, quest’ultima, risalente ai primi decenni del Novecento e che prosegue negli anni seguenti, come dimostrano i 65.741 immigrati veneti residenti in città nel 1971. Molti di essi provengono dalle zone bracciantili di Rovigo e del Polesine, messe in ginocchio nel 1951 dall’alluvione del Po. Un evento drammatico, che porta a Torino anche una cospicua quota di individui originari della provincia di Ferrara. Un altro tassello del mosaico è costituito dalla comunità sarda, che ha a Torino radici antiche, dal momento che i primi flussi migratori dall’isola risalgono al periodo sabaudo: una lunga tradizione migratoria, che nel 1971 raggiunge la quota di 19.858 individui. Infine vi sono gli immigrati giunti in città dalla campagna e dalle montagne circostanti: uomini e donne che sostituiscono le fatiche della terra con la catena di montaggio, attratti dal posto fisso e dello stipendio sicuro offerti dalla grande fabbrica. Nell’immaginario di chi emigra, Torino assume i contorni di una realtà capace di offrire casa e lavoro, ponendo fine alla miseria e agli stenti patiti nella terra natia. In realtà così non è, poiché l’arrivo in città si trascina dietro problematiche e difficoltà di non facile superamento. Differenze culturali e identitarie trasformano infatti l’incontro tra i torinesi e gli immigrati, specialmente quelli giunti dal sud, in un momento dai contorni frastagliati e spigolosi. Una discriminazione che assume le sembianze dei cartelli affissi ai portoni delle case arrecanti la frase non si affitta ai meridionali, oppure quella dell’attuazione di dinamiche esclusive che passano attraverso epiteti carichi di astio (napuli, terroni, mau mau) coniati dalla popolazione locale per definire, identificare, “screditare e deridere gli individui nativi delle regioni del sud”. Un fenomeno diffuso, inerente molti comparti della vita quotidiana e che sembra essere accettato anche da «La Stampa», principale testata cittadina, che, lontana dallo svolgere un ruolo di avvicinamento tra torinesi e immigrati, alimenta sulle proprie pagine, attraverso articoli, annunci e servizi, stereotipi e pregiudizi nei confronti degli immigrati del sud Italia, ampiamente consolidati tra i lettori torinesi. Si crea così una situazione di emarginazione, superata attraverso una progressiva condivisione di spazi ed esperienze nella sfera pubblica, privata e lavorativa, che consente di scalare il muro che divide i torinesi dagli immigrati incanalando il rapporto sui binari di un’integrazione pressoché pienamente avvenuta.
I migranti di oggi come i meridionali del 1957: “Portano malattie e sono violenti”. Le lettere su Specchio dei Tempi negli Anni Cinquanta: i pregiudizi che si ripetono, scrive Raphael Zanotti su “La Stampa”. In questi ultimi mesi, soprattutto sui social network, è esplosa la discussione sui migranti. Alcune argomentazioni vanno per la maggiore, soprattutto per richiedere uno stop all’accoglienza. Però, più le sentivo più mi sembrava di averle già sentite. Così ho fatto una piccola ricerca sulle lettere che Specchio dei Tempi de "La Stampa" riceveva negli Anni Cinquanta. All’epoca la polemica era sui migranti del Sud Italia. Ecco cosa è venuto fuori.
COSTANO TROPPO
28 febbraio 1957. “Questa massa che ogni anno si riversa su Torino è costata al Comune - nel periodo 1950-1956 - oltre 100 miliardi. Ha reso il mercato del lavoro terribilmente pesante. Ha frazionate, immiserite, disperse, risorse di lavoro che se convogliate ad una immigrazione controllata potevano dare davvero i suoi frutti enunciati dal lettore di Pisa. Immigrazione, dunque sì, ma rigorosamente controllata - analogamente a quanto avviene negli Stati più evoluti - nell’ambito di una effettiva Autonomia Regionale. Roberto Raimondo”.
Avete presente quando avete 20 anni? Uno non se ne accorge, poi li rimpiange nei successivi 60. Il periodo 1950-1963 è universalmente riconosciuto come quello del Miracolo Italiano, il boom economico che non si è mai riusciti a replicare. Il costo? Forse bisognerebbe fare due conti seri anche oggi. Secondo due rapporti della fondazione Leone Moressa e Andrea Stuppini, un collaboratore de «lavoce.info», nel 2014 le imprese create dagli immigrati in Italia hanno creato valore aggiunto per 85 miliardi di euro. Togliete tutte le spese per l’accoglienza e il respingimento, aggiungete le entrate che provengono dai migranti: l’Italia ha guadagnato 3,9 miliardi.
FACCIAMO ENTRARE DEI CRIMINALI/TERRORISTI
4 luglio 1957. “Hanno ragione i difensori del Sud quando ci ricordano che anche noi nordici abbiamo la nostra parte di “teppa”! Lo sappiamo benissimo! Ed è proprio per questo che protestiamo contro quest’altra “teppa” che a flusso continuo vien su dal Meridione. Pietro Mina”.
5 luglio 1957. Le statistiche parlano in proposito un linguaggio impressionante e inconfutabile. Mentre infatti i meridionali di Torino non arrivano al 20% della popolazione, il numero di reati comuni da loro commessi rappresenta l’80% di quello complessivo della città. Segue Firma”.
28 febbraio 1957. “Purtroppo i fatti parlano chiaro: la maggioranza dei fatti di sangue nelle città del Nord hanno come protagonisti dei meridionali. Non parliamo poi dei “delitti passionali”! Basta seguire la cronaca nera: in pochi mesi si otterrebbe una voluminosa testimonianza sulla trista “focosità” dei nostri fratelli del Sud. Si ha un bel parlare di “preconcetto antimeridionalismo” di fronte a questi fatti. Prof. Adriano Donini”.
Ovviamente non si tratta di percentuali vere, ma questa era la percezione all’epoca. Percezione che si ha tutt’oggi. Questo perché, quando si parla di migranti, è quasi sempre nelle pagine di cronaca nera. Nel 2014 su due dei principali giornali italiani la percentuale di articoli sui migranti finiti in cronaca batteva sul 70-75%.
Non si hanno notizie di attentati su suolo europeo di terroristi migranti. Il più sanguinoso atto di terrorismo avvenuto in Europa dal Dopoguerra è stato compiuto da Anders Behring Breivik, norvegese, cattolico: 77 vittime nel 2011.
CI RUBANO IL LAVORO
15 maggio 1957. “La situazione in cui ci troviamo noi giovani del Piemonte, con un diploma o no, è grave, poiché ci troviamo sbarrata la via in qualsiasi campo di lavoro, fuorché quello agricolo, dai meridionali che emigrano al Nord. Bruno Barbiero”.
È una delle argomentazioni più in voga. Se lo era durante il Miracolo Economico, figuriamoci oggi che siamo in crisi recessiva. Secondo i dati Istat, però, in Italia ci sono 2,4 milioni di occupati stranieri (il 10,8% del totale). I due mondi non si toccano. Il 63% degli immigrati è relegata a una decina di mestieri, quasi tutti poco qualificati e in cui non si trovano quasi italiani: badanti, spaccapietre, raccoglitori di ortaggi. La crisi, poi, ha colpito più gli immigrati che gli italiani: 9 punti rispetto ai 2,8 dei nostri connazionali.
PORTANO MALATTIE
27 settembre 1957. “Ci spaventa che sia aperta la scuola dei nostri bimbi, particolarmente perché, data la vicinanza del gruppo di case popolari di corso Racconigi, abitate da numerosissime famiglie di meridionali assiepati in alloggi minuscoli diventerebbe, in pochi giorni, un vivaio di infezioni. Una mamma”.
Beh, all’epoca si diceva anche questo. Quando una popolazione si sposta porta con sé le malattie tipiche della sua area di provenienza. Lo sanno bene le popolazioni precolombiane, sterminate dal vaiolo e dal morbillo portate dai conquistadores spagnoli. Ma una cosa sono le malattie, un’altra le fobie. Prendiamo l’Ebola. Ha ucciso 11.184 persone su 27.341 infetti (dati World Health Organization aggiornati al 17 giugno), in pratica tutte in Guinea, Liberia e Sierra Leone (11.169). Questo perché da quelle parti hanno strutture sanitarie pessime. In Italia, Spagna, Regno Unito e Usa si contano 7 casi, un solo morto. Negli Stati Uniti.
SONO VIOLENTI E MALEDUCATI CON LE DONNE
22 ottobre 1957. “Chi non ha rilevato la volgarità dei modi e delle espressioni che caratterizza la maggior parte dei meridionali nella galanteria verso una donna sconosciuta che passa per strada? Qui non si tratta di “sangue caldo”, ma di ineducazione, che ricorda purtroppo le intemperanze bestiali delle truppe di coloro che sbarcarono con gli eserciti alleati. Don Luigi Soldano. Direttore del centro di rieducazione minorile”.
28 febbraio 1957. “Mi sono convinto che il “sangue caldo” è un’ipocrita scusa: qui si tratta della mortificante situazione di inferiorità in cui è tenuta la donna meridionale, concepita dall’uomo come serva e strumento di piacere, sempre destinata ad obbedire senza discutere al suo “signore” oppressa dalla bestiale gelosia del maschio, che le nega ogni libertà e d’altra parte si ritiene libero di avere qualsivoglia avventura. Prof Adriano Donini”.
La cultura e le tradizioni hanno il loro peso, questo è un fatto. E sicuramente in alcuni Paesi il ruolo della donna è insopportabilmente schiacciato. Ma anche gli italiani non sono ben messi: due anni fa su 131 femminicidi, 94 sono stati perpetrati da italiani. C’è ancora molto lavoro da fare, su tutti i fronti.
Separati in classe. Quando gli alunni discriminati erano (immigrati) italiani, scrive Grazia De Michele su "Accademia". L’arrivo a Torino di intere famiglie del sud dopo un viaggio in treno lungo come l’Italia. Molti bambini venivano inseriti nelle classi differenziali. «Non conosco ancora bene gli alunni che mi sono stati affidati. Parte hanno fatto la prima con un’altra insegnante, molti sono ripetenti. C’è chi proviene direttamente da paesi lontani: il Veneto, le Puglie. Immagino la loro sensazione di disagio che assomiglia un po’ alla mia. Dobbiamo acclimatarci insieme, abituarci, volerci bene. Dobbiamo soprattutto evitare un urto fra i nostri modi di fare e di vedere le cose. Anche i bambini hanno il loro modo di vedere le cose, acquisito nel loro piccolo mondo. Cerco perciò che i primi approcci con i miei scolari siano i migliori e i più adatti a creare un accordo durevole fra noi.» È il 1960. Una giovane maestra, appena arrivata in una scuola elementare dell’estrema periferia di Torino confida al diario di classe, il registro, le sue prime impressioni sulla seconda maschile che le è stata affidata e di cui dovrà occuparsi per il resto dell’anno scolastico. Sono in tutto 35 bambini. Alcuni di loro provengono da altre parti d’Italia, considerate «paesi lontani». Una situazione piuttosto comune in quegli anni a Torino, così come in altre località del triangolo industriale. Finita la guerra, gli italiani avevano cominciato a percorrere il difficile cammino della ricostruzione e si erano messi in movimento. I primi ad arrivare nel capoluogo piemontese erano stati i profughi dal confine orientale. Poi era stata la volta dei veneti. E infine, i meridionali. La città aveva attraversato momenti di profonda crisi e i torinesi si sentivano come travolti da un fiume in piena. Il quotidiano cittadino, "La Stampa", non mancava di informarli assiduamente sia sulle cifre dell'immigrazione sia sulle ingenti difficoltà che questa creava: le abitazioni insufficienti, il degrado, i problemi del lavoro,la diversità dei modi di vivere. Anche il mondo della scuola, in particolare quella elementare, sembrava assolutamente spiazzato da tanti e improvvisi cambiamenti. Alla carenza di aule, dovuta al brusco aumento degli iscritti, si aggiungevano questioni di altra natura. L’arrivo di bambini da zone del Paese percepite come distanti e «altre» dal punto di vista sia economico che culturale creava non pochi disagi a maestre e direttori. Non tutti si mostravano in grado di mettere in discussione le proprie certezze, come sperava di riuscire a fare quella maestra di seconda. La diversità di usi, costumi e lingua generava in molti un senso di rifiuto e di frustrazione. E d’altra parte, difficilmente ci si sarebbe potuti aspettare il contrario, soprattutto nei riguardi dei meridionali. Il Mezzogiorno, a partire dall’Unità, ha infatti rappresentato nell’immaginario degli italiani quasi un’entità mitica, in cui sembravano essersi concentrati buona parte dei mali della nazione. L’inferiorità dei suoi abitanti rispetto a quelli del resto della penisola era considerata un inconfutabile dato di fatto e, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, aveva addirittura ricevuto dignità «scientifica» dalle teorie della scuola di antropologia criminale capeggiata da Cesare Lombroso. Come un fiume carsico, l'immagine di un Sud arretrato e «incivile», più simile all’Africa che non all’Europa verso cui si credeva fosse invece protesa la parte più settentrionale del Paese, tornarono a fare capolino nella Torino anni Sessanta "assediata" dagli immigrati, finendo con l'insinuarsi prepotentemente anche tra le aule scolastiche. Piuttosto consolidata era, per esempio, l’abitudine di retrocedere i bambini meridionali di una o più classi, partendo dal presupposto che le scuole del Sud non garantissero ai loro iscritti lo stesso livello di preparazione di quelle del Nord. E molto spesso erano gli stessi genitori a esserne persuasi e ad accettare la cosa di buon grado per il bene del proprio figlio. «Qui da voi la scuola non è come da noi!», sosteneva la mamma di uno scolaro da poco arrivato in una scuola della Barriera di Milano (un quartiere di Torino). Il dialetto – e questo valeva anche per i piccoli veneti – veniva considerato un ostacolo quasi insormontabile. «L’accento meridionale è per Mimmo, come per altri, la causa di molti errori di ortografia», si legge su un registro. «Per ovviare a questo inconveniente quanto tempo ci vorrà? Non basterà di certo un mese nelle nostre scuole o un anno, forse neppure l’intero corso delle elementari.» L’insofferenza delle insegnanti era ulteriormente acuita dal controllo quasi poliziesco cui erano sottoposte all’interno di una scuola che aveva conservato l’impianto rigorosamente gerarchico impostole durante il fascismo. Le visite mensili del direttore, con controllo del registro e interrogazione degli alunni, costituivano per la maestra un temuto banco di prova in vista del giudizio espresso dal superiore alla fine dell’anno, il temuto voto di qualifica. I bambini «problematici», appena trasferitisi da chissà dove, incapaci di esprimersi in italiano corretto e considerati difficilmente recuperabili in ragione della supposta arretratezza della famiglia, diventavano dunque un peso difficile da sostenere a lungo. Ben presto si diffuse la prassi di spostarne un numero via via crescente in quelle che all’epoca venivano chiamate classi differenziali. Istituite per la prima volta all'inizio del novecento e pensate per gli scolari «anormali» nell'intelligenza e nel carattere, ma in forme non così gravi da richiedere la frequenza della scuola speciale, le differenziali conobbero un vero e proprio boom a partire dagli anni sessanta, nel periodo della cosiddetta scolarizzazione di massa. E non a caso. Come si cominciò a denunciare solo in seguito, classe differenziata era diventato sinonimo di "classe dei poveri", destinata ad accogliere bambini le cui famiglie non avevano avuto, sino ad allora, accesso all'istruzione e occupavano le posizioni più basse della scala sociale. A Torino, a Milano e, più in generale, in altre zone del Nord industrializzato, buona parte degli alunni delle differenziali era di origine meridionale. «Segnalato per classe differenziale», scriveva sul registro la maestra accanto al nome del bambino. E così aveva inizio un iter tortuoso che vedeva coinvolti diversi soggetti. La maestra, di solito a pochi giorni dall’inizio dell’anno scolastico, individuava nella sua classe i bambini che stimava non fossero in grado di seguire il regolare svolgimento del programma o considerava troppo indisciplinati e ne segnalava i nomi al direttore. Questi, a sua volta, interpellava il medico scolastico, il quale indirizzava l'alunno al Centro medico psico-pedagogico (Cmpp) per ulteriori approfondimenti. Gestiti dalle amministrazioni locali o da enti come l'Opera nazionale maternità ed infanzia, i Cmpp erano specializzati nella diagnosi e nel trattamento dei disturbi dell'età evolutiva e vi operavano neuropsichiatri infantili, psicologi e assistenti sociali. Durante la visita, il piccolo paziente veniva sottoposto a test d’intelligenza e reattivi mentali e, in base ai risultati, veniva avviato alla classe differenziale, quando non addirittura alla scuola speciale. L’elevato numero di figli di immigrati tra i fruitori del servizio offerto dai Cmpp era dovuto, secondo gli esperti, all'appartenenza di questi bambini a famiglie economicamente e culturalmente "arretrate", trovatesi per la prima volta a vivere in contesti più "evoluti" di quello di origine. Il passaggio da un ambiente all'altro era indicato come la causa principale del "disadattamento scolastico" dei bambini immigrati, dell'incapacità, cioè, di adeguarsi rapidamente agli standard culturali e scolastici delle città del Nordovest. La questione era particolarmente sentita e pressante al punto che, tra gli psichiatri, ci fu anche chi propose la creazione di classi differenziali per i soli immigrati meridionali, da affidare possibilmente a insegnanti anche loro di origine meridionale ma immigrate da più tempo e ben integrate. In realtà, tuttavia, in molti casi le classi differenziali venivano formate senza avvalersi della consulenza dei Cmppe tantomeno del medico scolastico. Così come era piuttosto comune, una volta finiti nelle differenziali, rimanerci fino alla quinta, nonostante, almeno in teoria, la misura doveva servire proprio al recupero dello scolaro «disadattato» e al suo reinserimento nella classe «normale». In seguito all’istituzione della scuola media unica, nel 1962, per la quale erano previste classi differenziali e di aggiornamento, i direttori delle scuole elementari cominciarono a trasmettere ai presidi i nomi degli allievi delle differenziali, in modo che potessero seguire lo stesso percorso anche alle medie. Le differenziali, inoltre, non costituivano certamente oggetto di contesa fra le maestre, costrette a prenderle in carico anche qualora non fossero in possesso del titolo di specializzazione richiesto per insegnarvi.
QUANDO GLI EMIGRANTI ERAVAMO NOI, scrive Max Inturri. “Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali". "Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano purchè le famiglie rimangano unite e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell’Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione". Da una relazione dell’Ispettorato per l’Immigrazione del Congresso americano sugli immigrati italiani negli Stati Uniti, Ottobre 1912. Non ci andava meglio in Svizzera, negli anni ’70 con i leader che scrivevano: “Le mogli e i bambini degli immigrati? Sono braccia morte che pesano sulle nostre spalle. Che minacciano nello spettro d’una congiuntura lo stesso benessere dei cittadini. Dobbiamo liberarci del fardello». «Dobbiamo respingere dalla nostra comunità quegli immigrati che abbiamo chiamato per i lavori più umili e che nel giro di pochi anni, o di una generazione, dopo il primo smarrimento, si guardano attorno e migliorano la loro posizione sociale. Scalano i posti più comodi, studiano, s’ingegnano: mettono addirittura in crisi la tranquillità dell’operaio svizzero medio, che resta inchiodato al suo sgabello con davanti, magari in poltrona, l’ex guitto italiano». In quegli anni – ieri rispetto alla Storia - in Svizzera c’erano circa 30.000 bambini italiani clandestini, portati di nascosto dai genitori siciliani e veneti, calabresi e lombardi, a dispetto delle rigorose leggi elvetiche contro i ricongiungimenti familiari, genitori terrorizzati dalle denunce dei vicini che raccomandavano perciò ai loro bambini: non fare rumore, non ridere, non giocare, non piangere. Prima degli anni ’50 gli italiani andavano a Bucarest per lavorare nelle fabbriche e nelle miniere e alla scadenza del permesso di soggiorno restavano in Romania, clandestini. Nel 1942 il Ministro dell’Interno fu costretto ad inviare a tutti i Questori una circolare con la quale li si invitava a non far espatriare gli italiani in Romania. In India, nel 1893, il console italiano scriveva a Roma per dire che in quella città tutti quelli che sfruttavano la prostituzione venivano chiamati “italiani”. Tra la prima e la seconda guerra mondiale molti italiani andavano in America con passaporti falsi o biglietti inviati da pseudo parenti italo americani. In realtà una volta sbarcati li attendevano turni di lavoro massacranti perché ripagassero, senza stipendio, il costo di quel viaggio della speranza. Non sono aneddoti. E’ storia, tratta dalla Mostra “Tracce dell’emigrazione parmense e italiana fra il XVI e XX secolo” (Parma, 15 aprile 2009). Gian Antonio Stella, nel suo bellissimo libro “Quando gli albanesi eravamo noi”, ci ricorda che “….Quando si parla d’immigrazione italiana si pensa solo agli ’zii d’America’, arricchiti e vincenti, ma nessuno vuole sapere che la percentuale di analfabeti tra gli italiani immigrati nel 1910 negli USA era del 71% o che gli italiani costituivano la maggioranza degli stranieri arrestati per omicidio” o ancora che il primo attentato nella storia con un’auto imbottita di esplosivo è stato fatto a New York, non da terroristi ma da criminali italiani contro una banda avversaria. Dal 1861 sono state registrate circa ventiquattro milioni di partenze dalla nostra lingua di terra, per altri lidi. Fatto curioso è che inizialmente furono le sole popolazioni del nord a formare il grande esodo. Solo in un secondo momento saranno Calabria, Campania e Sicilia a dare l'addio a circa nove milioni di uomini. Prevalentemente ci dirigevamo in Argentina (circa 15 milioni), Stati Uniti (circa 12 milioni), Brasile (circa 8 milioni). I lavoratori italiani, e le loro famiglie, erano spesso al centro di fenomeni quali sfruttamento e razzismo: " braccianti Italiani, come quelli Marocchini o dell'Europa dell'Est oggi in Italia, accettavano paghe più basse dei braccianti locali; ad Aigues Mortes, in Francia, nove italiani furono assassinati con un banale pretesto da una folla di lavoratori francesi nel 1893. Stessa sorte toccò ad undici siciliani a New Orleans nel 1901, accusati di appartenere alla Mafia. Oltre a queste vere e proprie stragi gli episodi di pestaggi o omicidi singoli furono molto numerosi." (da emigrati.it) Non era poi così raro sui giornali leggere articoli come questo: "abbiamo all'incirca in questa città trentamila italiani, quasi tutti provenienti dalle vecchie province napoletane, dove, fino a poco tempo fa, il brigantaggio era l'industria nazionale. Non è strano che questi briganti portino con se un attaccamento per le loro attività originarie" (New York Times, 1 gennaio 1894) e ancora: "Gli Italiani del Meridione erano accusati di essere sporchi, rumorosi, arretrati come qualità della vita e nelle relazioni interpersonali, e di praticare rituali religiosi primitivi, di trascurare l'istruzione dei figli, di costringere in una condizione di assoluta subordinazione la donna all'interno della famiglia. I Siciliani erano inseriti nel censimento del 1911 come "non white", non bianchi, di pelle scura e comunque le statistiche censivano separatamente gli Italiani del Nord e quelli del Meridione come appartenenti a due razze diverse: una "celtica" e l'altra "mediterranea" "(da emigrati.it ) Forse ci ricordano che la nostra Terra gira, gira velocemente nello spazio e nel tempo creando nuovi ricchi ed ammassando nuovi poveri. I ruoli si invertono ma i clandestini restano anche se hanno un colore diverso. Fuggono da Paesi in cui l’unica prospettiva è morire per fame o morire per guerre volute da altri. Ed allora questa gente può solo correre, correre, correre impazzita verso il nord, verso il mediterraneo, verso quelli che credono essere orizzonti migliori.
EMIGRAZIONE ITALIANA: UNA STORIA DI RAZZISMO. Linciaggi, proclami razzisti, leggi restrittive, colpirono i milioni di italiani emigrati all'estero nei secoli scorsi in cerca di fortuna. Molti rimasero vittime di cieca violenza, per le colpe di altri. Un'orda di selvaggi, brutti, sporchi e cattivi, da tenere a debita distanza, nei sudici ghetti delle grandi città. Dagli Stati Uniti all'Australia, passando per l'Europa, il sentimento xenofobo contro gli immigrati italiani dilagò come un fiume in piena tra la fine dell'800 e i primi anni del 1900, provocando significativi strascichi fino alla metà del secolo scorso. Titoli di giornali e proclami politici, bollavano i nostri connazionali come geneticamente tendenti alla criminalità, dunque pericolosi nel complesso, per la sicurezza civile.
LA XENOFOBIA DILAGANTE. Il 1 gennaio del 1894 il New York Times scriveva: "Abbiamo all'incirca in questa città trentamila italiani, quasi tutti provenienti dalle vecchie province napoletane, dove, fino a poco tempo fa, il brigantaggio era l'industria nazionale. Non è strano che questi briganti portino con se un attaccamento per le loro attività originarie". Ad essere bersagliati, soprattutto gli italiani di origine meridionale, catalogati come "razza mediterranea" a fronte di quella "celtica" degli italiani provenienti dal Nord. I siciliani vennero censiti nel 1911 come "not white", "non bianchi". Gli appellativi precisi, che li identificavano, erano "dago" e "wop", riservati peraltro in senso dispregiativo a persone dalla pelle scura di origine portoghese, spagnola e messicana. L'intolleranza crescente verso i flussi migratori, non solo italiani, in continuo aumento all'epoca (dal 1920 al 1921 l'incremento fu di 800mila nuovi immigrati, provenienti per due terzi dall'Europa meridionale e orientale), portò la politica americana a varare, dopo la diminuzione del bisogno di manodopera, alcuni provvedimenti che ponessero un argine all'immigrazione. Il cosiddetto "Quota Act", del 19 maggio 1921, si proponeva di mettere un freno al numero di migranti ammesso annualmente, e per nazionalità, al 3 per cento del numero dei rispettivi connazionali stabilitisi negli Stati Uniti nel 1910. Questa prima quota limitò l'emigrazione italiana a 42mila individui ammessi. Similarmente agli Stati Uniti, il colore della pelle aveva un peso significativo anche in Australia, dove sempre i siciliani venivano considerati “semi-coloured”. La forte discriminazione, portò il primo governo in carica, collegato a quello inglese, a formare una società di etnia anglo-celtica operando un programma politico definito della "White Australia". Diverso, ma non meno carico di pregiudizio, l'epiteti che gli emigranti nostrani si erano guadagnati in Brasile, dove il flusso migratorio provocò notevoli conflitti con i locali: considerati commercianti disonesti, venivano definiti "carcamano" dal gesto di calcare la mano alterando il peso misurato dalla bilancia. La maggior parte di loro, era alla ricerca di un lavoro qualsiasi, anche con paghe da fame. In pochissimi riuscivano a mettere su un'attività commerciale, che tuttavia diveniva bersaglio della follia xenofoba, che distruggeva i negozi di immigrati italiani. La miseria e la rabbia, condusse molti di loro, soprattutto negli Stati Uniti, a entrare nella cerchia della malavita locale, seminando però il pregiudizio su tutta la comunità. Contro i nostri connazionali, si scagliò l'opinione pubblica, che li considerava tutti sovversivi, anarchici, camorristi, mafiosi, assassini.
VITTIME INNOCENTI. I singoli fatti di cronaca, in cui capitava fossero coinvolti criminali italiani soprattutto in America, a cui la stampa dava enorme spazio e allarme, scatenavano così violente ondate di razzismo, da sfociare in più di un'occasione in linciaggi di gruppo verso innocenti o incarcerazioni e condanne a morte sommarie.
IL MASSACRO DI NEW ORLEANS. Uno dei più drammatici e feroci attacchi contro italiani che si ricordi, è quello del 1891 a New Orleans. Nella zona, dove molta manodopera italiana era stata impiegata nei campi di cotone, con turni massacranti per sostituire gli schiavi neri affrancati da una legge, un gruppo di siciliani venne ritenuto responsabile, senza prove, di un omicidio. Ma la loro assoluzione a seguito di regolare processo provocò l'inferno. La popolazione locale, non soddisfatta del verdetto, si riversò in strada per un linciaggio. Una folla inferocita di 20mila persone, prelevò dal carcere gli 11 italiani e li trucidò senza pietà, per un reato che non avevano commesso. Ma mentre il presidente americano dell'epoca, Harrison, per aver osato definire il linciaggio "un'offesa contro le legge e l'umanità" rischiava l’incriminazione, i giornali tentavano di giustificare l’accaduto con la "natura" negativa degli immigrati che lì approdavano: "Il clima mite, la facilità con la quale ci si può assicurare il necessario per vivere e la natura poliglotta dei suoi abitanti hanno fatto sì che, sfortunatamente, questa parte del Paese sia stata scelta dai disoccupati e dagli emigrati appartenenti alla peggiore specie di europei: i meridionali italiani (…) Gli individui più pigri, depravati e indegni che esistano (…). Tranne i polacchi non conosciamo altre persone altrettanto indesiderabili".
Come liberarsi dei migranti italiani? Uccidendoli. Il "problema" degli italiani a New Orleans nell'agghiacciante vignetta del quotidiano The Mascot nel 1888.
IL MASSACRO DI AIGUES-MORTES. Il 17 agosto 1893 nove operai italiani vengono linciati a morte da una folla inferocita, nelle saline di Aigues-Mortes, in Camargue, Francia. Il massacro si consuma, dopo una violenta caccia all'italiano, da parte dei manovali francesi che provoca la morte di un numero imprecisato di emigrati piemontesi, lombardi, liguri, toscani. Il sindaco del paese, si impegna ad alimentare l'odio, cavalcando le proteste dei lavoratori locali, emanando anche atti ufficiali a sfondo razzista, che affiggerà poi anche sui muri della cittadina.
LA STORIA DI SACCO E VANZETTI. La vicenda giudiziaria di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti ha ispirato film e libri. E' quella di due anarchici immigrati negli Stati Uniti che, nel 1920, arrestati, sull'onda della molta intolleranza verso gli italiani, con la falsa accusa di aver ucciso, nell'ambito di una rapina, un cassiere e una guardia dell'officina di South Braintee. Sottoposti ad un processo senza prove, i due vengono condannati a morte e uccisi sulla sedia elettrica il 23 agosto 1927, nel penitenziario di Charlestown, presso Dedham. A sentenza ormai eseguita, si scopriranno poi le prove della loro innocenza e il vero colpevole. Tuttavia, solo nel 1977 Michael Dukakis, governatore dello Stato del Massachusetts, riconosce ufficialmente gli errori commessi nel processo e riabilita completamente la memoria dei due anarchici.
NEW YORK 1888: UNA STANZA PER DORMIRE, LAVORARE, CUCINARE. Nella foto di Jacob Riis scattata a Bayard Street nel 1888, un gruppo di italiani ammucchiati in una sola stanza in un condominio di Bayard Street. Scriveva lo stesso Riis nel libro "Così vive l'altra metà": "i rapporti di polizia che parlano di uomini e di donne che si uccidono cadendo dai tetti e dai davanzali delle finestre mentre dormono, annunciano che si avvicina l'epoca delle grandi sofferenze per la povera gente. È nel periodo caldo, quando la vita in casa diventa insopportabile per dover cucinare, dormire e lavorare tutti stipati in una piccola stanza, che gli edifici scoppiano, intolleranti di qualsiasi costrizione. Allora una vita strana e pittoresca si trasferisce sui tetti piatti. [...] Nelle soffocanti notti di luglio, quando quei casermoni sono come forni accesi, e i loro muri emanano il caldo assorbito di giorno, gli uomini e le donne si sdraiano in file irrequiete, ansanti, alla ricerca di un po' di sonno, d'un po' d'aria. Allora ogni camion per la strada, ogni scala di sicurezza stipata, diventa una camera da letto, preferibile a qualsiasi altro luogo all'interno della casa. [...] La vita nei caseggiati, in luglio e agosto, vuol dire la morte per un esercito di bambini piccoli che tutta la scienza dei medici è impotente a salvare".
NEW YORK 1897 NELLE BARACCHE TRA I GRATTACIELI. "Come vivono gli italiani nei peggiori bassifondi", foto di Jacob Riis, scattata in Jersey Street nel 1897 ed esposta al Museum of the City of New York. Scrive Adolfo Rossi, autore nel 1894 di Un italiano in America: "A New York c'è quasi da vergognarsi di essere italiani. La grande maggioranza dei nostri compatrioti, formata dalla classe più miserabile delle provincie meridionali, abita nel quartiere meno pulito della città, chiamato i Cinque Punti (Five Points). È un agglomeramento di casacce nere e ributtanti, dove la gente vive accatastata peggio delle bestie. In una sola stanza abitano famiglie numerose: uomini, donne, cani, gatti e scimmie mangiano e dormono insieme nello stesso bugigattolo senz'aria e senza luce. In alcune case di Baxter e Mulberry Street, è tanto il sudiciume e così mefitica l'atmosfera da far parere impossibile che ai primi calori dell'estate non si sviluppi ogni anno un colera micidialissimo."
BELGIO, ANNI 50: negli hangar nazisti. Nella foto, gli hangar in cui vivevano i minatori italiani a Marcinelle. Solo pochi anni prima erano sede di un campo di prigionia nazista. Abitavano qui, in condizioni di grande disagio, molte delle vittime della tragedia dell'8 agosto 1956, quando 262 minatori, dei quali 136 erano calabresi, veneti, siciliani o campani, morirono intrappolati 835 metri sottoterra.
SVIZZERA 1962: IMMIGRATI ITALIANI IN 16 IN UNA STANZA. Nella foto Murat, archivio del "Corriere della Sera", la stanza in cui nel 1962 vivevano alcuni immigrati italiani a Ginevra. La didascalia scritta dal fotografo dietro la stampa precisa: "la stanza misura 7 metri per 4 e vi sono sistemati 16 operai. Ciascuno di essi paga, al mese, per il materasso, 60 franchi, ossia 8640 lire". Vale a dire, secondo l'ultima valutazione delle lire 2001, circa 150 mila lire. Il padrone incassava dunque, per una camera, due milioni e mezzo. Nella stessa stanza facevano anche da mangiare.
SVIZZERA 1962: CATAPECCHIE DEGLI IMMIGRATI ITALIANI. Nella foto Murat, archivio del "Corriere della Sera", alcune baracche abitate da emigrati italiani nel quartiere "Praille" a Ginevra. Era il 1962. L' Italia era in pieno boom. Anzi: Luciano Benetton avrebbe raccontato qualche anno dopo che in Veneto "c'era già chi si lamentava: il boom è sgonfio".
SVIZZERA 1962: IMMIGRATI ITALIANI IN 16 IN UNA STANZA. Nella foto Murat, archivio del "Corriere della Sera", la stanza in cui nel 1962 vivevano alcuni immigrati italiani a Ginevra. La didascalia scritta dal fotografo dietro la stampa precisa: "la stanza misura 7 metri per 4 e vi sono sistemati 16 operai. Ciascuno di essi paga, al mese, per il materasso, 60 franchi, ossia 8640 lire". Vale a dire, secondo l'ultima valutazione delle lire 2001, circa 150 mila lire. Il padrone incassava dunque, per una camera, due milioni e mezzo. Nella stessa stanza facevano anche da mangiare.
SVIZZERA 1962: BARACCHE DEGLI IMMIGRATI ITALIANI TRA IL PATTUME. Nella foto Murat, archivio del "Corriere della Sera", alcune baracche abitate da emigrati italiani nel quartiere "Praille" a Ginevra. Era il 1962. L'anno in cui esplodevano i Beatles, Sean Connery girava "007, licenza di uccidere" e la Juventus era pazza di Omar Sivori.
BELGIO, ANNI '60: nelle baracche del lager Foto di "Oggi" 5-3-1964. La dida spiega: "Un bimbo italiano ritratto nella desolata zona di Lanklaar, dove i tedeschi avevano creato un campo di concentramento per i prigionieri guerra sovietici. In queste squallide baracche vivono 35 famiglie di nostri connazionali (..) insieme con emigrati greci, spagnoli e turchi".
SVIZZERA 1973 UN LAVANDINO OGNI 16 PERSONE. Nella foto di "Sorrisi e Canzoni", emigranti italiani a Ginevra nel 1973. La didascalia spiega che dormono in 32 per ogni baracca e hanno un lavandino ogni 16 persone.
Cerchiamo di dimenticarlo ma siamo stati clandestini, ruffiani, malavitosi, sporchi e violenti. Un italiano fece saltare in aria Wall Street ottant'anni prima di Bin Laden: 33 morti e 200 feriti, scrive Paolo Rumiz. Non siamo mai stati clandestini? Balle. D'inverno passavamo le Alpi a centinaia, ogni notte; sul San Bernardo dovevano seppellirci in piedi, in tanti morivamo. Non sbarcavamo sulle spiagge altrui con le carrette della mafia? Falso, spudorato falso. A decine di migliaia arrivavamo sulle coste dal Maine, servizio completo, contratto di matrimonio incluso, con una prostituta negra. Non mendicavamo? Altra bugia. I bambini costretti a chiedere la carità a New York erano migliaia, e la Mala li marchiava all'orecchio perché non scappassero. Non eravamo terroristi? Uno di noi fece saltare in aria Wall Street ottant'anni prima di Osama Bin Laden, 33 morti e 200 feriti. Se davvero credete alla favola che ci vuole poveri ma belli, e sempre migliori degli immigrati di oggi, allora non leggete l'ultimo libro di Gian Antonio Stella, L'orda - Quando gli albanesi eravamo noi (Rizzoli, pagg. 288, euro 17). Se conservate in una teca le orazioni della Fallaci contro gli immigrati-invasori, lasciate perdere. Apprendereste cose insopportabili per gli italiani brava gente. Rischiereste di scoprire che per i cari amici americani i «saraceni» eravamo noi. Che mentre il Duce dettava il manifesto sulla nostra superiorità ariana, loro ci guardavano come parassiti, feccia, mediterranei olivastri, negri, gentaglia da linciare. Scimmie, topi di fogna, ecco come ci vedevano. Basta guardare le vignette raccolte nel libro. I giornali di Londra, New York e Chicago le pubblicavano impunemente, tanto l'Italia non protestava, si vergognava di noi, «se ne fotteva dei suoi figli di terza classe». Noi crepavamo come mosche sulle navi, portati via dalla febbre mentre in prima classe altri italiani cenavano a mousse au chocolat. Vendevamo per fame i nostri bambini, li mettevamo in mano a negrieri che li affamavano ancora per farli entrare in stretti, luridi camini. Mandavamo legioni di nostre donne a morire nei bordelli del Cairo, Tripoli e Algeri. Sedotte con promesse di lavori onesti e poi vendute agli arabi, che le volevano bionde e possibilmente bambine. Orda. Il pugno nello stomaco ti arriva già con quel titolo secco come una fucilata. Un pugno che ci voleva. Avevamo la nausea di porcherie, veleni, bestialità, cloroformio. Bugie soprattutto. Anche Stella non ne può più. Lo senti in ogni riga. Per la prima volta picchia con rabbia, offre uno specchio alla società italiana senza più il filtro dell'ironia usata negli altri libri, a partire da Schei, sul Veneto che sgobba. Demolisce il razzismo della brava gente, i suoi falsi miti, urla contro «il fetore insopportabile di xenofobia che monta, monta in una società che ha rimosso parte del suo passato». Disfattismo, dirà qualcuno. No, Stella regola solo un conto con se stesso, con la sua origine veneta, con i vuoti di memoria della sua gente, emigrata fino a ieri. Col nonno Toni «Cajo» buonanima, che «mangiò pane e disprezzo in Prussia e Ungheria e sarebbe schifato dagli smemorati che sputano oggi su quelli come lui». Vive prima la meraviglia di saperne così poco, poi lo sbigottimento di trovarsi di fronte a una bibliografia immensa, un'immensità che gli fornisce la misura - pazzesca - della rimozione. E allora scava, scava, ti rovescia addosso dati inconfutabili, ti lascia trarre da solo conclusioni senza scampo. Quelli che ci hanno dato lustro, altroché se li ricordiamo. I Cuomo, gli Jacocca, i La Guardia. In tanti si sono fatti onore, i loro successi nel mondo li leggi ovunque. Ma gli altri, chi li ricorda? Nessuno. «Quelli che non ce l'hanno fatta e sopravvivono oggi tra mille difficoltà nelle periferie di San Paolo, Buenos Aires, New York o Melbourne fatichiamo a ricordarli». In 27 milioni sono partiti fra il 1876 e il 1976. 27 milioni di padri e fratelli perduti. Eppure non ne trovi traccia nei libri di scuola. Come possiamo capire cosa siamo diventati se non accettiamo di guardare cosa eravamo davvero, identici cioè agli immigrati di oggi? «Loro» ci rubano il pane? Noi siamo stati massacrati per questo. Nel 1893 ad Aigues Mortes, in Francia, dove sgobbavamo nelle saline, linciarono una ventina di noi sotto gli occhi della Gendarmerie, e l'Italia fece poco o nulla. «Loro» schiavizzano bambini? Noi ne abbiamo fatti crepare di tisi a centinaia nelle vetrerie francesi e nelle fornaci tedesche, comprati per poche lire alle famiglie in miseria. «Loro» fanno troppi figli? In Australia ne facevamo dieci, anche quindici. E non eravamo terroni. Venivamo dalle campagne del Veneto, Friuli o Trentino. Venivamo da un Paese in miseria, che lasciava il popolo a dormire nelle stalle. Per questo riuscivamo a vivere in condizioni inconcepibili agli altri europei. Tutto questo è duro da ricordare. E allora ecco la mistificazione, scolpita sul palazzo dell'Eur. Eravamo «trasmigratori», un neologismo coniato dal Duce per non far pensare alle pezze sul ****. Per non dire che la nostra era una storia di brava gente lavoratrice ma subalterna, gabbata da altri italiani, sfruttatori bastardi e figli della stessa cultura della sopraffazione. Eravamo ignoranti, anche. «Su due navi a caso arrivate negli Usa nel 1910», racconta Stella, «gli immigrati analfabeti sbarcati dall'italiana Madonna erano il 71 per cento, quelli russi scesi dalla Lithuania il 49 per cento: 22 punti in meno. Quanto ai lavoratori specializzati, i nostri erano sette su cento, i russi 40. E lasciamo stare il confronto con gli inglesi e tedeschi: l'inferiorità era per noi umiliante». Non era solo miseria, aggiunge Stella, era miseria culturale. Il marchio di un Paese che già un secolo fa - scrivono nel 1901 H. Bolton King e Thomas Okey in L'Italia di oggi - è stato prodigo in ogni cosa «tranne che nel più fruttifero degli investimenti nazionali», la pubblica istruzione. Esattamente come oggi. No, Stella intuisce che contro la xenofobia che monta non servono le petizioni morali. Devi colpire appunto allo stomaco. Smontare la bomba a tempo ed estrarne la spoletta. Disinnescare quella maledetta presunzione di diversità che ci mette contro l'Altro. Ma per riuscirci esiste una sola strada: rompere la rimozione. Agitare i documenti della memoria sul muso di pseudo-intellettuali che cavalcano il razzismo della gente per bene pompando il nuovo clima di autoassoluzione verso i vizi nazionali. Identità: oggi è la parola d'ordine. Le si dedicano convegni, le si intitolano assessorati. Ma identici a chi? Identici ai marocchini, ai rumeni, ai curdi. In Germania e in Svizzera vivevamo in venti per stanza come i cinesi nelle soffitte di Prato. In America importavamo criminalità organizzata come gli albanesi in Puglia. Sulle Alpi facevamo i passeur, lasciavamo cadere la nostra gente nei burroni dopo averle estorto anche la camicia. Senza pietà, come gli scafisti tunisini e turchi sulle coste del nostro Sud. Ma dove nasce il vuoto di memoria? Il veneto Stella lo sa benissimo. Nasce negli emigranti stessi, quando tornano a casa. Sono i primi a costruirsi una storia falsa. Non vogliono che i figli sappiano quanto fu dura. E i figli non possono accettare di avere in un clandestino lo specchio del proprio padre. E' come i reduci di guerra, come i reduci della pulizia etnica. Memorie divise. Ecco perché le terre a emigrazione recente sono spesso quelle che covano maggior sospetto verso gli immigrati. Ma anche questo l'abbiamo provato sulla nostra pelle. Nessuno è crudele con i nuovi venuti come gli immigrati delle generazioni precedenti. Contro gli italiani, i pregiudizi più bestiali non li hanno espressi la Germania o la Svizzera, ma proprio le nuove frontiere dell'emigrazione mondiale, il Canada, l'Australia, gli Stati Uniti. Il peggior massacro di italiani innocenti in tempo di pace lo fece nel 1890 la brava gente di New Orleans, Usa. E' la storia più impressionante fra le tante raccolte. Ammazzano un poliziotto, gli italiani sono sospettati per primi. Il processo si fa per direttissima e tutti sono assolti. Ma la gente non si dà pace, il Ku Klux Klan manda sinistri ammonimenti. Gli italiani devono essere puniti. In quella Luisiana che produceva milioni di ettolitri di zucchero e melassa la nostra manodopera era una benedizione. Ma non piacevamo. Lavoravamo come negri, ma eravamo bianchi. Davamo ai negri veri un'idea eversiva: che anche il bianco dovesse sgobbare così. La gente assalta il carcere, la polizia della contea si eclissa. I nostri sono trascinati fuori, massacrati a bastonate, poi impiccati, poi crivellati di pallottole. A decine. Allucinante la reazione dei media. Il New York Times: il linciaggio «ha messo al sicuro la vita e la proprietà» della gente di New Orleans. Il Globe Democrat: gli abitanti si erano limitati a esercitare i loro diritti di «sovranità popolare e legittima difesa». Ecco cosa eravamo. La feccia del Pianeta. La china che abbiamo dovuto risalire era davvero infinita. Ecco come ci chiamavano. Dal piccolo dizionario dei nomignoli sugli italiani. BABIS: rospi (Francia), BLACKDAGO: accoltellatore nero, dalla parola "Dagger", stiletto (Louisiana), CINCALI: dal grido "Cinq!" della morra (Svizzera tedesca), DING: suonatore di campanello, termine simile a "Dingo", cane selvatico (Australia), GUINEA: africani, simili ai negri (Alabama), KATZELMACHER: fabbrica-cucchiaini, ma anche fabbrica-gatti, cioé gente che figlia come i gatti (Austria e Germania), MAFIA-MANN: mafioso (Germania), TANO: abbreviativo di napoletano (Argentina)
Perché leggere Antonio Giangrande?
Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente”, ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri. Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.
Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)
Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,
La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.
Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.
Mentre gli occhi seguono la salda carena,
la nave austera e ardita.
Ma o cuore, cuore, cuore,
O stillanti gocce rosse
Dove sul ponte giace il mio Capitano.
Caduto freddo e morto.
O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.
Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;
Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;
Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.
Qui Capitano, caro padre,
Questo mio braccio sotto la tua testa;
È un sogno che qui sopra il ponte
Tu giaccia freddo e morto.
Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;
Il mio padre non sente il mio braccio,
Non ha polso, né volontà;
La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.
Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,
Esultino le sponde e suonino le campane!
Ma io con passo dolorante
Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.
Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.
Chi sa: scrive, fa, insegna.
Chi non sa: parla e decide.
Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?
Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.
La calunnia è un venticello
un’auretta assai gentile
che insensibile sottile
leggermente dolcemente
incomincia a sussurrar.
Piano piano terra terra
sotto voce sibillando
va scorrendo, va ronzando,
nelle orecchie della gente
s’introduce destramente,
e le teste ed i cervelli
fa stordire e fa gonfiar.
Dalla bocca fuori uscendo
lo schiamazzo va crescendo:
prende forza a poco a poco,
scorre già di loco in loco,
sembra il tuono, la tempesta
che nel sen della foresta,
va fischiando, brontolando,
e ti fa d’orror gelar.
Alla fin trabocca, e scoppia,
si propaga si raddoppia
e produce un’esplosione
come un colpo di cannone,
un tremuoto, un temporale,
un tumulto generale
che fa l’aria rimbombar.
E il meschino calunniato
avvilito, calpestato
sotto il pubblico flagello
per gran sorte va a crepar.
E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.
Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.
Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it, mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.
Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?
Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò
La coscienza
Volevo sapere che cos'è questa coscienza
che spesso ho sentito nominare.
Voglio esserne a conoscenza,
spiegatemi, che cosa significa.
Ho chiesto ad un professore dell'università
il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si,
ma tanto tempo fa.
Ora la coscienza si è disintegrata,
pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,
vivendo con onore e dignità.
Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.
Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande,
il gigante, quelli che sanno rubare.
Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?
Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare.
L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere,
la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.
Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle,
se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere.
E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,
mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.
Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)
perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,
adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare.
Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare,
la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,
vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)
SE NASCI IN ITALIA…
Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.
Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui, con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.
Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.
AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO
Facile dire: sono avvocato. In Italia dove impera la corruzione e la mafiosità, quale costo intrinseco può avere un appalto truccato, un incarico pubblico taroccato, od una falsificata abilitazione ad una professione?
Ecco perché dico: italiani, popolo di corrotti! Ipocriti che si scandalizzano della corruttela altrui.
Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Concorsopoli ed esamopoli” che tratta degli esami e dei concorsi pubblici in generale. Tutti truccati o truccabili. Nessuno si salva. Inoltre, nel particolare, nel libro “Esame di avvocato, lobby forense, abilitazione truccata”, racconto, anche per esperienza diretta, quello che succede all’esame di avvocato. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno, neanche ai silurati a quest’esame farsa: la fiera delle vanità fasulle. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma la cronistoria di questi anni la si deve proprio leggere, affinchè, tu italiano che meriti, devi darti alla fuga dall’Italia, per poter avere una possibilità di successo.
Anche perché i furbetti sanno come cavarsela. Francesco Speroni principe del foro di Bruxelles. Il leghista Francesco Speroni, collega di partito dell’ing. Roberto Castelli che da Ministro della Giustizia ha inventato la pseudo riforma dei compiti itineranti, a sfregio delle commissioni meridionali, a suo dire troppo permissive all’accesso della professione forense. È l’ultima roboante voce del curriculum dell’eurodeputato leghista, nonché suocero del capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni, laureato nel 1999 a Milano e dopo 12 anni abilitato a Bruxelles. Speroni ha avuto un problema nel processo di Verona sulle camicie verdi, ma poi si è salvato grazie all’immunità parlamentare. Anche lui era con Borghezio a sventolare bandiere verdi e a insultare l’Italia durante il discorso di Ciampi qualche anno fa, quando gli italiani hanno bocciato, col referendum confermativo, la controriforma costituzionale della devolution. E così commentò: “Gli italiani fanno schifo, l’Italia fa schifo perché non vuole essere moderna!”. Ecco, l’onorevole padano a maggio 2011 ha ottenuto l’abilitazione alla professione forense in Belgio (non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria) dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. Speroni dunque potrà difendere “occasionalmente in tutta Europa” spiega lo stesso neoavvocato raggiunto telefonicamente da Elisabetta Reguitti de “Il Fatto quotidiano”.
Perché Bruxelles?
Perché in Italia è molto più difficile mentre in Belgio l’esame, non dico sia all’acqua di rose, ma insomma è certamente più facile. Non conosco le statistiche, ma qui le bocciature sono molte meno rispetto a quelle dell’esame di abilitazione in Italia”.
In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastelalla Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini.
La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare? ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino. E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”. Geronimo è amante delle auto d’epoca, ha partecipato a due storiche millemiglia. E infatti è anche vicepresidente dell’Aci di Milano. “Sono stato eletto, e allora?”. Nutre rispetto per il mattone. Siede nel consiglio di amministrazione della Premafin, holding di Ligresti, anche della Finadin, della International Strategy. altri gioiellini del del costruttore. Geronimo è socio dell’immobiliare di famiglia, la Metropol srl. Detiene la nuda proprietà dei cespiti che per parte di mamma ha nel centro di Riccione. Studioso e s’è visto. Ricco si è anche capito. Generoso, pure. Promuove infatti insieme a Barbara Berlusconi, Paolo Ligresti, Giulia Zoppas e tanti altri nomi glamour Milano Young, onlus benefica. Per tanti cervelli che fuggono all’estero, eccone uno che resta.
Geronimo, figlio di cotanto padre tutore di lobby e caste, che sa trovare le soluzioni ai suoi problemi.
Vittoria delle lobby di avvocati e commercialisti: riforma cancellata, scrive Lucia Palmerini. “…il governo formulerà alle categorie proposte di riforma.” con questa frase è stata annullata e cancellata la proposta di abolizione degli ordini professionali. Il Consiglio Nazionale Forense ha fatto appello ai deputati-avvocati per modificare la norma del disegno di legge del Ministero dell’Economia che prevedeva non solo l’eliminazione delle restrizioni all’accesso, ma la possibilità di diventare avvocato o commercialista dopo un praticantato di 2 anni nel primo caso e 3 nel secondo, l’abolizione delle tariffe minime ed il divieto assoluto alla limitazione dello svolgimento della professione da parte degli ordini. La presa di posizione degli avvocati del PdL ha rischiato di portare alla bocciatura la manovra economica al cui interno era inserita la norma su avvocati e commercialisti. Tra questi, Raffaello Masci, deputato-avvocato che ha preso in mano le redini della protesta, ha ottenuto l’appoggio del Ministro La Russa e del Presidente del Senato Schifani, tutti accomunati dalla professione di avvocato. La norma, apparsa per la prima volta ai primi di giugno, successivamente cancellata e nuovamente inserita nei giorni scorsi è stata definitivamente cancellata; il nuovo testo quanto mai inutile recita: “Il governo formulerà alle categorie interessate proposte di riforma in materia di liberalizzazione dei servizi e delle attività economiche si legge nel testo, e inoltre – trascorso il termine di 8 mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ciò che non sarà espressamente regolamentato sarà libero.” La situazione non cambia e l’Ordine degli avvocati può dormire sogni tranquilli. Ancora una volta gli interessi ed i privilegi di una casta non sono stati minimamente scalfiti o messi in discussione.
GLI ANNI PASSANO, NULLA CAMBIA ED E’ TUTTO TEMPO PERSO.
Devo dire, per onestà, che il mio calvario è iniziato nel momento in cui ho incominciato la mia pratica forense. A tal proposito, assistendo alle udienze durante la mia pratica assidua e veritiera, mi accorgevo che il numero dei Praticanti Avvocato presenti in aula non corrispondeva alla loro reale entità numerica, riportata presso il registro tenuto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi accorsi, anche, che i praticanti, per l’opera prestata a favore del dominus, non ricevevano remunerazione, o ciò avveniva in nero, né per loro si pagavano i contributi. Chiesi conto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi dissero “Fatti i fatti tuoi. Intanto facci vedere il libretto di pratica, che poi vediamo se diventi avvocato”. Controllarono il libretto, contestando la veridicità delle annotazioni e delle firme di controllo. Non basta. Nonostante il regolare pagamento dei bollettini di versamento di iscrizione, a mio carico venne attivata procedura di riscossione coattiva con cartella di pagamento, contro la quale ho presentato opposizione, poi vinta. Di fatto: con lor signori in Commissione di esame forense, non sono più diventato avvocato. A dar loro manforte, sempre nelle commissioni d’esame, vi erano e vi sono i magistrati che io ho denunciato per le loro malefatte.
Sessione d’esame d’avvocato 1998-1999. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce mi accorgo di alcune anomalie di legalità, tra cui il fatto che 6 Avetranesi su 6 vengono bocciati, me compreso, e che molti Commissari suggerivano ai candidati incapaci quanto scrivere nell’elaborato. Chi non suggeriva non impediva che gli altri lo facessero. Strano era, che compiti simili, copiati pedissequamente, erano valutati in modo difforme.
Sessione d’esame d’avvocato 1999-2000. Presidente di Commissione, Avv. Gaetano De Mauro, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Sul Quotidiano di Lecce il Presidente della stessa Commissione d’esame dice che: “il numero degli avvocati è elevato e questa massa di avvocati è incompatibile con la realtà socio economica del Salento. Così nasce la concorrenza esasperata”. L’Avv. Pasquale Corleto nello stesso articolo aggiunge: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. L’abuso del potere della Lobby forense è confermato dall’Antitrust, che con provvedimento n. 5400, il 3 ottobre 1997 afferma: “ E' indubbio che, nel controllo dell'esercizio della professione, si sia pertanto venuto a determinare uno sbilanciamento tra lo Stato e gli Ordini e che ciò abbia potuto favorire la difesa di posizioni di rendita acquisite dai professionisti già presenti sul mercato.”
Sessione d’esame d’avvocato 2000-2001. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. La percentuale di idonei si diversifica: 1998, 60 %, 1999, 25 %, 2000, 49 %, 2001, 36 %. Mi accorgo che paga essere candidato proveniente dalla sede di esame, perché, raffrontando i dati per le province del distretto della Corte D’Appello, si denota altra anomalia: Lecce, sede d’esame, 187 idonei; Taranto 140 idonei; Brindisi 59 idonei. Non basta, le percentuali di idonei per ogni Corte D’Appello nazionale variano dal 10% del Centro-Nord al 99% di Catanzaro. L’esistenza degli abusi è nel difetto e nell’eccesso della percentuale. Il TAR Lombardia, con ordinanza n.617/00, applicabile per i compiti corretti da tutte le Commissioni d’esame, rileva che i compiti non si correggono per mancanza di tempo. Dai verbali risultano corretti in 3 minuti. Con esperimento giudiziale si accerta che occorrono 6 minuti solo per leggere l’elaborato. Il TAR di Lecce, eccezionalmente contro i suoi precedenti, ma conforme a pronunzie di altri TAR, con ordinanza 1394/00, su ricorso n. 200001275 di Stefania Maritati, decreta la sospensiva e accerta che i compiti non si correggono, perché sono mancanti di glosse o correzioni, e le valutazioni sono nulle, perché non motivate. In sede di esame si disattende la Direttiva CEE 48/89, recepita con D.Lgs.115/92, che obbliga ad accertare le conoscenze deontologiche e di valutare le attitudini e le capacità di esercizio della professione del candidato, garantendo così l'interesse pubblico con equità e giustizia. Stante questo sistema di favoritismi, la Corte Costituzionale afferma, con sentenza n. 5 del 1999: "Il legislatore può stabilire che in taluni casi si prescinda dall'esame di Stato, quando vi sia stata in altro modo una verifica di idoneità tecnica e sussistano apprezzabili ragioni che giustifichino l'eccezione". In quella situazione, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame presso la Procura di Bari e alla Procura di Lecce, che la invia a Potenza. Inaspettatamente, pur con prove mastodontiche, le Procure di Potenza e Bari archiviano, senza perseguirmi per calunnia. Addirittura la Procura di Potenza non si è degnata di sentirmi.
Sessione d’esame d’avvocato 2001-2002. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. L’on. Luca Volontè, alla Camera, il 5 luglio 2001, presenta un progetto di legge, il n. 1202, in cui si dichiara formalmente che in Italia gli esami per diventare avvocato sono truccati. Secondo la sua relazione diventano avvocati non i capaci e i meritevoli, ma i raccomandati e i fortunati. Tutto mira alla limitazione della concorrenza a favore della Lobby. Addirittura c’è chi va in Spagna per diventare avvocato, per poi esercitare in Italia senza fare l’esame. A questo punto, presso la Procura di Taranto, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame di Lecce con accluse varie fonti di prova. Così fanno altri candidati con decine di testimoni a dichiarare che i Commissari suggeriscono. Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Lo stesso Ministero della Giustizia, che indice gli esami di Avvocato, mi conferma che in Italia gli esami sono truccati. Non basta, il Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, propone il decreto legge di modifica degli esami, attuando pedissequamente la volontà del Consiglio Nazionale Forense che, di fatto, sfiducia le Commissioni d’esame di tutta Italia. Gli Avvocati dubitano del loro stesso grado di correttezza, probità e legalità. In data 03/05/03, ad Arezzo si riunisce il Consiglio Nazionale Forense con i rappresentanti dei Consigli dell’Ordine locali e i rappresentanti delle associazioni Forensi. Decidono di cambiare perché si accorgono che in Italia i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati abusano del loro potere per essere rieletti, chiedendo conto delle raccomandazioni elargite, e da qui la loro incompatibilità con la qualità di Commissario d’esame. In data 16/05/03, in Consiglio dei Ministri viene accolta la proposta di Castelli, che adotta la decisione del Consiglio Nazionale Forense. Ma in quella sede si decide, anche, di sbugiardare i Magistrati e i Professori Universitari, in qualità di Commissari d’esame, prevedendo l’incompatibilità della correzione del compito fatta dalla stessa Commissione d’esame. Con D.L. 112/03 si stabilisce che il compito verrà corretto da Commissione territorialmente diversa e i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere più Commissari. In Parlamento, in sede di conversione del D.L., si attua un dibattito acceso, riscontrabile negli atti parlamentari, dal quale scaturisce l’esistenza di un sistema concorsuale marcio ed illegale di accesso all’avvocatura. Il D.L. 112/03 è convertito nella Legge 180/03. I nuovi criteri prevedono l’esclusione punitiva dei Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati dalle Commissioni d’esame e la sfiducia nei Magistrati e i Professori Universitari per la correzione dei compiti. Però, acclamata istituzionalmente l’illegalità, si omette di perseguire per abuso d’ufficio tutti i Commissari d’esame. Non solo. Ad oggi continuano ad essere Commissari d’esame gli stessi Magistrati e i Professori Universitari, ma è allucinante che, nelle nuove Commissioni d’esame, fanno parte ex Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati, già collusi in questo stato di cose quando erano in carica. Se tutto questo non basta a dichiarare truccato l’esame dell’Avvocatura, il proseguo fa scadere il tutto in una illegale “farsa”. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Durante la trasmissione “Diritto e Famiglia” di Studio 100, lo stesso Presidente dell’Ordine di Taranto, Egidio Albanese, ebbe a dire: “l’esame è blando, l’Avvocatura è un parcheggio per chi vuol far altro, diventa avvocato il fortunato, perché la fortuna aiuta gli audaci”. Si chiede copia del compito con la valutazione contestata. Si ottiene, dopo esborso di ingente denaro, per vederlo immacolato. Non contiene una correzione, né una motivazione alla valutazione data. Intanto, il Consiglio di Stato, VI sezione, con sentenza n.2331/03, non giustifica più l’abuso, indicando l’obbligatorietà della motivazione. Su queste basi di fatto e di diritto si presenta il ricorso al TAR. Il TAR, mi dice: “ dato che si disconosce il tutto, si rigetta l’istanza di sospensiva. Su queste basi vuole che si vada nel merito, per poi decidere sulle spese di giudizio?”
Sessione d’esame d’avvocato 2003-2004. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Galluccio Mezio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. I candidati continuano a copiare dai testi, dai telefonini, dai palmari, dai compiti passati dai Commissari. I candidati continuano ad essere aiutati dai suggerimenti dei Commissari. I nomi degli idonei circolano mesi prima dei risultati. I candidati leccesi, divenuti idonei, come sempre, sono la stragrande maggioranza rispetto ai brindisini e ai tarantini. Alla richiesta di visionare i compiti, senza estrarre copia, in segreteria, per ostacolarmi, non gli basta l’istanza orale, ma mi impongono la tangente della richiesta formale con perdita di tempo e onerose spese accessorie. Arrivano a minacciare la chiamata dei Carabinieri se non si fa come impongono loro, o si va via. Le anomalie di regolarità del Concorso Forense, avendo carattere generale, sono state oggetto della denuncia formale presentata presso le Procure Antimafia e presso tutti i Procuratori Generali delle Corti d’Appello e tutti i Procuratori Capo della Repubblica presso i Tribunali di tutta Italia. Si presenta l’esposto al Presidente del Consiglio e al Ministro della Giustizia, al Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia e Giustizia del Senato. La Gazzetta del Mezzogiorno, in data 25/05/04, pubblica la notizia che altri esposti sono stati presentati contro la Commissione d’esame di Lecce (vedi Michele D’Eredità). Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2004-2005. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Marcello Marcuccio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Durante le prove d’esame ci sono gli stessi suggerimenti e le stesse copiature. I pareri motivati della prova scritta avvenuta presso una Commissione d’esame vengono corretti da altre Commissioni. Quelli di Lecce sono corretti dalla Commissione d’esame di Torino, che da anni attua un maggiore sbarramento d’idoneità. Ergo: i candidati sanno in anticipo che saranno bocciati in numero maggiore a causa dell’illegale limitazione della concorrenza professionale. Presento l’ennesima denuncia presso la Procura di Potenza, la Procura di Bari, la Procura di Torino e la Procura di Milano, e presso i Procuratori Generali e Procuratori Capo di Lecce, Bari, Potenza e Taranto, perché tra le altre cose, mi accorgo che tutti i candidati provenienti da paesi amministrati da una parte politica, o aventi Parlamentari dello stesso colore, sono idonei in percentuale molto maggiore. Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2005-2006. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Raffaele Dell’Anna. Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Addirittura i Commissari dettavano gli elaborati ai candidati. Gente che copiava dai testi. Gente che copiava dai palmari. Le valutazioni delle 7 Sottocommissioni veneziane non sono state omogenee, se non addirittura contrastanti nei giudizi. Il Tar di Salerno, Ordinanza n.1474/2006, conforme al Tar di Lecce, Milano e Firenze, dice che l’esame forense è truccato. I Tar stabiliscono che i compiti non sono corretti perché non vi è stato tempo sufficiente, perché non vi sono correzioni, perché mancano le motivazioni ai giudizi, perché i giudizi sono contrastanti, anche in presenza di compiti copiati e non annullati. Si è presentata l’ulteriore denuncia a Trento e a Potenza. Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2006-2007. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Giangaetano Caiaffa. Principe del Foro di Lecce. Presente l’Ispettore Ministeriale Vito Nanna. I posti a sedere, negli anni precedenti assegnati in ordine alfabetico, in tale sessione non lo sono più, tant’è che si sono predisposti illecitamente gruppi di ricerca collettiva. Nei giorni 12,13,14 dicembre, a dispetto dell’orario di convocazione delle ore 07.30, si sono letti i compiti rispettivamente alle ore 11.45, 10.45, 11.10. Molte ore dopo rispetto alle ore 09.00 delle altre Commissioni d’esame. Troppo tardi, giusto per agevolare la dettatura dei compiti tramite cellulari, in virtù della conoscenza sul web delle risposte ai quesiti posti. Commissione di correzione degli scritti è Palermo. Per ritorsione conseguente alle mie lotte contro i concorsi forensi truccati e lo sfruttamento dei praticanti, con omissione di retribuzione ed evasione fiscale e contributiva, dopo 9 anni di bocciature ritorsive all’esame forense e ottimi pareri resi, quest’anno mi danno 15, 15, 18 per i rispettivi elaborati, senza correzioni e motivazioni: è il minimo. Da dare solo a compiti nulli. La maggior parte degli idonei è leccese, in concomitanza con le elezioni amministrative, rispetto ai tarantini ed ai brindisini. Tramite le televisioni e i media nazionali si promuove un ricorso collettivo da presentare ai Tar di tutta Italia contro la oggettiva invalidità del sistema giudiziale rispetto alla totalità degli elaborati nel loro complesso: per mancanza, nelle Sottocommissioni di esame, di tutte le componenti professionali necessarie e, addirittura, del Presidente nominato dal Ministero della Giustizia; per giudizio con motivazione mancante, o illogica rispetto al quesito, o infondata per mancanza di glosse o correzioni, o incomprensibile al fine del rimedio alla reiterazione degli errori; giudizio contrastante a quello reso per elaborati simili; giudizio non conforme ai principi di correzione; giudizio eccessivamente severo; tempo di correzione insufficiente. Si presenta esposto penale contro le commissioni di Palermo, Lecce, Bari, Venezia, presso le Procure di Taranto, Lecce, Potenza, Palermo, Caltanissetta, Bari, Venezia, Trento. Il Pubblico Ministero di Palermo archivia immediatamente, iscrivendo il procedimento a carico di ignoti, pur essendoci chiaramente indicati i 5 nomi dei Commissari d’esame denunciati. I candidati di Lecce disertano in modo assoluto l’iniziativa del ricorso al Tar. Al contrario, in altre Corti di Appello vi è stata ampia adesione, che ha portato a verificare, comparando, modi e tempi del sistema di correzione. Il tutto a confermare le illegalità perpetrate, che rimangono impunite.
Sessione d’esame d’avvocato 2007-2008. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Massimo Fasano, Principe del Foro di Lecce. Addirittura uno scandalo nazionale ha sconvolto le prove scritte: le tracce degli elaborati erano sul web giorni prima rispetto alla loro lettura in sede di esame. Le risposte erano dettate da amici e parenti sul cellulare e sui palmari dei candidati. Circostanza da sempre esistita e denunciata dal sottoscritto nell’indifferenza generale. Questa volta non sono solo. Anche il Sottosegretario del Ministero dell’Interno, On. Alfredo Mantovano, ha presentato denuncia penale e una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia, chiedendo la nullità della prova, così come è successo per fatto analogo a Bari, per i test di accesso alla Facoltà di Medicina. Anche per lui stesso risultato: insabbiamento dell’inchiesta.
Sessione d’esame d’avvocato 2008-2009. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Pietro Nicolardi, Principe del Foro di Lecce. E’ la undicesima volta che mi presento a rendere dei pareri legali. Pareri legali dettati ai candidati dagli stessi commissari o dai genitori sui palmari. Pareri resi su tracce già conosciute perché pubblicate su internet o perché le buste sono aperte ore dopo rispetto ad altre sedi, dando il tempo ai candidati di farsi passare il parere sui cellulari. Pareri di 5 o 6 pagine non letti e corretti, ma dichiarati tali in soli 3 minuti, nonostante vi fosse l’onere dell’apertura di 2 buste, della lettura, della correzione, del giudizio, della motivazione e della verbalizzazione. Il tutto fatto da commissioni illegittime, perché mancanti dei componenti necessari e da giudizi nulli, perché mancanti di glosse, correzioni e motivazioni. Il tutto fatto da commissioni che limitano l’accesso e da commissari abilitati alla professione con lo stesso sistema truccato. Da quanto emerge dal sistema concorsuale forense, vi è una certa similitudine con il sistema concorsuale notarile e quello giudiziario e quello accademico, così come le cronache del 2008 ci hanno informato. Certo è che se nulla hanno smosso le denunce del Ministro dell’Istruzione, Gelmini, lei di Brescia costretta a fare gli esami a Reggio Calabria, e del Sottosegretario al Ministero degli Interni, Mantovano, le denunce insabbiate dal sottoscritto contro i concorsi truccati, mi porteranno, per ritorsione, ad affrontare l’anno prossimo per la dodicesima volta l’esame forense, questa volta con mio figlio Mirko. Dopo essere stato bocciato allo scritto dell’esame forense per ben 11 volte, che ha causato la mia indigenza ho provato a visionare i compiti, per sapere quanto fossi inetto. Con mia meraviglia ho scoperto che il marcio non era in me. La commissione esaminatrice di Reggio Calabria era nulla, in quanto mancante di una componente necessaria. Erano 4 avvocati e un magistrato. Mancava la figura del professore universitario. Inoltre i 3 temi, perfetti in ortografia, sintassi e grammatica, risultavano visionati e corretti in soli 5 minuti, compresi i periodi di apertura di 6 buste e il tempo della consultazione, valutazione ed estensione del giudizio. Tempo ritenuto insufficiente da molti Tar. Per questi motivi, senza entrare nelle tante eccezioni da contestare nel giudizio, compresa la comparazione di compiti identici, valutati in modo difforme, si appalesava la nullità assoluta della decisione della commissione, già acclarata da precedenti giurisprudenziali. Per farmi patrocinare, ho provato a rivolgermi ad un principe del foro amministrativo di Lecce. Dal noto esponente politico non ho meritato risposta. Si è di sinistra solo se si deve avere, mai se si deve dare. L’istanza di accesso al gratuito patrocinio presentata personalmente, dopo settimane, viene rigettata. Per la Commissione di Lecce c’è indigenza, ma non c’è motivo per il ricorso!!! Nel processo amministrativo si rigettano le istanze di ammissione al gratuito patrocinio per il ricorso al Tar per mancanza di “fumus”: la commissione formata ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2 magistrati del Tar e da un avvocato, entra nel merito, adottando una sentenza preventiva senza contraddittorio, riservandosi termini che rasentano la decadenza per il ricorso al Tar.
Sessione d’esame d’avvocato 2009-2010. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Angelo Pallara, Principe del Foro di Lecce. Nella sua sessione, nonostante i candidati fossero meno della metà degli altri anni, non ci fu notifica postale dell’ammissione agli esami. E’ la dodicesima volta che mi presento. Questa volta con mio figlio Mirko. Quantunque nelle sessioni precedenti i miei compiti non fossero stati corretti e comunque giudicate da commissioni illegittime, contro le quali mi è stato impedito il ricorso al Tar. Le mie denunce penali presentate a Lecce, Potenza, Catanzaro, Reggio Calabria, e i miei esposti ministeriali: tutto lettera morta. Alle mie sollecitazioni il Governo mi ha risposto: hai ragione, provvederemo. Il provvedimento non è mai arrivato. Intanto il Ministro della Giustizia nomina ispettore ministeriale nazionale per questa sessione, come negli anni precedenti, l’avv. Antonio De Giorgi, già Presidente di commissione di esame di Lecce, per gli anni 1998-99, 2000-01, 2001-02, e ricoprente l’incarico di presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. Insomma è tutta una presa in giro: costui con la riforma del 2003 è incompatibile a ricoprire l’incarico di presidente di sottocommissione, mentre, addirittura, viene nominato ispettore su un concorso che, quando lui era presidente, veniva considerato irregolare. Comunque è di Avetrana (TA) l’avvocato più giovane d’Italia. Il primato è stabilito sul regime dell’obbligo della doppia laurea. 25 anni. Mirko Giangrande, classe 1985. Carriera scolastica iniziata direttamente con la seconda elementare; con voto 10 a tutte le materie al quarto superiore salta il quinto ed affronta direttamente la maturità. Carriera universitaria nei tempi regolamentari: 3 anni per la laurea in scienze giuridiche; 2 anni per la laurea magistrale in giurisprudenza. Praticantato di due anni e superamento dell’esame scritto ed orale di abilitazione al primo colpo, senza l’ausilio degli inutili ed onerosi corsi pre esame organizzati dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Et Voilà, l’avvocato più giovane d’Italia. Cosa straordinaria: non tanto per la giovane età, ma per il fatto che sia avvenuta contro ogni previsione, tenuto conto che Mirko è figlio di Antonio Giangrande, noto antagonista della lobby forense e della casta giudiziaria ed accademica. Ma nulla si può contro gli abusi e le ritorsioni, nonostante che ogni anno in sede di esame tutti coloro che gli siedono vicino si abilitano con i suoi suggerimenti. Volontariato da educatore presso l’oratorio della parrocchia di Avetrana, e volontariato da assistente e consulente legale presso l’Associazione Contro Tutte le Mafie, con sede nazionale proprio ad Avetrana, fanno di Mirko Giangrande un esempio per tanti giovani, non solo avetranesi. Questo giustappunto per evidenziare una notizia positiva attinente Avetrana, in alternativa a quelle sottaciute ed alle tante negative collegate al caso di Sarah Scazzi. L’iscrizione all’Albo compiuta a novembre nonostante l’abilitazione sia avvenuta a settembre, alla cui domanda con allegati l’ufficio non rilascia mai ricevuta, è costata in tutto la bellezza di 650 euro tra versamenti e bolli. Ingenti spese ingiustificate a favore di caste-azienda, a cui non corrispondono degni ed utili servizi alle migliaia di iscritti. Oltretutto oneri non indifferenti per tutti i neo avvocati, che non hanno mai lavorato e hanno sopportato con sacrifici e privazioni ingenti spese per anni di studio. Consiglio dell’Ordine di Taranto che, come riportato dalla stampa sul caso Sarah Scazzi, apre un procedimento contro i suoi iscritti per sovraesposizione mediatica, accaparramento illecito di cliente e compravendita di atti ed interviste (Galoppa, Russo e Velletri) e nulla dice, invece, contro chi, avvocati e consulenti, si è macchiato delle stesse violazioni, ma che, venuto da lontano, pensa che Taranto e provincia sia terra di conquista professionale e tutto possa essere permesso. Figlio di famiglia indigente ed oppressa: il padre, Antonio Giangrande, perseguitato (abilitazione forense impedita da 12 anni; processi, senza condanna, di diffamazione a mezzo stampa per articoli mai scritti e di calunnia per denunce mai presentate in quanto proprio le denunce presentate sono regolarmente insabbiate; dibattimenti in cui il giudice è sempre ricusato per grave inimicizia perché denunciato). Perseguitato perché noto antagonista del sistema giudiziario e forense tarantino, in quanto combatte e rende note le ingiustizie e gli abusi in quel che viene definito “Il Foro dell’Ingiustizia”. (insabbiamenti; errori giudiziari noti: Morrone, Pedone, Sebai; magistrati inquisiti e arrestati). Perseguitato perché scrive e dice tutto quello che si tace.
Sessione d’esame d’avvocato 2010-2011. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Maurizio Villani, Principe del Foro di Lecce. Compresa la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo. Presente anche il Presidente della Commissione Centrale Avv. Antonio De Giorgi, contestualmente componente del Consiglio Nazionale Forense, in rappresentanza istituzionale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del distretto della Corte di Appello di Lecce. Tutto verificabile dai siti web di riferimento. Dubbi e critica sui modi inopportuni di nomina. Testo del Decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, recante modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense, è convertito in legge con le modificazioni coordinate con la legge di conversione 18 Luglio 2003, n. 180: “Art. 1-bis: ….5. Il Ministro della giustizia nomina per la commissione e per ogni sottocommissione il presidente e il vicepresidente tra i componenti avvocati. I supplenti intervengono nella commissione e nelle sottocommissioni in sostituzione di qualsiasi membro effettivo. 6. Gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni sono designati dal Consiglio nazionale forense, su proposta congiunta dei consigli dell'ordine di ciascun distretto, assicurando la presenza in ogni sottocommissione, a rotazione annuale, di almeno un avvocato per ogni consiglio dell'ordine del distretto. Non possono essere designati avvocati che siano membri dei consigli dell'ordine…”. Antonio De Giorgi è un simbolo del vecchio sistema ante riforma, ampiamente criticato tanto da riformarlo a causa della “Mala Gestio” dei Consiglieri dell’Ordine in ambito della loro attività come Commissari d’esame. Infatti Antonio De Giorgi è stato a fasi alterne fino al 2003 Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e contestualmente Presidente di sottocommissioni di esame di quel Distretto. Oggi ci ritroviamo ancora Antonio De Giorgi, non più come Presidente di sottocommissione, ma addirittura come presidente della Commissione centrale. La norma prevede, come membro di commissione e sottocommissione, la nomina di avvocati, ma non di consiglieri dell’Ordine. Come intendere la carica di consigliere nazionale forense indicato dal Consiglio dell’Ordine di Lecce, se non la sua estensione istituzionale e, quindi, la sua incompatibilità alla nomina di Commissario d’esame. E quantunque ciò non sia vietato dalla legge, per la ratio della norma e per il buon senso sembra inopportuno che, come presidente di Commissione centrale e/o sottocommissione periferica d’esame, sia nominato dal Ministro della Giustizia non un avvocato designato dal Consiglio Nazionale Forense su proposta dei Consigli dell'Ordine, ma addirittura un membro dello stesso Consiglio Nazionale Forense che li designa. Come è inopportuno che sia nominato chi sia l’espressione del Consiglio di appartenenza e comunque che sia l’eredità di un sistema osteggiato. Insomma, qui ci stanno prendendo in giro: si esce dalla porta e si entra dalla finestra. Cosa può pensare un candidato che si sente dire dai presidenti Villani e De Giorgi, siamo 240 mila e ci sono quest’anno 23 mila domande, quindi ci dobbiamo regolare? Cosa può pensare Antonio Giangrande, il quale ha denunciato negli anni le sottocommissioni comprese quelle presiedute da Antonio De Giorgi (sottocommissioni a cui ha partecipato come candidato per ben 13 anni e che lo hanno bocciato in modo strumentale), e poi si accorge che il De Giorgi, dopo la riforma è stato designato ispettore ministeriale, e poi, addirittura, è diventato presidente della Commissione centrale? Cosa può pensare Antonio Giangrande, quando verifica che Antonio De Giorgi, presidente anche delle sottocommissioni denunciate, successivamente ha avuto rapporti istituzionali con tutte le commissioni d’esame sorteggiate, competenti a correggere i compiti di Lecce e quindi anche del Giangrande? "A pensare male, spesso si azzecca..." disse Giulio Andreotti. Nel procedimento 1240/2011, in cui si sono presentati ben 8 motivi di nullità dei giudizi (come in allegato), il TAR rigetta il ricorso del presente istante, riferendosi alla sentenza della Corte Costituzionale, oltre ad addurre, pretestuosamente, motivazioni estranee ai punti contestati (come si riscontra nella comparazione tra le conclusioni e il dispositivo in allegato). Lo stesso TAR, invece, ha disposto la misura cautelare per un ricorso di altro candidato che contestava un solo motivo, (procedimento 746/2009). Addirittura con ordinanza 990/2010 accoglieva l’istanza cautelare entrando nel merito dell’elaborato. Ordinanza annullata dal Consiglio di Stato, sez. IV, 22 febbraio 2011, n. 595. TENUTO CONTO CHE IN ITALIA NON VI E' GIUSTIZIA SI E' PRESENTATO RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI. Qui si rileva che la Corte di Cassazione, nonostante la fondatezza della pretesa, non ha disposto per motivi di Giustizia e di opportunità la rimessione dei processi dell’istante ai sensi dell’art. 45 ss. c.p.p.. Altresì qui si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.
Sessione d’esame d’avvocato 2011-2012. Tutto come prima. Spero che sia l'ultima volta. Presidente di Commissione, Avv. Nicola Stefanizzo, Principe del Foro di Lecce. Foro competente alla correzione: Salerno. Dal sito web della Corte d’Appello di Lecce si vengono a sapere le statistiche dell'anno 2011: Totale Candidati iscritti 1277 di cui Maschi 533 Femmine 744. Invece le statistiche dell'anno 2010: Totale Candidati inscritti 1161 di cui Maschi 471 Femmine 690. Ammessi all'orale 304; non Ammessi dalla Commissione di Palermo 857 (74%). Si è presentata denuncia penale a tutte le procure presso le Corti d'Appello contro le anomalie di nomina della Commissione centrale d'esame, oltre che contro la Commissione di Palermo, in quanto questa ha dichiarato falsamente come corretti i compiti del Dr Antonio Giangrande, dando un 25 senza motivazione agli elaborati non corretti. Contestualmente si è denunciato il Tar di Lecce che ha rigettato il ricorso indicanti molteplici punti di nullità al giudizio dato ai medesimi compiti. Oltretutto motivi sostenuti da corposa giurisprudenza. Invece lo stesso Tar ha ritenuto ammissibili le istanze di altri ricorsi analoghi, per giunta valutando il merito degli stessi elaborati. Antonio Giangrande, l’alfiere contro i concorsi truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il conto. Anzi il rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a benpensanti e poi sono i primi a fottere la legge ed i loro conterranei. Un giudizio sull’operato di un certo giornalismo lo debbo proprio dare, tenuto conto che è noto il mio giudizio su un sistema di potere che tutela se stesso, indifferente ai cambiamenti sociali ed insofferente nei confronti di chi si ribella. Da anni sui miei siti web fornisco le prove su come si trucca un concorso pubblico, nella fattispecie quello di avvocato, e su come si paga dazio nel dimostrarlo. Nel tempo la tecnica truffaldina, di un concorso basato su regole di un millennio fa, si è affinata trovando sponda istituzionale. La Corte Costituzionale il 7 giugno 2011, con sentenza n. 175, dice: è ammesso il giudizio non motivato, basta il voto. Alla faccia della trasparenza e del buon andamento e della legalità. Insomma dove prima era possibile contestare ora non lo è più. D'altronde la Cassazione ammette: le commissioni sbagliano ed il Tar può sindacare i loro giudizi. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. L’essere omertosi sulla cooptazione abilitativa di una professione od incarico, mafiosamente conforme al sistema, significa essere complici e quindi poco credibili agli occhi dei lettori e telespettatori, che, come dalla politica, si allontana sempre più da un certo modo di fare informazione. Il fatto che io non trovi solidarietà e sostegno in chi dovrebbe raccontare i fatti, mi lascia indifferente, ma non silente sul malaffare che si perpetra intorno a me ed è taciuto da chi dovrebbe raccontarlo. Premiale è il fatto che i miei scritti sono letti in tutto il mondo, così come i miei video, in centinaia di migliaia di volte al dì, a differenza di chi e censorio. Per questo è ignorato dal cittadino che ormai, in video o in testi, non trova nei suoi servizi giornalistici la verità, se non quella prona al potere. Dopo 15 anni, dal 1998 ancora una volta bocciato all’esame di avvocato ed ancora una volta a voler trovare sponda per denunciare una persecuzione. Non perché voglia solo denunciare l’esame truccato per l’abilitazione in avvocatura, di cui sono vittima, ma perché lo stesso esame sia uguale a quello della magistratura (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni), del notariato (tracce già svolte), dell’insegnamento accademico (cattedra da padre in figlio) e di tanti grandi e piccoli concorsi nazionali o locali. Tutti concorsi taroccati, così raccontati dalla cronaca divenuta storia. Per ultimo si è parlato del concorso dell’Agenzia delle Entrate (inizio dell’esame con ore di ritardo e con il compito già svolto) e del concorso dell’Avvocatura dello Stato (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni). A quest’ultimi candidati è andata anche peggio rispetto a me: violenza delle Forze dell’Ordine sui candidati che denunciavano l’imbroglio. Non che sia utile trovare una sponda che denunci quanto io sostengo con prove, tanto i miei rumors fanno boato a sè, ma si appalesa il fatto che vi è una certa disaffezione per quelle categorie che giornalmente ci offrono con la cronaca il peggio di sé: censura ed omertà. Per qualcuno forse è meglio che a me non sia permesso di diventare avvocato a cause delle mie denunce presentate a chi, magistrato, oltre che omissivo ad intervenire, è attivo nel procrastinare i concorsi truccati in qualità di commissari. Sia chiaro a tutti: essere uno dei 10mila magistrati, uno dei 200mila avvocati, uno dei mille parlamentari, uno dei tanti professori o giornalisti, non mi interessa più, per quello che è il loro valore reale, ma continuerò a partecipare al concorso forense per dimostrare dall’interno quanto sia insano. Chi mi vuol male, per ritorsione alle mie lotte, non mi fa diventare avvocato, ma vorrebbe portarmi all’insana esasperazione di Giovanni Vantaggiato, autore della bomba a Brindisi. Invece, questi mi hanno fatto diventare l’Antonio Giangrande: fiero di essere diverso! Antonio Giangrande che con le sue deflagrazioni di verità, rompe l’omertà mafiosa. L’appoggio per una denuncia pubblica non lo chiedo per me, che non ne ho bisogno, ma una certa corrente di pensiero bisogna pur attivarla, affinché l’esasperazione della gente non travolga i giornalisti, come sedicenti operatori dell’informazione, così come già avvenuto in altri campi. E gli operatori dell’informazione se non se ne sono accorti, i ragazzi di Brindisi sono stati lì a ricordarglielo. Si è visto la mafia dove non c’è e non la si indica dove è chiaro che si annida. Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.). Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti). La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo. Quindi abolizione dei concorsi truccati e liberalizzazione delle professioni. Che sia il libero mercato a decidere chi merita di esercitare la professione in base alle capacità e non in virtù della paternità o delle amicizie. Un modo per poter vincere la nostra battaglia ed abolire ogni esame truccato di abilitazione, c'è! Essere in tanti a testimoniare il proprio dissenso. Ognuno di noi, facente parte dei perdenti, inviti altri ad aderire ad un movimento di protesta, affinchè possiamo essere migliaia e contare politicamente per affermare la nostra idea. Generalmente si è depressi e poco coraggiosi nell'affrontare l'esito negativo di un concorso pubblico. Se già sappiamo che è truccato, vuol dire che la bocciatura non è a noi addebitale. Cambiamo le cose, aggreghiamoci, contiamoci attraverso facebook. Se siamo in tanti saremo appetibili e qualcuno ci rappresenterà in Parlamento. Altrimenti ci rappresenteremo da soli. Facciamo diventare questo dissenso forte di migliaia di adesioni. Poi faremo dei convegni e poi delle manifestazioni. L'importante far sapere che il candidato perdente non sarà mai solo e potremo aspirare ad avere una nuova classe dirigente capace e competente.
Sessione d’esame d’avvocato 2012-2013. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Flascassovitti, Principe del Foro di Lecce, il quale ha evitato la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo con una semplice soluzione: il posto assegnato. Ma ciò non ha evitato l’espulsione di chi è stato scoperto a copiare da fonti non autorizzate o da compiti stilati forse da qualche commissario, oppure smascherato perché scriveva il tema sotto dettatura da cellulare munito di auricolare. Peccato per loro che si son fatti beccare. Tutti copiavano, così come hanno fatto al loro esame gli stessi commissari che li hanno cacciati. Ed è inutile ogni tentativo di apparir puliti. Quattromila aspiranti avvocati si sono presentati alla Nuova Fiera di Roma per le prove scritte dell'esame di abilitazione forense 2012. I candidati si sono presentati all'ingresso del secondo padiglione della Fiera sin dalle prime ore del mattino, perchè a Roma c'è l'obbligo di consegnare i testi il giorno prima, per consentire alla commissione di controllare che nessuno nasconda appunti all'interno. A Lecce sono 1.341 i giovani (e non più giovani come me) laureati in Giurisprudenza. Foro competente alla correzione: Catania. Un esame di Stato che è diventato un concorso pubblico, dove chi vince, vince un bel niente. Intanto il mio ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro la valutazione insufficiente data alle prove scritte della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione, non ha prodotto alcun giudizio, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito del ricorso, a ben altre due sessioni successive, il cui esito è identico ai 15 anni precedenti: compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar è stati costretti di presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Dall’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Ormai l’esame lo si affronta non tanto per superarlo, in quanto dopo 15 anni non vi è più soddisfazione, dopo una vita rovinata non dai singoli commissari, avvocati o magistrati o professori universitari, che magari sono anche ignari su come funziona il sistema, ma dopo una vita rovinata da un intero sistema mafioso, che si dipinge invece, falsamente, probo e corretto, ma lo si affronta per rendere una testimonianza ai posteri ed al mondo. Per raccontare, insomma, una realtà sottaciuta ed impunita. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992. Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome. A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. A questo punto mi devono spiegare cosa centra, per esempio, la siciliana Anna Finocchiaro con la Puglia e con Taranto in particolare. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti? QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME? Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi. La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato? «Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”. E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”. Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati. Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati. Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più? Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465). E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”. E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima». Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar. Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio? Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito. Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme. Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!
Sessione d’esame d’avvocato 2013-2014. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Covella, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Naturalmente anche in questa sessione un altro tassello si aggiunge ad inficiare la credibilità dell’esame forense. "La S.V. ha superato le prove scritte e dovrà sostenere le prove orali dinanzi alla Sottocommissione". "Rileviamo che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali". Due documenti, il secondo contraddice e annulla il primo (che è stato un errore), sono stati inviati dalla Corte di Appello di Lecce ad alcuni partecipanti alla prova d’esame per diventare avvocato della tornata 2013, sostenuta nel dicembre scorso. Agli esami di avvocato della Corte di Appello di Lecce hanno partecipato circa mille praticanti avvocati e gli elaborati sono stati inviati per la correzione alla Corte di Appello di Palermo. (commissari da me denunciati per concorsi truccati già in precedente sessione). L’errore ha provocato polemiche e critiche sul web da parte dei candidati. La vicenda sembra avere il sapore di una beffa travestita da caos burocratico, ma non solo. Che in mezzo agli idonei ci siano coloro che non debbano passare e al contrario tra gli scartati ci siano quelli da far passare? E lì vi è un dubbio che assale i malpensanti. Alle 17 del 19 giugno nella posta di alcuni candidati (nell’Intranet della Corte di Appello) è arrivata una comunicazione su carta intestata della stessa Corte di Appello, firmata dal presidente della commissione, avvocato Luigi Covella, con la quale si informava di aver superato "le prove scritte" fissando anche le date nelle quali sostenere le prove orali, con la prima e la seconda convocazione. Tre ore dopo, sul sito ufficiale corteappellolecce.it, la smentita con una breve nota. "Rileviamo – è scritto – che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali. Le predette comunicazioni e convocazioni non hanno valore legale in quanto gli esiti delle prove scritte non sono stati ancora pubblicati in forma ufficiale. Gli esiti ufficiali saranno resi pubblici a conclusione delle operazioni di inserimento dei dati nel sistema, attualmente ancora in corso". Sui forum animati dai candidati sul web è scoppiata la protesta e in tanti si sono indignati. "Vergogna", scrive Rosella su mininterno.net. "Quello che sta accadendo non ha precedenti. Mi manca soltanto sapere di essere stato vittima di uno scherzo!", puntualizza Pier. Un candidato che si firma Sicomor: "un classico in Italia... divertirsi sulla sorte della povera gente! poveri noi!". Un altro utente attacca: "Si parano il c... da cosa? L’anno scorso i risultati uscirono il venerdì sera sul profilo personale e poi il sabato mattina col file pdf sul sito pubblico della Corte! La verità è che navighiamo in un mare di poca professionalità e con serietà pari a zero!". Frank aggiunge: "Ma come è possibile una cosa simile stiamo parlando di un concorso!". Il pomeriggio di lunedì 23 giugno 2014 sono stati pubblicati i nomi degli idonei all’orale. Quelli “giusti”, questa volta. E dire che trattasi della Commissione d’esame di Palermo da me denunciata e della commissione di Lecce, da me denunciata. Che consorteria tra toghe forensi e giudiziarie. Sono 465 i candidati ammessi alla prova orale presso la Corte di Appello di Lecce. E' quanto si apprende dalla comunicazione 21 giugno 2013 pubblicata sul sito della Corte di Appello di Lecce. Il totale dei partecipanti era di 1.258 unità: la percentuale degli ammessi risulta pertanto pari al 36,96%. Una percentuale da impedimento all’accesso. Percentuale propria delle commissioni d’esame di avvocato nordiste e non dell’insulare Palermo. Proprio Palermo. Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri». Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».
Sessione d’esame d’avvocato 2014-2015. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco De Jaco, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Sede di Corte d’appello sorteggiata per la correzione è Brescia. Mi tocca, non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria, dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini. Io dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a lui di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. A Bari avrebbero tentato di agevolare la prova d'esame di cinque aspiranti avvocati ma sono stati bloccati e denunciati dai Carabinieri, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È accaduto nella Fiera del Levante di Bari dove è in corso da tre giorni l'esame di abilitazione professionale degli avvocati baresi. In circa 1500 hanno sostenuto le prove scritte in questi giorni ma oggi, ultimo giorno degli scritti, i Carabinieri sono intervenuti intercettando una busta contenente i compiti diretti a cinque candidati. Un dipendente della Corte di Appello, con il compito di sorvegliante nei tre giorni di prova, avrebbe consegnato ad una funzionaria dell'Università la busta con le tracce. Lei, dopo alcune ore, gli avrebbe restituito la busta con all'interno i compiti corretti e un biglietto con i cinque nomi a cui consegnare i temi. Proprio nel momento del passaggio sono intervenuti i Carabinieri, che pedinavano la donna fin dal primo giorno, dopo aver ricevuto una segnalazione. Sequestrata la busta i militari hanno condotto i due in caserma per interrogarli. Al momento sono indagati a piede libero per la violazione della legge n. 475 del 1925 sugli esami di abilitazione professionali, che prevede la condanna da tre mesi a un anno di reclusione per chi copia. Le indagini dei Carabinieri, coordinate dal pm Eugenia Pontassuglia, verificheranno nei prossimi giorni la posizione dei cinque aspiranti avvocati destinatari delle tracce e quella di altre persone eventualmente coinvolte nella vicenda. Inoltre tre aspiranti avvocatesse (una è figlia di due magistrati), sono entrate nell’aula tirandosi dietro il telefono cellulare che durante la prova hanno cercato di utilizzare dopo essersi rifugiate in bagno. Quando si sono rese conto che sarebbero state scoperte, sono tornate in aula. Pochi minuti dopo il presidente della commissione d’esame ha comunicato il ritrovamento in bagno dei due apparecchi ma solo una delle due candidate si è fatta avanti, subito espulsa. L’altra è rimasta in silenzio ma è stata identifica. Esame per avvocati, la banda della truffa: coinvolti tre legali e due dirigenti pubblici. Blitz dei carabinieri nella sede della Finanza. E la potente funzionaria di Giurisprudenza sviene, scrive Gabriella De Matteis e Giuliana Foschini su “La Repubblica”. Un ponte telefonico con l'esterno. Tre avvocati pronti a scrivere i compiti. Un gancio per portare il tutto all'interno. Sei candidati pronti a consegnare. Era tutto pronto. Anzi era tutto fatto. Ma qualcosa è andato storto: quando la banda dell'"esame da avvocato" credeva che tutto fosse andato per il verso giusto, sono arrivati i carabinieri del reparto investigativo a fare saltare il banco. E a regalare l'ennesimo scandalo concorsuale a Bari. E' successo tutto mercoledì 17 dicembre 2014 pomeriggio all'esterno dei padiglioni della Guardia di finanza dove stava andando in scena la prova scritta per l'esame da avvocato. Mille e cinquecento all'incirca i partecipanti, divisi in ordine alfabetico. Commissione e steward per evitare passaggi di compiti o copiature varie. Apparentemente nulla di strano. Apparentemente appunto. Perché non appena vengono aperte le buste e lette le tracce si comincia a muovere il Sistema scoperto dai carabinieri. Qualcuno dall'interno le comunica a Tina Laquale, potente dirigente amministrativo della facoltà di Giurisprudenza di Bari. E' lei a girarle, almeno questo hanno ricostruito i Carabinieri, a tre avvocati che avevano il compito di redigere il parere di civile e di penale e di scrivere l'atto. Con i compiti in mano la Laquale si è presentata all'esterno dei padiglioni. All'interno c'era un altro componente del gruppo, Giacomo Santamaria, cancelliere della Corte d'Appello che aveva il compito di fare arrivare i compiti ai sei candidati che all'interno li aspettavano. Compiti che sarebbero poi stati consegnati alla commissione e via. Ma qui qualcosa è andato storto. Sono arrivati infatti i carabinieri che hanno bloccato tutto. Laquale è svenuta, mentre a lei e a tutte quante le altre persone venivano sequestrati documenti e soprattutto supporti informatici, telefoni in primis, che verranno analizzati in queste ore. Gli investigatori devono infatti verificare se, come sembra, il sistema fosse da tempo organizzato e rodato, se ci fosse un corrispettivo di denaro e la vastità del fenomeno. Ieri si è tenuta la convalida del sequestro davanti al sostituto procuratore, Eugenia Pontassuglia. Ma com'è chiaro l'indagine è appena cominciata. Per il momento viene contestata la truffa e la violazione di una vecchia legge del 1925 secondo la cui "chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed all'esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito". È molto probabile infatti che l'esame venga invalidato per tutti. Certo è facile prendersela con i poveri cristi. Le macagne nelle segrete stanze delle commissioni di esame, in cui ci sono i magistrati, nessuno va ad indagare: perché per i concorsi truccati nessuno va in galera. Concorsi, i figli di papà vincono facile: "E noi, figli di nessuno, restiamo fuori". L’inchiesta sul dottorato vinto dal figlio del rettore della Sapienza nonostante l'uso del bianchetto ha raccolto centinaia di commenti e condivisioni. E ora siamo noi a chiedervi di raccontarci la vostra storia di candidati meritevoli ma senza parenti eccellenti. Ecco le prime due lettere arrivate, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A chi figli, e a chi figliastri: è questa la legge morale che impera in Italia, il Paese della discriminazione e delle corporazioni. Dove va avanti chi nasce privilegiato, mentre chi non vanta conoscenze e relazioni rischia, quasi sempre, di arrivare ultimo. Alla Sapienza di Roma l’assioma è spesso confermato: sono decine i parenti di professori eminenti assunti nei dipartimenti, con intere famiglie (su tutte quella dell’ex rettore Luigi Frati) salite in cattedra. A volte con merito, altre meno. La nostra inchiesta sullo strano concorso di dottorato vinto dal rampollo del nuovo magnifico Eugenio Gaudio, al tempo preside di Medicina, ha fatto scalpore: la storia del compito “sbianchettato” (qualsiasi segno di riconoscimento è vietato) e la notizia del singolare intervento dei legali dell’università (hanno chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, che ha invitato la Sapienza a “perdonare” il candidato ) hanno fatto il giro del web. Il pezzo è stato condiviso decine di migliaia di volte, con centinaia di commenti (piuttosto severi) di ex studenti e docenti dell’ateneo romano. Tra le decine di lettere arrivate in redazione, due sono metafora perfetta di come la sorte possa essere diversa a seconda del cognome che si porta. Livia Pancotto, 28 anni, laureata in Economia con 110 e lode, spiega che la storia del pargolo di Gaudio le ha fatto «montare dentro una rabbia tale da farmi scrivere» poche, infuriate righe. «Nel 2012, dopo la laurea, decisi di partecipare al concorso per il dottorato in Management, Banking and Commodity Sciences, sempre alla Sapienza», scrive in una lettera a “l’Espresso”. «Dopo aver superato sia l’esame scritto che l’orale ricevetti la buona notizia: ero stata ammessa, sia pure senza borsa». Dopo un mese, però, la mazzata. «Vengo a sapere dal professore che il mio concorso è stato annullato, visto che durante lo scritto ho utilizzato il bianchetto. Come nel caso del figlio del rettore Gaudio, nessuno aveva specificato, prima dell’inizio del compito, che il bando prevedesse che si potesse usare solo una penna nera». Se per il rampollo dell’amico che prenderà il suo posto il rettore Frati mobiliterà i suoi uffici legali, la Pancotto viene silurata subito, senza pietà. Oggi la giovane economista vive in Galles, dove ha vinto un dottorato con borsa all’università di Bangor. Anche la vicenda di Federico Conte, ora tesoriere dell’Ordine degli psicologi del Lazio, è paradossale. Dopo aver completato in un solo anno gli esami della laurea specialistica nel 2009, la Sapienza tentò di impedire la discussione della sua tesi. «Mi arrivò un telegramma a firma di Frati, dove mi veniva comunicato l’avvio di una “procedura annullamento esami”: il magnifico non era d’accordo nel farmi laureare in anticipo, ed era intenzionato a farmi sostenere gli esami una seconda volta». Conte domandò all’ateneo di chiedere un parere all’Avvocatura, ma senza successo. Il giovane psicologo fu costretto a ricorrere al Tar, che gli diede ragione permettendogli di laurearsi. «Leggendo la vostra inchiesta ho la percezione di un’evidente diversità di trattamento rispetto al figlio del rettore. Provo un certo disgusto nel constatare come le nostre istituzioni siano così attente e garantiste con chi sbianchetta, mentre si accaniscano su chi fa il proprio dovere». Magari pure più velocemente degli altri. Ma tant’è. Nel paese dove i figli “so’ piezz’ e core”, la meritocrazia e l’uguaglianza restano una chimera. Anche nelle università, luogo dove - per antonomasia - l’eccellenza e il rigore dovrebbero essere di casa. Se poi l’Esame di Avvocato lo passi, ti obbligano a lasciare. Giovani avvocati contro la Cassa Forense. Con la campagna "'Io non pago e non mi cancello". I giuristi più giovani in rivolta sui social network per la regola dei minimi obbligatori, che impone contributi previdenziali intorno ai 4 mila euro annui alla cassa indipendentemente dal reddito. Così c'è chi paga più di quello che guadagna. E chi non paga si deve cancellare dall'Albo, venendo escluso dalla categoria, scrive Antonio Sciotto su “L’Espresso”. Chi pensa ancora che la professione di avvocato sia garantita e ben retribuita dia in questi giorni uno sguardo attento ai social network. Twitter e Facebook da qualche giorno sono inondati da 'selfie' che raccontano tutta un'altra storia. "Io non pago e io non mi cancello" è lo slogan scelto dai giovani legali per la loro rivolta contro i colleghi più anziani e in particolare contro la regola dei "minimi obbligatori", che impone di pagare i contributi previdenziali alla Cassa forense in modo del tutto slegato dal reddito. Molti spiegano che la cifra minima richiesta – intorno ai 4 mila euro annui - è pari o a volte anche superiore ai propri redditi. E visto che se non riesci a saldare, devi cancellarti non solo dalla Cassa, ma anche dall'albo professionale. Il risultato è che ad esercitare alla fine restano tendenzialmente i più ricchi, mentre chi fa fatica ad arrivare a fine mese viene di fatto espulso dalla categoria. E' vero che per i primi 8 anni è prevista una buona agevolazione per chi guadagna sotto i 10 mila euro l'anno, ma al pari le prestazioni vengono drasticamente ridotte. Per capirci: è come se l'Inps chiedesse a un operaio e a un dirigente una stessa soglia minima di contributi annui, non calcolata in percentuale ai loro redditi. Mettiamo 5 mila euro uguali per tutti: salvo poi imporre la cancellazione dall'ente a chi non riesce a saldare. "Dovrei salassarmi oggi per ricevere un'elemosina domani – protesta Antonio Maria - mentre i vecchi tromboni ottantenni si godono le loro pensioni d'oro, non pagate, conquistate avendo versato tutta la vita lavorativa (ed erano altri tempi) il 10 per cento ed imponendo a me di pagare il 14 per cento". "Il regime dei cosiddetti minimi è vergognoso – aggiunge Rosario - Pretendere che si paghi 'a prescindere' del proprio reddito è una bestemmia giuridica. Basta furti generazionali. Basta falsità". Uno dei selfie addirittura viene da un reparto di emodialisi, a testimoniare la scarsa copertura sanitaria assicurata ai giovani professionisti. La protesta si è diffusa a partire dal blog dell'Mga - Mobilitazione generale avvocati , ha un gruppo facebook pubblico dove è possibile postare i selfie, mentre su Twitter naviga sull'onda dell'hashtag #iononmicancello. La battaglia contro le casse previdenziali non è nuova, se consideriamo gli avvocati una parte del più vasto mondo delle partite Iva e degli autonomi: già da tempo Acta, associazione dei freelance, ha lanciato la campagna #dicano33, contro il progressivo aumento dei contributi Inps dal 27 per cento al 33 per cento, imposto dalla legge per portarli al livello dei lavoratori dipendenti. Il regime dei minimi obbligatori della Cassa forense non solo darebbe luogo a una vera e propria "discriminazione generazionale", ma secondo molti giovani avvocati sarebbe anche incostituzionale, come spiega efficacemente Davide Mura nel suo blog: "E' palesemente in contrasto con l'articolo 53 della Costituzione, che sancisce il principio della progressività contributiva. Ma si viola anche l'articolo 3, quello sull'uguaglianza davanti alla legge, perché le condizioni cambiano a seconda se stai sopra o sotto i 10 mila euro di reddito annui". La soluzione? Secondo l'Mga sarebbe quella di eliminare l'obbligo dei minimi e passare al sistema contributivo, come è per tutti gli altri lavoratori. Vietando possibilmente agli avvocati già in pensione di poter continuare a esercitare. Un modo insomma per far sì che i "tromboni" lascino spazio ai più giovani.
I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
Per il pontefice “il clima mediatico ha le sue forme di inquinamento, i suoi veleni. La gente lo sa, se ne accorge, ma poi purtroppo si abitua a respirare dalla radio e dalla televisione un’aria sporca, che non fa bene. C’è bisogno di far circolare aria pulita. Per me i peccati dei media più grossi sono quelli che vanno sulla strada della bugia e della menzogna, e sono tre: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Dare attenzione a tematiche importanti per la vita delle persone, delle famiglie, della società, e trattare questi argomenti non in maniera sensazionalistica, ma responsabile, con sincera passione per il bene comune e per la verità. Spesso nelle grandi emittenti questi temi sono affrontati senza il dovuto rispetto per le persone e per i valori in causa, in modo spettacolare. Invece è essenziale che nelle vostre trasmissioni si percepisca questo rispetto, che le storie umane non vanno mai strumentalizzate”. Infatti nessuno delle tv ed i giornali ne hanno parlato di questo intervento.
"Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione". E' l'esortazione che rivolge al mondo dell'informazione e della comunicazione Papa Francesco, cogliendo l'occasione dell'udienza del 15 dicembre 2014 in Aula Paolo VI dei dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Chiesa italiana. «Di questi tre peccati, la calunnia sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all'errore, ti porta a credere solo a una parte della verità. La disinformazione, in particolare spinge a dire la metà delle cose e questo porta a non potersi fare un giudizio preciso sulla realtà. Una comunicazione autentica non è preoccupata di colpire: l'alternanza tra allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio, due estremi che continuamente vediamo riproposti nella comunicazione odierna, non è un buon servizio che i media possono offrire alle persone. Occorre parlare alle persone “intere”, alla loro mente e al loro cuore, perché sappiano vedere oltre l'immediato, oltre un presente che rischia di essere smemorato e timoroso del futuro. I media cattolici hanno una missione molto impegnativa nei confronti della comunicazione sociale cercare di preservarla da tutto ciò che la stravolge e la piega ad altri fini. Spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle ideologie, a fini politici o di controllo dell'economia e della tecnica. Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la “parresia”, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà. Se siamo veramente convinti di ciò che abbiamo da dire, le parole vengono. Se invece siamo preoccupati di aspetti tattici, il nostro parlare sarà artefatto e poco comunicativo, insipido. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare. Risvegliare le parole: ecco il primo compito del comunicatore. La buona comunicazione in particolare evita sia di "riempire" che di "chiudere". Si riempie quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano. Si chiude quando alla via lunga della comprensione si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare».
Questa sub cultura artefatta dai media crea una massa indistinta ed omologata. Un gregge di pecore. A questo punto vien meno il concetto di democrazia e prende forma l’esigenza di un uomo forte alla giuda del gregge che sappia prendersi la responsabilità del necessario cambiamento nell’afasia e nell’apatia totale. Sembra necessario il concetto che è meglio far decidere al buon e capace pastore dove far andare il gregge che far decidere alle pecore il loro destino rivolto all’inevitabile dispersione.
Francesco di Sales, appena ordinato sacerdote, nel 1593, lo mandarono nel Chablais, che poi sarebbe il Chiablese, dato che sta nell’Alta Savoia, ma l’avevano invaso gli Svizzeri e tutti si erano convertiti al calvinismo, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Insomma, doveva essere proprio tosto predicare il cattolicesimo lì. Però, lui aveva studiato dai Gesuiti e poi si era laureato a Padova, perciò poteva con capacità d’argomentazione affrontare qualunque disputa teologica. Era uno che lavorava di fino, Francesco di Sales. Solo che tutto quello che diceva dal pulpito non sortiva grande effetto in quei cuori e quelle menti montanare, e allora per raggiungerli e scaldarli meglio con le sue parole gli venne l’idea di far affiggere nei luoghi pubblici dei “manifesti”, composti con uno stile agile e di grande efficacia, e di far infilare dei “volantini” sotto le porte. Il risultato fu straordinario. È per questo che san Francesco di Sales è il santo patrono dei giornalisti. Per lo stile e l’efficacia, per la capacità di argomentare la verità. Almeno fino a ieri. Perché da ieri c’è un altro Francesco che ha steso le sue mani benedette sul giornalismo, ed è papa Bergoglio. «Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione». È l’esortazione che papa Francesco ha rivolto al mondo dell’informazione e della comunicazione, cogliendo l’occasione dell’udienza in Aula Paolo VI di dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Cei, conferenza episcopale italiana. In realtà, ne aveva già parlato il 22 marzo, incontrando nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, i membri dell’Associazione ”Corallo”, network di emittenti locali di ispirazione cattolica presenti in tutte le regioni italiane. Ora c’è tornato sopra, ora ci batte il chiodo. Si vede che gli sta a cuore la cosa, e come dargli torto. Evidentemente non parlava solo ai giornalisti cattolici, papa Francesco, e quindi siamo tutti chiamati in causa. «Di questi tre peccati, la calunnia – ha continuato Francesco – sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all’errore, ti porta a credere solo a una parte della verità». Era stato anche più dettagliato nell’argomentazione il 22 marzo: «La calunnia è peccato mortale, ma si può chiarire e arrivare a conoscere che quella è una calunnia. La diffamazione è peccato mortale, ma si può arrivare a dire: questa è un’ingiustizia, perché questa persona ha fatto quella cosa in quel tempo, poi si è pentita, ha cambiato vita. Ma la disinformazione è dire la metà delle cose, quelle che sono per me più convenienti, e non dire l’altra metà. E così, quello che vede la tv o quello che sente la radio non può fare un giudizio perfetto, perché non ha gli elementi e non glieli danno».
Sono i falsari dell’informazione, i peccatori più gravi.
«E io a lui: “Chi son li due tapini
che fumman come man bagnate ’l verno,
giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”.
L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;
l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:
per febbre aguta gittan tanto leppo».
Così Dante descrive nel Canto XXX dell’Inferno la sorte di due “falsari”, la moglie di Putifarre e Sinone. Sinone è quello che convinse i Troiani raccontando un sacco di panzane che quelli si bevvero come acqua fresca e fecero entrare il cavallo di legno, dentro cui si erano nascosti gli Achei che così presero la città. La moglie di Putifarre, ricco signore d’Egitto – così si racconta nella Genesi –, invece, s’era incapricciata del giovane schiavo Giuseppe, cercando di sedurlo. Solo che Giuseppe non ci sentiva da quell’orecchio. Offesa dal rifiuto del giovane, la donna si vendicò accusandolo di aver tentato di farle violenza. Per questa falsa accusa Giuseppe fu gettato nelle prigioni del Faraone. Eccolo, il “leppo” dantesco, che è un fumo puzzolente. E fumo puzzolente si leva dalle pagine dei giornali di disinformacija all’italiana.
Durante la Guerra fredda i russi si erano specializzati nel diffondere informazioni false e mezze verità: raccontavano un sacco di balle sui propri progressi, o magnificavano le sorti delle nazioni che erano sotto l’orbita del comunismo, e nello stesso tempo imbrogliavano le carte su quello che succedeva nell’Occidente maledettamente capitalistico. Pure gli americani avevano la loro disinformacija. Le loro porcherie diventavano battaglie di libertà e le puttanate che compivano erano gesti necessari per difendere la democrazia dall’orso russo e dai cavalli cosacchi. Fare disinformaciija non è banale, non è che ti metti a strillare le stronzate, è un lavoro sottile. Quel cervellone di Chomsky – e ne capisce della questione, visto che è un linguista – riferendosi alle falsificazioni delle prove e delle fonti l’ha definita “ingegneria storica”. Devi orientare l’opinione pubblica, mescolando verità e menzogna; devi sminuire l’importanza e l’attenzione su un evento dandogli una scarsa visibilità e, all’opposto, ingigantire gli spazi informativi su questioni di secondaria importanza; devi negare l’evidenza inducendo al dubbio e all’incredulità. Insomma, è un lavoraccio, che presuppone una vera e propria “macchina disinformativa”. Cioè, i giornali. «Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la parresia, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà», ha aggiunto papa Francesco. Ha ragione papa Francesco, ragione da vendere. Qualunque direttore di giornale, qualunque editore, qualunque comitato di redazione, qualunque corso dell’ordine dei giornalisti, ti dirà che questi, della franchezza e della libertà, sono i cardini del lavoro dell’informazione. Ma sono chiacchiere. Francesco, invece, non fa chiacchiere. E magari succede che domani troveremo in qualche piazza dei dazebao o dei volantini sotto le nostre porte con la sua firma.
Dalla prova scientifica a quella dichiarativa, passando per il legame tra magistratura e giornalismo. Il dibattito sul processo penale organizzato il 12 dicembre 2014 a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, nell’auditorium della Casa della Cultura intitolata a Leonida Repaci dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con la collaborazione del Comune e della Camera penale, è stato molto più di un semplice dibattito, andato oltre gli aspetti prettamente giuridici, scrive Viviana Minasi su “Il Garantista”. Si è infatti parlato a lungo del legame che esiste tra la magistratura e il giornalismo, quel giornalismo che molto spesso trasforma in veri e propri eventi mediatici alcuni processi penali o fatti di cronaca nera. Se ne è parlato con il direttore de Il Garantista Piero Sansonetti, il Procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, il presidente del Tribunale di Palmi Maria Grazia Arena, l’onorevole Armando Veneto, presidente della Camera penale di Palmi e con il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Francesco Napoli. Tanti gli ospiti presenti in questa due giorni dedicata al processo penale. Al direttore Sansonetti il compito di entrare nel vivo del dibattito, puntando quindi l’attenzione su quella sorta di “alleanza” tra magistratura e giornalismo, a volte tacita. «Mi piacerebbe apportare una correzione alla locandina di questo evento, ha detto ironicamente Sansonetti – scrivendo “Giornalismo è giustizia”, invece che “Giornalismo e giustizia”. Perché? Perché molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni, è successo che i processi li ha fatti il giornalismo, li abbiamo fatti noi insieme ai magistrati». Fatti di cronaca quali il disastro della Concordia, Cogne, andando indietro negli anni anche Tangentopoli, fino a giungere all’evento che ha catalizzato l’attenzione dei media nazionali negli ultimi giorni, l’inchiesta su Mafia Capitale, sono stati portati alla ribalta dal giornalismo, magari a danno di altri eventi altrettanto importanti che però quasi cadono nell’oblio. «Ci sono eventi di cronaca che diventano spettacolo – ha proseguito il direttore Sansonetti – e questo accade quando alla stampa un fatto interessa, quando noi giornalisti fiutiamo “l’affare”». Sansonetti ha poi parlato di un principio importante tutelato dall’articolo 111 della Costituzione, l’articolo che parla del cosiddetto “giusto processo”, che in Italia sarebbe sempre meno applicato, soprattutto nella parte in cui si parla dell’informazione di reato a carico di un indagato. «Sempre più spesso accade che l’indagato scopre di essere indagato leggendo un giornale, o ascoltando un servizio in televisione, e non da un magistrato». Su Mafia Capitale, Sansonetti ha lanciato una frecciata al Procuratore capo di Roma Pignatone, definendo un «autointralcio alla giustizia» la comunicazione data in conferenza stampa, relativa a possibili altri blitz delle forze dell’ordine, a carico di altri soggetti che farebbero parte della “cupola”. Suggestivo anche l’intervento di Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia forense all’università di Padova, che ha relazionato su “tecniche di analisi scientifica del testimone”. Secondo quanto affermato da Sartori, le testimonianze nei processi, ma non solo, sono quasi sempre inattendibili. Il punto di partenza di questa affermazione è uno studio scientifico condotto su circa 1500 persone, che ha dimostrato come la testimonianza è deviata e deviabile, sia dal ricordo sia dalle domande che vengono poste al testimone. Un caso che si sarebbe evidenziato soprattutto nelle vicende che riguardano le molestie sessuali, nelle quali il ricordo è fortemente suggestionabile dal modo in cui vengono poste le domande. Il convegno era stato introdotto dall’ex sottosegretario del primo governo Prodi ed ex europarlamentare Armando Veneto, figura di primo piano della Camera penale di Palmi. L’associazione dei penalisti da anni è in prima linea per controbilanciare il “potere” (secondo gli avvocati) che la magistratura inquirente avrebbe nel distretto giudiziario di Reggio Calabria e il peso preponderante di cui la pubblica accusa godrebbe nelle aule di giustizia. Le posizione espresse da Veneto, anche all’interno della camera penale di Palmi, sono ormai state recepite da due generazioni di avvocati penalisti.
Purtroppo, però, in Italia non cambierà mai nulla.
Mamma l’italiani, canzone del 2010 di Après La Class
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
nei secoli dei secoli girando per il mondo
nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo
non viene dalla Cina non è neppure americano
se vedi uno spaccone è solamente un italiano
l'italiano fuori si distingue dalla massa
sporco di farina o di sangue di carcassa
passa incontrollato lui conosce tutti
fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
a suon di mandolino nascondeva illegalmente
whisky e sigarette chiaramente per la mente
oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso
non smercia sigarette ma giochetti per il sesso
l'italiano è sempre stato un popolo emigrato
che guardava avanti con la mente nel passato
chi non lo capiva lui lo rispiegava
chi gli andava contro è saltato pure in a...
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
l'Italia agli italiani e alla sua gente
è lo stile che fa la differenza chiaramente
genialità questa è la regola
con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia
l'Italia e la sua nomina e un alta carica
un eredità scomoda
oggi la visione italica è che
viaggiamo tatuati con la firma della mafia
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
vacanze di piacere per giovani settantenni
all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni
pagano pesante ragazze intraprendenti
se questa compagnia viene presa con i denti
l'italiano è sempre stato un popolo emigrato
che guardava avanti con la mente nel passato
chi non lo capiva lui lo rispiegava
chi gli andava contro è saltato pure in a...
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
spara la famiglia del pentito che ha cantato
lui che viene stipendiato il 27 dallo Stato
nominato e condannato nel suo nome hanno sparato
e ricontare le sue anime non si può più
risponde la famiglia del pentito che ha cantato
difendendosi compare tutti giorni più incazzato
sarà guerra tra famiglie
sangue e rabbia tra le griglie
con la fama come foglie che ti tradirà
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?
Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.
La Superbia-Vanità (desiderio irrefrenabile di essere superiori, fino al disprezzo di ordini, leggi, rispetto altrui);
L’Avarizia (scarsa disponibilità a spendere e a donare ciò che si possiede);
La Lussuria (desiderio irrefrenabile del piacere sessuale fine a sé stesso);
L’Invidia (tristezza per il bene altrui, percepito come male proprio);
La Gola (meglio conosciuta come ingordigia, abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola, e non solo);
L’Ira (irrefrenabile desiderio di vendicare violentemente un torto subito);
L’Accidia-Depressione (torpore malinconico, inerzia nel vivere e nel compiere opere di bene).
Essendo viziosi ci scanneremmo l’un l’altro per raggiungere i nostri scopi. E periodicamente lo facciamo.
Vari illuminati virtuosi, chiamati profeti, ci hanno indicato invano la retta via. La via indicata sono i precetti dettati dalle religioni nate da questi insegnamenti. Le confessioni religiose da sempre hanno cercato di porre rimedio indicando un essere superiore come castigatore dei peccati con punizioni postume ed eterne. Ecco perché i vizi sono detti Capitali.
I vizi capitali sono un elenco di inclinazioni profonde, morali e comportamentali, dell'anima umana, spesso e impropriamente chiamati peccati capitali. Questo elenco di vizi (dal latino vĭtĭum = mancanza, difetto, ma anche abitudine deviata, storta, fuori dal retto sentiero) distruggerebbero l'anima umana, contrapponendosi alle virtù, che invece ne promuovono la crescita. Sono ritenuti "capitali" poiché più gravi, principali, riguardanti la profondità della natura umana. Impropriamente chiamati "peccati", nella morale filosofica e cristiana i vizi sarebbero già causa del peccato, che ne è invece il suo relativo effetto.
Una sommaria descrizione dei vizi capitali comparve già in Aristotele, che li definì gli "abiti del male". Al pari delle virtù, i vizi deriverebbero infatti dalla ripetizione di azioni, che formano nel soggetto che le compie una sorta di "abito" che lo inclina in una certa direzione o abitudine. Ma essendo vizi, e non virtù, tali abitudini non promuovono la crescita interiore, nobile e spirituale, ma al contrario la distruggono.
In questo mondo vizioso tutto ha un prezzo e quasi tutti sono disposti a svendersi per ottenerlo e/ o a dispensare torti ai propri simili. Ciclicamente i nomi degli aguzzini cambiano, ma i peccati sono gli stessi.
In questa breve vita senza giustizia, vissuta in un periodo indefinito, vincono loro: non hanno la ragione, ma il potere. Questo, però, non impedirà di raccontare la verità contemporanea nel tempo e nello spazio, affinché ai posteri sia delegata l’ardua sentenza contro i protagonisti del tempo trattato, per gli altri ci sarà solo l’ignominia senza fama né gloria o l’anonimato eterno.
“La superficie della Terra non era ancora apparsa. V’erano solo il placido mare e la grande distesa di Cielo... tutto era buio e silenzio". Così inizia il Popol Vuh, il libro sacro dei Maya Quiché che narra degli albori dell’umanità. Il Popol Vuh descrive questi primi esseri umani come davvero speciali: "Furono dotati di intelligenza, potevano vedere lontano, riuscivano a sapere tutto quel che è nel mondo. Quando guardavano, contemplavano ora l'arco del cielo ora la rotonda faccia della Terra. Contrariamente ai loro predecessori, gli esseri umani ringraziarono sentitamente gli dei per averli creati. Ma anche stavolta i creatori si indispettirono. "Non è bene che le nostre creature sappiano tutto, e vedano e comprendano le cose piccole e le cose grandi". Gli dei tennero dunque consiglio: "Facciamo che la loro vista raggiunga solo quel che è vicino, facciamo che vedano solo una piccola parte della Terra! Non sono forse per loro natura semplici creature fatte da noi? Debbono forse anch'essi essere dei? Debbono essere uguali a noi, che possiamo vedere e sapere tutto? Ostacoliamo dunque i loro desideri... Così i creatori mutarono la natura delle loro creature. Il Cuore del Cielo soffiò nebbia nei loro occhi, e la loro vista si annebbiò, come quando si soffia su uno specchio. I loro occhi furono coperti, ed essi poterono vedere solo quello che era vicino, solo quello che ad essi appariva chiaro."
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie. Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai. Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali. “Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.
Antonio Giangrande, perché è diverso dagli altri?
Perché lui spiega cosa è la legalità, gli altri non ne parlano, ma ne sparlano.
La legalità è un comportamento conforme alla legge ed ai regolamenti di attuazione e la sua applicazione necessaria dovrebbe avvenire secondo la comune Prassi legale di riferimento.
Legge e Prassi sono le due facce della stessa medaglia.
La Legge è votata ed emanata in nome del popolo sovrano. I Regolamenti di applicazione sono predisposti dagli alti Burocrati e già questo non va bene. La Prassi, poi, è l’applicazione della Legge negli Uffici Pubblici, nei Tribunali, ecc., da parte di un Sistema di Potere che tutela se stesso con usi e consuetudini consolidati. Sistema di Potere composto da Caste, Lobbies, Mafie e Massonerie.
Ecco perché vige il detto: La Legge si applica per i deboli e si interpreta per i forti.
La correlazione tra Legge e Prassi e come quella che c’è tra il Dire ed il Fare: c’è di mezzo il mare.
Parlare di legge, bene o male, ogni leguleio o azzeccagarbugli o burocrate o boiardo di Stato può farlo. Più difficile per loro parlar di Prassi generale, conoscendo loro signori solo la prassi particolare che loro coltivano per i propri interessi di privilegiati. Prassi che, però, stanno attenti a non svelare.
Ed è proprio la Prassi che fotte la Legge.
La giustizia che debba essere uguale per tutti parrebbe essere un principio che oggi consideriamo irrinunciabile, anche se non sempre pienamente concretizzabile nella pratica quotidiana. Spesso assistiamo a fenomeni di corruzione, all’applicazione della legge in modo diverso secondo i soggetti coinvolti. E l’la disfunzione è insita nella predisposizione umana.
Essa vien da lontano.
E’ lo stesso Alessandro Manzoni che parla di “Azzeccagarbugli” genuflessi ai mafiosi del tempo al capitolo 3 dei “Promessi Sposi”. Ma non sarebbe stato il Manzoni a coniare l’accoppiata tra il verbo “azzeccare” e il sostantivo “garbuglio” stante che quando la parola entrò nei “Promessi Sposi”, aveva un’età superiore ai tre secoli. Il primo ad usarla fu Niccolò Machiavelli che, in un passo delle "Legazioni" (1510), scrive: “Voi sapete che i mercatanti vogliono fare le cose loro chiare e non azzeccagarbugli”. Questa spiegazione si trova nel Dizionario italiano ragionato e nel Dizionario etimologico di Cortelazzo-Zolli mentre gli altri vocabolari si limitano a indicare soltanto la matrice manzoniana. È giusto dare a Niccolò quello che è di Niccolò, ricordando inoltre che il Manzoni era un conoscitore dell’opera di Machiavelli ed è probabile che sia stato ispirato dal citato passo. Non si dimentichi, infatti, che nella prima stesura dei “Promessi Sposi” il personaggio si chiamava “dotor Pe’ ttola” e non Azzeccagarbugli.
La legge non era uguale per tutti anche nel Seicento, secolo di soprusi e di prepotenze da parte dei potenti. Renzo cerca giustizia recandosi da un noto avvocato del tempo, ma, allora come oggi, la giustizia non sta dalla parte degli oppressi, bensì da quella degli oppressori.
Azzecca-garbugli è un personaggio del romanzo storico ed è il soprannome di un avvocato di Lecco, chiamato, nelle prime edizioni del romanzo, dottor Pettola e dottor Duplica (nell'edizione definitiva il nome non viene mai detto, ma solo il soprannome). Il nome costituisce un'italianizzazione del termine dialettale milanese zaccagarbùj che il Cherubini traduce "attaccabrighe". Viene chiamato così dai popolani per la sua capacità di sottrarre dai guai, non del tutto onestamente, le persone. Spesso e volentieri aiuta i Bravi, poiché, come don Abbondio, preferisce stare dalla parte del più forte, per evitare una brutta fine.
Renzo Tramaglino giunge da lui, nel capitolo III, per chiedere se ci fosse una grida che avrebbe condannato don Rodrigo, ma lui sentendo nominare il potente signore, respinge Renzo perché non avrebbe potuto contrastare la sua potente autorità. Egli rappresenta quindi un uomo la cui coscienza meschina è asservita agli interessi dei potenti. Compare anche nel capitolo quinto quando fra Cristoforo va al palazzotto di don Rodrigo e lo trova fra gli invitati al banchetto che si sta tenendo a casa appunto di don Rodrigo.
Apparentemente, è un uomo di legge molto erudito, e nel suo studio è presente una notevole quantità di libri, il cui ruolo principale, però, è quello di elementi decorativi piuttosto che di materiale di studio. Il suo tavolo invece è cosparso di fogli che impressionano gli abitanti del paese che vi si recano. In realtà non consulta libri da molti anni addietro, quando andava a Milano per qualche causa d'importanza.
Il suo nome Azzeccagarbugli è dovuto dal fatto che Azzecca significa "indovinare" e garbugli "cose non giuste", quindi: Indovinare cose non giuste.
Azzeccagarbugli è la figura centrale del Capitolo 3°, è un avvocato venduto, è un miserabile e il Manzoni pur non dicendolo apertamente ce lo fa capire descrivendocelo appunto negli aspetti più negativi. Di questo personaggio emerge una grande miseria morale: ciò che preme all'avvocato è di assicurarsi il favore di don Rodrigo anche se per ottenere questo deve calpestare quella giustizia della quale dovrebbe essere servitore. Il Dottor Azzeccagarbugli è una figurina vista di scorcio, ma pur limpida e interessante. E' un leguleio da strapazzo, ma abile la sua parte a ordire garbugli per imbrogliare le cose, come lui stesso confessa a Renzo. Ci vuole la conoscenza del codice, è necessario saper interpretare le gride, ma per lui valgono sopra tutto le arti per ingarbugliare i clienti. Tale è la morale di questo tipo di trappolone addottorato, comunissimo in ogni società. Il Manzoni lo ha ricreato di una specifica individualità esteriore, nell'eloquio profuso, a volte enfatico e sentenzioso, a volte freddo e cavilloso, grave e serio nella posa di uomo di alte cure, pieno di sussiego nella sua mimica istrionica. Don Rodrigo lo ha caro, come complice connivente nei suoi delittuosi disegni, mentre il dottore accattando protezione col servilismo e l'adulazione, scrocca lauti pranzi. Alcuni osservano, e non a torto, che in questo personaggio il Manzoni abbia voluto farsi beffe dei legulei dalla coscienza facile.
"«Non facciam niente, – rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. – Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli… Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.»
Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: – oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.
- Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?
- Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse… basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo…
- Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.
- Le giuro…
- Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani -. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.
- Ma senta, ma senta, – ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: – restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.
Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione."
A Parlar di azzeccagarbugli non vi pare che si parli dei nostri contemporanei legulei togati, siano essi magistrati od avvocati?
Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.
Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate.
Chi siamo noi?
Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.
Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.
Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.
Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.
Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.
Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
Ho vissuto una breve vita confrontandomi con una sequela di generazioni difettate condotte in un caos organizzato. Uomini e donne senza ideali e senza valori succubi del flusso culturale e politico del momento, scevri da ogni discernimento tra il bene ed il male. L’Io è elevato all’ennesima potenza. La mia Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” composta da decine di saggi, riporta ai posteri una realtà attuale storica, per tema e per territorio, sconosciuta ai contemporanei perché corrotta da verità mediatiche o giudiziarie.
Per la Conte dei Conti è l’Italia delle truffe. È l'Italia degli sprechi e delle frodi fotografata in un dossier messo a punto dalla procura generale della Corte dei Conti che ha messo insieme le iniziative più rilevanti dei procuratori regionali. La Corte dei Conti ha scandagliato l'attività condotta da tutte le procure regionali e ha messo insieme «le fattispecie di particolare interesse, anche sociale, rilevanti per il singolo contenuto e per il pregiudizio economico spesso ingente».
A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua.
La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"
"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie.
Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.
Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.
La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.
Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.
Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla.
Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).
Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).
La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.
Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso.
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
Recensione di un’opera editoriale osteggiata dalla destra e dalla sinistra. Perle di saggezza destinate al porcilaio.
I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. Lo dice Beppe Grillo e forse ha ragione. Ma tra di loro vi sono anche eccellenze di gran valore. Questo vale per le maggiori testate progressiste (Il Corriere della Sera, L’Espresso, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano), ma anche per le testate liberali (Panorama, Oggi, Il Giornale, Libero Quotidiano). In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci, questi eccelsi giornalisti, attraverso le loro coraggiose inchieste, sono fonte di prova incontestabile per raccontare l’Italia vera, ma sconosciuta. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia. Tramite loro, citando gli stessi e le loro inchieste scottanti, Antonio Giangrande ha raccolto in venti anni tutto quanto era utile per dimostrare che la mafia vien dall’alto. Pochi lupi e tante pecore. Una selezione di nomi e fatti articolati per argomento e per territorio. L’intento di Giangrande è rappresentare la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui il Giangrande è il massimo cultore. Questa è la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti da Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. In occasione delle festività ed in concomitanza con le nuove elezioni legislative sarebbe cosa buona e utile presentare ai lettori una lettura alternativa che possa rendere più consapevole l’opinione dei cittadini. Un’idea regalo gratuita o con modica spesa, sicuramente gradita da chi la riceve. Non è pubblicità gratuita che si cerca per fini economici, né tanto meno è concorrenza sleale. Si chiede solo di divulgare la conoscenza di opere che già sul web sono conosciutissime e che possono anche esser lette gratuitamente. Evento editoriale esclusivo ed aggiornato periodicamente. Di sicuro interesse generale. Fa niente se dietro non ci sono grandi o piccoli gruppi editoriali. Ciò è garanzia di libertà.
Grazie per l’adesione e la partecipazione oltre che per la solidarietà.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
Politica, giustizia ed informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.
Da scrittore navigato, il cui sacco di 50 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in stampo elettorale.
In Italia dove non c’è libertà di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si indossa l’abito bianco.
I nuovi politici non si presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti virtù, come verginelle illibate.
Ci si atteggia a migliore dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.
L’Italietta è incurante del fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.
L’Italietta che non batte ciglio quando a Bari Massimo D’Alema in modo lecito esce pulito da un’inchiesta penale. Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine «anticipata» proprio da D’Alema.
L’Italietta non si scandalizza del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno traditi in vita, causandone la morte.
L’Italietta non si sconvolge del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40% dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento, anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la lungaggine dei processi.
L’Italietta che su giornali e tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.
L’Italietta, malgrado ciò, riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza mediatica-giudiziaria.
Fa niente se proprio tutta la stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e tutelare i loro privilegi.
Da ultimo è la perquisizione ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla redazione del tg di Telenorba.
Il re è nudo: c’è qualcuno che lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.
I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo codardi.
E cosa c’è altro da pensare. In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia.
Tutti hanno taciuto "Le mani nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”. Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento significativo”.
Cosa pensare se si è sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai loro colleghi Giudici.
Alla luce di quanto detto, è da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato” Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a dire la verità?
Si badi che a ricever querela basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.
Che giornalisti sono coloro che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede a loro?
E cosa ci si aspetta da questa informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il rappresentante legale?
La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”
Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere.
Magistrati. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla.
Allora io ho deciso: al posto di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette l’abito bianco per apparir pulito.
E facile dire pregiudicato. Parliamo del comportamento degli avvocati. Il caso della condanna di Sallusti. Veniamo al primo grado: l’avvocato di Libero era piuttosto noto perché non presenziava quasi mai alle udienze, preferendo mandarci sempre un sostituto sottopagato, dice Filippo Facci. E qui, il giorno della sentenza, accadde un fatto decisamente singolare. Il giudice, una donna, lesse il dispositivo che condannava Sallusti a pagare circa 5mila euro e Andrea Monticone a pagarne 4000 (più 30mila di risarcimento, che nel caso dei magistrati è sempre altissimo) ma nelle motivazioni della sentenza, depositate tempo dopo, lo stesso giudice si dolse di essersi dimenticato di prevedere una pena detentiva. Un’esagerazione? Si può pensarlo. Tant’è, ormai era andata: sia il querelante sia la Procura sia gli avvocati proposero tuttavia appello (perché in Italia si propone sempre appello, anche quando pare illogico o esagerato) e la sentenza della prima sezione giunse il 17 giugno 2011. E qui accadeva un altro fatto singolare: l’avvocato di Libero tipicamente non si presentò in aula e però neppure il suo sostituto: il quale, nel frattempo, aveva abbandonato lo studio nell’ottobre precedente come del resto la segretaria, entrambi stufi di lavorare praticamente gratis. Fatto sta che all’Appello dovette presenziare un legale d’ufficio – uno che passava di lì, letteralmente – sicché la sentenza cambiò volto: come richiesto dall’accusa, Monticone si beccò un anno con la condizionale e Sallusti si beccò un anno e due mesi senza un accidente di condizionale, e perché? Perché aveva dei precedenti per l’omesso controllo legato alla diffamazione. Il giudice d’Appello, in pratica, recuperò la detenzione che il giudice di primo grado aveva dimenticato di scrivere nel dispositivo.
Ma anche il Tribuno Marco Travaglio è stato vittima degli avvocati. Su Wikipedia si legge che nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio ha definito Previti «un indagato» su “L’Indipendente”. Previti era effettivamente indagato ma a causa dell'impossibilità da parte dell' avvocato del giornale di presentare le prove in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire. Comunque lui stesso a “Servizio Pubblico” ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.
Ma chi e quando le cose cambieranno?
Per fare politica in Italia le strade sono poche, specialmente se hai qualcosa da dire e proponi soluzioni ai problemi generali. La prima è cominciare a partecipare a movimenti studenteschi fra le aule universitarie, mettersi su le stellette di qualche occupazione e poi prendere la tessera di un partito. Se di sinistra è meglio. Poi c'è la strada della partecipazione politica con tesseramento magari sfruttando una professione che ti metta in contatto con molti probabili elettori: favoriti sono gli avvocati, i medici di base ed i giornalisti. C'è una terza via che sempre più prende piede. Fai il magistrato. Se puoi occupati di qualche inchiesta che abbia come bersaglio un soggetto politico, specie del centro destra, perché gli amici a sinistra non si toccano. Comunque non ti impegnare troppo. Va bene anche un'archiviazione. Poi togli la toga e punta al Palazzo. Quello che interessa a sinistra è registrare questo movimento arancione con attacco a tre punte: De Magistris sulla fascia, Di Pietro in regia e al centro il nuovo bomber Antonio Ingroia. Se è un partito dei magistrati e per la corporazione dei magistrati. Loro "ci stanno".
Rivoluzione Civile è una formazione improvvisata le cui figure principali di riferimento sono tre magistrati: De Magistris, Di Pietro e Ingroia. Dietro le loro spalle si rifugiano i piccoli partiti di Ferrero, Diliberto e Bonelli in cerca di presenza parlamentare. E poi, ci mancherebbe, con loro molte ottime persone di sinistra critica all’insegna della purezza. Solo che la loro severità rivolta in special modo al Partito Democratico, deve per forza accettare un’eccezione: Antonio Di Pietro. La rivelazione dei metodi disinvolti con cui venivano gestiti i fondi dell’Italia dei Valori, e dell’uso personale che l’ex giudice fece di un’eredità cospicua donata a lui non certo per godersela, lo hanno costretto a ritirarsi dalla prima fila. L’Italia dei Valori non si presenta più da sola, non per generosità ma perchè andrebbe incontro a una sconfitta certa. Il suo leader però viene ricandidato da Ingroia senza troppi interrogativi sulla sua presentabilità politica. “Il Fatto”, solitamente molto severo, non ha avuto niente da obiettare sul Di Pietro ricandidato alla chetichella. Forse perchè non era più alleato di Bersani e Vendola? Si chiede Gad Lerner.
Faceva una certa impressione nei tg ascoltare Nichi Vendola (che, secondo Marco Ventura su “Panorama”, la magistratura ha salvato dalle accuse di avere imposto un primario di sua fiducia in un concorso riaperto apposta e di essere coinvolto nel malaffare della sanità in Puglia) dire che mentre le liste del Pd-Sel hanno un certo profumo, quelle del Pdl profumano “di camorra”. E che dire di Ingroia e il suo doppiopesismo: moralmente ed eticamente intransigente con gli altri, indulgente con se stesso. Il candidato Ingroia, leader rivoluzionario, da pm faceva domande e i malcapitati dovevano rispondere. Poi a rispondere, come candidato premier, tocca a lui. E lui le domande proprio non le sopporta, come ha dimostrato nella trasmissione condotta su Raitre da Lucia Annunziata. Tanto da non dimettersi dalla magistratura, da candidarsi anche dove non può essere eletto per legge (Sicilia), da sostenere i No Tav ed avere come alleato l'inventore della Tav (Di Pietro), da criticare la legge elettorale, ma utilizzarla per piazzare candidati protetti a destra e a manca. L'elenco sarebbe lungo, spiega Alessandro Sallusti. Macchè "rivoluzione" Ingroia le sue liste le fa col manuale Cencelli. L'ex pm e i partiti alleati si spartiscono i posti sicuri a Camera e Senato, in barba alle indicazioni delle assemblee territoriali. Così, in Lombardia, il primo lombardo è al nono posto. Sono tanti i siciliani che corrono alle prossime elezioni politiche in un seggio lontano dall’isola. C’è Antonio Ingroia capolista di Rivoluzione Civile un po' dappertutto. E poi ci sono molti "paracadutati" che hanno ottenuto un posto blindato lontano dalla Sicilia. Pietro Grasso, ad esempio, è capolista del Pd nel Lazio: "Non mi candido in Sicilia per una scelta di opportunità", ha detto, in polemica con Ingroia, che infatti in Sicilia non è eleggibile. In Lombardia per Sel c'è capolista Claudio Fava, giornalista catanese, e non candidato alle ultime elezioni regionali per un pasticcio fatto sulla sua residenza in Sicilia (per fortuna per le elezioni politiche non c'è bisogno di particolare documentazione....). Fabio Giambrone, braccio destro di Orlando, corre anche in Lombardia e in Piemonte. Celeste Costantino, segretaria provinciale di Sel a Palermo è stata candidata, con qualche malumore locale, nella circoscrizione Piemonte 1. Anna Finocchiaro, catanese e con il marito sotto inchiesta è capolista del Pd, in Puglia. Sarà lei in caso di vittoria del Pd la prossima presidente del Senato. Sempre in Puglia alla Camera c'è spazio per Ignazio Messina al quarto posto della lista di Rivoluzione civile. E che dire di Don Gallo che canta la canzone partigiana "Bella Ciao" sull'altare, sventolando un drappo rosso.
"Serve una legge per regolamentare e limitare la discesa in politica dei magistrati, almeno nei distretti dove hanno esercitato le loro funzioni, per evitare che nell'opinione pubblica venga meno la considerazione per i giudici". Lo afferma il presidente della Cassazione, nel suo discorso alla cerimonia di inaugurazione del nuovo anno giudiziario 2013. Per Ernesto Lupo devono essere "gli stessi pm a darsi delle regole nel loro Codice etico". Per la terza e ultima volta - dal momento che andrà in pensione il prossimo maggio - il Primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha illustrato - alla presenza del Presidente della Repubblica e delle alte cariche dello Stato - la «drammatica» situazione della giustizia in Italia non solo per la cronica lentezza dei processi, 128 mila dei quali si sono conclusi nel 2012 con la prescrizione, ma anche per la continua violazione dei diritti umani dei detenuti per la quale è arrivato l’ultimatum dalla Corte Ue. Sebbene abbia apprezzato le riforme del ministro Paola Severino - taglio dei “tribunalini” e riscrittura dei reati contro la pubblica amministrazione - Lupo ha tuttavia sottolineato che l’Italia continua ad essere tra i Paesi più propensi alla corruzione. Pari merito con la Bosnia, e persino dietro a nazioni del terzo mondo. Il Primo presidente ha, poi, chiamato gli stessi magistrati a darsi regole severe per chi scende in politica e a limitarsi, molto, nel ricorso alla custodia in carcere. «È auspicabile - esorta Lupo - che nella perdurante carenza della legge, sia introdotta nel codice etico quella disciplina più rigorosa sulla partecipazione dei magistrati alla vita politica e parlamentare, che in decenni il legislatore non è riuscito ad approvare». Per regole sulle toghe in politica, si sono espressi a favore anche il Procuratore generale della Suprema Corte Gianfranco Ciani, che ha criticato i pm che flirtano con certi media cavalcando le inchieste per poi candidarsi, e il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli. Per il Primo presidente nelle celle ci sono 18.861 detenuti di troppo e bisogna dare più permessi premio. Almeno un quarto dei reclusi è in attesa di condanna definitiva e i giudici devono usare di più le misure alternative.
"Non possiamo andare avanti così - lo aveva già detto il primo presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, nella relazione che ha aperto la cerimonia dell’ inaugurazione dell’ Anno Giudiziario 2009 - In più, oltre a un più rigoroso richiamo dei giudici ai propri doveri di riservatezza, occorrerebbe contestualmente evitare la realizzazione di veri e propri 'processi mediatici', simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre è ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali". "La giustizia - sottolinea Carbone - deve essere trasparente ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria".
Questo per far capire che il problema “Giustizia” sono i magistrati. Nella magistratura sono presenti "sacche di inefficienza e di inettitudine". La denuncia arriva addirittura dal procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, sempre nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009.
Ma è questa la denuncia più forte che viene dall'apertura dell'anno giudiziario 2013 nelle Corti d'Appello: «Non trovo nulla da eccepire sui magistrati che abbandonano la toga per candidarsi alle elezioni politiche - ha detto il presidente della Corte di Appello di Roma Giorgio Santacroce. Ma ha aggiunto una stoccata anche ad alcuni suoi colleghi - Non mi piacciono - ha affermato - i magistrati che non si accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo. Quei magistrati, pochissimi per fortuna, che sono convinti che la spada della giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene. Parlano molto di sè e del loro operato anche fuori dalle aule giudiziarie, esponendosi mediaticamente, senza rendersi conto che per dimostrare quell' imparzialità che è la sola nostra divisa, non bastano frasi ad effetto, intrise di una retorica all'acqua di rose. Certe debolezze non rendono affatto il magistrato più umano. I magistrati che si candidano esercitano un diritto costituzionalmente garantito a tutti i cittadini, ma Piero Calamandrei diceva che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra».
Dove non arrivano a fare le loro leggi per tutelare prerogative e privilegi della casta, alcuni magistrati, quando non gli garba il rispetto e l’applicazione della legge, così come gli è dovuto e così come hanno giurato, disapplicano quella votata da altri. Esempio lampante è Taranto. I magistrati contestano la legge, anziché applicarla, a scapito di migliaia di lavoratori. Lo strapotere e lo straparlare dei magistrati si incarna in alcuni esempi. «Ringrazio il Presidente della Repubblica, come cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il quale inconsciamente marciavamo». Sono le parole con le quali il presidente della Corte d'appello, Mario Buffa, ha aperto, riferendosi alla caduta del Governo Berlusconi, la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012 nell'aula magna del palazzo di giustizia di Lecce. «Per fortuna il vento sembra essere cambiato – ha proseguito Buffa: la nuova ministra non consuma le sue energie in tentativi di delegittimare la magistratura, creando intralci alla sua azione». Ma il connubio dura poco. L’anno successivo, nel 2013, ad aprire la cerimonia di inaugurazione è stata ancora la relazione del presidente della Corte d’appello di Lecce, Mario Buffa. Esprimendosi sull’Ilva di Taranto ha dichiarato che “il Governo ha fatto sull’Ilva una legge ad aziendam, che si colloca nella scia delle leggi ad personam inaugurata in Italia negli ultimi venti anni, una legge che riconsegna lo stabilimento a coloro che fingevano di rispettare le regole di giorno e continuavano a inquinare di notte”. Alla faccia dell’imparzialità. Giudizi senza appello e senza processo. Non serve ai magistrati candidarsi in Parlamento. La Politica, in virtù del loro strapotere, anche mediatico, la fanno anche dai banchi dei tribunali. Si vuole un esempio? "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Ed allora “stronzi” chi li sta a sentire.
«L'unica spiegazione che posso dare è che ho detto sempre quello che pensavo anche affrontando critiche, criticando a mia volta la magistratura associata e gli alti vertici della magistratura. E' successo anche ad altri più importanti e autorevoli magistrati, a cominciare da Giovanni Falcone. Forse non è un caso - ha concluso Ingroia - che quando iniziò la sua attività di collaborazione con la politica le critiche peggiori giunsero dalla magistratura. E' un copione che si ripete». «Come ha potuto Antonio Ingroia paragonare la sua piccola figura di magistrato a quella di Giovanni Falcone? Tra loro esiste una distanza misurabile in milioni di anni luce. Si vergogni». È il commento del procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, ai microfoni del TgLa7 condotto da Enrico Mentana contro l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, ora leader di Rivoluzione civile. Non si è fatta attendere la replica dell'ex procuratore aggiunto di Palermo che dagli schermi di Ballarò respinge le accuse della sua ex collega: «Probabilmente non ha letto le mie parole, s'informi meglio. Io non mi sono mai paragonato a Falcone, ci mancherebbe. Denunciavo soltanto una certa reazione stizzita all'ingresso dei magistrati in politica, di cui fu vittima anche Giovanni quando collaborò con il ministro Martelli. Forse basterebbe leggere il mio intervento» E poi. «Ho atteso finora una smentita, invano. Siccome non è arrivata dico che l'unica a doversi vergognare è lei che, ancora in magistratura, prende parte in modo così indecente e astioso alla competizione politica manipolando le mie dichiarazioni. La prossima volta pensi e conti fino a tre prima di aprire bocca. Quanto ai suoi personali giudizi su di me, non mi interessano e alle sue piccinerie siamo abituati da anni. Mi basta sapere cosa pensava di me Paolo Borsellino e cosa pensava di lei. Ogni parola in più sarebbe di troppo». «Sì, è vero. È stato fatto un uso politico delle intercettazioni, ma questo è stato l’effetto relativo, la causa è che non si è mai fatta pulizia nel mondo della politica». Un'ammissione in piena regola fatta negli studi di La7 dall'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Che sostanzialmente ha ammesso l'esistenza (per non dire l'appartenenza) di toghe politicizzate. Il leader di Rivoluzione civile ha spiegato meglio il suo pensiero: «Se fosse stata pulizia, non ci sarebbero state inchieste così clamorose e non ci sarebbe state intercettazioni utilizzate per uso politico». L’ex pm ha poi affermato che «ogni magistrato ha un suo tasso di politicità nel modo in cui interpreta il suo ruolo. Si può interpretare la legge in modo più o meno estensiva, più o meno garantista altrimenti non si spiegherebbero tante oscillazione dei giudici nelle decisioni. Ogni giudice dovrebbe essere imparziale rispetto alle parti, il che non significa essere neutrale rispetto ai valori o agli ideali, c’è e c’è sempre stata una magistratura conservatrice e una progressista». Guai a utilizzare il termine toga rossa però, perché "mi offendo, per il significato deteriore che questo termine ha avuto", ha aggiunto Ingroia. Dice dunque Ingroia, neoleader dell'arancia meccanica: «Piero Grasso divenne procuratore nazionale perché scelto da Berlusconi grazie a una legge ad hoc che escludeva Gian Carlo Caselli». Come se non bastasse, Ingroia carica ancora, come in un duello nella polvere del West: «Grasso è il collega che voleva dare un premio, una medaglia al governo Berlusconi per i suoi meriti nella lotta alla mafia». Ma poi, già che c'è, Caselli regola i conti anche con Grasso: «È un fatto storico che ai tempi del concorso per nominare il successore di Vigna le regole vennero modificate in corso d'opera dall'allora maggioranza con il risultato di escludermi. Ed è un fatto che questo concorso lo vinse Grasso e che la legge che mi impedì di parteciparvi fu dichiarata incostituzionale». Dunque, la regola aurea è sempre quella. I pm dopo aver bacchettato la società tutta, ora si bacchettano fra di loro, rievocano pagine più o meno oscure, si contraddicono con metodo, si azzannano con ferocia. E così i guardiani della legalità, le lame scintillanti della legge si graffiano, si tirano i capelli e recuperano episodi sottovuoto, dissigillando giudizi rancorosi. Uno spettacolo avvilente. Ed ancora a sfatare il mito dei magistrati onnipotenti ci pensano loro stessi, ridimensionandosi a semplici uomini, quali sono, tendenti all’errore, sempre impunito però. A ciò serve la polemica tra le Procure che indagano su Mps. «In certi uffici di procura "sembra che la regola della competenza territoriale sia un optional. C'è stata una gara tra diversi uffici giudiziari, ma sembra che la new entry abbia acquisito una posizione di primato irraggiungibile». Nel suo intervento al congresso di Magistratura democratica del 2 febbraio 2013 il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati ha alluso criticamente, pur senza citarla direttamente, alla procura di Trani, l'ultima ad aprire, tra le tante inchieste aperte, un'indagine su Mps. «No al protagonismo di certi magistrati che si propongono come tutori del Vero e del Giusto magari con qualche strappo alle regole processuali e alle garanzie, si intende a fin di Bene». A censurare il fenomeno il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nel suo intervento al congresso di Md. Il procuratore di Milano ha puntato l'indice contro il "populismo" e la "demagogia" di certi magistrati, che peraltro - ha osservato - "non sanno resistere al fascino" dell'esposizione mediatica. Di tutto quanto lungamente ed analiticamente detto bisogna tenerne conto nel momento in cui si deve dare un giudizio su indagini, processi e condanne. Perché mai nulla è come appare ed i magistrati non sono quegli infallibili personaggi venuti dallo spazio, ma solo uomini che hanno vinto un concorso pubblico, come può essere quello italiano. E tenendo conto di ciò, il legislatore ha previsto più gradi di giudizio per il sindacato del sottoposto.